Luigi
Speranza -- Grice e Carli – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. A cura di alberto schiavo Gy giovanni volpe
editore FUTURISMO E FASCISMO. Una fotografia inedita di Marinetti mentre
si esercita al poligona di tiro di Gorizia. Marinetti e Russolo si
erano arruolati volontari nel Battaglione Lombardo Volontari Ciclisti
il 3 agosto 1914 per poi combattere da alpini sul Monte Altissimo.
In seguito Marinetti verrà assegnato ad un reparto di autoblindate e
poi servirà nei bombardieri. Sarà tre volte ferito e tre volte
decorato al valore. Tutti i
diritti riservati. Giovanni Volpe Editore in Roma, Via Michele Mercati.
FUTURISMO E FASCISMO a cure di ALBERTO SCHIAVO GIOVANNI VOLPE
EDITORE FUTURISMO CON E SENZA FASCISMO A Giacinto Menotti Serrati allora
direitore del- l’Avanti, che si era recato in Russia per respirare
aria comunista. Lenin affermò: “Voi socialisti non siete dei
rivoluzionari. In Italia ci sono soltanto tre uomini che possono fare la
rivoluzione: Mussolini, Annunzio, Marinetti”. Il povero Menotti,
inotridito, ritornò a Milano precipitosamente. E. quando, paco dapo, un capo
scarico con un magistrale colpo di forbice gli tagliò di netto, per
beffario, Ia veneranda barba, reagì in questo modo: facendo proclamare
nella grande città lombarda lo sciopero generale. I milanesi
orripilarono, è il caso di dirlo, perché si sentirono da quel giorno
appesi ai peli del direttore dell'Avarti
EmiLio SErTIMELLI, Mille giudizi di statisti, scrittori, giornalisti,
scienziati, industriali di Cinquanta Stati sulla personalità e misstone
di Mussolini, Erre, Milano). Quale futurismo? Il futurismo è ormai un
fatto d’esportazione: italiano d'origine pur se si è cercato di farlo
passare per francese e russo poi di acquisizione e di affermazione, è
ormai alla ribalta dell’esperimentazione artistica americana. Segno
questo che il fenomeno è vitale e ancora carico di prospettive,
nonostante la storicizzazione di un avvenimento che fu d'avanguardia. Ma quale
avvenimento? Il manitesto del futurismo fu pubblicato sul parigino Le
Figaro. Si tratta di un manifesto letterario di rinnovamento e di rivoluzione,
se vogliamo, della tradizione classicista e passatista {secondo un termine caro
ai futuristi) dominante. Gli aspetti politici non furono tuttavia
estranei alla sua volontà di rivolgimento letterario ed artistico.
Ci sembra quindi giusto prenderli in considerazione, eftet tuarne un
esame. Anzi, è proprio di questi che ci vogliamo occupare, del loro svolgersi,
articolarsi 0, comunque, manifestarsi nel corso del tempo e della vita del
futurismo. Che, in fondo, ancora oggi è accettato o respinta, condiviso o
negletto, approvato o denigrato a seconda delle posizioni o degli
intendimenti politici del momento. Ma anche è ticonsiderato, tivisto e
rivisitato nel suo complesso, da tutte le parti, vicine e lontane, amiche
ed avverse, per la carica vitale e rinnovatrice che lo anima,
suscitatrice di nuovi spiriti e ancòra, in fondo, moderna. La
letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pensosa, l'estasi e il sonno ,
scriveva Marinetti in quel Mani festo di settanta e più anni fa. Noi
vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo
di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. E non è già
atteggiamento letterario aggressivo , ma anche di rinnovamento, questo?
Non è, come si suol dire ancora, fare politica ? Al settimo punto del
Manifesto, Marinetti così continuava: Non c'è più bellezza, se non nella
lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un
capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto
contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo . Per
concludere poi con l'undicesimo: Noi canteremo le grandi folle agitate dal
lavoro, dal piacere o dalla sommossa; canteremo le maree multicolori e
polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante
fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente
lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le
officine appese alle nuvole. E tutto questo cantava e diffondeva da Parigi, da
uno dei più gloriosi quotidiani della capitale francese; ma ciononostante...è
dall'Italia, che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di
violenza travolgente e incendiaria, col quale fondiamo oggi il “Futurismo”,
perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di
professori, d’archeologi, di ciceroni e di antiquari. Un grido così
coinvolgente e totale non può, in fondo, non trascinare ancora gli osservatori
della cultura, A non invitarli almeno a prendere posizione,
poco importa se favorevole o contraria. Non si può rimanere indifferenti
ancora negli Anni Ottanta, non sentirlo tutt'ora presente nei suoi contenuti
prospettici e attuali. Ecco perché tutti lo hanno ripreso, riconsiderato
o riabilitato alla loro dimensione storica: liberali e comunisti,
socialisti e conservatori, cattolici e radicali, fino alla nuova destra. Anche
noi, vorremmo quindi riesaminarlo a distanza non però per
riappropriarcene, ma solo per vedere la sua origine, il muoversi storico e la
collocazione politica nel corso della sua esistenza, che in fondo, è
ancora incerta e anche, in parte, controversa. Si è parlato d’irrazionalismo
filosofico, di decadentismo o di romanticismo letterario, di surrealismo con
evidente errore di collocazione, di nietschianesimo natural mente, o di
bergsonismo ecc. ecc. Ma non sta a noi questo compito, perché siamo convinti
che rutto si potrebbe dite, o comunque tutto si potrebbe adattare in
buona combinazione di purpurie filosofica, o di pensiero. E invece è il
futurismo che vorremmo considerare nella sua realtà storica, nella sua
entità e valenza politica , di fianco o a distanza di quel fascismo con
cui bene o male si è accompagnato. Anche se ciò non basta
certamente per avere un'idea chiara e precisa della sua effettiva portata
e del suo valore storico . Perché il futurismo va visto sì nel suo tempo,
che non è poi tanto passato, pur se non è più momento dell’oggi; ma va
visto anche nella sua prosecuzione e nella sua proiezione al tempo
presente, sia pure per quel che riguarda la dimensione d’arte ». Il
futurismo oggi non è più un fatto politico, ma è tuttora fatto culturale,
e diverse manifestazioni e pubbli cazioni lo dimostrano ancora. Quando
nacque, fu espressione rivoluzionaria di un paese giovane e nuovo mosso dalla
felice conclusione dei fermenti unitari, i quali è ovviocomportano sempre
semi di sconvolgimento e di rinnovazione. L’Italia di Vittorio Veneto sancità
definitivamente ed epicamente il ciclo dell’unità e segnerà così anche,
nel l'immediato dopoguetra, il momento di temperatura massima del
futurismo politico , che vedremo poi ricadere in seguito completamente a
zero. Oggi, in tempi di riflusso dopo una guerra perduta
anche se ormai lontana, il futurismo risulta meno comprensibile e meno attuale
alla nostra capacità d'intendimento storico. Ma a ben osservare possiamo
ancora intravvederlo, per intendere poi anche meglio il futurismo
artistico e letterario, che del tutto estraneo a quello politico proprio non
è. La cultura è un fatto del presente, ma anche dell’avvenire. Come
tale è o dovrebbe essere giovane, perché vissuta, voluta, creduta e
quindi guardata in prospettiva nella visione dell’oltre, nell'ottica di uno
sguardo lontano. Il futurismo si pone in questo taglio di visuale
sull'inizio del secolo, e si focalizza in tale dimensione. Vuole aprire
una nuova strada e vuole porgere un'indicazione, una proposta.
Erano i tempi del progresso, dello sviluppo della scienza e
dell'industria, del nascere della velocità dei nuovi suoni e dei nuovi
rumori, quelli delle scoperte e delle invenzioni, del cinema e
dell'aviazione. Marinetti percepì tutto questo e lo espresse. E fondò il
futurismo, pose le sue basi e cantò la sua prima voce. Nessuno
forse s’aspettava o s'immaginava che potesse riuscire a trovare
ascolto. Marinetti però viveva a Parigi a quel tempo, e seppe
approfittare dei contatti che aveva con la cultura rancese per lanciare
il Manifesto: fu un'occasione, e fu anche un lancio
sicuro. Futurismo e passatismo
Esiste ancora oggi il passatismo , quello di marinettiana
memoria. E se è pet questo c'è ancora il futurismo. Proprio per tale suo
aspetto, dunque, il futurismo è ancora attuale: la decadenza della
cultura o il suo invecchiamento, e la sua inadeguatezza ai tempi; il prevalere
per contro dell'accademia, della pedanteria, del vecchiume cattedratico sono
sempre all'ordine del giorno. Il futurismo, quindi, non ha esaurito il suo
compito, ovvero non è riuscito nel suo intento. E allora dovremo dire che
non è morto ed è tuttora attuale. Ma prima di aprire un'ipotesi di nuovo
futurismo , dovremmo esaminare quello passato, fattosi movimento
d'avanguardia, e ormai da ridefinirsi vera e propria avanguardia storica,
solo ed esclusivamente. Il passatismo può essere oggi solo un
fatto di ritorno , o esser rientrato ad occupare il suo campo d'’origine,
ma il futurismo settanta anni fa aveva già conosciuto quello di allora, tanto
da indicarlo e da definirlo, con una sua caratteristica espressione:
passatismo, appunto. E non si trattava anche allora di una cultura
ripetitiva e monocorde, puntualizzatrice e pedante, noiosa e inattuale?
Allora come oggi: una cultura fuori dal tempo, sterile e ferma. E il
futurismo aveva voluto muoversi a rinnovarla, a darle nuova spinta
vitale. Ecco allora le sue invettive contro l’accademismo o il
professorume, i suoi appelli alla distruzione di musei, archivi,
biblioteche. Si trattava di appelli squisitamente letterari, ma
sono stati presi il più delle volte alla lettera o in senso letterale,
per farne atto d'accusa al futurismo e alla sua anticultura. Leggendo al di là
delle righe, invece, dovremmo capire la portata o la dimensione del
messaggio, rivolto agli uomini più che ai musei e alle accademie, o
almeno a certi uomini capaci di rappresentare solo ed esclusivamente
cultura da museo. Sulla spinta di questo stimolo ideologico , era
fatale che il movimento trovasse più facili accoglienze 0 accostamenti
con le parti politiche d’azione, quelle dell'inter vento prima della
Grande Guerra, e dell’arditismo prima durante e dopo il conflitto. La
guerra veniva ormai intesa sola ed unica igiene del mondo , ed era logico
che i futuristi si accostassero a lei, come ad una forza capace di
debellare ed estirpare il tanto inviso passatismo . I futuristi quindi
furono interventisti accanto ai nazionalisti (D'Annunzio) ed ai socialisti di Corridoni
e di Mussolini. La ineluttabilità della storia accosta spesso e volentieri i
differenti . Furono vicini nei comizi, nelle manifestazioni, nella
propaganda per l’intervento. E poi partirono, praticamente tutti 1
futuristi, volontari per il fronte di una guerta che avevano inteso e
visto aggressiva, purificatrice e moderna. Una guerra al passo coi
tempi, si direbbe oggi, una guerra insomma futurista . Partì Martinetti e partì
Boccioni, partirono Funi e Sitoni, partì Sant'Elia, che lasciò i suoi 23
anni in trincea sulle colline del Carso. Erano entrati tutti e cinque
compatti in quel glorioso battaglione ciclisti, che tanto fece patlare di sé, e
che Funi rittasse in un famoso quadro. Anche Boccioni morirà in ospedale
a Verona. La vita fu forse la massima offerta all’igiene di una
guetra tanto desiderata. Il futurismo in quanto fermento
rinnovatore di una lotta nazionale che concluse il Risorgimento, potrebbe
essere inteso come un epigono del Romanticismo. Fu invece di più e di meglio,
visto in altra dimensione o in altro significato. Perché fu avanguardia,
anzi il primo veto e proprio movimento d’avanguardia culturale del nuovo
secolo. E l'avvento del fascismo in senso politico, dimostra in fondo che lo
sbocco di tutto quel rivolgimento innovativo 0 avanguardistico che tutti
sentivano e avevano nel sangue , era diventato una ineluttabile necessità
del momento. L’irreggimentazione del fascismo è un fatto
successiva, indipendente dal futurismo. Il fascismo-regime, per
dirla con De Felice, è un'esito autonomo e solitario di Mussolini e del
potere. Il fascismo-movimento invece, sempre per dirla alla De Felice,
no. I) fascismo-movimento è una realtà più complessa, articolata e
multiforme, più sentita e partecipata. Ed in essa entra il futurismo, che
vive il fascismo ma anche lo anima, che Jo vuole in parte, ma anche lo
informa. Il passatismo doveva essere stroncato: e in un
primo momento, con l'avvento di Mussolini, languì. La cultura subì uno
svecchiamento non indifferente ed il fermento del nuovo portò sulla scena
uomini giovani accantonando | vecchioni dell'accademia libera!socialista.
Balla, Carrà, Soffici, Funi, Sironi, Prampolini si affermarono col vento
futurista che stava soffiando. Ed ebbero spazio nelle mostre, almeno in un
primo momento, apertura nei musei, apprezzamento all’estero, dove vennero
accolti, ammirati, imitati. Il futurismo ebbe una grande forza vitale
sua, autonoma e individuale. Senza per questo imporsi e schiacciare la
concorrenza , anzi. I futuristi accettatono nuove esperienze ed accolsero
scambi con avanguardie straniere (come l'astrattismo), che vol.
lero mutuare in reciprocità l’influenze. Il fascismo fu l’avanguatdia
collaterale politica del futurismo, che tuttavia quest'ultimo cronologicamente
precedette e ideologicamente , almeno in parte, ispirò. La lotta al
passatismo divenne così quasi simbolo del fascismo, che si fece portabandiera
del rinnovamento e della nuova rivoluzione nazionale. I professori
, non avendo messaggi originali da contrapporre, rimasero in disparte.
Marinetti divenne accademico d’Italia a fascismo avanzato e, forse, suo
malgrado. Tuttavia usò l'Accademia per promuovere ed appoggiare i suoi
futuristi, per dar loro spazio nelle diverse manifestazioni d’arte e di
cultura. Il filosofo Croce, professore ad honorem , era stato proposto
alla presidenza dell’Accademia, ed era stato proposto da parte fascista, quando
ancora da Napoli applaudiva a Mussolini: ebbe invece più consensi la
presidenza Marconi, lo scienziato, e Croce si ritirò nell’antifascismo, forse
mi litante, della sua incensurata e liberissima Critica. Croce fu
passatista , 0 tortò ad essere tale dopo una parentesi {od un tentativo
di rivolgimento innovativo), che non lo sottrasse tuttavia dalle carte della
sua più o meno immobile filosofia. 3. Futurismo e politica
La comparsa politica del futurismo fu praticamente contemporanea
alla sua nascita artistica: infatti avvenne in occasione delle elezioni
del 1909, quando Marinetti lanciò il suo Primo Manifesto Politico, che
così si rivolge agli Elettori Futuristi : Noi Futuristi invochiamo da
tutti i giovani ingegni d’Italia una lotta ad oltranza contro i candidati
che patteggiano coi vecchi e coi preti . Posizione confermata nel marzo
dello stesso anno in un famoso Discorso ai Triestini tenuto al Politeama
Rossetti, della città giuliana, dove così sottolinea: In politica, stamo
tanto lontani da] socialismo internazionalista e antipatriottico ignobile
esaltazione dei diritti del ventre quanto dal conservatorismo pauroso e clericale,
simboleggiato dalle pantofole e dallo scaldaletto . Sono le premesse del
famoso anticlericalismo marinettiano, che sfocerà poco dopo nello
svaticanamento tanto predicato per la salvezza nazionale. Dopo la nascita
del futurismo politico, viene fondato il Partito Nazionalista Italiano,
antidemocratico ed antiborghese. Nel 1913 nasce Lacerba, cui diedero vita a
Firenze Soffici e Papini, la rivista che in pratica divenne ben presto organo
ufficiale del futurismo /ato sensu. Sempre nel 1913 sorgeva a Napoli
un’altra rivista futurista, diretta da Ferdinando Russo e intitolata
Vele Latina, che si ergeva in un primo tempo a voce di pasizioni
morigerate e tranquille, e poi dal 1915 più spinte nella mischia
dell'intervento. Ancora del ’13, e dell'11 ottobre per l'esattezza,
è la pubblicazione del Programma politico futurista a firma di
Marinetti, Boccioni, Carrà e Russolo, per le elezioni dello stesso anno.
Questo programma vincerà , s'indica al margine inferiore del foglio, il
programma clerico-moderato-liberale e il programma
democratico-repubblicana-socialista . Cosa che poi in realtà non avvenne.
Il 12 dicembre dello stesso anno Marinetti pronunciava un discorso al
Teatro Verdi di Firenze, dove saostiene la volontà di appoggiare l'impresa
libica ed il suo felice compimento. Il discorso viene immediatamente
ripreso e pubblicato da Lacerba, nel numero del 15 dicembre (n. 24, anno I): Si
convincano i socialisti che noi rappresentanti della nuova gioventù
artistica italiana combatteremo con tutti i mezzi e senza tregua i loto
vigliacchissimi tentativi... iniziava il discorso; e così concludeva, a
rafforzamento delle sue inconciliabili posizioni: Noi siamo dei
nazionalisti futuristi e perciò ferocemente avversi all’altro grande pericolo
imminente: il clericalismo con tutte le sue propaggini di moralismo
reazionasio, di repressione poliziesca, di professoralismo archeologico e di
quetismo rammollito o affatismo di partito . Ormai la collocazione del
movimento è quanto mai chiara e inequivocabile. 4. Futuristi e
fiorentini. Che i futuristi fossero milanesi è problema tutto da vedere,
anche se è vero che Marinetti abitava a Milano e che dopo la fondazione del
movimento a Parigi fu a Milano il suo centro di spinta e di irradiazione.
Ma i legami con Firenze furono ben presto agganciati, e determinanti.
Scrive Luciano De Matia: Fsiste un futurismo milanese (con Marinetti e Boccioni
in simbiosi); esiste un primo futurismo fiorentino lacerbiano, che
assimila, elabora in modo nuovo, creativo, le istanze milanesi; esiste un
secondo futurismo fiorentino (la pattuglia azzurra ; i giovani de L'Italia
futurista) psicologico, occultista, predadaista e presurrealista. E
potremmo continuate nelle differenziazioni ”. Ma non è tanto per
questo tipo di differenziazioni che ci interessa il futurismo fiorentino,
quanto per la dimensione politica dei personaggi che vi aderirono,
diversa da quella di Marinetti e degli altri futuristi milanesi o
degli altri politici che a Milano operavano e si muovevano (Boccioni,
Sant'Elia, Balla; più tardi poi, Vecchi e Mussolini). Milano era già
città d'avanguardia e alla guida dell’industrializzazione settentrionale:
questo non va dimenticato. Firenze era ancora passatista ,
accademica e salottiera; legata comunque ad una cultura d’indagine e di
! Tuciano De Maria, Palazzeschi e l'avanguardia, Mondadori,
Milano, 1968, 31. riesumazione di un passato ricco e glorioso, ma ormai
ripetitivo e sclerotizzato. Firenze tuttavia era anche la terra feconda
del primo Novecento, delle nuove riviste, dei tentativi di rivisitazione
di una cultura pur sempre nazionale, e di lancio dell'avanguardia sullo scorcio
del nuovo secolo, che andava creato e costituito, Il Leonardo apre le sue
tirature il 4 gennaio 1903, per chiuderle poi nell'agosto del 1907. Era stato
Papini a fondarlo, ma c’era già anche presente Prezzolini (Giuliano il
Sofista). Che poi mise in piedi La voce nel 1908: uno dei migliori
tentativi di collegamento delle forze intellettuali e di fondazione di un minimo
denominatore comune, letterario e politica {idealismo e sindacalismo
socialistico di tipo soreliano). Papini continuò la collaborazione . Ma vi
furono anche, sulle pagine de La Voce, Amendola e Sal vemini, Soffici e
De Robertis, oltre che il futuro fondatore de Il Popolo d’Italia e del
Fascismo. La Voce chiudeva però i battenti nel 1912 senza eccessiva eco
politica immediata. Papini non aveva condiviso certe alleanze del suo amico
Giuliano il Sofista, come non condivideva l'intento didascalico e divulgativo
della Voce su qualsiasi argomento artistico e sociale, come anche
idealistico . Si unì a Soffici di cui condivideva gli atteggiamenti, ed
insieme fondarono Lacerba (il 1° gennaio del 1913, sempre a Firenze). Non si
volge chi a stella è fisso! , portava come motto il Leonardo sotto
la testata. Volendo dare tono battagliero a Lacerbae, Papini forse ancora
seguiva le prospettive d’arte e di cultura del Leonardo. Anche se in una
dimensione attiva che già i leonardiani
avevano inteso fondare nell’utilizzazione del pragmatismo come strumento di
potenza . (In quegli anni tutti vollero sapere che cosa fosse il
pragmatismo ). Lacerba riprende l’impostazione di battaglia, tipica
di Papini, e ritotna all’orientamento specifico dell’arte. Vedi anche
Giovanni Papini, Pragmatismo, Firenze, Vallecchi. In questo contesto è evidente
che non poteva mancare l’incontro col futurismo. La scazzottatura
dei futuristi con Soffici e i vociani nel 1911° non poteva aver
contribuito all'incontro? Potrebbe darsi, anche se Papini non vi aveva partecipato,
come Marinetti stesso asserisce in una sua lettera a Pratella. Sta di fatto che
col 15 marzo del 1913, cioè col suo sesto numero, Lacerba diventa
futurista. Con un articolo proprio di Papini dal titolo Contro il futurismo
che dal famosa attacco iniziava così: Il futurismo italiano ha
fatto ridere, urlare e sputare. Vediamo se potesse far pensare. Segue un passo
di Boccioni sul fondamento plastico della scultura e pittura futurista.
Proprio Boccioni che aveva investito Soffici col suo celebre pugno, poco più
di un anno prima a Firenze. E che continuerà a pubblicare articoli
sul numero del 1° di aprile e su quello del 1° di agosto e poi sul primo
numero del 1914, ecc. Per non parlare di Carrà, Marinetti, Russolo,
Sant'Elia, Auro d'Alba, ecc., che porteranno continuamente i loro
contributi. Il 15 ottobre del ’13 Lacerba pubblicherà
addirittura il citato Programma politico futurista in occasione
delle elezioni generali. Il manifesto politico compare in prima
pagina con tutti i crismi d'appoggio o di affiancamento della rivista.
Papini ne dà un commento più che soddisfacente . E lo stesso Papini il 1°
dicembre dello stesso anno uscirà poi con un lungo articolo intitolato
Perché son futurista. Sarà l’atto di accettazione definitiva del
futurismo, od il suo accoglimento più completo, e globale. Su La Voce
Soffici pubblica la sua Ricetta di Ribi Buffone. Vi si elencano gli ingredienti
del neonato futurismo: Un chilo di Verhaeren, 200 gr. di Alfred Jarry,
cento di Laforgue, trenta di Laurent Tailhade, cinque di Viélé Griffin,
un pugno di Morasso..., una presa di Pascoli , aggiungendovi poi
una pila di undici automobili, sette aetoplani, quattro treni, due
carghi, due biciclette, diverse batterie elettriche e qualche candela ardente.
Sempre su La Voce Soffici pubblicherà poi nel ‘10 e nell’11 dei
rendiconti negativi sulle opere futuriste esposte a Venezia e a Milano,
per cui sarà decisa la spedizione punitiva a Firenze da parte dei
fuiuristi, Non molti giorni dopo, il 12 dicembre (lo abbiamo già
visto), si tenne al Teatro Verdi a Firenze una grande serata futurista ,
di cui riporta il resoconto sintetico il numero 24 della rivista (del 15
dicembre 1913). Non molto tempo dopo, però, il 15 febbraio del
’14, appare sul quarto numeto del nuovo anno I! cerchio si chiude,
che avvia inesorabilmente al declino della collaborazione. Autore ne è ancora
una volta Giovanni Papini, che chiuderà definitivamente il colloquio
sull'ultimo numero dell’anno insieme a Soffici, cofirmatario de Il
Futurismo e Lacerba. È l'atto di chiusura di un periodo : quello, appunto, del
futurismo lacerbiano. Risponderà Boccioni il 1° di marzo sul numero 5 con Il
cerchio non si chiude; ma sono solo sussulti, e anche sugli ultimi
numeri dell'anno della rivista compariranno solamente i cosidetti canti
del cigno . Il cerchio era ormai già chiuso. E non molto dopo
chiudeva anche Lacerba, nonostante i suoi ultimi tentativi interventisti di
rivivificazione (1915) e le sue discriminazioni tta futurismo c marinettismo,
che ne sarebbe stata la versione deteriore‘. 1l marinettismo sarebbe
pra ticamente già morto secondo i fiorentini , mentre il futurismo
avrebbe potuto tendere a mete migliori. Dopo pochi mesi in realtà morirà
definitivamente anche Lacerba. 5. Il futurismo e la guerra
Nel 1929 Marinetti ricordava così l’inizio della sua carriera
interventista : Nel settembre 1914 dutante la battaglia della Marna e in
piena neutralità italiana, noi futuristi organizzammo le due prime
dimostrazioni contro l’Austria e per l'intervento. Bruciammo il 15
settembre nel Teatro Dal Verme e il 16 settembre in Piazza
del Palazzeschi, Papini, Soffici, Futurismo e Marmnettismo, in
Lacerba, anno III, n. 7, 14 febbraio 1915, 49-50. Duomo e in Galleria
undici bandiere austriache . Poco prima di quegli avvenimenti, Mussolini
aveva fondato il suo nuovo quotidiano, I{ Popolo d’Italia.
Contemporaneamente, sotto l'auspicio e il favore di Corridoni, i gruppi
rivoluzionari di sinistra, già pronunciatisi a favore della guerra, si
stavano organizzando per sostenere anch’essi l'intervento. Come ricorda
De Felice, il 5 ottobre il Fascio Rivoluzionario d'Azione
Internazionalista avrebbe lanciato il suo primo appello ai lavoratori italiani
in questo senso * L'incontro tra futuristi e rivoluzionari di
estrema sinistra si stava verificando e stringendo , anche se già
confortato da reciproche simpatie per le uni. voche posizioni
anticlericali ed antiborghesi. Mussolini scriveva dalla direzione de Il Fopolo
d'Italia una lettera a Buzzi, che riportiamo interamente: Caro Buzzi,
Boccioni vi avrà detto se mai vi avrà parlato di me che tutte le
mie simpatie sono anche nel dominio dell’arte per i novatori e i
demolitori: per i “futuristi”. Inattesa, e perciò gradita, mi giunge la
vostra lettera riboccante di simpatia. È questo uno dei momenti più amari
della mia vita. Ma vincerò. Vincerò. Lo sento. F' necessario. Ho
messo nel gioco tutta me stesso. Credetemi. Vostro Mussolini. L’amarezza
gli è data probabilmente dall’espulsione dal Partito socialista proprio
per la posizione da lui assunta a favore dell'intervento. La conoscenza da
parte di Mussolini, di Boccioni e del movimento d’arte d’avanguardia di
Marinetti, risultava sino a poco tempo fa inesistente. La lettera, unica
del genere, conferma la precedenza del futurismo politico rispetto al
fascismo ancora da sorgere, che poi mutuerà da esso idee, elementi e
programmi. Le simpatie si manifestano per il dominio
dell'arte, al dire di Mussolini, ma non solo; c'è un anche , che
indica chiaramente dell'altro e un'apertura, forse politi ca, possibile
nei confronti degli innovatori e dei demo Renzo De Felice, Mussolini il
Rivoluzionario, Einaudi, Tori. litori , vale a dire per i futuristi. Che
ancora il 9 dicembre di quell’anno organizzano le prime manifestazioni
interventiste all’Università di Roma, sotto la guida di Marinetti, Balla,
Cangiullo e Depero. Qualche mese dopo, nel ’15, le autorità di governo
fermano Marinetti, Cangiullo, Balla e Depero che avevano indetto una
manifestazione interventista un’altra volta a Roma, in Piazza Venezia. È
il primo fermo politico di Marinetti. Siamo quasi alla vigilia della
guerra. Si mette in piedi la terza grande dimostrazione
interventista davanti alla Camera dei Deputati. È presente anche Mussolini e si
verifica uno dei maggiori momenti d’incontro tra futuristi e
Mussolini sul terreno dell’intervento. Balla, Corra, Settimelli,
Marinetti e lo stesso Mussolini vengono attestati. Tutti gli sforzi
ormai, tutte le volontà e tutte le energie sono concentrate verso un'unica e
suprema meta: quella della guerra. A Messina esce il nuovo periodico La Balze,
e Marinetti pubblica il manifesto Guerra sole igiene del mondo, mentre il poeta
futurista Auro d'Alba lancia a Milano per le Edizioni Futuriste di Poesia
(sostenute da Marinetti) il volume
Baionette. Con l’entrata in guerra nel maggio, a Fitenze
Lacerba interrompe come si è visto le pubblicazioni. Una guerra che
avevano tutti quanti, in un certo senso, preparato con interventi, discorsi,
giornali, manifestazioni e pubblicazioni. Fra questi non va dimenticato
il manifesto del Teatro futurista sintetico, firmato da Martinetti,
Corra e Settimelli, nel quale, fra l’altro, così si legge: Aspettando la
nostra grande guerra tanto invocata noi Futuristi alterniamo la nostra
violentissima azione artistica sulla sensibilità italiana, che vogliamo
preparate alla grande ora del massimo pericolo . E più avanti: Perché
I’Italia impari a decidersi fulmineamente a slanciarsi, a sostenere
ogni sforzo e ogni possibile sventura non occorrono libri e riviste... La
guerta, futurismo intensificato, ci impone di marciare e di non marcire
nelle biblioteche e nelle sale di lettura. No: crediamo dunque che non si
possa oggi influenzare guerrescamente l'anima italiana, se non mediante
il teatro . E in effetti, a partire dal gennaio del '15, i futuristi
avevano iniziato una serie di Tournées di teatro futurista interventista per
sostenere la necessità dell’intervento con un mezzo di comunicazione ben più
popolare e circolante della letteratura. Anche la serata futurista , per
esempio, è un al tro canale o strumento di incoraggiamento
dell'intervento. Si tratta di una sorta di riunione o ritrovo di artisti
futuristi, uno dei quali sollecita gli intervenuti (pubblico) danda uno spunto,
e proponendo un tema, o aggredendo qualche aspetto dell'arte del passato, da
cui nasce lo stimolo alla creazione e alla lotta del nuovo 0 del
futuro, e anche lo stimolo alla guerra che lo conduce sino alle ultime
conseguenze. Ma sentiamo Marinetti come la definisce quando si rivolge agli
studenti in un altro manifesto, di poco precedente a quello teatrale ,
intitolato Im quest'anno futurista, rivelto agli studenti italiani e
datato 29 novembre 1914. Laddove si esortano i giovani alla guerra
così si afferma: ... il futurismo segnò appunto l’irrompere della guerra
nell’arte, col creare quel fenomeno che è la Serata futurista (efficacissima
propaganda di coraggio). Il futurismo fu la militarizzazione degli
artisti novatori. E la guerra arrivò, come A biamo visto, e per
molti versi fu vera e propria guerra futurista . In luglio partiva il
gruppo più consistente di volontari : Marinetti, Boccioni, Russolo,
Sant'Elia, Bucci, Carlo Erba e Funi. Ma ci saranno al fronte anche Carrà
e Sironi, fattosi futurista nello stesso anno, e Piatti e Fortunato
Depero. Alla fine dello stesso anno Boccioni, Russolo, Sant’Elia, Sironi e
Piatti, sempre sotto l'egida di Marinetti, firmano un altro manifesto
futurista, quello dell’Orgoglio italiano, con cui si promettono pugni,
schiaffi e fucilate a quelli degli italiani che avessero manifestato in
sé la più piccola traccia del vecchio pessimismo imbecille, denigratore e
straccione che ha caratterizzato la vecchia Italia di mediocristi
antimilitaristi (tipo Giolitti), di professori pacifisti (tipo Benedetto
Croce, Claudio Treves, Enrico Ferri, Filippo Turati), di archeologi, di
eruditi, di poeti nostalgici. Sant'Elia muore al fronte, e Boccioni, una
settimana dopo, per una caduta da cavallo durante un'esercitazione militare a
Orte. Nasce a Firenze la nuova rivista L'Italia futurista. Prampolini
fonda con Folgore il foglio d'avanguardia Awvenscoperta. Nel ’17 nasce il
periodico Deda, che tanto dovrà nell’ispirazione al nostro futurismo. I) 18 è
ormai l'anno della vittoria. Depero realizza i suoi nuovi balli plastici .
Bruno Corra pubblica a Milano con i tipi dello Studio Editoriale Lombardo
Per l'arte della nuova Italia. Siamo infatti nell’Italia della vittoria.
6. Il Partito politico futurista Nella nuova realtà del
dopoguerra il futurismo cerca una sua nuova collocazione politica più
pacifista , se il termine non è nella fattispecie una contraddizione.
Ai fasti dell'intervento e della militarizzazione, succede un nuovo
intento programmatico di realizzazione. La prima espressione di questa
volontà è ancora una volta dovuta a Marinetti che pubblica nel febbraio
del ’18 un Manifesto del Partito politico futurista, l'adesione al quale
era libera ed aperta a tutti coloro che avessero accettato i
principî del suo programma, indipendentemente dalle concezioni
dell’arte o dal consenso all’estetica futurista . E questo indica una
presa di posizione più ponderata e meno di rottura , almeno in senso
sociale. Il documento esprime, negli intenti, il desiderio di
rinnovamento di quelle fasce del combattentismo inter. ventista, comprese
fra i mussoliniani, i sindacalisti tivoluzionari, i socialisti e i repubblicani
di sinistra, che avrebbero poi dato vita alla formazione dei Fasci di
Combattimento, quelli cui futuristi ed arditi avrebbero infuso la prima
linfa vitale. Si possono considerare punti essenziali del nuovo programma
l'estensione del suffragio universale, comprendente anche le donne, la socializzazione
della terra con assegnazione ai reduci, la tassazione progressiva,
l'abolizione dell'esercito e la sua
professionalizzazione (volontariato), la giustizia gratuita, la
libertà di sciopero e stampa, le otto ore lavorative e Î contratti
collettivi di lavoro, l'assistenza e la previdenza sociale, la
tecnicizzazione clel parlamento e l’introduzione del divorzio. A
diffondere le idee del nuovo partito era destinato il periodico Roma futurista,
fondato a Roma da Marinetti, Mario Carli ed Emilio Settimelli, che vedeva
la luce il 20 settembre 1918 e portava come sottotitolo Giornale del
Partito politico futurista. Roma futurista , racconta Marinetti nel suo
libro Futurismo e Fascismo (1924) nacque un mese e mezzo prima
dell’armistizio, cioè il 20 settembre 1918, e portava nel suo primo numero tre
scritti importantissimi dei suoi tre direttori: Mario Carli, Marinetti,
Settimelli. Scriveva Settimelli: “Il Futurismo che fino ad oggi esplicò
un programma specialmente artistico, si propone una integrale azione politica
per collaborare a risolvere gli urgenti problemi nazionali. Coloro che ci
accusarono di squilibrio dovranno ricredersi. I] preconcetto di serietà
pedantesca e quietista imposto alla vecchia Italia dai professori rammolliti,
dai preti anti-italiani e dagli affaristi giolittiani, cercò di svalutare la
nostra genialità di giovani audaci e novatori. Ma la vera Italia non può
rimanere e non rimarrà neppure parzialmente nelle loro mani incapaci. La
guerra ha rivelato le vere forze italiane. Sono forze giovani, violente,
antitradizionali e ultra-italiane” . Il primo numero di Roma
futurista (decadario, poi settimanale) pubblicava il programma del
giornale medesimo ed anche il manifesto di quel Partito Politico Futurista che
si doveva ancora fondare. Partito che, nell’intendimento di Settimelli, doveva
essere più che altro una tendenza psicologica , una fusione di realtà e
di scon(inamento, di praticità e di lirismo , che avrebbe contribuito a creare
un nuovo tipo d'italiano. Ma ecco ancora come si esprime la volontà di
fondazione del movimento: Il Partito politico futurista che noi fondiamo
e che orxanizzeremo dopo la guerra, sarà nettamente distinto dal
movimento artistico futurista. Questo continuerà nella sua opera di
svecchiamento e rafforzamento del genio creatore italiano... Potranno aderire
al partito politico futurista tutti gli Italiani, uomini e donne d’ogni classe
e di ogni età... Questo programma politico segna la nascita del
partito politico futurista invocato da tutti gli italiani, che si battono
oggi per una più giovane Italia, liberata dal peso del passato... . La
firma è di Roma futurista, cioè, come si presume, del direttore, o anzi
di tutti i tre direttori. Ecco alcuni punti del
manifesto-programma del partito: 4) Trasformazione del Parlamento mediante
un'equa partecipazione di industriali, di agricoltori, di ingegneri
e di commetcianti al Governo del Paese. Il limite minimo di età per
la deputazione sarà ridotfò a 22 anni. Un minimo di deputati avvocati {sempre
opportunisti) e un minimo di deputati professori (sempre retrogradi)...
Abolizione del Senato... Unica religione, l'Italia di domani... 10)...Svalutazione
della pericolosa e aleatoria industria del forestiero... Difesa dei
consumatori... Svalutazione dei diplomi accademici e incoraggiamento con
premi della iniziativa commerciale e industriale. Le adesioni
all'iniziativa si fecero subito sentire da diverse parti: ci furono
vecchi futuristi come Auro d'Alba, Rosai e Rocca, reduci dalla guerra
come Bolzon e Bottai (che avrebbe poi rivestito un ruolo di primo piano
nell'ambito del nuovo regime fascista) e Massimo Bontempelli, secondo il quale
il programma fondamentale del futurismo politico sarebbe stato quello di
sostituire la giovinezza alla vecchiaia nelle funzioni direttive . E non
sarebbe stato poco. Sarebbe stato uno dei tentativi, anche se non del
tutto riuscito, dell’insorgente fascismo. Nel dicembre dello
stesso anno 1918, quasi ad esito naturale della formazione del nuovo
partito, poco organizzato e poco costituito , s'istituirono invece i
Fasci politici futuristi , più attivi e vitali particolarmente in
diverse città dell'Italia centrale e settentrionale, la prima ossatura su
cui si sarebbero appoggiati e sarebbero cresciuti i muovi Fasci di combattimento
, voluti e promossi da Mussolini quattro mesi dopo. Nel febbraio del '19
i Fasci futuristi erano già una ventina, tra quelli di Roma (Balla, Carli,
Bottai, d'Alba e Chiti), Milano (Marinetti, Buzzi, Somenzi e Bontempelli),
Firenze (Settimelli, Rosai, Marasco), Perugia (Dottori), Genova (Depero),
Torino (Azari), e poi ancora Bologna, Palermo, Napoli, Fiume, Messina,
Ferrara, Piacenza, Venezia, Taranto, Modena, Stradella, ecc. I futuristi
avevano quindi accolto con entusiasmo l'iniziativa e vi si erano immersi
fino a determinare una prima ossatura: l’organizzazione. E Mussolini a
sua volta aveva visto di buon occhio e seguìto la formazione dei Fasci
politici futuristi, sino a scopri re in essi un punto d'appoggio per la
sua campagna combattentistica ed antisocialista che si concretizzerà
nei suoi Fasci di combattimento (quelli di Piazza San Sepolcro).
Carli, come condirettore di Rowza futurista e dietro spinta di Marinetti
stesso, caldeggiava da tempo, anche dalle colonne del suo nuovo
periodico, l’avvicendamento e l'annessione degli arditi al partito politico,
di cui sul primo numero del giornale si pubblicava il rivoluzionario
programma: era il 20 settembre 1918. Dieci giorni dopo, il 30
settembre 1918, le proposte politiche si fanno più tecniche, più
specializzate , più particolari. Volt firmerà un testo dinamico per
dichiarare: Sostituiremo il Parlamento con le tappresentanze dei sindacati
agricolo-industriali ed operai. La rappresentenza sindacale sarà la base dello
“Stato tecnico” futurista . Ma allora di quale rappresentanza sindacale si
ttatrerà e quale sarà riconosciuta dallo Stato nella sua veste di
personalità giuridica? Sono tutti problemi che già Volt si pone e così, a
suo modo, risolve , e continua: To credo non si debba tener conto del
numero degli iscritti al sindacato, ma della importanza della funzione
economica che esso esercita nel Paese . Ed ancora, prosegue ad
interrogatsi: Quali saranno i limiti posti all'esercizio del potere
dell'assemblea eletta mediante la rappresentanza sindacale? La competenza
dell'assemblea dovrà essere limitata alle questioni prevalentemente economiche,
che sono del resto le più importanti in politica. Le questioni di
famiglia, di politica estera, ecc. dovranno esser risolte II! 'EUE
vu SS it: _gLZffkfkzstllEaAaz:F:=+”sxx:®( '81‘daoiaaiA'.°’°à0‘@e ra in parte mediante il referendum popolare
diretto ed in parte attribuito alla competenza del potere esecutivo
. Gli arditi venivano poi sciolti nel gennaio del ’19 dai
loro reparti di ufficiali, sottufficiali e truppa, perché considerati
provocatori di disordini e di incidenti nella vita civile. L'iniziativa
era stata ovviamente criticata dai diretti interessati come manovta
socialista-giolittiana atta a disconoscere i loro meriti di guerra. Ed
anche Marinetti aveva appoggiato dalle colonne di Roma futurista
1’unificazione (ira futuristi ed arditi), Alla fine di novembre del
’18 Mario Carli fondava, a conclusione di questa campagna ,
l’Associazione fra gli Arditi d’Italia , che fu un po’ l’altra faccia del
Partito politico futurista. In breve, l'associazione atrivò a raccogliere
circa diecimila iscritti, la maggior parte, forse, degli ex reparti
militarizzati . Futurismo e arditismo Ormai anche gli arditi,
nonostante lo scioglimento della loro organizzazione paramilitare, hanno una
consistenza civile ed in certo modo un loro peso politico. Tanto da
poter fondare un loro organo di stampa che prende a uscire a Milano
dall’11 di maggio 1919: il settimanale L’Ardito, edito dall’Associazione
nazionale, e condiretto da Ferruccio Vecchi e, non a caso, da Mario
Carli. Nello stesso periodo altre furono le voci di stampa allineate
su analoghe posizioni: Armando Mazza, per esempio, fondò a Milano I
remici d'Italia, settimanale antibolscevico ; il più importante di questi
giornali minori fu però L’Assalto, pubblicato a Bologna come voce
dell’arditismo, e diretto da Nanni Leone Castelli. Marinetti ed i
futuristi non potevano a questo punto non vedere negli arditi dei nuovi
futuristi politici, così come Mussolini non poteva non vedere in loro dei
potenziali simpatizzanti e alleati. La pronta adesione di molti di essi ai
Fasci di combattimento lo dimostrerà definitivamente. Arditismo e
futurismo furono dunque componenti es dd senziali del nuovo
insorgente fascismo. Almeno dal punto di vista ideologico, o formativo
del suo nascere. Mussolini aveva, per così dire, abiuraro il suo vecchio
socialismo e aveva bisogno di una forza nuova, una forza ideale o di pensiero
che gli permettesse il suo slancio in avanti . Il futurismo gliela
porgeva già bell'e pronta, o quasi, mentre il precedente socialismo gli
alimentava certi spunti sociali, in parte, almeno, già presenti nel
futurismo. L'arditismo, ancora, gli comunicava una spinta, una
forza di aggressività e di assalto , che forse gli sarebbe mancata, o non
sarebbe stata, senza di esso, tanto irruente. Il futuro duce partecipava a
Milano ad una serata futurista contro Bissolati, alla Scala, contribuendo
in parte al suo siluramento . C'era anche Marinetti e, forse, non fu un
caso, e si trattò di un incontro importante. II 23 marzo dello
stesso anno in una riunione milanese a Piazza San Sepolcro, presieduta da
Ferruccio Vecchi, Marinetti tenne un discorso alla presenza di Dessy e di
altri arditi e futuristi, per la fondazione dei Fasci di combattimento,
decisa da Mussolini. Questi propose come programma ai nuovi raggruppamenti
l'abolizione del Senato, il suffragio universale, il sindacalismo
nazionale, riconascendo le rivendicazioni d'ordine materiale e morale agli ex-combattenti e rimproverando al
partito socialista di essere stato nettamente reazionario,
assolutamente conservatore , col negargli così qualsiasi possibilità di
mettersi alla testa di un'azione di rinnovamento e di ricostruzione . La
conclusione del discorso, antimassimalista ed antitotalitaria, era in fondo
quanto mai futurista . Così terminava il Mussolini: Noi conosciamo
soltanto la dittatura della volontà e dell’intelligenza. Al termine della
riunione si nominava un comitato centrale dei Fasci di combattimento di
cui facevano parte anche Vecchi e Marinetti. Il 1° di aprile
Marinetti venne nominato insieme a Mussolini membro della commissione di
lavoro nazionale per Ia propaganda e la stampa. Ancora in aprile a
Milano nuclei di futuristi, arditi e principianti fascisti assali
tu rono la sede del quotidiano socialista Avanti! Il giorno
dopo i fattacci del 15 aprile, visto il mancato inter vento delle forze
dell’ordine nel prender provvedimenti contro i promotori dell'azione,
Vecchi e Marinetti emisero un proclama agli italiani a nome dei futuristi,
degli arditi e dei fasci: Nella giornata del 15 aprile avevamo
assolutamente deciso, con Mussolini, di non fare alcuna
controdimostrazione perché prevedevamo il conflitto e abbiamo orrore di versare
sangue italiano. La nostra controdimostrazione si formò, spontanea, per
invincibile volontà popolare. Fummo costretti a reagire contro la provocazione
premeditata degli imboscati. Col nostro intervento intendiamo di affermare il
diritto assoluto dei quattro milioni di combattenti vittoriosi, che soli devono
dirigere e dirigeranno ad ogni costo la nuova Italia . La
controdimostrazione si riferisce ad una manifestazione socialista
all'Arena, cui seguì la battaglia di Via Mercanti , dove furono chiari, secondo
i reduci, alcuni momenti di provocazione nei confronti del combattentismo
{da qui, l'assalto all’Avanti!). Sempre nell'aprile del *19 esce a
Milano per i tipi dell’Editore Facchi un volume politico di Marinetti, forse
il suo più importante: si tratta di Democrazia futurista, che porta
come sottotitolo dinamismo politico . È una raccolta di articoli apparsi su
Roma futurista e che appari ranno sul nuovo giornale di Vecchi, L’Ardito,
generoso sempre di spazio per Marinetti. Questi definisce il suo
concetto democratico in un altro articolo edito in aprile sempre dall’Ardito:
Vogliamo dunque creare una vera democrazia cosciente e audace che sia la
valutazione e l'esaltazione del numero poiché avrà il maggior
numero di individui geniali. L'Italia rappresenta nel mondo una
specie di minoranza genialissima tutta costituita di individui superiori alla
media umana per forza creatrice, innovatrice, improvvisatrice. Questa
democrazia entrerà naturalmente in competizione con la maggioranza formata
dalle altre Nazioni, per le quali il numero significa invece massa più o
meno cieca, cioè democrazia incosciente . Certo, si tratta di una nuova
cancezione di democrazia, che con quella tradizionale, anche attuale, non
ha niente a che vedere. È una lotta di democtazie, o una democrazia di
lotta, il che alla fin fine non è poi molto diverso. E’ una vera e
propria concezione dinamica. Che, tanto per tener conto del suo opposto
si mette a confronto, a dire di Marinetti, così: Arturo Labriola
definisce la democrazia "come sentimento dei diritti concreti della massa
sullo Stato e sulla Economia“... Noi intendiamo la democrazia italiana come
massa di individui geniali, divenuta petciò facilmente cosciente del suo diritto
e natural mente plasmatrice del suo divenire statale. La sua forza
è fatta di questo diritto acquisito, moltiplicata dalla sua quantità
valore, meno il peso delle cellule morte (tradi. zione), meno il peso
delle cellule malate (incoscienti, analfabeti). La democtazia italiana è per
noi un corpo umano che bisogna liberare, scatenare, alleggerire per
accelerarne la velocità e centuplicarne il rendimento... . Come potrebbe
essere più futurista e avanzata questa nuova concezione democratica progressiva
? Che così, giustamente, si conclude e si definisce: La democrazia
futurista è ormai pronta ad agire, poiché sente vibrare tutte le
sue cellule vive . E’ il punto d'arrivo, logico e
conseguenziale, di una concezione d’assalto . E per la definizione ulteriore
delle posizioni e dei concetti, il 27 aprile 1919 ancora, sulle pagine di
Roma futurista, un testo di Mario Carli (Non chiamatela reazione)
afferma: Non è per l’ordine, non è in difesa dell’autorità costituita o
della borghesia vile, non è in appoggio alla così detta “benemerita” che
noi ci siamo battuti a Milano, e ci batteremo altrove, se se ne
presenterà l’occasione. Ma è per un'idea, per un principio: è per l’idea di
patria, è per il principio di progresso, che noi crediamo realizzabile
con mezzi e con metodi opposti a muelli dei rivoluzionari russi .
Ciò nonostante Gramsci e Lunaciarsky, al TI Congresso dell'Internazionale
comunista, difendono i futuristi italiani e li considerano veri e propri
rivoluzionari . E Lenin medesimo dità a Giacinto Menotti Serrati, che,
come direttore dell’Avanti!, si era recato a Mosca a respirare il nuovo
comunismo: In Italia ci sono soltanto tre uomini che possono fare la
rivoluzione: Mussolini, D'Annunzio e Marinetti . Mentre a proposito di
questo ultimo, cioè di Marinetti e del suo movimento futurista,
Gramsci così annotava in un suo articolo pubblicato su Ordine nuovo nel
1921: Distruggere, in questo campo, non ha lo stesso significato che nel
campo economico... significa non avere paura della vanità e delle
audacie, non avere paura dei mostri, non credere che il mondo
caschi se un operaio fa errori di grammatica, se una poesia
zoppica, se un quadro assomiglia a un cartellone... I futuristi hanno svolto
questo compito nel campo della cultura borghese... hanno avuto cioè una
concezione nettamente rivoluzionaria . E continuava a migliore
definizione del concetto:...Quando i socialisti si sarebbero
spaventati al pensiero che bisognava spezzare la macchina del
potere borghese nello Stato e nella fabbrica, i futuristi, nel loro
campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari: in questo campo, come opera
creativa, è probabile che la classe operaia non riuscirà per molto tempo
a far di più di quanto hanno fatto i futuristi!
L'11 luglio del '19 Marinetti otteneva un biglietto d'’invito
alla Tribuna di Montecitorio. Andò con Ferruccio Vecchi, gran capitano,
ad aspettare un momento opportuno per l’intervento . L'occasione fu data alla
fine del discorso di un deputato socialista (Lucci). Martinetti si
sporse e, rivolto a Nitti, gridò: A nome dei Fasci di Combattimento, dei
futuristi, e degli intellettuali, protesto per la vostra politica e vi urlo:
Abbasso Nitti! Morte al Giolittismo! Dichiaro che non può sussistere il
Ministero dei sabotatori della Vittoria, degli schiaffeggiatori degli
ufficiali, un ministero che si difende coi carabinieri e coi
poliziotti!.. Vergognatevi! La gioventù italiana, per bocca mia, vi urla:
Fate schifo! Fate schifo! . Vecchi ancora inveisce a voce alta contro Nitti,
mentre Marinetti lotta con usceri e carabinieri, come descrive egli
stesso nel suo Futurismo e Fascismo di cinque anni dopo. L’indomani
avrebbe ricevuto da D'Annunzio la presente missiva: 2R Mio caro
Marinetti, bravo per il grido di ieri, coraggioso come ogni vostro atto.
Vorrei vedervi. Se potete, venite. Il vostro Gabriele D'Annunzio. In
settembre Carli, con Mino Somenzi ed altri futuristi, partecipano con
D'Annunzio alla presa di Fiume (11 del mese): vi si recheranno anche
Vecchi e Marinetti a tenere discorsi ai legionari. Anzi, i due personaggi
sembra fossero considerati, a dire di De Felice facinorosi sovversivi o
addirittura in qualche caso bolscevici , per il loro atteggiamento
intransigente ed estremistico.° Tanto che si era detto fossero stati
espulsi da Fiume, mentre erano stati solo richiamati da Paselia,
segretario politico dei Fasci, che aveva bisogno di loro per
l'organizzazione, forse, del primo congresso fascista. All'inizio di
ottobre, infatti, Marinetti partecipa a Firenze al I Congresso dei
Fasci di Combattimento dove, dopo l'intervento di Mussoltni, parla a futuristi,
arditi e fascisti sostenendo la necessità dello svaticanamento : Noi dobbiamo
domandare. volere, imporre , dice fra l’altro il capo del futurismo,
l’espulsione del papato, o meglio ancora, per usare un'espressione più precisa,
lo “svaticanamento” . Le elezioni generali vengono condotte a
Milano all'insegna del blocco fascista con lista autonoma di Mussolini,
Marinetti (secondo), Toscanini, Podrecca e Bolzon. Comizi elettorali si tennero
a Milano in Piazza Belgioioso (10 novembre) e in Piazza S. Alessandro e a
Monza, dove parlarono sempre accoppiati Marinetti e Mussolini. Dopo il 16
novembre, giorno delle votazioni, in seguito ad incidenti coi socialisti,
Marinetti, Vecchi e Mussolini furono atrestati sotto l'accusa di
attentato alla sicurezza dello Stato ed organizzazione di bande
armate, come afferma ancora il De Felice. Breton e Aragon,
direttori della rivista Littersture, organizzano a Parisi una manifestazione di
solidarietà a Matinetti: sono i momenti di affermazione del dadaismo e
del muoversi, lento, verso il surrealismo. Renzo De Felice,
Mussolini i! Rivoluzionario, Gli incontri e gli scontri, oltre che gli
incidenti, tra socialisti e futuristi non etano cosa nuova. E la
battaglia di Via Mercanti del 15 aprile fu solamente il punto di
arrivo di una vecchia e lunga polemica. Già negli anni prebellici
il futurismo si era scontrato col socialismo neutralista (Turati), che
non poteva andar d’accordo con un movimento intrinsecamente
interventista. Lacerba, per esempio, entrava nella polemica
affiancandosi al futurismo e pubblicando, il 15 ottobre del ’13,
quel famoso Programma politico futurista, esaminato in precedenza. La
postilla di Giovanni Papini non fa altro che convalidare, sia pure con
riserva, la sostanza del programma. A proposito di socialismo
interviene poi nel '14 sempre sv Lacerba, Ardengo Soffici, affermando nel
suo articolo Per la guerra che l’idea che i socialisti si fanno del mondo
è questa: un capitalista borghese e sfruttatore alle prese con un magro
popolano sfruttato. La cultura, le scienze, le arti, la bellezza, i
sentimenti, gli amori, le passioni tutto
ciò insomma che fa la vita così terribilmente complessa, così colorita, così
varia, multiforme, incoetcibile non è
nulla per loro. Tutto è grigio, e l'universo intero una specie di
ragnatela squallida senza confini né orizzonti, eterna, in mezzo alla
quale un ragno cetca di succhiare una mosca alla quale Karl Marx ha
insegnato che non deve lasciarsi succhiare . Sicché, conclude Soffici, i
socialisti nemmeno capiscono che si combatte una guerra per difendere
anche, magari, le loro stesse idee, o il mondo dove l’idea socialista è
nata e cresciuta, contro i nemici medesimi del socialismo e dei
socialisti: i tedeschi. Ma questo non ha nessuna importanza, giacché, ed
eccoci alla mentalità di codesto partito, ogni buon socialista non
vede nella guerra, qualunque essa sia, se non una lotta di capitalisti e
banchieri contro capitalisti e banchieri i quali si servono del
proletariato per liquidare le loro partite . La polemica continua
com'è logico, dopo la guerra. Il primo ad accenderla è Mario Carli su
Roma futurista con un articolo del 13 luglio 1919, che ha un titolo
significativo: Partiti d'avanguardia: se tentassimo di collaborare? Laddove si
considera partito d'avanguardia , ovviamente, anche quello socialista, che
tanta parte ha esercitato nella storia d'Italia. Ho esaminato seriamente
l'ipotesi , esordisce Carli, di una collaborazione fra noi {futuristi, arditi,
fascisti, combattenti, ecc.) e i Partiti cosiddetti d'avanguardia:
socialisti ufficiali, riformisti, sindacalisti, repubblicani... Il terreno
comune c’è... E' la lotta contro le attuali classi dirigenti, grette,
incapaci e disoneste, si chia. mino borghesia e plutoctazia o
pescecanismo o parlamen.tarismo... sono una casta che deve cadere e cadrà , E
cadde infatti, come sappiamo, però non certo per merito di quei
socialisti con cui Carli stava cercando di trovate un punto di contatto,
sia pur rendendosi conto che la collaborazione sarebbe stata difficile per non
dire impossibile o, peggio, inutile. Ciò nonostante Giuseppe
Bottai farà eco alla sua tesi con un paio di lunghi articoli: uno del 9
novembre e l'al. tro del 21 dicembre 1919 entrambi col titolo
Futurismo contro socialismo, il cui succo riesce già evidente. Noi
siamo contro il socialismo , afferma Bottai, perché astrazione filosofica senza
possibilità di contatti vitali. Simbolo che si agifa nel mondo da secoli,
e di cui mai si è trovato, e mai si troverà la formula di traduzione in
positivi sviluppi di masse sociali... Noi siamo contro l’idea socialista
perché sosteniamo la necessità della diseguaglianza... Siamo contro il
socialismo perché idea generatrice di vigliaccheria . Ii 14
dicembre sempre del 1919, tuttavia, certo Mannarese, avversario, pubblica un
articolo per espotre l’impossibile intesa fra le due avanguardie, o
l'impossibilità di accordo in unione d’intenti e di lavoro. Il Mannarese
sottolinea l'identità di socialismo e masse proletarie con loro relative
e legittime aspirazioni. Romza futurista non gli ne. sa spazio,
ospitandolo apertamente e liberamente. Ci pensa Bottai a rispondere
e confutare Mannarese col suo secondo articolo preciso ed aggressivo. Il
titolo: Insisto: futurismo contro socialismo; la data, 21 dicembre
dello stesso anno. La posizione polemica si specifica e si
SAI puntualizza: Prima caratteristica del futurismo è questa,
libera, sciolta sfrenata spregiudicatezza: e se il salumaio ci crede oggi
difensore dei suoi salami, delle sue salsicce, poco male! ciò potrà darci
la prova della sua minchioneria, non già infirmare l'esattezza del grido
“futurismo contro socialismo. L’intonazione antibotghese è evidente e
forse si sposa, per così dire, con quella antisocialista, essendo l'una
complementare all'altra, e viceversa. Non si può essere antisocialisti
senza essere antiborghesi, e viceversa non si può essere antiborghesi
senza essere antisocialisti, sembra quasi che dica Giuseppe Bottai, e
l’invettiva contro il salumaio non ha nient'altro che questo sapote.
L'equazione socialismo-proletariato , sostenuta dal Mannarese, è vacua e
falsa, dice Bottai, e bisogna distinguere, perché va da sé, afferma, che il
socialismo è uno dei tanti sistemi, i quali, da che il mondo è mondo,
si accaniscono sulla disparità di condizioni delle classi . Lo
esempio dato poi, del fenomeno dell’arditismo, è quanto meno sufficiente
e significativo a smentire una tesi tanto inutile. Infatti, in parecchi
mesi di convivenza con le fiamme nere mi son trovato attorno solo
contadini, operai, lavoratori-proletari! ; e gli arditi non erano certo
socialisti, anzi. Tuttavia l’autore è ben consapevole della portata
economica del socialismo e nello stesso tempo delle esigenze dei ceti
umili o dei proletari, e degli scompensi derivanti da queste esigenze anche per
la loro cattura da parte di un
socialismo ignorante e incapace. L'individuazione dell'errore di
dimensione del sociali smo è evidente, nonostante i successi già
conseguiti. Tanto che, concludeva il Botrai, nel cogliere le possibilità
della formazione di un letale assolutismo, con la postulazione della
differenziazione futuristica da esso, intesa nella diffusione di
programmi e di rimedi economici: Noi siamo per la elevazione del popolo,
e non per l'assolutismo di esso . Dove il nai , è evidente, si riferisce
ai futuristi ed al loro movimento. Tirando le somme , alla
fine, si postula petsino un programma, quasi, nei rapporti col
socialismo, di cui i punti più interessanti sono il secondo ed il quarto,
cioè l'ultimo. Il secondo postilla una possibile comunanza di
vedute economiche: il che non implica nessuna fusione ; l'ultimo sostiene
e ribadisce, sottolineandolo tutto in maiuscolo: CONTRO IL SOCIALISMO NON VUOLE
DIRE CONTRO IL PROLETARIATO. La miopia del socialismo nella
considerazione dei futuristi appare evidente e inequivocabile. E si parla del
socialismo dei primi del secolo, quello storicamente più capace di quanto non
lo sia l'attuale, e consono ad una realtà epocale ad esso, tutto sommato,
più favorevole. L’esito del socialismo italiano, confluito in massima
parte nel fascismo, non fa che confermare l'opinione o l’ipotesi
dei futuristi, che avevano saputo vedere la sua minima portata da
inserire, eventualmente, nel panorama di una prospettiva ben più vasta e
diversificata. A Fiume Gabriele D'Annunzio dà alla luce la sua Carta
del Carnaro . Siamo agli inizi del ’20 e la nuova proclamazione
statutaria sarà base fondamentale per la successiva politica sindacale fascista
(si veda la Carta del Lavoro ad esempio). Sempre a Fiume Mario Carli dirige
il nuovo foglio di vita istriama La Testa di Ferro, sulle cui
colonne (la seconda, per l'esattezza, della prima pagina) ;l 12 settembre
esce un riquadro firmato da Marinetti. Che così commenta la Prima
vittoria della quindicesima battaglia, come dice il titolo della pagina:
Nell’applaudite oggi D'Annunzio, liberatore di Fiume, penso che questo
meraviglioso genio riassuntivo della nostra razza, uscito dalle alcove
del Pizcere... dopo aver esplorato le profondità del la lussuria... ha
logicamente... strappato Fiume all’imperialismo europeo e americano, ed ora
deve, seguendo la linea della sua fortuna inesauribile, logicamente, con
genio sempre più rivoluzionario e futurista, liberare Roma dal Papato e dalla
Monarchia, e creare la grande Repubblica Italiana . Siamo di fronte
aul'ittedentismo integrale che i futnristi sostenevano contro
l’irredentismo mutilato di Bissolati, favorevole al Patto di Londra. Di
cui il movimento per contro chiedeva un’estensione , oltre che una
modificazione del Patto di Roma in modo che si potesse favorire l’inserimento
italiano sulla costa dalmata e garantire all'Italia l'egemonia
sull’Adriatico. Il Trattato di Rapallo, poco dopo, dichiarerà Fiume città
libera ed assegnerà Zara all'Italia. 11 24 e 25 maggio dello stesso
anno si tiene a Milano il IX Congresso dei Fasci di Combattimento, che
segna una svolta del movimento o anche si potrebbe dire una sua
conversione in senso conservatore . Si assiste ad un parziale ma
consistente ricambio del nucleo dirigente fascista. Solo 10 membri su 19 del
comitato centrale eletto a Fitenze vengono riconfermati: tra essi
Marinetti e Ferruccio Vecchi. Mussolini sostiene un nuovo
indirizzo: l'accordo fra proletariato e borghesia produttiva, tipico di
quel fascismo provinciale che stava prendendo il sopravvento. Marinetti
reagisce confermando la sua intransigenza antimonarchica ed antipontificia. I
Fasci di Combattimento, come riporta ancora il De Felice, avrebbero
dovuto, secondo Marinetti, iniziare una politica decisa in difesa delle
rivendicazioni proletarie, appoggiando e scioperi e agitazioni che siano
fondati o formulati su un principio di giustizia . Mussolini aveva cercato di
replicare che i Fasci hanno anzi aiutato gli scioperi che avevano un
chiaro contenuto economico , ma aveva sottolineato di non poter accettare
la pregiudiziale antimonarchica e: Quanto al Papato, bisogna intendersi:
il Vaticano rappresenta 400 milioni di uomini sparsi. Io sono, oggi,
completamente al di fuori di ogni religione, ma i problemi politici
sono problemi politici. Racconta lo stesso capo del futurismo nel
suo volume Futurismo e Fascismo pubbli cato quattro anni dopo, Marinetti
e alcuni capi futuristi escono dai Fasci di Combattimento, non avendo potuto
imporre alla maggioranza fascista la loro tendenza antimonarchica e
anticlericale . Gli altri capi futuristi sono Mario Carli e Neri Nannetti,
appena eletto a Milano come membro del comitato centrale per
Firenze. Ferruccio Vecchi si allontanò dai Fasci poco dopo, anche
per la crisi interna che stava attanagliando l’Associazione fra gli Arditi
d’Italia. La spaccatura risulta evidente all'uscita
dell’opuscalo Al di là del comunismo, pubblicato in agosto da
Marinetti, per giustificazione alle sue dimissioni ed in risposta
allo svuotamento della portata rivoluzionaria, o futurista, dei
Fasci di Combattimento. Al di lè del Comunismo sarà la sua seconda opeta
politica (dopo Democrazia futurista, del ’19), quella più ricca di spunti
e di idee: quella, insomma, sua fondamentale. L'opera è dedicata
sul colophox Ai futuristi francesi, inglesi, spagnoli, russi, ungheresi,
rumeni, giapponesi : it che esprime già tutto un programma. Fra le sue
tesi, dd esempio queste: Noi futuristi abbiamo stroncato tutte le
ideologie imponendo dovunque la nostra nuova concezione della vita, le nostre
formule d’igiene spirituale, il nostto dinamismo estetico, sociale,
espressione sincera dei nostri temperamenti d’italiani creatori e
rivoluzionari. L'umanità cammina verso l'individualismo anarchico, meta e sogno
di ogni spirito forte. Il Comunismo invece è una vecchia formula
mediocrista, che la stanchezza e la paura della guerra riverniciano oggi
e trasformano in moda spirituale... La storia, la vita e la terra
appartengono agli improvvisatori. Odiamo la caserma militarista
quanto la caserma comunista. Il genio anarchico deride e spacca il
catcere comunista. Fu questo passo a provocare la reazione
dell’Ardito? Che ben presto si fece sentire, a più riprese, per denigrare
il volumetto marinettiano, mentre al contrario La Testa di Ferro ad opera
di un gruppo di futuristi fiumani (e di Mario Carli, ardito a sua volta)
elogiava pubblicamente ed ardentemente il nuovo testo. Bottai, già fututista,
interverrà ben presto (sul n. 35 dell’Ardito) con una lettera aperta a
F.T. Marinetti per mettere in risalto la sua posizione critica all’atteggiamento
anarchichegpiante dello scritto, inconciliabile con qualunque espressione di
potere, sia pur di tipo tecnico , come quello a suo tempo proposto dallo
stesso padre del futuri smo. L'attacco di Bottai è senz'altro il più
autorevole e i] più significativo. L'ideologia del
fascismo-regime (da parte di un mini stro in pectore come Bottai)
cominciava già a farsi sentire. E si chiudeva, ovviamente, almeno sul terreno
storico della prassi politica, l'ideologia del fascismo-movimento, quello
dell’intransigenza e del fervore mistico, del libertarismo e
dell'avanguardia, dell'anarchismo e dell’antiautoritarismo verso la monarchia
ed il papato. Il possibilismo politico e il realismo tattico per la
conquista del potere subentrano e il fascismo-regime si muove ormai,
anche se lentamente, sotto la guida del suo abile e compromesso
condottiero. A Marinetti non restano che le dimissioni, e dopo il
suo canto del cigno politico (Al di là del comunismo), il ritorno alla
letteratura. 10. La dimensione futurista Nel 1921
esce a Piacenza per i tipi dell'Editore Porta il volume di Francesco
Flora Dal Romanticismo al Futurismo. Il giudizio più interessante è senz’altro
quello di Luigi Russo, che così si esprime al proposito: Il Flora,
mentre vi grida il superamento sillogistico dell’arte decadente, la guarigione
del suo spirito dal generale futurismo, passa poi egli stesso a fare
troppo rumorosa e compiaciuta mescolanza con quell'arte e con quel
futurismo . Pirandello pubblica nello stesso anno I sei personaggi in cerca
d'autore. Marinetti sostiene che sono ispirati al futurismo e al suo
spirito creatore. Il congresso socialista di Livorno si spacca, e dalla
scissione si forma il neonato partito comunista. A Catania vede la
luce la nuova rivista futurista Heschisch. Nel 1922 il fascismo
salirà definitivamente al potete. Marinetti fonda una nuova rivista, I{
Futurismo, che dirige in prima persona. A Berlino sarà poi tradotta
in edizione tedesca (Der Futurismus), a cura di Ruggero Vasari. Bragaglia
fonda a Roma il Teatro Sperimentale degli Indipendenti, primo teatro stabile
italiano, da Ivi di retto fino al ’36: metterà in scena duecento opere
d'’avanguardia fra quelle di autori italiani e stranieri. A_ Monza si
crea l’Istituto Superiore delle Arti decorative, trasformato poi in Biennale e
dal ’30 definitivamente in Triennale, con sede nel palazzo di Milano (al parco,
arch. Muzio). Mussolini, dopo la marcia su Roma del 28 ottobre, forma il
governo con radicali e liberali, e istituisce il Gran Consiglio del
Fascismo. Prezzolini, come sempre lucidamente, poco prima del grande
ritorno del futurismo al fascismo, metteva ancora una volta in risalto
come possa l'arte futurista andare d'accordo con il Fascismo italiano,
non si vede. C'è un equivoco, nato da una vicinanza di per. sone,
da un’accidentalità d’incontri, da un ribollire di forze, che ha portato
Marinetti accanto a Mussolini. Ciò andava bene durante il periodo della
rivoluzione. Ciò stona in un periodo di governo. Il Fascismo
italiano non può accettare il programma distruttivo del Futuri smo,
anzi, deve, per la sua logica italiana, restaurare | valori che
contrastano al Futurismo. La disciplina e la gerarchia politica sono
gerarchia e disciplina anche letteraria. Le parole vanno all’aria quando vanno
all'aria le gerarchie politiche. Il Fascismo, se vuole veramente vincere
la sua battaglia, deve ormai considerare come assotbito il Futurismo in quello
che il Futurismo poteva avere di eccitante, e di reprimerlo in tutto
quello che esso consetva ancora di rivoluzionario, di anticlassico,
di indisciplinato dal punto di vista dell’arte (da I/ Secolo, 3
luglio 1923). Nel marzo dello stesso 1923 s'inaugura alla
Galleria Pesaro di Milano una mostra dell'Arte del Novecento . Si
trattava di un gruppo formatosi alla fine del ’22 intorno alla medesima
galleria milanese, che affiancava la nuova tendenza del regime in senso
conservatote, già sancita dal 2° Congresso Fascista (Milano, maggio
1920). L'animatrice del nuovo movimento Arte del Novecento era Margherita
Sarfatti. Il gruppo fu accolto, neanche due anni dopo dalla sua costituzione,
alla Biennale veneziana del ’24, e si affermò definitivamente
attraverso due ulteriori mostre: una del '26 al Palazzo della Permanente
a Milano, e l'altra del ’29 alla Galleria Pesaro, sempre a Milano. I
futuristi invece, rimasti esterni al regime e aderenti ancora, in fondo,
all'avanguardia, furono ammessi alla Biennale solo nel ’26, e fuori dal
padiglione italiano additittura. All'inaugurazione della Biennale,
Marinetti si rivolge al Re, a Venezia in visita ufficiale, e gli denuncia
gridando l’incapacità senile e antitaliana della Direzione, che massacra
i giovani artisti italiani . L’intervento di Marinetti suscita scandalo. Tuttavia
nello stesso anno 1924 si verifica anche un cetto riavvicinamento tra futurismo
e fascismo, e forse anche tra Marinetti e Mussolini. L’occasione viene
data dall’edizione della terza ed ultima opera politica del capo
futurista, che, come già detto, s'intitola Futurismo e Fascismo, ed esce
a Foligno per i tipi dell'Editore Campitelli. Ancora nello stesso anno
escono diverse altre significative testate, futuriste ma anche fasciste. Mino
Maccari fonda I! Selvaggio (organo del fascismo strapaesano) ed
Enzo Benedetto a Reggio Calabria pubblica il foglio futurista Originalità, da
lui stesso direrto: compaiono fra i suoi collaboratori Marinetti,
Jannelli, Nicastro e Sanzin, Quest'ultimo scrive un saggio su Marinetti e
il futurismo. Gerardo Dottori, altra collaboratore di Originalità,
crea le prime aeropitture, che si affermeranno in seguito come
espressioni del secondo futurismo. A Milano si tiene il Primo congresso
futurista e Somenzi vi organizza le onoranze nazionali a Marinetti. Siamo
al 23 di novembre 1924, ore 10, al Teatro Dal Verme di Milano. Mino
Somenzi legge il telegramma di Mussolini: Considerami presente adunata
futurista che sintetizza 20 anni di grandi battaglie artistiche
politiche spesso consacrate col sangue. Congresso deve essere punto
di partenza, non punto di arrivo. Credi mia cordiale amicizia e ammirazione .
Alle 16 parla Marinetti, che conclude i lavori del congresso, così rivolgendosi
all’indirizzo del duce : I futuristi italiani, primi fra i primi
interventisti nelle piazze e sui campi di battaglia, e primi fra i primi
diciannovisti più che mai devoti alle idee ed all'arte, lontani dal
politicantismo, dicono al loro vecchio compagno Benito Mussolini: Con un
gesto di forza ormai indispensabile liberati dal parlamento. Restituisci
al Fascismo ed all'Italia Ia meravigliosa anima diciannovista,
disinteressata, ardita, antisocialista, anticlericale, antimo. narchica.
Concedi alla Monarchia soltanto la sua provvisotia funzione unitaria, rifiutale
quella di soffcare o mor. finizzare la più grande, la più geniale e la
più giusta Italia di domani. Non imitare l’inimitabile Giolitti, imita
il Grande Mussolini del diciannove. Pensa sempre all’Italia
immortale ed al Carso divino. Schiaccia l'opposizione cle. ricale
antitaliana di Don Sturzo, l'opposizione socialista antitaliana di Turati
e l'opposizione mediocrista di A’ bertini con una ferrea dinamica
aristocrazia di pensiero armato che soppianti l’attuale demagogia d’armi
senza pensiero. Tu puoi e devi fare ciò, noi dobbiamo volerlo e lo
vogliamo . Lo vollero, ma non lo realizzarono. La volontà può essere
bella, ardita, ispira ai più alti sensi di giustizia, anche se non sempre
la realizzazione le tiene dietro. Come in questo caso. Mussolini
telegrafa ancora il 1° marzo del ’25 ad un banchetto romano offerto da
Carli e Settimelli a Ma: rinetti: Sono dolente di non poter intervenire
al ban: chetto ofterto a F.T. Marinetti. Ma desidero che vi giunga la mia
fervida adesione che non è espressione formale ma vivo segno di
grandissima simpatia per l’infaticabile e geniale assertore di
Italianità, per il poeta innovatore che mi ha dato la sensazione
dell'oceano e della macchina, per il mio caro vecchio amico delle prime
battaglie fasciste, per il saldato intrepido che ha offerto alla Pa
tria una passione indomita consacrata dal sangue . Ma. rinetti si era già
trasferito a Roma con Benedetta. La capitale diveniva così anche centro
del futurismo. In que. sta stessa occasione Marinetti dichiarava,
un'altra volta inascoltato: Vi sono in Italia forze che osteggiano
la nostra idea imperiale, combattiamole, non dimenticando però fra
queste la più segreta e la più antitaliana: il Vaticano! Un discorso di
Mussolini alla Camera (3 gennaio 1925) dà inizio al vero fascismo-regime.
A Tortino si tiene a Palazzo Madama un'esposizione nazionale futurista.
La tendenza al riavvicinamento ira i due movimenti è già indicata
nella dedica di Futurismo e Fascismo: Al mio caro e grande amico Benito
Mussolini . Il che dimostra, in fondo, una certa volontà di non troncare
i contatti: ma anche gli scritti raccolti, gli articoli e le tesi
sostenute sono di tipo più che altro conciliativo. Mussolini vi è
definito meraviglioso temperamento futurista : e non risuoni però ad
adulazione, perché il tentativo di recupero del futurismo in senso artistico e
letterario (o cul turale in senso lato) è evidente, nonostante
l'occasionale dimensione del movimento nell'attività e nell'impegno
politico. Non senza motivo, il volume prende inizio con queste parole: Il
Futurismo è un grande movimento antiflosofico e anticulturale di idee,
intuiti, istinti, pugni... . E subito dopo: Fra le tante definizioni io
prediligo quella data dai teosofi: “I futuristi sono i mistici
dell’azione”. Infatti i futuristi hanno combattuto e combattono il passatismo.
Il nuovo regime e la portata storica di realizzazione di quello che si
considera il patrimonio del futurismo è così giudicato: Vittorio Veneto e
l'avvento del Fascismo al potere costituirono la realizzazione del
programma minimo futurista . Dove si dimostra in fondo la connessione
inscindibile tra futuri. smo e fascismo, ma nello stesso tempo il
distacco, in questa realizzazione minimale ; comunque la mancanza
di coincidenza totale delle entità ideali dei due blocchi. Questo
programma minimo , specifica ancora Marinetti, propugnava l'orgoglio
italiano... la distruzione dell'impero austro-ungarico, l’eroismo
quotidiano, l'amore del pericolo... . Ma, alla fine, quello che più conta
è che il Futurismo italiano, tipicamente patriottico, che ha
generato innumerevoli futurismi esteri, non ha nulla a che fare coi loro
atteggiamenti politici, come quello bolscevico del Futurismo russo,
divenuto arte di Stato. Il futurismo italiano fu sempre italiano, non mai
italiano di Stato. Il futurismo , afferma ancora il nostro, è un
movimento artistico e ideologico. Interviene nelle lotte politiche soltanto
nelle ore di grave pericolo per la Nazione , E un'altra volta a migliore
definizione della posizione concettuale o della sua immagine: Il Fascismo
nato dall'interventismo e dal Futurismo si nutrì di principî futuristi... Il
Fascismo opera politicamente... Il Futurismo opera invece nei domini infiniti
della pura fantasia, può dunque e deve osare osare osare sempre più temerariamente.
Avanguardia della sensibilità artistica italiana, è necessariamente sempre in
anticipo sulla lenta sensibilità delle masse. La consapevolezza
della difficoltà del consenso è più che sentita, ed è convinzione al
tempo stesso che il fascismo sia più capace di farsi accogliere o di
comunicare certe necessità, e certi principî. E la convinzione
implica la coscienza che sia il fascismo ad aver raccolto © mutuato
idee e posizioni dal futurismo, solo ed esclusivamente. Senza che mai sia
avvenuto il contrario. Ed appare evidente, perché non viene mai fatto cenno a
questa seconda ipotesi: che cioè sia stato il futurismo ad attingere al
fascismo. Anche se affiora l’autocritica , l’interrogazione, il domandarsi
sotterraneo della coscienza. Il lettore domanderà: “Ci sono idee
futuriste superate o da scartarsi, oggi?” Nulla da scartare. Le idee
vittoriose tengano fermamente le posizioni conquistate. Per esempio
questo principio: “Noi vogliamo glorificare la guerra, sola igiene del
mondo... le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”, fu
una pietrata feroce ma necessaria nel pantano letterario di sentimentalismo
dannunziano sulle cui rive singhiozzavano i giovani malati di luna e di donne
fatali. La condanna della decadenza di un romanticismo fiacco e sdolcinato
che ha irretito la realtà della Penisola è quanto mai chiara ed evidente.
E la volontà di scuoterla per una necessità di spirito, per una volontà
di resurrezione, per una coscienza ancora viva di grandezza e di capacità
creativa e rinnovatrice, porta inevitabilmente allo scontro e alla
conflagrazione, quella della guerra, che è guerra di sentimento e di
volontà, prima ancora che di occasione politica. Oggi , continua
Marinetti, l'Italia è piena di giovani forti e sportivi. Ma molti purtroppo
sacrificano ad una donna la loro volontà di conquista e l'avventura. Dopo
Vittorio Veneto io predicai la necessità per ogni combattente di
diventare un cittadino eroico. Oggi esiste uno Stato fascista che tutela il
diritto individuale. Ma bisogna alimentare ancora lo spirito del
cittadino eroico, amico del pericolo e capace di lotta, poiché occorretà
improvvisare domani gli indispensabili volontari della nuova guerra. Questa, lo
ripeto, è certa, forse vicina. Perciò è sempre vivo il grido futurista:
glorifichiamo la guerra sola igiene del mondo! Il Futurismo interprete
delle forze telluriche, il Futurismo, manometro della nostra penisola (caldaia
bollente!), odia i macchinisti incapaci. Si palesano tali i culturali
d’Italia che verniciati di patriottismo parlano oggi d’Impero, con un'anima
pacifista pronti ad imboscarsi al minimo pericolo. Essi ignorano che
Impero significa guerra. Votrebbeto conquistarlo con una lezione sulla
Roma Imperiale! . Ecco, ancora, la coscienza di cui parlavamo prima: quella
della curiosità antiquaria di una cultura d’accatto non più in grado di tenere
il passo della storia e di muovere lo spirito della giovinezza
vittoriosa. Marinetti lo coglie e lo esptime in una testimonianza, ancora
una volta, di vita e di speranza, che è vita perché è speranza del
futuro. Noi futuristi parliamo d’Impero convinti e lieti di
batterci domani... Parliamo d’Impero perché è venuto per l’Italia il
momento di prendere le tetre indispensabili. IÎ programma politico futurista
lanciato l’11 ottobre 1913 che propugnava una politica estera cinica
astuta e aggressiva è più che mai di attualità. Le idee vittoriose
tengano fermamente le posizioni conquistate. Le nuove idee si
slancino all'assalto. Marciare non matcite! . Firmato: Marinetti. Il futurismo ha dimostrato di
voler procedere sulla strada del nuovo: il fascismo lo ha accolto ed ha
accondisceso, almeno fino a un certo punto, al suo messaggio. Oltre è
stato frenato, forse, non solo dal borghesismo , ma anche da quel
socialismo, che avanti non è mai stato capace di andare e che di nuovo ha
portato solamente vuote formule e fantasmi. Non così il futurismo, ben
aderente al reale, e capace di ritirarvisi anche, nel caso di
inadempienza (o di mancanza di corrispondenza) della realtà ai suoi
messaggi. Marinetti docet, proprio con quel fascino che aveva
voluto, o con cui aveva marciato, e in cui aveva creduto senza marcire
mai, nemmeno nell’auge del regime, quando avrebbe potuto sedersi sulle comode
poltrone di un otmai arrivato futurismo di destra . Ma il futurismo per
Marinetti era e rimaneva comunque movimento d'avanguardia artistica e
culturale, nonostante gli agganci più 0 meno politici, più o meno di
regime, e nonostante l'amicizia con Mussolini, che poteva anche essere un
futurista , ma era e doveva essere prima di tutto il capo dello Stato e
il duce del Fascismo . E il fascismo aveva preso e doveva tenete ormai una
certa linea, molte volte non gradita, o valida, per il futurismo, ed anzi
proprio al contrario. La gloria di Roma rievocata nel
monumentalismo classicheggiante, il novecentismo ricalcante vuoti
modelli di un fasullo rinnovamento filotradizionale, la riesumazione del
mito della storia come copia di grandezza e novella misura di falsa gloria,
erano tutti temi aborriti da Marinetti proprio perché segni ed indici di
passatismo , messaggi sterili di una mentalità ferma e statica,
incapace di dare alcunché di vitale all'Italia in movimento. Marinetti
era invece, e rimaneva, anche nel fascismo e nonostante il fascismo, futurista
, come lui amava definirsi, e come lo rimanevano anche altri, non tutti
però, anzi forse troppo pochi. Marinetti, quindi, futurista, e
futurista nonostante tutto, fu forse fascista solo ed esclusivamente per quel
che il futurismo poteva consentirgli di essere. Ma fu anche grande
oratore Marinetti, e fu oratore d’arte, oratore di genio letterario e
improvvisatore della parola, più 0 meno libera o in libertà che fosse.
Mussolini fu oratore politico e parlava, anche, nella ricerca del
consenso. Marinetti invece fu poeta, e parlava per stimolare la
curiosità, per muovere l'incanto dell'espressione. La sua oratoria fu
essenzialmente artistica, il suo discorso fu culturale e poetico.
Mussolini forse in parte la imitò, sempre attenendosi all’oratoria
politica e trasformando il messaggio letterario in presenza ideologica e
in colloquio popolare . Forse qui sta inoltre la differenza fra i due
movimenti: il futurismo avanguardia di rottura e il fascismo sistema di potere.
Anche se il primo l’aveva spinto e sorretto nella sua azione di
conquista. Il fascismo è allora per un suo aspetto futurista, e non
invece il contrario. E' la realizzazione di quel piogramma minimo futurista che
abbiamo già esaminato. E Mussolini si può dire fosse stato anche
futurista, o comunque molto vicino al movimento di Marinetti. E gli
era stato anche amico, o c’era stata una reciproca comunanza di
sentimenti, che non esula dall’amicizia. Ma Mussolini era stato anche
socialista, anzi lo era stato davvero e fino in fondo . Che fosse anche per
questo che i futuristi non potevano essere completamente fascisti? O non
si potevano identificare completamente nel regime? Almeno i futuristi
autentici, quelli più idealisti . Il futurismo era stato sempre e
comunque antisocialista, in modo integrale, totale come si è visto. E lo
era stato dall’inizio antisocialista, per la sua posizione culturale, per
il suo intendimento antimilitaristico ed antiegualitario, per il suo slancio
antipassatista di svecchiamento. Lo schiaffo ed il pugno, la
velocità e l’aggressione, la lotta e la vittoria erano tutti temi o
motivi antisocialisti. Il fascismo, nonostante tutto, era meno antisocialista.
In primo luogo per le origini del suo capo, per la sua formazione-estrazione,
per i suoi intendimenti di visuale che non si erano spenti del tutto, ma
si erano solo attenuati e modificati: e si erano travasati, anche,
nella novità del futurismo. Comunque, e malgrado questo, il fascismo
rimase e resta agli atti della storia un movimento di massa , una
realtà sociale , un fenomeno popolare, un sistema del numero in scala
comunitaria e nazionale: questo è acquisito, ed è incontestabile. E non
può essere confutato dagli storici seri. Mussolini lo volle e lo promosse
que. sto popolarismo e, se vogliamo anche, riuscì lenta. mente e
gradatamente ad imporlo . Ma non volle mai l'uguaglianza o il
livellamento, e cercò sempre di favo. rire la distinzione
dell’individualismo. Lo stimolo stesso alla competizione nel campo
dell’arte e l’amicizia con l’amico-nemico Marinetti ne sono garanti.
L’amicizia fra i due personaggi non fu esclusivamente un fatto episodico
o della prima ora; fu un fatto profondo e vitale, forse inalienabile ed
assoluto . E durò, a controprova del vero, fino alla morte. Quando
Marinetti, reduce dalla guerra di Russia per cui si era arruolato
volontario (malgrado i suoi 64 anni), aderiva alla Repubblica Sociale
Italiana dopo i tragici fatti dell’armistizio, dimostrava sino all'ultimo
fede ad un’amicizia e ad un'idea, comunque e nonostante tutto. Marinetti era
partito per la Russia all’insegna della coerenza, non potendo contraddire
il suo messaggio della guerra sola igiene del mondo . Messaggio che anche
il duce aveva sentito, forse
tragicamente e forse fuori tempo. Ma lo aveva comunque sentito, e
l’amicizia con Marinetti e la sua nomina ad Accademico d'Italia lo
dimostra. Quando avrebbe benissimo potuto bruciarlo . E aveva anche sentito che
il nuovo secolo richiedeva un cambiamento, che si doveva in qualche modo
maturare. Volle promuoverlo e accelerarlo (da futurista ?),
intervenite e spingere l'avanzata fino all'assurdo. Ne rimase coinvolto e
definitivamente inghiottito . Marinetti si era salvato, e con se stesso
aveva salvato la poesia. La guerra (leggi: politica) non poteva
averla distrutta. In età avanzata era rientrato a vivere brevemente, a
lottare fino all’ultimo per consegnare a Venezia un messaggio, quello vitale e
ineliminabile verso il futuro . I suoi discepoli lo accolsero come un testamento
e qualcuno lo trasmette ancora per testimonianza. Nonostante la
trasmutazione dei tempi e le difficoltà del presente. Lo documenta ancora per
la verità storica e per la risonanza dell'oggi. E, forse, per un nuovo futuro
di domani. 12. Sindacalismo futurista II fascismo
aveva creato la Carta del Lavoro , che ricalcava a sua volta quella ptima
espressione originale di emissione statutaria d’impronta sociale, che era
stata la dannunziana Carta del Carnaro . Ma già prima i futuristi
avevano inteso una loro sindacalizzazione in senso artistico, ed avevano
ancora una volta concepito un manifesto. Si tratta del manifesto al
governo fascista del 1° maggio 1923 intitolato I diritti ertistici
propugnati dat futuristi italiani. I diritti rimasero in gran
parte sulla carta, ma l’intenzione era evidente: quella di creare una specie di
carta sindacale per la costituzione dei sindacati artistici futuristi ,
atti alla difesa ed all'assistenza degli artisti eventualmente bisognosi.
Oggi quel poco che offre il sindacalismo dell’arte è dovuto per lo più al
sindacalismo futurista e, in parte, a quello fascista. Ma l'idea del
mutuo soccorso e della solidarietà del lavoro era già presente nella mentalità
futurista, orientata sempre verso giustizia (in questo caso, giustizia
dell’arte). Il proletariato delle rappresentanze artistiche è fatto ben noto,
e non da oggi: non ne furono esenti i futuristi, che anche in
questo senso furono rivoluzionari veri e propri, e cercatono comunque il
rinnovamento. E vollero un’istituzione che li garantisse dalla loro precarietà,
dalle loro difficoltà e dalla loro miseria. La Banca di Credito per
artisti fu iniziativa di Marinetti, in seguito approvata e patrocinata
dal duce . Che così rispose per l’occasione all'amico futurista:
Mio caro Marinetti, approvo cordialmente la tua iniziativa per la
costituzione di una Banca di Credito specialmente per gli Artisti. Credo
che saprai sormontare gli eventuali ostacoli dei soliti misoneisti. Ad ogni
modo questa lettera può servirti di viatico. Ciao, con amicizia.
Mussolini . Si trattava di una vera € propria forma di
assicurazione del denaro che doveva favorire gli artisti, o soddisfare le loro
necessità. Ma non solo Îa costituzione della Banca di Credito chiedeva il
manifesto del ’23, firmato da Martinetti per la direzione del
movimento-futurista e per tutti i gruppi futuristi italiani . Si volevano
anche realizzare: 1) Difesa dei giovani artisti italiani novatori
in tutte le manifestazioni artistiche promosse dallo Stato, dai Comuni e
private... 2) Istituti di credito artistico ad esclusivo beneficio degli
artisti creatori italiani [dove si propone l’apertura d’istituti di
credito per la sovvenzione di artisti, manifestazioni artistiche ed Istituti
d'arte. Tali istituti si manterrebbero con la buona volontà degli
aderenti, se privati, o con imposte sui redditi di guerra, pet esempio,
se statali. Le opere d'arte depositate costituirebbero valorizzazione
fruttifera per l’artista medesimo, ecc., n.d.r.] Agevolazioni agli artisti
[tramite il riconoscimento legale dei diritti d’autore, la
riduzione del 75% della tariffa per i viaggi degli artisti e il trasporto
delle loto opere, l'abolizione delle tasse doganali nell’importazione ed
esportazione delle opere d’atte, il catico sull’assicuratore delle spese
per lettere di cambio o assicurazioni delle opere d’arte, ecc...,
n.d.r.]. Come si vede i futuristi guardavano sì al futuro, ma
stavano ben calati nel presente e cercavano di opetare e di agire
di; presente pet migliorare e per rendete più giusto il uturo. Col
ritorno all’ordine , come si definisce dagli storici l'affermazione del
fascismo e la sua lenta istituzionalizzazione in regime, si parla anche di
modifica del futurismo 0 di suo adeguamento ad una nuova realtà sistematica e
organizzativa, conseguita al periodo rivoluzionario; e si chiacchiera ancora di
secondo futurismo. Anche se il futurismo, primo o secondo che fosse,
non ha mai avuto a che fare con l'istituzionalizzazione del l'arte
nell’ordine fascista . Dice il critico Enrico Crispolti in un suo saggio, e lo
asserisce in modo categorico e definitivo: In questo senso è politicamente
inammissibile e culturalmente scorretta una liquidazione del Secondo
Futurismo in quanto collusivo out court con il fascismo. Ma
come si atriva a questa seconda definizione del movimento? E poi
eventualmente alla sua demonizzazione 0 fascistizzazione in senso
politico? Avevamo già visto nel ’24 Gerardo Dottori provare le sue
prime aeropitture. Nel frattempo i futuristi continuano a scambiarsi
esperienze ed a lavorare intensamente. È ad esporre spesso e volentieri, anzi
velocemente e freneticamente, alla futurista . Nel 1926 vengono invitati
diversi futuristi italiani alla International Exhibition of Modern Art di New
York. Nello stesso anno alla IX Biennale d'Arte di Reggio Calabria
espongono Depero, Tato, Benedetto, Rizzo, Fillia e Dottori. A_Milano
intanto al Palazzo della Permanente si allestisce la seconda mostra, che
abbiamo già visto, del Novecento, ormai in auge e prossimo ad assurgere
ai fasti della glo. ria del potere. C'è anche la dichiarazione ufficiale
del neocostituito Gruppo 7 di architettura, composto da Terragni, Libera,
Frette, Figini, Pollini, Rava e Larco. I futuristi partecipano alla Biennale
di Venezia. A Torino, all'Esposizione Nazionale, ? Enrico Crispolti, Appunti
riguardanti i rapporti fra futurismo e fascismo, in Arte e Fascismo in
Italia e Gertania, Feltrinelli, Milano 1974, 54. si allestisce un
padiglione di architettura futurista, con opere di Sant'Elia, Sartoris,
Balla, Fillia, Prampolini e Chiattone. Nel 1929, 33 futuristi
espongono ancora alla Pesa: ro di Milano (Balla, Farfa, Benedetto,
Lepore, Dottori, Marasco, Tato e Prampolini). Azari pubblica il suo
Primo dizionario aereo; Balla, Fillia, Depero, Marinetti, Tato,
Somenzi, Benedetto, Rosso, Prampolini e Dottori lanciano il famoso Manifesto
dell’Aeropittura. Terragni termi. na 2 Como la costruzione di Novocomum,
nuovo edificio residenziale periferico. Marinetti è ‘accolto il 18
matzo nell'Accademia d’Italia, insieme a Fermi e Pirandello, su
istanza personale di Mussolini. Esce per le Edizioni di Augustea,
Roma-Milano, il volume Marinetti e il Futurismo, quarta ed ultima
espressione di letteratura politica del capo futurista. L’opera ricalea
in termini ancor più encomiastici e di supporto il già conciliante Futuriszzo e
fascismo. Il volume esce ancora dedicato Al grande e caro Benito
Mussolini , definito questa volta già nella prima pagina temperamento
esuberante, strapotente, veloce. Non è un ideologo. Se fosse un ideologo,
sarebbe incatenato dalle idee che sono spesso lente, e dai libri che
sono sempre morti. Egli è invece libero, scatenatissimo. Fu
socialista e internazionalista, ma soltanto in teoria. Rivoluzionario sì, ma
pacifista mai . Il che equivale a dire futurista . Del
socialismo di Mussolini abbiamo già parlato, e della sua portata teorica,
a questo punto effettivamente e praticamente confermata. Del futurismo
fascista di Marinetti si sono scritti
fiumi d’inchiostro e sproloqui di parole. La dimostrazione più lampante
della sua partecipazione estetna al fascismo e della sua continua difesa
del futurismo e delle avanguardie è data dal rifiuto di onorari e
prebende: unica accettazione per contto, quella dell'Accademia
d’Italia, che gli servì poi per difendere il fututismo e per lanciarlo meglio
in Italia ed all’estero. Terragni realizza un monumento a
Como su un disegno di Sant'Elia (che era stato totalmente rielaborato da
Prampolini) in occasione delle Onoranze Nazionali all'architetto
futurista Sant'Elia , che viene commentato anche alla Pesaro di Milano.
Marinetti pubblica Futurismo e Novecentismo. Molti futuristi partecipano
alla IV Mostra delle Arti Decorative di Monza ed alla XVII Biennale di
Venezia. Nello stesso anno Ma. rinetti pubblica a Torino sulla Gazzetta
del Popolo i) Manifesto dell’Aeropoesia, che fa eco a quello dell'Aeropittura
del *29. E’ il momento dello sviluppo aereo e dell’aeronautica: è giusto
che il futurismo si muova nella direzione del progresso e senta, ritragga
e proietti la nuova dimensione aerea dello spazio verso il futuro. Esce a
Roma il nuovo quotidiano L’'Impeto. Nel 1932 la Galleria Pesaro allestisce una
mostra vera e proptia, ed esclusiva, di aeropittura . Fortunato
Depero ottiene che gli venga concessa una sala personale alla XVII Biennale
veneziana. Prampolini erige un plastico a ricordo di Marconi a Roma per
la Mostra della Rivoluzione Fascista. La partecipazione futurista è
segno della nuova collaborazione politica. Ciò non toglie che le
realizzazioni esprimano intenti d'avanguardia. L’Istituio Editoriale Italiano
pubblica per la prima volta i Manifesti del Futurismo, in quattro volumi.
Fillia fa uscire il periodico Le Città Nuova e Sartoris il volume
sugli Elementi dell’Architettura funzionale; Terragni comincia la
costruzione della Casa del Fascio di Como. Mino Somenzi fonda il nuovo
periodico Futurismo, definito settimanale dell’artecrazia italiana .
Cambierà poi titolo in Atfecrazia. Hitler sale al potere e sconfessa
l’arte moderna (l'espressionismo, nella fattispecie). Vasari organizza con
Marinetti una mostra futurista a Berlino nel tentativo di promuovere, e di far
recepire le avanguardie al nuovo regime. Nel settembre dello stesso anno
il Congresso nazista di Norimberga condannerà al rogo l’arte degenerata .
Esce la rivista Diamo futurista, diretta da Depero; il periodico di
architettura Casebella è invece diretto da Pagano, mentre Bardi e Bontempelli pubblicano
Quadrante. Prampolini progetta una stazione per aeroporto civile al padiglione
futurista della V Triennale di Milano, mentre al Castello Sforzesco si
organizzano le onoranze nazionali a Boccioni, con la presenza di
Paul Klee, Piet Mondrian, Pablo Picasso, Vassily Kandinsky ed Ezra
Pound. Nel 1934 Depero lancia un nuovo manifesto
dell’Aeroplastica, sempre sulla falsariga di quello dell’Aeropittura. Fillia e
Prampolini pubblicano a Torino la nuova rivista Stile futurista, dalle cui
colonne Prampolini attacca Hitler per le posizioni naziste sull’arte
espresse a Norimberga. I futuristi partecipano ancora alla XIX Biennale
di Venezia. Ad Amburgo Ruggero Vasari e Marinetti difendono l'avanguardia in
occasione della mostra Aeropittura futurista italiana , organizzata
appositamente in polemica alle censure naziste. A Lipsia ancora Vasari
pubblica Aeropittura, arte moderna e reazione, che dimostra la voce della
nuova avanguatdia italiama improntata ai progressi aeronautici ed in
polemica contro i soliti passatisti censoti . Marinetti parte volontario
per la guerra di Etiopia. A Parigi viene organizzata una mostra
futurista. A Roma i futuristi partecipano alla II Quadriennale. Marinetti
pubblica l’Aeropoema del Golfo della Spezia, che ispirerà poi ancora
molti aeropittori. Nel 1936 Prampalini realizza un salone da riunioni per
municipio alla VI Triennale di Milano. I futuristi partecipano alla
XX Biennale di Venezia. Muore Fillia esponente del primo futurismo
. Mussolini proclama l’Impero. La mostra di Monaco attacca e denuncia
l’arte degenerata con esemplificazioni e dimostrazioni . Viene messa in luce
per contro, o in risalto, l'arte sana nazista. Cominciano le polemiche e
le divisioni di fronti. Il fascismo ufficiale e d'ordine attacca, e nuove
violente polemiche scuotono l'avanguardia. Il Popolo d'Italia e IL
Perseo, diretto da A.F. Della Porta, muovono guerra al futurismo.
Quest'ultima rivista aveva già polemizzato, insieme a Il regime fascista
di Farinacci, con l’architettura razionalista di Bardi e Terragni:
Noi siamo dell’opinione , si legge su Il Perseo del 15 giugno 1937,
che il Fascismo ha tutto da perdere da un’alleanza col Futurismo e sia pure da
una semplice connivenza. Risponde il periodico Artecrazia di Somenzi che
contrattacca in prima persona a sostenere l'avanguardia e il futurismo. Difendo
il Futurismo è la raccolta dei testi di Somenzi pubblicati sulla rivista. Editi
nel '37, sono l’opera più coraggiosa e significativa della polemica per
la lotta dell’avanguardia. Futurismo di destra e futurismo di
sinistra L’avanguardia, del resto, è sempre eterogenea e sfaccettata.
Ecco perché si parla di destra e di sinistra
all'interno del futurismo nella fase della maturità (il cosiddetto
secondo futurismo). Destra e sinistra sono termini abusati e inflazionati
, buoni per tutto. Se ne fa spesso uso eccessivo ed improprio,
semplicistico e gratuito. D'altra parte, poiché avviene ancora e
soprattutto oggi, non si vede perché non dovesse avvenire allora,
quando anche si parlava, al tempo, di fascismo di destra e di fascismo di
sinistra. Il centro, almeno nelle avanguardie, non ha tendenze, o
ne ha molto pache e solo per qualche momento. Il centro ha poche
tensioni, pochi impulsi vitali, di rinnovamento. Il centro , quindi, risulterebbe
amorfo, inutile, privo di idee 0 spirito di catatterizzazione.
L’avanguardia allora sta a destra 0 a sinistra : non è mai al centro, o
almeno è difficile che lo sia. Il futurismo fu forse un’avanguardia di
destra se intendiamo per destra una certa qual spinta ideale d'impronta
bergsoniana o nietzschiana: poteva però essere anche di sinistra per le sue
istanze sociali. O poteva essere al di là della destra e della sinistra ,
per ricalcare una espressione del pensatore tedesco. Sta di fatto
che il futurismo non fu mai di centro . Ma se si vuole dar credito a
quello che comunemente si intende otmai per destra , si deve anche
accogliere un futurismo di destra , o rivolto verso destra : se è
vero che a destra sta la conservazione, lo spirito borghese, il richiamo all’ordine
ecc. ecc. E se è vero per contro che a sinistra sta la spontaneità o lo
spontaneismo, la sincerità, la schiettezza, l'onestà e quindi anche la
miseria e la rivoluzione : ecco, allora, esiste anche il futurismo di
sinistra . Com'è possibile? La polemica, anche se non sembra vero,
fu proprio di quegli anni. Comincia Bruno Corra con un fondo di prima pagina su Futurismo, diretto dal
Somenzi, n. 27 del 12 marzo del 1932, anno I e X dell’Era Fascista
. Il titolo è già sintomatico: No: futuristi di destra. Anche se
Corra aveva usato il termine destra con le attenuazioni del caso, affermava che
l'essenza del Futurismo è e non può non essere rivoluzionaria . E ancora,
a specificare meglio il concetto: ... Bisogna dire che nel nostro movimento i
termini di sinistra e destra non si oppongono, perdono cioè il loto significato
convenzionale. La mentalità futurista supera il contrasto fra il
sovvettimento e la conservazione, in quanto si libera di continuo in uno
slancio creativo , tanto per la precisione dei termini e la puntualizzazione
del linguaggio. E siccome il linguaggio ci investe di una sua moralità,
ecco che è bene tenerne conto quando ancora il Corra così sottoli
nea: Mi pare che qui si tratti, prima di tutto, di una questione di
moralità. Dare al Fututismo quel che al Fututismo appartiene: e non truccare il
proprio ingegno con un'etichetta di convenienza. Chi si dichiara
avanguardista ma non futurista, sputa nel piatto dove ha mangiato . E fin qui è
tutto chiaro e conseguenziale. Ma vediamo come ancora il Corra continua: Poi,
lo stabilirci questo principio; che il privilegio di poter restare
nella sfera magnetica del Futurismo pure affermando, nella propria opera
un temperamento realizzatore di destra, debba accordarsi soltanto a
coloro che han dimostrato di sapere essere integralmente futuristi. E
reclamerei il diritto di sedermi a destra, per mio conto, in nome della
mia effettiva collaborazione al Futurismo più rivoluzionario... .
Insomma, essere stati di sinistra per poter essere poi di destra , o aver
fatto i rivoluzionari in gioventù, per poter pai sedere tranquillamente
sugli scanni del concreto o nella comodità del reale (di quando,
cioè, x si è arrivati ). Può darsi sia vero, pur
se non proprio giusto 0 corretto il ragionamento, ma concreto sì ed anche, che
ci piaccia o meno, realistico. La polemica inizia ed. è un
susseguirsi di botte e risposte. Fra tutte vediamo come replica Paolo
Buzzi su un altro fondo di prima pagina dello stesso Futuriswo n. 30,
anno II, del 2 aprile 1933. Il titolo è anche questa volta
emblematico, Estrema sinistra, puntualizzato poi meglio nell’occhiello
: Non c'è che un futurismo: quello di estrema sinistra. Dove si
sancisce la necessità dell'avanguardia a sinistra , e la sinistra del
futurismo, l’unica possibile. Questo, e non altro, è il vero futurismo.
Perché dovrei sedermi a destra, proprio io? Mi sembrerebbe di tradire la
causa di Aeroplani, di Ellisse e la Spirale, di Cavalcata delle
vertigini... . E ancora: Questo è futurismo: e di ultra estrema sinistra. Le
mie autonomie sintetiche di anime e di sensi, le mie aeropitture di tipi
e di paesaggi, i miei cosmopolitismi spaziali e i miei intimismi votticosi,
stanno per una intransigenza etico-estetica che costituisce, ormai, la
gioia (ed, un pochino, anche la gloria) della mia lunga carriera di vomo
che ha sempre fatto dell'Arte come il sacerdote celebra messa. Aviatore
sempre, adunque: fante o stradino, non mai . E conclude poi, con patole un
po’ altisonanti e troppo, forse, di effetto: I giovani, quelli veramente
degni di questo nome primaverile, sanno che al di fuori e al di sopra
d'ogni inevitabile chiasso letterario, la parola “futurismo” risponde
alla sola unica vera “idea forza” che oggi esista nella sfera ideale
del mondo: e che è in grazia di essa, unicamente di essa, se oggi
la Poesia della miracolosa Italia fascista vive e vivrà . Dove si dimostta
ancota una volta, come se non bastasse, il collegamento tra futurismo e fascismo,
almeno nella loro spinta spontaneistica e rivoluzionaria.
Dobbiamo comunque tenere conto del tempo della pubblicazione di questi
articoli, nel °32 e '33, in pieno ed affermato regime. Ecco, quindi,
anche, il senso di una destra e di una sinistra , di un futurismo
ancora giovane ed esuberante, e di un altro futurismo per contro
già assiso sugli allori della gloria o sul comodo giaciglio della meta
raggiunta e della calma del riposo. Quando cioè il fascismo, movimento
politico rivoluzionario, eta diventato regime , ed aveva, per così dire,
assunto le sue caratteristiche sembianze (almeno fino a un certo
punto). Perché il futurismo, così come era sotto, in fondo si era
voluto mantenere. AI di là dei tentativi di conglobamento o di cattura
della sua entità esercitati dal regime o da singole personalità fasciste,
alcune delle quali, magari, erano state futuriste o vicine al futurismo.
Tuttavia era e restava, il futurismo, in fondo, quello di sempre:
solo ed esclusivamente un movimento d'avanguardia. Futurismo ed
ebraismo Innumerevoli differenze separano il popolo russo dal popolo
italiano, oltre a quella tipica che distingue un popolo vinto e un popolo
vincitore. I loro bisogni sono divetsi e opposti. Un popolo vinto sente morire
in sé il suo patriottismo, si rovescia rivoluzionariamente e plagia
la rivoluzione del popolo vicino. Un popolo vincitore come il nostro vuol fare
la sua rivoluzione, come un aeranauta getta la zavorra per salire più in
alto... Non esiste in Italia antisemitismo. Non abbiamo dunque ebrei da
redimere, valutare o seguire , sosteneva Marinetti: e lo diceva nella sua
opera già esaminata A! di là del Comunismo. Lo riportiamo non tanto per
rilevare le diffe renze fra rivoluzione futurista e rivoluzione
bolscevica 0 spirito comunista, quanto per far rilevare quale era
la posizione di Marinetti nei confronti degli ebrei già nel 1920.
Gli ebrei da redimere, valutare o seguire sono evidenti: Marx ed Engels.
Il problema invece si affaccia, come tutti sappiamo, sul volgere del '38
e all'alba del °39. Il Manifesto del Razzismo italiano, quello degli
scienziati del 14 luglio ’38, e la Carta della Razza, cui fanno seguito le
leggi razziali sulla falsariga dell’antisemitismo tedesco, danno
buon gioco alla cultura dell’ordine , quella più direttamente
sostenitrice o affiancatrice del regime. Secondo Crispolti il
tentativo della cultura legata alla destra reazionaria fascista di
profittare della campagna antisemita per promuovere un'edizione italiana
della operazione nazista dell’“arte degenerata” è un aspetto notevole
dell’azione pubblicistica che precedette e accompagnò quei provvedimenti.
L'azione pubblicistica era condotta da Telesio Interlandi in prima persona, che
attacca spesso e volentieri Marinetti, il futurismo e le avanguardie attraverso
il suo periodico: dal Quadrivio, settimanale romano ad impronta razzista, al
quotidiano romano Il Tevere, a La difesa della razza. Oltre a Interlandi
si distinguevano Preziosi con il mensile La wite italiana, e Farinacci
con Il regimze fascista, quotidiano di Cremona. L'arte moderna è un tumore
che deve essere tagliato non che si debba esibire come una gloria
nazionale sol perché piace a Marinetti , aveva affermato I/ Tevere
del 24-25 novembre 1938, pubblicando un’antologia di esempi d’arte
degenerata italiana. Quadrivio aveva a sua volta proposto un referendum
contro l'arte moderna considerata in blocco bolscevizzante e giudaica ,
ma senza alcun successo. Marinetti rispondeva con una
manifestazione indetta il 3 dicembre 1938 da lui e Somenzi al Teatro
delle Atti di Roma. E Somenzi stesso lo accompagnava con un fondo
polemico su Arfecrazia, n. 117 del 3 dicembre, dal titolo Razzismo. Ad
esso facevano seguito sul n. 118 dell'11 gennaio 1939 due articoli (Arte e...
razzia, e Italianità dell’arte moderna), ancora in posizione di attacco,
aspro e violento. Quest'ultimo, firmato Artecrazia pottò a determinare la chiusura stessa
del giornale. Non è escluso Crispolti, Appunti riguardanti 1 rapporti fra
futurismo e fascismo che lo avesse scritto proprio lo stesso Marinetti
(con Somenzi). Il pretesto di voler colpire con l’antigiudaismo l’arte
moderna era messo all'indice dell'accusa. Si dimostra così ancora una
volta lo spirito d'avanguardia con cui il futurismo e i futuristi operavano, sia
pur sotto le bandiere del regime, ma in fondo in opposizione a una
cultura d’ordine e di conservazione, priva di spunti nuovi e originali, o
addirittura chiusa ai contatti e alle avanguardie europei sotto il
pretesto dell'antigiudaismo, che non poteva certo essere aperto a nuove
esperienze. Nel 1940 entta in guerra l’Italia. Marinetti parla
Per l’italianità dell’arte e tiene un discorso al Teatro delle Arti
a Roma sulla bellezza aeropoetica della guerra meccanizzata . Intervengono
Radice e Terragni a difendere l’arte moderna. Declatmano Marinetti,
Farfa, Scrivo, Monachesi e Berardi. La rivista Autori e Scrittori
pubblica il manifesto Nuova estetica della guerra. A Genova Mari.
netti parla su La poesia e la guerra nel Salone dei Professionisti e
degli Artisti, dove si declamano poesie di Mazzotti e
Balestreri. Bosso lancia il nuovo Manifesto dell’Aerosilografia. Nel
1942 Marinetti pubblica Carto eroi e macchine della guerra
mussoliniana. Poi parte volontario a raggiungere le truppe italiane in Russia.
Rientrerà nel ’43 malato, e già intaccato nella salute. Mussolini cade il
25 luglio e Marinetti si trasferisce a Venezia, dopo l'8 settembre. Il
fascismo è finito, ma il futurismo ancora continua. 16. Il futurismo
tra ieri e oggi Dopo la morte di Terragni a Como per malattia
contratta sul fronte russo, Marinetti aderisce nel 44 alla neo-costituita
Repubblica Sociale Italiana. A_Venezia riceverà gli ultimi futuristi,
rimastigli fedeli nonostante il declino : Crali (ancora vivente) e Andreoni
(recentemente scomparso). A loro vorrà consegnare il futurismo perché non muoia
con lui. Si trasferisce poi a Cadenabbia sul lago di Como e muore a
Bellagio nella notte fra il 2 e il 3 di dicembre, per crisi cardiaca (i
funerali di Stato porteranno le spoglie a Milano, al Cimitero
Monumentale). Postuma a lui e alla fine del fascismo (repubblicano) si
pubblicherà la sua ultima opera, che così inizia: Salite in autocarro
aeropoeti... Si tratta del Quarto d'ora di poesia della X Mas, in cui
l’invocazione all'avanguardia alita uno strano ed inevitabile senso di morte,
violento ed inesorabile. Ma l'avanguardia è, pare, ineliminabile,
tant'è che il futurismo continua come espressione artistica almeno, anche
se ormai non più politica. I suoi epigoni lo sostengono ancora, con le parole e
con le opere. Crali Primo Conti a Milano e a Firenze, Sartoris a Losanna,
Di Bosso ed Anselmi a Verona, Enzo Benedetto a Roma portano ancora
avanti il suo programma d'avanguardia. Con parole e con scritti, con
opere e con progetti, col messaggio dell’arte sempre e comunque. I seguaci di
Marinetti si rifanno a lui e sostengono con vivacità e con brio la
vitalità di una prospettiva che si vuole sempre rinnovare. Questo
è ancora, malgrado tutto, il valore attuale del futurismo. Quello di
un'avanguardia italiana aperta alle avanguardie europee, ma avanguardia
comunque e valorizzatrice in ogni caso dell'arte. Che dev'essere libera
e moderna, nuova ed attuale, viva e presente ai suoi tempi. Per
questo deve ancora schiacciare le pastoie dei vecchiumi passatisti , deve
smuovere il conservativo e assalire i fantasmi di prolungamento di polverosi e
sclerotici retaggi. Deve insomma comunque essere avanguardia. Il
messaggio futurista, in questo senso, è ancora attuale. Ce lo dicono
Crali e Benedetto, fra gli altri, con le loto testimonianze. Che ci
aiutano a tivedere la dimensione del futurismo: una dimensione presente in
tanta odierna penuria di originalità nel moderno, presente almeno come
forza dinamica nella prospettiva di migliori, più aperti, e più geniali
futuri. SCHIAVO SOFFICI, MARINETTI, BOCCIONI, RUSSOLO
SANT'ELIA, SIRONI, PIATTI FUTURISMO E GUERRA SOLA IGIENE DEL MONDO.
Ben presto si manifesta l'interesse dei futuristi per la politica. Nel
1911 Marinetti pubblica giò un mani festo politica , che sarà la sua
prima espressione di intervento nelle cose pubbliche. Tyripoli
Italiana vuol dire presenza dell’Italia
e primato dell’Italia; vuol dire guerra ed espansione, allargamento del
vitalismo italiano, e vittoria. Il panitalianismo si esprime e si dichiara
apertamente, per la prima volta. L'avanguardia politica deve
accompagnare l'avanguardia artistica. E il primato italiano in arte st
deve manifestare anche in politica, nella forza dell'espansione del genio
(al tempo, di arbizione coloniale). Poco dopo la Libia, è la volta
dell'Austria. L’amore della guerra non può che portare a voler V'intervento. Ci
sembra significativa la penna di Soffici su Lacerba del ‘14, dove si osa
dire la verità e mettere in luce la finzione del moderatismo neutralista
(cattolico o socialista che sia). Il manifesto, dedicato
all'orgoglio italiano , è già un manifesto di guerra. Per questo lo
riportiamo interamente, a dimostrazione della fiducia e dell’ottimismo degli
artisti combattenti, la loro convinzione della forza attiva e dello
funzione battagliera dell’arte PER LA
GUERRA Valvola Essere italiano (mi piace ripeter qui che
adoro il popolo italiano) non è in generale gran fatto entusiasmante, in
questa nostra epoca. Ìn questi ultimissimi tempi, confesserò che per conto mio
mi vergogno un poco di portar questo nome. E’ un sentimento che si è
andato sviluppando leggendo i giornali, e posso anche ammettere che
una tale causa non meriterebbe di produrre un tale effetto; ma i giornali son
tutta la nostra vita ormai e purtroppo. E. dai giornali italiani si alza e si
propaga un tal lezzo d'abbiezione e d’imbecillità che chi ha un po'
di cuore e di spirito non può fare a meno di sentirsene sof.
focato. E' una gara in cui corrispondenti, redattori ordinanati e straordinari,
politicanti e governo fanno del loro meglio per sorpassarsi a vicenda.
Non che siano espliciti nei loro articoli e nei loro comunicati, ma la
bassezza tra spare e offende. Sono reticenze abbiette, raccomandazioni
infami, voltafaccia vergognosi, silenzi più vergognosi anco: ra. Si sente
che il calcolo idiota comanda e regola tutti questi spiriti subalterni.
La guerra? Le mani in mano? Questo enimma terribile non è affrontato a viso
aperto, ma una battaglia vinta o persa lontano detta il tono ed il
catattere (anche tipografico) della notizia, del commento o della nota
ufficiosa. Dà il là all’elucubrazione insulsa del machiavello
rimbastardito. La stampa italiana è opgi come oggi l’indizio della più
ripugnante psicologia e mentalità che possa avere una nazione. Davanti al
mondo che com Tralasciamo i paragrafi: Toccami il naso, Grandezzate, e
Sublimità, che ci sembrano poco significativi dal punto di vista
politico, per riprendere con Socialismo, molta più denso e
pregnante. batte e soffre, accanto a una civiltà che difende le sue
le nostre ricchezze dal sacrilegio di un'orda senza stotia, noi siamo il
leguleio diseredato di viscere, sollecito della sua trippa mediocre che
occhieggia le fortune dei popoli, e risponde di sbieco o tace aspettando
dietro lo schermo della sua neutralità. Non hanno il coraggio
questi figuri di dirla una buona volta ta verità. Ditelo che siete i più
ignobili rappresentanti di un paese che è miserabile perché non vi calpesta
come cimici. Ditelo che vi mancano il cuore e i testicoli. Ditelo che
avete paura. O confessate almeno che dietro la vostta prudenza c'è
la vostra impotenza, la verità che ci buttano in faccia i nostri
alleati quando fra una batosta e l'altra voglion levarsi il gusto di
pigliarci per il bavero. Che cioè l’Italia non ha quattrini, non ha armi,
non ha munizioni e che i suci magazzini son vuoti come la badia di
Spazzavento. E ci sono infine i socialisti. Io non ho un'esagerata
antipatia pet i socialisti. Trovo che la loro cravatta rossa, il loro sol
dell’avvenir, i loro discorsi in piazza, e generalmente tutto ciò che li
caratterizza, così a occhio e croce, sono un tantino ridicoli; ma le case
popolari, l'aumento delle mercedi operaie e tutto ciò che il proletariato deve
loro di miglioramenti per la vita di tutti i giorni sono cose ottime e
sante. Ciò non toglie che una cosa mi stupisce straordinariamente ogni
volta l'intravedo e mi stupirà in eterno: la loro mentalità. Si rivela
spessissimo in questi giorni, e sempre a proposito della neutralità italiana. I
socialisti l'’ammettono, non solo, ma la vogliono perpetua. Io sono e resto un
fautore ogni giorno più convinto della neutralità per la pace ha
dichiarato in un referendum uno di loro. E voleva forse dire (giacché è
difficile immaginare una neutralità per la guerra) che lui e il suo
partito sono per la pace a ogni costo. Giacché, ed eccoci alla mentalità
di codesto partito, ogni buon socialista non vede nella guerra, qualunque
essa sia, se non una lotta di capitalisti e banchieri contro capitalisti e
banchieri i quali si servono del proletariato per liquidare le loro partite.
Ammettiamo che in ogni guerra ci sia un sostrato d'interessi; ma non c'è
altro? Per i socialisti non c'è altro. L'idea che i socialisti si fanno
del mondo è questa: un capitalista borghese e sfruttatore alle
prese con un magro popolano sfruttato. La cultura, le scienze, le arti,
le delicatezze, l’eleganze, i raffinamenti, le filosofie, la bellezza, i
sentimenti, gli amori, le passioni -— tutto ciò insomma che fa la vita
così terribilmente complessa, così colorita, così varia, multiforme,
incoercibile non è nulla per loro. Tutto è grigio, e l’universo intero
una specie di ragnatela squallida senza confini né orizzonti,
eterna, in mezzo alla quale un ragno cerca di succhiare una mosca alla
quale Marx ha insegnato che non deve lasciarsi succhiare.
Così, nella guerra presente, che cosa importa se intere nazioni
difendono una civiltà che è la nostra, le libertà conquistate le idee
stesse dei socialisti contro i nemici che sono gli stessi nemici dei
socialisti? Per i compagni di Filippo Turati non si tratta che della
solita altalena dei capitali sulle povere spalle del popolano e bisogna
astenersi. E parlo espressamente degli ufficiali ex cattedra, giacché
agli altri, a quelli del colloquio coll’emissario tedesco, dobbiamo l’atto
forse più nobile e generoso che si sia compiuto in Italia in quest'ora di
straordinaria bassezza. Il trionfo della merda La cieca incoscienza dei
socialisti ufficiali e l’untuosa malafede dei cattolici alla Meda (ecco
un uomo cui manca indicibilmente l’erre!) si possono anche capire in un
momento come questo, chi consideri la speciale mentalità di codesti
gruppi e la messa in giuoco violenta dei principî e degli interessi di
tutti. I primi, i socialisti, non d'altro solleciti che di
vuote teoriche malamente idealistiche, non possono vedere nella
guerra se non un fatto inquietante, uno di quei fatti che afferrando tutto
l’uomo ne mettono in mato ogni energia vitale il che è sempre a scapito
certo delle ideologie unilaterali, e credono l’'opporvisi con tutte le loro
energie una coerente difesa dell’idea mentre non si tratta in fondo
che di un semplice istinto di conservazione. I secondi, i cattolici, sanno
benissimo che un nostro intervento nel conflitto attuale favorendo il trionfo
di popoli tutt'altro che asserviti alla secolare imbecillaggine papale,
significherebbe un indebolimento considerevole della loro compagine, e
maschetano di prudenza pattiottica il loro desiderio di vedere ancora
l’Italia ribadir con la sua neutralità incondizionata i vincoli che la fanno
setva e complice del bigottismo e dell’inciviltà eutopea. Contro gli uni e
gli altri, se si può usar del disprezzo, non sarebbe dunque logico
indignarsi. Ma c’è una massa dei nostri connazionali che nessuna collera,
nessuna abominazione potrà mai bollate con l’infamia che merita la sua
straordinaria abbiezione. E' Ja massa oscura, anemica informe degli
irresponsabili, dei disamorati, degli abulici: dei parassiti della
società e della vita. Non vedendo nulla più di là della lora piccola
tranquillità presente, del loro affare meschino, del loro affetto senza
energia; rincantucciati nel loro buco momentaneo al sicuro dalla burrasca
che gli sgomenta soltanto a intravederla nelle corrispondenze del loro mediocre
giornale, essi credono che nulla possa essere più profittevole del
prolungare, sia pure a costo di ogni mortificazione, questo stato d’incolumità
ruminativa nell'ombra e in margine alla storia. Chè se domani la
preponderanza in Europa di una razza di pachidermi violenti, chiusi a
ogni luce di vera intelligenza, conculcherà ogni espressione geniale di
vita; se i popoli cui si lega una comunanza di cultura, di ricordi e di
tradizioni, saranno mortificati e asserviti a un’etica da ingegnere
belligero e spia; se le nostre stesse fortune intellettuali, morali e
materiali saranno manomesse e asservite, che cosa importa a questi miopi
sdraiati nella loro flaccidezza quietovivente? A costoro importa che l’oggi sia
senza strepiti e senza pericoli, che il tran tran dell’esistenza seguiti:
felici se l'Italia potrà uscire dal rotto della cuffia e sia magari
verso l'abisso. Così nessuno si affida con più sicurezza di loro
alle decisioni del nostro governo. Il govetno italiano che fino ad oggi
s'è dimostrato come la quintessenza di questa materia fiscale, perché non
d -*ebbe divenirne anche la stella fatale? L’ospizio degl lidi della Consulta
è il faro naturale di questa marea .ercoraria che monta. Poi ché
essa monta, trionfando. Ogni giorno che passa nella passività, ogni
occasione perduta, ogni ambizione abdicata, ogni nuova difficoltà creata
servono ottimamente al suo incremento e alla sua propagazione. Siamo già
a buon punto. Dopo aver impedito con tutto il suo peso ripugnante ogni
movimento, questa massa pestifera ha già una voce per dire che muoversi
ora è troppo tardi. Ancora poche settimane e sarà forse vero, e tutti
saremo sommersi per sempre. Amici! Noi abbiamo parlato e scritto: abbiamo
propugnato tutto il calore delle nostre anime per oppotci alla
vigliaccheria inaudita di una bella parte dei nostri concittadini. Credo che il
momento di una lotta più diretta e dura stia per giungere. Le armi della
mente e del cuore stanno per esaurirsi. Bisognerà ricorrere alle altre,
se non vogliamo che l’Italia piombi al livello della più vergognosa
fra le nazioni. Un paese che abbia per scrittori dei Paolieri e la Nazione come
giornale ufficiale. Arvenco SOFFICI [da: Lacerba, n. 18, 15,
settembre 1914; e n. 19, 1° ottobre 1914] L'ORGOGLIO
ITALIANO Il 13 Ottobre, nella prima perlustrazione fatta da me agli
ordini del capitano Monticelli e del sergente Visconti in terreno nemico,
a 6 Km. dalle nostre trincee, fra le alte roccie a picco, nelle boscaglie
e nelle pietraie dell'A] tissimo, dopo esserci incontrati con una
pattuglia austriaca che ci voltò le spalle e fuggì, constatammo con gioia
la superiorità enorme della nostra artiglieria, i cui tiri meravigliosi,
passando su di noi e sul lago, sostenevano la nostra avanzata in Val di
Ledro. Nella seconda perlustrazione fatta da me, dai miei amici
futuristi Boccioni e Sant'Elia e dal pittot Recci, esplorando e
occupando la trincea delle Tre Piante, constatammo con quale gioconda
disinvoltura dei giovani pittori e poeti italiani possano trasformarsi
in audaci, rudi, instacabili alpini. Durante l'avanzata,
l'assalto e la presa di Dosso Casina, compiuta dai Volontari ciclisti lombardi
e da un battaglione di alpini, vedemmo le truppe austriache sgominate
dalla baldanza di pochi italiani diciassettenni e cinquantenni, non
allenati alla guerra in montagna. Dopo aver matciato per 7 giorni in un
foltissimo nebbione, con vestiti quasi estivi malgrado la temperatura di
15 gradi sotto zero, i Volontari ciclisti pernacchiavano allegramente
alle migliaia di sbrapne!s prodigati loro da 5 forti austriaci. I nuovi
raccoglitori di bossoli e di schegge micidiali facevano finalmente
dimenticare gli stupidissimi e sentimentali raccoglitori di
edelweiss. Constatammo che degl'italiani, già operai, impiegati o
borghesi sedentarii, sapevano vincere in astuzia qualsiasi pattuglia di
Kazserjigers. Constatammo che un corpo di 300 valontati ciclisti
improvvisati alpini sapeva strategicamente manovrare su per montagne ignote,
con tale abi lità che il nemico si credette accerchiato da migliaia
d’uomini. Constatammo che uno studente italiano, trasformato in ufficiale, può
comandare tutta l'artiglieria d'una zona e sfondare coi suoi tiri 6 o 7
forti austriaci, scientificamente preparati alla difesa in 20 o 30 anni.
Constatammo come il popolo italiano, sotto la direzione geniale di
Cadorna, abbia saputo improvvisare in pochi mesi la prima artiglieria dei
mondo e vincere di continuo nella più spaventosa e difficile guerra che sia mai
stata combattuta. Singhiozzammo di gioia all’udire dalla viva voce di 20
o 30 giornalisti esteri, quali Jean Carrère e Serge Basset,
che l'esercito capace di vincere e di avanzare sul Carso è sicuramente il
primo esercito del mondo. Dopo aver visto il popolo italiano, il più
mobile di tutti i popoli , liberarsi futuristicamente, con una scrollata
di spalle, dalla lurida vecchia camicia di forza giolittiana, vediamo ora nelle
vie milanesi fervide di lavoro, come il popolo italiano, che sembrava
avvelenato di pacifismo, sa guardare con fierezza questa nobile, utile e
igienica profusione di sangue italiano. Tutto questo ci conferma una volta
di più che nessun popolo può uguagliare: il genio creatore del popolo
italiano; l'elasticità improvvisatrice di cui sempre danno prova
gl’italiani; la forza, l’agilità e la resistenza fisica
degl'’italiani; l'impeto, la violenza e l’accanimento con cui gli
italiani sanno combattere: la pazienza, il metodo e il calcolo degl'italiani
nel fare una guetra; il firismo e la nobiltà morale della nazione
italiana nel nutrirla di sangue o denaro. ITALIANI! Voi dovete
costruire l'Orgoglio italiano sulla indiscutibile superiorità del popolo
italiano în tutto. Questo orgoglio fu uno dei principii essenziali dei
nostri manifesti futuristi dall’origine del nostto Movimento, cioè
da 6 anni fa, quando primi e soli (mentre l’irredentismo agonizzava e il
partito Nazionalista non era ancora nato) invocammo violentemente, nei
teatri e sulle piazze, la guerra come unica igiene, unica morale educatrice,
unico veloce motore di progresso. Eravamo allora sicuri di vincere
l’Austria e di centuplicare il nostro valote e il nostro prestigio
vincendola. Eravamo soli convinti della prossima conflagrazione generale,
che tutti giudicavano impossibile in nome di due pseudo-fatalità: lo
sciopero delle Banche e lo sciopero dei proletariati. Eravamo convinti
che coll’Inghilterra, la Francia, la Russia, noi dovevamo utilizzare le nostre
inesauribili forze di razza e il nostro genio improvvisatare,
collaborando allo strangolamento del teutonismo, fatto di balordaggine
medioevale, di preparazione meticolosa e d’ogni pedanteria
professorale. Apparve allora il mio Monoplan du Pape, visione
profetica della nostra vittoriosa guerra contro l’Austria. Infatti noi soli
fummo profetici ed ispirati, perché, più giovani di tutti, più poeti, più
imprudenti, più lontani dalla politica opporttunistica e quietista, traemmo la
visione del futuro dal nostro temperamento formidabile, e pur constatando
intorno a noi la vecchia mediocrità italiana, credemmo fermamente nell’avvenite
grande dell’Italia, semplicemente perché noi futuristi eravamo
Italiani. ITALIANI! Voi dovete manifestare dovunque questo orgoglio
italiano e imporlo in Italia e all'estero colla parola e colla violenza, come
facemmo noi in Francia, nel Belgio, in Russia, nelle nostre numerose
conferenze battagliere. Merita schiaffi, pugni e fucilate nella schiena
l'italiano che non si manifesta spavaldamente orgoglioso d’essere
italiano e convinto che l'Italia è destinata a dominare il mondo col
genio creatore della sua arte e la potenza del suo esercito
impareggiabile. Merita schiaffi, pugni e fucilate nella schiena
l'italiano che manifesta in sé la più piccola traccia del vecchio
pessimismo imbecille, denigratore e straccione che bha caratterizzata la
vecchia Italia ormai sepolta, la vecchia Italia di mediocristi
antimilitari (tipo Giolitti), di professori pacifisti (tipa Croce, Treves,
Ferti, Turati), di archeologhi, di eruditi, di poeti nostalgici, di
conservatori di musei, di albergatori, di topi di biblioteche e di città
morte, tutti neutralisti e vigliacchi, che noi, primi e soli in Italia,
abbiamo denunciati, vilipesi come nemici della patria, e veramente
frustati con abbondanti e continue doccie di sputi. Merita
schiaffi, calci e fucilate nella schiena l’artista o il pensatore
italiano che si nasconde sotto il suo ingegno come fa lo struzzo sotto le sue
penne di lusso e non sa identificare il proprio cotgoglio coll’orgoglio
militare della sua razza. Merita schiaffi, calci e fucilate nella schiena
l’artista o il pensatore italiano che vernicia di scuse la sua viltà,
dimenticando che creazione artistica è sinonimo di eroismo morale e
fisico. Merita schiaffi, calci e fucilare nella schiena l'artista o il
pensatore italiano che, fisicamente valido, dimostrando la più assoluta assenza
di valore umano, si chiude nell’arte come in un sanatorio o in un
lazzaretto di colerosi e non offre la sua vita per ingigantire l’Orgoglio
italiano. Mentre altri futuristi fanno il loro dovere
nell’esercito regolate, noi futuristi volontari del Battaglione
lombardo, dopo essere stati semplici soldati in 6 mesi di guerra,
ed aver preso cogli alpini la posizione austriaca di Dosso Casina,
aspettiamo ansiosamente il piacere di ritornare al fuoco in altri corpi,
poiché siamo più che mai convinti che alle brevi parole devono subito
seguire i pronti, fulminei e decisivi fatti. La sensibilità e l'acume
politico d'avanguardia dei futuristi non
potevano rimanere indifferenti di fronte ai loro avversari 0 alla controparte
dell'avanguardia, quella socialista. La reciprocità dell'opposizione al potere
liberalborghese, a passatista per dirla alla Marinetti, era motivo di
accostamento, forse, 0 per lo meno di attenzione da ambo le parti. E
sappiamo dal De Felice che molti proletari o esponenti dei ceti
umili osservavano con attenzione e seguivano il movi mento di Martinetti
con calore di simpatia. C., fra i più sensibili esponenti certo del
futurismo d'assalto , si accorge della presenza di elementi comuni nelle
avanguardie, e lancia un appello da Roma futurista # 13 /uglio del ’19
nel tentativo forse di un avvicinamento. L'avvertimento della necessità
di rovesciare la classe dirigente corrotta e impreparata offre una base
comune all'intento di collaborazione per il sostegno del proletariato,
operaio od ex combattente che sia. La polemica continua sulla stessa testata,
nel numero del 92 novembre dello stesso anno con un arti colo di
Giuseppe Bottai dal titolo Futurismo contro Socialismo. L'immpossibilità
di collaborazione è già vista dal Bottai con tutta la sua evidenza, ed è
vista per ragioni squisitamente ideologiche, rifacentesi gi presupposti
filosofici del socialismo e del socialismo italiano, in particolare. Il
14 dicembre ancora del ’19, entra nella polemica un socialista, certo
Moannarese, cui vengono aperte le colonne di Roma futurista @ fargli sostenere
più o meno la stessa tesi di Bottai, anche se vista da angolazione
marxista, dogmatica e inequivoca bile. L’impossibilità della
collaborazione è data dalla ostrattezza del futurismo secondo Manmarese,
e dal suo scarso od insufficientemente risaltante contenuto
sociale, che esula dall'unico e imprescindibile metodo possibile:
quello della lotta di classe. L'ultima battuta è ancora del Bottai ed
esce la settimana dopo, sul numero del 21 dicembre ‘19 dello stesso
periodico. La puntualizza zione degli argomenti e la precisazione dei
temi e delle tesi di pensiero son lutte protese a dimostrare lo sincerità
filo-popolare del futurismo e la falsità democratica del socialismo per cui è
quasi necessario essere contro il socialismo, ed indispensabile, se si ama
il popolo italiano, quello dei proletari arditi con cui anche Bottai
aveva combattuto nelle trincee al fronte della prima guerra. Noi siamo
per l'elevazione del popolo, e non per l'assolutismo demagogico di esto,
sottoli neava l'autore, concludendo a grandi caratteri Contro il
socialismo non vuol dire contro il proletariato . Ho esaminato seriamente
l'ipotesi di una collaborazione fra noi (futuristi, arditi, fascisti,
combattenti, ecc.) e i Partiti cosiddetti d'avanguardia: socialisti ufficiali,
riformisti, sindacalisti, repubblicani. A parte il fatto che, in
realtà, essi siano assai meno precursori ed audaci di quanto a parale
vogliano far credere, io mi sono preoccupato esclusivamente di cercare il
terreno comune nel quale si possa, noi e loro, associare gli sforzi e marciare
d'intesa verso lo stesso obiettivo. Il terreno comune c'è. Ed è
quanto di più nobile e attraente possa offrirsi a degli spiriti
sinceramente amanti del progresso e della libertà. E' la lotta contro le
attuali classi dirigenti, grette, incapaci e disoneste, si chiamino borghesia o
plutocrazia o pescecanismo o parlamentarismo. Non è possibile lasciar loro più
oltre la potenza del denaro e il potere governativo e amministrativo;
sono una casta che deve cadere e cadrà. E’ questa caduta che noi
dobbiamo affrettare, con tutti i mezzi e con tutte le fotze
disponibili. Or ora, l'esperimento del caro-viveri in tante
città d’Italia, ci ammonisce che di fronte a problemi gravi e
pressanti, non c’è odio di parte né antipatia sentimentale che tenga. Noi
possiamo ben dare (e l'abbiamo data) una valida mano ai pussisti per
impedire che il popolo sia affamato. Non pottebbero i socialisti vedere
nel nostro gesto disinteressato e leale una prova della nostra simpatia
per il popolo, si chiami combattente o si chiami operaio, e riconoscere
che la nostra azione tende, quanto e più forse della loro, ad equiparare
le classi sociali? Esiste un Marifesto del Partito Futurista, ed un
libro di Marinetti dal titolo Democrazia futurista , dove è
condensato quanto di più moderno, di più progredito, di più
spregiudicato, di più audace e rivoluzionario si può oggi pensare nel
campo politico. Ma i partiti pseudo-avanguardisti e pseudo-rivoluzionari
ostentano di ignora. re e manifesto e libro, né mai hanno fatto il più
timido gesto di simpatia o d'interesse verso idee o remperamenti ai
quali dovrebbero sentirsi attratti per istinto! Perché? Eppure noi siamo
libertari quanto gli anarchici, democratici quanto i socialisti, repubblicani
quanto i repubblicani più accesi. Si tratta dunque di mala fede?
Pare di sì, perché, se non fossero in mala fede, costoro dovrebbero
inginocchiarsi davanti a noi e chiamarci come loro capi. Se la loro lotta
politica fosse sincera e convinta (parlo special mente dei pussisti),
dovrebbero ammirate senza riserve il nostro spirito rivoluzionario che,
dopo aver schiantato quella fetida cancrena del passatismo europeo che si
chiamava Impero d’Asburgo e contribuito a umiliare il tracotante militarismo
tedesco, vuole oggi demolire a colpi di bomba i vecchi sistemi, i regimi
decrepiti, i focolai di putredine che costituiscono la grande cloaca
politica italiana. Se fossero in buona fede, dovrebbero riconoscere
che noi soli, uomini di guerra che non ignoriamo il piombo e
l’acciaio laceratore di carni, sapremo, a tempo debito, scatenare e
condurre una rivoluzione, non già dal Quartier Generale di una qualsiasi
Camera del Lavoro, ma alla testa delle moltitudini in marcia.
Se fossero in buona fede, sapete che cosa dovrebbero dire questi
organizzatori di masse a scopi elettorali? Ci direbbero Venite qua,
futuristi, arditi, fascisti, combattenti tutti: voi che siete più rivoluzionati
di noi, più audaci di noi, più liberi di noi, voi che amate il
popolo più sinceramente di noi! Venite qua, uomini d'azione e di
comando: a voi il guidare le masse verso la libertà e la ricchezza! a voi
il rovesciare i vecchi sistemi, i vecchi dogmi e le vecchie tirannidi!
noi ci ritiriamo nei ranghi. Perché non lo fanno?
Perché questi falsi socialisti che scrivono in giornali luridamente
borghesi come Il! Tempo e La Stampa, per ché pagano bene, si sfiatano a
chiamarci reazionari della borghesia, carabinieri più dei carabinieri, a
diffamarci imbecillescamente? Perché hanno respirato di soddisfazione
all'avvento del reazionarissimo gabinetto Nitti e complici? Perché
hanno lanciato dalle colonne dell’Avanti pochi giorni fa, un grido
d'amote alla censura che se n’andava, promettendole di richiamarla con
tutti gli onori non appena il socialismo ufficiale fosse salito al
potere? Perché tentano di far credere ai soldati che gli ufficiali
combattenti costituiscono una casta borghese, quando i soldati ricordano
ancora il loro tenentino che in trincea si adagiava nello stessa fango,
mangiava nella stessa gavetta, correva gli stessi rischi, buscava le
stesse ferite, come ciascuno di loto? Perché non si decidono
a riconoscere che la guerra ha liberato il mondo dall'incubo
dell'imperialismo germanico e ha impresso alle conquiste ideali e materiali
dei popoli un ritmo di fantastica velocità, che, senza di essa, non
si sarebbe neppure sognato? Perché seguitano a confondere guerra
rivoluzionaria con militarismo, socialismo con bolscevismo, popolo
con pagliacci tesserati? Perché combattono gli Arditi, che
pure sono usciti dal popolo, e del popolo rappresentano la parte più
vigorosa e combattiva? Perché si ostinano a ripetere con tediosa
monotonia che la guerra è stata voluta dalla borghesia, attribuendo
dunque a questa classe un vanto che certo non le spetta? Ho
lanciato l’invito. Ho mostrato ai nostti avversari il terreno sul
quale potremmo intenderci, e le pregiudiziali antipatiche che
c’'impediscono un avvicinamento. Sapranno essi spogliarsi di queste
pregiudiziali che sono altrettanti errori gravissimi?
Sapranno a loro volta dirci una patola onesta e schietta di simpatia
disinteressata? Se capiranno che è assurdo e bestiale continuare una
campagna diffamatoria contro una guerra che si è chiusa vittoriosamente e
che, malgrado tutto, ha giovato enormemente al proletariato, se capiranno
che noi pur amando fieramente l'Italia, non abbiamo nulla a che fare con i
nazionalisti reazionari, codini Fb) e clericali, essi ci
tenderanno la mano e ci aiuteranno a spezzare tutte le schiavitù che
ancora ci sovrastano. Dopo, potremo tornare a divorarci, se sarà
necessario. Marro CARLI {da: Roma futurista) Bisogno, ad ogni
sosta, di guardare attorno. Vedere un po' come va la vita, la cui visione
precisa, a volte, si perde nel martellamento sanguigno della lotta.
Misurare i compagni e gli avversari. Riprendere le distanze. Ci teniamo molto,
via via che più si ingarbuglia il fascio di forze e di tendenze del mondo
politico italiano, a rittovare i nostri contorni. Pulirli. Indurirli sì
che si rimbalzi sopra qualunque tentativo di penetrazione impura.
La lotta di partiti, nel suo svolgimento poco netto, si traduce
rispetto a noi futuristi, assertori del predomi. nio della genialità
italiana, in un lavoro di isolamento. Le scorie cadono. La marcia viene
schizzata via dalle contrazioni atletiche della nostra carne
sana. Solitudine splendida. Nella costituzione organica dei vari
aggregati di parte noi siamo il cetvello possente che domina, e
comanda alle tre membra funzioni del tutto subordinate. In questa
immagine somatica, il partito socialista ufficiale rappresenta, rispetto a noi,
l'intestino retto, maceratore e scaricatore d'ogni feccia. Un
compito troppo importante, come bene ha detto l’amico Settimelli, per
poterlo disprezzare. Ci vuole. Solamente è bene che non si
dimentichi mai la sua posizione assolutamente accessoria. La
nostra antipatia per il socialismo in genere, pet il socialismo italiano
in particolare, ha delle ragioni profonde balzanti dall'istinto della nostra
razza di cui noi siamo i rappresentanti più interiori, con tutti i suoi
difetti se si vuole, ma anche con tutte, t44te, le sue doti di energia,
di intelligenza, di ardimento. E distinguiamo ciò che sempre si può giustificare
nel quadro infinito della vita, l'idea, da ciò che, appunto perché nella
vita, si ha il dovere di discutere e di espellere, quando ne
arresti il libero svolgimento. Idee e uomini.
Socialismo e socialisti italiani. Noi siamo contro il
socialismo perché astrazione filosofica senza possibilità di contatti vitali.
Simbolo che si agita nel mondo da secoli, e di cui mai si è
trovata, e mai si troverà la formula di traduzione in positivi sviluppi
di masse sociali. Meditazioni di uomini respinti dalla vita calda e
vibrante, per un ingranaggio disgraziato della loro mente incapace di
aderire alla bellezza appas sionante del mondo. La riforma che l'idee
socialiste propugnano, non nasce da noi, dalla nostra maniera di essere, dalla
nostra natura di uomini, dal nostro modo di riunirci e dividerci.
Cala dall'alto, da cieli metafisici. Ha l’impotenza caratteristica di tutte le
religioni meditate, ragionate, logiche, e non create dallo slancio lirico
di un'anima d'uomo. Marx ed Engels hanno costituito delle sopra
realtà gigantesche che tutti hanno dichiarato magnifiche, ma che
nessuno ha avuto il coraggio di criticare, appunto perché la critica
umana non si può esercitare su delle concezioni prive di umanità.
Boris d’Ysckull, uno di quei mistici slavi capaci di bere ogni
miscela più insipida, ha confessato di non aver mai compreso quasi niente
di simili esposizioni dommatiche, e di essere stato attirato solo per la loro
oscurità affascinante. Chi, italiano, può così rinunziare alla vulcanica e
solate natura da itrigidirsi in questi mondi senz'aria, non può che trovarsi
nell’identica posizione dell’illustre imbecille surricordato. Le prime
utopie della Città, mantenentesi allo studio di immaginose e
dilettose; invenzioni nei primitivi Platone, Tommaso Moro CAMPANELLA
(vedasi) passando a peggior vita nelle scatole craniche dei tedeschi, si sono
meccanizzate in modo da di venire delle cose perfettamente anti-geniali,
anti-latine e, soprattutto anti-italiane. Noi fututisti, che abbiamo
violentato il vuoto e sognante torpore italiano riempiendolo di idealità fatte
di vita, intessute di nervi sensibili, calde di sangue rossissimo,
vogliamo una penetrazione a fondo nel blocco psicologico della nazione: ivi è
la direttiva unica delle trasformazioni che il nostro destino esige. Noi
siamo contro l’idea socialista perché sosteniamo la necessità della
diseduguaglianza. Diseduguaglianza di valori, che bisogna esaltate,
lievitare, mantenere ad ogni costo. Un piano uguale di esistenza, una
distribuzione armonica dei beni, una soppressione assoluta di privilegi
ma su questo livellamento di condizioni materiali l’esplicarsi diverso,
individualissimo delle singole capacità. II socialismo, pretendendo
distruggere la molteplicità innata di un popolo non può, in via logica,
che discendere dalla nazione alla città alla famiglia, dalla famiglia
all'individuo, e quindi alla creazione di tanti individui identici, a
stampo, senza differenze di tipi. Il comunismo, ch'è la forma più in
voga, non può tradursi, a meno di negatsi, che in un monismo esasperante,
monotono e inerte. La Russia ce ne dà la prova: la massa oppone al
tentativo di numerazione, che offre appena una pallida idea, per il
carattere più pacato e passivo di quel popolo, di ciò che avverrebbe da
noi. L'Italia è tutta un magnifico inno di incoerenza, dal
l'Alpi alla Sicilia. Follemente varia. Ogni provincia un mondo.
Popolazioni dolci come le sue pianure, laboriose come i suoi fiumi,
divampanti come i suoi vulcani. Noi non possiamo pensare che tutto
ciò si riduca a un uniforme impasto. Noi futuristi opponiamo la necessità
assoluta di un decentramento che mantenga, esalti, vivifichi fino al
culmine ogni caratteristica, ogni genialità, ogni attitudine delle singole
regioni: l’unità italiana sarà allora una valorizzazione completa di
sufta i'Ttalia.Siamo contto il socialismo perché idea generatrice di
vigliaccheria. Della gente che riuscisse davvero ad attuare la
distribuzione economica dello Stato socialista, dovrebbe basarsi su un concetto
di mutualità cooperativistica. Cooperativa a mutuo soccorso vuol
dire la sicurezza matematica di non rimaner mai al verde quindi
abolita ogni situazione di Jotta, reso campletamente inutile lo
sviluppo e il gusto del rischio. Spatizione di coraggio. Se ciò è
immaginabile su piccola scala, perché gli effetti malefici sarebbero ridotti
così al minimo da essere cancellati dai vantaggi, non si può pensare cosa
sarebbe mai una nazione sottoposta a tale regime, soppressa ogni
difficoltà di cartiera, butocratizzata Ja conquista della vita, scomparso
ogni pericolo, ogni ansia, ogni tensione. Non trovando nulla di vario nei
suoi sirzili, non trovando nulla di divertente nella sua esistenza logica, a
ore, a mansioni fisse, l'uomo socialista finirebbe col rientrare in
sé stesso. Cercare in sé l'interesse che il mondo non gli offre. Alla
forza di diffusione dei popoli geniali, si sostituirebbe quella di
egoismo egocentrico dei popoli cal colatori. Da simili mondi la
generosità fugge taccapricciata, non può distribuire i suoi insegnamenti
di grandezza: è come andare a vendere ombrelli in un paese dove non
piove mai a che serve esser generosi con della gente che è tutto
misurato, tutto il necessario? La morale che tali ambienti possono produtre è
marale di egoismo e di vigliaccheria. Noi opponiamo la morale della
generosità, lucidamente affermata da Balilla Pratella, quotidianamente da
noi vissuta in una dedizione senza calcolo, in una aderenza
spontanea e intellipente alle tramutanti necessità della
Patria. Queste le tre ragioni fondamentali che ci dividono dal
socialismo idea: la astrazione filosofica e inumana della formula, la sua
azione di parificazione monistica, la derivazione logica di antigenerosità =
vigliaccheria, egoismo. Altre ragioni particolari ci sono, che ci
porterebbero ad una disanima troppo lunga ragioni, del resto, che
non sono specifiche della nostra differenza dal socialismo, ma che
possono essere anche di altri partiti. Esempi: l'assurdità della
soppressione dello Stato come potere centrale, la sciocca concezione di una
pace eterna, ecc. ecc. I socialisti italiani. Sono,
indubbiamente, dei buoni socialisti perché hanno già, in pieno regime borghese
lo stadio mentale senza calore e senza colore del socialista di domani.
Non sentiamo il bisogno di spenderci molte parole, né di passarli in rivista
uno ad uno. Dirigenti: dittatura di vomini che hanno la mira precisa di
diventare qualche cosa, un'autorità, una persona importante. Non c'è tra
loro neppure un mistico esaltato che interessi. Calcolatori.
Cinici. Seguaci: massa la cuì concezione più alta è questa:
bisogna distruggere il caroviveri. Gente che cerca di mettersi a posto. Invidia
il horghese, quindi ha desiderio di divenire il borghese. Le loto
qualità principali sono: inintelligenza: non hanno ancora capito
che il sociali smo è diverso da popolo a popolo: commerciale
nell'America del Nord, conservatore in Inghilterra, filosofico in
Germania, mistico in Russia. Non hanno capito che il socialismo in Italia
può, caso mai, balzare dalle nostre istituzioni rurali;
inattualità: sano coerenti in una maniera fantastica, tant'è vero
che le idee invecchiano e loto seguitano ad usarle. Credono d’essere
all'avanguardia, e lo sono come il gambero, il cui traguardo è sempre
alle spalle, dietro: vigliaccheria: oltre la vigliaccheria propria
della idea hanno una viltà tutta propria, personalissima,
originale: inutile parlarne: chi interviene ai comizi elettorali ne
sa qualcosa. Il futurismo è il mondo più lontano dal
socialismo. Il futurismo è veramente il senso di una religione
nuova, che si dirige alle anime, agli spiriti, ai cervelli, e non si
interessa del corpo che per fortificarne i muscoli, farne strumento di
agilità audacissime e di voluttà sane. Generato dal cervello di un
attista ha tutta l'umanità di una idea italiana, sempre profumata di
buona terra fertile anche quando si esalti fino ai più puri
orizzonti. Attività poliedrica, il futurismo è lo sfruttamento completo di
tutte le penialità italiane, manuali e cerebrali. Ridarà all'Italia i
suoi magnifici artieri, maestri d'ogni sotta di lavoro, come lo à dato e
lo darà ai suoi artisti più grandi. I suoi vomini non hanno deficienza:
danno la loro vita in una proteiforme attività prodigiosa. Poeti e
soldati, sogno e vigilanza, idea e azione. Non c’è possibilità di
contatto tra la nostra morale e quella socialista, tra i nostri uomini e
i loro. È assurdo ogni pensiero di collaborazione. FUTURISMO CONTRO
SOCIALISMO. SEMPRE A QUALUNQUE COSTO! GiusePPE BOTTAI
{[da: Roma futurista.Noi e i borghesi Non una polemica, ma una
discussione calma e pacata. Polemica no, per non arrivare fino a quella
animazione un po’ acre e impetuosa, che annebbia le idee e deforma la
realtà. Ci tengo, a questa dichiarazione preliminare, perché
l'amico Mannarese, nel suo lucido articolo, pur mantenendosi in una linea di
cortese serenità, devia in puntatine ironiche, che non èànno ragione di essere,
se veramente egli ci vuole aiutare, nella demarcazione esatta della
nostra individualità politica. Trovo ad esempio molto strano, per
un futurista, l'osservarsi che la mia formula (adopto la parola formula,
per attenermi alla dizione dell'amico, per quanto essa abbia un senso storico,
che mi ripugna) abbia potuto ringalluzzir di saverchio, con la sua violenza:
“futurismo contro sociglismo, sempre, a qualungue costo” qualche buon
borghesetto. Questo non mi preoccupa, e direi, anzi non ci preoccupa. Noi
esprimiamo liberamente le nostre idee, le gettiamo nel mondo, tta la
gente; e i casi sono due, come sempre: o la gente non le capisce e allora
non c’è nulla da fare: o le capisce, le approva, ci si interessa, c
le apprezza nel giusto valore, e allora poco ci importa che tale gente
sia proletaria o borghese, destra o sinistra, e, anche, ambidestra.
Noi non sosterremo mai, com'un certo avvocatino di nostra
conoscenza fece in una recente seduta del Fascio di Combattimento romano,
che la guerra ha distrutto agni distinzione tra destra e sinistra; ma non
vogliamo di tali logiche e necessarie e salutari differenziazioni (?)
fare il nostro spaventacchio. Chè, pet questa via, si giunge alla
grossolana affermazione di Adriano Tilgher (Tempo, Piccoli borghesi al bivio):
essere il furore antisocialista degli atditi originato dall’appartenere
costoro, quasi tutti alle classi medie; e pensare che in parecchi mesi di
convivenza con le fiamme nere mi son trovati attorno solo contadini,
operai, lavoratori-proletari! Prima caratteristica del futurismo, è
questa, libera, sciolta sfrenata spregiudicatezza: e se il salumaio ci
crede oggi difensori dei suoi salami, delle sue salsicce, poco male! ciò
potrà darci la prova della sua minchioneria, non già infirmate
l’esattezza del grido futurismo contro socialismo. Socialismo non è
proletariato L’amico Mannarese fa un’identificazione
pericolosissima, e non rispondente alla realtà positiva dei fatti.
Egli pone sullo stesso piano socialismo e proletariato, stabilisce
senz'altro questa identità matematica: socialismo = proletariato.
Ciò spiega perché tanto si accanisca contto la finale del mio
articolo. Alle parole contro socialismo, sempre a qualunque costo è dato
il valore di un'affermazione di questo genere: contro le aspirazioni del
popolo, contro i diritti dei poveri, ecc., ecc... . Orta, mi
ribello assolutamente. Non in nome mio sol tanto, ma di tutti i
futnristi, e anche, di tutti i nostri amici fascisti.
Distinguere bisogna. Una cosa è quello che l'amico chiama: /o
sforzo violento, l’oscura irresistibile aspirazione della massa verso un
regime di maggior giustizia economica e un'altra cosa è il socialismo. Le
aspirazioni proletatie sono fatto immanente, istintivo, fatale, non pensato ma
sorto da sé, il socialismo è uno dei tanti sistemi, i quali, da che il
mondo è mondo, si accaniscono sulla disparità di condizioni delle
classi. Se io mi pongo contro il socialismo o contro i socialisti,
mi dichiaro contrario ad un sistema filosofico, giuridico, economico, morale ed
ai suoi sostenitori (filosofi, demagoghi e procaccianti che siano), ma
non è detto ch’io voglia attaccare l’oggetto di tale sistema che è il
proletariato. Non debbo, quindi, rettificare in nulla la mia incriminata frase,
ch'era un grido, un appello conclusivo del mio articolo, limitatosi ad
una valutazione di idee, e non aveva la pretesa d’essere un caposaldo, un
domma, un punto cardinale, ed altri simili paroloni che noi
lasciamo agli oratori da comizio. L'affermazione: Noi non
siamo contro il socialismo, ma contro gli uomini, i metodi e la filosofia
socialista del Mannarese è un non-senso,
perché appunto: socialismo è flosofia sostenuta da wormini con
determinati metodi. Quella che il Mannarese chiama sostanza (eh!
queste parole che otribili titi giuocavano, a volte) ossia: la
guerra per l'indipendenza economica dei poveri contro i ricchi non è
privativa assoluta del socialismo, è solo l'obiettivo dei suoi studi, dei
suoi tentativi, come essa fu obbietto della favola di Menenio Agrippa, e
delle teorie di Fenelon, e della scuola di Saint Simon, e del
sistema di Grace Baboeuf e Roberto Qwen, e così pure della filosofia di
Marx ed Engels. Anche il nazionalismo, anche il partito popolare, tutti
anno affermazioni solenni: qui è l'unico infallibile specifico per il
dolore del popalo e io posso essere contro questi modi da cerratani senza
mai essere né contro il popolo né contro le sue sacre e legittime
aspirazioni economiche I programmi economici All'amico Mannarese è
forse sfuggito nel mio articolo questo periodo: Un piano eguale di
esistenza, una distribuzione armonica di beni, una soppressione assoluta
di privilegi ma su questo livellamento di condizioni mateviali
l’esplicarsi diverso, individualissimo delle singole capacità. Qui,
evidentemente, si dice: noi passiamo essere d'accordo nelle
finalità economiche del socialismo . Quelle tre proposizioni del
programma politico futurista di Matinetti, Carli e Sertimelli, che il Mannarese
dice troppo generiche, anno il merito di poter domani assorbire in
sé, senza contrasto, qualunque ardimento consono allo spirito dei
tempi. Hanno un’intenzione pragmatista, che non deve sfuggite.
Il programma di riforme economiche, lanciato ai popoli come panacèa, è
cosa vecchia di tutti i tempi e di tutte le genti. Ogni scuola politica è
per prima cosa inalberata questa insegna molto attraente. Tutti i
programmi ben definiti, schematizzati, rigidi, anno sempre atteso,
con grande pazienza, che le cose del mando si incanalassero ne’ fossati, canali
e zenelle da loro tracciati, ma le cose del mondo anno dimostrato, a lume
di storia, di procedere per via di approssimazioni successive, le
quali avvengono non già pet magnetizzazione esetcitata cai suddetti
programmi, ma per madificazioni addotte, nel blocco fisiopsicologico di
una collettività, dal sistema di educazione, dalle idee di morale circolanti,
dalla rinnovatasi coscienza giuridico-sociale. Se oggi, per
ragioni ovvie, il problema economico è venuto in primo piano, non bisogna
dimenticare che la parte veramente essenziale di un sistema politico non
è già il disegno di un futura assestamento economico, ma è il
metodo con cui saprà, attraverso uno studio positivo dello stato presente
e dei caratteri permanenti della società in genere (meglio ancora di una data
parte di società) creare tutt'un’atmosfera spirituale intellettuale
psicologica, che renda possibile l’attuazione di quel dato ordinamento
economico, che nel momento è bene limitarsi a definire
desiderabile. I socialisti italiani sanno che il popolo italiano
non à neppure iniziata l'evoluzione sociale che permetta l’avvento, ad
esempio, del comunismo. Ora essi, scavalcando completamente ogni lavoro
di educazione, sventagliano i loro proclami di rivendicazioni economiche.
Il popolo risponde, è naturale: è Bengodi con i suoi meravigliosi
panorami. Ma ciò non significa aver creata una società comunista, come
non è fare un signore aristocratico d'un villanzone qualsiasi il
riempirgli le tasche di denaro. Sotto il punto di vista della potenzialità vera
di un partito il valore di tali programmi è nullo. Hanno un valore
pratico di specchietto per gli allocchi, e se l'amico Mannarese ci avesse
detto che, abbondando gli allocchi, è bene ch’anche noi abbiamo il nostro
specchietto, gli avremmo dato piena ragione. Il nuovo
imperialismo Non ci deve, quindi, affligere di soverchio, la mancanza di
formulazioni teoriche, di programmi economici. Noi futuristi non siamo
mai stati assenti quando questioni positive siano in tal senso nate. Né il
trionfo socialista deve farci perder la resta così da correr subito ai
ripari. No. La nostra posizione è netta, e possiamo
guardarci tranquillamente intorno: il germe della morte del socialismo è
appunto localizzato nel suo sistema di rivendicazioni economiche, aggravato dal
fatto di essete così isolato da ogni altra considerazione d'ordine superiore
da divenire il segno folle di un nuovo imperialismo. Non è
possibile nessun contatto tra due sistemi così opposti come sono quello
socialista e quello futurista. È l’anima differente. È il cervello
diverso. Se anche noi potessimo conglobare per intero nel nostro
ordine di idee ogni aspirazione economica del socialismo, rimarrebbe la
differenza profonda, incancellabile di indole, di origine e di finalità.
Noi siamo per l'elevazione del popolo, e non pet l’assolutismo demagogico di
essa. Tirando le somme E riassumiamo, perché la discussione
non rimanga uno sterile battibecco. L'amico Mannarese m’à offerto il
modo di delineare meglio la nostra situazione innanzi al socialismo: posizione
di ostilità per indole spirituale diversa; possibile comunanza di vedute
economiche: il che non implica nessuna fusione; condivisione di
alcune idee (come ad esempio il divorzio ecc. ecc.) che non sono
prerogativa socialista, € che non possono, quindi, render omogenee due
sostanze diverse. CONTRO IL SOCIALISMO NON VUOL DIRE CONTRO IL
PROLETARIATO. BOTTAI [da: Roma futurista] La lentezza
delle democrazie, le pastoie burocrati che dei procedimenti parlamentari.
il vecchiume parolaio dei barbuti senatori non possono essere ben visti
dai futuristi. La velocità, il dinamismo, la lotta, la competizione,
l’azione mal si addicono agli organismi pingui e sclerotici delle
democrazie, quella italiana in particolare. Già nel 1910 Marinetti lo
mette in rilievo ed indica nel suo manifesto Contro l'amore e 3
parlamentarismo , sintomo ed espressione di questa sua antipatia e di
guesta sua avversione Persino l'amore e le donne in senso romantico sono indici
e stru menti di rallentamento , e come tali da evitare tranne che per una
loro ben precisa ed organica funzione vitale. Le donne andrebbero invece
bene pei parlamen ti, dove dovrebbero entrare con le loro chiacchiere
e la loro prodigiosa e altisonante facoltà di falsificazione. Ma
non è solo Marinetti a inveire contro il parla mentarismo: c'è Tavolato
che uddirittura bestemmia contro la democrazia in un suo articolo apparso
con questo titolo su Lacerba del 1° febbraio 1914, ricco di
espressione e carico di colore linguistico e letterario. I 30 dicembre
dello stesso anno un altro futurista, Volt, tuona dalle colonne di Roma
fututista: Aboliamo il parlamento! In sua sostituzione si propongonna le
rappresentanze dei sindacati per la formazione dello Stato tecnico futurista.
E si entra nel merito della personalità giuridica dei sindacati e della
loro forza rappresentativa in base all'importanza della loro funzione
economica. Non in base numerica, per cui si rientrerebbe nella concezione
democratico-parlamentare. Non più onorevoli quindi sulle assise delle due
camere, ma lavoratori. E sono tutti concetti che ritroveremo nella
concezione corporativa fascista e nella suu Carta del Lavoro
Dopo la guerra Marinetti intervtene su Roma futurista mel maggio del '19
per ribadire la sua.concezione futurista della democrazia , come
s'intitola il suo scritto, che era già apparso um mese prima, più 0 mena
analogo, su L'Ardito. Vi si sostiene la democrazia tipi camente italiana
dei geni: una sorta di minoranze di individui superiori alla media,
destinati a entrare. in competizione con le altre, definite democrazie
incoscienli, come prodotta numerico d’inetti e di sconclusionati. La forza
della nuova democrazia dovrà essere naturdimente violentissima data
l'accelerazione e il ren dimento degli individui geniali. La sua conclusione sarà logica e conseguenziale: La democrazia
futurista è ormai pronta ad agire, poiché sente vibrare tutte le
sue cellule vive . L'azione sarà condotta da Mussolini, ma il presupposto
è già comunque e totalmente presente. BESTEMMIA CONTRO LA DEMOCRAZIA Tre
spanne sotto il cervello io nutto un odio, un odio contro la presunzione
del lavoro, un odio contro il puzzo cosciente, un odio contro
l’imbecillita evoluta. Tre spanne sotto il cervello si spenge ogni
polemica. I democretini rinunzino alla discussione. I democretini s’adagino
sopra i loro luoghi comuni, perché il mio piede possa calpestarli. Via,
batbe comiziesche che mi nascondete il sole. Via, mani a ventola e
cravatte a bandiera. Fermati, passo democratico sotto cui trema la terra
offesa. Arrestatevi, lamentele filamentose, voci incristianare, zuccherose
o pepate. Via, spade di legno, trombe sfiatate, via, inesistenti
barricate. Smontate, uomini di paglia, uomini di stoppa uomini di
cartastraccia. Nascondetevi, ceffi di cera, mascheratevi, faccie rinfisecchite,
sparite, ghigne insolenti. Sgonfiate, protobischeri pastori di popolo.
Aria ci vuole, e luce e calore e solidità, o anima mia. Abbasso la
democrazia! Fumano d'orgoglio, le gran fave. Fumano, questi straccioni e stronzoni,
questi mangiasputi e fiutarutti, questi tinconi, questi turabuchi, questi
scotticapidocchi, questi merdaioli, questi caconi, questi galoppini,
questi pagnottisti, questi biasciconi, questi lumaconi, questi minchioni,
questi balordi gonzi e gralli, questi coglioni appuzzoni e cittulli,
questi sussurroni caccoloni, questi satraponi virtuosoni. Già tutto il paese
fuma, smerdata com'è da queste pecore matte. Pulizia, pulizia, pulizia! Abbasso
la democrazia! Bischeri sollevatissimi, bischeri smargiassi,
bischeri ventosi, bischeri girandoloni, bischeri soppiattoni, bischeri
politicanti, bischeri economicizzanti, bischeri vani, bischeri solenni,
bischeri tronfi, bischeri crespi, bischeri cal. losi, bischeri pensosi,
bischeti pacifisti, bischeri leghisti, bischeri classisti, bischeri
marxisti, bischeti riformisti, bischeri collettivisti, bischeri revisionisti,
bischeti comunisti, bischeri credenti, bischeri fetenti, bischeri
ufficiali, bischeri legali, bischeri di cartapecora, bischeri del braccio,
bischeri del cervello, bischeri antilibici, bischeri internazionalisti,
bischeri democratici BISCHERI DI TUTTO IL MONDO UNITEVI! La vostra
individualità non ha importanza. Unitevi! Amalgamatevi! Confondetevi in
melma! Anche la melma dei bischeri, come ogni melma, s'incrosterà. E sotto le
croste ci sarà il gelo della morte. Così sia. Abbasso la
democrazia! Accidenti alla democrazia, impero delle bestie da soma, regno
degli schiavi, padronanza dei servi, supremazia degli impiegati!
Democrazia, sostegno degli sfiaccolati, trionfo dei cimiciosi, glotia dei
piattolosi, arma dei brodolosi; democrazia, orchestra di miasmi, concerto di
sputi, convegno di sudori, sistema di muffe; democrazia, vittoria dei
muscoli e disfatta dei nervi, esautorazione dell’arte e imposizione del
mestiere, vita del debole e agonia del forte; lurida, sudicia, tetra
democrazia, cloaca dove affogano fantasia, ingegno, energia, e tutte le
soavità; proterva asineria, fessa stivaletia: abbasso la democrazia!
E rovini Ia mediocrità! Fuoco al tugurio dei
democretini! I democretini è la lanterne! La libertà soltanto a chi
sa cosa farsene, a chi sa viverla. Agli altri il giogo, la sferza
e la schiavitù. EVVIVA LA FORCA, o amici, per la libertà vostra e
per la libertà mia! ABBASSO LA DEMOCRAZIA. TAVOLATO [da:
Lacerba,Firenze] Aboliamo pure il Parlamento si domandano molîi ma
cosa metteremo al suo posto? La risposta è pronta. Soszituiremo til
Parlamento con le rappresentanze dei sindacati agricoli industriali ed
ope rai. La rappresentanza sindacale sarà la base dello Stato
tecnico futurista. AI collegio elettorale, circoscrizione fittizia ed
arbitraria, entità che sembra creata apposta per l'esercizio del broglio,
sostituiremo il sindacato, espressione organica delle forze economiche
che danno effettivamente forma alla società. AI posto dell’onorevole
deputato, demagogo costretto all’accattonaggio sistematico del voto e
feudatario di una nuova feudalità peggiore dell'antica, manderemo a governare
il paese ingegneri, commercianti ed operai, gente che sa il suo mestiere
e conosce i bisogni reali della propria classe. Invece di un’Assemblea di
inttiganti, di chiacchieroni e di incompetenti, avremo un corpo tecnico
adatto allo scopo di dirigere, con conoscenza di causa, la grande azienda dello
Stato. In pratica l'idea della rappresentanza sindacale si trova di fronte
a difficoltà serie ma non insopportabili. Vati problemi ci si
presentano. A quali sindacati concederà lo Stato la personalità
politica? Si tratterà di determinare le categorie di ptoduttori che avranno
diritto a una rappresentanza nel corpo legislativo. L'iscrizione ai
sindacati sarà obbligatoria per tutti i cittadini? A me sembta che sia
più logico lasciare che esercitino i diritti politici coloro che ne hanno
la volontà e coscienza. Coloro che resteranno volontariamente fuori
dei sin. dacati cortisponderanno in parte alle masse degli astenuti
nelle odierne elezioni a suffragio universale. In base a quale criterio si
misurerà il numero di voti da attribuirsi a ciascuna categoria di
sindacati? E’ la questione più scottante. Il criterio più semplice è
quello numerico. Ma così si ricade nell'atomismo individualistico
del suffragio universale. Io credo che non si debba tener conto del
numero degli iscritti al sindacato, ma della importanza della funzione
economica che esso esercita nel Paese. Quindi un sindacato di industriali
metallurgici avrà una rappresentanza eguale a quella di un sindacato di
lavoratori del ferro benché questi ultimi siano molto più numerosi. E
ciò perché l’importanza delle due funzioni si controbilancerà nell'economia
nazionale. L'amico Settimelli dirà che questo è un criterio poco
democratico. Me ne infischio. Quali saranno i limiti posti all'esercizio
del potere dell'assemblea eletta mediante la rappresentanza
sindacale? La competenza dell'assemblea dovrà essere limitata alle
questioni prevalentemente economiche, che sono del resto le più
importanti in politica. Le questioni di famiglia, di politica estera ecc.
dovranno esser risolte in parte mediante il referendum popolare diretto ed in parte attribuite alla
competenza del porere esecutivo. Non ho fatro che accennare le principali
questioni. Invito tutti i giovani futuristi ad inviarmi le loro soluzioni
ai quattro problemi che ho posta, senza avere la pretesa di risolverli
definitivamente. Ma mi sembra che la questione sia matura per lo studio. E poi
per noi futuristi studio deve significare già un principio di
esecuzione.È l’ora di finirla col Parlamento. Abbiamo fatto la guerra
senza bisogno del Parlamento. Senza il Parlamento sapremo fare la pace. E' ora
di sbarazzare l’Italia dalle 508 incompetenze che spadroneggiano a
Montecitorio. VOLT [da: Roma futurista, DEMOCRAZIA
FUTURISTA L’orgoglio italiano non deve essere, non è imperialismo
che spera imporre industrie, accaparrare commerci, inondare di prodotti
agricoli. Nai difettiamo di materie prime, e siamo una potenza di
ricchezza agricola mediocre. Il nostro orgoglio italiano è basato sulla
superiorità nostta come quantità enorme di individui geniali. Vogliamo
dunque creare una vera democrazia cosciente e audace che sia la
valutazione e Ja esaltazione del numero poiché avrà il maggior numero di
individui geniali. L’Italia rappresenta nel mondo una specie di minoranza
genialissima tutta costruita di individui superioti alla media umana per
forza creatrice innovatrice improvvisatrice. Questa democrazia entrerà
naturalmente in competizione con la maggioranza formata dalle altre nazioni,
per le quali il numero significa invece massa più o meno cieca,
cioè democrazia incosciente. Su 1000 slavi vi sono due o tre
individui. L'ultima fulminea nostra vittoria ha dimostrato che non
vi è gruppo di italiani (20, 30 o 40) che non contenga almeno 10 o 15 individui
capaci di iniziativa e di direttiva personale Abbiamo ancora da
sgombrare e da bonificare le zone morte dell’analfabetismo. Questo
compito molto arduo con un nemico minaccioso alle porte è oggi compito facile e
senza pericoli per la unità e indipendenza nazionale.
Nazione ricca di individui geniali, democrazia intelligentissima. Quantità di
personalità tipiche, massa di tipi unici, democrazia che non vuole
imporsi bancariamente, industrialmente, colonialmente, ma può e deve
dominare il mondo e dirigerlo con la sua maggiore potenzialità ed
altezza di luce. Noi crediamo che l'ora è venuta di tentare tutte le
rivoluzioni per liberare il popolo italiano da tutti i pesi morti e da
tutti i ceppi (matrimonio e famiglia Cattolica soffocatrice, pedantismo
professorale, elettoralismo, mentalità pessimistica, provinciale mediocrista e
quietista). Liberata dal giogo della vecchia famiglia tradizionale,
dal dogma dell'anzianità, l'Italia manifesterà finalmente la sua potenza
di 40 milioni d’individui italiani tutti intelligenti e capaci di autonomia. Concezione
assolutamente apposta alla cretinissima concezione germanofila che voleva
svalutare i 40 milioni di individui italiani per organizzarli
meccanicamente. Su] palcoscenico della razza italiana dobbiamo mettere in
luce 40 milioni di ruoli diversi perché in questa luce possa
perfettamente svolgersi il valore tipico d'ognuno.(Censura) Noi non
abbiamo la nevrastenica pigrizia, la neghittosità, il misticismo, il boiantismo
ideologico, l’ossessione teorificatrice della Russia. Siamo pieni di senso
pratico, di tenacia costruttrice, di ingeniosità inesauribile, di
eroismo bene impiegato. Possiamo dunque dare tutti i diritti di
fare c disfare al numero, alla quantità, alla massa poiché da noi
numero quantità e massa non saranno mai come in Germania e in Russia numero
quantità o massa d’inetti e di sconclusionati, LABRIOLA (vedasi) definisce
la democrazia come sentimento dei diritti concreti della massa sullo Stato e
sulla Economia. Noi futuristi consideriamo la democrazia non in
astratto ma bensì la democrazia italiana . Parlare di democrazia in
astratto è fare della retorica. Vi sono numerose democrazie, ogni razza
ha la sua democrazia, come ogni razza ba il suo femminismo. Noi
intendiamo la democrazia italiana come massa di individui geniali,
divenuta perciò facilmente cosciente del suo diritto e naturalmente
plasmatrice del suo divenire statale.La sua forza è fatta di questo
diritto acquisito, moltiplicata dalla sua quantità valore, meno il peso delle
cellule malate (incoscienti, analfabeti). La democrazia italiana è
per noi un corpo umano che bisognerà liberare, scatenare, alleggerire,
per accelerarne la velocità e centuplicarne il rendimento.
La democrazia italiana si trova oggi nell'ambiente più favorevole al suo
sviluppo. Ambiente di rivoluzione-guerra nel quale è costretta a
risolvere tutti i suoi casi-problemi insoluti, le cui soluzioni possono
esercitare una influenza sul suo avvenire. Necessità igienica di continua
ginnastica trasformattice, improvvisatrice. Il governo si allarma
oggi nel vedere formarsi innumerevoli associazioni di combattenti. Se non fosse
un governo di miopi reazionari tremanti di paura accaglierebbe
favo. revolmente questo nuovo ritorno di vitalità italiana.
La guerra ha semplicemente svegliate le coscienze di 4 o 5 milioni di
italiani che tornano oggi dalla guerra, atricchiti di una personalità
politica. E’ la prima volta nella storia che più di quattro mi.
ltoni di cittadini di una nazione hanno Ja fortuna di subire in soli 4
anni un'educazione intensiva e completa con lezioni di fuoco, di eroismo e di
morte. Spettacolo meraviglioso di tutto un esercito partito
per la guetra quasi incosciente e ritornato politico e degno
di governare. La democrazia futurista è ormai pronta ad agire,
poiché sente vibrare tutte le sue cellule vive. Naturalmente
ha un bisogno urgente di spalancare le porte e di uscire all’aperto. I)
governo si allarma, reprime e trema, come la nonna leggendaria teme che
il nipotino pigli un raffreddore. Fuori l’aria è frizzante e
salubre. Il sole, spalancato, beve il mare di liquido quasi solido saporito
azzurro, tutto spumante di raggi, tutto da bere fino all'ultimo
sotso. MARINETTI fda: Roma futurista, un SETTIMELLI
MARINETTI FUTURISMO E PRIMO FASCISMO Settimelli commenta il
Congresso di Firenze su 1 nemici d'Italia (settimanale antibolscevico
diret to da Armando Mazza ) del 10 ottobre del 1919. I discorso di
Meorinetti al congresso apparirà su L'Ardito del 26 ottobre dello stesso
anno, ma era già apparso tre giorni prima su I nemici d’Italia (23
ottobre). Del discorso e della necessità dello svaticanamento abbiamo già parlato. Ma si postula anche
l'ipotesi di un eccilatorio di giovanissimi capaci di sostituire il
semato dei vecchi, ormai da abolire. Al suo posto un consi glio
tecnico andrebbe sollecitato e stimolato da gio vani sotto i trent'anni,
a moto continuo Si parla poi di un proletariato dei geniali,
quello degli artisti d’Italia, più o meno a nascosti od esclusi ,
che andrebbero favoriti o promossi da iniziative pub. bliche atte
all'aiuto della loro espressione. L'origine della proposta da parte di
una mente d'artista ri. sulta evidente. Marinetti è definito, al caso,
ardito della poesia. La definizione è sempre di Settimeth, che
sostiene inoltre Marinetti sia uscito dal Con gresso in trinonmio con
Mussolini e D'Annunzio. quello del dopo Fiume : un'alleanza politica mei
fino ad allora verificatasi. Ed è ancora Settimelli, a questo proposito,
a inneggiare ai due personaggi (Marinetti e Mussolini) in un suo scritto,
già pubblicato su I nemici d'Italia # 4 set tembre 1919. Lo riportiamo
perché ci sembra significa tivo di un legame e di un rapporto. Non è vero
che l'arte debba essere estranea alla politica, vi si sostiene.
Anzi, è proprio l'artista a darle una sua interpretazione od un suo
connotato, un suo travestimento , od usa sua immagine fanto più nuova,
quanto più ardimentose ed ardita. Mussolini è stato capace di recepirlo,
e il fascismo è un fenomeno nuovo praprin per questo, e
d'avanguardia. La tesi di Settimelli è tipica del futurismo delle
origini o classica di un momento rivoluzionario, 0 di rinnovamento. Ma
anche Armando Mazza pubblica un fondo il 30 Ottobre dello stesso anno
sulla medesima testata (I nemici d'Italia). L'articolo non è firmato, ma è
inserito sotto il titolo a quattro colonne: Fascisti, a noi!, con un
commento alle prospettive elettorali, un trafiletto in commemorazione della
vittoria nella’ ricorrenza annuale, e una colonna intestata: Ciò
che ci divide. Vi si spiegano 1 motivi di disaccordo e distacco da tutte
le altre forze politiche, quelle ew-neu traliste e quelle del
passatisma MUSSOLINI E IL FASCISMO Pensare col proprio cervello
originale, liberare completamente il proprio temperamento, essere gli
annunciatori e i fondatori di una nuova mentalità: sofferenza di tutti
i momenti. Mantenere la provria posizione di avanguardia, è
cosa da giganti. Parteciparvi per qualche tempo è da tutti. À
un certo momento rimani quasi solo: la gran parte degli amici si arrende,
brutta e spregevole nella sua viltà mascherata di scetticismo, oppure non
crede più, sopraffatta dalla vecchia e comoda mentalità. Disertano,
perdono ogni ritegno, ti attaccano. Si vendicano di averli resi sia pure per un anno intelligenti, credono di
poter menomare la saldezza del tuo accizio, ti fanno recedere con i loro
atteggiamenti di commendatoria superiorità: cafoni addomesticati, provinciali
inguaribili. Vivi in un ambiente pericoloso e stancante perché
senti che è creato per l’altra gente 1 mediocre, podagrosa. Ti urti
della continua ostilità. Ti trovi dinanzi ad un avversario senza
spirito, monotono, insistente. Un avversario indegno che ha la
bruttezza goffa del rinoceronte e il rompiscatolismo della zanzara.
Hai delle donne. Tentano di tutto per convincerle a rinsavire e ti
denigrano in mille modi cercando di portarle a qualche mediocre ronzino o
a qualche nobilissimo eunuco lucroso 0 decorativo. Lavori. Il
tuo lavoro ba sempre qualche parte che esorbita. Mai delle amicizie, ti
seguono fino ad nn certo punto. Non possono capirti a fondo.
Sei fatto per un mondo di eroismo, di forza, di bellezza, di temerità. Le
tue grandi ali t’impediscono di camminare come il gabbiano di Baudelaire. (eTe) Tutto
questo è atroce, ma di colpo una vittoria ti ripaga di tutto. Aver
avuto ragione, aver visto lontano, aver costruito un nuovo pezzo della
vita, sia pure un piccolo pezzo, avere anche per un attimo e per un millimetro
contribuito allo allargamento del mondo ti fa vibrare per la gioia dei
vertici. Oggi ho questa gioia e la divido con quei pochi che da
dieci anni lavorano con me alla formazione di un ambiente intellettuale
italiano libero dai professori, dai tradi. zionali, dai gottosi (non
alludo ai seguaci del romanziere Salvator!). E Ia nostra
gioia diviene frenetica quando constatiamo che da un'altra parte, dalla
politica ci veniva incontro un uomo formidabile, nuovo come noi, libero
come noi. E' la gioia dei minatori che s'incontrano finalmente dopo
aver forata la montagna. Un evviva , una manata di terra sulle
facce ebbre, sopra i sudori riganti e una stretia di mano che è una prova
del cuore e dei garretti. Mentre con Marinetti e con gli altri
amici lavoravamo il campo artistico, dall'altro si muoveva Mussolini
lavorando il campo politico. Ci dovevamo incontrare. Un gigante questo
magnifico Mussolini! Con la forza ma anche col peso di un grande ingegno,
di un'anima vasta, di un temperamento spaccafore, figlio di un fabbro
ferraio si tira su a suon di muscoli, di ingegno e di fegato. Supera
la più massacrante battaglia: quella contro la miseria, quella che
non potrà mai esser capita da chi non l’ha provata. Chi è nato ricco non
potrà mai essere completamente dentro la realtà e non avrà mai il collaudo
delle sue energie. Domina le folle, organizza, sbaraglia Turati, Treves,
Raimondo. Galvanizza il partito socialista. Scoppia la guerra, capisce
che la neutralità sarebbe contro il socialismo € per il medioevo
autocratico. Tenta di persuadere. I mediocri ne approfittano per
liberarsi della sua grandezza. Si forma la imbecillocrazia dell’Avanzi!
Mussolini lascia il partito che rimane acefalo e si divincola in
movimenti balordi e vili. Intanto i piedi ridono soddisfatti per essersi
liberati della testa. Nasce così il Popolo d'Italia. Il primo
quotidiano veramente moderno e veramente italiano. Un ritrovo di
energie vive, spregiudicate, temerarie. Il lievito di questo buon pane
italiano nato dalla guerra. In esso tutti i vivi si incontrano:
Futurismo, Arditismo, D'Annunzio. E' una punta sensibile e perforante, è
l'effervescenza della grande coppia italica, è il primo nucleo per una
Italia nuova. Ma il quotidiano non basta a Mussolini. Uomo d'azione ha
bisogno di concretare, vuol raccogliere ciò che semina giornalmente. Nasce il
fascismo. Fenomeno degno della più grande ammirazione e del più
appassionante esame. Più che un partito è una mentalità. Non si basa
sulla promessa di un certo paradiso futuro, si muove
problematicamente passo per passo alternando transigenza a
intransigenza, idealismo a realtà, arte a pratica concreta. Gli avversari
del Fascismo sono le vecchie anime che marciano solo dietro
promesse iperboliche e utopistiche, che scambiano incoerenza con duttilità, che
non vivono dentro la vita vera e vibrante, ma fra gli schemi arrugginiti
di una mentalità libera. Il Fascismo raccoglie gli italiani più
intelligenti e più moderni con la sua ferrea ossatura di concretamento
fasciato da una atmosfera di sensibilità, di cordialità idealistica, di
eleganza e di colore. Rende possibile la politica anche per i
temperamenti più contrari ad essa. Per esempio gli artisti e gli ironici.
L'Italia abbonda di artisti e di ironici, anzi essi formano la sua parte
migliore, intellettual. mente. Mussolini ha avuto il grande
pregio di creare un’atmosfera politica che non ripugna a questi scelti, a
questi migliori. L'intelligenza disinteressata si allontana dalla
politica quando essa s'imperna sulla falsa promessa di un paradiso
certo, sul settarismo, sulla gretteria animale. Si sta preparando
in Italia quella rinascita totale, basata sull’arte che tra le più feroci
ironie e gli scetticismi più assoluti amnnunciai nella Inchiesta sulla
vita italiana. SETTIMELLI (da: 1 nemici d'Italia, Milano, SOGNO UN
GOVERNO DI TECNICI, ECCITATO DA UN'ASSEMBLEA Cari Fascisti! Cari Arditi!
V'invito ad acclamare un valoroso fascista assente, che sarebbe qui con
noi se il Governo anti-italiano di Nitti non l’avesse condannato a tre
mesi di fortezza C., (Grida unanimi di: Viva Mario Carli! e
applausi). Il futurista Mario Carli è sfuggito alla polizia di Albricci e
gode l'atmosfera igienica di Fiume italiana. Ha brillato così una volta
di più l'elasticità veramente futurista di questo poeta che sa tutti i viaggi
più pericolosi dello spirito, le esplorazioni più sottili della
psicologia, i razzi più colorati ed anche la strategia delle strade
in tumulto e il governo delle assemblee popolari. A Mario Carli,
poeta delle Notti filtrate, si deve la fondazione del Fascio di
combattimento romano, e, insieme con Settimelli, del Partito politico
futurista, e del giornale Rome futurista. Egli capeggiò tutte le
dimostrazioni violente per Fiume italiana, per la Dalmazia italiana e per
la difesa della vittoria, contro il bolscevismo rosso e nero,
rinunciatario e nittiano. V'invito a gridare ancora: Viva il futurista Mario
Carli! (Quazione, applausi). Lo svaticanamento. Io approvo
incondizionatamente, in nome del futuri smo e dei futuristi italiani,
tutto il programma dei Fasci di combattimento, che vi è stato esposto dal
mio amico Fabbri. Trovo però in questo programma delle lacune
gravi, sulle quali richiamo tutta la vostra attenzione. Fascisti!
Non c'è maggior pericolo, per l’Italia, del pericolo nero. Il popolo italiano,
che ha saputo osare, volere e compiere l’immane sforzo eroico e vittorioso
della grande guerra, decidendo, con la sua vittoria, la vittoria del
futurismo elastico, geniale, sul passatismo teutonico, cubico e
professorale, fallirebbe alla sua missione se non sapesse energicamente
liberare la bella penisola, agile e palpitante di vita, dalla lue mortale
del papato. Noi dobbiamo domandare, volere, imporre, l'espulsione del
papato, o meglio ancora, per usare una espressione più precisa, lo
svaticanamento . (Applausi, ovazione)
L'Eccitatorio. Continuando nell'analisi del Programma dei Fasci di
combattimento, trovo l'abolizione del Senato, al quale si sostituirebbe
un Consiglio nazionale tecnico. Ebbene: io vi dichiaro che il concetto di
tecnicità è importantissimo, ma non basta. Il Senato rappresenta nella
storia dei popoli un costante ossequio alla saggezza dei vecchi, chiamati
intorno al potere per frenarlo, maturarne i propositi, dirigerne le
decisioni. La concezione del Senato, simile a quella del coro nella
tragedia greca, ha singolarmente appesantito, imbrogliato, buroctatizzato
e ritardato il progresso spirituale e materiale delle razze. I legislatori
hanno sempre sognato di frenare il potere del Governo. Essi ignoravano dunque
che potere significa frenare. Essi ignaravano che un Governo è sempre più o
meno un carabiniere. Nulla di più assurdo che il porre un carabiniere a
sorvegliarne un altro. Mettiamo: gli al fianco, piuttosto, un sovversivo,
un rivoltoso, un eccitante. Ed ecco nata la concezione dell’Eccitatorio,
organo animatore, semplificatore e acceleratore, che in una razza come la
nostta, piena di precoci geniali, sarà Ja miglior difesa della gioventù e la
migliore garanzia del progresso e di alta spiritualità. Io sogno in Italia un
Governo di tecnici eccitato da un’assemblea di giovanissimi, al posto
dell’attuale Parlamento di oratori incompetenti € di dotti invalidi, che
si fa moderare da un Senato di moribondi. Il Consiglio tecnico che
rimpiazzerà il Senato dovrà dunque essere composto di giovanissimi, non
ancora trentenni. Insisto su ciò, poiché in Italia si usa invitare i giovani al
potere e si considera poi virile e giovanissimo un uomo di 55 anni.
Salandra grida: Avanti i giovani! Ma tutti con lui temono i giovani,
mettono in quarantena un quarantenne come un coleroso, un cinquantenne
come un dinamitardo, e considerano un sessantenne come un audace quasi
maturo per il governo d’Italia! Occorre un Eccitatorio di giovanissimi, per
evitare un Consiglio tecnico di vecchi, che dopo aver tenuto inutilizzato
per molto rempo il loro ingegno tecnico non sanno più che tecnicamente
morire. La vita italiana si riduce ancora ad una convivenza
cretina di quadri d'antenati senza autorità e senza prestigio, che spandono
intorno, in una penombra tediosa, pessimisino, pedantismo, austerità
professorale, verbalismo patriottico e polvere di Roma antica, e in mezzo ai
quali si aggira sporca, taccagna, provinciale, brindellona, la servaccia
che fa tutto male, tiene malissimo la casa, non vuo! migliorare nulla,
perde la giornata a verificare i conti di cucina, ha sempre paura di spendere e
di rovinarsi, ed è tronfia perché sa fare una minestra non troppo salata
che costa poco. T quadri d’antenati si chiamano Boselli e Salandra:
la servaccia si chiama Giolitti o Nitti. (Quazione) Contro i
quadri d'antenati e la servaccia, poi propo siamo un eccitatorio di
studenti e di Arditi futuristi. Arditismo. Scuole di coraggio
fisico e patriottismo. Una terza lacuna io trovo nel programma dei
Fasci di combattimento, e riguarda la scuola. L'amico futuri sta
Fabbri ha precisato genialmente la grande e necessa ria riforma completa
della scuola. To credo petò che tutto si potrebbe ottenere, e forse
anche un al di là meraviglioso che superi il tutto sogna. ta, mediante
un'imposizione assolutamente ferrea, dirò meglio feroce, della ginnastica
nelle scuole. Si deve giungere anche presto, oltre che a tutte le
forme d'insegnamento pratico e tecnico, nelle officine e nei campi, alle
scuole viaggianti, 0, per meglio dire, viaggi d'istruzione, e a dei veri
corsi o scuole di coraggio fisico e di patriottismo. Bisogna ogni
giorno, nella giocondità di una vita all'aria aperta, con un predominio
assoluto del giuoco sulla lettura, parlare dell'Italia divina ai ragazzi
italiani, insegnare loro, accanitamente, il coraggio fisico e il disprezzo del
pericolo, e premiare dovunque l'audacia temeraria e l'eroismo.
Le scuole di coraggio fisico e di patriottismo devono rimpiazzare
nelle scuole gli oramai preistorici e troglodi. tici corsi di greco e di
latino. Noi futuristi siamo convinti di preparare così quel
tipo di cittadino eroico che saprà difendersi da sè, veramente capace di libero
pensiero e di libero cazzotto, e che renderà assolutamente inutile
l'esistenza delle polizie, delle questure. dei carabinieri e dei
preti. Ferruccio Vecchi. Il mio amico futurista Mario Carli, capitano
degli Arditi, e il capitano Vecchi, capi dell'Associazione degli Arditi, hanno
sentito come me, nascere dal futurismo e dalla guerra, l'Arditiswo, nuova
sensibilità di patriottismo eroico e rivoluzionario. ]l giornale L'Ardito,
diretto dal capitano Vecchi, il celebre sfasciatore dell’Avanti! è
un forte giornale che si deve consigliare ai giovani italiani.
{Qvazioni) Verrà forse un giorno in cui avremo in Italia
quelle scuole di pericoli che io proponevo dieci anni fa nei primi
manifesti futuristi e che furopo realizzate durante la guerra nelle
esercitazioni quotidiane degli Arditi (avanzata carponi sotto un tiro radente
di mitragliatrici; aspettare senza chiudere gli occhi il passaggio radente di
una trave sospesa sulla testa, ecc.). Il proletariato der geniali
Ed ora voglio colmare un'altra lacuna dei programma, parlandovi del solo
proletariato veramente dimenticato ed oppresso: l'importantissimo proletariato
dei geniali. È indiscutibile che Ia nostra razza supera tutte Je razze per
il numero stragrande di geniali che produce. Nel più piccolo nucleo
italiano, nel più piccolo villaggio, vi sono sempre sette, otto giovani
ventenni che, fremono d’ansia creatrice, pieni di un orgoglio ambizioso
che si manifesta in volumi inediti di versi e in scoppi di eloquenza
sulle piazze, nei comizi politici. Alcuni sono dei veri illusi, ma sono
pochi. Non potrebbero giungere al vero ingegno. Sono però sempre dei
temperamenti a fondo geniale, cioè suscettibili di sviluppo e utilizzabili
per accrescere l’intellettualità geniale di un paese. Il movimento
artistico futurista, da noi iniziato 11 anni fa, aveva precisamente per
scopo di svecchiare brutalmente l'ambiente artistico-letterario, esautorarne e
distruggerne la gerontocrazia, svalutare i criteri e i professori pedanti,
incoraggiare tutti gli slanci temerari dell’ingegno giovanile, per preparare una
atmosfera veramente ossigenata di salute, incoraggiamento ed aiuto a
tutti i giovani geniali d'Italia. Incoraggiarli tutti,
centuplicarne l'orgoglio, aprire davanti a loro tutti i varchi,
diminuire al più presto, così, il numero dei geniali italiani
falliti e stroncati. Il futurismo radunò molti di questi giovani
geniali. Fra di loro, nella vampa futurista, ingigantirono e brilla
rono: Boccioni, Russolo, Buzzi, Balla, Mazza, Sant'Elia, Pratella, Folgore,
Cangiullo, Mario Carli, Funi, Sironi, Chiti, Jannelli, Nannetti,
Cantarelli, Rosai, Baldassari, Galli, Depero, Dudreville, Primo Conti, i
geniali creatori del Teatro Sintetico: Bruno Corra e Settimelli, e i
valorosi scrittori futuristi di Roma futurista, Rocca, Bottai, Federico
Pinna, Volt e Rolzon, altissima bandiera d'’italianità in America.
Con meravigliosa elasticità passando dall'arte all’azione politica,
questi giovani furono con me dovunque nelle nostre primissime dimostrazioni
contro l’Austria durante la battaglia della Marna, in prigione per
interventismo e sui campi di battaglia. Propongo che in ogni città
siano costtuiti dei palazzi che avranno una denominazione sul genere di
questa: Mostra libera dell'ingegno creatore. Tn tali palazzi: Verrà
esposta per un mese un’opera di pittura, scultura, plastica in genere,
disegni di architettura, disegni di macchine, progetti di
invenzioni. Verrà eseguita un’opera musicale, piccola o grande,
orchestrale o pianistica di qualsiasi genere, di qual: siasi forma, di
qualsiasi dimensione. Verranno letti, esposti, declamati poemi,
prose, scritti di scienza di ogni genere, d'ogni forma, d'ogni
dimensione. Tutti i cittadini avranno diritto di esporre gratuitamente.
Le opere di qualsiasi genere o valore apparente anche se apparentemente
giudicate assurde, cretine, pazze, immorali, saranno esposte o lette
senza giuria. Con queste mostre libere e gratuite del genio
creatore, noi futuristi ci opponiamo a un pericolo gravissimo: quel
lo di vedere nella marea delle ideologie che rissano intorne alle formole del
comunismo e della dittatura del prolerariato, il naufragio dello
spirito. Difendiamo il cervello! Vi sono fenomeni dovuti alla
stanchezza prodotta dal la guerra, alla manîa plagiaria, alla miopia
provinciale, alla verbosità giornalistica e alla vigliaccheria
conservatrice. Si tenta dovunque di divinizzare il lavoratore manuale
e d'innalzarlo al di sopra del lavoratore intellettuale, No,
italiani: il futurismo politico si opporrà accanita. mente ad ogni
volontà di livellamento. Tutto, tutto sia concesso al proletariato
manuale, salvo il sacrificio dello spirito, del genio, della gran luce
che guida. Alle classi oppresse, ai lavoratori che stentano, sia
sacrificata tutta la plutocrazia parassitaria del mondo. Voi
fascisti interventisti sapete che la nostra grande guerra rivoluzionaria
è stata osata, voluta, imposta e tenacemente portata alla vittoria finale da
una minoranza di intellettuali. Erano i migliori, i meno tradizionali,
i più futuristi. Mentre tutto il popolo era ancora immerso nella
quiete pacifista, essi videro la necessità di guerra, si separarono
brutalmente da altri intellettuali, da quelli che dello spirito altro non
hanno che le qualità negative, pedantesche, culturali, reazionatie,
quietiste. Contro e so: pra il piombo del vecchio intelletrualismo
professorale e vigliacco dei Benedetto Croce e dei Barzellotti, contro
l’intellettualismo cavilloso e avvocatesco dei Treves e dei Turati, si
scagliarono gli spiriti veramente puri, lirici e creatori, per segnare la via da
seguire. Fra questi, Gabriele D'Annunzio, che volò su Vienna
e regalò Fiume all'Italia. Fra questi Benito Mussolini, il grande
Fututista italiano, che impavido nel campo trincerato del suo Popolo d’Italia
ha difeso alle spalle noi combattenti al fronte contro le ondate dei nemici
interni, portando le città italiane dal lurido episodio di Caporetto alla
storia ideale di Vittorio Veneto (Applausi). Gli artisti faranno
finalmente del governo un’arie disinteressata, al posto di quello che è ora,
cioè una pedantesca scienza del furto e della vigliaccheria. eri Io
credo che le istituzioni parlamentari siano fatalmenre destinate a perire.
Credo anche che la politica italiana sia destinata a un inevitabile
fallimento, se non si nutrirà di questa forza viva: gl’ingegneri creatori
d’Italia, sbarazzandosi di queste due malattie italiane: l'avvocato e il
professore. Genio creatore, elasticità artistica, praticità
sintetica, velocità improvvisatrice ed entusiasmo fulmineo: ecco le
belle forze che spiegano la vittoria del 15 giugno sul Piave e quella di
Vittorio Veneto (Applausi). Artisticamente improvvisando tutto, e
con genio creatore, la mia bella autoblindata dell'ottava Squadriglia al
comando del capitano Raby guadava come una torpediniera i torrenti gontiati.
Poi si slanciava giù dalle monta. gne carniche col tuffo frenetico
fulmineo di un pugnale d'Ardito nella smisurata pancia idropica
dell'esercito austriaco disfatto, e schizzava fuori dalla schiera contro
Vienna. Artisticamente, il genio creatore di D'Annunzio conquistò
Fiume italiana. In Fiume italiana, io provai recentemente il più
acuto spasimo di guida della mia vita, nel gualcire un pacco di corone
austriache deprezzate a pochi centesimi dalla nostra vittoria. Gioia
forsennata di stritolare così finalmente il cuore finanziario, militare,
passatista del nemico ereditario, fra le mie mani ancora frementi della
vibrazione della mia mitragliatrice di Vittorio Veneto!
(Ovazione). MARINETTI [da: L’Ardito, MARINETTI MARIO
CARLI MINO SOMENZI SECONDO FUTURISMO E FASCISMO-REGIME ll 1923 è un po'
l'anno di apertura del futurismo dopo la ritirata e il distacco dal fascismo
del II Congresso di Milano al nascente fascismo-regime (secondo la
definizione di De Felice), quello dell’assestamento o dell'e ordine (che si
consoliderà il 3 gen naio 1925). Marinetti si accosta in un certo senso
al nuovo governo con una richiesta in forma di mani festo al
Governo Fascista del 1° maggio 1923. Col manifesto e con
l'affermazione di un certo qual futurismo mussoliniano , 0 nel
sottolineare la realizzazione di un programma minimo futurista da par te
del fascismo, Marinetti cerca di porsi in buona luce e di far accettare
le sue proposte al governo fascista. ll programma fu in linea di massima
approvato da Mussolini. Quel Mussolini che comincerà a venir illustrato e
celebrato anche dai futuristi, forse molte volte in buona fede per
l'effettiva sua vicinanza alle tesi ed al dinamismo tipico di Marinetti e
delle sue teorie. Tuttavia Mario Carli nel '26 pubblica nel suo li
bro Fascisma intransigente wn articolo a suo tempo se questrato e che
risuona echi di sinistri miraggi . S'intitola Natale senza luce e si riferisce
probabilmente al Natale del ‘21, dopo l'impresa di Fiume cui Carli
aveva ben ardentemente partecipato: si augurava inutilmente C. che
l'impresa di Mussolini (la marcia su Roma) continuasse quella breve
esplosione innovatrice della nuova Italia della Vittoria (la marcia su
Ronchi). Ma le vecchie pance e le vecchie barbe tengono invece il
canzpo della vita nazionale e la manovra parla mentare domina ancora
tutto il congegno di governo . Marinetti sul numero 9 del 2-11-1932 del
nuovo Futurismo, esprime aminirazione ed esalta lo spirito rivoluzionario
della Mostra nel decennale della Rivoluzione (svoltasi a Roma). Intitola
Varticolo Stile futurista e vuole commemorare in certo senso uno stile
degli anni d'oro dello spirito interventista e rivaluzionario da
cui è nato il fascismo, quello così detta antemarcia. Sul terzo numero di
SunWElia, che è secondo titolo di Futurismo, generoso tuttavia di
perticolare spazio cd attenzione at problemi dell'architettura, Mino
Somenzi intitola un suo pezzo a IT Duce e il futurismo, e vi sostiene la
necessità di Mussolini, come capo del governo, di non essere né
futurista né passatista. Per il superiore equilibrio sulle parti che la
sua posizione richiede. Tuttavia le simpatie di Mussolini non possono non
andare ai futuristi, dice Somenzi, quali novatori e sostenitori dell'arte
d'avanguardia italiana. In questo sensa i futuristi non possono non
guardure a lui come ad un appoggio e ad un sostegno, come del resto egli
medesima più volte si è dimostrato. E qui forse, in questa tesi, vediamo tutta
la posizione ed il carattere del secondo futurismo . Ancora sulla
stessa testata del 4 aprile ’34, n. 64. un grande intervento centrale di
prima pagina su Ventitre marzo futurfascista, mette in rilievo i caratteri
comuni di futurismo e fascismo, anche quelli per cui molti fascisti non
st identificano con i futuristi ed anzi simmedesimano nel loro contrario
essendo dei rimorchiati che non hanno assorbito lo spirito diciannovi sta
e rivoluzionario delle origini . I DIRITTI ARTISTICI PROPUGNATI DAI
FUTURISTI ITALIANI Manifesto al governo fascista Mio caro
Marinetti, approvo cordialmente la tuu iniziativa per la costituzione di
una Banca di Credito specialmente per gli Artisti. Credo che saprai
sormontare gli eventuali ostacoli dei soliti misoneisti. Ad ogni modo
questa lettera può servirti di viatico. Ciao, con
amicizia, MUSSOLINI Vittorio Veneto e l’avvento del Fascismo al
potere costituiscono la realizzazione del programma minimo futurista lanciato
(con un programma massimo non ancora raggiunto) 14 anni or sono da un gruppo di
giovani audaci che si opposero con argomenti persuasivi all'intera
Nazione avvilita da un senilismo e da un mediocrismo paurosi dello
straniero. Questo programma minimo propugnava l’orgoglio italiano,
la fiducia illimitata nell’avvenire degli italiani, la distruzione dell'impero
austroungarico, l’eroismo quotidiano, l’amore del pericolo, la violenza
riabilitata come argomento decisivo, la glorificazione della guerra sola
igiene del mondo, la religione della velocità, della novità, dell’ottimismo e
dell’originalità, l'avvento dei giovani al potere contro lo spirito
parlamentare, burocratico, accademico e pessimista. La nostra influenza in
Italia e nel mondo è stata ed è enorme. Il Futurismo italiano,
tipicamente patriottico, che ha generato innumerevoli futurismi esteri,
non ha nulla a che fare coi loro atteggiamenti politici, come quello
bolscevico del Futurismo russo divenuto arte di Stato. Il Futurismo
è un movimento schiettamente artistico e ideologico. Interviene nelle
lotte politiche soltanto nelle ore di grave pericolo per la
Nazione. Fummo primi fra i primi interventisti; in carcere
per interventismo a Milano durante la Battaglia della Marna; in
carcere con Mussolini nel 1919 a Milano per attentato fascista alla
sicurezza dello Stato e organizzazione di bande armate.Abbiamo creato le
prime associazioni degli Arditi e molti tra i primi Fasci di
combattimento. Divinatori e lontani preparatori della grande Italia
di oggi. Noi futuristi siamo lieti di salutare nel non ancora
quarantenne Presidente del Consiglio un meraviglioso remperamento
futurista. Da futurista, Mussolini ha parlato così ai giornalisti
esteri: Noi siamo un popolo giovane che vuole e deve crea re e
rifiuta d'essere un Sindacato di albergatori e di quardiani di museo. Il nostro
passato artistico è ammirevole. Ma, quanto a me, sarò entrato tutt'al più
due volte in un MIUSCO. Recentemente Mussolini ha pronunciato questo
discorso tipicamente futurista: Il Governo che ho l'onore di
presiedere è Governo di velocità, nel senso che noi abbreviamo tutto ciò
che significa ristagno nella vita nazionale. Una volta la burocrazia si
addormentava sulle pratiche emarginate. Oggi tutto deve procedere con la
massima rapidità. Se tutti procederemo con questo ritmo di forza e di volontà e
di allegrezza, supereremo la crisi, la quale, del resto, è già in parte
superata. lo sono lieto di vedere il risveglio anche di questa Roma che
offre lo spettacolo di officine come questa. lo atfermo che Roma può
diventare centro industriale. 1 romani devono essere i primi a disdegnare
di vivere soltanto sulle loro memorie. Il Colosseo, il Foro romano
sono glorie del passato: ma noi dobbiamo costruire le glorie del presente e del
domani Noi siamo la generazione dei costruttori che col lavoro e con la disciplina
del braccio e intellettuale vogliono raggiungere il punto estremo, la
meta agognata della grandezza della Nazione di domani, la quale sarà la
Nazione di tutti i produttori e non dei parassiti . Con Mussolini il
Fascismo ha ringiovanito l'Italia. Spetta a Lui l'aiutarci nel
rinnovamento dell’ambiente artistico ove permangono uomini e cose
nefaste. La rivoluzione politica deve sostenere la
rivoluzione artistica, cioè il futurismo e tutte le
avanguardie. DOMANDIAMO: DIFESA DEI GIOVANI ARTISTI ITALIANI
NOVATORI in tutte le manifestazioni artistiche promosse dallo Stato, dai Comuni
e private. Esempi: Alla Biennale di Venezia furono invitati avanguardisti e
futuristi stranieri {Archipenko, Kokoschka, Campendonk), mentre non furono mai
invitati i futuristi italiani (creatori di tutti i futurismi). Bisogna
sradicare questa ignobile antitalianità sistematica! c) Al Teatro
della Scala {che ha la funzione di rivelare, glorificandoli, i nuovi musicisti
italiani) si danno ogni anno due opere di Wagner e nessuna (o quasi
nessuna) di giovani italiani. Si preferiscono cantanti stranieri
inferiori ai nostri, Bisogna sradicare questa ignobile antitalianità
sistematica! Il Teatro di Siracusa non può essere riservato alla
gloria dei classici greci! Domandiamo che, alternativamente alle
rappresentazioni delle opere classiche, si svolga un concorso per un dramma
moderno pittoresco adatto all'aria aperta di un giovane siciliano da
premiarsi e incoronarsi solennemente nel teatro stesso. (Proposte Marinetti,
Prampolini, Jannelli, Nicastro, Carrozza, Russolo, Mario Carli, Depero,
Cangiullo, Giuseppe Steiner, Volt, Somenzi, Azari, Matasco, Dottori,
Pannaggi, Tato, Caviglioni, Paladini Raciti, Mario Shrapnel, Raimondi, G. Etna,
Sportino-Bona, Cimino, Soggetti, Rognoni, Masnata, Mortari, Piero
Illari, Rizzo, Soldi, Leskovic, Buzzi, Casavola, Clerici, Caprile,
Scirocco), ISTITUTI DI CREDITO ARTISTICO ad esclusivo beneficio degli
artisti creatori italiani. Come si aprono delle Banche di credito a
favore delia industria e del commercio, similmente si dovranno
creare appositi Istituti che sovvenzionino manifestazioni artistiche
o Istituti d'arte industriale o anticipino denaro agli artisti per il
loro lavoro (manoscritti, quadri, statue, ecc.) i loto viaggi di
isttuzione o di propaganda. Tali Istituti di credito potranno avere
carattere privato (Società anonime per azioni) o governativo (enti e
fondazioni). Nel primo caso la nascita di tale Istituto è legata alla
maggiore o minore buona volontà e mumero degli aderenti. Nel secondo caso
il capitale necessario satebbe sicuramente e prontamente realizzabile solo che
lo Stato decretasse un'imposta od una ritenuta anche minima, ma
estesissima, sui redditi di guerra, sui patrimoni, ecc., o mediante una
sottoscrizione nazionale ad iniziativa statale. L'Istituto agirebbe
poi come una Banca per gli artisti, accetterebbe depositi di opere
d'arte, e in base alla valutazione reale darebbe sovvenzioni od aprirebbe
crediti. L’opera d’arte giacente costituirebbe un deposito
fruttifero per il depositante e per l’Istituto stesso che promuoverebbe
iniziative artistiche, vendite, ecc. Così l'artista e l'opera d’arte
sarebbero valorizzati. Questi Istituti potrebbero intraprendere
concessioni di mutui a favore d’'industrie artistiche e ottenere l’uso
di palazzi per adibirli ad abitazioni di artisti, d’istituzioni
artistiche od aprirvi periodiche mostre. (Proposta Prampolini, Marinetti,
Russolo, Cangiullo, Depero, Settimelli, Mario Carli, Buzzi,
Matasco). DIFESA DELL’ITALIANITÀ. Italianizzazione obbligatoria
immediata degli alberghi (tutte le diciture, insegne, liste delle vivande,
conti, ecc., in lingua italiana), dei negozi e della corrispondenza
commerciale. Mezzi automatici per propagare la lingua italiana senza
spese. (Proposta Marinetti, Russolo, Buzzi, Folgore, Mario Carli,
Settimelli, Depero, Cangiullo, Somenzi, Marasco, Rognoni. Italianizzazione
della nuova architettura contro l'uso sistematico di plagiare le
architetture straniere. Cominciare questa italianizzazione in tutti gli
edifici statali, specialmente nei paesi redenti. (Proposte Virgilio Marchi,
Depeto, Russolo, Buzzi, Somenzi, Azari, Marasco, Prampolini, Folgore,
Volt. Italianizzazione obbligatoria delle edizioni e dei caratteri tipografici.
Proposta Frassinelli, Rampa-Rossi. ABOLIZIONE DELLE ACCADEMIE, Istituti
di Atte e Scuole professionali. Gl’attuali sistemi d'insegnamento nan
corrispondono alle esigenze estetiche dell'evoluzione dell’arte attraverso
i tempi. L'arte non si insegna. Gli attuali diplomati non sono né
tecnici competenti né artisti. Abolizione delle Accademie di Belle
Arti e Professionali senz’altre sostituzioni. (Proposta Marasco).
PROPAGANDA ARTISTICA ITALIANA ALL'ESTERO mediante un Istituto Nazionale di
propaganda artistica all’estero che tuteli glì interessi artistici ed economici
degli artisti italiani. Questo Istituto dovrà essere diretto da
giovani artisti stimati all’estero e che propugnino con italianità il
genio novatore italiano Avrà commissioni permanenti riguarda ti le
varie arti e uffici di corrispondenza nei principali centri artistici
esteri. Agirà mediante conferenze, concerti, esposizioni e pubblicazioni
periodiche di propaganda. (Proposta Prampolini, Russolo, Buzzi, Volt, Marasco). CONCORSI
LIBERI D'ARTE. Utilizzare una parte del denaro che lo Stato
spende attualmente per l'arte in concorsi di poesia, plastica,
architettura, musica, riservati ai giovani non ancora venticinquenni, da
premiarsi mediante un referendum popolare. (Proposta Balla, Marinetti,
Marasco). AFFIDARE L'ORGANIZZAZIONE DELLE FE. STE NAZIONALI E
COMUNALI (cortei, gare sportive, ecc.) ai gruppi d’artisti d'avanguardia
italiani, i quali hanno ormai provato in modo incontestabile la loro
genialità innovatrice, fonte di quell’ottimismo che è indispensabile alla
salute della Patria. (Proposta Depero, Azari, Marinetti, Marasco).
AGEVOLAZIONI AGLI ARTISTI. Riconoscimento legale da parte del Governo
dei diritti d'autore per gli artisti delle arti plastiche, sul maggior
prezzo raggiunto dalle opere loro, attraverso le vendite successive, mediante
una istituzione simile alla Società degli Autori . Abolizione delle
tariffe doganali internazionali sia riguardo le importazioni che le
esportazioni delle opere d’arte moderna. (Proposta Prampolini, Depero,
Azari, Marasco, Marinetti, Volt). CONSIGLI TECNICI CONSULTIVI formati
da artisti ed eletti fra artisti con una rappresentanza proporzionale
delle tendenze d'avanguardia. Questi Consigli Tecnici consultivi avranno lo
scopo di tutelare gl’interessi degli artisti nei rapporti con le istituzioni
statali, comunali, private e gli artisti stessi. {Proposta Prampolini,
Marasco, Marinetti, Volt) RAPPRESENTANZA PROPORZIONALE. Le
avanguardie artistiche italiane dovranno essere invitate a partecipare con una
rappresentanza proporzionale a tutte le manifestazioni e cariche
artistiche statali, comunali e private. (Proposta Prampolini, Marasco,
Marinetti, Volt). CONSORZIO INTERNAZIONALE per la tute. la degli
interessi artistici ed economici degli artisti d'avanguardia. Questo Consorzio
dovrebbe proporsi l’accentramento delle migliori istituzioni artistiche di
avanguardia, per la solidarietà, la difesa e la propaganda artistica
ed economica. (Proposta Prampolini, Marasco, Marinetti, Volt). Per
la Direzione del Movimento Futurista e per tutti i Gruppi Futuristi
ltaliani MARINETTI NATALE SENZA LUCE
sequestrato). Chi fu legionario di Fiume non potrà mai dimenticare le
rosse giornate natalizie di quattro anni fa, con le quali si conchiudeva
tragicamente e desolatamente una breve ma non ingloriosa epopea. Il
ricordo ha poi un valore particolare per chi lo avvicini al pensiero
della situazione politica odierna, che ha qualche vaga analogia con
quella che segnò la fine di un generoso sforzo della nuova Italia.
Il sangue fraterno di quelle Cinque Giornate non è stato ben
vendicato. Pareva a molti di noi che la Marcia su Roma dovesse continuare
quella di Ronchi per dare alla nostra grande Patria una nuova fisionomia
di potenza e per vivificarla di un nuovo afflusso di giovinezza. Ma la spinta
rinnovatrice della generazione di Vittorio Veneto si è, ahimé, fiaccata nel
labirinto delle vecchie pance e vecchie barbe che tengono tuttora il
campo della vita nazionale. E sul tempo d’arresto che oggi fa
segnare il passo alle orgogliose avanguardie d'impero, la sagoma
immortale del cavalier Giolitti si profila
come quattro anni fa a rassicurare il mondo che l’Italia è ancora quella
mediocre, umile nazioncella di molte chiacchiere innacue ma di pochi fatti
pericolosi, e che agni tentativo di virilizzarsi e impennarsi in alati
eroismi, è destinato al più pietaso insuccesso. Sembra a ben
considerare i più recenti avvenimenti che il sogno di una politica più alta,
più rettilinea, più forte, sia una morbosa fantasia di cervelli malati;
e che una sola specie di politica sia possibile: quella che ha nome
Giolitti. Vale a dire: quella basata sull’intrigo, sul compromesso, sulla
pattuizione, sull’arte di farsi ricattare. La manovra parlamentare domina
ancora tutto il congegno di governo. E’ pacifico che non si governa coi
parlamenti, poiché essi sono l’antigoverno per eccellenza: ma è
altrettanto pacifico che questo popolo italiano rabbiosamente
ingovernabile non vuol rinunciare al suo bravo Parlamento, fonte di ogni
male, serbatoio di ogni decadenza. Contro questa massima cloaca
nazionale (parlo, s’intende, dell'Istituto, non degli uomini) il Fascismo è
andato a impantanarsi pazzescamente. Il Fascismo ha commesso questo gravissimo
errote iniziale: di non saltare a pié pari il Parlamento. Viceversa vi si
è sentito attratto, ha voluto saggiarne le delizie, ha voluto conquistare
questa quota a colpi di scheda mortificando la sua anima guerriera quando
avrebbe dovuto farla saltare a colpi di bomba. E certi errori sono troppo
gravi perché non si debbano scontare. Tuttavia, non si potrà
negare a noi irriducibili antiparlamentari, a noi rimasti fuori dell'aula per
volontà premeditata, e quindi immuni da interessi e da schiavitù
elettorali, it diritto di tener fede ai principi per quali s'iniziò la
battaglia, e soprattutto alla nostra accesa spiritualità di italiani #4ovi:
nuovi nella mente, nel temperamento, nell’educazione, nella passione. Anche se
tutto crollasse attorno a noi, e il nostro sogno trilustre, perseguita
con appassionata tensione di nervi e di cervello, dovesse ridursi in polvere di
macerie, noi non rinunzieremmo ad essere quelli che fummo e che siamo:
cittadini di una Patria più grande, più eroica, più possente, più
dominatrice. Mai non rinunceremo lo sappiano bene i nostri
nemici alla nostra sete d’impero, alla nostra fiamma di grandezza, che
odia la vita democratica, l’egualitarismo ipocrita, il pietismo
umanitario, l’eunuco calamento di brache. A noi conviene la formula maschia di
Silla, che per disciplinare la repubblica in dissoluzione e
prepararla all'impero, chiedeva tutti i poteri, il controllo sui
tribunali civili e militari, la giurisdizione eccezionale, la legisiazione di
gabinetto da sovrapporre a tutte le leggi anteriori, il diritto di battere
moneta, di convocare il popolo, di sospendere e punire i funzionari dello
Stato, e infine, di mettere fuori della legge i cattivi cittadini. A noi
piace infinitamente Ja salutare ferocia di questo Dittatore-modello, che,
mentre il Senato discute se conferirgli o no la potestà dittatoria, fa
giungere nell'aula il fiero ululato dei seimila prigionieri di Porta
Collina, sgozzati al suo segnale, e che incide sulla tabella i nomi dei
Senatori vetanti contro di lui, per ricordarsene a tempo e luogo.
Il Fascismo è venuto al potere più attraverso la spa da di Silla
che l’oratoria di Cicerone. Perché dimenticarsene? II Fascismo non ha nulla da
sperare da una sua politica di debolezza conciliatrice. I suoi nemici
lo vogliono polverizzato e disperso, e tale lo avranno se si
continuerà a ceder loro in ogni occasione. Dal 10 giugno in poi, si può
dire che l’Italia è stata governata dall'ombra dell’Aventino. Tutto questo è
contro natura, contro storia, contro giustizia. Non sono le ombre che
possano aver diritto al comando, bensì le energie luminose. Quando ci
scrolleremo di dosso tutte le ombre importune che ci soffocano come ali
di corvacci e di vampiri? Mario CARLI [da: Fascismo
intransigente, Bemporad, Firenze] Con la Mostra della Rivoluzione
si risolve finalmente, e in modo favorevole, il grave problema della
militarizzazione della fantasia creatrice mediante temi fissi da imporre agli
artisti. Molti fra i pittori, scultori e architetti, invitati a
realizzare questa Mostra grandiosa, furono indubbiamente turbati dal
prestigio di queste gloriose parole che dominano ormai nella nuova storia
d’Italia: interventismo, Vittorio Veneto, Mussolini, e Popolo d'Italia,
Diciannove, battaglia di via Mercanti e incendio dell’Avanti!, covo
di via Paolo da Cannobio, Casa Rossa, Lodi, Palazzo Accursio, Marcia su
Roma. Legati tradizionalmente ai noti motivi idilliaci cittadinì o rurali,
tramonti melanconici e ritratti statici, questi artisti sentirono subito la necessità
di capovolgere il loro spirito per disegnare nell'aria un tuffo perfetto
nel mare della novità. Da tempo il Futurismo italiano, con il
suo seguito di avanguardie estere più o meno originali, gridava per
insegnare l'invenzione a ogni costo. Quattro mesi fa il Duce, con la sua bella
parola imperiosa e veloce, ordinò che si evitasse il passatismo della
palandrana di Giolitti. Suggestionati poi dal dinamismo aggressivo
colorato e tragico della Rivoluzione, essi abbandonarono la loro
staticità e la classicità placida. Gli architetti incaricati di dare una
faccia nuova al vecchio e brutto Palazzo dell’Esposizione, sentirono
l’assurdità di qualsiasi decorativismo simbolico, floreale, mitologico o
grazioso. Le loro prime linee gettate sulla carta, rizzandosi ascensionalmente,
presero lo slancio aggressivo, guerriero e minaccioso di altissime torri di
acciaio o ciminiere naviganti. A me ricordano simpaticamente i geniali
fasci di ascensori dell'architettura di Antonio Sant'Elia, il grande e
compianto padre futurista dell’architettura moderna. Logicamente andò
determinandosi lo stile della Mostra per virtù della Rivoluzione e del
suo ritmo mobile aggressivo. Si ricorda l’intero profilo d’uno squadrista.
Un dettaglio basta. Di quell’autocarro schiacciato dal peso dei
fascisti come un tino stracarico di giganteschi grappoli neri io ricordo
soltanto il mosto rosso a terra e l’acutissimo odore di benzina. Quindi
sintesi, dinamismo e intersecazioni di piani. Visibilità aggressività
giocondità. Questa Mostra della Rivoluzione, che tutti gli
squadristi augurano non effimera ma duratura, stabilisce la gloria
del Fascismo con uno stile rivoluzionario italiano che ha avuto pet primi
maestri Sant'Elia e Boccioni. E’, secondo le parole di Rossoni dettemi
questa mattina, il trionfo dell’arte futurista. MARINETTI [du:
Fuiuriszo, Nel fervore della polemica pro e contro il Futurismo molti si
chiedono: come la pensa il Duce? A questo in terrogativo i nostri
avversari rispondono arbitrariamente come saremmo ugualmente arbitrari
noi volendo asserire l'opposto di ciò che loro affermano. Per la verità
il Duce non può essere dall’una o dall’altra parte (passatismo ©
futurismo) ma nella sua specifica qualità di Capo della Nazione non può
essere passatista e futurista nello stesso tempo. Che Egli prediliga come
certuni pretendono correnti intermedie lo esclude il suo temperamento
nemico di tutti gli oscillamenti e di ogni mezzo termine. Preferisce le
posizioni diritte anche le più azzardate e non è detto quindi che si
compiaccia trattenersi ad ammirare le varie denominazioni che si dànno
alla strada nel corso di così lungo e complicato cammino com'è quello
dell'arte. Egli tende alla meta: L’arte fine a se stessa.
Passatismo e Futurismo: due colossi che se non esistessero Mussolini li
avrebbe creati apposta non fosse altro, per }a gioia patriottica di
vedere scaturire dal cozzo di queste mentalità opposte, nuove faville di
luminosa genialità italiana. I piccoli mondi che rotolano ai margini di questa
battaglia sono frammenti o scorie staccatesi, nell’urto, dal corpo
dei titani: hanno una vita effimera e quelli che precipitando come valanghe
trascinano nella loro scia deboli detriti superficiali, se sopravvivono,
sono sempre alimentati dall'atmosfera incandescente generosa che emana il corpo
che li ha creati. Passatismo e Futurismo rimangono inamovibili l'uno di
fronte all'altro: impossibile conciliare il concetto conservatore
tradizionale del primo col principio rivoluzionario rinnovatore del
secondo. Chi sia il più forte non è facile stabilite: dipende da
determinate condizioni intellettuali e spirituali di tempo. Oggi però in
questo secolo fascista più che le biblioteche e i musei si moltiplicano
scuole avanguardiste, impressioniste, razionaliste, novecentisie, moderniste in
genere, tutte volenti o nolenti generate dal futurismo. Volenti o
nolenti: non ha valore il fatto che molti sconfessano la loto origine.
E' fatale; anzi vorremmo dire storico. Probabilmente tra cinquant’anni il
mondo fascistizzato considererà Mussolini un utopista e ogni nazione
vanterà il merito di avere instaurato per prima il nuovo regime politico. Di
queste infamie la storia è... maestra; solo dopo qualche secolo si rende
giustizia alla verità. Tornando al nostro argomento, è fuori dubbio che
Mussolini, valotizzatore delle gloriose conquiste del passato, sprona i
capaci a superarle sul traguardo del più fulgido domani. Quindi il futurismo
rappresenta infatti quell’eroica generosa pattuglia d’assalto che
trascina l’esercito degli artisti alla conquista del nuovo. Questo fatto in sé
eloquente e inconfondibile, unico nella storia dell’arte, ha rapporti
precisi in campo politico con la gloriosa epopea mussoliniana.
L'inesauribile ottimismo futurista si identifica così con il concetto generoso
originale ardito del fascismo vittorioso. Senza citare fatti e
particolari di cui sono ricchi i nostri ricordi personali, in tema Mussolini e
il futurismo basterà ricordare giacché l'occasione è opportuna queste tre
date significative: Boccioni vi avrà detto che tutte le mie
simpatie sono, anche nel dominio dell’arte, per i novatori e i
distruttori e per i futuristi... Mussolini: presente adunata futurista
che sintetizza vent'anni di grandi battaglie artistiche politiche spesso
consacrate col sangue. Congresso deve essere punto di partenza non punto
d'artivo Mussolini Dopo di avere concesso il suo alto patronato per le onoranze
nazionali al futurista Boccioni,
Mussolini offre il PRIMO generoso contributo materiale per il trionfo della
grande rassegna dell’arte futurista italiana. A questo punto, dopo
quanto abbiamo detto, ulteriori considerazioni sono superflue come
sarebbe superfluo ricordare ancora una volta l'influenza patriottica
esercitata dal futurismo sulla gioventù italiana prima durante e
dopo la guerra e il fattivo isolato contributo dei futuristi al
fascismo. SOMENZ2I (da: Sant'Elia] Allorché quindici anni or sono,
nel palazzo di Piazza San Sepolcro, Mussolini gettò le fondamenta di
quello edificio colossale che doveva essere il Fascismo, se nel
manipolo degli intervenuti individuò degli artisti, questi erano soltanto
ed esclusivamente artisti futuristi. Appena creati i Fasci di
combattimento, i primi gruppi che cotseto ad ingrossare le schiere che
cominciavano a formarsi furono i gruppi politici futuristi, prima, e
gli arditi di guerra e i legionari fiumani, poi, sempre per merito
esclusivo dei futuristi. Il nostro Movimento diede quindi al Fascismo un
apporto qualitativo e un apporto quantitativo: inoltre diede alla creazione
mussoliniana un conttibuto gigantesco di fede cieca, di entusiasmo
eroico. Vogliamo indagare il perché di questa spontanea simpatia, di
questo irresistibile trasporto del Futurismo verso il Fascismo; il perché
della meravigliosa, totalitaria corrispondenza fra una cemcezione eminentemente
politica ed una concezione eminentemente artistica? Prima di tutto,
troviamo che il Fascismo e il Futurismo hanno alla loro origine dei germi
comuni: l’amore disperato alla propria terra, la necessità di moto e
di azione. Dell’intervento nella grande guerra uno fece il punto di
partenza per la sognata rivalorizzazione della patria; l’altro, lo sbocco
conclusivo di quei fatti e di quelle idee che possono riassumersi nei tre
principii futuristi: Tutti 1 diritti, meno quello di esser vigliacchi .
La parola Italia deve prevalere sulla parola libertà . La puerta,
sola igiene del mondo , Dalle piazze affollate d'Italia si passò
alle trincee insanguinate d'Italia: interventisti intervenuti: identico
entusiasmo: identici sacrifici: identica volontà di far germogliare il bene
della Patria dal martirio e dalla morte dei suoi figli. E questa è
già molto per dimostrare la straordinaria affinità sentimentale, di
origine e di scopi esistente tra Fascismo e Futurismo. Ma v'è
di più. Infatti, passando dal campo delle concezioni teoretiche a quello delle
espressioni pratiche, noi vediamo il Fascismo disdegnoso di adagiarsi nei
ricordi del passato, ansioso di sciogliersi dai vincoli del presente,
protesa con gli spuardi e con tutte le energie alla conquista del domani.
Avanti, avanti sempre, incita il Duce; raggiunta una mèta, mille altre se
ne profilano: occorre raggiungere anche queste: ogni sosta è un
tradimento: ogni indugio è un delitto. Non sona questi i
principii stessi cui s’informa il Futurismo? E il Futurismo è
tutto azione e vita: nelle sue schiere accoglie la più bella e sana gioventù
d'Italia: gioventù d'anni, ma anche di spiriti. I suoi artisti creano con la
stessa generosità, con lo stesso dispregio di ogni premio e di ogni
riconoscimento, con i quali ! nostri soldati scattavano all’assalto: loro
unico orgoglio, lora unica aspirazione è di poter contribuire a che il
nome d’Italia sempre più alto e sonoro e sempre niù in estensione squilli
nel mondo. E non è Fascismo, questa? Ma non è soltanto
ciò quello che ci spiega come, fatto mai verificatosi nella storia
dell'umanità, una concezione esclusivamente morale ed artistica abbia
potuto così bene assorbire ed assorbirsi in una concezione
esclusivamente politica e sociale Il fatto straordinario che
oggi non può non riempirci di legittima se pur meravigliata
soddisfazione, è questo: un colosso della politica che pensa, agisce,
crea, con la ispirazione e la chiaroveggenza luminosa di un poeta:
un poeta che vive la sua arte come una battaglia politica per la
gloria della Patria sua. Né le due espressioni, fino ad oggi antitetiche,
politica e arte, s'urtano o si contrastano: anzi si può ben dire che esse
hanno così informato di sé medesime le due personalità che concepirle in
diversi atteggiamenti spirituali ci sarebbe impossibile. Come spiegare
questo fatto così nuovo e così fuori del comune, se non riferendoci ad una
forza incoercibile, misteriosa, ma che tuttavia sussiste, a quella forza cioè
che crea in alcuni privilegiati quegli speciali stati d'animo per cui il
Genio, attraverso l'adamantina luminosità di un pensiero superiore, giganteggia
e s’infutura? È indubbiamente questa forza contro la quale noi nulla
possiamo che fa di Mussolini un futurista della stessa tempra di
Marinetti e di Marinetti un fascista, degno seguace di Mussolini. È sempre
questa forza che avvicinando i due crea- tori, avvicina conseguentemente
le loro due creature: è perciò che come non potrebbe comprendersi un
futurismo non fascista così non si potrebbe concepire un fascismo
conservatore e passatista. È perciò ancora che i futuristi e i fascisti,
se veri ambedue, s’intende, non possono distinguersi: l’italiano
nuovo è un miscuglio nel valore che la chimica dì a questa parola di
fascismo e di futurismo: essi costituiscono i due elementi inscindibili e
insostituibili di un tutto organico. Chi ha detto ai nostri
giovani di chiamarsi /uturfascisti? Nessuno: eppure essi, generalmente, così
amano definirsi. Inconscio, spontaneo riconoscimento di una grande verità che
non può discutersi e non si distrugge. Come altrettanto vero è che
i fascisti autentici sono ottimi futuristi. e non potrebbe essere
diversamente data l'essenza dinamica, generosa, novatrice, ottimista
nella quale il Duce vuole plasmati i nuovi italiani. Ma come
avviene, allora, che anche tra i fascisti sono molti i contrati al
Futurismo? Perché molti sono i rimrorchiati che pur vestendo
in camicia nera e ostentando il distintivo, parlando (e purtroppo
parlando solo) fascisticamente e mettendosi sempre in prima fila nei cortei,
han tuttavia conservato l’anima italiana di anteguerra, pavida, gretta,
piccina. Molti altri poi, pur sentendo nel loro intimo tutto
ciò che di bello e di buono ha il Futurismo, per un senso invincibile di
borghesisma, per timore di essere ridicolizzati e per desiderio di essere
tenuti e rispettati quali persone serie, dicono e non dicono, ammettono e
smentiscono, concedono e negano, opportunisti rammolliti, borghesi,
vigliacchi. Ma ciò che prima o poi capiterà a costoro, che
noi sentiamo di odiare profondamente, molta ma molto di più dei
nemici nostri aperti e leali, che almeno rispettiamo, lo ha detto chiaramente
il Duce nel suo recente magnifico discorso all'Assemblea quinquennale.
Per essi non si tratta né di Fascismo né di Futurismo: si tratta di
vigliaccheria, e basta. Non han diritto neppure a chiamarsi
italiani. Né escludiamo da questa ignominiosa schiera quei giovani
d'anni che han conservato intatta l’anima dei bisavoli: che gridano doversi
l’arte rinnovare e si impuntano come muli riottosi dinanzi al futurismo:
che accettano e sì prosternano ad ogni novità che ci proviene
d'oltre confine, anche se figlia di genitori futuristi italiani, e
fanno i disdegnosi, gl’incontentabili, i superuomini verso il nostro
movimento che gli stranieri stessi ammirano come un’altra delle tante glorie
italiane. Anche questi così detti giovani non possono e non
potranno mai essere fascisti sul serio, giacché essi non hanno del
Fascismo né compreso né assimilato quelle caratteristiche di spiccato futurismo
che sono il rinnovamento, la velocità, il dinamismo, il continuo superarsi, la
mat cia ininterrotta verso la perenne conquista. E lo stesso
diciamo di quei critici che si fermano a vivisezionare un'opera d’arte,
isolandola dal vasto ambiente donde essa ttae la sua ragione di vita; che
fanno l'anatomia di un nostro artista senza riflettere che esso è
soltanto un membro di un corpo gigantesco. Essi dimostrano di aver perduto o di
non aver mai posseduto quella somma virtù latina, fascista e futurista
insieme, che è la virtù della sintesi soffocata in loro dalla fredda
pesantezza anglo-sassone dell’analisi. Ma costoro sono i comprimatii, le
comparse della nostra vita e abbiamo di già concesso loro troppo onore di
discussione. Su tutto e su tutti restano le idee: nel campo
politico-sociale, l'idea fascista; nel campo artistico-spirituale. l’idea
futurista. Ambedue han detto al loro mondo una parola non ancorta
udita; ambedue hanno tracciato, ognuna nei propri confini, la via nuova
da seguire per giungere alla salvezza: tanto l’una che l’altra si sono
dimostrate possenti dinamo, generatrici di forza, di fiducia in noi stessi, dì
ottimismo. di passione, di entusiasmo. L'una, nel campo politico,
ha raccolto infiniti proseliti ovunque, e ciò in relazione ai numerosi
problemi d’indole contingente di cui ha trovato o propone le soluzioni;
l'altra, nel campo più ristretto dell'arte, ha egualmente suscitato energie,
ridestato gli addormentati, incitato i pigri, rincuorato i pavidi,
persuaso i dubbiosi. Se qui dovesse attestarsi l’opera vitale sia
dell'una che dell'altra idea, già tutti i diritti esse avrebbero
acquistati per l'imperitura riconoscenza della civiltà. Ma ambedue
continuano nella loro marcia ascensionale: e i critici che affermano essere il
Futurismo superato ci fan lo stesso effetto di quei pochi e sparuti anti.
fascisti che affermano aver il Fascismo esaurito il suo compito. Idee
come queste nostre non possono né sostare, né esaurirsi, né esser
superate: la loro essenza stessa di continua marcia, di continua ascesa, di
continua conquista non lo permette. Un uomo, a idea, una
opera potranno esser superati: ma non l'Uomo, non l’idea, non l’opera.
Ed ora che conclusione trarremo dalla dimostrata identica struttura
spirituale del Fascismo e del Futurismo, dalla dimostrata perfetta
corresponsione fra loro di scopi e d’intenti? La conclusione
è la solita: ripetiamo ancora una volta e confermiamo che il solo artista
capace di riprodurre in tutta la sua ampiezza, in tutta la sua luce e in
tutta la sua gloria la vita nuova dell’Italia di Mussolini è
l'artista futurista e che il Futurismo è la sola espressione d'arte
degna e capace di tramandare ai posteti la vitalità, la potenza, la dinamicità
dell’éra fascista. Questo diritto che noi accampiamo ci proviene da
quell'identità di spirito, di tendenze, di sensibilità che fa del
Fascismo e del Futurismo un unico, perfetto blocco e che nessuna scuola,
nessuna tendenza, nessun'altra forma di arte può vantare E
noi teniama al riconoscimento di questo nostro diritto: non perché ci spingano
meschini interessi o poco nobili ambizioni ma perché, forti di un infinito
amore per la patria nostra e di una dedizione cosciente e completa
di tutta la nostra spiritualità alla sovrumana potenza di un'idea, al
fascino gigantesco di un Genio universale, vo. gliamo che non abbia soste
il cammino trionfale che l’Italia rinnovata sta compiendo verso le sue più alte
mète, sotto il comando romano di Benito Mussolini. FuTURISMO
[da Sant'Elia] La polemica accesasi negli Anni Trenta tra futuristi
rivoluzionari e futuristi sostanziali o di destra, è già espressione di
quel secondo futurismo, che abbia mo visto e detto essere momento
collaterale del fascismo-regime. O tentativo piuttosto di conservare la
avanguardia nell'ambito di un sistema che come tale era più propenso ad
un suo ordine intrinseco e imprescindibile da mantenere 0 da continuare. In questo
senso il futurismo di destra, come lo definisce il sansepolcrista Bruno
Corra nel marzo del ‘32 su Futurismo, vorrebbe un po’ essere quello degli
arri. vati , di chi si asside sulle comode poltrone della fine
della carriera, pur cercando di mantenere uno Spirito 4 precedente ,
giovanile e innovatore, che non può essere venuto meno in chi ha giù
combattuto e si è esposto per una causa di rinnovamento. Gli fa eco
Corrado Gawvoni riprendendo il discorso e puntualizzando il concetto stesso di
futurismo, senza che gli si debba o gli si voglia nulla rubare, come è
staio fatto da tutte le parti, e a riconoscergli invece la sua
portata e i suoi risultati. Solo una settimana dopo ribatte Paolo
Buzzi sul numero del 26 marzo sempre di Futurismo con un violento
attacco ai futuristi di destra e il sostegno 4 un ritorno alle estrema
sinistra , come già dice nel titolo. L'’avanguardia, in quanto
avanguardia e se vuol rimanere avanguardia, non può che esercitare
una funzione di vottura per il rinnovamento ed il rivolgimeuto del
vecchio e del passato. Come tale l'aver guardia non può che essere e
rimanere di estrema sinistra , sC il futurisito si ritiene ancora
uvangaar dia 0 vuole mantenersi e vivere. Resta però forse una voce
isolata quella del Buzzi, rincalzato ancora il 2 aprile, sul numero della
settimana dopo, da Remo Chiti che postula un futurismo sostanziale in cui
tutto si annulla, destra e sinistra, nel momento stesso in cuni tt
futurismo diviene ercativo e vu libera dvi conformismi e delle
convenzioni. Ancora all'Avanguardia dedicava un quinto ed
ultimo articolo Luciano Folgore, sempre su Futurismo dello stesso anno.
Il futurismo di destra e quello di sinistra st superano oramai
nell'avanguardia che ancora continua e sì muove nell'avanzata dell'entusiasnio.
E l'ottintismo continua in effetti fino al’ultimo, anche con la fine del
fascismo, anche con la morte di Marinetti, anche con la sconfitta nella
guerra sola igiene del mondo , continua ancora nelle ulti me
gencrazioni e nel messaggio dell'ultimo manifesto, quello del
futurismo-oggi , che vive e crea nel presente. NOI FUTURISTI DI
DESTRA Quando si riunirà in Roma il primo grande congresso dei
futuristi di tutto il mondo, io andrò a sedermi
vicino a Buzzi, a Notari, a Folgore, a Govoni ad un banco
dell’estrema destra. Ma esiste dunque, può esistete un Futurismo di destra? I
due termini non fanno a pugni? Un movimento rivoluzionario può contenere
in sé tendenze conservative? E, infine, l’espressione futurista di destra
non val quanto futurista annacquato e prudente non s'identifica con
l’ambigua parola novecentista ? Mi pare che qui si tratti, prima di
tutto, di una questione di moralità. Dare al Futurismo quel che al Futuri
smo appartiene: e non truccare il proprio ingegno con una etichetta di
convenienza. Chi si dichiara avanguardista ma non futurista, sputa nel
piatto dove ha mangiato. Poi, io stabilirei questo principio: che il
privilegio di poter restare nella sfera magnetica del Futurismo pure
affermando, nella propria opera matura un remperamento realizzatore di
destra debba accordarsi soltanto a coloro che han dimostrato di saper essere
integralmente futuristi. E reclamerei il diritto di sedermi a destra, per mio
conto, in nome della mia effettiva collaborazione al Futurismo più
rivoluzionario: Teatro Sintetico; Cinema futurista; e due opete di
audacissima narrazione fututista (La donna ce duta dal cieln Sam Dunn è
morto). In realtà, fermo restando che l’essenza del Futurismo
è e non può non essere rivoluzionaria, bisogna dire che nel nostro
movimento i termini sinistra e destra non si oppongono, perdono ciaè il
loro significato convenzionale. La mentalità futurista supera il
contrasto fra il sovvertimento e la conservazione, in quanto si libera di
continuo in uno slancio creativa. Perciò un eventuale Congresso futurista
dovrebbe assumere una configurazione non orizzontale ma verticale: fututisti di
cima e futuristi di base, aviazione e fanteria. E soltanto per ragioni di
comodo, io qui mi son servito della parola destra. Ma diciamo
pure i fanti, i pontieri, i costruttori di strade del Futurismo, e avremo
indicato il carattere e spiegato la necessità di questo settore nel nostro
movimento: l'aderenza al terreno pratico. Come l'architettura, come
la decorazione, l’arte narrativa adempie a una funzione in gran
parte pratica: da ciò l'obbligo per essa di equilibrarsi tra il dovere del
rinnovamento artistico e l’imperativo degli scopi vitali ai quali la sua natura
la destina. Un romanzo illeggibile equivale a una casa senza
finestre per vederci o a una stazione dove i treni non possono circolare.
Ora il Futurismo vanta la proptia aderenza al tempo attuale anche nel senso
della praticità. Le case futuriste vogliono essere le più comode: la struttura
delle città futuriste mira ad assicurare i massimi vantaggi alle moltitudini
che devono abitarle. Allo stesso modo il narratore futurista ambisce di garbare
alle folle dei giovani, traendone e in esse trasfondendo gli ideali
tipici del nostro tempo, per via di una tecnica intonata alla sensibilità
moderna, tutta nitidezza brevità sintetismo. Va da sé che il buon
narratore futurista dovrà ogni tanto lasciare la sua bisogna terrestre,
per collaudare ed eccitare nell’ebbrezza di un volo lirico la propria
tempra di novatore. Questa nota veloce non intende di risolvere l'importante
problema al quale si riferisce: ma soltanto di proporre lo studio ai camerati
futuristi. Bruno CorRrA Sansepolcrista [da: Futurismo
-- Con il suo articolo Noi futuristi di destra uscito nell'ultimo numero
di Futurismo, Bruno Corra ha opportunamente aperto una tempestiva discussione
intorno al movimento futurista che, secondo me, va allargata e
approfondita da una serie di perentorie domande argomenti che, investendone in
pieno la vita e la vitalità, richiedono altrettante risposte urgenti e
risolutive, Quali sono le origini e le funzioni del movimento
futurista in Italia. Quanti e quali sono i movimenti artistici e
letterari succedntisi in questi ultimi venti anni in Europa, che
accusano sinceramente una netta derivazione dal Futurismo.
Individuazione dei movimenti artistici e letterari che
rappresentano una deviazione e una contraffazione del Futurismo e dei
movimenti che, o fingendo d’ignorarlo, o ammettendolo furbescamente solo
attraverso la propria attenuazione, continuano a pompargli generoso
sangue e a servirsene di veicolo sull’allegro esempio della comoda
simbiosi di Bernardo l’Eremita. Quali sono Je vere umane ragioni
per cui elementi di primissimo ordine si dispersero e si distaccarono
dal movimento futurista dopo averne fatto parte, o. dopo averne
attraversata l’esperienza (cito alcuni nomi: Palazzeschi e Carrà; Soffici
e Papini). In che cosa consista e came vada intesa il
cosidetto contenuto polemico che, seconda certa critica nostrana,
costituirebbe il peso morto e il punto d'arresto del Fututismo.
Quale fondamento abbia l'accusa spesso rivolta al Fututismo di essere un
movimento difettoso e caduco perché nato senza una dottrina estetica che lo
giustifichi. Espansione influenza e fortune del Futurismo in tutto il mondo e
suo riconoscimento in Italia. Sono tutte domande che hanno bisogno
per una conveniente risposta, di lunghe e minuziose trattazioni. Ed
è più che naturale e logica la irresistibile tendenza dei nostri
connazionali a sbarazzarsene con una sola parola. Questa parola la
conosciamo troppo bene: Marinetti! Ma conosciamo troppo bene anche
il grossolano trucco, Si accarezza Marinetti (fino ad un certo punto,
e il più nascostamente che sia possibile: è bene non compromettersi
troppo!), per negare poi il Futurismo e massacrare i futuristi. Da troppo
tempo si pratica ormai l'iniquo inganno per non sperare che abbia
finalmente a fruttare un risultato vittorioso e definitivo! È il trucco
indegno tentato dagli antifascisti contro il fascismo quando si cercava
di mettere in mora il fascismo proclamando il Mussolinisma, nell’assurda
canagliesca mira di dividerli, per batterli poi con più comada
separatamente. Mussolini anche a quei tempi era trappo Duce
per non avvertire la subdola insidia e sventarla. Marinetti!
Chi più di noi l’ha più fedelmente amato ed ammirato? Per
conoscere quali prodigiosi tesori di amore e di energia egli possieda,
bisogna vederlo all'estero. Bisogna sentire allora con che fuoco egli è
capace di affrontare i pubblici più paurosi per numero e distinzione, più
ostili ad ogni cosa che abbia la nostra impronta di quanto non st
creda, e per mentalità, per gelosia e furore d'inferiorità; bisogna
sentirlo dominare a poco a poco col suo impeto irresistibile gli spiriti
o avversi o diffidenti, e, mentre fa giganteggiare nelle assemblee
stipate l’ombra magnanima del Duce, vederlo a trascinarle all’'entusiasmo e
costringerle a riconoscere la poesia italiana come una cosa caduta dal
cielo: bisogna, dico, vedere quest'Uomo straordinario all’estero, per capire
che instancabile affascinante ambasciatore d'italianità nel mondo noi
abbiamo in lui. Se l’attività di Marinetti presenta una debolezza,
questo avviene proprio in casa nostra. E' una debolezza che è forse il
suo più alto titolo di gloria. E ritorneremo sull'argomento. Ma
approfitrarsene come troppi fanno, è un mostruoso delitto. Che cosa
volete allora?, ci domanderà qualche imprudente con un sorriso allusivo.
No, no, non invidiamo il puzzo di benzina, state tranquilli: a questo
volevate alludere. Ma troppe volte ricevia 136 mo in faccia
la cenciata dell'insolente puzzo di benzina per non sentirci offesi e
disgustati nella nostra rassegnata povertà. La ragione del
nostro malcontento è che da troppo tempo noi andiamo seminando e
falciando per quelli che ci seguono e allegramente raccolgono senza
nemmeno rivolgerci un pensiero di ringraziamento. Amici cari, se ci
fermassimo un po’, se ci voltassimo un pochino indietro anche noi? Se
pensassimo anche noi di raccogliere un pugno di quelle spighe, da
portarcele a casa se non altro per ricordo e testimonianza della
lunga fatica compiuta? Ma se lasciamo ancora correre un poco,
ho paura che ci negheranno anche questo piccolo premio di consolazione; e
se ci destineranno un posto {bontà loro!), questo non sarà che per il
museo, tra le mummie di coloro che st prodigarono e sactificarono per una
fede e un ideale e che Alfredo Panzini già propose di raggruppate in
una sola classifica con la denominazione di collezione di fessi.
GovonI [da: Futwrismo, ESTREMA
SINISTRA E non vorrei altro aggiungere. Le distinzioni, i punti fermi, Îe
categorie anagrafiche non contano. Si sa che, per taluni, l'età del
destino futurista è passata da un pezzo. Pure, quando la febbre della
creazione non è discesa e, soprattutto, quando il traguardo
tremendamente astrale della proptia Opera non è raggiunto, ci si
sente, ogni mattina, l'età magari di Vittoria, di Ala e di Luce
Marinetti...! Questo, e non altro, è il vero futurismo. Perché dovrei
sedermi a destra, proprio io? Mi sembrerebbe di tradire la causa di Aeroplani ,
di Ellisse € la Spirale , di Cavalcata delle vertigini , di Popolo
canta così! di Dannazioni e di tutto il mio Teatro inedito, ma ultra
violetto, che ha forse, a suo tempo, spaventato anche i genii scenici
sovversivi di Petrolini e di Bragaglia. Soprattutto, mi
sembrerebbe di tradite le mie Opere fantasticamente audaci di domani:
Beatitudini (affrettati mio caro
Campitelli: perché l'aeroplano-razzo deve partire per le stelle!). Canto
quotidiano , dove vedrete il Poema attimistico del 1932 (la Prora , lo
sta stampando); e Nostra Signora degli Abissi : dove, fina] mente, la
Motte sarà vinta e le onde cosmiche impasteranno da pari loro la nuova genesi
delle radiazioni interplanetari. Questo è futurismo: e di ultra
estrema sinistra. Le mie anatomie sintetiche di anime e di sensi,
le mie aeropitture di tipi e di paesaggi, i miei cosmapolitismi spaziali
e i miei intimismi vorticosi stanno per una intransigenza etico estetica che
costituisce, ormai, la gioia (ed, un pochino, anche la gloria) della mia
lunga carriera di uomo che ha sempre fatto dell'Arte come il sacerdote
celebra messa. Aviatore sempre, adunque: fante e stradino, non mai.
Lo so che i miei romanzi (appunto perché sempre ed esclusivamente poemi)
non hanno trovato che editori santi, martiri ed eroi. Ma anche questo è un
segno nobile delle cose e degli uomini e degli eventi. In quanto alle mie
opere di Poesia pura, ho avuto la soddisfazione recente di trovarmele
analizzate e comprese e discusse ed evidentemente quindi amate da una Rivista
di giovanissime menti e di ardentissimi cuori: dico, la Penna dei Ragazzi
diretta da Vittorio Mussolini, edita in Roma. I giovani, quelli
veramente degni di questo nome primaverile, sanno che, al di fuori e al di
sopra d’ogni inevitabile chiasso letterario, la parola futurismo risponde
alla solo unica vera idea forza che oggi esista nella sfera ideale del
Mondo: e che è in grazia di essa, unicamente di essa, se oggi la Poesia della
miracolosa Italia fascista vive e vivrà. Naturalmente io dico
ai giovani, anche e specie se coronati dal casco d'alluminio in pieno
cielo: lavorate non accontentatevi di
quattro parole intonate all’onomatopea del motore: la Poesia italiana ha ben
altri diritti ed impone ben altri doveri! guardate dalle finestre di
Palazzo Venezia, la Via dell'Impero! e cantate i nuovi Carmi degli
Augusti e dei Consolari , se ne siete capaci! Il Duce vi
premierà. BUZZI [da: Futurismo,
FUTURISMO SOSTANZIALE Non c’è che un futurismo: quello di estrema
sinistra , ha affermato Paolo Buzzi. Ma questa generosa intransigenza che
parrebbe volere ammettere un unico modo di manifestarsi contro la
premessa di Bruno Corra circa il riconoscimento o meno d'un futurismo di
destra aderente al terreno pratico rimane una questione poetica e
individuale di fronte agli argomenti che le terranno dappresso: Il
futurismo non è formalista; non si crea né si lascia creare barriere
dalle definizioni; pago della propria influenza, lontano da ripulse
d’ortodossia vendicativa, riconosce per suo anche quello che è tale
sull’altro name. Del resto Corra aveva scritto: fermo restando che
l’essenza del futurismo è e non può non essere rivoluzionaria, bisogna dire che
nel nostro Movimento i termini sinistra e destra non sì oppongono, perdono cioè
il loro significato convenzionale. La mentalità futurista supera il
contrasto fra il sovvertimento e la conservazione, in quanto si libera di
continuo in uno slancio creativo . Le centinaia di migliaia di aderenti al
Movimento non si compongono di un solo tipo di futurista. La convinzione
può essere unica; ma l'ispirazione e i temperamenti saranno naturalmente
diversi. Così uno stesso tema, di sentimento futurista, verrà espresso in
stili diversi. Si dovrebbe scartare i meno intensi? Fino a quel
punto? E come negarne la sostanza futurista? 3) La varietà di
tipi, che documenta l’importanza sociale del fenomeno futurista, è
assoluta; e va dai poeti ai militari, dai pittori agli industriali,
ecc. Bisogna presupporne quindi una gradazione di realiz.
zatori; gradazione intimamente connessa alle diverse si. tuazioni
ambientali o tecniche in cui i tipi si trovano. Non si tratta qui di
temperamento o di mentalità più o meno ardenti. Si tratta di concezione e
di azione che devono spesso basarsi sul comune campo pratico dove
s'incontrano il numero o la psicologia, cioè i mezzi materiali negli
scambi del pensiero e del lavoro (p. e, i giornalisti,
gl'ingegneri). Io penso che Marinetti, quando parla nei convegni
e alle inaugurazioni, faccia con istintiva attenuazione della sua anima
inquieta del futurismo di destra. Perché allora è sul terreno
pratico. E buon testimone potrebbe esserci Mino Somenzi stesso, uomo
ardito, pittore d'incendi, cervello intransigente, che pure fu
l'organizzatore, modesto e alacre del I. Congresso futurista a Milano, 1924,
riuscendo con l'intelligente accoglienza a dare alla manifestazione una
luce di concordia, rara nelle ancor più rare grandi adunate di
artisti e di caratteri spiccatissimi; Somenzi stesso che fondò questo giornale
indispensabile alle rivendicazioni di conquiste artistiche e ideali
misconosciute ed alla continuazione della tenace opera di ringiovanimento, ed
accolse dopo, con larghezza d'intenti, l'ingegno d'ogni età e
d'ogni fama purché attratto da poli positivi. Dunque, se si dovesse
affermare l'essenza d’un solo futurismo bisognerebbe dire: futurismo
sostanziale , che è poi quello del 1909, di oggi e dell'avvenire: umano,
illimitato, ascendente. Le idee vitali sono al disopra degli stessi uomini
che le divinano e le dettano. Esse formano il tempo , mi.
racolosamente, quasi contro tutte le volontà. Govoni, a seguito della
discussione aperta da Corra, proponeva di riesaminare la posizione
del tuturismo fra le correnti nostrane ed estere. Dei sette quesiti
presentati, una richiamava l’attenzione su l'accusa mossa dal culturalismo
circa una pretesa assenza di dottrina giustificante l'estetica
futurista. Anche il Fascismo fu accusato di assenza di dottrina: e non dai
soli avversari. Quale dottrina, quando la critica ufficiale vede attraverso la
cultura, divenuta una seconda natura? Remo CHITI (da:
Faturismo, n. 30, anno II, 2 aprile 1933] Mi ricordo che Umberto Boccioni
propendeva per un movimento chiuso e voleva che i giovani artisti, i
quali si dichiatavano futuristi e aspitavano ad entrare nel nostro
gruppo, subissero un lungo periodo di quarantena. Secondo Boccioni
non bastava proclamarsi novatore per esserlo, in realtà; non era
sufficiente una adesione più o meno entusiastica per avere ingresso
libero in un movimento che si proponeva di attuare nell'arte e nella vita
un nuovo ordine di cose. Dal suo punto di vista, puramente artistico, il
creatore del dinamismo plastico non aveva torto. Il dono della
originalità non è largito che a pochi. Per superare il già fatto,
mettersi in armonia coi propri tempi e prevedere i lineamenti estetici del
futuro occorre un’intelligenza ardita, geniale e di largo respiro. Ma contro
l’esclusivismo boccioniano insorgeva la vibrante liberalità di Marinetti, che
più futurista di ogni altro intuiva la necessità di creare un clima, di
generalizzare una tendenza, di suscitare una vasta atmosfera spirituale in cui
si dovessero respirare continuamente il senso e il desiderio della
novità. Ecco la ragione profonda del suo proselitismo, della
sua accettazione, quasi incondizionata nel movimento, di tutti quei
giovani e giovanissimi che avessero fede nel futurismo. Tale
generosità non fu e non sarà mai faciloneria. Nel fervore del
diciottenne c'è sempre qualcosa di vivo e di sacro che è impossibile
trascurare. Ognuno di noi sa per esperienza che è la primavera, anche con
le sue intemperanze, la stagione che prepara i germi e i frutti di
domani. E non bisogna aver paura che gli entusiasmi sbolliscano presto. Basta
che la fiaccola timanga accesa e che trascorra di mano in mano agitata e
sollevata continuamente da qualcuno che ha fiducia nell’eterna giovinezza
della nostra arte e della nostra vita. Futurismo di destra?
Futurismo di sinistra? Non credo che sia il caso di parlarne. In quanto alle
benemerenze e al sacrifici, talvolta eroici, dei primi banditori del
fututismo essi appartengono ormai alla storia. L'amico Govoni
vorrebbe che i futuristi della vigilia fossero promossi al grado di
santoni e avessero quel tributo di applausi e di ricompense che essi
giustamente meritano. Ma ciò equivarrebbe a una giubilazione e noi rischieremmo
di diventare dei sopravvissuti. Il piedistallo e l’altare non sono
il nostro posto di combattimento. In prima linea sempre e
all'avanguardia ad ogni costo! Anche a costo di essere eternamente in contrasto
con il gusto del pubblico che è per sua natura ritardatario e
accetta soltanto il futurismo di seconda mano, addomesticato dagli abili
profittatori del nostro movimento. Questo disprezzo del rendiconto e del
caso personale, questa ferma volontà di essere più giovani dei giovani
è un segno di vitalità e quindi di ottimismo. Di quell’ottimismo che
molti pseudo-avanguardisti aborrono perché sono nati con la barba nel cervello,
non hanno avuto mai vent'anni e non arrivano a comprendere che soltanto
nell'entusiasmo assoluto e nella fede cosciente ma senza mezzi termini c'è il
lievito di ogni grandezza futura e d’ogni poesia nuova. Chi ha il
torcicollo nostalgico non può guardare dititto innanzi a sé e andare oltre
speditamente. Chi nega l'ottimismo nega lo slancio vitale che si
perpetua nel tempo e nello spazio perché ricco di speranze istintive e
fornito da madre natura del vero e genvino senso dell'immortalità.
Avanti dunque coi giovani e giovanissimi. Il clima futurista dev’essere
sopratttuto un clima primaverile e acerbo. Luciano
FOLGORE [da: Futurismo, Abbiamo raccolto quattro testimonianze futuriste,
è sul futurismo. Una è di Alberto Sartoris, architetto, una di
Tullio Crali, pittore, una di Curto Belloli, eritico d'arte, e una di Enzo
Benedetto, pittore e giornalista. Tre furono e sono futuristi: il quarto (Carlo
Bel. loli) è un esperto, studioso ed interprete del futurismo. Ci
sono sembrati interventi significativi e ittdispensabili alla puntualizzazione
dell'argomento, visto che si tratta di personaggi viventi, che hanno
partecipato al futurismo e che ancora oggi lo sostengono e cercano
di dargli alito o di vivere futuristicamente a tutt'oggi in un mondo,
forse, ricaduto nel passatismo . Crali con l'aeropittura e la sassintesi
ha continuato l'avanguardia, cui aveva aderito col futurismo che sempre
l'aveva sostenuta, al di qua e al di là del fascismo. Benedetto con un
manifesto {Futurismo oggi) e poi con un foglio periodico operativo
, capace di pro porci il futurismo di ieri e anche quello di oggi.
Sar toris con un'ottività artistica professionale volta 4 contimuare,
anche se in oltre direzioni n con altri strumenti di vicerca, la prima
avanguardia cui aveva aderito entusiasta. Belloli puntualizza e sancisce
criticamente con la profondità dell’evperto certi. rapporti e certe
colleganze , troppo spesso volutamente dimenticate 0 accantonate. La
critica deve essere seria e intellettual. mente, n ideologicamente ,
corretta. E° quello che abbiamo cercato di fare. Anche con la pubblicazione
di questo testimonianze Carlo Belloli, critico, poeza visuale di
sperimen tazione futurista, e docente nelle università svizzere di
estetica {Basilca) e storia della critica d'arte (Strasburgo). Vive a Milano e
Basilea. È collaboratore de La Martinella di Milano, già del Roma di
Napoli, e della rivista Les Arts di Parigi Organizza come consulente le
mostre di numerose gallerie d'arte di Milano. Benedetto, pittore e
scrittore, futurista da sempre. È nato a Reggio Calabria nel 1905,
vive a Roma, dove ha lo studio e pubblica Futurismo aggi, che esce dal
‘69, bimestralmente, con saggi e ri produzioni di opere futuriste. Fu
anche autore del l'omonimo manifesto nel dopoguerra. ‘Tullio Crali,
pittore futurista e aeropittore. E' nato nel 1910 a Igalo, in Dalmazia.
Vive a Milano dove ha lo studio e il più importante archivio del
futurismo attualmente esistente. Futurista dal '29 e creatore della
camicia anticravatta e della giacca antibavero (nel '33), é firmatario
nel ‘58 del manifesto futurista sulla Sassintesi . Sarà uno degli ultimi a
vedere Marinetti nel ‘4d, prima della morte, a Venezia e e concordare
can lui la continuità del futurismo dapo la guerra Alberto
Sartoris, architeito e professore dll'Univer sità di Losanna. Futurista e
amico di Terragm e di Le Corbusier, E' nato a Torino nel 1901. Vive a
Cossonay Ville, vicino a Losanna, Aderì al futurismo nel 1920 e nel
‘28 sarà con Prampolini e Fillia nel gruppo torinese. Nel ’36 fonda il
gruppo degli astrattisti a Como, dove collabora con Terragni nel progetto
della città operaia di Rebbio. Sua opera fondamentale è il li bro
Gli elementi dell’architettura funzionale (1932), pilastro teorico del
razionalismo architettonico italiano (introdotto da Le
Corbusier) FUTURISMO-FASCISMO: OSMOSI DI DUE MOVIMENTI
DELL'ITALIA CONTEMPORANEA Dal futurismo confluirono al fascismo, o
viceversa, alcuni letterati e pittori, qualche pensatore, di singolare
autonomia espressiva. È il caso di Mario Carli, Emilio Settimelli ed
Armando Mazza letterati e giornalisti di non trascurabile incidenza che dalla
originaria militanza futurista estrassero dialettica, argomentazioni
autonome e maturazione spirituale, per assumere nel giornalismo fascista più
avanzato ruoli protagonisti. Mario Carli, ufficiale degli
Arditi nella prima guerra mondiale e poi legionario fiumano, fondò con
F.T. Marinetti l'Associazione degli Arditi d’Italia e il periodico Roma
Futurista dalle cui colonne trovarono sistematica divulgazione il teatro
sintetico, le pratiche parolibere dei poeti futuristi e le prime prove
versoliberiste di Giuseppe Bottai che ne fu redattore. In
quel 1919 anche il generale Luigi Capello si avvicinerà ai futuristi per
esporre alcune tavole parolibere di accertata ingegnosità, alla Grande
Esposizione Nazionale Futurista nella galleria centrale d'arte di Palazzo Cova
a Milano, mostra successivamente presentata a Firenze e a Genova.
Mario Carli con la raccolta di versi liberi e parole in libertà
Caproni, pubblicata a Milano nel 1925, precorse l’aeropoesia futurista
degli Anni Trenta. Alla prosa poetica, C., aveva dedicato Le notti
filtrate, singolare repertorio lirico pubblicato nel 1918 e ristampato a Roma,
nel 1923 per i tipi di Giorgio Berlutti che dirigerà quella Libreria del
Littorio, editrice di mo: numenti e documenti dell'era fascista. Il suo
debutto di prosatore era avvenuto nel 1909 con un seguito di novelle,
Seduzioni, cui seguirà, nel 1915, il suo primo romanzo, Retroscena.
All’attività letteraria e giornalistica Mario Carli alternerà quella
politica e diplomatica. Pubblica a Firenze Fascismo Intransigente, con
prefazione di Roberto Farinacci, che inaugurerà la tendenza più oltranzista del
fascismo. Nel 1925 Carli era stato nominato Console d’Italia
in Brasile, per essere in seguito trasferito a Porto Alegre nel 1927,
anno in cui Bernardo Attolico assumerà la reggenza dell'Ambasciata d’Italia a
Rio de Janeiro. La tournée brasiliana del fondatore del futurismo a
Rio de Janeiro, Porto Alegre, San Paolo e Santos, nel maggio del 1926,
troverà Mario Carli a fianco di Marinetti per arginare le polemiche causate in
Brasile dalla aperta posizione fascista dell’inventore delle parole in
li bertà. Dalla ribalta dei teatri brasiliani Carli prenderà
la parola con Marinetti ricordando che il fascismo dei-futuristi non
aveva impedito di condurre ricerche nuove nelle arti e nell'estetica alle
quali la poetica futurista aveva aperto liberi orizzonti precisamente
influenzando il modernismo sudamericano.Settimelli, poeta, scrittore di teatro
e giornalista, aveva debuttato nel gruppo futurista toscano nel 1915 e
con F.T. Marinetti e Bruno Corra aveva curato la prima antologia del
Teatro Sintetico Futurista, edita da Umberto Notati, a Milano in quel
medesimo anno, nella collezione dei Breviari Intellettuali del suo
Istituto Editoriale Italiano. Settimelli pubblicherà a Firenze
Mascherate e I capricci della Duchessa Pallore, edito a Milano dalle
Messaggerie Italiane. Settimelli risulta precursote di un periodare scarno e
telegrafico, serrato e dialettico, inttoducendo la pratica di neologismi
sociopolitici che avranno fortuna nel linguaggio governativo e
giornalistico italiano degli Anni Venti e Trenta. Il teatro sintetico di
Settimelli si differenzia da quello degli altri autori futuristi per lucida
imprevedibilità di azioni-stati d’animo simultanei. Nel fascismo anche
Settimelli appartenne alla corrente più revisionista e le sue Sassate,
pubblicate a Roma-Firenze nel 1926 dalla Casa Editrice Italiana, col:
piranno più di un gerarca in posizione moderata e conformista.
Filippo Tommaso Marinetti redigerà con Settimelli e C. il manifesto Che
cos'è il Futurismo | Nozioni elementari, dove vengono considerati futuristi
nella politica coloro che amano il progresso dell'Italia più di loro stessi, quelli
che vorranno liberare l'Italia dal papato, dalla monarchia, dal senato,
dal parlamento, dal matrimonio, precorrendo molti, successivi, propositi del
fascismo. Così la volontà di perseguire un governo tecnico di
giovani, senza parlamento, vivificato da un consiglio eccitatorio di
giovanissimi , la determinazione di espropriare gradualmente tutte le terre
incolte e malcoltivate, preparando la distribuzione della terra ai suoi
lavoratori e l'abolizione di ogni forma
di parassitisma burocratico, industriale e capitalistico, diventeranno
tipicamente nazionalfasciste e fasciorepubblicane. Il manifesto
considera, poi, futurista nella vita chi sa dare a tempo un cazzotto e
uno schiaffo decisivo , chi agisce con energia pronta e non esita per
vigliaccheria , come chi fra due decisioni da prendere preferisce la più
generosa e la più audace, sempre che sia legata al maggiore
perfezionamento e sviluppo dell'individuo e della razza... : medesima l'etica
fascista di alcuni anni dopo. Settimelli aveva dedicato un saggio critico
all'opera di Marinetti, edito a Milano con | tipi di Gaetano Facchi, che
può essere considerato il primo tentativo di analizzare la letteratura
marinettiana al di sopra del clamore scandalistico e della propaganda
futurista. Settimelli pubblicherà a Roma, nelle Edizioni d'Arte e di
Critica, Come combatto che raccoglie i suoi più polemici scritti apparsi
sul quotidiano romano L’Irmpero, diretto con Mario Carli. Verso la
fine degli Anni Trenta, Settimelli, subirà al. cuni anni di confino di
polizia causati dalla sua intransigenza critica verso alcuni personaggi-chiave
del regime. Di Armando Mazza, che ci fu dato di
personalmente conoscere e frequentare, il futurismo si avvaleva per
presentare le prime, contestate, serate propagandistiche nei teatri della
Penisola. Eccellente declamatore di versi, tonante dicitore
di manifesti tecnici futuristi, Mazza possedeva un fisico atletico di
lottatore greco-romano. Marinetti affidava, quindi, a Mazza la protezione
della ribalta dagli attacchi passatisti, mentre Îa sua voce tonante
sovrastava i fischi e il vociare degli oppositori. Singolare
poeta parolibero, Mazza, sarà il primo ad organizzate un movimento
anticomunista, fondando nel 1919 a Milano, il settimanale politico I
wmemzici d'Italia, organo antimarxista, nazionalista e prefascista. Mazza
pubblica dall'editore Gaetano Facchi di Milano 10 Liriche d'Amore,
seguito di altrettanti poemi in versi liberi stampati come cartoline
postali raccolte in contenitore di carta crespata. Queste cartoline
poetiche sono il primo esempio rilevabile e significativo di quella che
negli Anni Settanta verrà definita Ma:l Art, Arte postale , assegnando alla
comunicazione poetica il canale inabituale della spedizione a domicilio del
messaggio estetico. Già nel 1917, Armando Mazza, aveva introdotto l’uso
delle Cartoline Postali di Guerra , edite dallo Stabilimento Tipografico
Taveggia di Milano, di cui Vedetta (cm. 13,7 x 19) resta la più curiosa
ed esteticamente determinante. Ai poemi postali faranno seguito Due
morti. liriche pubblicate nel 1919. Nel 1920 Mazza pubblica
Firmamento / con una spie gazione di F.T. Marinetti sulle Parole in
Libertà, edito a Milana dalle Edizioni Futuriste di Poesia. Si tratta
di una pregevole sequenza di parole in libertà dove la componente
tipovisuale dialettizza le scelte semantiche, talvolta enfatiche ed irruenti
con frequenti ricorsi ad analogie non sempre depurate. Poi Mazza verrà
totalmente assorbito dal giornalismo e dall’attività politica
Sarà direttore di importanti periodici come La grande Italia e di
quotidiani: L'Arena di Verona, I! Giornale di Genova, Il Resto del
Carlino di Bologna. Ricordiamo i grandi occhi azzurri di Armando
Mazza farsi ancora più liquidi e trasparenti quando ci parlava del
Manifesto dell’Antitradizione Futurista dalle righe del quale Apollinaire gli
inviava, nel 1913, fiori, rose , riservando merde ai conservatori e ai
romantici. Mazza aveva frequentato Guglielmo Apollinaire a Parigi e
Grasa Aranba a Rio de Janeiro, Croce a Napoli, ai tempi de La Diana
e Giovanni Gentile a Milano, proprio mentre il filosofo stava
orientandosi verso il fascismo. Amicissimo di Umberto Boccioni, che aveva
aiutato nei primi anni del soggiorno milanese, Mazza, era stato dipinto
dal maestro futurista in un esemplare pastello di rara fattura e di
deflagrante cromaticità, che pubblicammo nel 1977 fra le opere inedite di
Boccioni. Sarà Mazza a favorire l'attitudine di Boccioni per
la critica d'arte, presentandolo ad Umberto Notari, editore del
quotidiano, poi settimanale, Gli Avvenimenti dove il pittore reggerà per
qualche tempo la rubrica d'arte. Il fascismo di Armando Mazza restò
sempre moderato e la sua coerenza politica gli causerà nel dopoguerra
1940-1945 il più completo ostracismo, impedendogli di continuare la
attività giornalistica di cui ebbe profonda nostalgia sino agli ultimi
giorni di vita. Il forzoso silenzio pubblicistico ricondusse Mazza
alla poesia alla quale apporterà non trascurabili contributi in
versi liberi pubblicati, fra il 1948 e il 1959, presso editori
inadeguati. Fra i più importanti poeti del futurismo confluiranno al fascismo,
assumendovi incarichi di alta responsabilità, anche Auro d'Alba (Umberto
Bottone) che, a Roma, diventerà capo dell'ufficio stampa della
M.V.S.N. (Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale) e Paolo
Buzzi che, a Milano, assumerà la carica di Segretario Generale della
Deputazione Provinciale. Altri futuristi di minore rilievo, come il poeta
Federico Pinna-Berchet, autore delle Liriche d’Assalto, pubblicate a Roma nel
1930, il poeta parolibero giuliano Bruno Sambo e Ferruccio Vecchi,
prosatore e capitano degli Arditi, aderiranno al fascismo svolgendovi
ruoli anche decisivi. Sambo diventerà federale di Addis Abeba, mentre
Pinna-Berchet e Vecchi ricopriranno alte cariche corporative. Così il
genovese Bolzon, poeta-pittore futurista dal 1919 e battagliero
giornalista, sarà Sottosegretario alle Colonie nel 1928, poi Consigliere
di Stato e autore, fra il 1920 e il 1930, di saggi di critica sociale e
di teoria fascista pubblicati dalle edizioni Alpes di Milano. Anche
il grande invalido di guerra Giuseppe Steiner, piacentino, poeta
parolibero e autore di quei fondamentali Stati d'Animo disegnati, editi
nel 1923, che precorsero la poesia grafica di Pino Masnata e la poesia
visiva dei giovani fiorentini negli Anni
Sessanta, sarà nominato Consigliere Nazionale fascista. Dal futurismo si
orienteranno verso il fascismo anche il poeta-aviatore Guido Keller, legionario
fiumano e autore del lancio aereo di un pitale su Montecitorio a monito
di Francesco Saverio Nitti, il cagoia del Natale di sangue fiumano; e la
Medaglia d'Oro ferrarese Olao Gaggioli, poeta parolibero futurista e
pluridecorato ufficiale del XXIII Battaglione di Assalto dei Bersaglieri
sul Podgora. Nan va, infine, dimenticato il giornalista Ernesto Daquanno,
poeta parolibero e cofondatore a Milano del periodico I Principe, organo
fascista difensore della Monarchia integrale . Daquanno, che nel 1925 aveva
pubblicato Now c'è poesia, saggi sul risveglio dell’artigianato italiano,
diventerà nel 1927 capo ufficio stampa della Federazione Fascista delle
Comunità Artigiane. Un riferimento, poi, al poeta parolibero e autore
di teatro sintetico Guglielmo Jannelli, messinese, che dai Fasci
Futuristi , di cui era stato promotore nel 1918 con Marinetti, passerà ai
Fasci di Combattimento Siciliani
assumendovi compiti determinanti. Nel 1924 Jannelli pubblichetà a
Messina, per i tipi delle Edizioni della Balza Futurista un polemico
saggio dedicato a La crisi del Fascismo in Sicilia, dedicato in frontespizio A
Emilio Settimelli e Mario Carli, miei fratelli nella avanguardia artistica e
politica della nuova Italia e anime capaci di rendere pienamente la sincerità
che mi ha mosso a compiere queste franche pagine obbiettive. Questo
scritto di Jannelli conferma l’esistenza di una autocritica nell’ambito
del fascismo, di una volontà revt con 1acusaro adagio. .., oDbDedienza pronta,
cieca, aSS0luta. Così Jannelli vede il fascismo nel 1924: ... il fascismo
si è rotto in due pezzi: molta della parte più buona è rimasta bloccata,
impedita di agire; e l’altra parte trionfa esteriormente unita ma intimamente
diversa, poco moderna, niente affatto veloce e qualche volta insi
gnificante. Anche Pavolini, poeta, autore teatrale, regista, critico
d’arte e letterario, che si era avvicinato al movimento di Marinetti attraverso
l’opera del pittore futurista fiorentino Primo Conti e aveva dedicato nel 1924
un saggio monografico al fondatore del futurismo pet, infine,
pubblicare nel 1927, a Bologna per i tipi dello Zanichelli, quel
fondamentale Cubismo Futurismo Impressionisnio, aderirà al fascismo assumendo
importanti incarichi nel diret. torio del partito e al Ministero della
Cultura Popolare. Dal fascismo perverrà, invece, al futurismo il filosofo
Francesco Orestano, Accademico d’Italia, che negli Anni Trenta dedica al
movimento di Marinetti saggi di teoria estetica e di critica letteraria.
Orestano aveva pubblicato nel 1907 quegli importanti Valori Umani la cui
struttura teoretica aveva particolarmente influenzato il giovane Marinetti.
Anche ORANO (vedasi), scrittore, STORICO DELLA FILOSOFIA e sindacalista
sorelliano, che fu Deputato fascista per la Sardegna alla XXVI
legislatura e per la Toscana alla XXVII e al quale venne affidata nel
1926 la prima cattedra di storia del giornalismo nella facoltà di Scienze
Politiche dell’Università di Perugia, si orienterà verso il
futurismo. Nella raccolta di saggi critici I Contemporanei, pubblicata
a Milano da Mondadori nel 1928, Orano riserverà a Marinetti una esegesi
determinante, del tutta favorevole al futurismo considerato estetica
nuova di apertura internazionale. Dalla pittura futurista si muove, invece,
verso il fascismo Antonio Marasco, senz'altro il più impegnato e
coerente politico fra tutti gli operatori plastici del futurismo. Calabrese di
nascita, Marasco, ebbe parte rilevante nelle squadre d'azione fasciste di
Firenze dove si era trasferito prima ancora di arruolarsi volontario per la
guerra 1915-1918, in cui verrà gravemente colpito da gas di iprite sul
Piave e dopo essere stato promotore con Marinetti dei Fasci Futuristi.
Marasco aveva accompagnato Marinetti nel suo secondo viaggio in Russia, a
Mosca e a Pietroburgo, dove avrà modo di conoscere Velimir Klebnikow e
Wladimir Mavakowsky e di dedicare fisiosintesi di estrema inventività
grafica al medico-pittore Nicolaj Kulbin, al pittore Nikolaj
Burliuk, alla poetessa Elena Guro, al poeta-aviatore Kamensky, al poeta-scrittore
B. Livshits, al musicista A. V. Lurié e al regista Tairow. La pittura di
Ma. rasco presenterà sempre componenti sperimentali, non condizionata da
temi fascisti o da enfasi dell'aviazione militare e civile che, purtroppo,
sviliranno molta parte della neropittura futurista degli Anni Trenta.
Antonia Matasco precorre il cosiddetto astrattismo delineatosi
nell’ambito della milanese Galleria del Milione dei fratelli Ghiringhelli e può
essere considerato uno dei pionieri del costruttivismo e del concretismo
internazionali. Particolarmente affezionati a Marasco avevamo
avuto modo, negli Anni Sessanta, di presentare la sua prima mostra
personale a Milano, di carattere antologico, attraverso la quale il più vasto
pubblico riuscì a scoprire le sue ricerche preastratte e protoconcretiste
realizzate a Firenze fra il 1923 e il 1930 Marasco restò sempre legato al
futurismo e il suo fascismo ebbe coerenza di adesione alla Repubblica
Sociale Italiana dove ricoprì importanti incarichi nella rinnovata
Direzione Generale delle Belle Arti e dei Beni Culturali del Ministero
della Cultura Popolare. Questo magistrale pittore svolse anche attività
di scrittore e di critico d’arte e un suo libro, pubblicato a Firenze,
Parrorami allo Zenit, risulta anticipatore dell’attuale
science-fiction. Nell'ambito del movimento futurista, Marasco,
promosse i Gruppi Futuristi Indipendenti, attivi a Firenze, che rivelarono
personaggi della importanza di Cesare Augusto Poggi, architetto razionalista,
tecnologo del cemento armato e ideatore di singolari costruzioni civili
per la difesa bellica. Quando, nella seconda metà degli Anni Trenta,
s'inasprirà la campagna fascista contro il futurismo, accusato di difendere
l'arte astratta considerata giudea e massonica , Matasco sarà a
fianco di Marinetti per chiarire i termini di indipendenza dell’astrattismo
plastico da ogni motivazione di razza, da qualsivoglia matrice israelitica o
muratoria. Se disponessimo di maggiore spazio per analizzare
compiutamente questo pericoloso momento dei rapporti futurismo-fascismo ne
risulterebbe la conferma di una precisa interdipendenza di propositi e di
azione fra i due movimenti. Il futurismo non condizionò mai le
proprie libertà espressive, i propositi di rinnovamento, di costante evoluzione
spirituale, alle esigenze agiografiche del fascismo che, del resto, non
considerò il futurismo come arte di Stato, riservando questo pericoloso
privilegio al movimento del Novecento, celebrarore di miti
romanistici e imperiali, istigarore del ritorno al neoclassicismo,
pur mascherato da un malcompreso funzionalismo. Antonio
Marasco morirà a Firenze, nel 1975, alla soglia degli ottant'anni.
Dopo un Jungo soggiorno romano aveva dipinto, sino all'ultimo,
cromostrutture dinamiche e inoggettive di autonoma soluzione cinevisuale.
Puntualmente ci inviava lettere di accorata italianità, preziosi appunti di
teoria plastica che, un giorno, dovremo pur raccogliere e pubblicare come
contributi fondamentali alla storia del costruttivismo e del concretismo
internazionali. Noi giovanissimi non eravamo disposti ad anteporre la dogmatica
della mistica fascista alle libertà espressive promosse e favorite dal
futurismo, né ci si potrà accusare di aver posto le nostre prime ricerche
futuriste al servizio dell'apologia di regime. Così le nostre
Parole per la Guerra, pubblicate nel marzo del 1944 dalle edizioni dî Futuristi
in Armi, sovvenzionate e dirette da F.T. Marinetti, non rinviano ai
canoni conformisti dell'aeropoesia futurista di guerra di quegli anni ma
anticipano, piuttosto, modalità di poesia concreta e visuale, come è stato
ampiamente rilevato dalla critica internazionale più obiettiva e
attenta. Il nostro poema Bimba / bomba, del 1943, può
essere, infatti, considerato il primo esempio esistente di poesia
concreta a struttura semantica reversibile e a susseguenza ottica
alternata, dove l'uso della parola-chiave è già serialistico. Il
nostro fascismo eta quindi disarticolato dalle pratiche dell’estetica futurista,
proprio come si era verificato per gli iniziatori del futurismo: F.T.
Marinetti, Paolo Buzzi, Armando Mazza, Auro d’Alba, Luciano Folgore. Infatti
anche i nostri Testi-Poemzi Murali, pubblicati nel 1944 dalle Edizioni
Etre (Repubblica) con un collaudo di Martinetti, piuttosto di risolversi
nell'abituale apologia guetresca di quel periodo, introducono un modo
nuovo di poetare inaugurando le problematiche di quella poesia
visuale che, solo negli Anni Cinquanta, troverà consensi internazionali
sino a farsi scuola di poesia avanzata. L’ideologia politica di Marinetti, le
teorie del suo particolare nazionalismo prefascista sono raccolte in due volumi
pubblicati in tempi diversi. Democrazia Futurista, edita a Milano da Facchi, è
la sintesi delle posizioni politiche assunte da Marinetti nell'immediato
dopo-guerra. Vi si ripercorre l'atmosfera in cui nel 1918, dopo Caporetto,
Marinetti fonda i Fasci Politici Fututisti con Bottai, Settimelli,
Carli, Jannelli, Marasco, i pittori
Galli, Balla, Rosai, Depero, il poeta-pittore cremonese Mainardi, lo scrittore
Chiti, il poeta Nicastro, Bontempelli, il chirurgo Masnata, poi Senatore
del Regno, padre del poeta parolibero stradellino Pino Masnata, ai quali
aderiSta settanta intellettuali e uomini di varia estrazione culturale.
I Fasci Politici Futuristi si trasformeranno, poi, gradualmente in
Fasci di Combattimento confluendo nel. lo squadrismo fascista. Così,
quando i fascisti parteciperanno per Ja prima volta alle elezioni politiche del
1919, rinetti, Piero Bolzon, il poeta-aviatore Giacomo Macchi,
Baseggio e Podrecca. Futurismo e Fascismo, pubblicato da Franco
Campi. telli, editore in Foligno, nel 1924, indica, invece, la personale
interpretazione della dottrina fascista praticata da Marinetti e da molti
artisti futuristi, come dai numerosi affiancatori e propagandisti del
movimento futurista. Con il manifesto L'Impero Italiano / A Mussolini
Capo della Nuova Italia redatto da Marinetti, Carli e Settimelli, il
futurismo, già in quegli anni, istigherà il fascismo alla fondazione
dell'Impero, precorrendo una realtà che, negli Anni Trenta si
concluderà con la conquista dell'Etiopia. Marinetti scriverà
nel 1924: il Fascismo, naro dall’interventismo e dal futurismo si nutrì
di principi futuristi. Una storia parallela dei due movimenti, ancora da
scrivere, dovrà tener conto della mai rinunciata indipendenza futurista
che non condizionò le esigenze di libera ricerca espressiva alla
necessità della politica dominante. Innanzi tutto confesso che sono nato
alla vita sociale prima come fascista e dopo come futurista.
Avevo sedici anni quando, proprio in corti. spondenza del mio
compleanno, sottoscrissi una domanda di ammissione ai Fasci di
Combattimento . La domanda fu avvallata da due miei amici di maggiore età,
come soci presentatori, i quali compirono coscientemente un piccolo falso
alterando di due anni la mia data di nascita al fine di consentire la mia
ammissione come socio ad ogni effetto. Così diventai a pieno titolo uno
dei pochi iscritti della Sezione di Reggio Calabria dei Fasci di Combattimento
, che aveva allora sede in una baracchetta per i bagni di mare, in
disuso. Perché questo sedicenne studente del Liceo aveva
ascoltato e risposto ad un richiamo politico certamente pericoloso? A mio
avviso, furono determinanti, l’amore per la Patria, nato dentro durante
fa guerra sull’esempio di un avo materno che ne aveva avuto, forse, di
troppo; l'entusiasmo per la vittoria e la conseguente indignazione
per quanto accadde subito dopo con l’attività dei cosiddetti progressisti del
momento, ostili ai reduci, in contrasto con la spavalderia ed intraprendenza di
questi ultimi. Il mio apptoccio con il Futurismo avvenne,
invece, due anni dopo, con la scoperta di Zang iumb tuumm e
l’incontro con F.T. Marinetti Questo essere prima fascista e poi
futurista, mi sembrò una particolarità personale e la confessai un giotno dopo tantissimi anni a Dessy, e lui mi disse che gli era
accaduto lo stesso benché avesse cinque anni più di me. Comunque è chiaro
che vi fu un rapporto di identità ideale fra queste due forze, anche se
vi furono dissensi spesso di carattere costruttivo, E’ difficile infatti
che possano andare in tandem per lungo tempo movimenti di carattere
politico e movimenti di carattere intellettuale o culturale. Le ragioni
mi sembrano evidenti: un movimento culturale, anche se basa la propria
forza nelle realtà della vita (come il futurismo), ha il suo fulcro nella
idea-base che difende con ortodossia e non è disponibile per transazioni
ideologiche. Il movimento politico, invece, pet propria natura, specie
quando atrivi alla gestione del potere, diviene duttile e transigente al fine
di mantenere è consolidare la proptia forza concreta, allargando la base
dei consensi. Il Futurismo prima della guerra mondiale si caratterizza
artisticamente con l'invenzione dei grandi temi di rinnovamento nei settori di
tutte le arti e, in veste politico-sociale, nell’esaltazione dell’Italia,
fantasticando per questa, una nuova organizzazione anti-demo-liberale ed
anticlericale. Un nuovo mado di vivere. Uno Stato industriale ed agricolo
tecnicamente progredito, che si progettava astrattamente, certamente
irrealizzabile. Qui i tentativi di un’azione politica che non aveva,
però, un valido autonoma sviluppo organizzativo. Come pretenderlo da
poeti ed artisti? Nel tempo in cui Marinetti iniziò il
Movimento, le forze che affermavano di voler realizzare un nuovo sviluppo
sociale al fine di un miglioramento della situazione economica delle
classi più disagiate e trascurate, trovavano una sede formalmente appropriata
nelle spinte del sacialismo deamicisiano; ma tale situazione ebbe durata breve
perché questo socialismo si sviluppò in senso internazionalista apatriottico
collettivista antindividualista e fu sconfitto dagli eventi della prima guetra
mondiale. Tanto è vero che dal suo seno, a guerra conclusa,
prosperarono il comunismo ed altre scissioni e nacque il
fascismo. Sono noti e possono essere facilmente consultati i documenti
delle manifestazioni spiccatamente politiche del movimento futurista che
precedettero la Fondazione dei Fasci di Combattimento . Intendo rifetirmi
al Programma Politico Futurista, firmato da Marinetti Boccioni Carrà Russolo,
all'azione politica svolta da La Balza Futurista fondata da Di Giacomo
Jannelli e Nicastro del 1915, e dei Fasci Interventisti Siciliani , di
Roma Futurista e dei relativi gruppi del Partito Politico Futurista che
concretizzava un suo programma nel libro Democrazia Futurista di
Marinetti, eccetera eccetera. Tutte queste forze si concentrarono nel movimento
fascista, sia aderendo direttamente all'assemblea di fondazione di Piazza
San Sepolcro in Milano, sia successivamente anche per forza
d'inerzia. Il fatto è che di solito quando si parla di partecipazione
politica dei futuristi, ci si richiama soltanto al ricordo dell’attività
degli artisti che militarono con la qualificazione di futuristi . Vale a
dire dei poeti, scrittori, pittori, limitandosi ovviamente ad esaminare il
contributo di coloro che hanno raggiunto maggiore notorietà, trascurando
i minori . Ma questi ultimi erano in numero stragrande e molto attivi. Senza
tenere inoltre conto che i maggiori spesso presi del tutto da altre
attività, non erano altrettanto validi e disponibili in campo politico.
In verità, il Futurismo di quel tempo è stato un movimento a larga
partecipazione di giovani, di tantissimi giovani. Non tutti poterono ovviamente
militare nel campo dell'Arte e maturare tanta notorietà da essere
ricordati anche oggi. Ma tutti furono politicamente attivi e furono a
migliaia i militanti di futurismo che parteciparono ad episodi fascisti negli
anni precedenti, o appena successivi, alla marcia su Roma. Non
credo di sbagliare se affermo che nelle cosiddette schiere dello squadrismo
molte furono le partecipazioni futuriste. Azione lotta e coraggio erano
proposizioni futuriste. Basta ricordare la prima azione di Marinetti
e Ferruccio Vecchi (16 aprile: Piazza Mercanti Milano) e ricordare i
tanti nomi dei militanti futuristi che ebbero più spicco in campo
politico che in quello dell’arte. Alla fondazione dei Fasci, confluirono
nel fiume che diventò principale, molteplici rivoli di pensiero (come
ho già accennato) movimenti di ogni genere che avevano un minimo
comune denominatore nella volontà di rinnovare in qualche modo l’Italia
che, pur vittoriosa nella guerra, si dimenava in serie difficoltà ed era
incapace ad affrontare la svolta storica che la vittoria aveva aperto.
Anche i Fasci Interventisti Futuristi Siciliani, che avevano preso
forza dalla volontà di Jannelli e Nicastro (il prima con capacità ed
intendimenti politici ed il secondo come letterato e poeta), ma dei quali non
si è ancora scritta la storia, né accertato la reale efficienza, vi
aderirono. Come aderì Marinetti con tanti altri futuristi che risultano
elencati nella schiera dei cosiddetti sansepolcristi . In seguito,
quando il fascismo andò al potere, ai futuristi sembrò che finalmente sarebbero
stati realizzati nell’arte gran parte dei propositi del futurismo. In questa
illusione fummo cullati da alcuni elementi: la impostazione altamente
patriottica dei propositi, la valorizzazione del combattentismo e del
volontarismo, l'amore per il nuovo ed il rischio, il pragmatismo attivo
dimostrato immediatamente con i primi atti di governo, eccetera. Va anche
rammentato ai giovani di oggi, frastornati da affermazioni non
rispondenti alla realtà di allora, che la personalità di Mussolini era
molto al di sopra non solo di quella dei suoi collaboratori politici, ma
sovrastava la media dei cervelli politici di quel periodo. Tanto è vero che
furono appunto gli avversari a votargli subito i pieni poteri che gli
consentirono l'avvio della prima gestione governativa. Questo fatto
rilevante, gli consentì di attrarre dapprima le simpatie collettive ed in
seguito a conquistare una enorme fiducia, non solo da parte dei suoi
sostenitori di un tempo, ma anche da parte di ex avversari e simpa.
tizzanti e nei periodi più floridi perfino dai nemici del sistema
politico che egli cercava di sviluppare. Quando il fascismo
s’insediò al governo per realizzare la rivoluzione {a dire dei fascisti),
o perché chiamato dalla debole monarchia (come dicono gli altri), subì
dapprima una sosta di aggiornamento dovuta alla urgenza de) problemi
immediati dalla cui soluzione dipendeva il recupero dell'ordine econamico e
politico. Per questo, Mussolini non si sbarazzò immediatamente degli
avversari che erano troppi e in gran parte si erano dichiarati
disponibili a collaborare per il meglio, pur costituendo nello
stessa tempo zone di resistenza alle innovazioni Così anche
nei fatti dell’Arte ovviamente meno pressanti, ove non comparvero personalità
nuove che avessero seri propositi di rinnovamento e disponibili a rivoluzionare
tutto, come i futuristi. I quali con a capo Mari. netti e nella quasi
totalità si convinsero che la rivoluzione potesse realizzarsi per pradi anche
in Arte. Che la forza del nuovo potesse penetrare per gradi nelle
istituzioni d’Arte e trasfarmarle. Pura illusione. Illusione giustificata sul
momento non solo dal fascino personale di Mussolini al quale ho già
accennato, ma anche da certe sue caratteristiche gestuali (come la
particolare sintetica e precisa oratotia che andava direttamente allo
scopo in modo esplicito) che lo presentavano come un congeniale capo
futurista. Se si aggiunge inoltre l'amicizia personale fra Mussolini e
Marinetti, vicini anche in altre precedenti azioni politiche, si
comprende come il movimento rivoluzionario rappresentato in arte dal Futurismo,
rimase a fianco del Fascismo (esso stesso ancora tivoluzionario alla basel,
anche se in via di adattamento, questo, alle esigenze immediate
dell'esercizio del potere su una nazione che di rivoluzionari di
qualsiasi tipo ne ha avuto per la verità sempre pochi, anche se gonfiati ad
oltranza quando occorre, in tutti i testi di storia antica e
recente. I futuristi costituirono una avanguardia nelle fila del
fascismo e vi rimasero nella quasi totalità. Basta citare i] messaggio
che concluse il Congresso futurista di Milano (L'Impero, 27 novembre
1924): L'ultima riunione del congresso futurista è stata dedicata
all'esame dell'attuale momento politico. Marinetti espose alla numerosa
assemblea una dichiarazione precedentemente elaborata in accordo con i maggiori
futuristi politici, la lettura della dichiarazione fu
entusiasticamente approvata ed acclamata in ogni suo punto. Ecco la
dichiarazione: I futuristi italiani, primi fra i primi interventisti
nella piazza e sui campi di battaglia e primi fra i primi diciannovisti
più che mai devoti alle idee ed all'arte lontani dal politicantismo,
dicono al loro vecchio compagno Benito Mussolini: Primo: con un gesto di
forza ormai indispensabile liberati del parlamento. Secondo: restituisci al
fascismo ed all'Italia la meravigliosa anima diciannovista disinteressata
ardita antisocialista anticlericale antimonarchica. Tetzo: Concedi alla
monarchia soltanto la sua provvisoria funzione unitaria, rifiutale quella di
soffocare e morfinizzare la più grande, più geniale, più giusta
Italia di domani. Quarto:- non imitare l’inimitabile Giolitti, imita il
grande Mussolini. Quinto: Pensa sempre all'Italia immortale ed al Carso divino.
Sesto: Schiaccia la opposizione socialista antitaliana di Turati e
l'opposizione mediocrista di Albertini con una ferrea dinamica
aristocrazia di pensiero. Tu puoi e devi far ciò. Noi dobbiamo volerlo e lo
vogliamo. Marinetti - Capo del Movimento Futurista Italiano. Sono
inoltre innumerevoli le manifestazioni dei futuristi in tanie occasioni, con
opere scritti ed anche con la partecipazione concreta alle guerre di quel
periodo.Voglio ricordare, però, un solo scritto di Fillia (morto nel 1930
e che adesso cercano di passare per antifascista) il quale in occasione
della Quadriennale di Torino, così scriveva sulla sua rivista Vetrina
Futurista: Bisogna, però, giungere a “convincere” il grosso
pubblico, ingannato a nostro riguardo dalle false inter pretazioni.
Perché il favore organizzativo che oggi ci circonda, non basta: è assurdo riconoscere
il futurismo come manifestazione d'Arte ed ammettere
contemporaneamente le antiche manifestazioni. La vita può avere
individual mente, diverse interpretazioni, ma tutte devono essere
inquadrate in una sola atmsofera sensibile, corrispondente alla vita
stessa. Non voglio con questo negare il diritto di esistenza a intere
categorie di pittori rimasti spititualmente arretrati: ma è necessario
preparare il pubblico alla loro graduale eliminazione dalla vita
artistica ufficiale, fino al riconoscimento del Futurismo “arte di Stato”
massimo riconascimento che lo caratterizzerà nella sua importanza. Purtroppo
però le autorità artistiche avevano il sopravvento favorendo a vele spiegate
l’architettura di Piacentini e gli enormi pupazzi della scultura e pittura
novecentista, effettivamente arte del regime. E noi futuristi
interpretavamo le isianze di rinnovamento dell’arte senza alcun
riconoscimento dal Regime che ritrovava sé stesso nelle manifestazioni
novecentiste. Questo, non mi stanco di ripeterlo, negli Anni
Venti. E poi? Poi nulla. Le vicende, le difficoltà personali,
gli entusiasmi e le depressioni, gli alti e i bassi, il lavoro e la maggiore
maturità. Ma non creda di sbagliare se affermo che noi futuristi vivemmo
quel tempo con spirito indipendente e piena libertà fiduciosi che in
fondo avremmo avuto ragione. Anche se spesso sopportati e negletti dalle
autorità artistiche e subiti obiorto collo quando necessario.
Poi andammo all'ultima guerra, che fu sconvolgente per tutti. To ne
vissi scrupolosamente la mia parte con coerenza. Fui costretto fuori a lungo.
Pet un anno di guerra, ne subii sei di prigionia e non conosco nei
particolari ciò che è avvenuto qui mentre ho già scritto delle mie
esperienze. AI ritorno mi sembrò di sbarcare in un altro mondo al
quale non mi sono ancora completamente assuefatto. Ma ripresi a vivere da zero
e nell’aprile del ‘47 cominciai la mia nuova personale battaglia per
il futurismo con la mostra alla Galleria di Roma inaugurata da Benedetta
c dedicata a Marinetti. Continuai ancora e vado avanti con i
futuristi sopravvissuti e con l'appoggio dei giovani che comprendono e
non disdegnano l’idea del futurismo che continua e si rinnova
attraverso le spiccate personalità dei suoi artisti. Crali, lei è pittore
ed è futurista Uno dei pochis. simi, oggi. Crede che il futurismo sia
ancora attuale? SÌ, ma non per merito dei futuristi. Ma ha una sua
attualità perché si è espresso, si è mosso, e ci parla ancora. Ma non
certo per chi ci ha mangiato sopra, per chi non è mai stato futurista, ed
ha espresso solamente necrofilia, vera e propria necrofilia. Il futurismo
di prima, quello per cui lei aderì al movimento, o vi st convertì, come
la investì per così dire, o come la ispirò? Non mi sono affatto
convertito , perché non c'era niente da convertite. Mi sono trovato di
fronte al futurismo come un’anima candida, che non sa e non è consapevole
di nulla. Mi sono ritrovato una simpatia inconscia per alcuni quadri riprodotti
su Il Mazzino illustrato di Napoli. Mi sono piaciuti, mentre ad un amico
mio, che la pensava diversamente da me, non piacevano. Cominciammo a
litigare, e per litigare ad approfondite l’argomenta ecc. ecc. Così ho
cominciato ad essere interessata al futurismo. E sono partito senza avere una
preparazione di mestiere. Ho fatto rutto da solo, senza imparare a
dipingere o disegnare, anche se poi una specie di grillo della
coscienza mi ha suggerito che dovevo imparare a dipingere, sia pure
da solo (anatomia, prospettive, ecc ). L’astratto e il figurativo erano | temi
o le prospettive dominanti. Ho cercato una terza via , che fosse tutta
mia, tutta personale: una ia di mezzo fra il figurativo e l'astratto. Poi
ho lasciato il figurativo per la mia pittura futurista. Credevo di
dover dire ciò che altri non avevano detto. Così mi sono accostata
a Marinetti nel '29, quando gli scrissi per aderire al movi. mento.
L'aeroplano era una macchina nuova, un congegno del futuro, o, per
allora, del futuribile . E fu una delle realtà che mi diedero più spunti,
più ispirazione (l'Idrovolante italiano, D’ANNUNZIO (vedasi) e il volo su
Vienna, e il campo di atterraggio vicino a Zara, dove io sono nato,
ecc.). Così sono diventato acropittore. E lo sono rimasto, ancora
oggi. Marinetti, invece, per quello che lo frequentò o poté
essergli vicino, come lo considera? Forse l’unico vero futurista, © forse
solo un grande maestro ? No, non lo considero un maestra, perché non
ha mai voluto essere un maestro . Ci ha sempre stimolato e spinto a
lare, senza mai dire però come dovevamo fare Era contrario ad ogni
gerarchia nel movimento del futuri. smo. E si opponeva sempre a Boccioni
e Prampolini, che volevano imporre la loro pittura. Voleva che ognuno
di noi fosse libero e indipendente. Prampolini invece voleva fare
il caposcuola. Marinetti voleva solo che ognuno fosse se stesso e non ha
creato nessuna scuola. Amava la sua libertà e la sua indipendenza a tal
punto che non poteva imporre insegnamenti. Forse D'Annunzio lo aveva
influenzato in questo senso, nella vita mandana libera, giovane e spregiudicata.
Io lo ricordo e lo ricorderò sempre con riconoscenza. Quasi come un padre. O
come un fratello mapgiore. E come l’unico vero futurista, come ho sempre
de! resto pensato. Gli altri hanno tutti mollato . Lui è andato avanti
fino all'ultimo. L'unico che può personificare il futurismo è fui,
l’unico che non ha rivestito patine di cul: turame intellettvalistico,
come hanno fatto invece molti altri (Soffici, Conti, Palazzeschi, Papini,
ecc.). Amava essere futurista sempre e comunque, anche nel gusto del
contrasto. Amava la luna, e scrisse un manifesto contro il chiaro di Juna .
Uccidiamo il chiaro di luna , vi si diceva, forse contro i poeti. Ma non
era poeta? Predicava la guerra, anche se non avrebbe fatto male a nessuno.
Amava la madre e la donna in assoluto, e ciecamente. Ma combatté la
donna sul piano ideologico. In questo è veramente futurista. E lo è solo lui.
Gli altri non lo sono mai stati. Il futurismo di Marinetti che accento o
che angolazione aveva particolarmente: letteraria, artistica, filosofica o
piuttosto politica? Politica no, assolutamente e mai. Filosofica neanche,
se non forse in senso attivo, ma allora senza pensiero . Il futurismo entra in
politica soltanto quando la patria entra in pericolo , aveva detto Marinetti
in un momento cruciale della nostra storia nazionale. Il manifesto
politico del fuuttismo è conseguenza del fatto che esso sta movimento
d'arte e di vita, e come tale anche di vita politica, tout court. Il manifesto
politico è del ’13. Dopo la fine della guerra l'accostamento agli arditi o
al fenomeno dell’arditismo era inevitabile, e Marinetti si unisce
in vincolo d'amicizia, anche politica, con Mario Carli per esempio
(ardito) e con Mussolini. All’avvento del fascismo e allo accostamento di
Mussolini alla monarchia e alla chiesa Marinetti si stacca. Abbandona il
partito e si ritrova pressoché in miseria, con moglie e figli. Aveva
grande ammirazione ed amicizia per Mussolini, che non credo fosse
ricambiata per una certa forma di invidia-gelosia mussoliniana nei
confronti di Marinetti. Il regime gli offriva incarichi 0 prebende, che
continuò a rifiutare. Mussolini arrivò ad offrirgli la presidenza
dell’Associazione dei grandi alberghi italiani, proprio a lui che disprezzava
l’industria del forestiero. Accerta solamente, e sollecitato, la segreteria
dell'Associazione Italiana Autori ed Editori, altrimenti forse destinata
al solito arraffone di turno. Tuttavia si tenne sempre in disparte
e non fece mai politica attiva, non partecipò mai direttamente al regime,
che anzi forse osservava contrariato, a parte solo qualche onesta e
sincera manifestazione di simpatia per Mussolini. Si oppose alla presa di
posizione politica di Hitler contro l’arte moderna e d'avanguardia, che si
manifestò e sfociò nella censura e nella repressione dell'arte. E
nella stesso momento organizzò a Berlino una mostra di aeropittura
futurista che creò non pochi problemi e suscitò non poche difficoltà
anche diplomatiche fra i due governi ira liano e tedesco. Oltre che
produrre una situazione difficile e imbarazzante per le posizioni o i
movimenti artistici e intellettuali della Germania dell’epoca. In Italia fu
l’unico in questa occasione a prendere posizione ed esprimersi contra
l’ingerenza politica e l'intervento del regime di Hitler nella cultura e
nell'arte. Ero da Marinetti a Roma: arrivava Marinotui (presidente
della Snia Viscosa) che era stato da Mussolini insieme ad altri
consiglieri regionali del regime. Marinotti si era accinto a raccontate a
Marinetti che tutti i consiglieri avevano relazionato Mussolini e che
nessuno aveva avuto il coraggio di dirgli che le cose andavano male,
tranne uno, il consigliere sardo, che aveva sostenuto la stanchezza della
gente, la maldicenza, il tradimento. Marinetti osservava che non era possibile
che non si sapesse... È Marinotti ribatté che lo si sapeva, ma che non
era possibile dirlo a Mussolini... Il giorno dopo ritornai da lui e mi
comunicò che il consigliere sardo era stato nominato da Mussolini ispettore
generale per tutta l'Italia. Poi si mosse da Venezia e risalì verso la
Lombardia, perché non se la sentiva di starsene in disparte a far
l’antifascista ... L'ultimo suo poemetto in versi, l'ultima sua espressione
letteraria s'intitola appunto: Musica di sentimenti per la X Mas. E vi si
dice: Io sono fato di aeropoesia fuori tempo e spazio . E' già
definizione sintomatica e totale dell'opera. Ailora, Marinetti fu
fascista? E se lo fu, lo fu fino a che punto? O non lo fu, e fino a che
punto non lo fu per essere futurista? Marinetti è stato sempre e
comunque e saprattutto futurista. Questa è la mia impressione. Perché ha
seguito la sua natura e la sua volontà. E nel suo essere futurista non è mai
entrata la faziosità di un genere che entra in politica . Non fu mai fazioso.
Una volta eravamo a casa sua, in un gruppo di amici, a parlar di
Majakowski e di futurismo russo. Qualcuno obiettò: Ma Majakowski è
un comunista . Ed egli allora ribatté immediatamente: Non ha nessuna
importanza. Perché Majakowski è prima di tutto un grande poeta . Nei suoi
rapporti cal fascismo si può considerare forse il fatto che fosse nato al
l’estero, che fosse educato in Egitto alla cultura francese, spesso
pesantemente sprezzante verso l'Italia. Sentì quindi una specie di aspirazione
all’Italia 0, più ancora, di nostalgia della patria. Poi, volle rivendicare il
futurismo come fatto classicamente e squisitamente italiano. Così
s'inimicò tutta la cricca culturale parigina, ma volle
sprovincializzare e dare un certo orgoglio e una certa autonomia alla
cultura italiana. E pensò o vide che Mussolini potesse essere l'uomo
adatto per rifarla, l’Italia, e per darle una sua nuova base, culturale ed
artistica. Senza sapere, alle origini o senza conoscere, quando era
all’estero, ed anche a Parigi, la furbizia, anche culturale degli
Italiani. Lui fu in buona fede. Dal fascismo ebbe l’Accademia d’Italia
(con appannaggio onorario in un momento in cui era anche in disagi
economici), ed ebbe la Biennale di Venezia {come una riserva indiana ).
Il suo è un fascismo di speranza o di desiderio, nella speranza di poter
vedere realizzato il suo futurismo. E' contrario al Novecento e al
classicismo romano alla Piacentini, che Mussolini invece appoggiava.
Forse tutti i regimi, quando si affermano, cercano di eliminare le
avanguardie. Il fascismo non le appoggiò, mentre il nazismo e il comunismo le
stroncarono. Sta di fatto che Marinetti appoggiava Terragni a Como, e non
appoggiò mai Piacentini. Alla Biennale, a Venezia, il futurismo è stato
accettato sì, ma mon con la considerazione che Marinetti si sarebbe
aspettato, e che sarebbe davuta spettare all'unico movimento d'avanguardia
esistente allora in Italia. E invece è stato accolto sì il futurismo, ma
quasi messo in disparte. All'inaugurazione della mostra, durante il
discorso di presentazione, Marinetti si alzò ed intervenne ad alta voce,
presente il Ministro dell'Educazione Nazionale, lamentando l'ingiustizia
per l'esclusione dell'unico movimento d'avanguardia dell'arte italiana.
L'anno dopo Mussolini stesso gli concesse un padiglione di riserva, che doveva
rimanere, ogni anno, a disposizione dei futuristi (la riserva indiana ,
già summenzionata). Mussolini invece, secondo lei, fu futurista?È stato
un politico ed ha appoggiato Marinetti per avere il futurismo dalla sua
parte. Anche se il futurismo aveva contribuito, pure, alla sua formazione.
Che avesse jspirato un regime al ritorno verso l'antica Roma nei
suoi simboli e nei suoi modelli, vuol dire tuttavia che era rimasto fuori
dal futurismo. E allora il fascismo di Mussolini ed il futurismo di
Marinetti non hanno nessun punto in comune? O si possono, secondo lei,
mettere in relazione o in collegamento, e fino a che punto ciò è
possibile? Per Mussolini il fascismo è politica, per Marinetti il
futurismo è poesia. Sono due posizioni completamente diverse. Non si può
quindi parlare di futurismo fascista, nemmeno del primo, quello delle
origini? Finché un movimento politico è in fase rivoluzionaria, le
posizioni della rivoluzione culturale con quelle politiche coincidono;
poi però quando il movimento politico diventa regime si burocratizza, e
allora non può non scontrarsi con la cultura che rimane sempre
rivoluzionaria e che non può assimilare come tale le esigenze politiche di un
partito. Ecco perché esistono punti di contatro o momenti di simbiosi tra
affermazioni marinettiane e fascismo politico dei primi anni, poi rallentati o
rilasciati quando si afferma l’ordine romano , utile al regime, ma
speculare di un passatismo senza mezzi termini, e totale. Marinetti
tollera questa esigenza politica di Mussolini, ma non la condivide od
ammette in campo artistico e culturale. Tuttavia Marinetti era uomo che non
confondeva amicizia ed ideologia: poteva combattere con un amico per principi
ideologici, anche violentemente, senza però intaccare l'amicizia, che rimaneva
sempre e comunque. Resta oggi il futurismo? E resta come realtà
artistica solamente, o anche politica, nella sua dimensione d’espressione
artistica? Senza fascismo, che è finito ovviamente, e da tempo. Forse resta il
futurismo, come tensione di rinnovamento? Sì, il futurismo resta, credo,
nella sua posizione di rinnovamento, o di indicazione nella creazione di
nuove forme, e di nuove idee, o di valori nuovi. Oggi si contesta
per distruggere senza dire quello che si vuole proporre in sostituzione.
Il futurismo aveva invece dato i suoi manifesti. Volle distruggere, ma propose
ciò che voleva ricostruire. Anche oggi, per quel che resta, il futurismo cerca
un suo rinnovamento che si superi continuamente. Oggi c'è molta
saggistica, ma si vede poca poesia. Forse manca l’entusiasmo, nonostante
la grinta. Penso che esista ancora futurismo oggi, perché esiste ancora
temperamento di novità, e di rinnovamento. Perché esiste ancora una
spinta vitale di ossigeno . E l'opera deve avere un suo sangue, se
si tratta d’opera d’arte. Un sangue di cui deve vivere, o un sangue per
cui possa vivere. É l’ossigeno è un valore assoluto che resta, non si
toglie, perché è ineliminabile. Anche in bottiglia, nella plastica,
rarefatto o alla luce del sole. Il futurismo è un po’ come l'ossigeno, o
l'anima o lo spirito del lavoro e dell’opera, o della vita: è un po’il
suo entusiasmo. [Intervista u cura di Schiavo] Per quanto riguarda lo
svisceramento dei collegamenti fra Je correnti del futurismo indipendente
come movimenro artistico e culturale ed il fascismo come movimento politico e
sociale, particolarmente per quel che si riferisce al carattere autonomo
del futurismo torinese e al fascismo delle origini, è ovvio che i
tapporti intercotsi fra di loro furono lungi dall’essere quelli di un
matrimonio d'amore. Consistettero specificamente in taciti e necessari
accordi immaginati per pater dare vita a creazioni autentiche che
abbisognavano di un ambiente rispettoso dei motivi di una vera
rivoluzione (quella artistica e spirituale scatenata dal futurismo), in
un clima fascista che di rivoluzionario non ebbe in seguito che la sola
etichetta. Il futurismo torinese, nel tentativo di operare in piena italianità,
condivise nelia sua giusta misura taluni prin cipî che il primo fascismo
stabili quando provò a integrarsi nel campo difficile della moderna civiltà
europea. Alla stessa stregua e per raggiungere gli stessi fini il
futurismo piemontese trattò anche con l’anarchismo e il comunismo idealitario
di GRAMSCI (vedasi), sui quali ebbe una considerevole influenza negli sviluppi
dell’architettura. Il senso altamente novatore di Fillia e la sua
molte. plice attività (stupefacente in una esistenza così breve) per:
sonificano le forme coerenti e concrete dei concetti più originali e più
saldi delle imprese del futurismo torinese. Figura rappresentativa
dell’essere istantaneo, Fillia non temporeggiava mai, viveva come una
ruota, partiva come una freccia. Propugnatore di quel futurismo mistico
che per ordinarie ragioni razionali ed estetiche militava in
margine della Chiesa cattolica apostolica e romana di quel l'epoca, egli
affermava con rigare di logica e con argomentazioni arditissime che la
religione ha relazione di somiglianza con la geometria interna dell’arte.
Misteri dottri. nali da ricrearsi plastiicamente per dare forma concreta
ai nuovi concetti della pittura sacra erano per lui la Trinità, la
Redenzione e la Vergine. L’apostolato di Fillia s'immedesimava con quello del
futurismo in cui si cercava una forza di liberazione, e la trovava in
quel movimento, ciecamente. Originati da una geometria astratta superiore,
i suoi dipinti possiedono quella qualità rara di non essere visà, e
perciò non ricavati dal vero, ma di sorgere senza shavatura alcuna dal proprio
io, e come se l'artista non vi fosse per nulla, per cui aspettavamo ogni
sua scoperta con un senso di impazienza, di ansietà, perché Fillia non
cessava di inventare e di portare sempre più avanti i perfezionamenti pittorici
del futurismo. Tuttavia, una continuità è discernibile nella sua arte che è,
innanzitutto, di una grande purezza, di una grande acconcezza, di una
grande serenità. I colori si oppongono l'uno all'altro e si
sovrappongono con curve e frangie di corallo, macchie di cielo, fantasticherie
metafisiche, sogni astrusi. Opera di contemplativo che accomuna sempre iutto e
sempre con estrema dolcezza, e dalla quale si spande una pace angelica
che sembra invalidare, apparentemente, taluni assiomi violenti della
dottrina futurista. Ma è invece la prova Iampante che il dinamismo di
questa scuola italiana non esclude quello stato di grazia dove i
conflitti diventano preghiere. Si tratta di fermare il nemico per
ritrovare Ja quiete, di combattere ferocemente per amare di un più grande
amore. Tale atteggiamento è proprio l’antitesi del sentimentalismo romantico,
dell’ebetismo della debolezza: esso convoglia l’arte verso quell'alta sfera
mitica e visionaria che invade la mistica futurista. Gl’errori di
pensiero che possono insinuarsi nella mente di un poeta come Fillia, che non
può sempre ridurre tutto al controllo della logica, non vanno
interpretati nel lo stretto senso letterale. Il movimento è
irrefrenabile, talvolta irresistibile, porta oltre la matura e si perde
in un mondo di realtà fantasmagoriche. Nessuna amarezza, nessuna amarezza
siatene cetti si nascondeva in questa libertà concettuale e della
riflessione: vi era troppa gentilezza in questo cuore di pittore e
di poeta, troppa felicità per i suoi amici, perché si possa attribuire un
significato ironico alle sue composizioni sacre come non hanno mancato di
fare borghesi indirozzabili e bolsi dalle maniche troppo lunghe, dalla
mente inceppata. Ho buona speranza per Fillia, per questo artista
pensatore che fu anche un provetto artigiano; non mi rattrista la sua morte
prematura. Un suo misterioso paesaggio dell'ex raccolta Ferrari di Ginevra mi
scopre un cimitero e la scala rossa che lo vincolò in eterno con gli
eroi: quello stesso cimitero e quella stessa scala di Sant'Elia. Distinguo la
luna bianca della sua grande dolcezza, e le cose della terra non reggono,
sono rovesciate su loro stesse. Le pitture religiose di Fillia sono un
richiamo allo spirituale puro, degli abbozzi di Paradiso. S’intende
che un tentativo di tal fatta non deve giungere al disprezzo della
cosa creata, dell’Incarmazione: ma non è il caso di Fillia le cui forme
della sua arte si disegnano, si creano e si distaccano dalla loro causa
prima. Tutto il lavoro dell’opera si riporta ad una giornata ben definita
della creazione dove gli uomini non sono ancora che allo stato di
abbozzo, ma dove la macchina respira già, dove i fantasmi girano secondo
una traiettoria circolare, dove l'arcobaleno annuncia la riconciliazione. Una
siffatta pittura è infinitamente rispettosa, il suo pudore è un perpetuo
tremita davanti alla bellezza; essa sprigiona cdelicatezze insospettate,
scrupoli inauditi e nondimeno una audacia che le viene soffiata dallo spirito.
Nonostante il suo atto di fede nella macchina, Fillia è certamente un
pittore spirituale. La bellezza intrinseca del. le macchine corrispande
ad un suo bisogno di esattezza sovrumana, di perfezione nelle linee e
negli spazi. È una dimostrazione pratica che consente all'uomo di
disincagliare la vera vita, di ricercare quegli elementi universali
dell’arte che scaturiscono nei momenti fecondi ed imperiali delle Nazioni
e ne rendono lo spirito eierno. Per non spappolarsi nella struttura, per
non sgretolarsi alla radice, il futurismo è lui stesso alla ricerca
dell'eterno. E’ ben vero che questa eternità non è sotto i nostri passi,
non è dietro di noi, ma davanti a noi, In questo senso tutti i cristiani
dovrebbero essere futuristi, diceva Fillia, perché meno legati degli
altri uomini al passato e al presente, e più ferventi dell'avvenire.
Questo richiamo ad una tradizione spirituale, questo allenamento
{secondo la felice definizione di Marinetti) non ha nulla di necroforo,
non intralcia lo sviluppo dell'arte ma stimola, spinge in avanti, crea. Non si
dimentichi perciò il contributo molto importante di quella autentica tradizione
che serve a ristabilire l'equilibrio normale. Infatti, all’inizio
Je forze novattici distruggono talvolta, svelano uno sprezzo irragionevole
del passato e di ciò che la vera tradizione conserva pertanto di
eternamente vivo. Un rifiuto non controllato potrebbe anche andare a
scapito del progresso stesso e insabbiare per sempre l'incitamento che
motiva nuove conquiste. Non si negano gli elementi universali
dell’arte passata perché non si possono negare quelli dell’arte
nuova. L’opera di Fillia rivela una tendenza perpetua verso il
progresso nel senso più alto della definizione. Trasformandosi da una pitiura
all’altra svolge senza contraddizioni la sua sincerità primitiva. Un futurista
non può dunque negare la storia della sua opeta e tanto meno quel
la del suo movimento: egli porta il peso di un passato inventato che non
può rinnegare senza distruggersi. Questo passato inventato risale
certamente al di là del futurismo che costituisce una specie di
dialettica dello spirito e affre
l’unica possibilità capace di abbattere gli ostacoli. Il fiume precipita giù dalla
cascata come se vi prendesse nascita; in realtà la sorgente è al ghiacciaio.
Il futurismo ha radici italiane ed europee: il tempo aiuta a farle
scoprire senza remissione. Fillia è l'uomo intuitivo di una nuova era.
Dalla sua opera e dai suoi tentativi, come da quelli di Balla, di
Boccioni, di Prampolini, di Diulgheroff e di Benedetto, si stacca un’arte
pubblica universale che l'architettura funzionale rivela, contribuendo
efficacemente alla diffusione delle idee futuriste di Antonio Sant'Elia e
degli slanci del purismo di Le Corbusier. Nell’intento di realizzare
ad ogni costo, Fillia si appoggiò al Regime attraverso gli interventi efficaci
di Marinetti. Però, non ho mai visto Fillia in camicia nera, ne lo sentii
mai parlare di politica nostrana. Parlava solranto dell’Italia che amava. Le
due idee rispecchiano gli scopi e i metodi creativi di quel movimento
indipendente di buona lega che fu il futurismo torinese.
SARTORIS per conto dell'Editore Volpe dalle Arti Grafiche
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italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo
campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I love Carlini, and
Speranza loves him even more, but then
he is Italian! My favourite is his “A brief history of philosophy,” especially
the subtitle: “Da Talete di Mileto a Talete di Mileto, con una postfazione di
Talete di Mileto – “Nel principio era l’acqua”!” – “Il primo filossofo – che
cadde in un pozzo.” Si laurea a Bologna (“l’unica universita italiana”) sotto Acri.
Insegna a Iesi, Foggia, Cesena, Trani, e Parma. E chiamato presso Pisa per
sostituire Gentile, trasferitosi a Roma, come titolare della cattedra di
filosofia teoretica. Membro dell’Accademia d'Italia. Inizia a farsi conoscere
assumendo la direzione di una collana edita da Laterza che inizialmente venne
lanciata sotto il nome di “Testi di filosofia ad uso dei licei”. Ad introdurlo
nella Laterza è GENTILE, conosciuto qualche anno prima, e CROCE, all'epoca
ancora in rapporti col filosofo di Castelvetrano. “Testi di filosofia ad uso
dei licei” ha un scopo divulgativo, ma divenne presto celebre per l'alto
livello degli autori che collaborarono in vario modo al suo interno, fra cui, oltre
al C., anche Saitta e lo stesso Gentile. Oltre al lavoro di direzione e
coordinamento in qualità di direttore responsabile, pubblica due saggi su
Aristotele (in realtà raccolte aristoteliche da lui curate, commentate e
tradotte) cui fa seguito uno studio su BOVIO che desta l'interesse di non pochi
studiosi e l'approvazione di GENTILE, considerato da C. suo tutore
indiscusso. Pubblica due corposi volumi che gli assicurarono un posto di
assoluto rilievo nell’ambiente filosofico: un esaustivo studio sul sense e
l’esperienza, e soprattutto “Lo spirito”.
In “Lo spirito” si inizia infatti chiaramente a delineare il proprio
pensiero: adesione alla dottrina idealista, vista come sintesi fra il pensiero
immanentista gentiliano (GENTILE è, fino alla propria scomparsa, suo amico,
oltre che tutore) e quello crociano. Il soggetto attraversa un costante irto di
dubbi ed angosce e un dialogo che riusciamo ad instaurare con noi stessi, in un
percorso critico dialettico, una conquista realizzabile solo attraverso gli
strumenti di una metafisica critica. La centralità della teoria della
conoscenza e sviluppata in “Lineamenti di una concezione realistica dello
spirito umano” e “Alla ricerca di noi stessi”, “alla ricerca di tu”. Comprensibile
appare pertanto l'interesse che nutre per l'esistenzialismo, che però si
espresse con una singolare preferenza verso Heidegger, nelle cui speculazioni
trovarono ben poco posto le istanze metafisiche, piuttosto che nei confronti di
Jaspers che su quelle stesse istanze aveva strutturato la propria filosofofia.
Commenta il pensiero logico di Heidegger, e Che cos'è la metafisica? (“La nulla
anihila”). Rende un commosso omaggio a Gentile con i suoi Studi gentiliani,
raccolta di scritti in massima parte già pubblicati precedentemente, tesi a
ricordarne la figura e le affinità intellettuali che un tempo lo avevano legato
al grande filosofo siciliano. “Bovio” (Bari, Laterza); “Senso ed
esperienza” (Firenze, Vallecchi); “Lo spirito” (Firenze, Vallecchi); “Note a la
metafisica d’Aristotele” (Bari, Laterza); “Filosofia” (Roma, Quaderni dell'Ist.
Naz. di Cultura); “Il mito del realism” (Firenze, Sansoni); “Lo spirito” (Roma,
Perrella); Filosofia (Roma, Ist. Naz. di Cultura); Il problema di Cartesio, Bari,
Laterza); Storia della filosofia, Firenze, Sansoni); “La Fondazione Giovanni
Gentile per gli Studi filosofici” (Firenze, Sansoni); Le ragioni della fede,
Brescia, Morcelliana); Michelino e la sua eresia” (Bologna, Nicola Zanichelli).
Dizionario biografico degli italiani. l'architrave 4 ala I ai Mi L.
LL SIRIA] PST IR del (5 FILOSOFI
ANTICHI E MEDIEVALI b) A CURA DI G. GENTILE ARISTOTELE
LA METAFISICA TRADUZIONE E COMMENTO AKA
E EL Ò. SX QAR RAT (07 Ds) A CUR. C.
gt (O ) 53 Jy
i, SK NT rx SD SR
AS, di CL n 4 ù TA d la INS
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NN Ì rezza MI 7 / p) NIN N % té dEILR Li CE. SENI È FILOSOFI
ANTICHI E MEDIEVALI A CURA DI GENTILE ARISTOTELE LA
METAFISICA ARISTOTELE LA METAFISICA TRADUZIONE E
COMMENTO CUR. DI C. STA 4 ar y A) ù (NRE (2 CN
SES ei rrA i N /2., (STRU: DEA ISIN NZIIA SIA SNA
RNIMEN ENI | Nin KI ILA AVIS & N , MS x Na w
ELE VIRZIONI BARI GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI-EDITORI-L]BRA A GENTILE AMICO E
MAESTRO AMATISSIMO. Dubbi su l’autenticità di alcuni libri della
Metafisica aristotelica, e su la sua composizione, furono sollevati sin
dai tempi antichi. Il testo, quale noi oggi abbiamo, corrispondente,
salvo lievi differenze, a quello del commento che va sotto il nome di
Alessandro d’Afrodisia, mostra sconnessioni tali da far nascere sùbito i
sospetti. L'occasione è offerta già dal piccolo libro II (I minore,
nell’enumerazione greca). Asclepio (4, 9) notò che l’opera lascia molto a
desiderare per l'ordine della trattazione, e che vi sono passi ripetuti e
parti prese da altri scritti aristotelici; e aggiunse che, secondo
alcuni, Aristotele aveva affidato ad Eudemo il manoscritto per la
pubblicazione, ma Eudemo non reputò opportuno pubblicarlo così come si trovava:
il manoscritto subì molti danni col tempo, onde, quando più tardi alcuni
della Scuola ne impresero la pubblicazione, non osando colmar le lacune
di loro testa, attinsero ad altre opere aristoteliche e armonizzarono il
tutto meglio che poterono. L’autorità di Asclepio non conta molto, ma
quel che dice basta a provare che dubbi si sollevarono ben presto. Questi
non mancano del tutto negli Scolastici, e risorgono più che mai con gli
studi aristotelici nel Rinascimento. Nell’età moderna, dopo un
tentativo, riuscito vano, di dimostrare che la Metafisica è un complesso
risultante da libri aristotelici ricordati nell’indice di Diogene Laerzio
(nel quale non si trova menzione della Metafisica), la questione è
stata ripresa, da un secolo in qua, più criticamente; ma, come
VUuI MBTAFISICA spesso avviene, a un indirizzo
rivoluzionario, che ha rifiutati come spuri alcuni libri o parti di libri
e tentato di dar al resto un ordinamento del tutto arbitrario, si è
opposto l’altro, più cauto, di mantenere e giustificare, per quanto era
possìbile, il testo nell’ordinamento attuale. A dar conto di tutto ciò,
ci vorrebbe un volume a parte, con dubbio vantaggio per quel ch’è lo
scopo principale della presente traduzione: l'intelligenza dell’opera: la
quale è senza dubbio di Aristotele, anche se redatta in qualche parte su suoi
appunti e ordinata nell’insieme da suoi scolari. Ma non possiamo
prescindere da un critico recente, dallo Jaeger, il quale, dopo di avere,
negli Studien zur Entstehungsgeschichte der Metaphysik des A. (Berlin, 1912),
tentato di sciogliere il testo nelle parti originarie, liberandole da
quelle via via aggiunte in sèguito, ha voluto, nel volume Aristoteles:
Grundlegung einer Geschichte seiner Entwicklung (Berlin), collegare la storia
della costituzione del testo a quella più generale dello sviluppo del
pensiero aristotelico in tutte le sue opere. A noi conviene, tuttavia,
non allontanarci dal nostro scopo, e però vagliare i risultati, a cui
giunge lo Jaeger per la Metafisica in particolare, soltanto dopo di avere
fissata la linea di pensiero che si svolge in ciascun libro o
gruppo di libri. Cominciamo dal libro primo. Questo primo libro
della Metafisica ha une linea di svolgimento interno e un'unità di
concetto benwisibile. Pone dapprima il concetto del sapere come fondato
su l'esperienza e ascendente per gradi dalla conoscenza sensibile a
quella logico-scientifica; poi, distingue in seno a questa la forma più
elevate del sapere, quella filosofica, ch'è conoscenza dei principii e cause
prime. ° Si presenta, allora, il problema della causalità come dottrina
dei principii di ogni realtà nel mondo. Dai primi pensamenti della
causalità come ricerca dell'elemento o degli elementi primordiali, si
passa, Un'esposizione del
contenuto (per questo come per gli altri libri) è data nel Sommario. Qui
si dà rilievo alle critica delle Idee, ch'è la parte più importante.
rx sebbene
vagamente, al concetto della causalità come principio efficiente e
finale, e alla scoperta della causa logico-formale, posta, quest'ultima,
chiaramente da Platone. L'interesse della trattazione si concentra
naturalmente, ora, su questo punto, ch'è decisivo, non soltanto per il
problema particolare delle varie specie di causa, ma, ben più, per tutta
le concezione aristotelica della realtà. Della filosofia platonica A.
espone prima (nel cap. 6) le origini storiche, la concezione centrale delle
idee, la dottrina ultima delle ideenumeri: e accenna già al punto fondamentale
di divergenza dal suo maestro nel concetto del rapporto tra materia e
forma. La critica si svolge con certa ampiezza nel cap. 9, seguendo
nell'insieme quest'ordine: a) contro la dottrina generale delle idee; è) contro
le idee-numeri in generale; c) contro la derivazione del geometrico
dell’ari tmetico;
d) contro il concetto innatistico dei principii della conoscenza. a) Per
combattere la dottrina delle idee in generale, si parte dal concetto
rimasto nel platonismo delle idee come realtà trascendenti il mondo
sensibile. Le idee, infatti, non sono ancora l’intelligibile aristotelico, e
per quanto la dialettica platonica abbia sempre più accennato a considerarle
dentro il processo del pensiero pensante il reale, esse non perdettero
mai il carattere di reali posti accanto, e però fuori, del sensibile.
Questa trascendenza restò in seno all'idea stessa, quando Platone
distinse in essa il principio puramente formale (e però veramente ideale) da
quello del molteplice, ch'è suo contenuto. Quindi A. può dire che
Platone, per spiegare il mondo sensibile, lo raddoppia e moltiplica; e
che quella spiegazione, in ogni modo, è puramente formale (detinitoria),
non reale, perchè l’idea non è causalità, attività, principio interno
alle cose (reale della stessa realtà di queste). E anche nella sua
formalità non può riuscire a dar ragione delle cose, perché così il
principio dell'unità come quello della molteplicità, presi nella loro
assoluta indeterminazione, non possono produrre concetti di nulla che
valga a intendere il reale nella sua costituzione effettiva. Col criterio
dell'unità del molteplice, ad es., si dovrebbero ammettere idee di
proprietà, di relazioni, ecc., laddove l’idea vuol essere ragione di ciò
che nelle cose è fondamentale, ossia della sostanza. Ma come pervenirvi senza
la distinzione dell'essere reale in ciò che ha di costitutivo ed essenziale da
ciò ch'è suo modo di essere secondario o accidentale? b) Contro le idee-numeri
A. fa valere il suo concetto dell'astrattezza del numero, e la sua ripugnanza a
identificare il pensare col numerare. Le idee non si possono trattare
aritmeticamente, nè possono esprimere la sostanza delle cose. Questa è data,
invece, nel processo logico-reale dei generi e delle specie, con le
determinazioni peculiari che l’esperienza ci scopre nel mondo della
natura. c) Dal grande-piccolo, poi, cercano invano, i Platonici, di
dedurre le determinazioni delle figure geometriche. Non soltanto passano
indebitamente da ciò ch'è inesteso (il numero) all’esteso (figura), ma
anche, in questo, tentano invano di spiegare il passaggio dal concetto di
punto a quello di linea, da questo a quello di superficie, da questo a
quello di solido. Considerandoli come divisioni del concetto (con metodo
definitorio), dovrebbero ridursi l'uno all’altro, predicarsi l'uno
dell’altro: la geometria verrebbe annullata. Invece, le figure geometriche si
costituiscono nel processo di determinazione del concetto di spazio, come
svolgimento logico di esso ch'è insieme la sua generazione reale. d)
Tutte queste idee e idee-numeri, poi, in quanto son altra cosa dalle
sensazioni, l'anima le dovrebbe portar in sè, come una scienze innata, e
dimenticata. Ma come, allora, distinguerle e applicarle nei casi*
particolari? E se, avendole dimenticate, non ne possediamo in principio
attualmente nessuna, come dar origine al sapere? Ci vuole, invece, un
principio attuale in noi, l'intelligenza, dal quale scaturiscano i principii,
immediatamente, di ogni sapere; e ci vuole la sensazione come punto di
partenza di ogni conoscenza fondata su l’esperienza. Così si ritorna al
concetto posto nella prima parte del libro, e si chiude il cerchio del
pensiero intorno al fondamento del sapere. Nello stesso tempo vien
conchiusa l'illustrazione, proposta con la seconda parte, della
definizione della filosofia come scienza dei principii e delle cause
prime. L’indagine storica, che ha servito a quella illustrazione, ha dato
questo risultato: i Fisiologi trascurano l’incorporeo, non vedon chiaro
il processo causale efficiente-teleologico, ignorano la forma; i
Pitagorici confondono il fisico col matematico, ignorano la causa del
movimento, identificando le cose con la loro definizione si lasciano
sfuggire il concetto della forma; Platone mette in rilievo la forma, ma
cerca invano di assorbire in essa le altre specie di causalità. Conchiusione
ultime è che nessuno dei filosofi precedenti vide chiaro nel concetto
della causalità; e tuttavia, pur attraverso le deficienze e i barlumi, tutti
mirarono a esso e nessuno accennò ad altre specie di cause da quelle
poste. Si che si può dire che il concetto posto della causalità, nella
sua distinzione e precisa formulazione, risulta storicamente
confermato. Su la data probabile (') della composizione di questo
libro, v. nota al cap. 9, $ 2; e per il suo rapporto al lib. XIII, dove è
ripetuta quasi letteralmente la parte riguardante la Poco dopo la morte di Platone, secondo lo
Jaeger (Arist., p. 178), a poco distante dalla composizione del dialogo
regi priogoqplas, nel quale erano tre parti: una storica, una contenente
già la critica delle idee, una terza teologica, corrispondenti al contenuto dei
libri I e XII della Metafisica. I primi due capitoli, invece, di questo
libro riproducono un motivo del giovanile Protreptico. La critica delle
idee in questo libro forse presuppone anche il magl l8e6v (v. nota a 9,
2). critica delle idee, v. nota, ivi, al cap. 4, $ 4. Anche l’aggiunta del
$ 11 a questo capitolo del lib. XIII prova che quella parte fu
trasportata dal lib. I nel XIII, e non viceversa, come pensa il Christ (v. nota
al testo greco, nella sua edizione, in fine al cap. 7). Più
difficile da risolvere è la questione per il cap. 10: v. nota, ivi, al $
1. L’ipotesi dello Jaeger è ravvalorata dal fatto che la fine di questo
capitolo distingue due ordini di aporie: le prime, intorno allo stesso
argomento del lib. I, debbono spianare la via alle seconde, e queste
ultime sembrano dover essere quelle del lib. III. Sì che parrebbe che la
clausola finale del cap. 10 stesse più a posto alla fine del cap. 7. È
vero che il Ross obietta potersi riferire anche le prime aporie al lib.
III, adducendo le parole iniziali del $ 3° del III. 1; ma, da un lato, resterebbero
indeterminati «i problemi ulteriori , a cui A. accenna; dall’altro, par poco
verosimile che un libro così rieco e ben ordinato, come questo I, dovesse
conchiudersi con l’attuale cap. 10. Ma c’è un’ipotesi ulteriore dello
Jaeger: che, trasportata la critica delle idee al lib. XIII, A. stesso
pensasse più tardi di far terminare il lib. I col cap. 7. Togliendo,
infatti, la clausola finale ($ 8), si avrebbe un risultato della
trattazione che par definitivo ($ 7: questo potrebbe esser stato aggiunto
dopo, proprio a questo scopo). Qui sorge una questione che involge quella
dell’origine storica e dell’ordinamento delle parti di tutto il libro. I lavori
dello Jaeger, a mio avviso, mettono fuori discussione un punto di
capitale importanza: che la Metatisica non segue il piano di svolgimento
di un’opera propriamente detta: essa non è un «libro , come siam soliti
d'intendere, ma una « serie di libri, o di parti, delle quali ognuna ha
originariamente una sua propria significazione. Certo, non è una
serie « episodica : c’è un ordine generale tra le varie parti, anzi
un nesso interiore che fa della Metafisica un’opera organica. Ma
quest’organismo risulta dal movimento complessivo del pensiero,
indipendentemente dall'ordine che vi hanno le varie parti, e quest'ordine, in
quanto mira a un disegno o piano costitutivo dell’opera intera, è dubbio
che si possa attribuire (come pur lo Jaeger sostiene, non ostante la
sua tesi accennata) ad A. stesso. Prendiamo questo libro I: ci sarebbe di
questo la prima redazione, ch’ è l’attuale con l’esclusione dell’ultimo
capitolo; una seconda redazione, rielaborando il cap. 7 come dianzi s’è detto,
avrebbe mirato a unire il lib. I al III; in una terza redazione A.
avrebbe pensato di far terminare il libro al cap. 7. Ora, a me pare che
la prima ipotesi abbia molta probabilità, minore la seconda, presso
che nessuna la terza. Perchè sopprimere tutto il cap. 8 e la parte
del 9 non compresa nel XIII? E, soprattutto, perchè guastare un libro
che, integrando l’esposizione storica con la parte polemica, si presenta di
così unitaria fattura come poche altre parti della Metafisica? E con la
terza redazione non si sarebbe perduto il vantaggio della seconda ?
Quanto a questa seconda, poi, non va trascurato che, in ogni modo, il
nesso tra il libro I e il III resta più esterno che interno: non si può
dire che questo rappresenti uno sviluppo di quello stesso, o, insomma,
che l’uno presupponga l’altro necessariamente. Lasciando, dunque,
in disparte le questioni d’incerta soluzione, possiamo tener fermo questo: che
il libro I raccoglie un corso a sè (A6yoc, péd0osoc) di lezioni (conversazioni
e discussioni), tenuto da A. intorno al concetto della causalità
nella formulazione già data in precedenti scritti di Fisica (cfr. 3, 6),
allo scopo di dimostrare ch’essa va concepita secondo la quadruplice
distinzione immanente a quel concetto, di cui il valore è insieme
ontologico e gnoseologico (epistemologico). Quest’immanenza, che tuttavia non
accenna ancora a risolvere le distinzioni in un principio unitario, è ciò
che dà il tono più aristotelico alla trattazione: chè la distinzione, per sè,
delle quattro specie di causa egli la derivava dalla scuola di Platone.
: 3. Lo sviluppo del
pensiero nel libro II è il seguente. Il capitolo primo pone il
concetto della filosofia come scienza della verità, ed illustra poi la
definizione a parte subiecti e a parte obiecti. La difficoltà di vedere
con chiarezza la verità dipende dalla debolezza del nostro occhio mentale:
di qui }a necessità di esercitare ed educare la nostra facoltà intellettiva. A
questo può giovare molto il contributo de’ pensieri altrui intorno alle verità.
(In questo modo, vien disperso il germe di misticismo, o di scetticismo,
e di aguosticismo, ch’era nel pensiero precedente: la difficoltà non è
insuperabile, come, invece, è quella dei pipistrelli di fissare la luce
del giorno). . La verità, oggettivamente, è l'essere stesso delle cose.
Per cui l'essere ch'è più essere, è anche il più vero: è causa prima
dell’essere e della verità di tutto il resto. Tale è l’essere eterno, e i
suoi principii Son principii di tutto. Dopo ciò, si attenderebbe di
passare alla ricerca dei principii dell'essere eterno, di ciò che non
appartiene al mondo corruttibile. Invece, il pensiero si abbassa nel capitolo
secondo al mon do
del divenire in generale per affermare la necessità di porre un
principio, ansi dei principii o cause prime del suo essere e del nostro
conoscerlo. Non ostante la oscurità e incertezza di singoli punti, la
tesi svolta in questo secondo capitolo, dell'’impossibilità di un
processo all’ infinito, risulta abbastanza chiara. Ci ha de essere, anzitutto,
un punto di partenza e un punto di arrivo: un processo chiuso, in somma,
da entrambi i lati. Chi pone, infatti, una questione di causa-effetto,
comincia di necessità de un punto, de un fatto, ch'è il primo, poniamo
l'attuale, dal quale procederà, rimontando indietro, alle cause che
l'hanno prodotto. Se, poi, vien concesso un punto di partenza, l'acqua o
l'aria, ad es., per spiegar l'origine causale delle cose, ci vorrà
necessariamente un punto d’arrivo: bisognerà pur arrivare al mondo
attuale delle cose. L'oggetto (il mondo, la cosa, la realtà attuale) è,
così, determinato ne' suoi limiti estremi. Qui, allora, si pone un
problema più interno a esso: il concetto del suo divenire in quanto
processo immanente. A. presenta il suo concetto del divenire come
svolgimento graduale, irriversibile. E passa, quindi, alla considerazione
della necessità di un principio finale e di un principio formale. (La
dimostrazione precedente dava rilievo specialmente alle causa materiale e a
quella efficiente, in riguardo alle quali si esercita in primo luogo
l’aporia del processo all'infinito). In fine: son queste tutte le
possibili specie di cause? Le domanda in A. suona così: possono esser
infinite le specie di causalità? Egli non affronta veramente il problema,
e si limita a constatare che, se fossero infinite, noi non arriveremmo
mai a conoscer veramente una cose. Il concetto di tempo, qui introdotto,
non aveva che vedere. Se mei, un altro: che le molte cause debbeno
formare una causalità totale, affinchè possiamo affermere di conoscere una
cosa. L'ultimo capitolo comprove l'indole proemiale del libro. In
esso si chiarisce il metodo di trattazione ed esposizione proprio delle
scienze in riguardo al modo di pensare comune, e la differenza tra il
procedere matematico e quello delle scienze fisiche. Di quello filosofico non
X1V MBTAFISICA si parla. Ma, mentre nel cap. 1 la
metafisica par aver in comune con la fisica lo studio della realtà delle
cose, qui il suo oggetto (e però anche il suo metodo) par più vicino a
quello della matematica. Per l’autenticità, v. nota al libro: ne sarebbe redattore Pasicle, di
Rodi; per la sua tardiva inserzione in questo punto, v. nota a IlI. 1, 3. Ma
anche il tono generale è ancora quello del libro precedente: cfr. il cap.
1 col 2 del], e la susseguente trattazione della causalità in entrambi.
La sconnessione tra il cap. 1 e il 2 (cfr. nota a 2, 1) si può
spiegare con l'interruzione degli appunti presi da Pasicle.
4. La serie di questioni, di cui risulta
composto il libro III, comunque si vogliano dividere e numerare, ha un
ordine interno di pensiero, e comprende veramente i problemi capitali della
metafisica aristotelica ? Poichè la filosofia è la scienza delle
cause prime, è giusto cominciare dall’aporia prima: se, infatti, le cause
son di più specie, l’esistenza di quella scienza par compromessa. Quando
A. avrà definito come oggetto della metafisica l’essere in quanto essere
(IV. 1 e VI. 1), serà chiaro che quelle cause debbono esser studiate da
essa in quanto causelità dell'essere stesso. Questo concetto porta a una
superiorità della metafisic a su le altre scienze: a una scienza dei
principii di tutte le scienze. Questi son di tre specie: principii
logici, o assiomi; il genere delle sostanze o cose prese in
considerazione; e le proprietà, accidenti o attributi che vengon
dimostrati di esse. Bisognerà che la metafisica sia scienza di questi
principii. Di qui le aporie 2-4, nelle quali A. tace: a) che c’è un altro
tipo di scienza oltre quello apodittico; è) che dei principii logici, o
assiomi, la metafisica deve considerare il principio primo, quello ch’ è
il fondamento degli altri di ciascuna scienza; c) che la sostanza
studiata dalla metafisica è, diciam così, l'a priori o trascendentale delle
sostanze particolari, sì che una scienza di essa non è, per questo, una
scienza (unica) delle sostanze (tutte); d) e che gli accidenti, di cui
tratta la metafisica, son quelli soltanto che appertengono al concetto
dell'essere in quanto tale. Il predetto modo di considerare la scienza e
i suoi principii riceve in concreto il suo significato, per A.,
dall'opposizione in cui si pone al concetto platonico del sapere. Per
Platone e per i Platonici la scienza non è della realtà sensibile, ma
delle sdee e degli intermedi: essi, staccando l’oggetto del sapere dal
sapere stesso, lo ipostatizzano e moltiplicano in entità ideali o
matematiche. Non vedono che la realtà studiata dalle scienze è la stessa,
la realtà naturale: solo che è con NOTA INTRODUTTIVA xv
siderata da punti di vista diversi. Soltanto su la base di questa diversità di
punti di vista è lecito porre una diversità anche dei loro oggetti:
dell'oggetto della fisica da quello della matematica, e di quello proprio
della metafisica. La forma aporematica
in questa questione (ò3) è più tenue: prevale l'opinione contraria
all’esistenza delle idee e degl’intermedi. Ma è pur vero che
l'oggetto della scienza fisica solo in generale si può dire ch'è la
medesima realtà naturale: in concreto ci sono tante scienze quanti sono i
generi di essa. Sì che, pare, i suoi principii (che la metafisica deve
studiare) debbono essere questi generi resli, non quelli dell'essere
nella generalità del concetto. La tesi vien ribadita nella questione 6a con la
considerazione delle superiorità del principio definitorio su quello
meramente materiale delle cose. Ma il vero sviluppo della tesi è nelle
questioni che seguono. In primo luogo, nélla 7a: se si prendono come
principii i generi, come determinarne il numero? Si ricorrerà all'’Uno e
all'Essere come principio di tutti? Ma l'Uno e l'Essere non son genere, e
per la loro indeterminatezza non possono in concreto spiegarne nessuno.
Senza dire che entro l’imbito dello sviluppo di ciascun genere, questo
genere stesso si moltiplica indefinitamente passando attraverso le sue varie
specie, sì che, da una parte, non si tratta, in realtà, di un genere
unico nel senso dell'identità, anzi di molti generi; dall'altra, esso non
esiste fuori delle specie in cui si realizza: sì che principii, se mai,
sono le specie o concetti specifici piuttosto che quelli generici,
Qui sorge, allora, une difficoltà: noi, anche ponendo come principii le
specie, riconosciamo che i principii son tali in quanto universali. Ln
specie, anche quella più vicina alla concretezza dell'individuo, è pur
sempre un'universelità. Questo pensiero, mentre chiude la questione 7* con
un’argomentazione in favore dei generi che hanno un’universalità maggiore delle
specie, apre la via alla questione 8*. La quale ha una parte poco o nulla
aporematica: quella in cui A. si pone lui stesso il problema d'intendere
come un principio possa essere universale, e tuttavia non esistere fuori
dell'individuo. Egli lo risolve facendo della specie la forma che si
realizza nell’individuo, nel sinolo, e tuttavia non si esaurisce nella particolarità
di questo. Ma c'è una parte, anche, veramente aporematice: la forma in
niun caso è separata? (Dio è separato). E anche dove non è separata (nella
natura), ma immanente agl'individui, diremo ch'essa è unica (identica) in
tutti, o differente in ognuno? Nè l'una nè l’altra affermazione è
sostenibile: nel primo caso si ha una identità materiale, numerica, una
sostanza uguale in tutti gl'individui, che sarebbero, così, tutti, una
cosa sola; nel secondo, la differenze sarebbero tante de sopprimere ogni
realtà, unità e identità, della specie entro la quale soltanto, poi, si
realizzano quelle differenze. La questione ®, infatti, fa vedere
che nè il primo punto di vista, XVI METAFISICA nè il
secondo, sono soddisfacenti. A. qui tace
la sua soluzione: dell’unità che si realizza attraverso le differenze, onde il
punto di vista ch'egli chiama numerico non è guardato fuori di quello
specifico, e viceversa. .+ Questa soluzione, sottintesa, presenta,
tuttavia, una difficoltà al pensiero di A.:il concetto di svolgimento, in
cui l'identità si concilia con le differenze, vale, propriamente, per il
mondo della generazionecorruzione. Come estenderlo al mondo di ciò ch'è
eternamente lo stesso? La soluzione di questa difficoltà (questione 10*)
parrebbe data nel pensiero aristotelico dalla considerazione della realtà
naturale nel complesso del sistema, dove i cieli rappresentano anch'essi
un grado di svolgimento in perfezione. Ma, qui, allora, torna più
incalzante la questione (11°) già accennata a proposito dei generi: se, cioè,
considerando la realtà nella sua totalità, e non nelle divisioni in cui
si offre dei generi diversi, si debba dire che essa è quell’Essere e Uno
che Parmenide, Pitagorici e Platonici, per diverse vie, ponevano come
principio primo e assoluto. Il pensiero prevalente in questa aporia è che porre
l’Essere e Uno come reale porta necessariamente a negare il molteplice e
il numero. A questo punto s'insinuerebbe una difficoltà, quale un oppositore
potrebbe addurre: se non è reale l'Essere-uno, come è reale il
molteplice-numero? Come, senza quello, spiegar questo? A., che alla
difficoltà ha tacitamente risposto dianzi per quanto riguarda la realtà
della forma e della natura nel loro svolgimento, attenua la questione
riducendola alla parte riguardante l'uno-molteplice matematico, cioè alla
realtà del numero e degli enti matematici in generale. E passa, così,
‘alla questione 12*. Spezza una lancia in loro favore, me per dovere
dialettico più che per convinzione: questa si vede bene nella parte opposta,
la quale conferma definitivamente l’astrattezza del punto di vista
matematico, impotente a spiegare la realtà sostanziale e il processo di
generazione delle cose. ° Quella realtà sostanziale i numeri, mera
determinazione quantitativa, non possono darla. Ci vuole una determinazione
qualitativa, un'unità formale, non materiale. A questo, infine, mirò
Platone quando, prima di complicare la sua dottrina con quella
pitagorica, pose per, principio l’Idea. Nella questione 13*, infatti, A.
par così pensare. Il passaggio alla 14° questione è oscuro: l'occasione
può esser offerta del pensiero che l'Idea platonica, pur in certo modo lodata
dianzi, é mera possibilità, non attività. Le questione 15* non
sembra introdurre un problema nuovo ed è, come la precedente, appena
accennata. ‘Integrando, dunque, il pensiero espresso con quello
sottinteso, si vede svolgersi, attraverso l’apparente molteplicità, una
questione unica: qual"è la natura del principio o dei principii, di
cui la metafisica è scienza. Le prime quattro questioni sono
introduttive, e son quelle che hanno una più immediata soluzione nei
primi tre capitoli del libro IV e nel 1 del VI. Questi tre libri (ITI,
IV, VI) vengono perciò considerati come formanti un gruppo idealmente e
storicamente Compatto, e la prova maggiore di ciò è attinta dal fatto che
il loro contenuto si presenta unito anche nell’abbozzo del lib. XI. 1-3. Ma la
forma in cui queste prime quattro questioni vengon riprese, discusse e risolte,
mostra, con la diversità d’impostazione nel IV e nel VI, con gli
sviluppi ed i pensieri ivi aggiunti, che il III ha, anche, una
propria autonomia. Tanto più questo diventa evidente per il resto
della trattazione: le undici questioni, che vengon dopo quelle, trovano
una risposta nei libri VII, IX, X, XII-XIV, ma in forma generalmente
indipendente da quella che hanno nel lib. III ('). Sì che soltanto
approssimativamente, e badando più ai germi speculativi racchiusi in esso
che alla loro posteriore trasformazione, si può riguardare questo libro
come un programma svolto nei libri seguenti. Per se stesso, esso è
una ripresa del motivo dominante già nel I: i principii del reale non si
possono più concepire platonicamente, come idee e intermedi, e tuttavia
essi debbono, come Platone pur vide, trascendere la realtà considerata al
modo dei Presoeratici. Per questo rispetto la questione 13° è da
considerare come conchiusiva (*). Il « noi , ch’è in principio (6, 1:
cfr. anche 2, 17), mostra che A. si considera ancora dell’Accademia come
nel lib. I. : 5. Anche il
lib. IV ha un’unità di pensiero, che ne fa una trattazione indipendente,
non ostante la connessione col III. Vegga, chi desidera, i raffronti fatti dal
Ross, nell’Introduzione (vol. I della sua ediz. della Met. con comm.:
Oxford, 1934), pp. XxIM-xxIv, © pp. 298-233; e i richiami da noi posti
nelle note al libro, (9) Lo Jaeger (Arist., p. 322) ha avanzata
l’ipotesi, abbastanza persuasiva, che la questione 14° sia stata aggiunta
più tardi, dopo l’inserzione dei libri VII-IX: e888 MANCA, infatti, nei
capitoli corrispondenti dell'XI. Si può pensare che anche la questione 16
sia stata rielaborata e posta in fine a questo scopo. La Parte prima
espone concetti generali su l’oggetto della filosofia e sul suo rapporto
alle altre scienze; e, propriamente, nel cap. 1 si accenna
all’universalità e necessità dell'oggetto della metafisica in opposizione
alla particolarità e contingenza di quello delle altre scienze in
generale; nel 2, la metafisica (non ostante alcune riprese dell'argomento
del cap. prec.) si presenta piuttosto come «filosofia nel senso
platonico più generale, e la questione del rapporto non è più ‘alle
scienze, ma alla dialettica. Meglio: alle specificazioni o applicazioni della
dialettica, nella Sofistica (eristica), nella Dialettica propriamente
detta-(esercitazione logica), nell’Apodittica. Questa tripartizione
corrisponde a quella da noi notata (a 2, 1) dei tre aspetti del pensiero
per A.: soggettivo-verbalistico, logico-discorsivo, logico-oggettivo: tre
aspetti che abbiamo trovato espressi anche nella formulazione del principio di
non-contraddizione, e nella conseguente difesa che ne fa A. nella Parte
seconda. In conchiusione, quanta è la distanza tra la Sofistica e la
Dialettica, tanta e più è tra la Dialettica e l'Apodittica: la distanza, qui, è
misurata dall'amore della verità, e qui la Filosofia sta vicino
all’Apodittica. Se ne allontana, invece, per l'oggetto e per il metodo:
l’oggetto dell'Apodittica è quello della scienza propriamente detta,
sempre empirica in fine; mentre la filosofia studia la realtà in sé e per
sè, nel suo significato e valore assoluto. Il metodo scientifico è,
perciò, dogmatico, quello della filosofia critico: essa soltanto esamina
e discute i principii primi nel senso dei fondamenti stessi di ogni
conoscere e sapere. E si rifà, quindi, al principio primo di quei principii,
che è il pensiero in sè e per sè. È da
notare, tuttavia, che A. mantiene questo concetto dentro l'ambito della
dialettice platonica, per cui i principii dell’apodittica vengon limitati
a certe verità logiche o nozioni comuni del pensiero discorsivo, chiamate
assiomi, e conseguentemente anche il principio primo resta limitato nell’ambito
di essi, come un assioma, per quanto supremo e più saldo. La
difesa di questo principio logico si svolge in tre parti: la prime (cap.
4) mire prevalentemente all'eristica; la seconda (capp. 6-6), ai
dialettici seguaci di Protagora; la terza (capp. 7-8), a confermare,
contro i precedenti avversari, il principio di non-contraddizione mediante
l’altro, implicito in esso, del terzo o mezzo escluso. A quali avversari
A. abbia l'occhio, nella loro precisa determinazione storica, non è sempre
facile stabilire. Oltre gli Eraclitei e i Protagorei, è molto probabile
ch'egli abbia in viste i Megarici ei seguaci di Antistene (v. lib. V. 29, 2): è
il gruppo stesso contro il quale è diretto il Teeteto di Platone, ma
allargato e fatto più petulante per pretese di ragioni logiche. La
prima parte della difese ha carattere negativo (la seconda, carattere
positivo), e, trattando con gente che fa questione meramente discorsiva,
non rifugge dall'uso del metodo sofistico (così come negli Elenchi
Sofistici). Quel che più importa è di costringere l'avversario & der
un significato preciso alle parole ch'egli adopera (cfr. Sommario, a).
L'essere e il non-essere (0, uomo e non-uomo) sono presi come casi
estremi: se non si riesce a fargli distinguere questi, non c'è da sperar
più nulla. Un secondo ordine di considerazioni riguarda le conseguenze in
rispetto al reale (chè, in fine, non si vuol far questione di parole,
dice A., ma di fatto): non c'è più modo di distinguere la sostanza
dall’accidente, un accidente de un altro, una cosa da un'altra cosa (è,
c). Vien fuori il caos! (A., con la maggiore serietà, dà all’avversario un
fondamento scientifico e avvicina questo caos alla dottrina anassagorea,
o alla propria della potenza indeterminata). Un terzo ordine di
considerazioni riguarda le conseguenze in rispetto al giudizio (d, e): non c’è
più opposizione tra l'affermare e il negare, e costoro o non dicon nulla o
contraddicono se stessi. Ma, poichè neanche questa considerazione può
spaventer l'avversario, che fe proprio di questa contraddizione il suo
principio inespugnabile, A., stanco dell'assedio ($ 32), invoca contro di Jui
il buon senso e la testimonianza del giudizio pratico, onde nella vita
nessuno è scettico, perchè della verità noi abbiamo bisogno per
inoppugnabile necessità. La difesa è ripresa da ccapo determinatamente
ai Protagorei (distinti in seri e non seri, ma questi sono ancora quelli
della parte precedente, e non si aggiunge per essi nulla di nuovo). Anche
questa è divisa in tre ordini di considerazioni, le quali, per maggiore
chiarezza, chiameremo oggettive, soggettive, oggettivo-soggettive. Quelle
oggettive si rifanno alla dottrina eraclitea e le sostituiscono le
concezione che A. he del rapporto dei contrari nel divenire reale (a). In
conchiusione, il divenire presuppone l'essere: l'essere del sostrato e
delle sue forme (non solo intelligibili, me anche sensibili!); e oltre
quest'essere che passa da una forma all'altra, c'è l'essere che non
passa, ma è eternamente lo stesso. Le
considerazioni soggettive prendono in esame il criterio della verità
posto da Protagora nella sensazione (d, c). L'errore dei Protagorei è di
ridurre l'intelligenza alle sensazione, questa o all'immaginazione o
all'impressione corporea (si scopre la tendenza materialistica,
l'affinità alla dottrina democritea, di questa dottrina). Con felice
ardire A. prende l’avversario nel suo stesso principio: l’atto del sentire è
vero, di una verità non contradittoria, se guardato nella sua piena
attualità. Le differenze di quell'atto si spiegeno dal di dentro di esso
stesso, come capacità dell'anima di sentire l'un contrario e l'altro. Ma
A. non ve più in là di quanto gli basta contro i suoi avversari:
quest'atto si determina nell’attualità come la potenza dei contrari nelle
cose, e il suo determinarsi in un modo o nel modo opposto dipende da
circostanze esteriori. Per questo, il pensiero arietotelico trova aperta lo via
a ripassare dalla legge di noncontraddizione a quelle dei contrari (6, 12),
come s'è notato a suo luogo (nota alla fine del. cap. 3). Il terzo ordine di considerazioni
riguerda, più propriamente, il concetto protagoreo della
correlatività, dell’esistenza del soggetto e dell'oggetto nell'atto o
incontro istantaneo che produce il conoscere. In quell’atto soltanto
esiste per Protagora il soggetto e l'oggetto, almeno per noi. Ad A.
sembra che questo sia un vanificare la realtà (5, 26-28; 6, 8-10), la
realtà dell'oggetto e quella del soggetto, le quali esistono come potenze
per se stesse, e sono il sostrato nelle cose e l’anima in noi. Egli ha,
bene, il suo principio dell’atto, ma questo, a differenza di quello
protagoreo, è realtà ch'è insieme esistenza e verità positiva
dell'oggetto e del soggetto, perchè ripete il suo principio primo da
quell’atto puro ch'è la ragion prima di tutto il reale. La parte
terza illustra il principio del terzo escluso mostrando come la negazione
di esso porta alle conseguenze esaminate precedentemente: si confonde tutto, e
non si dà più un significato alle parole; si sopprime il giudizio, il
quale non può non essere o affermativo o negativo; non s'intende più la realtà
nel suo divenire determinato dalla legge (aristotelica)dei contrari. Sono
ancora i tre aspetti della questione, come noi l'abbiamo distinta. E
questi si avvicendano paragrafo per paragrafo nel cap. 7. La dottrina
eraclitea sembra favorire il mezzo nel senso positivo (e-e), e negare più
immediatamente il giudizio nella sua disgiuntività e la stericità del
negativo nel divenire reale; la dottrina anassagorea sembra favorire il terzo
nel senso negativo (né-nè), e l’eristica. Ma poichè la forma positiva e
la negativa si equivalgono in fine, le due dottrine vengon ridotte l’une
all'altra (7, 10; 8, 2). L'ultimo
capitolo ha carattere conchiusivo: il principio di non-contraddizione
esige per ogni giudizio l'affermazione del vero come opposto al falso, sì
che l’uno non s'intenda senza l’altro: nasce nell'opposizione all’altro. Posti
uno fuori dell’altro (come due che si contraddicono), il vero si converte
in falso, il falso in vero, immediatamente, Il giudizio presuppone questa
disgiuntività, ch'è opposizione assoluta del vero al falso, e mediazione
dell'uno per mezzo dell'altro. Ma, come per l'atto del sentire, così qui
per quello del pensare logico A. non dialettizza, poi, in sè l’atto del
giudizio ne’ suoi momenti delle negazione e dell’affermazione: queste,
così come il vero e il falso, pur opposti e uniti nella sintesi che li
media, gli divengono due giudizi corrispondenti a quelli che nella realtà
delle cose sono i contrari. Il capitolo, infatti, termina passando
bruscamente ell’esempio di coloro che o affermano esistere soltanto il
movimento (eraclitismo), o soltanto la quiete (eleatismo): i quali sono
due stati contrari, ognuno in fine esistente positivamente in atto senza
l’altro, anche se idealmente l'uno nasca dall’opposizione all’altro: onde
sono insieme in potenza. Anche realmente, in quafito si guardi ell’essere
nella sua universalità: nell'universo, infatti, il movimento, ch'è anche
cangiamento, digrada sempre più verso la quiete e l'’immutabilità
assoluta. L’e-e di Eraclito, così come il nè-nè anassegoreo risorge, ma
in altro senso, dentro la dottrine aristotelica dei contrari, come un
divenire ch'è intermedio tra i due stati opposti dell'essere, attraverso i
quali passa l’essere svolgendosi nella fenomenia della natura:
quell’essere che, in quanto è, spiega il divenire (Eraclito), mea è anche
al di là del divenire (Parmenide). E come l'essere, così il pensiero nello
svolgimento umano dall’errore alla verità, de una verità a una verità
superiore. La scienza di questo essere ch'è pensiero, perchè il pensiero
è l'essere stesso delle cose, è la filosofia, nel senso ancora della
dialettica platonica, diversa dalla Sofistica per l’amore della verità,
dalla dialettica delle opinioni per la verità, dall’apodittica per la
consapevolezza della verità che possiede e cerca (i). 6. Il lib. V, citato più volte nella Metafisica
e altrove con la frase tà megi toù smocayic, o altra simile, e
ricordato con proprio titolo nel catalogo di Diogene Laerzio, è sembrato
a molti una mescolanza di pensieri troppo disordinati e di vario genere
per poterne ricavare, come pure altri tentarono, un disegno o una qualsiasi
linea di trattazione. Qualcuno lo riguarda quasi un piccolo dizionario dei
termini più usati in filosotla; ma questa non può esser stata, di Sicuro,
l'intenzione dell’autore: chè troppi sono i termini mancanti, e de’ più
importanti; nè l'indole della trattazione è quella di un’esposizione in
tal senso. Pare piuttosto che si tratti di un primo tentativo (questo
libro è probabile che sia stato composto prima degli altri della
Metafisica) di chiarimento di alcuni concetti, dai quali moverà la
riflessione aristotelica per l'ulteriore elaborazione. Gran parte di
essi, infatti, vengon ripresi, chiariti e sistemati in altri libri
e scritti. Guardando bene, si scorge facilmente che un ordine, o
meglio una serie di problemi organizzati intorno a, un nucleo di carattere
strettamente conforme al resto della Metafisica, c'è; ma è un ordine piuttosto
interiore che esterno,
Un’esposizione di questo libro sì trova nel volume di Guino
CaLoczro, I fondamenti della logica aristotelica (Firenze, Le Monnier,
1927), di cui un saggio fu citato in nota al 8 20 del cap. 4. La tesi del
C. è che la logica dianoetica di A., che concepiace l'attività del
pensiero come sdoppiamento predicativo (e quindi come giudizio,
sillogismo ed apodissi) sl riduce interamente alla posizione noetica,
laquale fonda ogni determinazione del contenuto logico su l'atto unitarlo
dell’appercezione intellettuale (noetico). La dimostrazione è condotta
con vigore e penetrazione. La mia esposizione, qui come altrove, vuol
essere più aderente ai termini in cui si presentava ad A. storicamente il
problema. risultante piuttosto dal complesso che dalle parti così
come son disposte in questo libro. I primi capitoli su
principio, causa ed elemento mostrano subito l’interesse predominante per
l'oggetto della scienza prima, e preludiano alla ricerca propria del lib.
I; il cap. su la natura è strettamente legato allo stesso argomento: la
distinzione di materia e forma, e i principii aristotelici intorno al
divenire naturale ci sono già tutti chiaramente. Aggiungerei a questi,
come complementari, i capitoli su ctò per cui e per se stesso, da
qualcosa, genere, perfetto e limite o termine. Un altro gruppo ben
definito di pensieri è intorno.alla sostanza e alle sue determinazioni:
quantità, qualità, disposizione, abito, affezione, privazione, avere, e intorno
al relativo. L'essere già si pone nelle
distinzioni dell’accidentale e dell’essenziale, del vero e del falso, e (per
il processo reale) della potenza e dell’atto. Le indagini su la potenza,
sul necessario e su l’accîdente, sul falso, approfondiscono l’uno o
l’altro aspetto di quelle distinzioni. Meglio ancora si profilano le
distinzioni dialettiche dell'unità, dell’identico, dell’opposto, che
verranno elaborate nel lib. X. Con il concetto di unità stanno quelli di
parte, intero e tutto, e anche il capitolo su mutilato ha relazione con
questi; mentre il capitolo su anteriore e posteriore si lega variamente alle
riflessioni su la natura in sè o in rapporto alla nostra conoscenza. Sono, come si vede, i problemi dei
primi libri della Metafisica, sebbene non ancora distinti e ordinati
come, poniamo, nel lib. III. Onde il raggruppamento da noi fatto non è
rigoroso: nel capitolo, ad es., su ciò per cui e per se stesso ci sono
considerazioni che toccano di più la questione della sostanza e
dell'essenza; e il capitolo su relativo ha pensieri che stanno bene con
quelli delle distinzioni dialettiche. Si può notare, inoltre, in questo
libro, una più rilevante mescolanza del punto di vista naturale e oggettivo con
quello umano e soggettivo: già nel cap. 1 si vedono, per es., al paragrafo
conchiusivo, messi insieme la natura e gli elementi col pensiero e la
deliberazione; così nel cap. 5 per il necessario, nel 28 per i) genere, e
nel capitolo seguente per il falso ($ 3: un «uomo falso ). E spesso anche
altrove. La mescolanza su detta deriva in parte dell'altra, molto
lamentata dai commentatori, del modo comune di parlare messo insieme con
quello filosofico, e, in generale, dal minor rigore (ch’ è spesso anche
minore chiarezza), o nel pensiero o nell'esposizione, predominante in
questo libro in confronto con gli altri della Metafisica.
Niun dubbio che questo libro è stato aggiunto in epoca posteriore: messo
qui forse perchè citato in VI. 2, 1 e in VII. 1, 1. Ma, evidentemente,
esso interrompe la continuità del gruppo che dopo il IV vuole il
VI. Il lib. VI è breve, quasi quanto il II, ma supera questo di
assai per importanza, in sè e in rapporto agli altri libri.
Anch'esso si compone di tre parti, tra le quali non è visibile immediatamente
il legame, se si bada, non al-risultato comune dichiarato, ma alla sostanza di
ognuna di esse. Il risultato comune è che l’oggetto della metafisica è
l'essere in quanto essere, non l’accidentale, o ciò che ha una realtà
soltanto soggettiva: è il vero essere, di cui la realtà è eternamente,
universalmente e necessariamente, tale. Ma, poi, la prima parte svolge,
con punti di mirabile chiarezza, il rapporto tra la metafisica e le altre
scienze, come un problema a s'; la seconda tratta la questione dell’accidente
senza coordinarla a quanto precede o segue; e così la terza, per il vero
e falso. Nè si può dire che A. nelle parte prima non faccia un posto
conveniente anche alle altre scienze; e nella seconda oltre « ciò ch'è
sempre si pone come oggetto di scienza
anche «il per lo più; e nella terza è un accenno che oltre al vero nel
senso soggettivo c'è pure una verità che serve di fondamento a quello, e
non è perciò da relegare fuori della metafisica, insieme all’accidente e quasi
al non-essere. Tuttavia, nel complesso, il movimento principale del pensiero in
questo libro si può dire lineare, e in senso inverso a quello del lib.
IV. Là dal concetto dell’essere in quanto essere si passa ai presupposti
della pensabilità e conoscibilità del reale in generale; qui dal rapporto
tra l'oggetto della « filosofia prima e quello delle altre scienze si
procede eliminando ciò che non ha vera e stabile realtà; e per assicurarne
questi attributi, si arriva persino a identificare il pensiero con
l’accidentale. Cfr. note a IV. 1, 1 e 2, 1 su questo doppio movimento del
pensiero in A. Lo Jaeger (Arist., pp. 209-212) pensa che, mentre
il capitolo 1 rappresenta una ripresa del cap. 1 del IV rielaborato sin da
principio nella forma attuale, come prova il corrispondente cap. 7 del
lib. XI, il cap. 2 e il 4 abbiano, invece, subìto un ritocco che alterò
la fisonomia generale del libro. Confrontando, infatti, i capitoli 2-4
con il corrispondente cap. 8 dell’ XI si trova che in questo mancano i $$
2 e 3 del cap. 2, e che il contenuto del cap. 4 è ivi ridotto alla pura e
semplice esclusione del pensiero soggettivo dall'essere in sè e per sè, ch’è
l'oggetto della metafisica. Si può aggiungere che anche la trattazione
dell’accidente nel cap. 3 mostra l’influsso di pensieri posteriori (cfr.
$ 1 e le citazioni in fine della mia nota al $ 4). Secondo lo Jaeger il
pensiero originario di questo libro (e del gruppo III, IV, VI,
tutt’intero) era schiettamente platonico: la vera realtà è quella
dell’essere divino, immoto e separato, trascendente. A questi libri, i quali, a
cominciare dal I, costituiscono, con le loro ricche indagini intorno
all’oggetto della metafisica, una parte di carattere essenzialmente
introduttivo, doveva seguire oramai la parte costruttiva di carattere
eminentemente teologico. Invece, segue il gruppo VII-IX che ha un
carattere del tutto opposto! Questi libri, infatti, come ora vedremo,
appartengono con ogni probabilità a un periodo posteriore dell’attività
filosofica di A., e si possono considerare come espressione della piena
maturità della sua riflessione critica. In essi non è quasi più nessuna
traccia del precedente suo platonismo. Ora, secondo lo Jaeger,
quando A. decise di introdurre questi libri nel corpus metaphysicum, rielaborò
i capp. 2-4 del VI in modo che si stabilisse un passaggio dai libri
introduttivi I, III, IV, VI (cap. 1) ai libri VII-IX. Al cap. 2 aggiunse
i $3 2-3, affinchè, oltre i modi dell’essere come accidente e come vero,
venissero anticipati quelli delle categorie e della potenzaatto (‘). Il cap. 4,
poi, fu rielaborato in modo da costituire un precedente al cap. 10 del
lib. IX: accanto al principio dianoetico fu accolto quello noetico (*),
non senza un visi Il lib. VII,
infatti, prende per punto di partenza la categoria della sostanza e in questa
approfondisce l'indagine logico-ontologica sino alla fine del lib. VIII.
Ed è notevole che al principio del cap. 1 (del VII) si richiama per i
vari sensi dell'essere nelle categorie al megl toù a0cay®g, anzichè al 8 2 del
cap. 3 del VI: non c’era, dunque, ancora in A. il proposito di unire
questa trattazione a quella dei libri precedenti della Metafisica.
Anche il cap, 10 del lib. IX è
un'aggiunta posteriore, che mal s'intona ai capitoli precedenti del lib.
IX: cfr. nota, ivi. Il principio noetico, dice lo Jaeger, ò l'ultimo
avanzo della platonica intuizione delle idee (in A., le essenze semplict)
rimasto nella metafisica aristotelica. L'osservazione è esatta, se
s'intende quel principio nel senso del cap. 10 del IX. Ma nei libri
VII-I1X c'è anche uno sforzo potente di calare quel principio dentro il
pensiero dianoetico stesso e farne motivo dell’unità del molteplice
nell'oggetto e nella nostra conoscenza di esso. In questo senso, esso è
un principio ben lontano dall’intuizione platonica, puramente intellettuale,
del trascendente. bile turbamento della chiarezza del ragionamento e della
regolarità della costruzione sintattica di questa parte del capitolo (‘).
Le congetture dello Jaeger sono a primo aspetto del tutto
persuasive, e soltanto in un secondo tempo, scoprendosi il loro
fondamento meramente ipotetico, perdono alquanto della loro persuasione.
Intanto, le aggiunte o modificazioni apportate ai capitoli 2 e 4 non
introducono pensieri nuovi per A.: cfr. V. 6, 9-10 e 7, 4-7 (qui l’essere
nel senso delle categorie e quello nel senso della potenza-atto è
parimenti unito a quello nel senso del vero-falso). Sì che aggiunte e
modificazioni si potrebbero spiegare anche fuori dello scopo attribuito
ad A. dallo Jaeger. Poi, quel deciso atteggiamento platonico ch’egli vede
nei libri introduttivi va, a mio avviso, attenuato nel senso dato dianzi
nell'esame sintetico di essi. C'è un concetto fondamentale nel IV e nel
VI, e che, essendo presente già nell’ XI anteriore a questi secondo lo stesso
Jaeger, si può ben sottintendere nel III e anche nel I(*): quello
dell’oggetto della metafisica come l’essere in quanto essere, il quale
basta a bilanciare la tendenza platonica della concezione teologizzante con una
tendenza opposta, in cui vien sorpassato il criterio della distinzione
della « filosofia prima dalle altre scienze su la base della diversità e
dignità del genere de’ loro oggetti. Come, poi, avvenga che A.
passi d’un tratto da un concetto all’altro, sebbene non inconsapevole
della differenza (la quale non era per lui tanto grande da costituire,
come per noi, un’irriducibile opposizione) (?), sì cercò di chiarire
nella nota in fine al cap. 1 del lib. VI. In fine: che A. stesso
adattasse con un mero accomodamento V. JaEGER, Fntst., pp. 29 88. L’essere in quanto essere è ancora il
concetto della causalità come immanenza a uno stesso principio della
quadruplice distinzione colà posta. (9) L'essera in quanto essere è
l'essere che il pensiero scopre nel fondo di tutto ciò ch'esiste (nel
mondo seneibile e in quello intelligibile), in quanto ragione della
realtà e conoscibilità di esso: p. d. v. critico e immanentistico,
dunque, che A. non poteva scambiare con quello dogmatico e trascendente
dello schietto platonismo (dell’essere eterno e immobile). esteriore
una sua precedente trattazione a un intendimento addirittura opposto a
quello ch’essa realmente aveva, è, per lo meno, una congettura che lascia
molto perplessi. 8. Il lib.
VII è de’ più ampi, e prosegue nell'VIII. Il IX, invece, è una
trattazione ben distinta, e tuttavia forma con i due precedenti un sol
gruppo, che qui si esaminerà insieme. Nel VII specialmente, ch'è il più
aspro a interpretare, le singole parti paiono talora seguirsi come serie
d’in@agini che mirano, sì, a uno stesso scopo, ma per vie diverse. Il
Natorp lo ha scisso in due parti, e in ciascuna ha riordinati a modo suo i
capitoli del libro. Il Ross pensa che i capp. 7-9 formassero
originariamente una trattazione separata. Lo Jaeger divide i libri VII-VIII in
tre parti originarie, delle quali le prime due son costituite dai capp.
1-11 e 13-17 del VII, la terza dai capp. 1-5 dell’ VIII; e poichè l’11
par conchiudere la prima parte, e il 13 cominciarne un’altra, il 12
si trova isolato. L’annuncio, infatti, verso la fine dell’11 (cfr. ivi,
nota al $ 11), non può riferirsi al 12 che segue subito dopo, e questo
(pensa lo Jaeger) è una rielaborazione, rimasta incompiuta, del cap. 6
del lib. VIII: i due capitoli sono stati aggiunti dopo, questo come
un’ulteriore illustrazione del precedente cap. 3, quello perchè c’era forse
spazio disponibile nel rotolo (cfr. Entst., pp. 53 ss.). Ma a noi
preme di più individuare il problema intorno al quale gira il pensiero di
questi libri. L'essere in quanto essere è qui la pura essenza, il
ti fiv slva: che vuol essere il principio trascendentale del x65 11° (IV) a fs (XIV) = 18 (Vv) = 4* (XV) >
i4s (VI) cx (manca) (XVI) = (manca) (VII) = Questione Ga
(XVII) = Questione 12% (VIII) >
7 136 (IX 6e.X)= gs Quest'ultima (13%) non è
enunciata a parte nel presente capitolo, ma è pur compresa nella IV (5) e
T1X-X (8). Nella (III) c'è una parte non trattata nella 8*: 86, cioè,
qualora delle sostanzo siano più le scienze, queste sian tutte « filosofie
. Ma essa è risolta insieme alla parte precedente nel lib. IV, capp. :-2,
e nel VI, cap. 1. Anche la (VI) è ripresa in connessione con In (V) nel
lib. IV, cap. 2. E Siriano, infatti, la riduce alla (V), perchè, secondo
lui, le contrarietà dialetticho Appartengono agli «accidenti
essenziali delle sostanze (p. 59, 17
88.) Per lu (XVI), similmente, si
può diro ch'è inclusa, in certo modo, nolla 14* (fin dove la questione
della potenza coincide con quella del movimento: per la differenza v.
lib, IX, cap. 6). Per il rapporto tra i problemi posti in questo libro
quasi come un programma da eseguire in seguito, o gli altri libri della
Metafisica, v. Introduzione. Il
riferimento è al lib. I, come notò già Alessandro, uon al II, che fu
interpolato forse per il suo carattere proemiale. eneri, ovvero alcune si
debbano chiamare filosofie, altre generi, ovVero alcune
altrimenti (‘). E anche questo è necessario investigare: se soltanto
le sostanze sensibili si deve concedere che esistono, ovvero,
oltre esse, anche altre; e se delle sostanze c'è un genere
soltanto, o più, come vogliono quei che pongono le specie Ro. intermedie
tra queste e i sensibili, le entità matematiche. “Questi problemi,
dunque, a nostro avviso, sono necessari a considerare. Poi, se la
speculazione versi intorno alle sostanze soltanto, o anche intorno agli
accidenti essenziali (*) delle sostanze. Anche, il medesimo e il
diverso, il simile e il dissimile, l'identità e la contrarietà, il prima
e il poi, e tutte le altre determinazioni di questa specie, in cui i
dialettici si esercitano con un’indagine che non sorpassa il modo comune
di vedere, di quale scienza formano tutte l’oggetto di studio? E
anche le proprietà di queste stesse determinazioni. E non solo ciò che
sia ciascuna di loro, ma anche se a ogni contrario si opponga un solo contrario
(*). Inoltre, se principii elementari siano i generi, ovvero le
10 parti costitutive in cui ciascun essere si divide ('). Qualora
11 poi siano i generi, è a vedere quali di quelli che si
predi"cano ‘degl’ individui: se i più prossimi, o i generi sommi;
‘voglio dire, se sia principio ed abbia maggiore realtà, dopo quella del
singolare, uomo o essere vivente. Di somma importanza sarà la ricerca,
con adeguata trattazione, se oltre la materia esiste, o no, una causa per
sè; e questa, se sia separata. C) no, una di numero ‘o più.
tr nni Nel lib. VI, cap. 1,
si distinguono le scienze pratiche o poietiche da quelle puramente
teoretiche. ‘2) Che la somma degli angoli di un triangolo sia uguale a
due retti è un accidente essenziale (ovpfefaxòds xad’avté) del triangolo;
che questo ala grande LI piccolo, mM un colore o di un altro, è
uu_accidonte secondario, ‘ (8) Le coppie qui enunciate di contrari
vengon ridotte a quella dell'uno e del molteplice nel lib. IV, a 2; è
riprese in esame nel lib, X.
L'uno è un punto di vista «logico, l’altro « reale; ma, poi, iu
quanto _i generi sono reali, l'uno è un punto di vista, come appunto si
dice, « generale . l’altro ‘semplicemente «materiale , Asi
IG a E se c’è qualcosa oltre il « sinolo (‘) (dico sinolo quando la materia è in
qualche modo determinata), o nulla; ovvero, Se per certe cose sì, per
altre no, e quali sono esse. Di più: se i principii sono determinati di
numero o di specie, sia quelli riguardanti i concetti delle cose, e sia
quelli riguardanti il sostrato (”). E se delle cose corruttibili e
delle incorruttibili i principii sono gli stessi o diversi; e se son
tutti incorruttibili, o corruttibili quelli delle cose corruttibili.
Ancora (e qui è il problema più difficile e più degli altri pieno di
dubbi): se l’uno e l’ente, come i Pitagorici e Platone dicevano, non è
altra cosa dalla sostanza degli enti; o se è diversa (*), e però il
sostrato sia qualcosa di diverso, per es. l’amicizia , come dice
Empedocle, o il fuoco, o l’acqua, o l’aria, come dicono altri.
Poi, se i principii sono universali o al modo delle cose singolari; e se
in potenza o in atto. E se si debbano congsiderare anche da un altro punto di
vista che per rispetto al movimento. ; Tutte questioni, queste,
che possono offrire grandì difficoltà. E oltre queste, se i numeri e le
lunghezze e le figure e i punti sono sostanze, o no; e qualora fossero
sostanze, se separate dai sensibili, o in essi esistenti. In tutti
questi problemi, non soltanto è difficile procedere speditamente alla verità,
ma neppure è facile discorrerne i dubbi acconciamente. «Tutto-insieme , il reale nella «totalità e
unità delle sue determinazioni. Ho preferito conservare il termine molto
espressivo di A. Si potrebbe, sì, tradurre «concreto , ma questo ha un
significato troppo ristretto alla sua opposizione all’« astratto . (8)
Principii logico-formali e principii materiali. L'enunciazione è
generica. ma è ovvio che A. ha in vista, qui e altrove, le concezioni più
determinate che di questi principii avevano avuto i filosofi di cui ha
parlato nel lib. I. (9) Cfr. lib. I, cap. 5, 8 22. Cfr. qui 4, 93: chè, altrimenti, è un po'
difficile interidere l’Amicizia empedoclea come sostrato. Cominciamo di
dove si prese le mosse: se appartenga a una sola scienza, o a più,
studiare tutti i generi delle cause. Ora, come mai apparterrebbe ad una
sola scienza di conoscere principii che non sono contrari? E poi, tra gli
enti ce ne sono molti, ai quali non tutti i principii convengono
('). Infatti, come potrebbero il principio del movimento e la natura del
bene riguardare gli esseri immobili, se tutto quel che è buono per sè e
per propria natura, è fine, e però causa, sì che per cagion sua le altre
cose e si generano ed esistono? Il fine e lo scopo sono termine di
qualche azione, c le azioni sono tutte con movimento; laonde negli esseri
immobili non può darsi questo principio del movimento; nè quello di
un bene per sè. Appunto per ciò nelle matematiche non si dimostra nulla
mediante questa causa, nè c’è nessuna dimostrazione finchè s’adduce che così è
meglio o peggio: anzi addirittura nessuno fa menzione di simili cose. Tanto che
alcuni Sofisti, per es. Aristippo , le coprivano di disprezzo,
perchè, dicevano, mentre nelle altre arti, anche volgari, come
quella del falegname e del calzolaio, di ogni cosa si discorre in ragione
del meglio o del peggio, nelle matematiche invece nessuno fa parola del bene e
del male. D'altra parte, se sono parecchie le scienze delle cause
e diverse quelle di principii diversi: quale di esse si
dovrà (Questione 18) Ossia: a) ogni
scienza è di contrari (vero-falso, bene-. male, sano-malato, ecc.); ma le
quattro specie di causalità non costituiscono con-' trarietà (i
contrari, propriamente, per A., son quelli che implicano un sostfato che
li comprende entranbi), La materia, ad es., non è un contrario della
forma (efr. XII, 10, 6). ) I generi delle cose sono, per A., diversi, e
però di essi non e’ è un’unica scienza (il genere della fisica è diverso
da quello della matematica). E tuttavia in tutti si può considerare, come fa la
metafisica, l'essere semplicemente, in quanto essere. Questo solo è un
oggetto universale assolutamente. Ma, non essendo ancora stata spiegata questa
universalità, vien sottinteso un conc etto affine: che i
generi di causalità studiati da quell’unica scienza dovrebbero valere per ogni
essere. Aristippo seguì Protagora
nella dottrina della conoscenza. Molti dei socratici minori proseguono ancora
il movimento dei Sofisti. dire che è quella di cui noi andiamo in cerca? e
chi, tra coloro che le posseggono, si dovrà dire che conosce meglio
l'oggetto delle nostre ricerche? Poichè può ben avvenire che nella
considerazione di una stessa cosa trovino luogo tutti i modi della
causalità: per una casa, ad es., l’arte e l’architetto sono principio del
movimento, l’utilità è lo scopo, la terra e le pietre sono la materia, la
nozione è la forma ('). Ora, stando a quanto fu da noi precedentemente
determinato (?) intorno a quale tra le scienze si dovesse chiamare
sapienza, si avrebbe ragione di chiamar tale ciascuna di quelle (*).
Infatti, in quanto è principalissima e la più alta signora delle
altre scienze, le quali, quasi serve sue, non hanno diritto neppure di far
obiezioni, tale è quella del fine e del bene (chè per questo si fa tutto
il resto). Invece, in quanto fu stabilito che fosse la scienza delle
cause prime e di ciò che è massimamente conoscibile, tale sarà quella
della sostanza (*). Poichè, quando una stessa cosa è nota in molteplici
modi, noi diciamo che ne sa più chi la conosce per quello che è,
piuttosto che per quello che non è; e di quelli stessi che ne conoscono
l’essere, diciamo che uno ne sa più di un altro, e più di tutti chi sa
l’essenza, non chi ne sa la quantità o la qualità (*), o quel che naturalmente
può fare o patire. E come nelle altre cose, così anche in quelle di cui c’è
dimostrazione, allora noi reputiamo di sapere, quando conosciamo l’essenza. Per
es.: che cosa è ridurre a quadrato? La scoperta d’una media (°). E
similmente negli altri casi.
Traduco elBos con « forma quando la specie è contrapposta alla materia.
Nel lib. I. 2. Ciascuna di quelle scienze che riguardano una
delle quattro cause. Sostanza è
la categoria principale dell'essere, l'essenza concreta (non fuori della
materia). Paiono, così, ricordate qui soltanto tre delle quattro specie
di cause, perché la materia, osservano giustamente i commentatori, non è
oggetto di conoscenza: salvo, si può aggiungere, in quanto è compresa nel
concetto della sostanza. (5) A. dice qui, o spesso, «il quanto ,
«Il quale (nel senso del nostro pluale: «le qualità di una cosa). (6) La media
proporzionale ai lati di un’altra figura. Pare che con «le cose di cui
c'è dimostrazione si vogliano
distinguere i due tipi di conoscenza: l’uno, immediato, l’altro mediato.
Nel qual caso sarebbe meglio tradurre: « E nelle Invece, le generazioni e
le azioni, ed ogni mutazione, ci pare di conoscerle quando ne sappiamo il
principio del movimento. Ma questo è diverso dal fine, anzi opposto. Di
maniecra che parrebbe appartenere ad una scienza diversa lo studio di
ciascuna di queste cause ('). Anche per i principii delle dimostrazioni
c’è da star in dubbio se appartengono a una scienza sola o a più. E
chiamo principii delle dimostrazioni quelle comuni sentenze (°), da
cui tutti muovono a dimostrare, per es., che ogni cosa è necessità
affermarla o negarla, e che è impossibile insieme essere e non essere, e
quante altre proposizioni sono simili a queste. Si chiede se la scienza
di essi e quella dell'essenza è una stessa, o se son diverse; e se
diverse, quale bisugna riconoscere per quella che si cerca qui.
Intanto, che appartengano a una scienza soltanto, non pare ragionevole.
Perchè mai sarebbe proprio, poniamo, della geometria piuttosto che di
qualunque altra scienza intendersi di essi? Se, dunque, spetta del pari a
ciascuna, e d'altronde a tutte quante non può spettare (*), non è più
proprio della scienza che conosce le sostanze, che di qualunque
altra, averne cognizione. altre cose, in quelle di cui c'è
dimostrazione , c considerare, così, come cpesogetico il secondo «at della 1,
19. Ma forse la distinzione non è voluta, e il senso è che l’ossenza ci
fn conoscer le cose meglio dello loro qualità accidentali, così come si
vele anche nella conoscenza propriamente sclentifica di esse. Alesa. inserisce un otx innanzi a &XXmg,
€ il ragionamento, allora, sarebbe: «Ne si pongono scienze diverse per
ognuna delle apecie di causalità, non s! saprà più qualo chiamare
Rapionza; quindi di ciascuna di esso non c’è una scienza diversa . Ma non pare
necessario alterare il testo: A. non pretende In questo libro a una
trattazione rigorosa delle questioni, por tesi e antitesi ben definite;
ma pone innanzi dubbi e pensieri discordanti. Qui,ad es., dice che se la
causa efficiente e la finale sono diverse, anzi opposte (cfr. I. 3, 6), auche
le scienze di esse dovrebbero esser diverse, La questione è ripresa,
sebbene non in questa forma, e risolta in lib, IV. 1-2. (Quertione 2*) xotval Béear, ma «opinioni
comuni ben fondate, generalmente ammesse (cfr. tò EvBofov, il probabile da cui
muovo la dialettica delle opinioni). A. le chiama anche « principii
comuni , « principii apodittici (&gxal Uroberntixal), «assioni
comuni, o semplicemente « assiomi (&Ebpara) o «comuni (tà xotvd), « Quia sic sequeretur quod idem tractaretur
in diversis scientiis, quod esset superfluum. E insieme, come s'avrà mai
una scienza di essi? Quel che sia ciascuno, lo sappiamo sin d’ora: tanto
è vero, che anche le scienze pratiche (') se ne servono come di
principii noti. Ma se ci fosse una scienza che li dimostrasse, hisognerebbe
che avesse per soggetto un qualche genere; e che di quelli alcuni fossero
sue affezioni; altri, assiomi (poichè è impossibile che ci sia
dimostrazione di tutto): infatti, la dimostrazione, di necessità, è da
qualcosa, intorno a qualcosa, e di qualcosa (?); sì che accadrebbe che,
servendosi di assiomi ogni scienza dimostrativa, tutte le cose che si d
imostrano apparterrebbero a un unico genere. Dall’altra parte, se
la scienza dell’essenza è diversa da quella di codesti principii, quale
delle due deve precedere Il
testo dico le altre arti: intendo le scienze non apodittiche, quelle che
nel lib. I. 1, son considerate anche come téyvat. In ogni dimostrazione o scienza apodittica
sono tre cose: seo 5 te Belxvuor sal & Seixvuor xaì E &v (Anal.
Post., I. 10. 76b, 21). Ossia: l'oggetto, il genere di enti, «intorno a
cui versa (per es. il numero, per l’aritmetica); l’assioma, o gli assiomi
« da cui trae forza l’argomentazione (per es., che tutti i numeri derivano
dall'unità; ovvero, che le unità non cambiano comunque si
raggruppino;ecc.); le affezioni o proprietà « di cuì si dimostra o sì mostra che l’osgetto è
investito, e qui propriamente consiste il lavoro scientifico (per es., cho ogni
numero è o dispari o pari; che cambiando posto agli addendi, il totale
non muta; ecc.). Per l’argomentazione complessiva, più chiaro di tutti
il Ross. Se gli assiomi sono dimostrabili, di questi alcuni debbono esser
provati, altri accettati come assiomi non provati (per cul la supposizione
che gli assiomi siano dimostrabili, va corretta in questa: che alcuni di
essi sono dimostrabili per mezzo di altri îndimostrabili). Ora, tutte le
scienze dimostrative usano gli assiomi come loro premesse, e le loro
conchiusioni appartengono allo stesso genore delle premesse (questo non è
detto, ma evidentemente sottinteso). Quindi, se gli assiomi sono
dimostrabili, tutto ciò che si può dimostrare appartiene a un unico genere, e
tutte le scienze diventano un’unica scienza: ch'è per A. una reductio ad
absurdum. Si noti che A. trascura qui due punti: 1. Che c'è una terza
via in cui può esserci una scienza degli assiomi: quella iudicata nel
lib. IV, per cui essi non vengono nè definiti nè dimostrati, ma
raccomandati al senso comune col mostrare le conseguenze assurde a cui
conduce la loro negazione; 2. A. qui non distingue tra i principii propri
e quelli comuni: ogni scienze deve avere principii riguardanti lo stesso genere
di cui trattano le sue conchiusioni, ma essa ha unche principii comuni a tutte
le sclenze, (Questi stanno a quelli come l’essere in generale ai generi
reali delle cose, i quali non possono esser, per A., assorbiti in quello
senza disperdere la distinzione necessaria alle scienze: ne verrebbe fuori
un'unica scienza, quella dell'essere nella sua indistinzione, ch'è un
concutto contro il quale A. combatte ripetutamente). ed è superiore
per natura? Gli assiomi, di certo, sono gli universali supremi e i
principii di tutto. E se non spetta al filosofo, a chi mai altro spetterà
di studiarne il vero e il falso? Poi, per le sostanze, c’è una sola
scienza di tutte in generale, o più? E se non è una sola, di quale sostanza
si deve stabilire che è scienza, questa nostra? Che ce ne sia una
sola di tutte, non pare ragionevole, perchè, allora, ci sarebbe anche una
sola scienza dimostrativa di tutti gli accidenti, una volta che ogni scienza
dimostrativa, versando intorno a un sostrato, ne studia gli accidenti
essenziali movendo dalle opinioni comuni. In quanto, dunque, spetta a una
stessa scienza studiare gli accidenti per sè di uno stesso genere e dalle
stesse opinioni, e poichè sarebbe una
sola la scienza del sostrato, e una sola quella degli assiomi
(siano poi la stessa o diverse),
anche gli accidenti li studieranno o quelle due scienze, o una che
le comprenda entrambe (‘). Ancora, lo studio verserà soltanto intorno
alle sostanze, o anche intorno ai loro accidenti? Voglio dire: se il
solido e le linee e le superfici sono sostanze (*), spetterà a una
stessa scienza conoscere queste cose e insieme gli accidenti di ciascun
genere di cui trattano le dimostrazioni matematiche, ovvero a un’altra? Se a una stessa, ci
sarebbe una scienza dimostrativa anche della sostanza: ma non pare
che (Questione 3*) Nella
questione presente, e in quella che segue, vengon prospettnte tre ipotesi: che
ci sia una scienza unica degli assiomi, una scienza unica delle sostanze,
e una sclenza unica degli accidenti (i tre termini intorno al quali versa
‘ogni scienza apodittica). Viene, naturalmente, lasciato in sospeso non
soltanto l’esistonza di queste tre presunte scienze, ma anche Il loro
rapporto: sé sarebbero, In realtà, tre scienze distinte, due, o una
soltanto. Le ultime parole, èx tovtwy
pla, è dubbio come si debbano tradurre. Il Bonitz (a q. 1.) interpreta: «sive
haoc sclentia suspensa nb illis eademque ab illis diversa, at una tamen
est. Il Ross: «one compounded out of these . Il pensiero sottinteso è
che, per tali ipotesi, tra gli accidenti non sì può far distinzione, quanto
alla scienza che li deve studiare: onde si distruggerebbe, da capo, ogni
criterio di distinzione delle scienze particolari. Per le questioni 3* e
42, v. lib. IV. 2 (per la 9, anche VI. 1). (Questione 4*) Quelle della matematica sono
«sostanze intelligibili . Ma qui (come spesso) « sostanze vale semplicemente « esseri reali , 0 «
realmente esistenti. dell'essenza ci sia dimostrazione('). Se a una
scienza diversa, quale sarà quella che studia gli accidenti che riguardano la
sostanza? Dar conto di ciò è ben difficile. Un’altra questione è questa:
si deve dire che esistono le sole sostanze sensibili, o anche altre oltre
di esse?.e di generi di sostanze ce n’è uno solo; o più, come dicono
quei che pongono le specie e gl’intermedi, di cui, secondo essi,
trattano le matematiche? In qual senso noi diciamo (*) che le specie
sono causa e sostanze per sè, s'è discorso precedentemente, Tra le
difficoltà e gl’inconvenienti molteplici, non è minore degli altri quello
di affermare, da un lato, che ci sono certe nature al di là di questo
mondo; e dall’altro, che esse sono le stesse delle sensibili, tranne che
quelle sono eterne, e queste corruttibili. Essi dicono che esiste l’uomo in sè,
il cavallo in sè, la salute in sè, sì che par non ci sia altra differenza
(*). Essi fanno press’a poco come quelli che van dicendo che ci
sono, sì, gli dei, ma simili agli uomini : come costoro non riescono ad
altro che a far degli uomini eterni, così quelli non fanno delle specie
altro che sensibili eterni. Parimenti, se alcuno oltre la specie e oltre
i sensibili vorrà porre degl’intermedi, si avranno molte difficoltà.
Poichè è chiaro che, come ci saranno delle linee oltre le linee in sè e
le linee sensibili, così per ciascuna cosa degli altri generi: di maniera
che, essendo l’astronomia una scienza pure matematica, ci sarà un cielo
oltre quello sensibile, con un sole e una luna, e così di tutto il resto
che al cielo ap L'essenza del
triangolo non si dimostra. Si dofinisce. SI dimostra, invece, che la
somma degli angoli suoi è di due retti.
(Questione 5%) Noi della scuola di Platone. Cfr. lib. LT. 9, 2.
Non che le Idee fossero
sensibili, ma la natura loro, per quanto univerralizzata e sottratta al flusso
del diveniro, era quella stessa delle cose sensibili : donde quel raddoppiamento
della realtà, di cui si parlò in I. 9, 1. (In A. la forma non riproduce,
immediatamento, il contenuto, ma Jo media in un processo, sì che esso
diventa un momento, quello potenziale, della forma stessa). Nella seconda parte del lib. XII A. espone il
suo concetto della divinità ‘come puro pensiero (Dio e le
Intelligenze motrici: queste sono «sostanze non sensibili od
esistenti separatamente). partiene. Eppure, come crederci? Poichè esso non
si dovrebbe dire che è immobile; d’altronde, non è affatto possibile che si
muova ('). Parimenti per le cose di cui. tratta l'ottica e l’armonica
matematica: è impossibile che di esse ce ne siano altre oltre quelle
sensibili, per gli stessi motivi. Che se gl’intermedi fossero sensibili,
e di essi ci fosse sensazione, è evidente che dovrebbero esserci anche degli
animali intermedi tra quelli in sè e quelli che periscono (?). Ci
sarebbe anche imbarazzo a stabilire di quali enti si danno questi
intermedi intorno (*) ai quali converrebbe cercare queste scienze. Poichè, se
la geometria differisse dalla geodesia soltanto perchè questa è di cose
sensibili e quella no, è evidente che dovrà esserci una scienza
intermedia tra la medicina in sè e la medicina attuale; e come per la
medicina, così per ogni altra scienza. Ma, come questo è possibile? Ci
dovrebbero essere anche delle cose salubri oltre quelle sensibili e ciò
che è salubre in sè. E bada che nonè neppur vero che la geodesia sia
scienza di grandezze sensibili e corruttibili: chè, perendo queste,
anch’essa perirebbe. Come
«cielo, parimenti a quello che si vede, dovrebbe muoversi; ma, essendo
matematico, dovrebbe, così come gli oggetti della geometria, esser immobile.
l'Armonica come scienza di rapporti quantitativi dei suoni, non come
musica, era considerata come matematica anch'essa. Ricorda le speculazioni
pitagoriche, che «nei numeri vedevano le proprietà e ragioni dell'armonia e dell'ordinamento dei cieli: I. 5, 3-5.
«Si (ista) sensibilia sint
intermedia, sc. soni et visibilia, sequetur etiam quod sensus sunt
intermedii. Et cum sensus non sint nisì in animali, sequetur quod etiam
animalia sint intermedia inter species et corruptibilia, quod est omnino
absurdumn : S. Tom. ($ 419). Così anche Aless, (198, -28). Leggo xegt, non ragd: v. giusta osservazione
del BonuHI [Metafisica di A., l'orino, 1854}, p. 139 F. Per il senso,
tieni presente che per A. anche le matematiche, come le scienze fisiche,
riguardano il mondo sensibile; e la differenza è che quelle nstraggono
dalla materia e dallo qualità, per considerare la sola quantità e i
rapporti quantitativi delle cose; le scienze fisiche, invece, pur
astraendo dalle particolarità delle cose singole, considerano la forma o le
forme in quanto sono unite alla materia. I Platonici non partivano da
questo doppio modo di considerare la stessa realtà, matematicamente o
fisicamente; e però A. dice che, come per spiegare il carattere
scientifico delle matematiche ricorrevano a questi enti intermedi tra le idee e
i sensibili, così essi avrebbero dovuto, coerentemente, porre tali
intermedi anche per le altre scienze. D'altra parte, l'astronomia non può
essere scienza di grandezze sensibili e del cielo che si vede: poichè, nè le
linee sensibili sono tali, quali dice il geometra (') (non c’è
nessuna cosa sensibile retta o rotonda a quella maniera: chè, come
già Protagora obiettava ai geometri, il cerchio non tocca la riga in un
punto solo), nè i movimenti e le spirali sono simili a quelli del cielo,
dei quali discorre l’astronomia, nè i punti hanno la stessa natura degli
astri. Ci sono, infine, alcuni (?), i quali dicono che ci sono,
sì, questi intermedi tra le specie e i sensibili, ma pon separati
da questi, anzi ad essi immanenti. A scorrere tutte le conchiusioni assurde che
vengon fuori a costoro, ci vorrebbe un lungo discorso. Contentiamoci di
queste considerazioni: le cose non è ragionevole che stiano così per
quegl’intermedi soltanto, ma anche le specie, evidentemente, dovrebbero
esser immanenti ai sensibili: chè le stesse ragioni sono qui e là.
Aggiungi che ci sarebbero in questo modo, di necessità, due solidi nello
stesso luogo; e che gl’intermedi non potrebbero esser immobili, essendo
dentro ai sensibili che sono in moto. E insomma, a che scopo si
dovrebbero porre queste entità, quando poi si debbono porre dentro ai
sensibili? Si cadrà negli stessi assurdi di cui già si discorse: ci sarà
un cielo oltre al cielo, salvo che non separato, bensì nello stesso
luogo: la qual cosa, se così si può dire, è ancora più impossibile.
t Alessandro (200,
11): « A. disso il geometra invece dell’astronomo : intende, cioè, della
geometria di cui fa uso l'astronomia. Protagora moveva, nella obiezione
che segue, dalla sua dottrina sensistica. Pare ch’egli scrivesse un libro
segì tov pa&nuicov (Diog. Laert., IX, 55). Platonici anch'essi: v. XIII. 1, 7 e 2, 1 ss.
(MA in XIV. 3, 3-4 quest’opinione par attribuita ai Pitagorici). Cfr. Zeller,
II4, 1009-4. Lo Schwegler suppone che si tratti di E1dosso, e cita il
lib. I. 9, 11: ma ivi si dice che Eudosso poneva le Idee immanenti alle
cose. La presente questione è discussa ampiamente nei due ultimi
libri. Intorno a queste cose, dunque, ci sono molti dubbi, come
dobbiamo giudicarne per cogliere la verità. Così pure intorno ai
principii: dobbiamo ritenere che i principii elementari siano i generi, o
piuttosto i componenti primi da cui risulta costituita ciascuna cosa?
Elementi, per es., e principii della voce sembrano essere quelli da cui
tutte le voci son composte per natura: non quel ch'è comune a tutte, l’esser
voce. Anche delle proposizioni geometriche diciamo elementari
quelle le cui dimostrazioni entrano nelle dimostrazioni o di tutte le
proposizioni o della maggior parte ('). E nei corpi, tanto coloro che
dicono che gli elementi di essi sono più, quanto coloro che ne pongono
uno solo, chiamano principii ciò di cui essi si compongono e da cui son
costituiti: Empedocle, per citarne uno, dice che il fuoco l’acqua e i
loro intermedi (*) sono gli elementi da cui risultano le cose
intrinsecamente, e non ne parla già come di generi degli enti. Oltre di
che, se qualcuno vuole indagare la natura di una cosa qualsiasi, di un
letto, per esempio, allora è pago di conoscere, quando sa di che
parti consti e come composte. Per queste ragioni, dunque, non
dovrebbero esser i generi i principii degli enti. Eppure, in
quanto noi conosciamo ciascuna cosa per mezzo delle definizioni, e poichè
principii delle definizioni sono i generi, di necessità anche dei
definiti saranno principii i ge (Questione 6*) Cfr. gli
Elementi di geometria di Euclide (fiorito circa 300); 6 anche prima, al
tempo di A., si chiamavano così . Il termine, tuttavia, è usato da A. per «
proposizioni elementari anche fuori della geometria: v. Index Arist., 702
b, 59 88. Proposizioni: &eyoGppara,
prop. « figure , ma, come notano Asclepio (174, 9) e Bonitz, vale qui
«proposizioni , « teoremi . tà
usetatò tovtov; leggendo, invece, t. petà t.: «e seguenti, Il Ross
osserva in proposito: « Empedocle non sembra aver trattato l’aria e la
terra come intermedi tra il fuoco e l’acqua: anzi egli oppose il fuoco a
tutti gli altri elementi (cfr. lib. I. 4, 9). Ma A., per il quale il
fuoco è caldo e asciutto, l’acqua fredda e umida, può naturalmente aver
trattato l’aria (calda e umida) e la terra (fredda e asciutta) come
fornite di differenze intermedie (sebbene si possa dire altrettanto del
fuoco e dell’acqua in rispetto all'aria e alla terra), neri. E se
acquistare la scienza degli enti è acquistare quella delle specie alle
quali ci riferiamo quando parliamo degli enti, i generi, di certo, sono i
principii delle specie. Sembra che anche alcuni (‘') di coloro che
pongono quali elementi Uno e l’Ente, o il grande e il piccolo, se ne
servano come di generi. D'altronde, dire che i principii sono in
entrambi i modi, non è possibile: perchè il concetto della sostanza è
unico: invece, la definizione per mezzo dei generi sarebbe diversa
da quella che ne dicesse gli elementi costitutivi. Inoltre, se anche
spetta soprattutto ai generi di esser principii, bisogna poi ritenere per
principii i generi sommi, o quelli infimi che si predicano degl’individui
(*)? Anche questo è da discutere. Se, difatti, gli universali sono
sempre a maggior diritto principii, è evidente che tali saranno i generi
che stanno più in su: chè questi si dicono di tutti. Tanti, allora,
saranno i principii degli esseri, quanti i primi generi. Vien di
conseguenza che principii sostanziali sarebbero l’Ente e l’Uno, perchè
essi, più che alcun altro genere, si dicono di tutti gli esseri. Invece,
non è possibile che l’Uno e l’Ente siano generi degli esseri: poichè è
necessario che le differenze di ciascun genere e siano e siano una
ciascuna; ora non può
Pitagorici e Platonici. Le questioni 6° e 72 vengon riprese vel lib.
VII. 10-13, da un altro punto di vista (del rapporto concreto di materia
e forma): se, cioò, gli elementi materiali entrino nella detinizione di
una cosa, e se gli universali (generic! o specifici) costituiscano la sostanza.
(Questione 7%)Si bndi che con tà
Aropa A, designa tanto « gl'individui , le cose singolari; quanto «le specie
indivisibili , le specie propr. dette, in quanto « generi prossimi
all'individuo . Un terzo significato è quello puramente
fisico-matematico, riguardante ad es. l'atomo propr. detto o il punto. V.
Znder Arist. Prescindendo da questo terzo, puramente materiale, si
potrebbe dire che il primo è piuttosto logico-reale; il secondo
reale-logico: nel senso del determinarsi tlel pensiero, nel giudizio,
come pensamento dell'individuo concreto, ovvero come sua
universalizzazione. Per A., infatti, il processo del pensiero deve
corrispondere a quello del reale. Vi corrisponde, in effetto? Si sa che
A. non riesco nd assorbire interamente la materia nel processo accennato,
sì ch’essa resta come un « caput mortuum , che fa ostacolo alla piena
intelligibilità delle cose. Di qui la verata quasestio del « principium
individuationis , e le controversie medievali su la realtà dell'universale,
dei generi e delle specie. c. L}BRO TERZO 79
concedersi che delle proprie differenze si predichino o le specie
‘del genere o il genere senza le sue specie: così che, se l’Uno e l'Ente
fossero generi, nessuna differenza dovrebbe essere nè ente nè una. E se
d’altra parte non sono generi, non saranno neppur principii, una volta
che principii sono i generi (*). Di più, anche ciò che tramezza
fra i sommi e gl’infimi generi, preso insieme con le differenze,
formerebbe una serie di generi, fino al punto che è possibile dividere
(*): ora, per Più breve e chiara In nota del RoLFES
(A.' Metaphysil, 2 ediz. 1931, presso il Meiner di Lipsia) a q. l.: «
Prendinmo un esempio, Il genere nnimale sl divide in duo specie: uomo e
bruto. La differenza specifica è ragionevole e irragionevole. Ora, io non
posso dire: il ragionevole è uomo: perchè ragionevole ha un’'estensione
maggiore di uomo. Ma neppure: il ragionevolo è animale: perchò il
concetto di ragionevole non ha che vedere con quello di animale. Invece,
io posso e debbo dire: Il ragionevole è ente, è uno. Quindi ente e uno
non possono esser un genere, al quale ragionevole è irragionevole si
riferiscano come difl'erenze specifiche . Una dimostrazione dal punto di
vista logico-ustratto sl può avere dai Topic/. VI. 6. 144 a, 36-Db, 11.
Ma più interessante a notare è che qui si considernuo le difforenze specifiche
come forme o concetti che, mentre rendono intelligibile la realtà al
pensiero, la «determinano, ingieme, come un processo di generi-specie, Sì
che non questi generi-specie renli si predicano (si pensano come
predicati determinanti) delle difforenze, ma queste di quelli (nel processo dol
peuslero, onde la razionalità si predica dell'animale come niteriore
determinazione di questo nell’uomo). Le differenze, qui, sono come i concetti
puri che noi moderni distinguiamo da quelli empirici. O, meglio, come le
idee platoniche, fatte tuttavia immanenti nl reale e organizzate nel suo
svolgimento. S' intende, orn, che l’essere e l’unità indifferenziata, non
facendo pensar nulla di determinato, non possano esser principiî, nè nol senso
delle ditforenzo, nè in quello dei goneri-spocie reali. IL tuttavia, se si va
cal criteria «dell’universalità, esst dovrebbero esser principi più che
mai. héxet TtOv dtépov: alcuni
intendono «sino nile specie ultime , altri « sino agli individui : in
entrambi i casi non senza inconvenienti, perchè nel primo caso
l'individuo vien escluso dal processo del reale; nel secondo, vien trattato
come punto finale di una serie di generi. Meglio, in ogni modo, la prima
interprotazione in questo Inogo, e però ad essa ho intonato la traduzione,
nllargando un po’ il testo. Il quale, letteralmente, dice: « Inoltre
nnche gl’intermedi, presi con le differenze, saranno generi sino
agl'indivisibili: ora, alcuni par di sì, altri no . Cfr. la buona nota
del Bonghi a q. I., conforme del rosto nd Alessandro (207, 17) e n
Siriano (33, 8), i quali fauno osservare che, seguendo il metodo platonico
dotla divisione contradittorin, i concetti negativi (auimali-senza piedi) e
quelli indicanti qualità accidentali (animali con i piedi) non fondano
generi reali. lL’argomentazione, in questo modo, sembrerebbe «diretta contro il
metodo platonico della divisione. Ma, in realtà, il pensiero prevalente è che,
piuttosto che porre l’Uno è l'Ente come principio, si dovrebbero porre
infiniti principii, se priucipii sono i generi, e generi son tutti quelli
superiori all'individuo. Questo pensiero, a sua 80 METAFISICA
alcune divisioni partebbe doversi concedere, per altre no.
Aggiurigi che le differenze sarebbero principii ancora più che non i
generi: ma, se anch’esse sono principii, i principii diventano, per così dire,
infiniti, soprattutto se uno ponga per principio il primo genere (').
D’altra parte, si ponga pure che l’Uno ha maggiormente carattere
di principio. Ma l’Uno è indivisibile, e ogni indivisibile è tale 0 secondo la
quantità o secondo la specie: quello secondo specie è anteriore; ora i
generi sono divisibili in specie; dunque maggiormente uno dovrebbe essere
l’ultimo predicato: di fatto l’ «uomo non è genere degli uomini singoli
(?). Di più, nelle cose in cui c’è priorità e posteriorità, non è
possibile che quel che han di comune sia qualcosa fuori di esse. Per es.,
se tra i numeri vien prima la dualità, non può esserci un numero oltre la
specie dei numeri. E similmente, non si dà figura oltre le specie delle figure.
E se per queste cose, di cui par ci siano generi più che mai, non
ci son generi fuori delle specie, tanto meno per le altre: nelle
volta, non sembra diretto immediatamente alla questione se
principii son piuttosto i generi sommi o gl’infimi. Il pensiero nascosto
sembra, invece, che i generi non sono affatto principii. Il primo genere è l’essere (o l’ Uno), che,
per A., non è genero (in «rerum natura ci 6ono i generi, in cui si divide
l'unità astratta dell’essere, come di un mero xovw6v). Per il senso,
meglio di tutti, mi pare, S. Tom. (8 485): «Si prima genera sunt
principia, quia sunt principia cognitionis epecierum, multo magis
differentiae sunt principia formalia specierum. Forma autem et actus est
maxime priocipium cognoscendi. Sed differentias esse principia rerum est
inconveniens: quia, secundum hoc, erunt quasi infinita principia. Sunt,
enim, ut ita dicatur, infinitae rerum differentiae, non quidem infinitae
secundum rerum naturam, sed quoad nos. Et quod sint infinitae patet
dupliciter, uno modo si quis consideret multitudinem ipsarum differentiarum
secundum se, alio modo si quis accipiat primum genus quasi primum
principium. Manifestum, enim, est quod sub eo continentur innumerabiles
differentiae . i (3: L'uomo, specie ultima, non è ulteriormente
divisibile, perchè i singoli momini (criterio quantitativo) non
rappresentano una divisione de! concetto. L'anteriorità del criterio
qualitativo, qui, è superiorità dal punto di vista concettuale. Il che
non toglie che altrove A., contro l’unità meramente generica del
concetto, non faccia valere come superiore all’Ev tò elber l'Ev td
dortuò, in quanto sintesi del qualitativo e del quantitativo,
nell'individuo che realizza la specie. Cfr. lib. V. 6, 15; e VII. 6. (In
Dio, ch'è puro atto di pensiero, la coincidenza dei due punti di vista,
dell'essenza e dell’esistenza, è perfetta). V. note segg. a 4, 16, ed a 6,
1-5. indivisibili specie, poi, non c’è «questo vien prima e «questo vien dopo . Anche: dovunque c'è un
«questo è meglio e «questo è peggio , il meglio ha sempre la priorità:
così che neanche di queste cose ci sarà un genere (‘). Per queste
ragioni, dunque, pare che le specie che si predicano degli individui
siano principii a maggior diritto che non i generi. Eppure, da capo, non
è facile dire come si debbano ammettere queste per principii. Il principio
e la causa bisogna che siano al di là delle cose di cui son principii, e
ne possano star separati (*). Ora, una simil cosa al di là del singolare,
perchè mai uno la penserebbe, se non perchè si predica in universale e di
tutti? Ma, se per questo, i più universali più si debbono reputare
principii: di maniera che sarebbero principii i primi generi. Passo controverso: cfr. Zeller, pp. 568 ss.
del vol. cit. (Platone) e commentatori posteriori che in parte concordano, in
parte discordano da lui. Rifacendomi alla concezione intera di A., intendo
così: dove c'è un processo di svolgimento, il principio appare in tutta
la sua evidenza nell’ultimo termine, o in ogni punto del processo dove
esso mette capo a una realtà «determinata. Il genere, che è un comune
astratto o un indeterminato, non può valere, quindi, come principio. Si
prenda, ad es., la serie dei numeri o delle figure geometriche,
pensandola come sviluppo concettuale: numero e figura che non siano un
determinato numero o figura sono astratti. E il numero e In figura che vengon
dopo, in quanto implicano il numoro o la figura precedente, rivelano
ancor meglio il concetto (îl tre meglio del due, il quadrato meglio del
triangolo). E nei numeri e nelle figure il processo dei generi è
infinito? Che se consideriamo le altre cose, dove pare lo svolgimento non
aver luogo (le specie indivisibili), perchè di generi diversi (uomo,
albero, ecc.), o coordinati in uno stesso genere (uomo, bruto, ecc.),
tanto più per esse è chiaro che il genere non esiste fuori delle specie
concrete. Che se anche in queste si vuo! guardare al processo
teleologico, come svolgimento in perfezione dell’essere (il bene), e si
dirà che il bruto vale più dell’albero, l’uomo più del bruto (il meglio o
il peggio), varrà anche per esse ‘la considerazione precedente. Cfr. Eth. Eud.,
I. 8. 1318 a, 2: «In tutte quelle cose in cui ha luogo il prima e il
dopo, non esiste qualcosa di comune oltre di esse, e che sia da esse
separabile. Infatti, se esistesse, sarebbe qualcosa di anteriore al primo
termine: e sarebbe anteriore, il comune e separabile, per questo, che, tolto
esso, verrebbe tolto il primo termine. Per es.: se l'esser doppio è il
primo termine dei molteplici, non può darsi che esista separatamente
l'essere molteplice, che è ciò che di essi si predica in comune: poichè
sarebbe, allora, prima del doppio. E così dovrebbe accadere, se il comune
gi vuol porre come idea, ovvero se del comune si vuol far qualcosa di
separato , Con la interpretazione proposta circa le «specie
indivisibili si evita la contraddizione
che il Ross rimprovera ad A. di ammettere un universale ragù calura.
Come il Motore Immoto e le
Intelligenze motrici di A. Una questione affine a queste ('), la più difficile
di tutte e pure la più necessaria a meditare, è quella di cui è
venuto il momento ora di ragionare. Se non c’è niente fuori dei
singoli esseri, e questi sono infiniti, come mai di esseri infiniti si
può acquistare scienza? Di fatto, intanto conosciamo ogni cosa, in quanto
c’è qualcosa di unico e identico, in quanto c’è qualcosa d’universale.
Ma, allora, se ciò è necessario, e se bisogna che ci sia qualcosa oltre gli
esseri singoli, bisognerà che i generi, o gli ultimi o i primi, siano
fuori dei singoli: il che s’è questionato dianzi che è impossibile. Di
più, dato che esista qualcosa oltre il sinolo, quando qualcosa vien
predicato della materia (*°), si domanda
se, dato che esista, esso debba esser fuori di tutte le cose, o di
alcune sì e di alcune no, o di nessuna. Che se non ci fosse niente fuori
dei singolari, niente sarebbe intelligibile, ma sarebbe meramente sensibile
ogni cosa e non ci sarebbe scienza di nulla: a meno che uno non
dica che scienza è la sensazione (*). E neanche ci sarà nulla di
eterno e immobile: poichè le cose sensibili tutte s! corrompono e sono in
movimento (‘). Ma, allora, se niente c’è di eterno, neppure è possibile
che ciì sia il divenire, perchè quel che diviene ha da essere qualcosa, e
così anche quel da cui viene, e l’ultimo di questi termini più non deve
essere generato: chè una fermata ci vuole, ed è impossibile che il
divenire venga dal non-essere. Così, essendoci generazione e (Questione 8*) Ripresa, infatti, in lib, VII.
93. 7-9. 17; VIIL A. 6. La forma
sostanziale, l’anima, ad es., la quale, appunto, è principio determinante, o
categorico, del corpo vivente.
Così Protagora nel Teeteto. Qui la questione s'incontra con la 5*, la
quale, tuttavia, fu trattata piuttosto storicamente e criticgmente, che
in via teoretica e . costruttiva. I cieli sono sensibili, ma ‘eterni, sebbene
in movimento. A., tuttavia, qui parla degl'individui soggetti al processo
di generazione-corruzione, (da | e. movimento,
c'è di necessità anche’ un limite; poichè nè c’è movimento che non abbia
fine, ma ognuno ha un termine ('); nè è possibile che divenga quel che
non perviene mai ad essere: di necessità, tosto che il suo divenire si
compie, ogni cosa, divenuta, è. E se la materia deve esistere, appunto
perchè non soggetta al divenire, sarà molto più ancora ragionevole che ci debba
essere la sostanza, che è ciò che la materia diviene. Altrimenti, se nè
quella nè questa ci fossero, non ci sarebbe proprio niente del tutto.
Questo non è ammissibile; deve, dunque, esistere qualcosa oltre il sinolo:
la forma e la specie. Ma, di nuovo, se si ammetterà. questo,
sorgerà il dubbio per quali cose si debba ammettere, e per quali no. Di
tutte è evidente che non si può: di certo, non ammetteremo che ci
sia una qualche casa (*) fuori delle cose particolari. Inoltre, la
sostanza sarà unica per tutti: ad es. per tutti gli uomini? È assurdo:
chè gli esseri di cui la sostanza è unica per tutti, sono una cosa sola.
Diremo, invece, che sono molti e differenti? Ma anche questo è assurdo
(*). E intanto, come la materia diviene ciascuna delle cose particolari,
e come il sinolo è materia e forma insieme? Si potrebbe su i
principii sollevare anche questo dubbio. Se la loro unità è specifica,
niente sarà uno numericamente, neppure lo stesso Uno e l'Ente (‘).
In conchiusione, come ha
dimostrato nel lib, II. 3, ci ha da essere per il divenire, nella serie
delle cause, un principio materiale, da cui vengono le cose; un termine
finale (ch'è anche principio motore), e una causa formale (per cui ciò
che diviene diviene qualcosa). La
casa è un prodotto artificiale, non naturale, onde la sua forma non è
organizzata nel sistema delle specie dell'essere. Non c’è, quindi, la
casa-specie, come forma pura che si svolga attraverso le case
particolari. Nè un'unica forma
sostanziale, nè una molteplicità di forme sostanziali, ma un'unica forma
che, diversamente sostanziandosi con la materia, produce la molteplicità
degl’individui. In questo senso soltanto par doversi concedere l’esistenza di
un principio puramente formale oltre la materia e il sinolo, per la
realtà e intelligibilità delle cose della natura. (Questione 9£) Principii della stessa specie
possono esser meramente simili. non esser forme di un unico
principio. E come potrà esserci il sapere, se non ci sarà qualcosa
15 di unico che si predica di tutti? Invece, se la loro unità è
numerica, ciascuno dei principii 16 sarà uno e identico; e non, come
nelle cose sensibili, sempre diverso, secondo la diversità delle cose
('). Ad es.: se questa sillaba è tale perchè ha una determinata qualità,
anche i suoi principii, o elemen ti, sono da considerare
specificamente gli stessi: ma, se li ripeto, non son più gli stessi
quanto al numero. Se, dunque, non è così, ma l’unità dei principii dei
reali è soltanto numerica, non esisterà nient'altro fuori degli elementi:
infatti, dire «uno di numero e dir «singolare
1000 a è lo stesso. Noi diciamo, appunto, singolo quel che è
uno numericamente, universale quel che riguarda tutti. Sarebbe come
se gli elementi fonici delle parole fossero determinati quanto al numero:
necessariamente, l’alfabeto non potrebbe contenere un numero di lettere
maggiore di quegli elementi: e non ce ne sarebbero due, nè più, della
stessa specie. Di non minore importanza delle altre è una questione
17 trascurata dai moderni non meno che dagli antichi: se i
principii delle cose corruttibili (*) e delle incorruttibili siano gli
stessi, o diversi. Se sono g li stessi, come accade che le 18 Un principio unico senza differenze non può
spiegare la diversità delle cose. Separando, per la discussione, nel
concetto dell’unità, il lato fomnale dal materiale, questo assume un
significato aritmetico, semplicemente quantitativo, con esclusione del
qualitativo 0 specifico; quello, a sua volta, acquista il senso di
un'universalità astratta, indifferente al contenuto. (Il rapporto dei due punti
di vista nel giudizio concreto è dato da quello del soggetto individuale
al predicato universale: sì che s'intende come ognuno dei due può giustamente
aver pretesa di superiorità su l’altro). Le lettere dell’alfabeto,
le sillabe, ecc. (noì diremmo le parole) son sempre diverse nelle parole
(e queste nel discorso), pur essendo numericamente e specificamente le stesse
(è pur sempre quel certo significato che si svolge nella diversità della
parola). Se dovessero esser le stesse soltanto numericamente, sarebbero
come tessere che, per quanto diversamente configurabili, resterebbero
identiche: così erano gli elementi (terra, acqua, ecc.) immaginati come
dati, una volta per sempre, per la costruzione del mondo. Questo, non
ostante le apparenze, sarebbe immobile, senza generazione nè svolgimento.
Così il linguaggio sì ridurrebbe a parole, la parola a lettere
alfabetiche corrispondenti al numero degli elementi fonici di essa. La
questione è ripresa, ma in polemica contro le Idee, nel lib. XIII. 10.
(Questione 104) Corruttibili e
incorruttibili: noi diremmo transitorie ed eterne. une siano
corruttibili e le altre incorruttibili, e per quale motivo? Quei
del tempo di Esiodo, e tutti quanti teologizzarono, pensarono soltanto a
dir cose conformi alle loro credenze, e delle difficoltà che travagliano
noi non si curarono. Essi dei principii facevano Dei e dagli Dei facevano
venir tutto, e dicevano che gli esseri i quali non hanno gustato il
nettare e l'ambrosia nascono mortali. Certamente, parlavano così
sapendo, essi, quel che dicevano. Ma le ragioni che apportano, sorpassano la
nostra intelligenza. Poichè, se è per cagion del piacere che quegli
esseri l’assaggiano, non è il nettare o l'ambrosia la causa del loro
essere; e se fosse la causa del loro essere, come sarebbero eterni avendo
bisogno di nutrimento? Ma non vale la pena di fermarsi a indagare
intorno a queste escogitazioni mitologiche. Bisogna apprendere da quelli che
parlano dimostrando, e chieder loro come mai degli enti che vengon dagli
stessi principii, alcuni sono eterni per natura, e altri periscono. Non
dicendo costoro la ragione di questo fatto, e non sembrando neppur ragionevole
che stia così, si potrebbe conchiudere che non sono gli stessi i
principii degli enti, nè le loro cause. A Empedocle, del quale si
potrebbe pensare che più degli altri sia d’accordo con se stesso, anche a
lui è accaduto lo stesso. Egli pone, è vero, un principio causa della
corruzione, la discordia; ma parrebbe che questa fosse causa non più
della corruzione che della generazione d’ogni cosa, ad eccezione dell’
Uno ('), perchè le altre cose tutte vengono da essa, tranne Dio. Dice,
infatti: Dei quali sono tutti gli esseri, quanti ce ne furono,
e quanti ce ne saranno di nuovo; {quanti ce ne sono, e le piante
germogliarono, e gli uomini e le donne, e le belve e gli uccelli e i
pesci che nutre l'onda, e i numi longevi. E anche senza
questi versi, è evidente: chè, se non ci fosse la discordia nelle cose,
queste sarebbero tutte una sola, L' Uno, Dio, è lo
Sfero (quando questo era governato dall’Amore soltanto). 1000
b 86 METAFISICA come egli stesso dice: infatti,
quando si trovavano riunite, allora «la Contesa se ne stava all’estremo
confine . D’onde gli avviene anche di fare il felicissimo Dio meno
intelligente degli altri: di fatto, non possedendo la discordia, non
ha cognizione di tutti gli elementi, chè la cognizione è del simile
col simile. Egli dice: terra con terra, acqua con acqua
scorgiamo, con l’etere l’etere divino, e il fuoco distruttore col
fuoco, con l’Amore l'Amore, con la Discordia funesta la Discordia.
Ma, per tornare al nostro discorso, è manifesto che per lui la
discordia bisogna che sia non meno cagione dell’essere che della
corruzione. E neppure l’amicizia è causa soltanto dell'essere: rimenando
tutto all’unità, fa perire ogni altra cosa. Intanto non ci dice niente su
la causa di questa mutazione, ma solo che così è per natura: ma
quando la Discordia fu cresciuta grande nelle membra e sali al comando,
compiendosi il tempo che ad entrambe è prefisso, in alterna
vicenda, da un inviolabile giuramento ('), come se la mutazione fosse
necessaria; ma non ci palesa nessuna cagione di questa necessità. Pur tuttavia
egli è il solo che parli coerentemente, in quanto non fa già degli enti
gli uni corruttibili, e gli altri no; ma tutti corruttibili,
eccetto gli elementi. Invece la questione, di cui qui trattiamo, è
perchè aleuni sono corruttibili ed altri incorruttibili, una volta
che vengono da gli stessi principii. Che, dunque, i principii non
possano esser gli stessi, basti quanto s’è detto. Ma se i
principii son diversi, uno dei dubbi sarà se quelli delle cose
corruttibili siano ineorruttibili, o corruttibili anch’essi (*). Se
corruttibili, è chiaro che anch’essi debbono Per
frammenti Empedoclei, cfr. Diels, op. cit., I, 180 88. (nn. 21, 30, 96,
109). V. anche E. BicnonE, E., pp. 417 88. (9) Così anche il
Lasson (trad. della Met. di A., Jena, 1* ediz. 1907, p. 51).
Letteralmente sarebbe: «uno dei dubbi sarà se essi stessi sono incorruttibili
o necessariamente venire da altri principii, perchè ogni cosa si
corrompe in ciò da cui deriva: onde risulterebbe che ci sono altri
principii anteriori ai principii. Ma questo non è accettabile, sia che ci
si voglia fermare, sia che si proceda all’ infinito (‘). E poi, quando i
principii loro saranno stati distrutti, come possono esserci più i
corruttibili? Se, invece, sono
incorruttibili: perchè mai da alcuni di essi verran fuori gli enti
incorruttibili, mentre da altri, incorruttibili anche essi, verran fuori
enti corruttibili? Non par davvero ragionevole: anzi, o è impossibile, o
c’è bisogno di molte spiegazioni. In fine, nessuno mai ha preso a
dire che i principii degli enti fossero diversi, anzi dicono che son gli
Stessi per tutti. Nella questione, tuttavia, che agitammo dianzi, non
s’addentrano, quasi reputandola di poco conto. La questione più di tutte
difficile a meditare e la più necessaria alla conoscenza della verità, è se
l’Ente e l’Uno sono sostanze degli enti, sì che ciascuno di essi, quello
in quanto ente, questo in quanto uno, non siano predicato di altro;
ovvero se bisogni cercare che cosa sia l’Ente, e che cosa sia l’ Uno, in
quanto un’altra natura sta loro a sostrato. Alcuni la pensano nella prima
maniera, altri nella seconda. Platone e i Pitagorici ritennero che l’
Ente e 1’ Uno non siano null’altro se non quello che è la loro natura, di
essere cioè la sostanza loro l’essenza dell’ Ente, appunto, e dell’ Uno
(?). I corruttibili . Ma mì par chiaro, da quel che
segue, che la questione riguarda 801tanto i principii dello cose corruttibili.
Delle incorruttibili come può sorgere il dubbio? Nò ia questione è
diversa dalla precedente: l’incorruttibilità dì quei privcipii, infatti,
è dimostrata per la medesimezza, laddove la corruttibilità de’ loro
effetti è adotta in prova della loro diversità, Se ci sì ferma, ci son principii anteriori, e
son essi principii, non gli altri. Se si volesse procedere (o regredire)
all'infinito, non ci sarebbero principii addirittura, In entrambi i casi quei
principii supposti corruttibili verrebbero distrutti come principii,
logicamente e, in quanto abbassati a cose corruttibili, anche realmente. La
presente questione si può considerare risolta nel lib. XII (spec. nei
primi capitoli). (Questione 11)
L'essere in sò e per Sè, e così l'Uno, sono sostanza «lelle cose, come
vogliono Pitagorici e Platonici; ovvero la sostanza delle cose consiste
nel sostrato determinato (materia e forma nell’unità del BIinolo), del
quale si possono predicare l’essere e l'uno? I Fisiologi la
pensarono altrimenti. Empedocle, ad es., per dire che cosa è l’Uno
cerca di ridurlo a qualcosa di più facile a sapersi, e parrebbe
che questo fosse per lui l’amicizia: per lo meno, essa è la causa dell’unità di
tutte le cose. Altri dicono il fuoco, altri l’aria: questa è, per essi,
la natura dell’ Uno e dell'Ente, da cui sono e si generano le cose. E del
pari, coloro che pongono più elementi: anch'essi son costretti a dire che
l’Uno e l’Ente è tante cose quanti per l'appunto sono i principii (‘).
Se non si volesse concedere che l’Uno e l’Ente sia una sostanza,
neppure quindi può esser tale nessuno degli altri universali: chè quelli
sono universali a maggior titolo degli altri. Se per ciò non è qualcosa
(?) l’Uno per sè e l’Ente per sè, molto meno si può dire degli altri che
siano qualcosa oltre le cose singolari. In secondo luogo, se l’Uno
non fosse sostanza, è chiaro che neppur il numero sarebbe una natura
separata (*) dalle altre: poichè il numero è fatto di unità, e l’unità è
l’essenza, per l'appunto, d’ogni cosa ch'è una. Ma se l’Uno e
l’Ente sono qualcosa che è in sè e per sè, necessariamente la loro
sostanza è l’Uno e l'Ente, perchè non c’è in essi qualche altro sostrato
di cui essi si predichino universalmente, ma sono essi questo sostrato.
Ma, allora, se l’Ente e l’Uno sono qualcosa in sè e per sè, la
difficoltà grande è come ci potrà essere qualche altra cosa oltre di
essi: in altri termini come gli enti potranno essere più di uno. Poichè
l’altro dall’ente non è: per cui si è costretti a ragionare come
Parmenide (‘), che tutte le cose
I Fisiologi posero per principio, non l' Uno in sò e per sè, ma una
materia primordlale, unica o molteplice, come sostrato del divenire,
Qualcosa di esistente in sè e per
sè: i. e. una sostanza. I. e.,
come prima, una sostanza: ciò che ha un'esistenza indipendente (in sè e
per sò), I Platonici intendono
l'essere come essenza (l'essere intelligibile) dolle cose, e in questo il
loro principio è ben altro da quello parmenideo. Ma essi, dice A.,
debbono pure, come Parmenide, escludere ogni molteplicità dal principio posto
come assolutamente Uno. (Ricorda che, pur riconoscendo l'esistenza del
molteplice, Platone, come si vide nel lib. I. 6, 9, pose questo come
contenuto sono Uno, e questo è l’Ente. Non c’è da star contenti nè in 1001
b un caso nè nell’altro: o che l’Uno non sia sostanza, o che l’Uno
sia qualcosa in sè e per sè, il numero non può essere sostanza. Se l’Uno
non è sostanza, quest’impossibilità s'è dimostrata prima. Se invece è
sostanza, vale per esso la stessa difficoltà che intorno all’Ente: donde
verrà un altro uno oltre l’Uno in sè e per sè? Necessariamente, esso
non potrà esser uno. Ora, tutto ciò che è, o è uno, o molti, dei
quali ciascuno è uno. 39 In secondo luogo, se l’Uno è in sè
indivisibile, stando alla sentenza di Zenone esso sarebbe nulla; poichè,
ciò che o aggiunto o sottratto non fa esser perciò una cosa nè più
grande nè più piccola, non è secondo lui da annoverare tra gli enti; come
se fosse evidente che l’essere sia una grandezza, e, se grandezza, sia perciò
corporeo: chè questo sarebbe ente da ogni lato. Le altre grandezze ('), invece,
aggiunte in un certo modo (*), dice, fanno più grande ciò a cui si
aggiungono, e in un altro, no: per es. una superficie, 40 una linea. Il
punto e l’unità, in nessun caso, mai. Costui è rozzo nelle sue
speculazioni; e poichè qualcosa indivisibile esiste, se ne potrebbe far
la difesa contro di lui anche così: esso è di tal natura che, aggiunto,
non farà più grande ciò 41 a cui si aggiunge, ma, con esso, farà più nel
numero. Rimarrebbe, ciò non ostante, la questione (*): come da un tale
uno, soltanto: laddove il principio formale dell'idea
era l’unità pura). In termini filosofico-religlos!, la dottrina platonica
conduceva ad un misticismo pantelstico (salvo il motivo, teistico, della
trascendenza formale, svolto da A.).
L'Uno, contro il quale Zenone combatte, non è (come giustamente fa
osservare il Ross) il principio parmenideo, ma quello pitagorico, o l'uno
come prinelpio di spiegazione del molteplice fisico (sensibile,
corporeo). Esso era pensato, infatti, come una grandezza indivisibile (cfr.
l'atomo democriteo). E però Zenone accetta questo modo di vedere, e
considera il corpo (il solido, la grandezza a tre dlmensloni) come ente a
maggior ragione delle altre grandezze. Egli può, così, dimostrare che il
mondo e ogni cosa, in quanto risultante da quelle unità elementari,
sarebbero insieme infinitamente grandi e infinitamente piccoli, ossia
contradittorli. Secondo che si
agglungono l’una di seguito all'altra, oppure vengon so0vrapposte; A. non condivide il modo dl vedere
pitagorico-platonico che identifica l'arltmetico col geometrico, e però
trova rozza l’argomentazione di Zenone. o da molti come esso, si avrà la
grandezza? Poichè è come dire che la linea risulti di punti. E se anche
si vuol ammettere quel che dicono alcuni, che il numero provenga dall’Uno in sè
e da qualcos’altro non uno ('), resta sempre a sapersi perchè e
come l’effetto è talora un numero, talora’ una grandezza, una
volta che il non-uno è la disuguaglianza e la sua natura è sempre la
stessa (?). Non si vede nè come da l’Uno più questa, nè come da un numero
più questa, potrebbero venir fuori le grandezze. A queste fa seguito la
questione, se i numeri e i corpi (*) e le superfici e i punti siano da
porre tra le sostanze, o no. Se non sono sostanze, ci sfugge che cosa
sia l’essere, e quali cose siano sostanze. Le affezioni, i movimenti, le
relazioni, gli ordinamenti e rapporti diversi delle cose, non pare
davvero che esprimano la sostanza di nulla: essi vengono tutti riferiti a
un sostrato, e nessuno è un essere concreto. Si prendano pure, come
esprimenti la sostanza meglio di ogni altra cosa, l’acqua e la terra e il
fuoco e l’aria, di cui constano i corpi composti; ma il loro riscaldarsi
o raffreddarsi, e simili altre affezioni, non sono sostanze: solo il
corpo che li riceve, rimane come qualcosa di concreto e come una
sostanza reale. E tuttavia, il corpo è ancor meno sostanza della
superficie, e la superficie della linea, e la linea del ‘Tuttavia dà
ragione a costui quanto all’impossibilità di dedurre l’esteso dall’ inesteso.
Ricorda, infatti, l'imbarazzo di Platone per il concetto di punto: lib,
I. 9, 25. La diade indefinita (il
grande-piccolo). Onde, o è ineste sa, e
dall'unione con l'Uno verranno i numeri, non le grandezze; o è estesa, e
dall'unione con l’Uno verranno le grandezze, non i numeri. Nè, se uno
dicesse che, prima, dall’Uno e dalla diade si genera il numero, poi da questo
con la diade le grandezze, neanche così
resterebbe spiegato il passaggio dall'inesteso all’esteso. La questione
11° è ripresa in VII. 16, 3-4 e X. 2 (oltre gli accenni sparsi nei libri
XIII-XIV). (8) (Questione 12*)I solidi (corpi matematici). unità e
del punto. Infatti, da questi vien determinato il corpo: e se questi
parrebbe che possano esistere senza il 5 corpo, il corpo senza di essi
non può('). Avvenne per ciò che i più antichi filosofi, pur reputando,
conforme all’opinione dei più, che il corporeo fosse la sostanza reale
delle cose, considerarono il resto sue affezioni, così che i
principii dei corpi erano, anche per essi, i principii delle cose.
Ma i filosofi posteriori (*) e più raffinati di quelli reputarono
che principii siano i numeri. 6 Dunque, come s’è detto, se questi
non Sono sostanza, non c’è punto nessuna sostanza, nè alcun essere reale:
chè i loro accidenti non meritano davvero di esser chiamati enti. 7
D’altra parte, se si concede questo, che le linee e i punti sono sostanza
più dei corpi, non vedendo noi di quali corpi possano esser sostanza (di
quelli sensibili non è possibile), 8 non ci sarebbe sostanza nessuna (*).
Inoltre, pare che tutte queste cose siano divisioni del corpo, l’una in
larghezza, 9 l’altra in profondità, e l’altra in lunghezza (*). Aggiungi
che nel solido o c’è del pari ogni sorta di figure, o non ce n'è
nessuna: per cui, se, poniamo, non c’è un Ermete nella pietra, neppure c’è la
metà del cubo nel cubo(°): s’intende Tanto poco si deve ritenere per sostanza ciò
che a unu veduta grossolana pare più corporeo, che anzi gli elementi
primi e i principii generatori del reale si trovano per ultimo con
l’anallsl della riflessione: la superficie come principio generatore del
solido, lu linea della superficie, il punto della linea. Parrebbe che il semplice possa esistere
prima e indipendentemente dal più complesso (v. lib. I. 8, 9 88.), 6 però
esser sostanza n maggior diritto.
I più antichi filosofi: i Fisiologi. I filosofi posteriori: Pitagorici e
Platonici. Cfr. VII. 10, 19: «La
materia intelligibile, quale quella delle matematiche, è nei sensibili,
ma non in quanto sensibili . E già in I. 8, 1 aveva detto che con i
principii matematici non si può dar conto delle proprietà e qualità delle
cose oggetto della Fisica.
Non sostanze, ma divisioni che noi operiamo nei corpi. (5) Come
nota S. Tom. (8 509): «haec in continuo non sunt in actu, nisi solum
quantum ad illa quae terminant continuum, quae manifestum est non esse substantiam
corporis. Aliae vero superficies vel lineae non possunt esse corporis
substantiae, quia non sunt actu in ipso: substantia autem actu est in eo
cuius est substantie . In potenza ci son tutte: così come la figura di
Mercurio è nel blocco di marmo, e la superficie che divide 11 cubo a metà
è nel cubo. In atto ci sono soltanto se le realizziamo: se no, rimangono,
come idee soltanto, nel come figura determinata. E così per le superfici:
se, infatti, ci fosse ogni sorta di superfici, ci sarebbe anche quella
che determina la metà del cubo. Lo stesso ragionamento vale anche
per la linea, per il punto e l’unità. Sì che, se il corpo principalmente
è sostanza, ma queste cose, che pur han diritto di esser sostanza più di esso,
non sono poi per nulla determinate sostanze, ci sfuggirà quel che è il reale, e
quale sia la sostanza degli enti. Altri assurdi vengon fuori
considerando la generazione e la corruzione. Sembra, infatti, che la
sostanza, se prima non era ed ora è, oppure prima era ed ora non è, subisca
queste vicende perchè si genera e si corrompe. Ma i punti e le
linee e le superfici, pur talora essendo e talora no, non possono
nè generarsi nè corrompersi, per la ragione che è nell’atto in cui
i corpi si toccano e si dividono che, in un caso, di quel che viene in
contatto (') si fa unità, nell’altro, quel che vien diviso diventa due: quei
che si compongono, c’erano, ma, essendo stati distrutti nella composizione, non
sono più; quando invece vengono divisi, ci sono, mentre prima non
c’erano. Di sicuro, non si è già diviso in due l’indivisibile punto
(?). Eppure, se si generano e corrompono, ciò avviene da qualcosa.
Press’a poco lo stesso vale, in riguardo al tempo, per l'istante: neppur
di esso si dà generazione e corruzione, e tuttavia sembra che sia sempre
diverso pur non essendo una sostanza. È chiaro che lo stesso vale anche
per i punti, per le linee e per le superfici: perchè il discorso è lo
stesso: tutti sono similmente o limiti o divisioni (*).
pensiero e virtualmente (ricorda Leibniz!) nelle cose. L'« argumentationis
fraus (Bonitz, p. 167), per cui A. estenderebbe la conchiusione «ad eam
figuram quae actu corpus circumsceribit , non mi par che ci sia.
I. e. punti, linee, superfici
(propriamente, superfici, so si compongono 0 dividono due corpi; linee,
se due superfici; punti, se due linee). «Neque enim illud quisque statuitur, ita in
dirimendis corporibus fieri planum vel lineam, ut ipsum punctum
dissecetur: Bonitz (p. 168). A ciò, infatti, ci vorrebbe un passaggio,
dalla potenza all'atto. Laddove l’atto è istantaneo, e nell'istante non
c'è generazione (che implica un processo temporale). V. il passo di S. Ton. cit. dianzi. Degli
enti matematici trattano ampiamente i libri XIII-XIV; ivi è ripresa anche la
questione delle idee, alla quale si ritorna nella 13% (efr. la questione
5* e 9°). Si potrebbe anche in generale far questione, perchè mai
bisogna cercare altre entità oltre le sensibili e le intermedie, 2 e
quali siano: per es., le specie, che noi poniamo. Si può rispondere che
gli enti matematici differiscono bensì per un verso dalle cose di
quaggiù, ma non ne differiscono punto in quanto ce ne sono molti della
stessa specie ('): per cui i principii delle cose non si possono determinare
con il numero; così come l'alfabeto non è determinato dal numero delle
lettere, ma dalla loro specie (a meno che uno non prenda le lettere di
una sillaba o parola attualmente determinata: chè 3 lì anche il loro
numero è determinato). Ma lo stesso vale per gli intermedi: anche-là,
infiniti sono quelli della stessa specie. Così che, se oltre le cose
sensibili e gli enti matematici non ci fossero altri enti, quali sono le
specie secondo alcuni, nè ci
sarebbe una sostanza unica per numero, oltre che per specie (°), nè i principii
degli enti sarebbero tanti, e non più, di numero, ma di specie soltanto.
Che se questo è necessariamente conchiuso, bisogna conchiudere anche che le
specie 4 esistono. E se pure non si spiegano bene i loro
sostenitori, bene è questo quel che vogliono, ed è necessario che
questo essi intendano dire: che delle specie ciascuna è una
sostanza (Questione
18%) Molti (infiniti) triangoli
sensibili, e molti (infiniti) triangoli geometrici (sebbene questi siano
eterni e immobili). Questa molteplicità ha bisogno di un principio di
unificazione, che non può esser altro che ideale (in questo caso, il
concetto stesso dij triangolo). Così, come l'alfabeto è tale per In
«specificità delle lettere in cui i suoni fonici ri determinano, non per
il numero dei suoni che fan capo a esso. Oppure, secondo la variante difesa dlal
Bonitz e dallo Schwegler (e già in Aless.): «ma soltanto di specie . Il
senso, tuttavia, è giusto anche tenendo il testo com'è. Nota che
nell'argomentazione i termini s'inerociano: il molteplice sensibile e
matematico è veduto deutro la specie, ed è perciò « della stessa specie ;
esigere, poi, che anche per questo molteplice ci sia una specie unica,
che ne dia la ragione logica e insieme reale, è esigere un’unità numerica, oltre
che specifica: laddove, se quel molteplice è veduto fuori della specie, questa
rappresenta di esso un’unità specifica, non numerica. determinata, sì che
non si tratta .di determinazioni accidentali dell’essere. D'altra parte,
se noi porremo che le specie esistono ('), e che i principii abbiano
unità per il numero, non per la specie,
s'è detto innanzi (*) a quali conchiusioni inaccettabili si arrivi.
Affine a questa è la questione se gli elementi sono in potenza o in
qualche altro modo (*). Se fossero in qualche altro modo, ci sarebbe
qualcos’altro, anteriore ai principii, poichè la potenza sarebbe
anteriore a una tal causa, non essendo necessario che tutto ciò che è
possibile sia a quel modo (*). Se, invece, gli elementi sono in potenza,
potrebbe non esister nulla attualmente, poichè è possibile anche ciò
che ancora non è. Diviene, infatti, ciò che non è ancora. Invece,
nulla diviene di quel che è impossibile che sia. Queste, dunque, sono le
questioni da discutere intorno ai principii; e anche se siano universali,
o al modo che diciamo dei singolari. Se universali, non saranno sostanze,
perchè nessun termine comune esprime un essere concretamente determinato,
bensì una certa natura dell’essere; invece, la sostanza è un essere
concretamente determinato. Se ciò che si predica in comune (*) fosse un
essere concretamente deter A sè,
come sostanze, enti separati o indipendenti. V. nel Sommario quest. 54, a); quest. 9, b).
L'unità per il numero, soltanto, fa dei principii elementi materiali,
incapaci di dar ragione delle cose. Cfr. S. Tom. (8 518): « Principia
rerum efficientia et moventia sunt quidem determinata nuniero; sed
principia rerum formalia, quorum sunt multa individua unius speciei, non
sunt determinata numero, sed solum specie . (Questione 148) In atto. La questione è a/fne alla
procedente, perchò l’unità numerica, oltre che specifica, è Atto e
individualità; quella soltanto specifica corrisponde alla mera
possibilità, L'attuale
(empiricamente inteso) presuppone il possibile (come sua propria
pensabilità, diremmo noi), non viceversa. Nota che altro è il « possibile ,
altro ciò ch’ è «in potenza
(sebbene di solito indicati con lo stesso termine: tò Buvaréy): in
questo è già il principio del processo determinato del divenire, che si
svolge da una forma già realizzata in una materia; il possibile, invece,
non ha altra determinazione che di non esser contradittorio. La questione
è ripresa e trattata in lib. IX. 1-9. (5) (Questione 15%) xatnyogovpeva, universali astratti. La
questione è implicata già nella minato, e si potesse staccare dai
particolari, Socrate sarebbe molti esseri viventi: cioè, lui stesso,
l'uomo, l’animale: dato che ognuno di questi sia un essere concreto e
qualcosa che sta da solo. Questo, dunque, accade se i principii sono
universali. Se, poi, non sono universali, ma al- modo dei
singolari, non saranno più oggetto di scienza, perchè la scienza in
ogni cosa è dell'universale. Sicchè, se la scienza deve esserci, ci
saranno altri principii anteriori ai principii: quelli che si predicano in
universale. C'è una scienza che studia l'essere in quanto essere
(') e le sue proprietà essenziali. Essa è diversa da ognuna delle
scienze particolari: poichè nessuna delle altre scienze studia in
universale l'essere in quanto essere, re, ma, dopo averne recisa qualche parte,
di questa considera gl: gli accidenti. Così, le matematiche.
Td Bv fi Bv: l’essere, il reale,
in Sè e per sò. Questa è "la definizione fondamentale della
Metafisica, alla quale si riducono le altre due vedute finora: quella del
lib. I, di scienza dei principii e cause prime, e quella del lib. II, di
scienza della verità. Salvo che l’una determina il senso della definizione
fondamentale piuttosto in riguardo alla realtà delle cose, l’altra piuttosto in
riguardo al pensiero che le pensa. Ma, sì può chiedere, i principil e le
cause prime delle cose non le studinno anche le altre scienze, e in primo
logo le fisiche? Qual'è, allora, la differenza tra la Metafisica e le altre
scienze? La questione è trattata più ampiamente nel cap. 1 del lib. VI,
Qui si.ascenna soltanto-che-le-Matafisica considera 1’ essere nella sua
universalità e necessità. Le altre scienze, il infatti, si restringono t)
“considerare un genere di enti (gli unimalt, Te piante, ece.; i ‘’auoni,
i colori, ecc.; i numeri, lo figure reometriche, ecc.), € però son tutte
particolari. Non solo: ma nel genere particolare di cose, che studiano,
non riguardano no alla loro pura essenza, a ciò che sono per una necessità
intima dell'essere stesso, ma considerano le loro qualità e proprietà,
astraendole (quasi recidendole) dalla sostanza ed essenza loro, data nel
concetto e nella definizione. Ne cgnsiderano gli accidenti: le fisiche,
gli accidenti sensibili; le matematiche (che astraggono dal resto per
considerare le sole proprietà quantitative), gli accidenti che possiam
chiamare intelligibili. Invece, l’essere vien studiato dalla Metafisica come
principio da cui necessariamente dipendono gli altri principi, in quanto questi
non son altro che parti o elementi dell’intelligibilità e realtà
dell'essere per se stesso. Ora, volendo noi conoscere i principii e le
cause supreme, è chiaro che li dobbiamo cercare come proprietà di una
natura considerata per se stessa. Se, dunque, coloro che cercavano
gli elementi degli enti ('), cercavano anch'essi questi principii, di necessità
anche gli elementi erano dell’essere non accidentalmente considerato, ma
in quanto essere. Per ciò anche a noi convien prendere le prime cause
dell’essere in quanto essere. CaPiToLO II.
Dell’ente si parla in molti modi (*), ma sempre per un solo rispetto e
determinatamente alla natura di una cosa, non per omonimia semplicemente,
ma nello stesso modo che di I
Fisiologi, i quali facevano anch'essi, inconsapevolmente, della metafisica.
L'essere in quanto oggetto del
pensiero è l'essere che viene affermata nel conoscere e nel sapere:
l'essere delle cose di cui il metafisico indaga le categorie supremo. Le
altre scienze adoperano queste categorie; il metafisico le studia come
puri concetti in cuì si distingue o determina il concetto in sè e per sè
dell'essere. Dell'essere reale, s'intende: di quello ch'è predicato delle
cose. Questo viene quindi distinto in sostanza e accidenti, gli accidenti
in essenziali e non essenziali, e vla dicendo. E di ognuno di questi
aspetti, che il pensiero coglie nelle cose, si chiarisce il significato e
il rapporto che hauno tra loro. Il conoscore e il sapere, inoltre,
procedono ponendo rapporti tra le cose dentro ciascuna delle categorie
sostanziali o accidentali: rapporti, cioè, di identità, di uguaglianza,
di somiglianza, ecc., e de’ loro contrari, Il metafisico studia il significato
e il rapporto anche di queste categorie che potremo chiamare dialettiche,
pur che sai badi che qui A. intende del pensiero che si muove nella realtà
delle cose: non per mera esercitazione. Non basta. Questo pensiero
che peusa le cose e i loro rapporti, già nel conoscere comune; ma molto più
visibilmente in quello scientifico, procede affermando o negando, con
giudizi, ragionamenti, dimostrazioni. Ma affermare o negare, giudicare,
ragionare e dimostrare, è impossibile se non si pongono a fondamento
principii di pensabilità delle cose: ci sono certe verità evidenti, sopprimendo
le quali diventa impossibile pur cominciare, non che a pensare, n
parlare. Parlare non è lo stesso che pensare e ragionare: uno può
parlare per esprimere un sentimento o per comunicarlo ad altri. Ma anche il pensare
discorsivamente può essere riguardato e studiato in sè e per sè, come mero
movimento 0 processo dialettico del pensiero attraverso i concetti e i
loro rapporti. Di questo trattano specialmente i Primi Analitici. Data
questa indipendenza del pensiero in quanto discorso, è possibile abusarne
come fanno i Sofisti. La Metafisica lo sottrae a questo pericolo
soggettivo, perchè essa considera il pensiero in quanto pensa l'essere
reale delle cose; e però spetta ad essa lo studio di quelle verltà ciamo
salubre tutto ciò che riguarda la salute: o perchè la conserva, o perchè
la produce, o perchè indizio di salute, o perchè ci rende capaci di essa.
Così, dicesi «medico ciò 1008 b
che riguarda la medicina: chiamiamo medico chi possiede l’arte della
medicina, e anche ciò che ha natura buona a medicare, oppure quel che è
effetto di essa. E nella stessa maniera di queste si avranno da intendere
altre espressioni. L'ente si dice per l'appunto così, in molti sensi, ma
tutti in riguardo a un solo principio: enti noi diciamo le sostanze,
e anche le affezioni della sostanza, e tutto ciò che alla sostanza
conduce : corruzioni, privazioni, qualità, quel che produce o
genera una sostanza, cose che si riferiscono. alla. sostanza, ovvero sono
o negazioni ( di i qualcuna di ‘queste v della sostanza stessa: per cui
del non-ente diciamo pure che «è non-ente(!). supreme o assiomi, o
principii di pensabilità, che scaturiscono immediatamente dall’intelletto
nell'atto del conoscere e di costruire il sapere. Di questi principii il
fondamentale è quello di non-contraddizione. La Metafisica di
Aristotele, veduta da questo lato, è una scienza della scienza, fin dove,
alineno, questo concetto moderno può essere, senza anacronismo, attribuito a
lui. Manca, naturalmente, il senso dì soggettività in cui si pone questo
concetto dopo Kant, C'è soltanto quel senso di essa che poteva esserci dopo
la Sofistica e in opposizione all’idealismo oggettivo di Platone. Di qui
un primo spunto di criticismo. La Metafisica di A. è più critica che costruttiva.
E poichè la critica è fondamentalmente concettuale, si può definire una
scienza che mira a chiarire, nella molteplicità del reale, il concetto
puro di esso. La dipendenza, in cui il pensiero è ancora dalle cose, dà,
tuttavia, anche a questa definizione un significato lontano da quello che
oggi ci sì potrebbe aspettare: molte volte, più che elaborare i concetti,
A. si limnita ad esporne il significato, o a distinguerne i vari
significati. Dono, più che risolva, spesso, i problemi: mostrandosi,
anche in questo, scolaro di Platone. In questo capitolo il peusiero procede un po'
a sbalzi, e sembra infatti che il testo vada in qualche punto riordinato.
Esso si compone di tre parti: due pongono il concetto che c' è un'unica
scienza dell'essere in quanto essere, sia in riguardo alla sostanza e ai
suoi attributi, sia in riguardo alle opposizioni dialetticheia terza
differenzia questa forma di scienza dalle altre. Riassumiaino brevemente,
per mostrare l’ordine delle idee: I) Ogni scienza ha un suo oggetto (un
certo genere di cose), del quale considera i vari aspetti. Ma questi si posson
ridurre tutti a quello fondamentale della sostanza e de’ suoi attributi.
Questa distinzione riguarda l'essere di ogni cosa: sarà, dunque, oggetto
della scienza che studia l'essere in sè e per sè. La quale sarà unica,
così come resta unica ogni scienza non ostante la varietà delle specie
del genere che studia: il che non impedisce che abbia parti, e saranno,
queste, organizzate in essa, così come lo sono in ogni altra scienza. In quel
modo, dunque, che di tutte le cose salubri c’è 2 una scienza sola, così
anche delle altre. Compito, infatti, di un’unica scienza è lo studio, non
soltanto di quel che si dice per uno stesso rispetto (‘), ma anche di
quel che si dice considerando una stessa natura: chè anche questo, in certo
modo, si dice per uno Stesso rispetto. È dunque chiaro altresì che
3 unica è la scienza che dovrà studiare gli enti tutti in quanto
enti. Ma, dappertutto, scienza è principalmente quella dell'essere che è primo,
e da cui tutto il resto dipende, e per cui di tutte le cose sì parla. Se
dunque questo primo è la sostanza, dovrà il filosofo possedere i
principii e le cause delle sostanze (?). In ogni genere di cose, come
uno è il senso (*), se i sen- 4 sibili appartengono a uno stesso genere,
così è della scienza: la grammatica, ad es., sola, basta alla
considerazione di tutte le voci. Per ciò ad una scienza unica di genere
spetta di studiare quante ci sono specie dell’ente come ente: alle
specie di quella, poi, le specie di questo. Parlar dell'Uno e parlar
dell’ Essere è lo stesso. Le opposizioni dialet‘tiche sono opposizioni
dell'essere, perchè il non-essere in realtà è, non mera negazione, ma
privazione, contrarietà. Ora, l'opposizione unità-molteplicità è opposizione di
contrari, e questi, a lor volta, si riducono sempre all'opposizione
upo-molteplice. E poichè ognuno concede che dei contrari la scienza è
unica, unica sarà la scienza della contrarietà in generale. Questa avrà
significati diversi. che tale scienza dovrà studiare, chiarire e
organizzare logicamente [5-6, 8-11, 15-16). III) E per il primo e per il
secondo rispetto si conchiude che unica è la scienza dell'essere în
quanto essere, la quale studierà l’essere in quanto sostanza e attributi,
e in quanto alle contrarietà o opposizioni dialettiche [12]; vien nggiunto il
concetto di svolgimento e di definizione (19; così mi par si possano
intendere le ultime parole « genere e specie, «tutto e parte: questi
concetti non si riducono, infatti, immediatamente salle opposizioni
precedenti). Questa scienza è diversa da quella sofistica, che guarda
gli accidenti e le «opposizioni, e non li coglie come determinazioni
essenziali dell’essere in se ‘stesso [13-14]. Ma è diversa anche da
quella degli scienziati, perchè, sebbene l'essere nella sua universalità
astratta non sia nulla di reale, pure, considerato come dianzi s'è detto,
è quella realtà che fa roali tutto le cose: intorno a queste versano le
scienze, intorno a quella la Metafisica [17-18]. / xa@” Ev, distinto da reds plav qpuow, l'uno
come poni di vista logico, l’altro reale (e logico insieme), Enti, sostanze: questi plurali vanno intesi
nel senso del singolare. (8) Uno è il senso per i colori, ad es., per i
suoni, ecc. L’organizzazione del
sapere coincide, così, in ogni scienza, con quella dell’essere nelle cose.
L’ente. poi, e l’uno sonola stessa cosa, ed esprimono una medesima
natura,.in quanto s’implicano l’up l'altro così. come principio e causa,
sebbene i loro. concetti, a volerli illustrare, non siano identici (') (e
non fa nulla se noi ora Ii consideriamo tali, che anzi, ci gioverà meglio allo
scopo). Non è, infatti, la stessa cosa « uno-uomo e «un uomo, «ente-uomo e «l’uomo (?)? E che altro è se non una ripetizione
verbale il dire: «l’uomo è, «l’uomo è uno? E se l’uomo nasce e
muore, è chiaro che non per questo esso si separa dal suo essere; e
similmente dicasi anche per la sua unità (*). Per cui è evidente che
l’aggiunta nelle frasi su dette non muta il senso, e che l’uno non è
nulia di diverso dall’ente. La sostanza di ciascun essere è
un’unità,-enon--per-aeeidente, ma pro 6 prio come ogni cosa che sia un essere
determinato. Così che tante saranno le specie dell’uno(‘*), e tante
saranno anche quelle dell’essere; e la scienza che studia l'essenza delle
une é Ia stessa, in fondo,. di. quella che studia }essenza . delle
altre. Voglio dire, ad es., lo studio dell’identità, dell’uguaglianza e delle
altre simili, e delle loro opposte: chè, si può dire, tutti i contrari si
riducono-a questo principio dell’uno 1004 a L'Uno si adopera in sensi più particolari,
esposti in V.6 e X. 1: esprime, soprattutto, l’indivisibilità, la misura,
il principio del numero. Per principio e causa, v, llb, V.162.
Ho accettata nel testo la giusta
modificazione proposta dal Ross. Il greco non ba l'articolo
indeterminato, nò quello determinativo, ch’io ho aggiunti innanzi all'«
uomo del secondo membro dei due incisi.
Questi mirano a porre le due uguaglianze, poi l'uguaglianza loro, in fine
quella dei due termini uno e ente.
Questo periodetto (che il Christ mette tutto tra parentesi, e io ho
così interpretato, perchè mi par giusto intendere la seconda parte, «e
similmente dicasi, ecc., in rapporto a quel che precede, anzichè a quel
che segue, come intendono invece il Bonitz e il Ross) vuole semplicemente
dire che il divenire non muta la questione. Cfr. S. Tom, (552): « Et sicut elictum est quod ens et homo non
separantur in generatione et corruptione, similiter apparet de uno. Nam
cum generatur homo, generatur unus homo; et cum corrumpitur, similiter
corrumpitur. Unde manifestum est quod appositio in Istis ostendit idem;
et per hoc quod additur vel unum vel ens, non intelligitur addi alique
natura supra hominem. Ex quo manifeste apparet quod unum non est
praeter ens: quia quaecumque uni et eidem sunt eademi, sibi invicem sunt
eadem . , Qui specie vale,
evidentemente, nozioni, concetti: chè 1’ Uno e l'Ente non sono generi e
del molteplice (‘). Si vegga in proposito la nostra trattazione: La scelta dei
contrari (?). Ci sono, in conchiusione, tante parti della filosofia,
quante appunto sono le sostanze delle cose, onde, di necessità, ci
deve essere tra esse quella che vien prima e quella che vien dopo. Poichè
l’essere e l’uno si trovano sin da principio divisi in generi (*), e anche le
scienze si partiscono in conseguenza. Il filosofo è come colui che diciamo
matematico: la matematica anch'essa ha parti, e delle scienze matematiche
ce n’è una che vien prima, un’altra viene in secondo luogo, e
ordinatamente le altre. E poichè a una sola scienza appartiene lo studio
degli opposti, e all'uno si oppone il molteplice, apparterrà a una
sola scienza lo studio della negazione e della privazione, perchè in ambedue i
rispetti si considera pur sempre quell’uuo a cui la negazione e Ja
privazione si riferiscono. O infatti noi diciamo semplicemente che esso
non ha luogo, ovvero che non ha luogo in un certo genere di cose: quivi,
dunque, Non è, questa
specificazione, nel testo. Cfr. S. Tom. (561-562): « Et ad hoc
principium, sc. unum, reducuntur omnia contraria fere [si può dire]. Et hoo
addit quia in quibusdam non est ita manifestum. Et tamen hoc esse necesse
est: quia cum in omnibus contrariis alterum habeat privationem inclusam,
oportet fieri reductionem nd privativa prima, inter quae praecipue est
unwn. Et iterum multitudo, quae ex uno cansatur, causa est diversitatis
differentiae et contrarietatis, ut infra dicetur. L'uno è il sostrato in
cui il molteplice è allo stato potenziale, di privazione (positiva), non
di mera negazione (astratta),
‘’ExAZoyd t6v èvavilov sembra il titolo di un'opera di A. perduta
(intorno a essa, v. Fragmenta, ed. Rose, 118-124), L'essere è un xovvév, astratto; iu realtà si
presenta eù@vs, immediatamente, diviso neì generi del reale, oggetti
delle particolari scienze. Qui si tornerebbe alla prima definizione della
Metafisica, anzi al primo significato di essa: ci sono i generi della
sostanza materiale e immateriale, mobile e immobile, sensibile e
intelligibile, ecc. (cfr. XII. 1). Ma generi può esser inteso anche come
equivalente n specie, di dianzi, cloè a concetti sostanziali, 1 quali
possono esser organizzati logicamente, così come le parti della
matematica, nell'esempio che segue, col criterio della semplicità o
complessità maggiore (noi diremmo: astrattezza è concretezza graduale):
aritmetica (11 numero), geometria (la figura), astronomin (il movimento
celeste), armonica (rapporti matematici di suoni), ecc. In questa seconda
veduta viene implicato il concetto di una gradualità logica dell'essere,
che nella prima (molto più frequente in A.) può mancare. Per A. tra i
generi non c'è passaggio. oltre a ciò che è nella negazione, viene
aggiunta all’uno la differenza ('): poichè la negazione di esso indica
soltanto l’assenza, mentre nella privazione viene in chiaro anche una
determinata natura come sostrato di cui si predica la privazione.
All’unità si oppone la molteplicità, così che anche gli opposti dei concetti
citati dianzi, il diverso e il dissimile e il disuguale, e quanti altri
si dicono o secondo quelli, o in generale secondo il molteplice e l’uno, vanno
imparati a conoscere dalla scienza in discorso. Tra essi è anche la
contrarietà, poichè la contrarietà è una differenza, e la differenza è
diversità (?). Di modo che, dicendosi l’uno in molti modi, anche quelli
si diranno in molti modi; tuttavia appartiene a una sola scienza di
conoscerli tutti. Questa molteplicità di modi non richicde scienze
diverse, le quali ci vogliono quando questa molteplicità non sì lascia
ridurre logicamente nè sotto un unico rispetto nè sotto un’unica
relazione. Ma, poichè tutto sì può ridurre a un principio supremo, ad
es., tutto ciò di cui si predica l’unità a un’unità suprema, lo stesso
si deve ripetere anche dell’identico e del diverso e dei contrari.
Cosicchè, dopo di aver distinto in quanti modi ciascuno di essi si dice,
bisogna render ragione, per ciascuna categoria (*), in qual rapporto esso
stia con il modo principale e come a esso venga attribuito: di alcuni, ad
es., si troverà che esso
Alessandro, Schwegler, Bonitz intendono che si parli non dello
privazione, mn della negazione, e non riescono a dar un senso alla frase.
Vedo che anche il Ross propone di riferliria alla privazione;
l'esitazione, che ancora lo trattiene, ò per l’inciso «nll’uno , ch'egli
vorrebbe soppresso: i mo pare che il passo citato dianzi di S. Tom, lo
chiarisca a sufficienza, In ogni modo, è nota In dottrina aristotelica
cho non-bianco è negazione soltanto (astratta), nero è privazione
(concreta, positiva): nell'una non sì deterinina altro, e potrebbe predicarsi,
ad es., anche di un suono; nell'altra viene aggiunta «la differenza di
colore, in riferimento nl sostrato ra cui nppartiene (diremmo, l'inchiostro).
Così, non-veggente e cieco, non-dotto e ignorante, ecc. La diversità è, propriamente, una cifferenza
di genere; la differenza (propr. detta) è una diversità nello stesso
genere (le specie), la quale, quando è massima, è contrarietà: X. 8, 8;
ivi, 4, 1-2. (8) Categoria, qui, vale (come avverte il Bonit2, p. 180)
predicato, nozione, ecc.: ossia, per la nozione d'identità, diversità,
ecc., si deve far lo stesso lavoro d'analisi che per l’essero in
generale: distinguere i diversi significati e determinare la relazione
tra i significati secondari o derivati e quello fondamentale originario. li
comprende, di altri che li produce, di altri esso sarà predicato in altri modi
siffatti. È dunque palese quel che già si accennò nella
esposizione dei problemi: che spetta a un’unica scienza ragionare di
tutte queste determinazioni e della sostanza. Questa era una delle
questioni colà agitate. Ed è dovere del filosofo di esser in 1004 grado di speculare intorno 4 tutte queste
cose. Che se tale non è il compito del filosofo, chi sarà allora che
indagherà se Socrate e Socrate seduto sono lo stesso (*); ovvero,
se ogni contrario ha un solo contrario, e che cosa è il contrario, e in
quanti modi si dice? E così di altre tali questioni. Orbene, essendo
queste per se stesse affezioni dell’uno in quanto uno e dell’ente in
quanto ente, e non in quanto numeri o linee o fuoco, è chiaro che quella
scienza dovrà conoscere e che cosa sono e le loro proprietà. E coloro che
intorno a esse indagano, non sbagliano già perchè non sia da
filosofi l’indagarne, ma perchè par che non s’accorgano neppure
della sostanza; e sì che questa è prima di tutto il resto! Che se il
numero in quanto numero ha le sue proprie affezioni, come parità e
disparità, commensurabilità e uguaglianza, eccesso e difetto (qualità che
appartengono ai numeri o per se stessi considerati o in relazione gli uni
con gli altri); e se altre ne ha di proprie parimenti il solido, quel che
è immobile e quel che è mobile, quel che ha peso e quello che ne manca;
bene ne avrà di sue proprie anche l’ente in quanto ente, e queste
costituiranno appunto ciò di cui sarà compito del filosofo l’indagare il
vero. Ne è un indizio questo: dialettici e sofisti, volendo fare
la stessa figura del filosofo, sebbene la loro sapienza sia solo
apparente, ragionano di tutte le cose e dell’essere che è comune a tutte,
evidentemente perchè questo è l’oggetto proprio della filosofia. Infatti,
la dialettica e la sofistica s’aggirano intorno alla stessa sfera di oggetti
della filosofia, ma La
sostanza per sè o congiunta con alcun accidente (ricorda discussioni
sofistiche, soprattutto dei Megarici, in proposito). Ovvero, se riascun contrario, ece.: per
queste questioni questa differisce dall’una per il modo d’impiegare la
facoltà conoscitiva, dall’altra per il tenore di vita (‘) da quella
prescelto. La dialettica si esercita saggiando intorno a quelle cose di
cui la filosofia si sforza di aver conoscenza; la s0fistica si contenta di un
sapere apparente, non reale. Si noti anche che una delle due serie di
contrari indica la privazione, e che entrambe si riducono all’essere e al
non essere, all’uno e al molteplice: ad es., la quiete all’uno, il
movimento al molteplice. Ora quasi tutti i filosofi son d’accordo che gli
esseri e la loro sostanza risultano da contrari; per lo meno, affermano
che i principii loro sono contrari: essi sono per alcuni il dispari e il
pari, per altri il caldo e il freddo, per altri il limite e l’illimitato,
per altri l'amicizia e la discordia (*). Queste e tutte le altre
contrarietà si riducono, manifestamente, a quella dell'uno e del molteplice
(ci si conceda dimostrata questa riduzione), sì che sotto essi,
come sotto due generi, cadono tutti i principii: quelli dei filosofi su
detti vi si riducono completamente. Non c’è dubbio, dunque, anche per
queste ragioni, che còmpito di una sola scienza è lo studio dell’essere
in quanto essere. Chè tutti gli esseri o son contrari o vengono da
contrari, e principii dei contrari sono l’uno e il molteplice, e questi
appartengono a un’unica scienza, sia poi che si debbano prendere in un
senso solo, o in più sensi, come forse (*) la realtà e la verità esige.
Ciò non ostante, pur dicendosi l’uno in molti sensi, questi verranno
riferiti tutti a quello che è prima di tutti; e per i contrari sì dica
similmente. E però, seppure l’essere o l’uno non è qualcosa d’universale
e d’identico in tutte le cose, nè da esse separato Non ispirata dall'amore della verità, ma
dall'ambizione o dal guadagno, Per la differenza tra rpodittica, dialettica ed
eristica, cfr. Anal. Pr., IL 1. 24 a, 22, 6 Top., I. 1. 1004, 27: l’apodittica
pone una sola delle due parti della contraddizione, invece la dialettica
pone l'una e l'altra parte; ma l’una parte da ciò ch'è primo e vero,
l'altra si aggira tra opinioni soltanto, più o meno ben fondate;
l’eristica non cura la fondatezza di queste opinioni. Pitagorici, Parmenide (?), Platonici,
Empedocle. forse, e poco dopo
certo («come certo non è in realtà ): lowg (in entrambi i casì),
na: come certo non è in realtà,
tuttavia esse tutte si riguardano o in rapporto a ciò che hanno
d’identico o per i signignificati derivati dall’essere. Non può dunque esser còmpito,
ad es., del geometra lo speculare che cosa è il contrario o il perfetto o
l’essere o l’uno o l’identico o il diverso, tranne che in quanto se ne
serve come d’ipotesi ('). Resta così chiarito che a un’unica scienza
spetta la considerazione dell’ente in quanto ente, e di ciò che a esso
appartiene in quanto ente, e che essa è la stessa che deve studiare non
soltanto le sostanze, ma anche tutto ciò che appartiene a loro; e, oltre
i concetti accennati dianzi, anche, che è quel che precede e quel che
segue, e il genere e la specie, e il tutto e la parte, e tutto ciò che
altre tali questioni riguarda. CapirtoLo III. Si deve ora
accennare se la scienza di quelli che i matematici chiamano « assiomi sia tutt’una con quella che tratta
della sostanza, oppure diversa. Evidentemente, anche l’indagine intorno ad essi
appartiene a una scienza che è la stessa di quella del filosofo, poichè
essi valgono per tutti gli esseri, e non sono una proprietà di qualche
loro genere, ad esclusione degli altri. Tutti gli scienziati se ne servono,
infatti, perchè appartengono all’essere in quanto essere, e ciascun
genere di cose è essere; e se ne servono fin dove fà al loro proposito,
cioè fin dove si ends il genere di cose, intorno alate .
studio di essi sarà di pertinenza di chi fa o -del suo sapere l'essere in
quanto essere. Perciò, appunto, nessuno di 2°
Se Ipotesi: non in
senso moderno (8° intende !), ima come assunzione di concetti non
dimostrati, che il geometra (e ogni scienziato, in fine) adopera senza
discutere: «Il geometra fa uso (yefjta) di essi, non mostra (oò Bdeltac) che
cosa sia ciascuno di essi (Alesa, 264, 9). Il termine ritorna. coloro
che-attendono-allo studio delle cose nella loro particolarità, s’azzarda di dir
nulla di essi, se_gono. Veri o. Do. Non ne dice “nulla il geometra nè
l’aritmetico, e se alcuni fisici (') si permisero di parlarne, essi
fecero ciò con qualche ragione, perchè credevano di esser i soli che
facessero oggetto d’investigazione la natura nella sua totalità e
l’essere. Ma c’è uno che sta ancora più su del fisico (chè la natura è
uno soltanto dei generi dell’essere), sì che anche lo studio di
tali assiomi spetta a chi medita in universale e intorno alla’ s0stanza
prima. Certo, anche la Fisica è una sorta di sapienza, ma non è la
prima(?). E tutto ciò che alcuni(?) si sono affaticati a dire della
verità degli assiomi e in qual senso bisogna ammetterli, prova appunto
che non hanno studiato gli Analitici. Chi si applica allo studio delle
scienze deve conoscerli già questi assiomi, e non chiederne la
dimostrazione nel corso dello studio (‘). Non e’ è dubbio, dunque, che
anche la considerazione dei principii sillogistici spetta al filosofo e a
chi specula intorno alla natura delle sostanze tutte. In ogni genere di
cose, convien dire che possiede principii più saldi del suo oggetto colui
che ne ha maggior conoscenza: vien di conseguenza che colui che ha la
conoscenza degli enti in quanto enti, deve possedere i principii più
saldi di tutti. Questi è il filosofo.° E il principio più saldo di tutti è
quello intorno al quale è impossibile trovarsi in errore, poichè è
necessario che tale principio sia il più: noto di tutti (tutti errano,
infatti, intorno a quelle cose che non conoscono); e non deve aver
«Forse pensatori che svolsero elementi scettici di
Eraclito, Empedocle, Anassagora, Democrito (Ro88). Così anche in VI. 1. 1026 a, 24 e 30 ($ 7):
la Metafisica è qriccogpia xq@rn, la Fisica deutéga. Sono i fisici ric. dianzi ? O, come sembra
più probabile, Antistene? Cfr. qui Cap. 4, 2; 5-2, ecc.; il nome è fatto
in V. 29. 1024 b, 32 (S$ 2), e in VIII. 3. 1049b, 24 ($ 6). Ma mi par che
non debba neppur escludersi un’interpolazione del passo. La dimostrazione differisce dal sillogismo in
quanto muove da principii immediatamente certi e veri (dul punto di vista
della scienza particolare): « Vero © primo è quel che non per altro, ma
per se stesso ha certezza: invero, dei principii scientifici non bisogna
richieder la ragione, ma ognuno di essi deve esser certo per Be stesso :
Top., nulla d’ipotetico (‘): chè non può essere ipotetico quel principio senza
del quale è impossibile che uno possa comprendere una qual si voglia delle cose
che sono. La conoscenza di esso è indispensabile a chiunque vuol
conoscere una cosa qualsiasi, ed è necessario che ne sia provvisto già
chi viene per imparare. Che dunque un principio tale'sia il più
saldo di tutti, non è chi non vegga. Quale poi esso sia, passiamo a
dirlo. i È impossibile che la stessa cosa convenga e insieme non
convenga a una stessa cosa e per il medesimo rispetto (e quante altre
determinazioni potremmo aggiungere, si tengano fatte a scanso delle
difficoltà discorsive) (?). Questo è di tutti i principii il più saldo:
esso, infatti, ha i caratteri che dianzi determinammo, poichè è
impossibile che uno stesso pensi la stessa cosa essere e non essere,
secondo che alcuni credono dicesse Eraclito (*). Vero è che non è
necessario che tutto quello che uno dice, lo pensi anche (‘). Ma non
potendo i Qui la parola ha
un valore diverso dal precedente (per quanto resti in comune il concetto
di assunzione dogmatica, caratterizzata qui dalla particolarità dell'oggetto,
piuttosto che dall'uso pratico), e agli effetti del pensiero può esser
inteso nel senso moderno che l’'oppone al «categorico (a ciò che non presuppone nulla, perchè è
incondizionatamente vero). A
scanso delle difficoltà discorsive, così come le consuete riserve più
giù, accennano ad argomentazioni che tendessero a metter in dubbio o ad
impugnare il principio così com'è formulato: per es., per il concetto del
divenire, che avviene tra contrari, ecc. Più in là A. chiarisce, ad es., che i
contrari sono insieme in potenza, non in atto. i A. attribuisce, dunque, l'opinione agli
interpreti di E. più che ad I. stesso: cfr. XI. 5, 7. Qui il discorso è considerato
verbalisticamente, non come pensiero. Del celebre « principio di non
contraddizione , chi ben consideri, s'avvedrà che son date qui tre
formule corrispondenti ai tre punti di vista dianzi accennati: 1) «non è
possibile a uno di avere, o pensare, a un tempo, opinioni contrarie :
ch'è questione soggettiva; 2) «una stessa cosa non si può insieme affermare
o negare : ch'è questione logico-dialettica, della realtà veduta
nell’atto del giudizio, che o pone il rapporto di convenienza del predicato al
soggetto, o esclude quel rapporto; 3) «i contrari non possono trovarsi
insieme nella stessa cosa (in
atto): ch'è questione dell'essere, i. e. dei principii reali, delle cose.
La giustificazione della prima formula è data dalla terza (non potendo
è contrari trovarsi insieme) e dalla seconda (e dacché un'opinione è
contraria all'opinione contradittoria); quella della seconda, dalla terza
(un'opinione è contraria all'opinione contradittoria) e dalla prima (poiché è
impossibile che uno contrari trovarsi insieme nella stessa cosa
(aggiungiamo anche a questa proposizione le consuete riserve), e dacchè
una opinione è contraria all'opinione contradittoria, è chiaro non esser
possibile che lo stesso uomo pensi che la stessa cosa sia e insieme non
sia: chi fosse in questo errore, avrebbe a un tempo le opinioni
contrarie. E però tutti i dimostranti a questa riducono l’ultima
opinione: essa, per la natura stessa delle cose, è il principio anche di
tutti gli altri assiomi. CapitoLo IV ('). Pure, ci
sono alcuni, come s’è accennato, i quali affermano potersi dare che la
stessa cosa sia e non sia, e poterla appunto pensare così. Fanno uso di questo
modo di ragionare molti anche dei fisici (°). Ma noi abbiamo stabilito
che è im stesso pensi la stessa cosa essere e non essere); quella della
terza, al cap. 6 (8 12), dalla seconda,la quale riacquista rispetto a
essa l'indipendenza posta qui preliminarmente al s 6. Questa ha in A. il
significato semplicemente di una condizione necessaria per il conoscere e
il sapere, ossia per il pensiero che pensa la realtà itelle cose, perchà
per l'intelligibilità, reale e logica, di queste è un presupposto
indispensabile la distinzione fra un concetto e l’altro, e in primo luogo fra
concetti opposti, e, prima ancora, tra l'affermare e il negare. Il principio
del mezzo, o terzo, escluso integra, qui, il principio di non
contraddizione, e lo sottrae, anche per questa via, alla dipendenza
immediata da quello di contrarietà, dove, invece, quel mezzo esiste.
Quando, in seguito, fu aggiunto il principio d’identità, non soltanto si
guadaguò in compiutezza formale, ma si vide meglio e il rapporto fra i tre
principii e il carattere puramente logico che ha questa parte della
Metafisica aristotelica. Naturalmente, nel formulismo scolastico si
perdette, poi, gran parte dell'interesse cho aveva la questione in A. per
le conseguenze, a cui la negazione del principio di non contraddizione
portava rispetto al conoscere e al sapere, anzi rispetto alla concezione
e realtà dell'universo intero. Comincia
di qui la difesa del principio di non contraddizione contro coloro che lo
negano. Questi, sebbene la trattazione li mescoli di frequente, son tuttavia
abbastanza distinti in tre gruppi corrispondenti alla triplice formulazione
del principio: a) di coloro che l'impugnano per mera esercitazione
eristica; bd) di coloro che, come i Protagorei più seri, si fondano su la
natura propria della dora; e) di coloro che, eraclitizzando, pongono
l’unione degli opposti nella realtà stessa delle cose. Son nominati, nel capitolo seguente, Eraclito
e i suoi seguaci, Empedocle, Anassagora, Democrito. possibile essere
e non essere insieme, e però dichiarammo che quello è il più saldo di
tutti i principii. Ed è effetto d’ignoranza (‘) se alcuni reputano che
anche quel principio si debba dimostrare: chè no n altro che ignoranza è
non sapere di quali cose bisogna chiedere la dimostrazione, e di quali
no. Che di tutto, assolutamente, ci sia dimostrazione, è impossibile: si
andrebbe all’infinito, sì che per tal modo non ci sarebbe dimostrazione
di nulla. Che se di alcune cose non si deve esigere la dimostrazione, non
riuscirà loro di dire quale altro principio meglio di quello, a loro
avviso, è tale. Certo, anche di esso si può dimostrare, in via di
confutazione (*), che è impossibile negarlo, solo che, chi lo mette in
dubbio, dica qualcosa. Che se non dicesse nulla, sarebbe ridicolo andare
in cerca di ragioni contro chi, in quanto non ragiona (*), non ha ragioni
di nulla. Un tale, in quanto tale, sarebbe già simile a un tronco. Il
dimostrare poi in via di confutazione, io dico che differisce dal
dimostrare vero e proprio, perchè chi si accingesse a dimostrare lui quel
principio mostrerebbe di presupporre ciò che deve dimostrare; ma, qualora
la colpa (‘) fosse di un altro, si tratterebbe di una confutazione, e non
di una dimostrazione. In tutti i casi simili, la norma è di non pretendere
che l'avversario dica che una cosa è o non è (perchè egli obicetterebbe
subito che si presuppone ciò che è da dimostrare); ma che dia un
significato a quel che dice, per sè e per gli altri: e questo è pur
necessario, se egli vuol dir qualcosa. Altrimenti, costui non direbbe
nulla, nè per suo proprio conto, nè per gli altri. Che se, invece, lo
concede, la dimostrazione allora è possibile. Già, infatti, s'è per tal
modo determinato qualcosa. La colpa non è del dimostrante, sì di chi è
costretto ad accettare la dimostrazione, perchè, mentre vuol Cfr. dianzi (3, 3) per quelli che non hanno
studiato gli Analitici. La
confutazione (é EXeyyxog) è una dimostrazione negativa o indiretta, che
si limita a portare all’assurdo la sentenza dell'avversario, o a purificarla
dai fraintendimenti e sofismi ch'egli vi ha intrusi. (9) Ho tentato di
giustificare così le parole che il Christ vorrebbe espunte. La colpa del circolo vizioso, che alcuno gli
volesse addebitare. distruggere il ragionamento, è costretto a ragionare.
Oltre di che, chi ha fatta quella concessione, ha già concesso che
ci sia qualcosa che è vera senza dimostrazione, e che perciò non ogni
cosa è possibile che sia così e non così ('). Anzitutto è chiaro che
questo alieno è vero: che le parole « essere e non-essere hanno un significato ben determinato, per cui
non ogni cosa è possibile che sia e non sia così. Parimenti, se la parola
« uomo ha un significato solo: sia
esso quello di « animale bipede . Dicendo che ha un solo significato,
intendo che, se uomo vuol dir questo, ove ci sia un essere che è uomo,
esso sarà ciò che per uomo 8’è definito. E non importa nulla se si
obietta che di significati ne ha parecchi, pur che vengano
definiti; chè si può a ciascun 1006 b concetto assegnare un nome
diverso. Facciamo il caso che si obiettasse che uomo non ha un solo, ma
parecchi significati, e che la definizione animale-bipede vale per uno
soltanto di essi, laddove ce ne sono parecchi altri, ma in numero
determinato : ebbene, si dia un nome appropriato a ciascuno di essi. Che
se, per non far questo, si adducesse che i significati di quel nome sono
infiniti, è manifesto che esso non avrebbe più nessun senso, perchè, se
non significa una cosa determinata, è come se non significhi nulla; e quando
le parole non hanno senso, è tolta la possibilità di discorrere con
altri, anzi, propriamente, anche seco stesso: giacchè non può neanche
pensare chi non pensa una cosa determinata: e se egli è in grado di
pensare, dovrà anche dare un nome unico alla cosa cui pensa.
Stabiliamo, quindi, che, come s'è detto da principio, ogni parola
significa qualcosa, anzi qualcosa di unico. Ora, esser-uomo non potrà
significare lo stesso che non-esser-uomo, se la parola uomo ha un
significato non soltanto come predicato di un unico oggetto, ma in quanto
significa essa stessa un oggetto unico. Per noi, infatti, una parola ha
un unico significato, non in quanto si predica di un unico
oggetto: C'è sospetto d’interpolazione nel testo: le ultime parole del
periodetto, ad es., son ripetute poche linee dopo. chè, a tal patto,
musico e bianco e uomo significherebbero la stessa cosa, e in
conchiusione, designando con nomi diversi la stessa cosa, sarebbero tutti una
cosa sola. Una stessa cosa potrebbe essere e non essere soltanto nel caso
di un equivoco, qualora, ad es., quel che noi chiamiamo uomo, altri
lo chiamassero non-uomo. Quel che è in questione non è già se lo stesso
possa insieme essere e non essere uomo di nome, ma di fatto. Se poi uomo
significa lo stesso che non-uomo ('), è chiaro che anche esser-uomo sarà
lo stesso che non-esser-uomo, per cui tra essere e non esser uomo,
essendo l’identica cosa, non ci sarebbe nessuna differenza. Questo
appunto vuol dire esser l’identica cosa; come chi dicesse abito e vestito
: chè il concetto è unico. Se fosse unico, esser-uomo e non-esser-uomo
significherebbero lo stesso. Ma 8’era mostrato che il loro significato è
diverso. Se, dunque, si deve poter dire qualcosa di vero, bisogna
necessariamente che, chi dice di uno che è uomo, intenda dire che è un
animale bipede: questo era, infatti, ciò che la parola uomo significava. E se
questo è necessario, non è possibile che quello stesso non sia un animale
bipede: chè questo appunto vuol dire che una cosa è di necessi tà: esser
impossibile che non sia. Non si può dare, quindi, il caso che sia vero
insieme dire che uno stesso è uomo e non è uomo. Il discorso vale
anche per il non-esser-uomo. L’esser-uomo esprime un’altra cosa dal
non-esser-uomo, come del resto anche l’esser-bianco è diverso dall’esser-uomo:
anzi, la opposizione tra i primi termini è anche maggiore, esprimendo
essi una cosa del tutto diversa. E se qualcuno ci volesse sostenere che
bianco e uomo significano una stessa e mede Chiarisce il par. precedente, dove aminette
che una cosa può essere e non essere la stessa soltanto per un equivoco
(il testo ha omonimia, usato qui, come la sinonimia della 1. precedente,
in senso alquanto diverso da quello stabilito in nota a lib. I. 6, 5: qui
si bada se uno intende con la stessa parola indicare concetti opposti, oppure
lo stesso concetto con parole diverse). Se l'avversario vuol dare alla
parola «uomo lo stesso senso di «
non-uomo , deve anche identificare il fatto e il concetto di «esser
uomo con quello opposto di «
non-esser-uomo : e venir meno, quindi, al patto (cfr. 11) di non dare a
una stessa parola significati diversi in confronto alle cose, sima
‘cosa, noi ripeteremo quel che abbiam detto prima: che allora tutte le
cose, e non soltanto gli opposti, fanno una cosa sola ('). E se questo
non può essere, pur che l’avversario risponda alle nostre domande, dovrà
convenire in quel che s’è detto. Ma, se egli a una semplice
interrogazione rispondesse aggiungendo anche delle negazioni, non risponderebbe
propriamente a quel che si chiede (*). Niente impedisce che uno stesso
sia, oltre che uomo, bianco e innumerevoli altre cose; ma, interrogato se si
può con verità dire che quello è un uomo o no, egli deve rispondere
soltanto ciò che la parola significa, e non aggiungere che è anche bianco
e grande; poichè, essendo infiniti gli accidenti, è impossibile
percorrerli tutti, si che o li citi tutti o non ne citi nessuno. Se anche
lo stesso è uomo e diecimil’altre cose diverse da uomo, egli non deve rispondere,
a chi gli domanda se uno è uomo, che è uomo, sì, ma insieme anche
non-uomo: a meno che non intenda di aggiungerli tutti gli accidenti: quante
altre cose, cioè, l’uomo è o non è. Che se si mettesse per questa via,
non c’è più modo di discutere, In somma, quei che si mettono per
questa via, vengono a sopprimere la sostanza e la pura essenza di ogni
cosa, perchè son costretti ad affermare tutto esser accidentale, e
che non esiste un concetto tale, quale quello di uomo o di animale. Se ci
fosse, infatti, un concetto tale, quale quello di uomo, esso non potrebbe
essere quello di non-uomo, 0 quello di non esser uomo: e questi sono pure
negazione di PI
Se non si concede che nomo= bianco, tanto meno si può concedere
che momo = non-uomo. Se si concede, non soltanto gli opposti, ma tutto è
la stessa cosa, e non c'è modo di parlar più di nulla, «Sarebbe assurdo che. interrogato sè Socrate
è uomo, rispondesse che è anche .non-cavallo e non-cane : Alessandro
(284, 32). Ovvero, riferisse la negazione agli accidenti: « est enìm v.
g. albus, musicus, etc.; quae omnia in ambitu notionis non-homo continentur:
Bonitz, p, 199. Ma anche le prime negazioni si possono riguardare come
accidentali, se sì bada, non alla sostanza propriamente, ma alla
definizione di uomo. L’avversario deve
rispondere con un sì, o con un no (ovvero ripetendo semplicemente il
nome, o premettendogli la negazione: uomo, non-uomo). quello (').
Non s’era d’intesa che esso aveva un solo significato, e che questo era la sostanza
della cosa? Ma esprimere la sostanza di una cosa vuol dire che questa, e
non altra, è la sua essenza. E se c’è qualcosa che ha l’essenza di
uomo, essa non potrà coincidere con quella che non ha tale essenza,
o con quella che ha l’essenza di non-uomo. Costoro son costretti a dire
che tale concetto non è concetto di nulla, ma che tutto è accidentale (*).
Poichè in questo si distingue la sostanza dall’accidente: l’esser
bianco è accidentale per l’uomo, perchè egli è, sì, bianco, ma non
è bianco per l’essenza. Ma se tutto si affermasse in via accidentale, non ci
sarebbe più niente di primo a far da soggetto: eppure l’accidente esprime
sempre la categoria di un qualche sostrato. Si andrebbe, necessariamente,
all'infinito: il che è impossibile. Anche perchè ogni connessione è
soltanto tra due termini (*). L’accidente, infatti, non può essere
accidente di un accidente, salvo in quanto entrambi sono accidenti
di uno stesso soggetto. Voglio dire, per es.: il bianco è musico, e
il musico è bianco, in quanto entrambi sono accidenti di uomo. Ma Socrate
non è musico a questa maniera, come entrambi i termini fossero accidenti
di un terzo. Questi accidenti, dunque, sono predicati in due maniere diverse.
Quelli che si predicano così, come il bianco di Socrate, non
possono formare una serie che proceda all’infinito: ad es., di
Socrate, che è bianco, predicare un qualche altro accidente, e così
via via: chè, dall'unione di questi accidenti, non verrebbe fuori
un’unità ('). E neppure del bianco si può dire che ci Il che non avverrebbe se, come l’avversario
sostiene, la negazione fosse vera quanto l’affermazione. Sul valore della negazione, talvolta riguardata
nella c. d. copula, tal’altra nel predicato del giudizio, e sul rapporto
tra la forma affermativa e quella negativa in A., v. G. Catocero. în
Giorn. critico della fil. ital., VII (1926), fasc. 5. Se non è concetto (esseuza) di nulla, ma si
può attribuire, insieme al contrario, a qualcosa (x è uomo € non-uomo,
nello stesso modo che l’uomo può esser bianco e non bianco), sarà,
dunque, non sostanza, ma accidente.
Il soggetto e il predicato.
Dall’unione degli accidenti non vien fuori l'unità del reale, se questa
non è raggiunta già con la posizione del primo accidente, col quale la
sostanza forma sia un‘altro accidente da predicare, per es., musico,
perchè questo non è un accidente di quello più che quello di questo.
Resti con ciò determinato che di accidentalità si può parlare in due maniere: o
come in quest’ultimo esempio, o come musico si predica di Socrate, nel
qual caso l’accidente non è predicato accidentalmente di un altro
accidente, come era l’altro caso. In conchiusione, non tutto potrà essere
affermato come accidente, e deve quindi esserci anche qualcosa che
si riguardi come sostanza. Se così è, riman chiarito che è impossibile
predicarne insieme concetti contradittorii. Inoltre, se i contradittorii
si potessero predicare sempre insieme, con verità, dello stesso, chi non vede che tutte le cose
diventerebbero una sola? Sarebbe, infatti, lo stesso e una trireme e un
muro e un uomo, una volta che una cosa si può tanto affermare che negare
di ogni cosa. Che è una conseguenza inevitabile per coloro che ripetono
il ragionamento di Protagora: poichè, se ad alcuno pare che l’uomo non
sia una trireme, è chiaro che non è una trireme; ma, se la contradittoria
è vera, ne consegue che egli è anche una trireme. Si va alla sentenza di
Anassagora: tutte le cose sono tutto insieme. Per cui, niente si può
predicare con verità di nulla. Si ha l'impressione che essi parlino
dell’indeterminato; e pur credendo di parlare dell’essere, parlano,
invece, del non essere: chè l’indeterminato è l’essere in potenza ('),
non quello in atto. E in vero, costoro si trovano nella necessità
di dire che di ogni cosa si può affermare o negare ogni altra. Sarebbe
infatti assurdo che, mentre a ogni cosa deve convenire la sua negazione,
non le dovesse poi convenire quella di un’altra che già non conviene a
essa. Voglio dire che, se è vero dir dell’uomo che è anche non-uomo, è
chiaro che deve «un che determinato . In altri termini: non
dall’enumerazione degli accidenti, a volta a volta incorporati al
soggetto, si ha da attendere l'unità di esso. L'altro modo di predicazione
è quello in cui la serie non gira attorno al soggetto, ma fa une catena da
accidente ad accidente.
L'indeterminato è l’essere in potenza, nel quale i contrari sono
insieme; non quello in atto, nel quale la potenza (ch’è un
non-essere-ancora) vien determinata. esser vero anche dire tanto che è
trireme, quanto che è nontrireme. Intanto, se l’affermativa (che è trireme)
fosse concessa, di necessità sarebbe concessa anche la negativa. Ma
poniamo che l’affermativa non sia concessa; tuttavia Ja negativa di questa gli
dovrebbe convenire meglio di quella sua. Ora, dacchè quest’ultima gli
conviene, gli converrà anche quella di trireme; e convenendogli questa,
gli conviene anche l’affermativa di essa ('). A queste conseguenze
arrivano coloro che sostengono tale dottrina. E a quest’altra, anche: che
nulla è necessario o affermare o negare. Infatti, se è vero che l’uomo è
uomo e non-uomo, è chiaro che sarà vero anche che egli non è nè
uomo nè non-uomo: poichè alla doppia affermativa corrisponde la doppia
negativa, e se là delle due affermazioni se ne fa una sola, una sola sarà
anche questa opposta. Proseguiamo: o, quel ch’essi dicono, vale per
tutte le cose, o no: nel primo caso, ogni cosa bianca è anche non bianca,
quel che è anche non è, e similmente per le altre affermazioni e
negazioni; nel secondo caso, se esso non vale per tutte, ma per alcune sì
e per altre no, per queste ultime anch'essi son d’accordo che il loro
principio non vale. Se, invece, vale per tutte, da capo: o di tutte
quelle di cui si afferma qualcosa, questo si può anche negare, e
viceversa; ovvero, di quelle di cui si afferma qualcosa, questo si può
unche negare, ma non di tutte quelle di cui si nega qualcosa, questo si
può anche affermare. In quest’ultimo caso, si avrebbe un punto fermo, un
non-essere, e questa sarebbe già una Accogliendo (1007 b, 33) la lezione del cod.
fiorentino Ab (come il Ross propone), e riordinando un po'il testo, il
ragionamento risulta così: A. sostiene che se, poniamo, di Socrate si può
predicare insieme uomo e non-uomo, allora di lui si può affermare o
negare ogni altra cosa indifferentemente: per es., ch'è trireme e
non-trireme, Se, dunque, l'avversario concedesse ch'è trireme, dovrebbe
concedere (secondo il suo principio onde si può affermare anche la
contradittoria) ch’è anche non-trireme. Ma poniamo, dice A., che
«l'affermativa non sia concessa. Egli dovrà, almeno, concedere la negativa,
perchè «sarebbe assurdo che, mentre a uomo conviene la negazione di uomo,
non gli convenisse quella di trireme: anzi, gli deve convenire anche
meglio, perchò è la negazione di qualcosa che già si pone non convenire a esso
. Ma, concessa questa, deve poi concedere anche l’affermativa: che è
trireme. salda opinione; ma, se il non-essere è qualcosa di saldo e
conosciuto, tanto più sarà tale l’affermazione (‘) opposta. Ma poniamo,
invece, che di tutte quelle di cui si nega qualcosa, questo si possa
anche affermare: allora, di necessità, o è nel vero chi tiene separate le
due parti, e dice, ad es., che una cosa è bianca, e poi che non è bianca;
ovveroè nel falso. Se per essere nel vero le deve tener unite, costui
disdice ciò che dice, ed è come non esistesse niente. O come poi
parlerebbe e camminerebbe ciò che neppure esiste? (?). E tutte le cose
sarebbero una sola, come anche prima s’è detto, e sarebbe lo stesso e
uomo e Dio e trireme e i loro contradittorii. Chè, se di ciascuna cosa si può
ripeter questo, l’una non differirà dall’altra: se differisse, essa
avrebbe già qualcosa di proprio, e questa sarebbe la sua verità. Alla
stessa conchiusione si perviene dicendo che è nel vero chi tiene
separate le parti contradittorie (9). Ne deriva, anzi, anche questo: che
tutti dicono vero e tutti dicono falso, e però concede che dice falso anche
lui. Evidentemente, con costui non si può discuter di nulla,
perchè non dice nulla: non dice mai che è così, o non così, ma sempre che
è così e non così (‘); e poi, negando ambedue queste cose, che non è nè
così nè non così. Se parlasse altrimenti, ci sarebbe già qualcosa di
determinato. Che se, poi, ci si facesse concedere che, quando
l’affermativa è vera, la negazione è falsa, e che, quando è vera questa,
l’altra è falsa, non sarebbe più vero che si può nello stesso tempo
affermare e negare la stessa cosa. Ma, senza dubbio, tutti
direbbero che questa è una petizione di principio. In fine, diremo
che sono in errore quelli che pensano che una cosa sta, oppure non sta,
in un certo modo, e che invece è nel vero chi le pensa tutte due quelle
opinioni? Che se costui non dice neppure di esser nel vero, o che cosa
vor «Per mezzo dell’atfermazione
la negazione è più conoscibile; chè l'affermazione è prima, come l’essere è
prima del non essere : Anal. Post., I. 25. 86 b, 34. Qui, l’uomo di cui si parla (e colui stesso
che parla). (9) Come se fossero due persone diverse a sostenerle.
Similmente in Teeteto. rebbe dire
la sua asserzione che la natura delle cose è proprio così fatta? ('). E se non
pretende di dir giusto, ma di dire più giusto di chi la pensa in
quell’altro modo, ecco che le cose starebbero già in un certo modo, e
questa sarebbe la verità, e non già vero e falso insieme. E se ribatte
che tutti sono nel falso e nel vero ugualmente, a costui non è più
lecito aprir bocca a parlare: perchè dice nello stesso tempo Sì e
no. E se non ha nessuna opinione, ma crede e non crede del pari,
quale differenza c’è tra lui e le piante? Da ciò si vede benissimo che
nessuno, non solo gli altri, ma neppure chi fa questi discorsi, è
persuaso che così stiano le cose. O perchè mai va egli a Megara, e non se
ne sta tranquillo a casa pensando di camminare? (?). E perchè un bel
mattino non va diritto a gettarsi in un pozzo o, se gli càpita, giù da un
precipizio, anzi si vede bene che se ne guarda, proprio come se pensasse
che non sia tanto buono quanto non buono il caderci? È dunque chiaro che
crede l’una cosa migliore e l’altra peggiore. Ma se è così, deve
convenire anche che una cosa è uomo e un’altra non-uomo, una cosa è il
dolce e un’altra il non-dolce. Egli non mette tutto alla pari quando
pensa ad avere qualcosa che cerca; ma, avendo pensato che per lui è
meglio ber dell’acqua o vedere qualcuno, va in cerca proprio di quello. Eppure
doveva mettere tutto alla pari, se uomo e non-uomo fosse la stessa cosa.
Invece, come abbiamo detto, non c’è nessuno che non si vegga guardarsi da
alcune cose e da altre no. Non pare, dunque, Intendo: Chi dice che la verità è nella
contraddizione, riconosca almeno che c'è questo che diciamo la verità. O
non vorrà neppur riconoscer questo? Ma, allora, che cosa intende quando
asserisce che la natura delle cose è così fatta, che in essa (secondo la
sentenza di Eraclito) i contrari son sempre uniti? ecc. Tralasciando il
pi della 1. 9, come consiglia il Ross, il senso verrebbe trasformato così: Se
egli ritiene di esser nel vero, che vuol dire che la natura è così fatta?
In essa non si dovrebbe parlare di «essere, nè di esser essa l’una cosa
piuttosto che l’altra (chè tutto è e non è, ed ogni cosa è ogni altra). Non è lo stesso per lut camminare e non
camminare. Ovvero, se col Ross si aggiunge il deiv (da Ab e Aless.): non
è lo stesso per lui dover, 0 no, andar a Megara. Quest'argomentazione,
presa dal meglio e dal peggio, è già in Teeteto. che ci possa esser
dubbio: tutti credono che le cose stanno assolutamente in un modo, se non
tutte, almeno quelle che riguardano il meglio e il peggio. E se lo
credono(‘), non per scienza, ma per opinione, tanto più dovrebbero
esser solleciti della verità, così come deve curar la salute più
chi è malato del sano: e infatti, chi opina, al paragone di chi sa,
è in una disposizione non sana in rispetto alla verità. Finalmente, sia
pure che tutte le cose stiano così e anche non così. Ma in natura c’è il
più e il meno in ogni cosa: noi non diremmo che il tre è pari nella
stessa misura del due, e credere che il quattro valga cinque non è un
errore uguale a quello di chi crede che valga mille. Ora, se
l’errore non è uguale, manifestamente uno dei due erra di meno, e
però è nel vero più dell’altro. Ma se è più nel vero, al vero è più
vicino, e ci sarà quindi una verità a cui è più vicino chi è più nel
vero. E anche se tale verità non c’è,
ma, insomma, c'è almeno qualcosa che ha maggiore o minore
fondamento e certezza, e questo basta a liberarci (?) da un discorso che
non si lascia ridurre in termini di pensiero e impedisce di determinar
nulla. Il ragionamento di Protagora deriva anch’esso da questa
opinione, e però la sorte dell'uno è necessariamente legata a quella
dell’altra. Poichè, se tutto quello che si crede e appare, è vero, ogni cosa di
necessità è vera e falsa insieme. Di fatto, gli uomini hanno, per lo più,
opinioni contrarie le une alle altre, e tuttavia stimano che sia in errore
chi non la pensa come loro: per cui è necessario che la stessa cosa
sia e non sia. Viceversa, se si concede questo, vien di con Se lo credono, il meglio e il peggio.
Come nella precedente invocazione
della testimonianza dell'azione, così nelle ultime parole si può notare
un senso della verità come di un bisogno che il soggetto ha di essa per
se stesso. seguenza che tutte le opinioni sono vere. Poichè le
opinioni di chi è in errore e quelle di chi è nel vero, sono tra
loro opposte; ma se tale è l'essere delle cose, tutti saranno nel
vero. È chiaro, dunque, che i due ragionamenti svolgono. lo stesso
pensiero (‘). Tuttavia, a combatterli, non si ha da prendere la
stessa strada per tutti: con alcuni ci vuole la; persuasione, con
altri la sopraffazione (*). Non è difficile curare l’ignoranza di coloro
che s’indussero a credere così in sèguito a dubbi e difficoltà, giacchè per
essi si ha che fare, non con parole, ma col pensiero. Invece, a curar
quelli che giuocano di parole non c’è altra via che confutarne il
discorso letteralmente, in quanto è di parole espresse con suoni.
Coloro che in sèguito a dubbi e difficoltà vennero nell’opinione che le
asserzioni contradittorie e i contrari possono stare insieme, mossero
dalla osservazione delle cose sensibili, dove una stessa causa produce
effetti contrari. Ora, se quello che non è non può generarsi, il fatto
preesistente era già ambedue i contrari insieme. Anche Anassagora dice
similmente che tutto si trova mescolato in tutto, e Democrito, anche
lui, insegna che il vuoto e il pieno si trovano in ogni particella alla pari,
sebbene l’uno di essi sia un ente, e l’altro un non-ente. A
coloro, dunque, che fondano su queste ragioni la loro sentenza, noi
diremo che in un senso parlano giusto, ma in un altro ignorano come
stanno le cose. In realtà, dicendosi l'essere in due sensi, in uno di
questi qualcosa può generarsi dal non-ente, ma rell’altro non può (*); ed
è possibile che Partendo,
l'uno, dall'oggetto; l'altro, dal soggetto (dall’opinione). Sopraffazione: col ragionamento, Cfr. Top.,
I. 12. 105 a, 16: « L’induzione è più persuasiva... ma il sillogismo stringe di più, ed ha
maggior forza contro quei che contraddicono , Poichè l'essere si dice o in atto o in
potenza, così c'è un modo di essere (in potenza) ch'è anche un modo di
non essere (in atto). (Il puro non-essere non ha realtà: il non essere è
un momento di sviluppo dell'essere, che, come pura essenza, è già, nel
concetto, almeno, se non nella realtà temporale). E come per la sostanza,
così per le sue determinazioni secondarie: «sic, enim, tepidum est in
potentia calidum et frigidum, neutrum tamen actu: S. Tom. ($ 667).
(Qui, una stessa cosa si trovi ad essere e a non essere insieme, ma
non per lo stesso rispetto: poichè in potenza i contrari possono essere
insieme, ma non in atto. Inoltre, li inviteremo a persuadersi che c’è
anche un’altra sostanza degli esseri, la quale non è per nulla affatto s0ggetta
a movimento, nè a nascita o corruzione. Dalle sensazioni muove parimenti
l’opinione di alcuni che la verità sia di ciò che appare ('). Essi
stimano che a giudicare del vero non convenga rimettersene alla
maggioranza o alla minoranza. La stessa cosa, essi dicono, al gusto
di aleuni pare dolce, ad altri amara: sì che, se tutti ammalassero o
impazzissero, e soltanto due o tre rimanessero sani e in cervello,
costoro sembrerebbero malati e pazzi, e non gli altri. Inoltre, a molti
altri animali le stesse cose appaiono al contrario che a noi; anzi a
ciascuno di noi singolarmente, stando alla sensazione, le cose non
sembrano sempre le stesse. Quali, quindi, di esse siano vere o false, ci
è nascosto: queste non hanno maggior diritto di quelle alla verità, ma
uguale. Perciò, appunto, Democrito afferma che o non c’è nulla di
vero, o, almeno, ci è nascosto. In somma, se essi insegnano che quel che
appare al senso è necessariamente vero, ciò avviene perchè ritengono per
ammesso che l’intelligenza si riduca alla sensazione, e questa a
un’alterazione (?). Se ed Empedocle e Democrito e, in breve, ciascuno
degli altri si trovarono prigionieri di tali dottrine, ciò non avvenne
per altro motivo. Dice, infatti, Empedocle che chi cambia abito,
cambia intelligenza: Quali le sue condizioni, tale cresce l’uomo
per senno; veramente, si tratta non di un non-essere-ancora, in
opposizione a un essere-giù; ma di un modo dell’essere che è già, del
sostrato, che può ricevere ambedue le determinazioni contrarie, ed è,
quindi, per se stesso potenza di contrari), tà parvépeva: non si dia un senso troppo
soggettivo all'espressione (non esatto il Bonitz, p. 201: «quidquid
cuique videatur ). Alterazione
(mutamento qualitativo), che subisce l'organo del senso da parte
dell'oggetto. 1009 b 1010 a 122
METAFISICA e altrove: Tanto essi si mutano, e tanto
si rinnovano sempre anche i loro pensieri. E Parmenide si
esprime nello stesso modo, Quale in ciascun uomo è la temperie
delle membra flessibili, tale è la sua mente. Essa è appunto quel
che pensa negli uomini, in tutti e in ognuno: la natura de’ loro organi:
quel che in essa prevale è il pensiero . E si suole ricordare
anche un detto di Anassagora ad alcuni suoi scolari: che le cose sarebbero per
essi tali, quali piacesse loro di crederle (?). Dicono che anche Omero sembra
di questa opinione, perchè imaginò che Ettore, quando per la ferita uscì
di sè, giacesse «altro pensando: quasi che anche coloro che sono fuori di
senno pensassero, sebbene non alle stesse cose: è chiaro, dunque, dicono,
che se pensiero c’è in un caso e nell’altro, anche le cose sono insieme
così e non così. Il pericolo maggiore è nelle conseguenze: se
coloro che hanno guardato più a fondo quel che può essere il vero
(e tali sono quelli che più di tutti lo cercano e lo amano), proprio
essi, hanno opinioni di questo genere, e in questo modo si esprimono su
la verità, con quale animo i
principianti sì metteranno a filosofare? Il cercare la verità sarebbe un correr
dietro alle nuvole! A tale opinione essi arrivarono perchè cercavano
bensì la verità nella realtà, ma reali reputavano soltanto le cose
sensibili: ora, in queste ha gran parte l’indeterminato, e anche l’essere, ma
nel significato che dicemmo (*). Perciò il loro Cfr. Diela. Sembra ad alcuni che A.
forzi troppo il pensiero di costoro col farne dei sensisti. Ma è anche
vero ch'essi non distinguono il sensibile dall’intelligibile, 0, se
distinguono, fanno del pensiero quasi un senso superiore: come dimostrano
i versi citati. Buone o cattive,
a seconda della disposizione d'animo. Cioè, potenziale. Per Epicarmo, non si
conosce a quale giudizio di lui contro Senofane, A. qui
alluda. discorso ha somiglianza col vero, ma non è vero. E c’è maggior
proprietà a parlar di loro così, che non come Epicarmo contro Senofane.
Un altro motivo della loro opinione era questo: vedendo che tutto
in questo mondo si muove, e ritenendo che del mutevole non ci sia nulla da dire
di vero, conchiusero che neppure è possibile parlare con verità di un
mondo che sempre e in tutti i modi si muta. Da questa constatazione
germogliò l’opinione più estrema in questo argomento, quella di coloro
che professano di « eraclitizzare , quale aveva anche Cratilo:
questi finì col credere che non si debba parlare, e moveva il dito
solamente, e biasimava Eraclito per aver detto che non è possibile
immergersi due volte nello stesso fiume: £ suo avviso, neppure una volta
è possibile. Ma noi anche contro questo ragionamento risponderemo che
certamente quel che muta, mentre muta, dà loro qualche ragionevole
motivo di credere al suo non essere. Eppure c’è da discuterne; poichè,
l’oggetto che perde una proprietà, conserva ancora qualcosa di ciò che perde,
ed è già necessariamente qualcosa di ciò che diviene. E in generale: se
qualcosa si corrompe, deve continuare a essere qualcosa; e se qualcosa si
genera, di necessità dev’esserci ciò da cui si genera, e che lo
genera; e questo processo non può andare all’infinito. E anche lasciando
questo da parte, noi diciamo che non è la stessa cosa il mutare nella
quantità e il mutare nella qualità: per la quantità, sia pure che non ci
sia al mondo nulla di permanente; ma noi conosciamo tutte le cose per la forma.
À quelli che la pensano a quel modo, noi non possiamo fare a meno di
rimproverare che, limitandosi a un piccolo numero di osservazioni, pur
nella cerchia stessa delle cose sensibili, i lor pronunziati estesero
all'universo intero. Se la Cratilo, ricordato già in I. 6, 1 come maestro
di Platone. Il passaggio è, dunque, sempre dall’essere all'essere: poichè per
A. è l'essere che spiega il divenire, non viceversa. La pura essenza non
diviene, e questa è forma che spiega il mutare delle cose
(qualitativamente: qualità, qui, è il punto di viste formale, della
sostanza e delle sue determinazioni conoscitive, opposto a quello
meramente materiale della quantità). regione del sensibile, che ci
circonda, è in perpetuo nascere e perire, tale, tuttavia, è essa
soltanto, e rispetto al tutto è una piccola parte, che conta, si può
dire, niente: sì che sarebbe molto più giusto in grazia del tutto assolvere
questa parte dalle sue mancanze, piuttosto che a cagion di questa
condannare il tutto. Inoltre, potremo evidentemente indirizzare anche a costoro
le stesse considerazioni fatte addietro. Bisogna mostrare anche a costoro,
€ persuaderli, che esiste una natura immobile. In fine, costoro che
dicono ogni cosa essere e non essere insieme, se fossero conseguenti,
dovrebbero affermare che tutto è quieto, piuttosto che in movimento: chè, se
tutto è in tutto, non c’è più niente in cui qualcosa possa
mutarsi. I cieli sono incorruttibili, e al di sopra di essi Dio e le
Intelligenze motrici son fuori di ogni specie di movimento. His igitur
rationibus A. removisse sibi videtur eas causas, quae quosdam ad recusandum
principium contradietionis impellerent: quae quam non sufficiant in prompt u
est intelligere. Ac primo quidem argumento quod mutationem ad essentiam
redigere studet, facile est videre eum, dissecta in partes quasdam
mutatione, ea spectare, in quibus vel coepta nondum sit vel iam absoluta
inutatio, nec vero ipsum illud, quod mutatur, quatenus mutatur. Altero
argumento, quod speciem ac formam rerum ac per eam certum cognitionis
fundamentum manere contendit, confidendum quidem est in nullo mutationis
genere ex Aristotelis decretis ipsam formam vel fieri vel mutari; sed ita,
non sublata est, verum translata in alium locum dubitatio de mutatione.
Reliquie argumentis quod in angustiores fines ‘mutationis ambitum studet
includere, nihil videtur ad refutandos adversarios efficere: sive, enim, latius
patet mutatio sive minus late, quatenus invenitur, eatenus principium
contradictionis tamquam universale principium tollit: propositio enim
universalis unius propositionis singularis instantia tollitur. His scopulis hoc
loco, ubi mutationis mentio necessaria non erat, propterea illidit A.,
quiaprinelpium contradictionis non de notionibus, sed de rebus valere
posuit : Bonlitz, pp. 204-5. Ma lo spirito dell’argomentazione
aristotelica non è colto, così. Qui A. difende il suo principio contro l’indebita
ipostatizzazione della negazione assoluta, propria del pensiero discorsivo,
insieme e al pari dell'affermazione, nella realtà e intelligibilità delle
cose, le quali verrebbero, così, negate non soltanto nel loro essere
determinato, ma anche nel loro divenire: come il par. seguente (18)
mostra chiaramente. (Di vero, tuttavia, della critica, resta questo: che
quella realtà e intelligibilità è affermata, nel suo essere e divenire,
con procedimento analitico, prima o dopo del suo attuarsi, non nel suo
attuarsi, in cui l’opposizione passa dalla forma astratta a quella
concreta dell'essere che diviene in quanto assorbe in sè la propria
negazione. Quel procedimento, quindi, porta A. a vedere lo sviluppo dell'essere
come già attuato e irrigidito nelle forme dell'essere universale, dal
mondo sensibile soggetto a corruzione a quello pur sensibile ma
incorruttibile, e da questo a quello sottratto a ogni forma del
divenire). In quanto, poi, alla verità di ciò che appare, che, cioè, 1010
b non tutto ciò che appare è vero, noi osserviamo anzitutto che
l’atto del sentire non è per nulla falso quando è dell’oggetto suo proprio, ma
la fantasia non è la stessa cosa della 20 sensazione ('). C'è, quindi,
proprio da stupire al sentirli discutere se le grandezze e i colori siano
realmente quali appaiono da lontano o quali appaiono da vicino, e se le
cose siano quali appaiono ai malati o quali appaiono ai sani, e se
siano più o meno pesanti secondo che uno è robusto o è fiacco, e se la
verità sia di quelli che dormono o di quei che son desti. Che in realtà
non abbiano questi dubbi, è palese: nessuno, per lo meno, se, di notte,
imagina di essere in Atene, mentre è in Libia, s'incammina verso
l’Odeone. Ag 21 giungi, quel che già Platone osservava, che intorno
all’avvenire, se, ad es., un malato guarirà o no, non è davvero
ugualmente autorevole l'opinione di un medico e quella di un «Quod Protagorei contendunt verum esse quod
cuique de qualibet re videatur, hoc placitum in fines longe artiores est
restringendum: illud, enim, vere contendi licet sensum quemlibet non
falli in percipiendis rebus ipsi proprie subiectis; at phantasia, quam
Protagorei, quum tò parvépevov dicunt verum esse, veritatia faciunt
indicem ac testem, differt a sensu : Bonitz, p. 205. Il Ross suggerisce
un’altra interpretazione, onde il passo verrebbe trasformato così: Quanto alla
verità di ciò che appare, noi osserviamo che non tutto ciò che appare è
vero: anzitutto, se anche, come essi dicono, la sensazione non è falsa,
quando però sia di un oggetto appropriato a un senso, ecc. Migliore, sembra, l’interpretazione del
B., che non rischia dl prestare all'avversario la tlottrina di A. intorno
aî sensibili propri. Per questa, cfr. De An., II. 6. 418 a, 8: « Sì dice
sensibile in tre sensi: in due dei quali si parla del sentire per sè,
nell’altro per accidente. Dei due primi modi di sentire, uno è proprio di
ciascun senso, l’altro è comune a tutti. Dico proprio ciò che non può
esser sentito per altro senso, è intorno al quale non è possibile cadere
in errore: così il colore rispetto alla vista, e il suono rispetto
all’udito, il sapore rispetto al gusto. Ciascun senso discerne intorno a essi,
e non può ingannarsi in quanto colori 0 suoni, ma solo intorno alla cosa
colorata o al luogo, ecc. . In questo, ch’ è piuttosto un inferire che un
percepire (e così se un senso pretende di giudicare dell'oggetto di un
altro senso), il senso può ingannare. La
fantasia era stata da Platone trattata come la stessa cosa della
sensazione (Teeteto, 152 c). A. la distingue dal senso e dal pensiero
discorsivo, benchè non sorga senza la sensazione, e senza di essa non ci
sia l’opinione. Essa tramezza, dunque, tra l’una e l’altra: appartiene alla
parte sensibile dell'anima, ma è attiva e indipendente dall'oggetto
attuale come il pensiero. Cfr. De An., ignorante ('). E anche per le
sensazioni, non è ugualmente autorevole la sensazione di un oggetto che è
proprio di un senso e quella di un oggetto estraneo, la sensazione
dell’oggetto attuale e quella di un oggetto vicino (*). Invece: del
colore giudica la vista, non il gusto; del sapore, il gusto, non la
vista. E ogni sensazione, nel tempo stesso e intorno allo stesso oggetto,
non dice mai che una cosa sta così e non così ; e anche in tempi diversi,
la questione non cade propriamente su la qualità, ma su l’oggetto a cui
essa conviene: dico, ad es., che lo stesso vino può bene parere una volta
dolce e un’altra no, o perchè s’è mutato esso, o perchè s’è mutato il
nostro organo; ma la qualità del dolce, quale essa è, quando è, non muta
mai: il senso ne dice sempre il vero, e quel che dovrà esser dolce, sarà
sempre dolce in questo modo (‘). A dir vero, proprio questo vogliono
distruggere i sostenitori di tutte queste dottrine, e in quel modo che
negano la realtà di ogni sostanza, così per essi non c’è nulla al mondo
di necessario: poichè necessario è ciò che non può essere ora in un modo,
ora in un altro, sì che se qualcosa esiste di necessità, non potrà essere
così e non così (°). E in somma, se solo ciò ch’è sensibile può
esistere, qualora non ci fossero animali, non esisterebbe nulla: chè non
ci sarebbe sensazione. Ebbene, dire che nè le qualità sensibili,
Per questi due paragrafi, cfr.
Teeteto, 157 e 8.; 1710, 178c s, Ma giusto, per queste e altre
concordanze, lo Schwegler (p. 180): A. attinge direttamente dalla
protagorea ’AAntea, indipendentemente dai giudizi di Platone. Intenderei così le parole invano, mi sembra,
tormentate anche da altri: toù rimolov xal toù ati; (Aless.: la
sensazione di un oggetto vicino è più sicura che quella di un oggetto
distante; Bullinger e Goebel, cit. in Ross: la sensazione dell'oggetto
proprio è più sicura che quella di un oggetto di un senso affine; ecc.). La sensazione (l’atto del percepire) è già
conoscenza per A., come si notò a I, 1, 4, e però soggetta alla stessa
legge di non-contraddizione del pensiero. L'attributo o qualità, per sè, non muta e non
passa nel suo contrario: il dolce (la dolcezza) non diventa amaro: quel
che muta è il sostrato, che può passare da un contrario all’altro (o agli
intermedi). Nota, anche qui, l’irrigidimento del reale in forme
definitorie (come in Platone). (5) La ragione del predetto irrigidimento
è nella preoccupazione, che A. hu qui in comune col suo maestro, di
combattere le dottrine protagoree portanti alla negazione di ogni realtà
su cui il pensiero possa posare con la certezza della propria
validità. nè le sensazioni (‘') esistono, forse è anche giusto, in quanto
queste altro non sono che affezioni del senziente; ma è impossibile che, anche
senza la sensazione, non esistano tuttavia i sostrati che la producono.
Infatti, Ja sensazione non è sensazione di se stessa (*), ma c’è, oltre
di essa, anche qualcos'altro, che, necessariamente, è prima di essa: ciò
che muove è per natura anteriore a ciò ch’è mosso. E se anche si obietta
che essi sono in relazione di reciprocità, la cosa non è men vera. Ci
sono alcuni e tra quelli che son
persuasi di ciò che dicono, e tra gli altri che fan questione di parole
soltanto i quali muovono una difficoltà: essi voglion sapere chi
sarà poi a decidere se uno sia sano e, in generale, se uno intorno
Mi par giusto tornare alla
volgata: uite và aloîntà (le qualità sensibili, qui: non le cose stesse)
pinTe tà alcèf pate. Poichè non è conforme alla dottrina più chiara di A.
porre come esistente il sensibile fuori della sensazione (in atto o in
potenza): cfr. De An., III. 2. 425 Db, 26: « L’atto del sensibile e della
sensazione è identico, ma l’esser loro non è il medesimo: dico, per es., del
suono in atto e dell'udito in atto. Poichè è possibile posseder l'udito e
non udire, e ciò ch'è sonoro non sempre rende suono. Ma quando ciò che ha
potenza di udire, è in atto, e ciò che ha potenza sonora rende suono,
allora ha ÎInogo insieme l'atto dell'udire e l’atto del suono . Ciò non
toglie, naturalmente, l’esistenza di un mondo sensibile esteriore
all'anima: poichò il sentire, diversamente dall’intendere, non passa all’atto
senza un oggetto esteriore materiale: « Perciò dipende da noi
l’intendere, quando lo vogliamo, ma non così il sentire : De An., II. 5.
417 Db, 24. ° La sensazione non è
sensazione di se stessa, nel senso che l’occhio, ad. es., non vede se
stesso. Ma A. accenna anche a una alognows ch'è aùti avtis (De An., III.
2. 425 b, 15, 0 Cfr. De sensu, 7. 448 a, 26): autocoscienza sensibile, noi
diremmo, corrispondente a quella intellettiva (del tutto spiegata in Dio,
com'è noto). Per cui anche la sensazione, così come il pensiero per
l’intelligibile, non ha fuori di sè il sentito (in quanto tale).
Posta anche la correlatività
protagoree, onde il sentire risulti dall'incontro dell’agente col paziente
(della cosa visibile, ad es., con la vista: cfr. Teeteto, 156 d), vale
quanto si è detto: debbono esistere, indipendentemente dalla sensazione, i due
sostrati, la cosa che ha la potenza di esser vista e l’anima che ha la
.\otenza di vedere. (4\ Questo capitolo prosegue il precedente, e
s'aggira ancora intorno alla verità, di ciò che appare. Vien ripetuta la
distinzione tra coloro che seguono o meno, la dottrina
protagorea in buona fede e con qualche ragione degna di esser presa a ogni
cosa giudichi rettamente. Dubbi di questo genere sono simili a quello di
sapere se in questo momento dormiamo o siamo desti. Simili difficoltà
valgono tutte lo stesso. Costoro pretendono che si dia ragione di tutto:
cercano un principio, e lo vogliono ottenere per via dimostrativa:
sebbene dalle loro azioni si veda chiaro che di tale necessità, di
dimostrar tutto, non sono persuasi. L’errore in cui cadono, come si
disse, è questo: cercano un ragionamento per cose in cui il ragionamento
non esiste, perchè il principio de lla dimostrazione non è una dimostrazione.
Essi stessi possono facilmente persuadersi di ciò: chè non è difficile a
comprendere. Coloro, invece, che esigono che uno li confauti per forza di
ragionamento soltanto, esigono l’impossibile: poichè pretendono che si
dica il contrario di loro, e cominciano intanto col dirlo essi (').
Se le cose non tutte sono relative, ma alcune soltanto, e altre
sono in sè e per sè, allora non potrà tutto ciò che appare, esser vero. Poichè,
ciò che appare, appare a qualcuno: di modo che, chi dice che tutto ciò
che appare è vero, fa tutte le cose relative. Perciò quelli che chiedono
di essere confutati per forza discorsiva
se tuttavia acconsentono di discutere ragionevolmente , bisogna
che facciano bene attenzione che non c’è ciò che appare semplicemente, ma
c’è ciò che appare a chi appare, e quando appare, e in quanto e
come appare. Se vogliono discutere, ma non in questi termini, accadrà loro ben
presto di dire cose tra loro contrarie (*). Può, infatti, alla stessa persona
una cosa parer miele alla vista, e al gusto no; e non parer identica una
stessa in considerazione, e coloro che ne cavan :notivo per nera
esercitazione discorsiva. I trapassi, tuttavia, dalla considerazione di un
gruppo o dell'altro, o di ciò che essi hanno in comune, non sono
abbastanza netti. Può darsi che il testo sia atato in qualche parte
disordinato. Intendo: pretendono
che altrî dimostri il contrario di ciò che dicono: ma, com’ è possibile
ciò, se già essi lo affermano? V. nel Ross gli altri tentativi: d'interpretazione.
Cose tra loro contrarie essi
possono dirle soltanto se escono «indll’atto. omnimode determinatus del
conoscere. Ma, se accettano la determinazjfone, non: riuscirà a ]Joro
più. 2 (uh) | 6 de)
10 cosa alla vista di ciascuno dei due occhi, se sono
disuguali. Coloro che, per le ragioni già dette, van dicendo esser
vero ciò che appare, e però tutto ugualmente vero e falso, perchè non a
tutti le cose appaiono le stesse, e neppure a uno stesso sempre, e spesso
appaiono contrarie anche nello stesso tempo (il tatto, per es., se
s'intrecciano le dita, dice che son due gli oggetti, la dove la vista ne
dà un solo), quei tali, dunque,
badino che in realtà, qui, le sensazioni non riguardano lo stesso senso,
e per lo stesso rispetto, e nella stessa maniera, e nello stesso tempo:
per cui vero’ sarà ciò che appare solo se è così determinato (‘).
Ma, appunto per ciò, quei che parlano non perchè dubitino, ma per parlare, si
troveranno forse costretti a dire, non «questo è vero >, ma «è vero a
questo ; e quindi, anche, come si disse dianzi, dovranno far tutto
relativo, all'opinione e al senso, sì che se non si presupponesse
l’opinione di qualcuno, in realtà non ci sarebbe stato e non ci sarà mai niente
(*). Che se, invece, qualcosa fu o sarà, è chiaro che non tutto è
questione di opinione. Inoltre, se l’oggetto è uno solo, bisogna che sia
in relazione a uno solo o ad altri in numero determinato: che se una
stessa cosa si trova insieme ad essere metà e uguale, non è relativamente
al suo doppio ch’essa è uguale (?). E quanto a colui che opina, se la
realtà dell’uomo è anch’essa oggetto di opinione, non sarà uomo chi opina,
ma Così determinato l'atto,
esso spiega le differenze, non solo tra individui diversi, ma anche nello
stesso individuo, dipendendo queste o dalla cosa che ha potenza di
produrre sensazioni diverse o contrarie, ovvero dalle condizioni e dall’uso
degli organi, ovvero dal giudizio (talvolta errato) che l’anima trae dal
confronto delle sensazioni o di queste con precedenti immagini (v. dianzi la
possibilità «dlell'errore nei sensibili per accidente, e la distinzione
tra sensazione e fantasia; e cfr. anche De An.,, III. 3, 428a, 11: «Le
sensazioni sogo' sempre vere, invece le fantasie nascono il più delle
volte false : di qui, gt possibilità del vero e del falso nella
déta). Come dianzi per la
sensazione, così qui per l'opinione: il soggettivismo è assurdo per
A. (9) Si riannoda al pensiero precedente al $ 8: anche fatto tutto
relativo, se la relazione vien determinata ne’ suoì termini
esattamente, essa non è mai con tradittoria. l'oggetto opinato. Ma,
siccome ogni cosa è quale è chi l’opina, costui sarà infinite specie di
cose (‘). Che, dunque, l’opinione più salda di tutte è questa, che
le affermazioni opposte non possono esser vere insieme; e a quali
conseguenze vadan incontro coloro che la impugnano, e quali ragioni li
muovano a ciò, si è detto quanto basta.
Ora, posto che è impossibile che si verifichi la contradizione nello
stesso tempo e per il medesimo rispetto, è manifesto altresì che neppure i
contrari possono trovarsi insieme nello stesso soggetto. Poichè uno dei
contrari non esprime altro che la privazione: la privazione della
sostanza. Ma la privazione è la negazione d’un certo genere determinato.
Se, dunque, è i mpossibile che l’affermazione e la negazione siano
vere nello stesso tempo, dovrà anche essere impossibile che i contrari si
trovino insieme (?), a meno che entrambi non si trovino in una certa
maniera soltanto, ovvero }’uno in una certa maniera soltanto, e l’altro
semplicemente. CapitoLo VII. Delle due parti della
contradizione non si dà mezzo, ma è necessario che o si affermi o si
neghi, e che, quel che si afferma o nega, sia una sola cosa di una sola.
Questo diventa chiaro appena ci si faccia a definire che cosa è il vero e
il falso. Falso è dire che l’essere non è, o che il non-essere
è; Ripiglia il pensiero del $ 8: se tutto è relativo all’uomo
(Protagora), l’uomo stesso che cos'è? Da una parte, non esistendo altro
che l'oggetto di opinione, l’uomo non è più il soggetto pensante, ma quello
ch'è pensato; dall'altra, anche in quanto soggetto pensante, per la
reciprocità protagorea (di cui alla fine del capitolo precedente), egli
esisterà come è nella relazione a ciò che pensa, e sarà un opinante
d'infinite specie: tante, quante sono le specie degli oggetti opinati, in
rispetto ai quali egli è un opinante sempre diverso (data la varietà
continua delle cose opinate). In conchiusione, neppur l’uomo esiste.
Ho tradotto come se il xgòds della 1. 12 non ci fosse (così il cod. E).
Mantenendolo: «costui sarà (tale) in relazione a un numero infinito di specie
di cose (e quindi sempre diverso).
Salvo che in potenza, o l’uno in atto e l’altro in potenza; o l’uno
sotto un aspetto, e l’altro sotto un altro, ecc. 11
12 ro (ce i vero è dire che l’essere è, e
il non-essere non è. Per cui, anche, chi dice che una cosa è, o non è(‘),
o dice il vero o dice il falso; invece, se si desse il mezzo, nè
dell’essere sì direbbe che è o non è, nè del non-essere. In
secondo luogo, quel mezzo della contradizione dovrebbe essere o a quel modo che
il grigio è in mezzo tra il nero e il bianco, ovvero tra uomo e cavallo
un terzo ente che non sia nessuno dei due. Se fosse in quest’ultimo
modo; non ci sarebbe mutamento (perchè mutamento si ha quando dal
non-buono si passi al buono, o da questo a quello): invece lo si vede
ognora, ed è tra contrari e intermedi, e non altrimenti. Se poi il mezzo fosse
come un intermedio, si avrebbe anche così una generazione del
bianco che non verrebbe dal non-bianco: ora, nessuno l’ha mai vista
(*). In terzo luogo, tutto ciò che pensa e intende (°), il pensiero o lo
afferma o lo nega: questo è chiaro dalla definizione stessa del vero e del falso
(‘). Vero è il pensiero quando, affermando o negando, unisce le nozioni
in un certo modo; quando, invece, in un certo altro, è falso. In
quarto luogo, quel mezzo, se uno non fa questione di parole, dovrebbe
essere al di lA di tutte le contradizioni, per cui uno neanche direbbe nè
il vero nè il non vero. E sa Non
«chi dice che questo (toùto 0 èxgsivo, che altri aggiungono intendendo del
mezzo) è 0 non è: perchè del mezzo non si dice che è o non è. Per quel
che segue: «Ille quì ponit medium inter contradictionem, non dicit quod necesse
sit dicere de ente esse vel non esse, neque quod necesse sit de non ente:
S. Tom. ($ 720). O quel terzo (il
mezzo) è negativo (né uomo né cavallo),
e il divenire non ha luogo perchè ci vuole un termine positivo e una
realtà comune ai due termini tra cui avviene (il «non buono , ad es., se
diviene, passa in un termine positivo, e questo, d'altronde, non può
essere, poniamo, il « bello ); ovvero è positivo (e bianco e nero), e il
divenire non avviene neppure in questo caso, perchè il termine negativo è
indispensabile e la realtà da realizzare non può esser quella già
realizzata (nell'esempio, considera il grigio come già, insieme, bianco e
nero, attualmente). L'attività
logica (della Su&vora) porta all'intuizione della verità (propria del
vote). Posta al $ 2.I1 giudizio è
sintesi di nozioni, rapporto (affermativo o negativo) tra soggetto e
predicato. rebbe al di là (') dell'essere e del non-essere, per cui
dovrebbe esserci anche un mutamento diverso
da quello che consiste nel nascere e perire. In quinto
luogo, quel medio dovrebbe esserci anche per quei generi di cose, in cui
la negazione importa immediatamente il contrario (*): nei numeri, ad es.,
dovrebbe esserci un numero che non fosse nè dispari nè non-dispari. È
impossibile: basta la definizione a vederlo (‘). In sesto luogo, si
andrebbe, in tal modo, all’ infinito: le cose sarebbero non soltanto
accresciute di metà, ma più ancora, perchè si potrà sempre daccapo negare quel
terzo, e costituire tra l’affermazione e la negazione sempre
qualcosa di nuovo, di natura diversa (°). In fine, quando uno,
richiesto se una cosa è bianca, risponde di no, che altro ha egli negato se non
l’essere? E la negazione di esso è il non-essere (°). Questa
opinione è sorta in alcuni per la stessa via di altre non meno strane:
non riuscendo a cavarsi fuori da argomentazioni eristiche, si arrendono e
acconsentono che sia vero quel che se n’è conchiuso. Questi, dunque,
parlano per mao. Gli altri interpretano come un
«per. Tenterei di differenziare un po’ di più questo argomento dai
precedenti. Nota, per la 2 parte del paragrafo (che passa dalla
considerazione logica a quella reale), che il discorso è pur sempre
intorno al mondo del divenire, dove soltanto ha luogo l’antitesi di essere e
nonessere e dei contradittorii.
Intendi: un mutamento sosta:ziale diverso. Chè è in quello che ha
luogo più propriamente l’antitesi essere-non essere. In questi contrari mancano intermedi, e come
non c’è processo di generazione, così l'affermazione di uno importa
immediatamente l’esclusione dell’altro. È un caso di contrarietà in rerum
natura equivalente alla contraddizione logica (l’unica differenza è che
alla negazione non-dispari corrisponde la realtà positiva del pari). La definizione divisoria del pumero in pari e
dispari. (5) Più semplice l’interpretazione di Alessandro, così
schematizzata dal Ross: Se tra A e non-A c'è B [che sarebbe un terzo modo
di essere di A, nè affermato nè negato soltanto, e però accresciuto di
una metà), ci sarà anche C tra B e non-B, e D tra Ce non-C, e così di
seguito. (6) « Argomento cavato dalla natura del discorso. Il sì e il no
esprimono il primo un'affermazione e non insieme una negazione, e il
secondo una negazione e non insieme un’affermazione. E l’affernazione e
la negazione non indicano se non che o sia © non sia quella tal cosa di
cui si parla: Bonghi (p. 201). motivi di questo genere; altri, perchè
vogliono che si dia ragione di tutto. Con tutti costoro bisogna cominciar
dalla definizione, e la definizione vien fuori obbligandoli a dar
un significato a quel che dicono: il concetto, di cui la parola è
segno, diventa definizione ('). La sentenza di Eraclito, che tutto è e
non è, par che autorizzi a far vera ogni cosa; quella di Anassagora, invece,
a porre un mezzo della contradizione, sì che ogni cosa sarebbe
falsa; chè, quando tutto è mescolato, il miscuglio non è nè buono nè
non-buono, onde non se ne può dir nulla di vero. CapiTtoLO VIII.
Ciò determinato, è facile vedere che ciò che si dice delle cose in
generale non si può ridurre ad affermazioni di una sola specie, così come
fanno alcuni, i quali o van dicendo che niente è vero (niente impedisce,
secondo essi, che tutto stia come il rapporto della diagonale al lato)
(?); ovvero van dicendo che tutto è vero. Son discorsi, questi, in
fondo, uguali a quello di Eraclito: poichè, chi asserisce che tutto
è vero e tutto è falso(*), asserisce anche ciascuna di queste (Per questo paragrafo e s.). Non riuscendo a
vedere l’errore dei ragionamenti eristici, aleuni ne accettano le
conchiusioni, e tolgon valore, così, al principio di non contraddizione,
e a quello connesso «del terzo escluso. Altri muovono da ragionamenti non
eristici. In entrambi i casì, si cominci con esigere un significato
determinato di ciascun termine, Questo fu raccomandato già (4, 5 ss.) per
la difesa del principio di non-contraddizione, e ora vien raccomandato
anche per la difesa del principio del terzo escluso, perchè, in effetto,
chi, come il supposto seguace di Anassagora, pone quel terzo (che non è
nè l’una nè l’altra parte della contradittoria), fa che delle cose non si
possa mai dir nulla di determinato: cfr. 4, 25. Lett.: «l’essere il diametro commensurabile.
Ossia: ogni cosa è in sè contradittoria (come chi dicesse: « diametro
commensurabile ). Intendo: chi
asserisce che si può dire che tutto è vero e tutto falso îndifferentemente (se,
secondo Eraclito, tutto è e non è), costui vien a dire che son giuste
anche le due enunciazioni separatamente prese: che tutto è vero (tanto
l’essere quanto il non-essere), o tutto falso. Comunemente vien inteso, invece,
che «chi dice che tutto è vero e tutto falso insieme, dice anche le due
cose separa- cose separatamente, sì che, se la prima asserzione è
insostenibile, insostenibili sono anche queste separate. Ed è evidente 3
anche che sono contradittorie quelle che non possono esser vere insieme.
E neppure possono entrambe esser false: quantunque questo secondo caso, per le ragioni
dette, possa sembrare meno improbabile (‘). Con tutti coloro che fan
discorsi di questa specie bisogna 4 comportarsi come s’è consigliato
anche addietro (?): non esigere che dicano se una cosa è, o non è, ma che diano
un significato a quel che dicono: di modo che dalla definizione si
possa passare alla discussione, quando siasi stabilito quel che
significhi il falso o il vero. Se enunciar il vero non è 5 altro che
negare ciò ch’è falso(?), è impossibile che tutto sia falso, poichè è
necessario che una delle due parti della contradizione sia vera. Poi, se
ogni cosa si deve o affermare 6 o negare, non si può essere nel falso in
entrambi i casi, perchè una sola delle due parti della contradizione è
falsa. A questi e simili ragionamenti succede, poi, quel che 7
tutti sanno: essi si distruggono da se stessi. Chi dice, infatti, che
tutto è vero, ta vero anche il ragionamento contrario al suo, e però
dichiara non vero il suo (tale, infatti, lo dichiara l’avversario). E chi dice
che tutto è falso, si dichiara nel falso da sè (‘). Che se si ammettono
eccezioni, e il primo 8 tamente , Il che, evidentemente, è falso.
Così, per quel che segue, che sarebbe da tradurre: «se sono impossibili
prese separatamente, anche la loro unione è impossibile. Alessandro (397)
dà entrambe le interpretazioni.
Se le contradittorie sono semplicemente contratie (ossia, se si
considera la negazione positivamente). Le «ragioni dette potrebber'essere, in questo caso,
quelle del 8 3 del capitolo precedente, in cui si accenna alla possibilità che
uno intenda la contraddizione nel senso della contrarietà. Alessandro,
invece, ricorre alle dottrine di Eraclito e di Anassagora, le quali
favoriscono piuttosto l'opinione che non si possa affermar nulla di vero,
come anche A. dice alla fine del capitolo precedente (la dottrina
eraclitea è stata, nel paragrafo precedente, avvicinata a quella
anassagorea). Cfr. 4, 5. Quel che
significhi il falso o il vero: nel Singolo caso. Cfr. cap. prec., 9.
(8) Il testo è guasto: ho seguito la correzione proposta dal Ross (el 8è
unttèv diio tò &Ainttès pévat fi (5) drogpdvar yeidée totv).
Così anche in Teeteto. dice che
soltanto quello dell'avversario non è vero, e il secondo che soltanto il suo
non è falso, allora, essi si troveranno
a postulare sempre altri ragionamenti, veri e falsi, a sostegno di quanto
affermano: poichè vero sarà riconoscere per vero il ragionamento che è
vero, e così si andrà all'infinito (‘). Evidentemente, il vero non lo
dicono nè quei che affermano che tutto sta fermo, nè quei che affermano che
tutto si muove (?). Se tutto stesse fermo, vero e falso sarebbero
eternamente gli stessi, invece si vede bene come tutto muta quaggiù.
Colui che parla, lui stesso un tempo non era, e un tempo non sarà. Ma se
tutto si muove, non ci sarà nulla di vero, e però tutto sarà falso: noi
abbiamo mostrato che questo non è ammissibile. Inoltre, il mutare
presuppone l'essere, poichè il mutamento è da qualcosa a qualcosa.
E neppure si può dire di ogni cosa che talora soltanto, non
x Nel 1° caso: È falso che
tutte le affermazioni sono vere. È falso
ch'è falso che tutte le affermazioni sono vere, ecc.; nel 2° caso: È vero
che tutte le affermazioni sono false.
È vero che ò vero che tutte le affermazioni sono false, ecc. Nel
1° caso son tutte affermazioni false che, chi sostiene che tutto è vero,
deve attribuire al contradittore; nel 2° tutte affermazioni vere che, chi
sostiene la tesi che tutte le affermazioni sono fulse, deve riconoscere
come proprie. Così vero e falso, presi uno fuori dell’altro, trapassano
immediatamente l’uno nell’altro: chi dice cho tutte le affermazioni sono
vere, è costretto a riconoscerne infinite false; chi dice che tutte sono
false, deve riconoscerne infinite vere. Vero e falso, invece, sono uniti,
per A., nella sintesi contradittoria, dove, soltanto, l'uno dà senso
all’altro. Si può notare in questa concezione la tendenza già a
dialettizzare il pensiero in sè e per sè. L’astrattismo platonizzante e
le asigenze discorsive prendono, tuttavia, il sopravvento: vero e falso
si escludono senza mediarsì, in fine; e il principio di non
contraddizione resta un presupposto (l'assioma supremo), una
pregiudiziale, puramente negativa, della pensabilità del reale in generale
(la prima condizione logica del pensiero empirico). Anche il principio
del mezzo escluso, anzichè fondare il valore assoluto della sintesi
contradittoria per l'attività pensante (ch'è îl medio concreto in cul
l’antitesi si risolve senza residuo), vien aggiunto semplicemente come
corollario: chi lo nega, nega il principio di non contraddizione, e cade,
infine, così come chi nega questo, nell'inileterminato. Il pensiero
empirico, infatti, per la determinatezza del reale vuole l’immediatezza della
distinzione e opposizione del vero al falso. Ricorda che quiete e moto già al $ 15 del
cap. 2 furono citati come una contrarietà riducibile a quella dell’uno 6
del molteplice, dell’essere e del non-essere. eternamente, sia in quiete o
in movimento. C’è qualcosa che sempre muove ciò ch’è mosso, e il primo
motore, esso, è immobile ('). «Posset aliquis credere quod, quia non omnia
moventur nec omnia quiescunt, quod ideo omnia quandoque moventur et quandoque
quiescunt: S. Tom. (748). Invece, il cielo (delle stelle fisse) muove
sempre, mosso esso stesso, e Dio muove questo sempre, immobile in se
stesso. Un pensiero analogo trovammo nel cap. 5, 5 è 16-17. La questione
qui accennata è discussa in Plys. Dicesi principio (') di una cosa quello da
cui si può cominciare il movimento: della linea, per es., e della via c’è
un principio da questa parte, e un altro dalla parte opposta. Ovvero,
quello da cui una cosa riesce meglio: per es., nello studio si deve
cominciare talvolta, non dal principio primo di una cosa, ma da quello
che s'impara più facilmente. Ovvero, la parte di una cosa da cui questa ha
origine: per es., la chiglia di una nave, le fondamenta di una casa;
negli animali, alcuni credono che tale parte sia il cuore (?),
altri il cervello, altri qualcos'altro. Ovvero, ciò che dà origine
a una cosa senza farne parte, e da cui primieramente potò aver
’Aexî: se ne dànno i significati
principali (1-6), nel comune modo di parlare. È difficile metter un ordine
rigoroso in questi qui enumerati, e far corrispondere n essi esattamente quanto
riassumendo enumera e distingue nel $ 8. Nè c’è rapporto qui con la
discussione fatta nel lib. I intorno all’àgyf in senso metafisico e con
la distinzione delle quattro specie di esso: benchè di queste sia facile
trovar l'equivalente anche nell’enumerazione presente (2, causa finale;
3, c. materiale-formalo; 4, c. efficiente; 5, c. efficiente-finale; 6, c.
formale). C'è, in più, la distinzione tra l’esser il principio intrinseco
o estrinseco alla cosa (così nel $ 8: natura ed elementi son principii
intrinseci; pensiero e deliberazione, estrinseci). Qui, dunque, è. si
potrebbe tradurre con «cominciamento , « inizio o «punto di partenza , «
fondamento , «causa od «occasione
; principii sono anche i «primati» della città (5); anche oggi si parla
di principii nel senso di «rudimenti » , o di «principii logici
»(6); e via dicendo. Il cuore è
la parte principale per A., come per Empedocle e Democrito; il cervello,
per Alemeone, Ippone, Platone. nizio il movimento o mutamento: per es., il
figlio dal padre e dalla madre, la contesa da un’ingiuria ('). Ovvero ciò
dalla cui deliberazione dipende se qualcosa si muove o si muta: per
es., i magistrati nelle città, gli oligarchi, i re, i tiranni; e
principii diconsi in questo senso anche le arti, specialmente quelle che
sovrastano alle altre (*). Inoltre, ciò da cui primieramente una cosa è fatta
conoscibile, anch’esso dicesi suo principio: per es., ciò che vien
premesso nelle dimostrazioni (*). In altrettanti modi si parla di cause,
poichè tutte le cause son principii (*). Ciò ch’è, dunque, comune
a tutti i principii è di esser ciò da cui primieramente una cosa è, o
diviene, o è conosciuta; e di essi alcuni sono insiti nella cosa, altri
esterni. Son principii, quindi, la natura, gli elementi, il pensiero,
la deliberazione, la sostanza e il fine (*): poichè per molte cose
ciò ch’è buono e bello è principio insieme di conoscenza e di
movimento. Causa dicesi, in un senso, ciò di cui una cosa è fatta:
per es., il bronzo di una statua, l’argento di una coppa, e La contesa da un'ingiuria: son parole prese
da un verso di Epicarmo, come risulta da De Gen. An., I. 18. 7242, 29.
Le arti qui chiamate «
architettoniche » sono soprattutto quelle che mirano alla pratica: così
in Ethica Nic., I. 1. 1094 a, 14, Ma anche la filosofia è considerata
così, in rispetto alle altre scienze, in Afet., I. 2, 5 e 12. al irmodéoev sono certamente anche «le
premesse » (Bonitz, Waitz, ece.), come appare dal passo che vien poco
dopo in b, 20 (2, 8). Ma non mi sembrano da escludere qui i principii
(propri e comuni) delle dimostrazioni.
Cfr. IV. 2, 5 (come per erte e uno). Principio e causa sono spesso
sinonimi in A., che unisce anche î due concetti (specialmente per la scienza
dei « principii e cause prime »). Qui principio nel senso del $ 1 non si
potrebbe considerare come cause; ma neppure tutte le cause son principii in
senso metafîsico. Causa accenna meramente a un rapporto tra due fatti,
laddove «principium ordinem quemdam importat » (S. Tom., 761), e accenna
piuttosto alla ragion d'essere di tutta la serie delle cause. (5)
La sostanza e il fine: la frase raccoglie oscuramente le quattro specie
di causalità. (6) Questo capitolo ripete quasi letteralmente il 8°
del libro II della Phys., 2 i loro generi (‘); in un
altro, la specie o esemplare (?), cioè il concetto della pura essenza, ed
i suoi generi (nell’ottava, per es., il rapporto di due a uno, e in
generale il numero), 3 così come le parti di esso concetto. Inoltre, ciò
da cui ha principio immediatamente il mutamento o il suo contrario:
per es., il deliberare è causa dell’agire; il padre, del figlio; e in
generale, chi fa è causa del fatto, ciò che produce un mutamento, di ciò
che muta. d Causa dicesi anche rispetto al fine, ossia ciò per cui si
fa qualcosa: per es., si passeggia per la salute. Diciamo: perchè
passeggia? per acquistar salute; e riteniamo, così rispondendo, di aver
enunciato la causa. Ma così anche per le cose intermedie tra ciò che
muove e il fine: per es., per la salute il dimagrare, il purgarsi, le
medicine o i ferri del medico: le quali cose sono tutte per il fine, e
differiscono tra loro in quanto alcune sono strumenti, altre sono azioni.
5 Si può dire che questi son tutti i sensi in cui si parla di
cause; e poichè i sensi son diversi, ne segue che di una stessa cosa ci
son cause molteplici, non accidentalmente (?): per es., di una statua lo
scultore e il bronzo son cause non per altro rispetto che in quanto è
statua: sebbene non nello stesso modo, ma l’uno come materia, l’altro
come principio del movimento. 6 E ci sono cause reciproche: così,
il lavorare è causa di buona salute, la buona salute del lavorare: ma non
nello dal quale sembra esser stato preso (o posto qui da A. stesso
?). È degno di nota che l’ordine, col quale vengono enumerate le quattro
specie di causalità, non è sempre lo stesso in A., ma varia con la natura
della ricerca. Nel lib. I, cap. 3° della Met. vedemmo enumerata per prima
ìa causa formale, poi la materiale, poi quella motrice e finale. Quì,
ossia nella Fisica, è invertito l'ordine delle prime due. In De Gen. An.
(I. 1. 715 a, 4) precedono la finale e la formale. Negli Ana/. Post. (II.
11. 94 a, 20) comincia dalla formale, e per causa materiale, subito dopo, dà
quel che nella logica ne tiene il luogo, le premesse di un sillogismo
(queste, infatti, son citate qui, al $ 8, tra gli esempi di causa
materiale). In De Somm., (2. 465 b, 16) son prima la finale e la motrice.
I loro generi: v.$ 9 88.
Esemplare: termine platonico,
adoperato qui, con allusione all’arte, per der rilievo a quello di
specie, 0 forma, nel senso della pura essenza. Bon cause proprie: cfr. S 10.
1018 db 140° METAFISICA y stesso modo, perchè l’una è come
fine, l’altra come principio del movimento. Inoltre, una stessa
cosa è causa, talvolta, dei contrari: ciò che, presente, è causa di certa
cosa, talvolta l’accagioniamo, assente, del contrario: per es., del
capovolgimento della nave incolpiamo l’assenza del nocchiero, la cui
presenza era causa di sicurezza: entrambe, la presenza e la privazione,
sono cause rispetto al movimento. Tutte le cause ora menzionate
riguardano i quattro significati più evidenti. Le lettere dell’alfabeto, la
materia delle cose artificiali, il fuoco, la terra e gli altri elementi
dei corpi, le parti del tutto, le premesse della conchiusione, son
cause in quanto sono ciò da cui risulta costituita una cosa; ma
alcune come sostrato (per es., le parti), altre come pura essenza (l’intero
(‘'), la sintesi e la specie). Il seme, il medico, il consigliere, in
generale ciò che produce qualche effetto, son tutte cause nel senso che
da esse ha principio il mutamento o la quiete. Altre sono cause in quanto sono
il bene e il fine delle altre cose, poichè, ciò per cui queste
sono, vuol esser l’ottimo e il loro fine. E non si faccia
differenza qui tra il bene reale e quello apparente (?). Tali e
tante, dunque, son le specie delle cause; e anche i loro modi(*), per
quanto numerosi, si riducono a pochi capi. Parlandosi, infatti, delle
cause in molti modi, anche di quelle d’una stessa specie, alcune son tali
in grado primario, altre secondariamente: causa della salute, ad es., è
«Non la somma delle parti, ma ciò
che s'aggiunge a queste: l’interezza e perfezione » (Aless. 351, 27).
Così, per la sintesî. E però ciò da cui risulta costituita una cosa è da
intendere, non semplicemente come «ciò di cui una cosa è fatta » ($ 1),
ma nel senso del sinolo. Materia e forma son due principiì immanenti in ogni
caso alla natura di una cosa (diversamente dalla causa efficiente e
finale). Il bene reale e quello
apparente muovono ugualmente: «non è necessario che una cosa sia
realmente buona e piacevole perchò si desideri, ma basta che paia »
(Top., VI. 8. 146b, 36). ui Per
ciascuna specie di causalità A. distingue vari modi, dei quali alcuni
sono cause più immediatamente, altri meno. il medico, e anche il pratico
(‘); e dell’ottava è causa il rapporto di due a uno, e anche il numero; e così
sempre ciò che comprende ciascun particolare. Ci sono, inoltre,
cause accidentali (?), e generi di. esse: per es., lo scultore è causa
della statua in un senso; in un altro, la causa è Policleto, perchè lo
scultore, per avventura, è Policleto; e così dicasi dei generi
comprendenti l’accidente: per es., causa della statua è l’uomo, o, più in
generale, l’animale, perchè Policleto è uomo, e l’uomo è animale.
Inoltre, degli accidenti, alcuni son cause più remote, altre più
vicine: come se uno dicesse che causa dellu statua è, non soltanto
Policleto o l’uomo, ma l’esser bianco o musico. E tutte, poi, o che tali
siano propriamente, o per accidente, si dicono cause o perchè hanno la
potenza di agire, o perchè agiscono: per es., della casa che si
costruisce la causa è chi sa costruire, ovvero colui che la costruisce.
Similmente per gli effetti delle cause: ad es., si dirà che una
cosa è causa di questa statua qui, o di una statua, o di un’immagine in
generale, e di questo bronzo qui, o del bronzo o materia in generale (*);
e nello stesso modo per le cause accidentali. E queste si potranno anche
unire a quelle proprie, dicendo, adesempio, non Policleto, nè lo
scultore, ma Policleto lo scultore. E tuttavia tutti questi modi si
riducono a sei di numero, e di ognuno si parla in due sensi. Cause sono o
quanto al Il pratico: 6
teyviuns (termine più generale). Ciascun
particolare (xaî'éxaota): qui «individuo» e «particolare» (e così i
concetti opposti corrispondenti di universale e generico) non sono distinti:
cfr. I. 1, 9, nota. Le precedenti
son cause proprie. Della statua la causa propria è lo scultore, non Policleto
in quanto è semplicemente un individuo umano: tanto meno l’uomo, e tanto
meno ancora l'esser bianco (ch'è un attributo di Pol. in quanto meramente
uomo). Per quest’« accidentalità » generica di uomo rispetto all’ individuo,
cfr. $ 8 del I. 1, ora cit., e nota, Noto qui che ho tradotto
letteralmente sempre povorxés con musico, per comodità di espressione: è
noto che il termine greco vuol indicare anche «chi è educato nelle arti e
nelle scienze», l'uomo «colto », «istruito », ecc. Il bronzo è causa (materiale), « ma qui può
esser preso, non come causa, ma come effetto: ci può essere una causa
metallica che produce il bronzo » (Aless. 353, 17). O, come suggerisce il
Ross, chi lo prepara per lo scultore. 1014 a 142
METAFISICA particolare, o al genere di esso; ovvero quanto
all’accidente, o al genere dell’accidente; ed entrambi i modi o vengono
congiunti insieme, o si considerano separatamente. E tutte, poi, o son
riguardate in atto, o in potenza('). Con questa differenza: che le cause
in atto e quelle particolari sono e vengon meno insieme alle cose di cui
son cause: per es., questo medico curante insieme a costui che sta risanando,
questo costruttore (?) insieme alla casa che si sta costruendo; invece,
non è sempre così per le cause in potenza, perchè insieme con la casa non
perisce il costruttore. CaPITOLO III. Elemento dicesi
quel primo (*) di cui risulta composta una cosa, e la cui specie non è
riducibile ad altra: come, ad es., gli elementi della voce, dei quali
risulta composta la voce, e in cui questa si risolve alla fine; sì che
essi a lor volta Parrebbe che le sei classi
dovessero essere: proprie 0 accidentali, particolari o generali, attuali 0
potenziali. Ma, poichè A, considera le particolari equivalenti alle proprie, si
ha in 9-11: proprie e i loro generi, accidentali e i loro generi, attuali
e potenziali. Qui ha luogo un altro spostamento: 1) particolari (==
proprie), e 2) generalità di esse; 3) accidentali, e 4) generalità di esse; 5)
particolari prese insieme con gli accidenti (lo scultore Policleto), e 6)
generali prese insieme (l’uomo pratico). Aggiungendo il criterio dell'attualità
o potenzialità a tutte sei, diventerebbero 12. Ma: a) l'unione dei primi
quattro modi non è data come necessaria; b) l'attualità non può spettare
alle generalità, e in effetto A. parla qui di cause particolari. Si che,
in conchiusione, il criterio più chiaro della classificazione è quel
primo. Sott. «che sta
costruendo». Nell’esempio bisognerebbe, propriamente, considerare
l’effetto nel processo del diyenire: se no, non c'è bisogno che l’individuo
risanato muoia o la casa costruita rovini, per che îl medico e il costruttore
restino come potenze (di altri effetti). (Ric., a proposito di
‘quest'ultimo, l'istanza del tessitore e dell'abito nel Fedone).
Nel greco è aggiunto «insito»
(8vurdgyovtosìi, che indica il carattere distintivo di elemento
(principii e cause possono non esser insiti). Perciò in XII. 4. 1070b, 22
si chiamano elementi la specie, la privazione e la materia. Cfr. nota a
lib. I. 8, 10. Un altro carattere è dato dall'essere specificamente
indivisibile, sì che la materia si trova negli elementi già in parte
attuata e determinata: così nei c. d. corpi semplici (divisibili
quantitativamente, non qualitativamente: una sillaba, invece, si divide
in lettere qualitativamente diverse). non possono più risolversi in altri di
specie diversa dalla loro, ma, quand’anche vengano divisi, danno luogo a
parti della stessa specie, così come dividendo l’acqua si ha acqua
(non così per la sillaba). Similmente, coloro che parlano degli elementi
dei corpi, intendono ciò in cui si risolvono i corpi alla fine, e che non
è riducibile più ad altro di specie differente: e, o ne ammettano uno solo o
più, questi essi chiamano elementi. Parimenti dicasi degli elementi delle
figure geometriche (') e delle dimostrazioni in generale: le
dimostrazioni prime ed implicite in molte altre, quelle appunto si
chiamano elementi delle dimostrazioni: di tal futta sono i primi
sillogismi (*) risultanti di tre termini, di cui uno è il medio. °
Di qui viene che per metafora si chiami elemento ciò che, essendo uno e
piccolo, può servire a molte cose, sì che anche ciò ch’è piccolo,
semplice e indivisibile si chiama elemento. E di qui viene che si
considerano come elementi le cose più universali, perchè ciascuna di
esse, essendo una e semplice, si trova in molte cose, o in tutte o nel
maggior numero (*): donde, anche, l’unità e il punto sembrano ad alcuni
che sian principii. Ora, poichè i così detti generi sono universali
e indivisibili (chè di essi non si dà definizione), alcuni chiamano
elementi i generi, e più questi che le differenze, perchè il genere è più
universale: infatti, dove c’è la differenza, il genere non manca mai, ma
non sempre dove c’è il genere, c’è anche la differenza. Tutti
questi significati hanno questo in comune: che elemento di ogni cosa è quel
primo che la costituisce. O
«proposizioni », « teoremi », « dimostrazioni », ecc,: efr. III. 3, 2.
Forse «sillogismo» qui vale
ragionamento in generale, e «primi sillogismi» son le figure del sillogismo
propriamente detto. Per il Ross sono «i sillogiemi primari (opposti ai soriti),
aventi soltanto tre termini e un unico medio ». Questi sono universali che hanno ancora
qualche contenuto; quelli son generi sommi, indefinibili (mediante il
genere e la differenza specifica): tali volevan essere l'Uno e l'Ente dei
Pitagorici e dei Platonici (cfr. III. 3). Natura (') si dice, in un
senso, la genesi delle cose che hanno un lor crescimento (come se uno
pronunziasse lungo l’u di quos). In up altro, ciò ch’è primitivo
in una cosa, e da cui questa si svolge (?). In un altro, ciò che
dà il primo movimento a ognuna delle cose naturali, ed è immanente ad
esse in quanto sono quel che sono (°). E diconsi avere un lor
crescimento quante cose aumentano di qualcos’altro per un contatto sì che
le parti siano unite, o aderenti, come negli embrioni, organicamente (*).
Tale unione differisce dal contatto, perchè in questo basta che le
parti si tocchino, mentre in quella c’ è qualcosa d’uno e identico tra l’una e l’altra
parte, che le fa crescere insieme, invece che toccarsi semplicemente, e ne fa
una cosa sola in rispetto alla continuità e quantità, ancorchè non
qualitativamente (5).
L'argomento è trattato, similmente in Phkys., II, 1. A. vuol cavare
l’etimologia di quo da puo, che nella maggior parte dei tempi ha lv lungo.
È dubbio che quos avesse in origine questo significato di yévsau, oltre
quello che anche noi intendiamo per « natura» di una cosa. Forse, come pensa il Bonitz, il seme.
Non estrinseco, dunque, nè
appartenente alla cosa per altra considerazione che l’esser suo proprio (non
così, per es., se uno cade),
(Difficile a tradursi il cuprepuxévar e il mooorepuxévar = aver una
natura in comune, 0 una natura in rapporto con altra, intendendo di
esseri viventi). Il contatto non basta: chò questo può essere, come in un
mucchio «di pietre, un aumento materiale, non un queota: (un crescere nel
senso di svolgimento). Le parti debbono formare un'unità organica; o, se
si tratta di due cose diverse il feto, per es., nel seno della madre),
esser unite vitalmente tra loro. (5) Sembra riferirsi alla diversità
delle parti di un organismo (se non anche all’altro caso accennato, della
simbiosi vera e propria). Un altro punto
un po’ oscuro è quel «qualcos'altro » in principio del paragrafo, che par
accennare al nutrimento: per questo non basta il contatto, certamente;
ina il discorso che segue non sembra più a proposito, perchè, più che la
trasformazione e l’'assorbimento del ‘cibo, riguarda, evidentemente, le parti
di uno stesso organismo o l'unione di due organismi (dove, poi, il
processo di nutrizione, in quanto differisce dal semplice contatto, è lo
stesso). Inoltre, natura dicesi ciò da cui originariamente son costituite
o generate alcune cose naturali, quand’esso sia informe e immutabile
nella potenza che gli è propria: così il bronzo dicesi natura di una
statua o degli utensili di bronzo, il legno di quelli di legno, e via
dicendo: chè da essi vien prodotto ciascuno di questi oggetti, in cui
resta intatta la materia prima ('). E nello stesso modo alcuni chiamano
natura gli elementi delle cose naturali, chi dicendola fuoco, chi
terra, chi aria, chi acqua, chi qualcos'altro simile, chi più d’una
di queste cose, chi tutte insieme. Inoltre, natura vien chiamata, in
altro senso, la sostanza (*) degli esseri naturali, per es., da coloro
che dicono la natura esser la composizione originaria delle cose, ovvero
come Empedocle dice: Niente, di ciò che è, ha una
natura, ma soltanto la mescolanza e separazione delle cose mescolate,
e natura è il nome dato a esse dagli uomini. Perciò, anche, delle
cose che sono o si generano per natura, quand’anche sia presente ciò da
cui naturalmente deriva il loro essere o generarsi, diciamo che non anc ora hanno
la loro natura, finchè non posseggono la specie e la forma.
(AMa 1. 27, con la volgata, ho
omesso il pù: «alcune cose [non] naturali»). Resta intatta la materia prima,
nel senso che il bronzo resta bronzo, anche se con una forma che prima
non aveva (onde, in certo modo, era informe). A. con l’esempio di cose
artificiali vuol dar un’idea della materia in quanto volgarmente è
considerata reale indipendentemente dalla forma: ch’è l’idea da cui
mossero i Fisiologi, studiati nel lib, I. « Dispositiones formae non
salvantur in generatione; una, enim, forma introducitur altera abiecta. Et propter hoc formae videbantur esse quibusdam accidentia, et sola
materia substantia et natura, ut dicitur in 2° Physicorum » (S. Tom., 817). A.
distinguerà, poi, tra materia prima (qui non è in questo senso) e materia
seconda. Sostanza, qui, è
l'essere sostanziale, intimo, delle cose, riguardato dapprima come un cornposto
originario, non quello attuale e immediato: già accennante, così, secondo A.,
al concetto di essenza. Cfr. per Anassagora il lib. I. 8, 10-14. Per
Empedocle, cfr. Diels, fr. 8, dove il passo è riferito integralmente. A.
interpreta la puoars di questi versi empedoclei come « natura permanente ».
Altri, più comunemente, pensano che E. voglia dire che non c'è, in senso
assoluto, generazione o morte di nulla, ma solo mescolarsi e separarsi dei
quattro elementi. Per natura, dunque, ogni cosa risulta di queste due,
materia e forma: per es., gli esseri viventi e le loro parti. E natura è tanto
la materia originaria (e questa di due maniere: o quella ch’è tale in
rispetto a una cosa particolare, o in generale: per es., delle opere in
bronzo è materia originaria (') rispetto a esse il bronzo, ma in generale
è forse l’acqua, se tutto quel che si può liquefare è acqua), quanto la
specie e la sostanza, che è il fine della generazione. E di qui,
per estensione di significato, si dà il nome di natura ad ogni
sostanza in generale, perchè anche la natura è una specie di sostanza
(?). Segue dalle cose dette (*) che natura, nel suo senso primario e
proprio, è la sostanza di quegli esseri che hanno in Se stessi, in quanto
tali, il principio del movimento: poichè la materia si dice natura per la
capacità di ricevere questo principio, e così il generarsi e il crescere
perchè son movimenti che partono di lì. E natura è in questo senso il principio
del movimento degli esseri naturali immanente a essi’ in qualche modo; o
in potenza, o attualmente. CapiToLO V. Necessario
dicesi quello senza del quale, come concausa (‘), non si può vivere: ad
es., il respirare e il cibo sono una cosa necessaria per l’animale: non
se ne può far senza.
Materia originaria (se@tn), in senso generale, qui, è quella del
genere ultimo (primo) di più cose.
Tutto quel che si può fondere o Hanerare è acqua, si dice anche
nel Timeo, 58 d, Quella ch'è
unita alla materia, nel processo del divenire: di qui l’estensione del termine
natura alla sostanza in generale (anche a quelle che son fuori di quel
processo e, come le sostanze puramente intelligibili, prive di materia).
Riassume e conchiude con
l’approfondimento del 3° significato, ch'è il fondamentale. Alessandro (960, 11): « In potenza, come
l’anima nel seme; in atto, quando sia divenuto già un animale: la forma
immanente nella materia (tè Evudoy elbos) è per tutti gli esseri naturali
il principio di quel movimento ch'è la generazione ». cuvattuov: noi diremmo «condizione »
(necessaria, non sufficiente). È una necessità designata altrove come «
ipotetica » (Phys., II. 9. 199 b, 34): tale è anche, per A., la realtà
della materia rispetto alla forma. E quello senza del quale non può
esserci o prodursi il bene, nè si può respingere o evitare il male: il
bere la medicina, ad es., per risanare, e il navigare ad Egina per
esigere il danaro ('). 3 Inoltre, ciò ch'è effetto di violenza e
la violenza (?): cioè, quello che impedisce o contrasta l'inclinazione e
il proposito. Di fatto, ciò ch’è per violenza si dice necessario, e
perciò anche doloroso, come anche Eveno dice: « Poichè ogni cosa
necessaria è molesta di sua natura». E la violenza è una specie di
necessità, come anche Sofocle dice: « Ma la violenza mi fa
necessariamente far ciò ». E la necessità sembra cosa contro cui non val
la persuasione, e giustamente, chè essa è contraria al movimento che si
fa secondo un proposito ragionato. 4 Inoltre, ciò che non può
essere altrimenti diciamo neces ‘ sario che sia così. Anzi, da questo
significato del « necessario» derivano in certo modo tutti gli altri: poichè
allora si dice che uno è forzato a fare o patire di necessità, quando
1016 b non può seguire la sua inclinazione perchè gli è fatta violenza:
chè quella è una necessità per la quale non si può altro. E dicasi lo
stesso per le concause del vivere e del bene: quando non sia possibile nè
il bene, nè il vivere ed esistere senza alcune di. esse, queste sono
necessarie, e la ragione di ciò è, appunto, una specie di necessità.
5 Aggiungi, tra le cose necessarie, la dimostrazione, perchè, se
qualcosa è stato dimostrato assolutamente, non può esser altrimenti; e
causa di ciò son le premesse, dalle quali si fa il sillogismo, se son
tali che non possano esser altrimenti. 6 Delle cose alcune hanno del lor
esser necessarie una causa altra da esse; altre, no: anzi, esse son causa
per cui altre Può darsi che
accenni, come il Christ suppone, a un fatto ricordato in una lettera di
Platone (13*). V. Ross. Per la
fila v. Età. Nic., lib. III. 1, dove il concetto è approfondito: «
forzato (Plavov: l’effetto della violenza) è ciò il cui principio è di
fuori, e tale che, chi opera o chi sopporta, in nulla vi conferisca »
(Cfr. DANTE, Par., IV, 73). E per la xgoalgeo, cap. 26 8: l'impulso,
nell'azione, dev’esser guidato dalla ragione che delibera sul da farsi: donde
il proponimento. Eveno: sofista e poeta,
di Paro, ric. più volte da Piatone.
Sofocle: v. Elettra. sono necessarie. Laonde necessario, nel senso primo
e proprio, è il semplice, perchè questo non può essere in più modi, sì
che non può esser ora in un modo ora in un altro: chè sarebbe, allora,
già in molti modi ('). Se ci sono, dunque, esseri eterni e immobili (?),
nulla c’è per essi di forzato e contro natura. Uno si dice sia per
accidente, sia per se stesso (*). Per accidente, come « Corisco e
musico», e « Corisco musico » : poichè è lo stesso dire « Corisco e musico » e
« Corisco musico». Ovvero: « musico e giusto »; 0: « Corisco musico
e Corisco giusto ». Di tutte queste cose, infatti, l’uno si dice
per accidente: «giusto e musico » perchè accidenti d’una sola sostanza, «
musico e Corisco» perchè il primo è un accidente del secondo. Similmente, in
certo modo, anche « Corisco musico » unito a « Corisco » fa una cosa
sola, perchè in questo discorso c’è una parte ch'è accidente dell’altra:
ossia « musico» di « Corisco ». E così dicasi di « Corisco musico » unito
a «Corisco giusto », perchè entrambi hanno una parte ch’ è accidente
d’una stessa altra (*).
Nota qui (come altrove, 6pesso) l'improvviso passaggio dal pensiero {dove
solo ha un senso la necessità) alle cose. L'impossibilità (la negazione) del
contrario diventa semplicità dell'essere (l’essere in un modo solo), propria di
ciò ch'è eterno (non ora in un modo, ora in un altro). Ma, poi, tra
queste cose rientrano, come qui,tà gta, i principii delle dimostrazioni,
e le pure essenze indivisibili.
Se a immobili si sostituisce immutabili, tra questi esseri (o cose)
eterni ci sono anche i cieli, oltre Dio e le Intelligenze motrici. Anche
in VI. 2. 1026 b, 28 la fila vien messa da parte (riguarda, infatti, l’
Etica) e la necessità posta in opposizione all'accidente. L'uno è qui considerato nelle cose, e insieme
come predicato delle cose ossia riguarda la questione: quando è che le
cose (in sè e nel discorso) hanno unità, o accidentale (1-3), o
essenziale (4-12). La distinzione deriva dal considerarle unite o dalla parte
degli accidenti, o dell'essenza. Poi, si
farà questione dlel concetto in sè e per sè (19-15). Il giudizio qui è coneiderato analiticamente,
anzi verbalisticamente, come accoppiamento di due termini: a) di una
sostanza con un accidente; b) di due accidenti d’una stessa sostanza,
sottintesa; c) di questa sostanza con i due accidenti separatamente
considerati; d) di questa sostanza unita all’accidente con la sostanza
senz'altro. Il caso fondamentale è il primo. Ugualmente se l’accidente si
predichi del genere o di qualche nome universale (‘): si dica, poniamo,
che «uomo > e «uomo musico » è lo stesso: infatti, o si dice così
perchè «musico » è accidente dell’« uomo », ch’è un’unica sostanza;
ovvero, perchè entrambi sono accidenti di qualche individuo, poniamo, di
Corisco (salvo che non gli appartengono entrambi allo stesso modo, ma
l'uno, senza dubbio, come genere e nella sostanza; l’altro, come
proprietà o affezione della sostanza). Questi sono, dunque, i modi in cui
l’uno si dice delle cose per accidente. Invece, di quelle di cui
si dice per se stesse, alcune si dicon così perchè sono continue:
poniamo, a un fascio dà continuità la corda, ai pezzi di legno la colla;
e una linea, se, ancorchè spezzata, sia continua, si dice ch’è una; e
così, anche, ciascuna parte dell’organismo, una gamba o un braccio.
A queste stesse, tuttavia, l’uno si applica meglio se sono continue
naturalmente che se son tali artificialmente. Continuo, poi, si dice ciò
di cui per se stesso il movimento è unico (?), e non può esser diverso;
ed è unico il movimento di ciò in cui esso è indivisibile, e indivisibile
nel tempo. E continuo per sè è ciò che non è uno per contatto
soltanto: che se tu ponessi dei legni l’uno accosto all’altro, non
diresti che facciano nè un legno solo, nè un sol corpo, nè un solo
continuo di altra specie. Ciò che, comunque, è continuo, si dice uno
anche se abbia una piegatura: meglio, tuttavia, se non l’ha: la tibia o
il femore, per es.; più della gamba, perchè il movimento della
Il termine che fa da soggetto nel
giudizio può essere, non un individuo (come nel par. prec.), ma un
genere, o un universale (questo può anche non essere un genere reale, ma
un mero xowvév, come l'uno e l'essere, o un termine negativo, o di
rapporto: cfr. nota a I. 9, 30; VII. 2, 1)
Salvo che, ecc.: dei due accidenti uno è essenziale: cfr. nota a I. 1,
8. Proprietà e affezione (Eku e
xhdog): cfr. nota a I. 5,8.
Cfr. Phys.,V.3-4,in cui si parla più ampiamente del continuo e
dell’unità del movimento. Il passaggio tra i due concetti (che alcuni a
torto rimproverano ad A, di unire insieme) è dato dalla concezione della
natura, dianzi definita come «la sostanza degli esseri che hanno in sè il
principio del movimento », anzîi come «il principio del movimento
immanente a essi. gamba può non esser uno. E la retta è più una di quella
piegata: anzi quella piegata e che fa angolo, la diciamo e non la diciamo
una, perchè il movimento delle sue parti può essere, ma anche non essere,
simultaneo; laddove quello della retta è sempre simultaneo, e nessuna
parte di essa, che abbia grandezza (‘), sta ferma mentre un’altra si
muove, come avviene in' quella piegata. Inoltre, si dice uno, in altro
senso, ciò di cui il sostrato non ha differenze specifiche. E non l’ha in
quelle cose la cui specie sia indivisibile alla sensazione. Tale sostrato
è o quello che si presenta per primo, o l’ultimo rispetto allo stato
finale: poichè e si dice uno il vino e una l’acqua in quanto indivisibili
nella specie; e si dice uno di tutti i liquidi, come dell’olio, del vino, e di
ogni cosa che possa liquefarsi, perchè il sostrato ultimo di essi è lo
stesso, essendo essi tutti acqua o aria. E l’unità si dice anche
per quelle cose di cui unico è il genere pur differenziato dalle opposte
differenze: e tutte queste si dice che sono una cosa sola, perchè unico è
il genere che fa da sostrato alle differenze (per es., cavallo, uomo,
cane hanno qualcosa d’uno, perchè tutti sono animali), e quasi allo
stesso modo come una è la materia (*). Talora, dunque, l’uno si dice così
di queste cose; tal’altra, quando sono le specie infime del loro genere,
si dice che sono una stessa cosa rispetto al genere superiore: al genere,
cioè, ch’è più su del loro: così l’isoscele e l’equilatero sono la stessa
e La linea retta può
roteare soltanto intorno a un punto, che resti immo bile; della spezzata,
uscendo dal piano, anche una parte vera e propria (estesa) può restar
ferma. V. par. prec. Le linee 29-30 hanno un testo incerto, molto
tormentato. E da escludere che A. non conoscesse le regole elementari
della logica ch'egli ha insegnata alla scuola (alcuni commentatori
moderni perdono, talora, questo criterio elementare). Un senso corretto,
dato il testo com'è, sembra questo: quando si tratta delle specie infime
(o generi prossimi all’individuo: cfr. III, 3, 5), la loro unità
(identità) vien riposta, nel comune modo di parlare, talora nel genere
immediatamente superiore (uomo e cavallo hanno in comune l’animalità), talora
in quello ch'è più su (uomo, cavallo, cane, ecc. son tutti ugualmente
esseri viventi): così, dell'isoscele e dello scaleno diciamo che sono
ugualmente figure, anzichò triangoli. unica figura, perchè
triangoli ambedue, ma non gli stessi in quanto triangoli. Inoltre,
uno si dice tutto ciò di cui il concetto che n’esprime la pura essenza
sia indivisibile rispetto (') a un altro esprimente del pari la pura essenza
d’una cosa (chè per se stesso ogni concetto è divisibile). Così, appunto,
una cosa che aumenta o decresce è una, perchè uno è il suo concetto: come
uno è il concetto della specie per le superfici. In generale, uno è
soprattutto ciò la cui intellezione è indivisibile, e la cui pura essenza
si apprende con un atto che non può esser separato nè quanto al tempo, nè
quanto al luogo, nè quanto al discorso (°): tali, soprattutto, sono
le sostanze. Ma, universalmente parlando, diconsi esser una sola le cose
che non ammettono divisione, in quanto non l’ammettono: poniamo, uno è
l’uomo, per le cose che non ammettono divisione in quanto a uomo; uno
l’animale, se non l’ammettono in quanto ad animale; una la grandezza, se
in quanto a grandezza. Dunque, la maggior parte delle cose si
dicono une perchè producono o hanno o patiscono o riguardano
qualcos'altro ch’è uno (*). Ma tali in senso primario diconsi quelle di
cui Il reds della |. 33 è generalmente inteso come «
da »: si tratta, allora, di due nozioni che o sono identiche perchè si
riferiscono alla stessa cosa, o sono specie dello stesso genere
(quest’ultimo caso ripeterebbe quello «del par. prec.). Credo giusta
anche la mia interpretazione: diciamo uno un concetto (sebbene in sè
divisibile) per distinguerlo da un altro: e però, sia che la cosa aumenti o
diminuisca, sia che il concetto ammetta diversità intrinseche (come le varie
specie di superfici), diciamo sempre ch'è lo stesso, L'atto del voùg unifica il molteplice
nell'unità della sostanza, la quale è, così, indivisibile per il luogo
(individui diversi), per il tempo (in cui differisce uno stesso
individuo); indefinibile, nel senso dell’analisi logico-discorsiva. Se alla I. 4 si conserva il ydg (ch’io
ho sostituito col 8é del cod. E), allora il pensiero vien unito più
strettamente al precedente, dove, infatti, io ho usato il singolare
invece del plurale per non indebolire il germe speculativo profondo ch'è in
esso. Ma qui si vede bene che A. guarda, oltre che alla cosa in sè, alle
cose nella loro molteplicità: due o più cose, per quanto diverse per
altri rispetti, possono coincidere in un concetto specifico o generico, o per
la figura. Se anche la 2» parte del par. si volesse intendere nel senso
della 1°, della cosa in sè, allora grandezza potrebbe accennare, anzichè
alla figura, al continuo: conforme alla distinzione nel par. seg. « Plurima sunt, quae dicuntur unum, ex eo
quod faciunt unum: sicut plures homines dicuntur unum, ex hoc quod
trahunt navem. Et etiam dicuntur aliquaà 1016 b 152
MBTAFISIOA ‘una è la sostanza: e questa è una o per continuità, o
per specie, o per il concetto. Infatti, noi contiamo come più di
una le cose che o non sono continue, o di cui non è unica la specie, o
non è unico il concetto. Inoltre, per un rispetto diciamo una ogni cosa
che sia continua per quantità, ma per un altro rispetto non la
di ciamo tale se non formi qualcosa d’intero: non abbia, cioè,
un’unica specie. Così, vedendo le parti di una calzatura, comunque
accozzate insieme, noi non diremmo che sono una cosa sola, in ogni caso
(se non sia per la continuità); sì bene quando siano così disposte da
essere una calzatura ed avere giàuna qualche forma ('). Per ciò, anche,
di tutte le linee la più una è quella circolare, poichè intera e
perfetta. L'essenza dell’uno(*) è quella d’esser un principio del
numero. Poichè la prima misura è un principio: e ciò per cui noi
cominciamo a conoscere ciascun genere di cose, quello è la misura prima
di esso. L’uno è, dunque, principio del conoscibile per ogni genere di cose. Ma
esso non è lo stesso per tutti i generi: qui è il diesis(*), ll la
vocale o la consonante; e altra è l’unità per il peso, altra per il
movimento. unum, ex eo quod unum patiuntur: sicut multi homines
sunt unus populus, ex e0 quod ab uno rege reguntur. Quaedam vero dicuntur
unum ex eo quod habent aliquid unum, sicut multi possessores unius agri
sunt unum in dominio eius. Quaedam etiam dicuntur unum ex hoc quod sunt
aliquid unum: sicut multi homines albi dicuntur unum, quia quilibet eorum
albus est» (S. Tom., 868). Queste cose
si dicon une riferendosi 24 altro ch'è uno. Invece, la distinzione, che
segue, riguarda direttamente le cose per la continuità (4-6), per la
specie (8), per il concetto logicamente considerato 0 nell'atto del vovs
(9-10). Manca l'unità per la materia (7). E il concetto è staccato dalla
specie, con cui pure altre volte coincide (ma specie, qui, equivale a
genere reale, è però il concetto si avvicina più all’universale). Nel concreto è, così, l’unità reale dei due
punti di vista dell'unità: materiale (il continuo) e formale (il concetto).
Si passa alla pura essenza dell'uno:
alla definizione del concetto puro (diremmo noi). Cfr. lib. X. 1, 8 8 8., dove
quanto segue, e gran parte di questo capitolo, è rielaborato con maggiore
chiarezza. (9) Il diesis è l'intervallo minimo in musica: cfr. X. 1,
11-12. Non si scordi che, sebbene qui con qualche inconveniente, ho
tradotto povés con unità, ch'è per noi il termine aritmetico corrente. Il
punto ha una @&éaw, si può localizzare. Ma in ogni caso l’uno è
indivisibile o per la quantità o per la specie. Ora, l’indivisibile nella
quantità (e come quantità) si chiama unità, se è indivisibile in ogni verso e
non ha posto; ma se è indivisibile per ogni verso, e tuttavia
ha. un posto, si chiama punto; se divisibile in una sola
dimensione, linea; se in due, superficie; se in tutte e tre, corpo
(quantitativamerite considerato). E all’inverso, ciò ch’è divisibile in due
dimensioni, è superficie; in una sola, linea; ciò che quantitativamente
non è divisibile per nessun verso, punto e unità: questa non ha posto,
quello sì. Inoltre, l’unità delle cose può essere o per il numero,
o per la specie, o per il genere, o per analogia: c’è unità numerica dove
la materia è unica, specifica quando unico è il concetto, generica quando
lo schema categorico è lo stesso, analogica quando due cose stanno tra
loro come una cosa a un’altra. E i modi precedenti implicano sempre
quelli che vengon dopo: così, dove l’unità è numerica, è anche specifica,
ma dov’è specifica non sempre è numerica; e se è specifica, è anche
generica, ma, se è generica, non però è anche specifica, sì analogica; ma
se analogica, non è generica sempre ('). È poi evidente che le
cose si diranno molte in sensi Opposti a quelli dell’uno: o perchè non hanno
continuità; o perchè hanno una materia (sia la prima o l’ultima) che
si può dividere in varie specie; o perchè sono parecchi i concetti che ne
esprimono la pura essenza (?).
Come bene osserva il Ross, questo paragrafo corrisponde ai $$ 7-10, così
come i precedenti 13-14 a 4-6. Prima, infatti, A. ha distinti quelli che
si possono chiamare i vari gradi di concretezza dell'unità dal punto di vista
quantitativo; qui egli distingue i vari gradi di concretezza dell'unità
dal punto di vista qualitativo. L'unità numerica, infatti, è qui quella
dell’ individuo del tutto determinato, il quale implica in sè tutte le
altre specie di unità. La più astratta di queste è l’analogica, la quale
non è sempre generica, perchè può essere tra generi diversi. Lo schema categorico: nota qui il
termine categoria usato come equivalente a genere (le categorle, infatti, sono
come i generi sommi dei predicati).
La distinzione è in corrispondenza è quella dell’unità essenziale
delle cose. Essere (') si dice di una cosa o per accidente, o in
sè. 1 Per accidente (*): se diciamo, per es., che «il
giusto è 2 musico », 0 che « l’uomo è musico», oche « îl musico è
uomo »; in senso simile a quello in cui si direbbe che il musico
costruisce una casa, perchè a chi la costruisce accade d’esser musico, o
al musico di esser un costruttore. Dire, infatti, », «l’intera acqua»,
salvo che per traslato. E per il plurale di tutto (*), quando delle cose
con- 6 siderate come unità si dice tutto, di esse si dice tutte
considerandole come divise: « tutto questo numero », «tutte queste unità
». LI CapitoLo XXVII. Mutilato (*) non
si dice in tutti i casi d’una cosa fornita 1 di quantità: dev'essere e
divisibile e un intero. Infatti, non diciamo d’aver mutilato il due, se
gli togliamo una delle due unità (la parte mutilata nom può esser mai
uguale alla rimanente), nè diciamo così in generale per nessun numero.
Bisogna che la sostanza rimanga: se si tratta di una coppa, dev’essere
ancora coppa. Invece, il numero non è più lo Stesso. E non hasta neppure
che una cosa sia composta di parti dissimili, poichè il numero può avere
anch’esso parti dissimili: il due e il tre, per es. (‘). Anzi, in
generale, delle cose per le quali la situazione delle parti è
indifferente, come per l’acqua o il fuoco, nessuna può esser mutilata:
per esser tali, bisogna che le parti abbiano una situazione sostanziale.
Inoltre, che sian continue: chè l’armonia consta, bensì, di parti
dissimili, le quali hanno una ior situazione, ma non perciò può venir
mutilata. E neppur tutte le cose intere di- 2 La figura in cera.
aévra. Qui l'unità è totalità
come somma. (9) xo4ofiév: il concetto, qui, è quello che noi opponiamo
all’#Xov inteso come «integrità », specialmente di un organismo.
Il due e il tre, nel cinque (==
2-|--3, oppure 3-+-2). LS) VI LIBRO
QUINTO 183 ventan mutilate col privarle di una qualunque parte.
Bisogna che questa parte non sia la principale per la sostanza (');
nè è indifferente chesi prenda di qua o di Jà: per es., se la coppa ha un
buco, non perciò si dice mutilata, ma se si asporta il manico o un
pezzetto dell’orlo. Nè si dice mutilato un uomo se gli si levi un po’ di
carne o la milza, ma un’estremità; e neppure una qualunque, bensì una che
asportata per intero non cresce più: perciò i calvi non si chiamano
mutilati. Genere si dice, in un senso, se sia continua la generazione
di esseri aventi la stessa specie: diciamo, ad es., « finchè duri il
genere umano », per dire «finchè continui la generazione degli uomini». In un
altro, è quello di una gente venuta all'essere da un lor primo genitore:
e così si parla del genere degli Elleni e degli Ioni, perchè quelli
vengono dal progenitore Elleno, questi da Ione. E i discendenti prendon
nome piuttosto dal genitore, che dalla materia (?): benchè prendan nome
anche dalla femmina, per es. quei di Pirra. Genere, inoltre, è come il
piano per le figure piane, il solido per le solide: poichè ogni figura è
un piano di questa specie, un solido di questa specie. Genere è qui il
sostrato delle differenze. Inoltre, genere è il primo elemento costitutivo
del concetto, che si enuncia nell’essenza (*), di cui chiamansi
differenze le qualità. Genere, dunque, è usato in tutti questi sensi: per
la generazione continua di esseri della stessa specie; per il principio
generatore di esseri somiglianti; in un senso affine alla materia (‘):
poichè ciò di cui son proprie la dif Come la testa per un
animale. Dalla materia (cfr.
VIII. 4, 4), la quale è fornita, nella generazione, dalla femmina.
Nella definizione. In un senso affine alla materia è il genere
inteso come sostrato delle qualità specifiche differenziali (reale e
concettuale: solito passaggio dall'oggetto al pensiero, e viceversa: di
qui l’unificazione dei sensi dati in 3 e 4: ferenza e la qualità, è appunto
quel sostrato che chiamiamo materia. Diverse di genere sidicono
quelle cose di cui diverso è il sostrato primo ('), e l'una non si
risolve nell’altra, nè tutte due nello stesso (la forma, ad es., e la
materia sono diverse per il genere); e quelle di cui si parla secondo
una diversa figura delle categorie dell’essere (le une significano
l'essenza delle cose, altre una qualità, altre come s’è distinto dianzi): chè
neanche queste si risolvono le une nelle altre, nè in qualcosa di
unico. Il «falso » dicesi, in un modo, come cosa che è falsa (*); e
questo o perchè la cosa non risulta così composta, o perchè è impossibile
che si componga così: per es., se si dica che Sostrato primo è quello immediato, se si
pensa, ad cs., a ciò che può liquefarsi (acqua), e a ciò che ha un
sostrato solido (terra). Ma l’interpretazione non è sicura. Nello stesso: può esser inteso come «cosa» o
come «concetto »: nel 1° senso riguarda i! sostrato, e chiarisce quel che
precede; nel 2° chiarisce la parentesi, e quel che segue ‘i diversi
significati, o concetti, dell'essere nelle categorie). S'è distinto dianzi: cap. 7, 4. ; Per A., altrove, vero e falso son nel
pensiero, non nelle cose; e il pensiero è che unisce e divide (distingue)
i concetti giudicando (affermando o negando la convenienza del predicato
al soggetto): cfr. VI. 4, 3-4: IX. 10, 1 s8.
L'ordine de' pensieri in proposito sembra dover esser questo. A.
parte da un realismo ingenuo, ch'è anche un ingenuo idealismo: realtà e
pensiero si condizionano reciprocamente, identificandosi e distinguendosi
insieme, come segue: ca) Si comincia col porre il pensiero nelle cose, e
si parla di cose vere e di cose false. Una prima riflessione avverte che
il vero e falso è nel pensiero, non nelle cose, e distingue perciò il
pensiero dalle cose. Queste, allora, al sicuro da quel pensiero che può esser
falso oltre che vero, restano con una loro realtà ch'è insieme la loro
verità (eterna e immutabile nella pura essenza, contingente per quel che
di questa si traduce nella realtà in movimento). b) Il pensiero è vero 0
falso secondo che riflette in sè la realtà, o meno, delle cose. Ma nna prima
riflessione avverte che non sono le cose a determinare la verità o falsità del
pensiero: poichè tanto dell’essere quanto del non-essere si può pensare
il vero e il falso (IV. 7, 2). Vero e falso sono, allora, caratteri del
pensiero in sè e per sè: vero è il pensiero ch'è coerente con se stesso,
falso il pensiero incoerente. Un cerchio è cerchio, nel mio pensiero che
lo definisce, in quanto lo distinguo dal triangolo: confonder questo con
quello è contraddire a quanto e’è definito.Ma, poichè il \i
LIBRO QUINTO 185 la diagonale è commensurabile, o che tu
stai seduto: di queste due, l’una è sempre falsa, l’altra talvolta. Dette
così, queste cose non esistono. In altri casi, esistono bensi le
cose, ma di tal natura da apparire o quali non sono, o quali non
esistono: la prospettiva dipinta, ad es., e i sogni: cose, queste, che
hanno bensì una loro realtà, ma non quella di cui producono in noi l’immagine.
Le cose, dunque, si dicono false, in questo modo: o perchè non esistono,
o perchè l’immagine che producono è di cosa che non esiste. ‘ Un
concetto falso è quello che, in quanto falso, è di cose che non sono.
Perchè ogni concetto è falso se riferito a cosa diversa da quella di cui
è vero: per es., il concetto del cerchio è falso del triangolo. In un senso,
c’è un concetto unico di ogni cosa, quello della pura essenza; in un
altro i concetti sono molti, poichè la cosa da sè e la cosa con
un’affezione è in certo modo la stessa cosa: per es., Socrate e
Socrate musico ('). Il concetto falso, assolutamente parlando, è concetto
di nulla. Perciò era abbastanza sciocca l’opinione di Antistene che di
nulla si possa parlare salvo che col suo proprio concetto, unico per
un’unica cosa: donde seguiva che non è possibile contraddire, e quasi
neppure dir il falso. pensiero è per se stesso coerenza e
logicità, esso, in Sè e per sè, è sempre vero: d’una verità eterna,
immutabile, come quella della pura essenza (indivisibile), e insieme
discorsiva, per quel che di essa si traduce nel processo del conoscere e
del sapere (nella logica dei concetti). Questo è il rapporto tra il n0vs
(sempre vero) e la dianoia (vera o falsa): tra il concetto nella sun pura
unità e intrinseca intelligibilità, e il concetto che si esplica nella
molteplicità dei concetti e delle opinioni. c) Il pensiero falso è un
non-pensiero in rapporto a quel pensiero ch'è sempre vero. E tuttavia esso ha,
e deve avere, una sua realtà, in quel pensiero che in tanto può affermare
il vero in quanto c'è il falso da negare. Donde, allora, la realtà di
questo pensiero-falso ? Donde questa decadenza del pensiero nel falso?
Pare che la soluzione debba trovarsi in qualcosa di estraneo e tuttavia
legato al pensiero: nella volontà dell’:como. Il Sofista rappresenta
questo difetto del pensiero ch'è anche un difetto morale (l'ambizione, il
guadagno, ece.: efr. «il tenore di vita» in IV. 2, 14). La vicinanza al pensiero platonico è
evidente: specialmente con le indagini del Teeteto e del Sofista. La cosa nell’unità colta dal nous, e la cosa
nella molteplicità delle sue categorie (dianoia). L'opinione di Antistene, con
quell’unità-identità del concetto-nome, era ben lontana dalla dottrine su
esposta di A.: essa rendeva impos‘ sibile la logica dianoetica, e riduceva
quella noetica a mero nominalismo. 1025 a 186
METAFISICA Invece, di ciascuna cosa si può parlare non soltanto
col conceito di essa, ma anche con quello di altra: anche del tutto
falsamente, senza dubbio, ma anche in modo conforme a verità: l’otto,
poniamo, dico ch’è doppio perchè ho il concetto del due. Queste
cose, dunque, si dicono false così. Falso, poi, si dice un uomo che abbia
abilità e predilezione per simili discorsi per nessun'altra ragione che per
discorrere così; e chi è capace di produrli in altri, a quel modo che
diciamo false anche le cose che producono in noi immagini false.
Perciò nell’ Ippia (') quel ragionamento, che vuol] provare come
uno stesso uomo è falso e vero, conduce fuori di strada: perchè dà
come falso chi ha la capacità di dir il falso, ch’è, poi, colui che sa ed
è sapiente; e aggiunge ch’è migliore chi è cattivo volontariamente.
Questa è la conseguenza di una falsa induzione: chi zoppica
volontariamente è migliore di chi zoppica per forza: intendendo per
zoppicare l’imitare lo zoppo; ma se uno fosse zoppo volontariamente, egli
sarebbe forse peggiore, qui, come in cose riguardanti il costume.
CapitoLo XXX. Accidente (?) significa ciò che appartiene a
qualcosa e può esser detto con verità, ma non necessariamente, nè per
lo più: come se uno scavando un fosso per una pianta trovasse un
tesoro. Questo, di trovare un tesoro, è davvero un accidente per chi scava un
fosso: non è una cosa che consegua necessariamente dall’altra o dopo l’altra,
nè chi pianta un albero trova per lo più un tesoro. E chi ha l’abilità di
suonare può esser bianco, ma poichè ciò non avviene di necessità, nè per lo
più, diciamo ch’è un accidente. Di maniera Ippia minore, 365 ss. Platone erra, dunque:
@) non distinguendo la potenza dall'atto di mentire; è) reputando migliore chi
erra volontariamente. Per quest'ultimo punto, cfr. Eth. Nic. che, poichè
si danno tali appartenenze, e appartengono a qualcosa, e alcune di esse
solo in certi luoghi e tempi, sarà un accidente ciò che appartiene,
bensì, a qualcosa, ma non perchè è questa tal cosa, ed è qui e ora(').
Dell’accidente non c’è nessuna causa determinata, ma è a caso, e
questo è indeterminato. È accaduto a qualcuno di arrivare ad Egina,
il quale non era partito per arrivare colà, ma cacciato dalla tempesta o
preso dai corsari. L’accidente avvenne, di certo, e realmente, ma non per
causa di se stesso, bensì in causa di altro: perchè la tempesta fu causa
che quegli arrivasse dove non era diretto, cioè ad Egina.
Accidente, poi, dicesi anche in altro modo: di tutte quelle proprietà, ad
es., che sono di una cosa per se stessa considerata, ma non appartengono alla
sua sostanza (*): per esempio, appartiene al triangolo di avere gli angoli
uguali a due retti. Questi accidenti posson essere eterni; di
quegli altri, invece, nessuno: abbiam parlato di ciò altrove.
Ed è qui e ora: come
l’appartenere a qualcosa non individua la sostanza di questa tal cosa,
così l’appartenere in certi luoghi e tempi non dà ragione dell'attualità di
essa. Alla sua sostanza, o
definizione: per es., del triangolo: sebbene ne derivino. È compito della
scienza, infatti, dimostrare, poi, le proprietà (accidentali, ma in entrambi i
sensi: tà aédn xal tà xa” autà cvpfefinxéta) del proprio oggetto di
studio: cfr. Anal. Post., I. 1. 75b, 1.
Abbiam parlato di ciò altrove: pare riferirsi ad Anal. Post. Quel
che qui si cerca sono i principii e le cause degli esseri: s'intende, in
quanto sono. Poichè c’è pure una causa della salute e del benessere, e
anche le entità matematiche hanno principii, elementi e cause: in
generale, anzi, ogni scienza di ragionamento, o che del ragionamento si
serva almeno in parte('), versa intorno alle cause e ai principii,
pur con più o meno di esattezza e semplicità (?). Ma tutte queste scienze
son circoscritte a un ente e genere particolare, e di esso soltanto trattano,
nè fan nessuna parola di ciò che è l’essere semplicemente: nè di ciò che
è l’ente in quanto tale, nè dell'essenza. Invece, le une dichiarando
il loro oggetto per mezzo del senso, e le altre (*) stabilendone
per mezzo di ipotesi la definizione, dimostrano, più o meno debolmente,
più o meno rigorosamente, le proprietà del genere preso in considerazione. È
dunque evidente che da un «
Videtur A. ambitum scientiae latius extendere voluisse, ut ne eae quidem
doctrinae excludantur, quae ab usu et experientia magis quam a cognitione
et notione suspensae sint»: Bonitz (p. 280). Esattezza e semplicità corrispondono al
«rigorosamente » e « debolmente » del paragrafo seguente. «Semplicità»,
qui, vale « mancanza di approfondimento e di distinzione » (le cose così
come si presentano immediatamente): cfr. I. 5, 22. Poco dopo, «
semplicemente » vale, invece, « assolutamente ». (9) Le une... le altre:
le fisiche e le matematiche.tal metodo induttivo (') non si può aver
dimostrazione nè della sostanza nè dell’essenza, ma per esse ha da
esserci un’altra specie di conoscenza che le chiarisca. Per la
stessa ragione non dicon nulla se il genere preso a trattare esiste
o non esiste: poichè appartiene alla stessa facoltà del pensiero il mettere in
chiaro tanto l’essenza quanto l’esistenza (°). Ma in quanto anche la
scienza fisica (°) versa intorno a un genere dell’essere (la sostanza
ch’essa studia è quella che ha in sè il principio del movimento e
dell’inerzia), è chiaro ch’essa non riguarda nè l’agire nè il produrre
(‘). La frase pare
interpolata al Christ. Il riferimento par che sia Alle scienze fisiche,
come quelle che trattano della sostanza ed essenza reale, assumendola
nella materia sensibile. Di essa non posson dare dimostrazione, appunto
perchè agegunta per principio (dàuno dimostrazione delle qualità e proprietà
dell’oggetto). Il Metafisico, neanche lui, dimostra nel senso della dimostrazione,
che parte da principii per arrivare a certe conchiusioni. Essa, infatti,
è la scienza dei principii stessi, 6 però anapodittica: non nel senso
dogmatico, ma in quanto si serve «di un'altra specie di conoscenza », che
« chiarisce » speculativamente quei principii riconducendoli ai principii
primi, anzi al principio primo, ch’è l’essere în quanto essere.
Principii primi sono le quattro cause, discusse nel lib. I; ovvero, materia
e forma, potenza e atto, che verranno studiati nei libri VII-IX, e
ricondotti a quello della forma, o dell’atto (in sè e per sè: all’atto
puro, come principio trascendente, nel lib. XII). Ovvero, le categorie e
gli altri concetti fondamentali întorno all’essere, esposti nel lib. V.,
Principii primi sono anche, per il pensiero discorsivo, gli assiomi, di
cui il primo è quello di non-contraddizione, come si vide nel lib, IV.
Dal punto di vista gnoseologico, principii primi sono il singolare e gli
universali, e la loro fonte è il voùs (come principio anche dell’ato&mors:
cfr. note al. 1,409, 34)
Nell'’ordine della scienza empirica A. distingue la conoscenza
dell'&, da quella del &uéti, facendo poi coincidere con
quest’ultima quella del tL èotw: efr. Anal. Post., II. 1. 89Db, 24; 2. 90
a, 14 (e qui stesso al lib. I. 1, 11). Non si dia, tuttavia, un senso
troppo moderno alla distinzione (di un contrasto tra pensiero ed
esistenza reale delle cose): l’esistenza implica già l'essenza, come il
singolare l’universale, nell'atto della percezione (immediata); e l’essenza,
se non vuol esser un xowév, si traduce nell'esistenza (immediatamente):
la pura 6ssenzea è sempre un tébde tr. Nell’8v fi 6v, poi, essenza ed
esistenza s’identificano (perchè la sua universalità è anche necessità).
Anche di qui si vede l'interesse
maggiore che A. ha per la fisica, più che per la matematica: il confine,
in fatti, tra alcune sue trattazioni di fisica e altre di metafisica non
è sempre chiaro. L'agire... il
produrre: v. la differenza in Eth. Nic., VI. 4; e nota a I.1,16. In entrambi,
tuttavia, il principio è in noi (per la produzione: o l'intelligenza, il
pensiero razionale, o questo unito a un certo abito o potenza naturale;
per l’azione è l’Seskw, che congiunta con la ragione si fa agoalpsois:
cfr. Eth. Nic., LIBRO SESTO 191 Poichè il principio
della produzione è in chi produce: o l’intelligenza, o l’arte, o altra potenza;
il principio dell’azione è in chi agisce, ed è il proponimento (potendosi
tradurre in azione soltanto ciò che ci si può proporre). Per cui, se ogni
ragionamento è fatto o per l’agire o per il produrre, ovvero riguarda la
pura speculazione, la Fisica sarà una scienza speculativa, ma speculativa
di un essere tale che ha la potenza di muoversi, e della sostanza tratta
soltanto secondo nozioni che valgono per lo più, non separata dalla
materia (')., Si badi di non ignorare il modo di essere della pura
essenza e del concetto, perchè, senza di ciò, è tempo perso ogni ricerca.
Delle definizioni e delle essenze alcune sono come quella di « camuso »
(?), altre come quella di « curvo », i quali differiscono in questo, che
in camuso è compresa sempre la materia (camuso diciamo un naso che ha una
certa curva), la curvità, invece, è compresa senza materia sensibile.
Se, quindi, tutti gli oggetti della fisica s'intendono similmente a
camuso (ad es., naso occhio fisionomia carne osso, animale in somma;
ovvero, foglia radice scorza, pianta in somma: tutte cose in cui non si
può prescindere dal movimento, anzi neppure sono mai senza materia) è già con ciò chiarito il modo in cui
il fisico deve ricercare e definire l’essenza delle cose; e perchè sia
ufficio suo lo speculare anche intorno a un genere di anima, a quello che non
esiste senza la materia (*). Che dunque la fisica sia una scienza
speculativa, è evidente. Ma scienza speculativa è anche la matematica: se
i III. 3); laddove il principio del movimento
studiato dalla fisica è nella sostanza naturale delle cose. Alle Il. 22 e 23 è opportuna la correzione
proposta dal Bonitz, attuata dal Ross, di rountov e rgaxtov invece di
romtimov e reaxtiNbv. Il «per lo
più» è proprio delle cose fornite di materia, come si dirà fra poco; e
«ogni scienza è o di ciò ch'è sempre o di ciò ch'è per lo più» (2, 12).
Mapotengo, dunque, la mia interpretazione (Bonitz, seguendo Aless.: « tratta
della sostanza per lo più come forma piuttosto che come materia, solo che
non come forma che possa esistere separata dalla materia»; Ross: «tratta
della sostanza nel senso della forma per lo più unicamente come inseparabile
dalla materia»). Camuso: v. VII.
5. Senza materia sensibile: i. e. con
materia soltanto intelligibile (6. vonti: qui, l'estensione pura). Non esiste senza materia l’anima, salvo il
vovs, che non ha nessun organo corporeo (De An., suoi oggetti siano
immobili ed abbiano esistenza separata, non abbiamo tuttavia ancora
chiarito ('). Per ora si può ammettere come chiaro questo, che alcune delle
scienze matematiche considerano i loro oggetti in quanto immobili e separabili.
Ma se qualcosa esiste di eterno immobile e separato, non è dubbio che la
conoscenza di esso appartiene a una scienza speculativa, la quale non
sarà certamente la fisica (che riguarda soltanto alcune cose mobili), e
neppure la matematica, ma una scienza superiore ad entrambe. Infatti la
fisica studia ciò che esiste separatamente , ma non è immobile; delle
matematiche alcune studiano, invece, ciò che è immobile, ma non separato
in fine perchè esiste nella materia. Soltanto la scienza che è prima studia ciò
che è separato e immobile. E se tutte le cause sono necessariamente
eterne (*), queste lo saranno soprattutto, perchè esse sono causa di
quelli tra gli enti divini che risplendono nel cielo. Le scienze
filosofico-speculative son dunque tre: la matematica, la fisica, la teologia
(‘). Non è dubbio che, se il divino esiste, esso si trova in una natura
quale s’è detta dianzi, e la scienza onorevolissima deve esser questa che
ha V.libri XIII e XIV, e
per quel che segue, quanto alla matematica, XIII. 2-4. Le matematiche
pure studiano oggetti immobili: ricorda in III. 2, 18, dove tra le
scienze matematiche vengon citate l'astronomia, l'ottica e l’armonica (che
son più vicine alla fisica); e per la distinzione e gerarchia delle varie
scienze matematiche, v. IV. 2, 7 (la metafisica sta alla fisica come la
matematica pura a quella applicata). La fisica studia ciò che esiste
separatamente, odolar, delle quali mostra (dimostra) le qualità e
proprietà (queste, invece, non esistono separatamente: i. @., non hanno
una propria esistenza). Alla |. 14 i codici dànno aybguota (e allora: la
fisica studia «ciò che non esiste separato », i. e. la forma nella materia,
ece.); la correzione, in ywguotd, proposta dallo Schwegler e accettata
dal Christ, dù maggior simmetria al rapporto tra fisica matematica e
teologia. Non si scordi che
yxwguotév è una forma comune a due concetti per noi molto diversi: il
separabile e il separato.
Intendi, le cause prime, i principii in generale, reali o ideali: queste
(Dio e le Intelligenze motrici) sono cause reali, e però eterne a muggior
diritto ancora dei cieli (che son cause seconde) pur eterni. Su le ragioni del nome (già in Platone, Rep.,
II, 379 a) e su la superiorità della filosofia, cfr. anche I. 2. Se il
divino esiste: il tono è, ovviamente, tutt'altro che dubitativo.
LIBRO SESTO 193 l’oggetto più onorevole. E come le scienze
speculative son da preferire alle altre scienze, così questa tra le speculative.
Qualcuno potrebbe domandare se la « filosofia prima» è universale,
ovvero se versa intorno a un genere determinato e a un’unica natura di
esseri (‘). Dicemmo (in nota a IV. 1, 1) che
dell’essere in quanto essere, oggetto della metafisica, si danno in A.
due significati principali: l’uno in riguardo piuttosto alla realtà delle coso
che sono oggetto del pensiéro, l’altro in riguardo piuttosto al pensiero
che le pensa. Per il primo rispetto, studiare l'essere in quanto essere,
è studiare i principii e cause prime ci tutto ciò ch’esiste, e in primo
luogo quell’ Essere primo ch'è indipendente dalla natura e sottratto a
ogni forma del divenire. Onde la metafisica vien qui definita @e0%40yuxf) (6 6,
e nel passo corrispondente del lib. XI. 7, 7); e già nel lib, I. 2, 20
vedemmo dare a questa scienza il titolo di «divina», nel duplice senso,
ch'è iù degna di Dio, e ch’è del divino nel mondo. Di qui, anche, veniva
accennata la superiorità di essa alle altre scienze e conobcenze in
generale, le quali non arrivano a porsi in quella purezza, dignità e
autonomia, ch’ è propria del sapere filosofico. In questo capitolo
viene introdotta per la prima volta una distinzione netta tra le scienze
poietiche come le arti, quelle pratiche come l'etica, e quelle che sono
puramente teoretiche. La distinzione, mentre eleva le matematiche e fisiche
al novero delle scienze teoretiche, determina la differenza tra esse e la
metafisica più chiaramente in riguardo al genero de' loro oggetti. Dio è
separato, esiste indipendentemente dalla quos; e così anche le
Intelligenze motrici: il divino (si vedrà nel lib, XII) forma come
un'altra « natura» o « usia ». La fisica studia esseri che hanno
un'esistenza propria, ma non sottratti al movimento; la matematica studia
esseri immobili, considerati separatamente, ma per astrazione, in realtà
non esistenti separatamente. Soltanto la teologia studia esseri separati
e immobili: e la perfezione di questi è ciò che dà la superiorità della
metafisica su le altre scienze teoretiche. Una riflessione, non
più teologica e oggettiva nel senso or detto, sul principio primo di
tutti i principii, ma conforme al secondo modo di considerare l'oggetto
della metafisica, mira piuttosto al lato formale delle cose. Dio è pura
forma; ma anche le cose sono in se stesse quel che sono per la forma
pura, indipendentemente dalla materia a cui questa è unita nel sinolo. Questa
non è «separata », ma è bene «separabile», nel senso che, pur non
esistendo separatamente (contro' il platonismo, a cui la precedente
affermazione può condurre), tuttavia il suo essere, in sè e per sè, non
dipende dalla materia (è la pura essenza, o intelligi-. bilità pura,
delle cose). Qui, la differenza tra la metafisica e le altre scienze gi
presenta in altro aspetto. La fisica studia, bensì, anch'essa, ciò ch'è
separabile (la forma), ma non fuori della materia, onde le sue nozioni
non hanno vera universalità, perchè la materia, com'è causa della divisione dei
generi nelle cose, così impedisce che l’universale si realizzi nella sua
assolutezza. La matematica, poi, studia bensì le cose da un punto di
vista formale; ma questo è il risultato di un'astrazione posteriore alla
realtà delle cose (XIII. 3), mentre l'astrazione del metafisico vuol
cogliere il medtegov concreto di esse (XIII. 2, 12), il loro a priori
puro (VII. 1, 4; 3, 10; 17, 8-10; VIII. 3, 3-4). Di qui, anche: soltanto
la metafisica studia l’essere &xA@g ($$ 1-2). Le fisiche Anche nelle
scienze matematiche, infatti, c’ è diversità: la geometria e l’astronomia
studiano oggetti di una particolare natura, e c’ è una scienza matematica
universale comune a tutte. Se, dunque, non ci fosse nessun’altra sostanza
fuori di quelle formate dalla natura, la fisica sarebbe la prima di
tutte le scienze. Ma se c’è una sostanza immobile, essa sarà superiore alle
altre, e la scienza di essa sarà la prima filosofia, la quale, essendo la
prima, è universale, in questo senso. Essa avrà il compito di speculare
intorno all'essere in quanto essere: la sua essenza, cioè, e le
determinazioni che, in quanto essere, gli appartengono. matematiche
non hanno quest'assolutezza, perchò non considerano le cose per la pura
ossenza, ma quel che sono per la conoscenza sensibile (le fisiche), o per
In quantità soltanto (le matematiche), della quale formano concetti e
definizioni che hanno soltanto tale esistenza ipotetica: in entrambi i
casi non trattano di quel ch’ò il principio primo dell'esistenza di tutto
ciò che dè. In conchiusione, s01tanto l'oggetto della metafisica ha veramente i
caratteri dell’universalità e necessità: chò le altre scienze son circoscritte
a un genere particolare di cose (IV. 1), e di esso studiano gli
accitlenti qualitativi o quantitativi, con quell'esattezza e profondità,
maggiore o minore, ch'è possibile secondo i vari genori di cose e de’
loro accidenti: assoluta, non mai. Il teologismo della prima concezione
è d'ispirazione schiettamente platonica: la seconda è orientata verso un
concetto dell'essere analogo a quello del trascendentale moderno, e, comunque,
criticamente definito. Una terza concezione risulta dall’ interferenza
delle prime due: il principio formale della seconda si abbassa al
realismo della prima, e nello stesso tempo il realismo «i questa scopre
nel fondo stesso delle cose un principio ideale come in quella (ch'è
ancora uno sviluppo dell’ultimo Platone). La realtà più vera e profonda
delle cose non è quella corporea, di cui trattano le scienze fisiche e
matematiche (0 come i Presocratici considerarono la natura); ma è la forma che
si realizza nell'universo in una molteplicità e gradualità di forme, o
pure essenze. E sarà dell'oggetto della metafisica come di quello delle
altre scienze, per es. delle matematiche: esso avrà parti, ordinate
gerarchicamente in ragione della purezza, maggiore o minore, che ha la
forma ne’ vari gradi del suo svolgimento attraverso le cose (efr. anche
IV. 2, 4 e 7). Così è anche delle parti dell'anima, il cui sviluppo va da
quella più legata al corpo sino a quel Nous, ch'è principio e fine
dell'essere nella sua pura immaterialità e perfetta intelligibilità.
In quest'ultimo paragrafo A. sembra avvertire le difficoltà di tale
interferenza: l'oggetto della metafisica differisce da quello delle altre
scienze perchò di un genere diverso? Come, allora, la metafisica è una
scienza universale? E il principio formate è unico 0 molteplice? Glì esseri non
hanno un'unica natura. Ma, Be è molteplice, non rischia, l'essere in
quanto essere, di ridursi a un xowévy, 2 una mera astrazione? Per la
soluzione di queste difficoltà, v. nota a VII. 11, 11. ro
DI Dell’essere semplicemente detto si parla in molti sensi.
Di questi uno si disse (') che era quello di accidente, un altro quello
di vero (e di falso, per il non-essere). Oltre di questi, ci sono le
forme o figure dell’essere come categoria: ciò che è una cosa, quale,
quanto, dove, quando, e se altri significati ci sono, dell’essere in.
questo modo. Non basta: l'essere si dice anche o in potenza o in atto.
Dicendosi, dunque, in molti sensi, cominciamo da quello di
accidente, per mostrare che di esso non ci può essere scienza. Già un
indizio di ciò si ha nel fatto che nessuna scienza, nè pratica nè
poietica nè teoretica, si cura di esso. Chi fabbrica una casa, non fa
insieme nulla di ciò che alla casa può accadere poi: gli accidenti sono
infiniti: nulla vieta che la casa fatta sia piacevole agli uni, incomoda
per altri, ad altri invece sia utile, ed abbia, insomma, quelle
differenze che ha ogni cosa nel mondo: ma niente di tutto ciò
riguarda l’arte di fabbricare. Parimenti, neanche il geometra
studia simili accidenti delle figure, nè se un triangolo è diverso
dall'altro, pur che la somma degli angoli sia di due retti (?). Ed è
giusto che così avvenga, perchè l’accidente è poco più che un nome
soltanto. Per ciò Platone (*) in certo modo non a torto assegnò alla
Sofistica per oggetto il non-essere: chè i discorsi dei Sofisti quasi
sempre, si può dire, versano intorno all’accidente. Ad es.: se sia la stessa
cosa o diversa Cfr. V. 7. Due interpretazioni sono state date: 1)
quella di Alessandro (alla quale si avvicina la mia): il geometra non
cura se il triangolo da lui definito, come quella tal figura geometrica
che ha gli angoli uguali a due retti, è lo stesso di un triangolo di
legno, di pietra, ecc.; 2) quella avanzata dallo Schwegler e difesa dal
Ross: il geometra non cura questioni, come quelle che fanno i Sofisti,
per es., se dir triangolo e dir triangolo di cui la somma degli angoli è uguale
a due retti sia lo stesso, o no (il Sofista, infatti, se si risponde di
sì, sostituisce alla prima parola la dicitura seguente, e così sempre,
all'infinito). Questa seconda è più fedele alla lettera del testo, la
prima è più conforme al pensiero svolto nel paragrafo. Sofista, l'esser musico e grammatico; se
Corisco e Corisco musico siano lo stesso o no; ovvero sostengono che,
dato che tutto ciò che è, ma non è eterno, divenne, se uno essendo
musico divenne grammatico, si può dir anche che essendo grammatico divenne
musico ('); e tutti gli altri discorsi di questo genere, dai quali si vede
bene che l’accidente è qualcosa di molto vicino al non-essere. E
anche da considerazioni di questo generè: che delle cose che sono in
altro senso c’è il processo del nascere e ‘ perire (7), ma di quelle che
sono per accidente non c’è. Tuttavia convien parlarne ancora, fin dove si può,
per mostrare qual*è la natura sua, e quale la sua causa. Forse
chiariremo con questo anche perchè di esso non c’è scienza. Degli
esseri ce ne sono di quelli che sono sempre a un modo e di necessità (non
intendo della necessità per violenza (*), ma di quella che consiste nel non
poter essere altrimenti), «altri non sono di necessità, nè sempre a un
modo, ma soltanto per lo più. Di qui il principio, di qui la causa
dell’esistenza dell’accidente (*). Noi, infatti, chiamiamo accidente ciò che
non è nè sempre nè per lo più: per es., se al tempo della canicola faccia
un freddo invernale, noi di Il
primo sofisma vuol porre l'identità insieme alla diversità dei due termini (in
quanto uno è, o no, l’una e l’altra cosa insieme). Col secondo si tenta
il processo all’infinito (come per il triangolo, in nota prec.). Col terzo,
facendo prima sostantivo l’uno dei due termini e l’altro aggettivo, e
viceversa; poi, confrontando, si trova che uno era già primayciò che doveva
diventare (il musico è grammatico, perchè lo divenne: il grammatico ora è
musico, e lo è perchè divenne tale. ecc.). La generazione, come processo del nascere e
perire, riguarda la sostanza propriamente, e l’accidente solo in quanto
sia considerato tutt'uno con la sostanza (non per sè soltanto: considerato per
sè, esso è come ciò ch’è casuale, e A. infatti, unisce qui i due
sigpificati come già in V. 30, 1-3). Ricorda Eth. Nic,, II. 1: suonando
si diventa suonatori, esercitandosi nel leggere e scrivere si diventa
«grammatici ». Cfr. V. 5.
Quel che manca al per lo più per
esser sempre a un modo è quel SuAetppa, come dice Alessandro (451, 13),
ch'è il casuale. Ovvero si dica che il fortuito sparisce a misura che si
scoprono tracce di ragione nelle cose, onde all'uguaglianza (logica, in
astratto) di tutti i casi possibili si sostituisce, nel mondo
dell’esperienza, la probabilità, maggiore o minore, del per lo più. ciamo
sì che questo può accadere, ma non lo diciamo già se fa un caldo
soffocante: chè, questo, avviene sempre o per lo più, quello no. E che un
uomo sia bianco può ben accadere (chè tale non è sempre, nè per lo più),
ma non intendiamo che sia animale per accidente. E può anche accadere
che un architetto guarisca qualcuno, per accidente: chè questo non
è affare di architetto, ma di medico; eppure una volta accadde che
l’architetto fosse medico. Così, un cuoco, sebbene il fine dell’arte sua
sia il piacere, potrebbe scoprire qualcosa che giovasse alla salute, ma
non in virtù della culinaria. Noi diciamo allora: accadde; per indicare
che, in quanto ci fu chi la fece, la cosa è possibile, ma non che
dipendesse assolutamente da lui ('). Di tutte le altre cose si riesce
a trovare, di quando in quando, la potenza di produrle, ma dell’accidente
non c’è arte o potenza determinata, perchè di ciò che è o avviene
accidentalmente, anche la causa è accidentale. Poichè, dunque,non tutte le cose
sono o divengono di necessità e sempre allo stesso modo, ma la maggior
parte avviene per lo più, ecco la necessità dell’accidente: ad es.,
nè sempre, nè per lo più, chi è bianco è anche musico, ma, siccome talora
accade, sarà per accidente. Se l’accidente non ci fosse (?), tutto al
mondo avverrebbe necessariamente. Sarà dunque causa dell’accidente la
materia, la quale è quella che può essere altrimenti da come è per lo più
. E di qua bisogna cominciare:
non c’è forse qualcosa che non è nè sempre, nè per lo più? Ovvero,
ciò è impossibile? C'è, quindi, qualcosa oltre quel che è sempre o per lo
più, ed è ciò che capita purchessia e per accidente. Si potrebbe anche
chiedere: forse, ciò che è per lo più esiste, ma non l’eterno? Ovvero,
esistono anche alcuni esseri eterni? Di ciò si vedrà in sèguito; ma sin
d’ora è chiaro che del In quanto
cuoco. Se l'accidente non ci
fosse, il «per lo più» diventerebbe un «sempre», e tutto sarebbe
necessario. Ma, poichè ciò non è, ecco la necessità (di ammettere
l’esistenza) dell'accidente: come vuol provare, contro chi lo neghi, con
l’interrogazione al $ 10. La
materia è principio e causa di tutto ciò ch’è indeterminato. 1027
a 198 METAFISICA l’accidente non c’è scienza (‘').
Ogni scienza è o di ciò che è sempre, o di ciò che è per lo più (°). Se
no, come si potrebbe impararla o insegnarla? Bisogna bene, per definire
qualcosa, poter dire ciò che è o sempre o per lo più: poniamo, che l’ idromele
giova, per lo più, a chi è febbricitante. Ciò che è contro questa regola,
neppure si avrà bisogno di dirlo: se una volta poniamo, al tempo della luna nuova
quel medicamento non ha giovato: poichè, per dirla (*), anche quella eccezione
dovrebbe valere o sempre o per lo più. L’accidente, invece, è contro
tutte le regole. S'è detto, dunque, che cosa è l’accidente, e per
qual causa, e che di esso non può esserci scienza. »
CapiToLO III. Che ci siano fatti, di cui i principii e le cause
appaiono e scompaiono, sebbene non si possa dire che nascono e periscono
(‘), è evidente. Se così non fosse, dovendo esserci una causa non
accidentale del nascere e del perire, tutto avverrebbe di necessità. Se si
chiedesse, infatti: Avverrà o non
Il pensiero procede in questi paragrafi un po’ a sbalzi. Posto che non
tutto è sempre o per lo più, si dimostra cho c’è l'accidente (10).
D'altronde, se si conceda che c’è l’accidente ce il per lo più, come negare
l’esistenza di ciò ch'è eterno, ch'è il vero oggetto della scienza? Si vedrà in. séguito: efr. XII, 6-8.
Che ci sia scienza del per lo
più, conferma anche in And/. Pr., I. 13. 32 D, 18, e in Anal, Post., I.
30. 87 b, 20; benchè la vera e propria scienza sia dell’universale e necessario
(Anal, Post., I. 1. 71b, 15, e spesso altrove).
Idromele: bevanda di miele e latte. L'eccezione, dicendola, acquista la stessa
regola di ciò ch'è sempre 0 per lo più. Così ho tentato di sciogliere la
difficoltà del passo, che letteralmente suona: « poichè o sempre o per lo
più anche #/ [il dire? o il fatto che avviene?) al tempo della luna nuova
», Altra interpretazione: Se una volta non giovò, poco conta: sta il
fatto che in generale conta, anche al tempo della luna nuova (così
Bonitz, che sopprime il té). Il Ross dà un senso affine al mio: l’accidente
anch'esso, veduto più profondamente, ha la sua legge (in fondo esso è un
difetto della nostra conoscenza, ma nella realtà, veramente, nulla è
accidentale). Il Ross unisce all'articolo l’idea del fatto, io quella del
dire (questa mi par più semplice, data la modestia dell'esempio).
Non si può dire che nascono o
periscono, nel senso, veduto dianzi, di un processo, di un passare
graduale (dalla potenza all’atto, o dall’attività all’abito). avverrà un
tal fatto? si risponderebbe: Sì, se ne
avviene un altro; se no, no. E quest’altro, poi, avverrà, se altro
ancora avviene. E così è chiaro che, sottraendo sempre del tempo da
un tempo limitato, si arriverà al momento attuale. Ad esempio, costui, se
esce di casa, morrà di malattia, o di morte violenta; ed uscirà di casa,
se avrà sete; e avra sete, se altro gli avviene; e così si arriverà a ciò
che avviene attualmente, ovvero a qualcosa che è avvenuto in passato. Poniamo:
egli uscirà, se avrà sete; e avrà sete, se mangia di salato: questo, o
avviene o non avviene; e costui, quindi, morrà, o non morrà,
necessariamente. Il discorso è lo stesso se, con un salto nel passato, si
comincia da un fatto avvenuto, perchè questo esiste già in un fatto presente.
Per cui tutte le cose future avverranno di necessità. Ad esempio:
chi vive, dovrà morire, perchè è già avvenuto questo, che 3
elementi contrari si trovano nello stesso corpo ('). Ma se Bonghi (p. 367): «Il ragionamento di A. è
molto semplice. Ogni processo di atti, legati in qualità di causa ed
effetto gli uni con gli altri, è necessario: perciò, se non ci fossero
atti tali che compariscono 0 scompariscono, senza che la ragione del loro
comparire e scomparire sia in un atto precedente, non ci sarebbero
ettetti casuali, o altrimenti, non ci sarebbero effetti se non necessari.
Adunque, perchè ci siano effetti casuali, bisogna che le cause che gli
producono, siano, operino, vengano meno senza processo «i sorta: non si
generino però nè si corrompano
cose le quali richiedono una serie di atti legati fra loro e indirizzati
alla generazione o alla corruzione, ma
sorgavo e cessino in un attimo ed indipendentemente dagli atti
precedenti, successivi e contemporanei, tra’ quali s’intramette l'opera
loro. Tutti gli esempi che cita, servono a mostrare appunto ‘ che,
finchè si sta in un processo, un atto ha ragione nell'altro, e non s'esce dal
giro del necessario. Bisogna spezzarlo, per avere un principio d’un atto
non necessario: ora, questo è appunto il principio del casuale. Il primo
esempio è d’un fatto avvenire rispetto al presente: col quale dimostra
che, se dal fatto avvenire si potesse di mano in mano e via via passare
agli atti che lo precedono fino 4 un atto o fatto attuale, quel fatto
avvenire non sarà nò men certo nè men necessario dell’attuale. Col secondo
esempio applica il primo al passato, mostrando che, come s'è ammesso che
dall’avvenire si arriva al presente, così da questo si risalirebbe al
passato con altrettanta certezza e necessità: di maniera che in un primo
fatto già stato ci sarebbe il principio d'un’intera catena necessaria di
fatti avvenire. Ora, come per esperienza si vede che questo non è vero,
codesta catena non esiste: e la è interrotta di tratto in tratto da atti,
i quali determinano quello che ci ha «li ancora indeterminato in un fatto, e
fanno che se ne origini piuttosto una tale che una tal’altra serie di
fatti successivi». Questo è, infatti, il senso più giusto di questo e
del paragrafo seguente. Elementi contrari: caldo-freddo,
secco-umido. 1027 b 200 METAFISICA egli
morrà di malattia o di morte violenta, questo ancora non è prestabilito,
finchè non avvenga quel fatto determinato ('). È dunque chiaro che qui si va
sino a un certo principio, e da questo non si può rimontare ad altro.
Ora, questo appunto sarà il principio che spiega come un fatto
avvenne in un modo piuttosto che in un altro, e della causa del suo
accadere non c’è altra causa. Quel che più importante resterebbe a indagare è
di quale specie sia la causa iniziale, a cui l’analisi del contingente ci ha
ricondotto: se, cioè, essa sia del tipo della causa materiale, o di
quella finale, o di quella efficiente (?). Finchò non avvenga quel fatto determinato,
ch'è un cominciamento assoluto, non riducibile a una serie di atti precedenti.
La materia, ha detto dianzi, è
causa dell'accidente. Qui sì aggiunge che la causa dell’accidente può
esser considerata anche come attività motrice (causa efficiente), e però
in qualche modo anche finale (non formale: la forma è principio di determinazione).
Non decide altro (Alessandro e Asclepio notano giustamente che la decisione
dovrebb'essere in favore della causa efficiente). Da vedere F. ‘Tocco,
Il concetto del caso în A. (in Giorn. napoletano di filos. e lett., 1877,
vol. V). Pare al T. che la materia non basti a spiegare l’accidente. © in
vero, nelle rivoluzioni celesti, ad es., l’accidente non ha luogo. Intesa
come principio assolutamente indeterminato, la forma dovrebbe dominarla.
Ma A. passa, în questo concetto, dal punto di vista meramente logico a
quello empirico, in cui la materia è soltanto relativamente
indeterminata, anzi essa è causa del determinarsi della forma: per es., ne’
vari generi del reale. Di qui la dottrina degli attributi propri di ogni
genere diyose, essenziali se riguardano la sostanza nella sua formalità,
veramente accidentali se la riguardano per la materia. A. tratta, poi,
l’accidente anche come il caso (cfr. nota a 2, 6). Dontle, per lui, il
caso? In lui predomina il concetto della causalità di tipo logico. Cfr. L. Ropin, Sur la conception aristotélicienne de la causalité (in
Archiv f. Gesch. d. Philos., XXIII, 1910, pp. 1 8gg.). Meglio:
come un determinismo logico-teleologico (platonicumente): èv yào ti) GAy tò
dvayzatov, vò d’od Evexa tv tO X6y0 (Phys., II 9, in princ.; e v, per
l'argomento i capitoli molto importanti 4-6 di questo libro), Qui, tò
avayxatov è il contrario di quel determinismo. Il Greco tende alla perfetta
razionalità della natura, ma è costretto a riconoscere un fondo
irrazionale dappertutto in essa, analogo al fato per lo vicende umane.
Anche in queste ha luogo il caso, e si chiama fortuna (von): « La fortuna
è la causa per accidente di fatti suscettibili d'esser fini, quando
questi riguardano la volontà » (Phys., II. 5. 197 a 5). Prescindendo
dall’u)ltima clansola, la definizione vale per ogni avvenimento accidentale:
casuale è un fatto che può rientrare nel determinismo logico-teleologico,
ma non vien prodotto secondo questo. Cfr. VII. 7, 5; XI. 8, 8-9, D'altra
parte, il suo empirismo lo porta a un concetto della causalità di tipo
materiale-efficiente, che esige la contingenza dei fatti, l'accadere come
originalità del particolare. Perciò, dopo aver detto che l’accidente è poco più
di un Si lasci ora da parte l’essere per accidente: ne abbiamo
discorso abbastanza. Quanto all’essere nel senso del vero e al non-essere
nel senso del falso, essi riguardano la connessione e la divisione delle
nozioni, e l'unione di entrambi consiste nel rapporto delle parti della
contradizione ('). Vero è l’affermare ciò che è realmente unito, e negare
ciò ch’ è realmente diviso; falso, invece, è affermare o negare la parte
contradittoria. Come poi avvenga che s’intenda unito o diviso, è un’altra
questione: voglio dire, come avvenga che nell’ intendere le nozioni non
si seguono, unite o separate, come in serie, ma formano un’unità. Vero e
falso, infatti, non esistono nelle cose (come se il bene fosse vero, il
male fosse senz’altro falso), ma nel pensiero: anzi, neppure in
questo, per quel che riguarda le unità semplici e le essenze (?).
nome, quasi un non-essere, si aftretta a difendere la necessità di
ammetterlo. (Non è nel carattere di questa filosofia addebitare il caso
alla nostra ignoranza). La natura, infatti, ha per A. una sua spontaneità
(tò adtéparov), analoga all'6petwy nelle azioni umanc. Di qui il
cominciamento assoluto di certe serie di avvenimenti. Credo meglio rifarsi di
qui, che dall’interferire di processi causali diversi, como fa il Bonghi
nel passo cit. (v. anche a p. 371). Come, infatti, A. accenna anche al
principio del 'cap. 3, ci sono in natura cause che appaiono e scompaiono senza
processo, (Ricorda che neanche dei punti, piani, ecc., nò degli istanti
nel tempo, c'è generazione: III 5, 10-11; nè delle sensazioni, secondo il De
sensu, 446 b, 4; o che ancbe le anime degli animali possono esistere o
non esistere senza processo di nascita-corruzione, come si dice in Phys.,
VIII. 6. 258 Db, 17; ma così anche per l’esistenza delle forme o pure
essenze in generale: v. VII. 8, 3 nota; VIII. 5, 1). Cfr. IV. 7, 1-2 e 4. Vero e falso riguardano
entrambi l’essere e il nonessere; ma qui l’essere e il non-essere si prendono
nel senso del vero e del falso (dell'esser-vero e del non-esser-vero). A
lor volta, vero e falso son presi come affermazione e negazione
nell’unità del giudizio disgiuntivo che pone la contraddizione, sì che, se una
parte di essa è vera, l’altra è falsa, e viceversa (non si di mezzo).
De interpr., 1. 16a. 12: « Nella
composizione e nella divisione consiste il falso e il vero. Invece, i
nomi per se stessi e i verbi valgono la nozione senza composizione e
divisione: come dicendo l’uomo o il bianco, quando non vi si aggiunga altro:
chè non è vero o falso in nessun modo. E prova ne è questo: che Tutto ciò,
dunque, che intorno all'essere e al non-essere, 4 intesi come vero e
falso, si può considerare, sarà da vedere più innanzi ('). Poichè,
consistendo la connessione o la divisione nel pensiero e non nelle cose, v’ha
differenza tra l'essere così pensato e l’essere fondamentale delle cose
(?). (Il pensiero infatti annoda o divide l’essenza, la qualità, la
quantità, o altro modo dell’essere). Mettiamo, dunque, da parte l’essere
nel senso di accidente e l’essere nel senso del vero: la causa di quello
è indeterminabile, e la causa di que 1028 a Sto è nella costituzione peculiare
del pensiero, ed entrambi riguardano l’essere nell’altro senso da quello
che più importa, i anche l'ircocervo significa pur
qualcosa, ma non punto nò vera nò falsa, se non vi sì uggiunge che esiste
o non esiste, o semplicemente o in un tempo ». Le nozioni (vofpata), 0
concetti considerati soltanto nel pensiero, riguardano una o l’altra
catezoria dell'essere. Nel giudizio, il soggetto è il nome (il sostantivo),
l'attributo affermato o negato è il predicato (il verbo). Anche
l’esistenza è una nozione che fa da prodicato (esiste). Ma, poi, A.
considera l'è ancho come copula semplicemente, che sta a indicare
soltanto la composizione delle nozioni fatta dal pensiero: «l'essere, per
sè, non è niente: significa una qualche sintesi, la quale non si può
intendere souza i componenti» (De interpr., 3. 16 Db, 24). La
composizione (ouvdeois, 0 cvuurdioxi, connessione) può, infatti, aver luogo
senza che il discorso affermi o neghi, propriamente: « Tutti i discorsi
sono significativi, ma assertivi non tutti, sì quelli in cui ha luogo
l’esser nel vero o nel falso. Non in tutti ha luogo: la preghiera, ad
es., è un discorso sì, ma non dice nè vero uè falso. La loro
considerazione è più propria della retorica e della poetica» (De iaterpr.,4.17
a, 1). L'asserzione (&népavors) si distingue, poi, in xetdpaas e
àrdpaars, affermazione e negazione. Essa riguarda l’attività del pansiero
discorsivo (dfvora), che può esser vero o falso; laddove l’atto del vovg
(l’intendere, il voeîv pr. d.) coglie (intuisce) sempre la verità, la
pura essenza delle cose, la quale è anche l'unità del loro essere, che il
pensiero (discorsivo) distinguo e separa nelle varie forine categoriche:
« L’intelleziono degl’indivisibili è di cose riguardo alle quali non c'è
errore, Dove, invece, ha luogo il vero e il falso, c'è già una certa
conposizione di nozioni. La falsità, infatti, nasca sempre nella composizione.
Ma ciò che fa l’unità di ciascuna cosa è l’intelletto » (De An., III. 6.
430 a, 26). E l'atto del percepire è come quello dell’intendere: «Come il
vedere è vero rispetto al suo oggetto proprio (mentre il vedere se il
bianco sia un uomo, o meno, non è sempre vero), così pure accade per le
cose senza materia [come le pure essenze)» (ivi, 430 b, 28). Cfr. quanto
citammo per l'atto del percepire a IV. 5, 19 68. Cfr. IX. 10, dove la questione è ripresa più
ampiamente. [td] 6v tOv xvolog:
l'essere in quanto essere, in sè e per sè, ch'è l’oggetto proprio della inetafisica.
L’esser-vero e l’esser-falso riguarda, invece, la logica (a questa,
quindi, nou appartiene, propriamente, l’atto del voùsg, l’intellezione «dei
principii, della pura essenza e dell’esistenza: cfr. dianzi 1, 2; 6 però
neanche «dei principii logici, come si disse in IV. 3). Cfr. su la questione
della verità nelle cose e nel pensiero quanto osservammo in nota. e però
non mettono in chiaro quale sia la natura sua propria (‘). E però si lascino da
parte. Vogliamo ora considerare le cause e i principii dell’
essere stesso in quanto essere. Ma già, quando trattammo di quanti
significati può avere ogni cosa che si dice, si notò che l’essere ha molti
sensi (?). =
Mi permetto di tradur così questo passo: Gupétega megl tò Aounòv
yévos TOoÙ Bvtos, xal oùx Em Bniovarv oloav (va [invece di otokv tiva)
puo où bvtos. Gli altri intendono: «Entrambi riguardano (o presuppongono,
si fondano gu] l’altro genere dell'essere [detto in proprio senso, i. e.
secondo le categorie), e non mettono in mostra nessuna natura che sia
fuori dell'essere [propriamente detto] ». MFxori: accanto, come un altro
genere dell'essere, coordinato a quello della sostanza. Manterrei all’
&&® il significato di «oggettivamente» voluto dal Ross, ma come
epesegetico qui, L’accenno è al lib.
V (cap. 7). Le ultime parole paiono aggiunte per collegare questo libro al seguente.
1 Lo Dell’essere, come accennammo dianzi (!) dove
distinguemmo i vari significati di questo e di altri termini, si parla in
molti sensi: da una parte, significa l’essenza e un «che determinato »;
dall’altra, quale è, o quanto, e ciascuna delle altre cose che così si
predicano. Ma, sebbene se ne parli in tanti modi, è chiaro che l’essere
principale è l’essenza, come quella che significa la sostanza. Quando,
infatti, Lib. V. 7. Per la
terminologia che segue, si ricordi che traduco generalmente il x gotiv con
essenza, e così anche tòd-elvar col dativo interno (alcuni traducono con
concetto: ch'è anche giusto; ma preferisco mantenere il tono oggettivo: rendo,
invece, con concetto il A6yos, quando questo non esiga altro termine più opportuno,
come discorso, ragionamento, ecc.). E con pura essenza rendo il ti fiv
elvar (cfr. nota a I. 3,2). La distinzione dei due concetti non è sempre
facile: ma, per principio, la pura essenza indica, come vuole la frase
aristotelica, un punto di vista del tutto universale, e puro, noi diremmo, da
ogni riferimento empirico (sebbene, per A., esso esista, poi, soltanto in
quanto è un téde t., un «che determinato »). E per rispetto alla
tradizione, ma anche per lasciar al testo la sua precisa formulazione,
seguitiamo a tradurre l’otola con sostanza: realtà è termine troppo
moderno e accenna a quella contrapposizione a «pensiero» che in A, c’è e non
c’è; essenza, come altri traduce, è pur giusta, in quanto l'oùcia è
l'essenza reale, concreta, la forma realizzata nella materia (nel
sinolo): ma, appunto per dar rilievo a questa concretezza, preferiamo tener
distinti i due termini. Intanto non
sfugga che, avendo A. determinato come oggetto della metafisica l'essere
în quanto essere (VI. 1, 1), la realtà in quanto tale, il problema
dell’odota veniva a porsi come fondamentale: chòù in essa si accentrano
tutti i principii d’intelligibilità del reale. Ed A. comincia col distinguere
in essa ciò ch'è essenziale per la sua comprensione da ciò ch'è accidentale,
mutevole e transitorio, ovvero è una determinazione meramente negativa.
206 METAFISICA parliamo della qualità di una certa cosa,
diciamo, ad esempio, non ch’è di tre cubiti o un uomo, ma ch’è buona o
cattiva; quando, invece, parliamo dell’essenza, non diciamo ch'è
bianca o calda o di tre cubiti, ma che è uomo o dio. Tutti gli altri
esseri si dice che sono, solo in quanto, di ciò ch’è in quel senso,
alcuni sono quantità, altri qualità, altri affezioni, altri qualche altra
cosa simile. Poniamo che uno faccia questione se il camminare, l’esser
sano, lo star seduto, e similmente qualunque altra cosa di tal fatta,
sia ciascuno un essere o un non-essere. Nessuno di essi esiste per
natura da solo, nè può esser separato dalla sostanza. Se, dunque, quelli
diciamo che sono, a maggior ragione sarà un essere ciò che cammina, ciò
che sta seduto, ciò ch’è sano. Questi, infatti, ci si mostrano tanto più
reali perchè c’è un essere determinato che fa loro da sostrato: questo è
la sostanza, e l’individuo, il quale per l’appunto si presenta in tale
categoria. Se così non fosse, nessuno direbbe: è buono, è seduto. Ora è
chiaro che soltanto in grazia di questa categoria (') esiste ciascuno degli
altri esseri. Così che l’essere primo, non questo o quel modo di essere,
ma ciò che è semplicemente, sarà la sostanza. Si dice in molti sensi che
una cosa è prima, ma la sostanza è prima in tutti i sensi: pel concetto, per la
conoscenza, per il tempo (*). Nessuna categoria, infatti, tranne la
sola sostanza, ha senso separatamente dalle altre. Ed essa è prima
quanto al concetto, perchè non c’è concetto di cosa alcuna, che non
comprenda in sè necessariamente il concetto di tavenv: si potrebbe riferire alla «sostanza»
che vien prima di «categoria»; ma che A. consideri qui }a oùdia come categoria
è chiaro anche da quel che segue. È vero che più spesso A. parla di
categorie in riferimento ai predicati della sostanza (la quale, perciò, ne è il
soggetto). Ma in opposizione alla cosa nella sua materialità anche la
«sostanza» è categoria, come si dirà tra poco (3, 7), ce il suo concetto
coincide con quello di « essenza ».
Facendo corrispondere questa distinzione a quella di pura essenza,
essenza, sostanza concreta, si può accogliere l'opinione di Alessandro (461, 1)
che le parole seguenti (Nessuna categoria... altre) riguardino la
priorità nel tempo (la sostanza non è mai senza attributi, ma esiste e e’
intende prima, indipendentemente da quelli che ha oggi o
domani). sostanza. E quanto alla conoscenza, noi allora reputiamo di
sapere benissimo ciascuna cosa, quando conosciamo quel che è: ad es.,
quel che è l’uomo, o il fuoco; molto meglio, per lo meno, di
quando sappiamo soltanto o quale è o quanta 0 dove: anzi, ognuna
di queste stesse determinazioni noi la veniamo a sapere allorquando impariamo a
conoscere che cosa è che ha quella qualità o quantità ('). In
fine, quel che si è cercato fino ad ora, e che ora e sempre si cerca, e
di cui si fa questione sempre, cioè che cos’è l’essere, vale appunto
questo: che cos’è la sostanza? Qui, alcuni rispondono ch’essa è unica,
altri che ce n’è più d’una: ‘e di questi, alcuni vogliono che le sostanze
siano in numero finito, altri in numero intinito (?). Poniamoci
dunque anche noi a questo problema, ch’è il più importante, il
primo, l’unico si può dire: vediamo quel ch’è l’essere così inteso.
CapiroLo II Pare (*) che il modo più evidente di esistere
della sostanza sia quello dei corpi. E però si suol dire che sostanze
sono gli animali e le piante, e le loro parti; nonchè i corpi fisici,
quali il fuoco, l’acqua, la terra, e gli altri corpi di tal fatta; e
quelli che o sono parti di essi, ovvero da essi (presi complessivamente o
parzialmente) risultano, come l’universo e le sue parti, gli astri, la
luna, il sole. Lett.: «che
cos'è il quanto o il quale »; ossia, anche per queste determinazioni, la
conoscenza è data dall'essenza. Ma per chiarezza ho preferito tradurre tò mooév
e tò motév come equivalente a mooév e smorsv: così auche Aless. (461, 23)
li intende due linee prima (dove il testo ha le stesse forme, con
l’articolo). La differenza è, al solito, nello scambio de’ diue concetti,
affini per A., di 80stanza ed essenza.
Nella questione della sostanza una o molteplice A. trova impegnate
tutte le scuole precedenti, da quella ionica all’eleate (una), dai
Pitagorici ed Empedocle (molteplice finita) ad Anassagora ed atomisti
(molteplice infinita). Volgarmente.
Qui si fa questione, dunque, non soltanto del numero, ma anche della
natura della sostanza, o delle sostanze. Da quella prima intuizione
volgare prende lc mosse la scuola ionica. Ma bisogna esaminare se queste
sono le sole sostanze che ci siano, 0 se ce ne sono anche altre (o sian
tali soltanto alcune di queste, o alcune, anche, delle altre) ('), ovvero
se di esse nessuna è sostanza, ma sostanze siano certe altre
d’altra natura. Ad alcuni (?), per es., pare che sostanze siano i limiti
determinanti ogni cosa corporea, come superficie, linea, punto, unità: a
maggior titolo, per lo meno, di ciò ch'è corporeo e solido. Inoltre, c’è
chi reputa che di sostanze non ce ne sia nessuna fuori delle cose
sensibili; e altri, invece, che ce ne siano parecchie , e a maggior titolo,
come quelle che sono eterne. Platone, ad es., fa delle specie e
degli enti matematici due sostanze, e pone come terza la sostanza
dei corpi sensibili. Speusippo, pur cominciando dall’unità, pone un
numero maggiore di sostanze, perchè ad ognuna di esseassegna principii
diversi: uno per i numeri, ad es., e uno per le grandezze; inoltre, un
principio per la sostanza dell'anima: ed è così che viene ad aumentarne
il numero. Alcuni, a lor volta, dicono che le specie e i numeri
hanno la stessa natura, e che da essi dipendono le altre cose:
linee e superfici, sino alla sostanza del cielo e alle cose sensibili
(*). Con l'h prima del xaî
(E e Ascl.) alla 1. 15, i casi son, dunque, questi: a) le sostanze son
quelle dette; d) quelle e altre; c) alcune di quelle: d) alcune di quelle
e anche alcune delle altre; e) altre.
I Pitagorici. Cfr. III. 5, 4. Seguono i Fisiologi in generale, poi
Platone e i Platonici. Di
genere. Altri intendono aàgiw per il numero: cfr. I. 9, 1; e XIII. 4, 4. Per Platone, non si dimentichi ch’ egli, pur
avvicinando le idee alla natura del numero, non le identificò mai con i numeri
nel senso dei Pitagorici (senza distinzione di sensibile e
intelligibile), nè le trattò meramente come i matematici trattano i loro
oggetti. Dei Platonici si parla
lungamente nei libri XIII-XIV, ma non si fauno i nomi: sì che
l'attribuzione delle particolari dottrine è mal sicura. Sembra che Speusippo
tendesse con ulteriori distinzioni a disperdere l'unità iniziale e il rapporto
sistematico dei principii (per il primo rispetto. cfr. XII. 7, 11, e XIV. 4.3 e
5, 1: per l'altro, la fine dello stesso XII: « costoro della sostanza
dell'universo fanno un complesso di episodi e riescono a una molteplicità
di principii»). Secondo il Frank (cit. nel Ross), egli avrebbe distinto
dieci principii: l’unità assoluta , l'assoluta pluralità , il numero , la
grandezza spaziale , i corpi sensibili (5), l'anima (6), la ragione (7), il
desiderio (8), il movimento (9), il bene (10). Speusippo è ricordato
anche in Etk. .Vic., 4. 1096 b, 5. Altri accentuarono, sembra, la tendenza
opposta, dell’unificazione dei principii, non soltanto contro Speusippo,
ma più in là dello stesso Platone. Asclepio (379, 17) fa IL
(bai 6 ni Dobbiamo, dunque, trattenerci
su queste opinioni per vedere se sono giuste, o no, e quali sostanze esistono:
se ce ne siano, o no, altre (') fuori di quelle sensibili; e, se ce
ne sono, come sono; e se esiste qualche sostanza separata, perchè e
come esiste, ovvero, se fuori di quelle sensibili non ce ne sia nessuna.
Ma, prima, diciamo in abbozzo della sostanza quel che è. La sostanza vien
intesa, se non in più, per lo meno in quattro modi principali, che paiono
costituire l’essere di ogni cosa: come pura essenza, come universale,
come genere, e in fine come sostrato (?). qui il nome di
Senocrate, successore di Speusippo; e Teofrasto (fr. XII, 12) dice che
egli «abbraccia in certo modo tutte le cose dell'universo: così le sensibili
come le intelligibili, e quelle matematiche, e persino le divine ». Ad A.
questa identificazione sembra la soluzione peggiore del problema lasciato in
eredità dal maestro: XIII. 8, 10.
Altre ce ne sono, per A., ma non separate in quanto forme delle
sostanze sensibili stesse.
L'universale, anzi, meglio, gli univ ersali,
astrattamente considerati, sono le idee platoniche, le quali A. nega che
siano sostanza (capp. 13-14): non così, naturalmente, quando l'universalità è
carattere o valore dell’essenza. Del genere non si parla più, e al
principio del cap. 13 è del tutto dimenticato. In quanto è un xotvév,
esso equivale al xaté6Xiov, quando questo sia inteso come una generalità, e il
genere, a sua volta, sia preso fuori del processo che lo realizza nelle
differenze. Così i quattro termini si riducono a tre, anzi, per la trattazione
negativa dell’universale, a due: la pura essenza e il sostrato. Del sostrato si
parla .nel capitolo presente, e si dice ch'esso è materia (CAm),
forma (puoogf, qui, poco dopo esemplificato con tò oxMpua 175
ldéas, e però con significato più vicino alla forma sensibile; ma
equivalente, in fine, a eldoc, a Adyos fivev GAng, a ff xatà tòv A6yov
odola, e però anche a tò 1 Kv elvari, sinolo (tò 84 tobtov 0 BE èippolv,
tò ocvverinupévov, tò otvterov 25 elbous xal GAns). Molto frequenta è Uroxzipevov
nel primo e terzo significato, raro nel secondo (cfr. VIII. 1, 6) e da
intendere come equivalente, qui, al terzo, ch'è il significato più comune
dell'oùota. Questa è, infatti, la sostanza concreta, piena realtà del
x6de , (in Cat., 5 distinta come prima dalla sostanza seconda, ch'è la
forma o specie). Di contro a essa sta la pura essenza nella sua
universalità, che vuol essere il suo principio intelligibile e insieme reale.
Per l’intelligibilità, è chiaro; la difficoltà sorge per la realtà,
essendo necessaria la materia per la sua realizzazione come individuo. Di
qui l’aporia del materialismo in questo capitolo, risolta da A., per ora,
soltanto negativamente, risolvendo la materia nel concetto dell’indeterminato,
© però inferiore al sinolo in realtà, e tanto più alla forma ch'è, per
l’intelligibilità, il principio del sinolo stesso. Il sostrato è ciò di
cui si predica ogni altra cosa, ma 2 1029 1 esso non è predicato più di
alcun’altra. Noi dobbiamo, quindi, cominciare la nostra trattazione da
esso, perchè la sostanza par che sia, in primo luogo, il primo sostrato
di ogni cosa. E però per un lato esso è la materia, per un altro è la
forma, 3 per ultimo il loro insieme. La materia è, per es., il
bronzo; la forma, la figura ideata; il loro insieme, l’intero, la statua.
Per conseguenza, se la forma è prima della materia e reale 4 a maggior
titolo, anche l’insieme d’entrambe (') sarà prima della materia per la
stessa ragione. Noi abbiamo dato, ora, un’idea di quel ch’è la sostanza,
5 dicendo ch’essa è ciò che non viene riferito ad altro come a
sostrato, anzi ad essa vien riferito tutto. Ma non bisogna fermarsi qui:
chè non basta. Non soltanto, questo, manca ancora di chiarezza; ma la
sostanza diventa, in questo modo, la materia. Se, infatti, non è essa la
sostanza di ogni cosa, non è facile dire che altro questa sia: togliendo
tutte le determinazioni (*), pare che non rimanga altro. Quelle determinazioni
sono soltanto affezioni dei corpi, produzioni e potenze loro; e neppure
lunghezza, larghezza e profondità sono altro che certe determinazioni
quantitative, e non sostanze. Sostanza non è la quantità, ma, piuttosto,
ciò a cui originariamente le determinazioni quantitative appartengono. Se
non che, tolta la lunghezza, la larghezza, e la profondità, non si vede
che resti nulla, tranne che si ammetta ch’è pur qualcosa ciò che da
quelle vien determinato. Sì che, a chi consideri le cose in questo modo,
deve necessariamente apparire la materia come la sola sostanza. Se si legge voò (invece di 16), allora va
tradotto: «anche dell’insieme d' entrambe sarà prima la forma per la
stessa ragione ». Ho preferito il vé perchò la questione, in questo
punto, mi pare sia quella della materia (l’usia nella sua realtà),
piuttosto che quella della forma (l’usia nella sua intelligibilità),
benchè anche questa sia giusta: come si vede dal $ 10. Ricorda il procedimento cartesiano: togliendo
tutte le determinazioni empiriche (prima le qualitative, poi le
quantitative) si dovrebbe arrivare al concetto puro di materia. Qui,
naturalmente, si tratta della materia, non del suo concetto, e A. non può
far valere contro il materialismo altro che il suo principio dell'esistenza
determinata. Chiamo materia quella che in sè non è una cosa determinata,
nè una quantità, nè niun’altra delle determinazioni dell'essere. Ci ha da
essere, infatti, un qualcosa di cui ciascuna di esse si predica. E la sua guisa
di essere sarà diversa da quella di ciascuna delle categorie: queste si
predicano della sostanza; la sostanza, poi, della materia ('). Per cui il
termine ultimo, per sè stante, in ogni cosa, non è qualcosa di
determinato, nè una quantità, nè altro; e neppure la negazione di queste
determinazioni, poichè anche la negazione non esprime dell'essere altro
che l’accidente. Così, quelli che ragionano da questo punto di vista, si
trovano a conchiudere che sostanza è la materia. Eppure, ciò è
impossibile: perchè ognuno vede che sostanza convien che sia, anzitutto,
ciò che può esistere separatamente, ed è qualcosa di determinato. Parrebbe
quindi che, a maggior diritto della materia, debbano dirsi sostanza la
specie, e quel che dall’unione di materia e forma deriva. Ma
lasciamo da parte, per ora, quest’ultima, cioè la sostanza in quanto risulta di
materia e forma insieme: che è cosa posteriore e manifesta a tutti. Anche
la materia, in certo modo, non offre incertezze. Dobbiamo trattenerci su
la terza, su la specie (*°), perchè è essa che presenta le maggiori
difficoltà. Le altre categorie son determinazioni (secondarie o
accidentali) della s0stanza, la sostanza esprime la determinazione (essenziale)
della materia; invece, a materia non si predica di nulla. Tutto il passo mescola le ragioni dei
materialisti con quelle di A., il quale non nega l'esistenza della materia, ma
che essa sia la sostanza. L’indeterminazione di essa non è mera negazione
o privazione (l'una non ha realtà affatto; l'altra non per sè, ma in quanto è
in altro: e d’altra parte, se fosse privazione, la materia avrebbe già una
determinazione, o un'indeterminazione soltanto relativa al momento
ulteriore del processo formale: cfr. VIII. 1, 6 e 6, 11; XL. 9, 2). Come avvertimmo in nota a III 2,5 traduciamo
eldog con specie quando non è in opposizione diretta al termine
materiale. Il Rolfes, seguendo S. Tom,, insiste molto (nel suo commento alla
trad. cit.) nel distinguere in A. la forma in quanto indissolubile dalla
materia, a cui è unita, dalla forma sostanziale, che può avere
un'esistenza indipendente da essa. Negli Scolastici, infatti, è viva la
preoccupazione per le conseguenze dogmatiche. Questa preoccupazione manca
in A., assorto, qui, a polemizzare contro l'idealismo astratto del maestro, da
una parte, e contro il rozzo materialismo dall'altra. (Un’ esistenza in
sè e per sè della E poichè tutti concordano in questo, che alcune di
quelle 11 sensibili sono sostanze, noi dobbiamo cominciare la
ricerca 1029 v in questo campo: chè è sempre utile passare per gradi a
ciò ch’è più conoscibile ('). La cultura, infatti, si acquista così:
12 attraverso le cose che sono meno conoscibili per natura si
procede verso quelle che sono per natura più conoscibili. E la fatica è
proprio in questo: come nel campo delle azioni si deve far in modo che,
partendo dal bene dell’ individuo,. il bene generale (°) divenga il bene
dell’individuo stesso; così, qui, dalle cose che a ciascuno sono più
facili a conoscere, si deve andare a quelle che, conoscibili per natura,
divengano tali per lui stesso. Certo, quel che l'individuo conosce in
principio è spesso proprio ciò che meno è conoscibile, e che ha poco o
nulla della realtà dell’essere. Pure, conviene prender le mosse da quelle
deboli conoscenze, le quali tuttavia costituiscono ciò ch’egli conosce; e
sforzarsi, passando, come si è detto, attraverso di esse, di fargli conoscere
ciò ch’è conoscibile assolutamente. pura forma è affermata,
senz'altro, di Dio nel lib. XII; ma per l’individualità di essa come
anima umana è nota l'oscurità di A. e del pensiero greco in generale).
Qui si dice che la difficoltà maggiore non è intorno alla materia e al
sinolo: questo è chiaro che è prime, come si disse dianzi, della materia,
e ha esistenza per sè e individualità (è qualcosa di determinato); la
difficoltà grande è intorno al principio ideale-reale del sinolo. La
specie ha esistenza e individualità in sè e per sè? In termini moderni si
direbbe che la questione passa dal punto di vista empirico a quello
trascendentale. Ma il senso di questo passaggio è limitato in A. dai
termini già accennati del suo pensiero.
Il testo (le prime due linee di 1029b appaiono al principio del cap.
s0g.) è stato riordinato dal Bonitz. Lo Jaeger (Arîst., pp. 204 e :s8.)
per primo ha avanzata l'importante ipotesi che questi libri VII-IX siano
stati scritti dopo il XII; e che perciò questo passo, sino alla fine del
capitolo, sia un'aggiunta poSteriore per collegare questa trattazione, intorno
alla sostanza sensibile, a quella puramente intelligibile. Ma cfr. note a
11, 11; 16, 7. tà &40g dyodd:
il bene in sè, ciò ch'è bene assolutamente (così, invece, ho tradotto, in
fine al capitolo, l'84ws), sarebbe espressione molto platonica: il
plurale dissuade. Così anche in Eth. Nic., V. 2. 1129D, 5. Quando noi da
principio distinguemmo in quanti modi Si definisce la sostanza, vedemmo
che uno di essi era quello della pura essenza: di esso vogliamo ora
trattare. E comiuciamo a dirne qualcosa dal punto di vista discorsivo: la
pura essenza è ciò che di una cosa si dice in se stessa considerata. Mi
spiego: l’esser musico non è l’esser tuo, perchè non per te stesso sei tu
musico: quel che sei per te stesso, dunque, quella è la tua essenza. Ma
con questo non 8°è detto tutto. Anche una superficie noi diciamo che per
se stessa considerata (') ha un colore, poniamo, bianco: ma non
così è l’in sè della pura essenza: poichè l’essere della superficie non è
l’essere del color bianco. E neppur l’ essere suo vien fuori dall'unione
dei due termini, dicendo ch’è una superficie bianca. Perchè? perchè c’ è
già compreso. Bisogna, perchè si abbia la definizione della pura essenza
di una cosa, che, chi la definisce, non ne includa la nozione nella
defi-{ nizione. Ne verrebbe questo: che, se all’essenza della superficie
appartenesse d’esser bianca, ed essa è la stessa ch’è levigata, l’esser
bianco e l’esser levigato sarebbero una sola e medesima cosa (?).
Distinguendo l’«in se stesso» dal
«per se stesso», dove il greco usa la medesima espressione (xad’ aùrté:
v. V. 18, 4-6, in cui pure si accenna a questa distinzione), si dà un po'
più di luce all’argomentazione. Non tutto ciò che una cosa è per sè, ne
costituisce per questo l’essenza. Noi sappiamo, infatti, che ci sono
accidenti essenziali, per es. l'uguaglianza degli angoli di nn triangolo a
due retti; ma l'essenza del triangolo, poi, è data puramente dalla sua
definizione. La cosa in sò è il presupposto d'ogni predicazione o
qualificazione (la superficie è bianca
superficie bianca). Passo
oscuro: ho seguito l’interpretazione di 8. Tom. (1314), perchè mi eembra
più intonata alla presente argomentazione (sebbene riconosca che il
testo» vien così un po’ forzato): A. direbbe che, se bianchezza e
levigatezza, e così gli altri attributi, siano pure essenziali,
costituissero la pura essenza della superficie, essi dovrebbero tutti
identificarsi tra loro. Il passo va forse, come nota il Christ, due rigbe
prima (dopo «già compreso »). Altri (e
già Aless.) intendono: « Per cui, Be poi si aggiungesse che l’esser
proprio della superficie bianca consiste nell’esser essa levigata, non si
verrebbe ad altro che ad identificare l’essere del 214
METAFISICA E poichè c’è pure una composizione (') della sostanza
6 con le altre categorie (un qualche sostrato ci vuole sempre per
ognuna: per la qualità, per la quantità, per il tempo, per il luogo, per
il movimento), è bene s’indaghi se per ognuno di tali composti si possa
far questione della pura essenza: cioè, se anche di essi si dia una pura
essenza: per es., dell’uomo bianco, la pura essenza di uomo-bianco. A
designare il com- 7 posto, diamogli un nome: per’ es., vestimento (°). In
che consisterà, dunque, l’essenza del vestimento? Certamente, essa non
potrà esser nessuna di quelle cose che si dicono considerandole in se stesse
(*). bianco con l’essere del levigato»: si darebbe, cioè,
l'essenza del bianco come consistente nella levigatezza. Così, infatti,
pare che la pensasse Democrito (De Sensu, 4. 442 b, 11; De Gen. et Cor.,
I. 2. 316, 1). La sostanza, in
quanto sìnolo di materia e forma, è già un cuvdetov da so stessa. La
questione, ora, è: si può parlare di pura essenza quando il ovv@etov è
della sostanza con le altre categorie? La prima risposta è negativa: si
può parlare della pura essenza dell’« uomo », non dell’«uomo-bianco ».
Ma, poi, si concede (14 s8.) che in largo senso (logico-discorsivo) si
può dire che c’è una definizione, e però una pura essenza, anche di
questi composti (quando se ne spiega il significato). Oggi diremmo: indichiamo con «x il composto.
L'opportunità di ciò è chiarita bene da S. Tom. (1317): «Et quia forte
aliquis posset dicere quod albus homo sunt duae res et non una, ideo
subjungit quod hoc ipsum quod dico albus homo, habeat unum nomen, quod
causa exempli sit vestis. Tune enim, sicut
hoc nomen homo significat aliquid compositum, scilicet animal rationale,
ita et vestis significat aliquid compositum, scilicet hominem album ».
Intendo che la
sintesi designata con «vestimeuto » non può esser scambiata con quella in cui
consiste Ja sostanza, o pura essenza, in sò (nell'esempio, l’uomo in
quanto animale ragionevole, non in quanto uomo bianco). Segue (8)
l'obbiezione, la quale, badando più all'espressione discorsiva, porterebbe a
conchiudere che definendo « vestimento » come «uomo-bianco » non si cade in
nessuno dei due errori (ivi notati) peri quali una definizione si può dire
mancante, sì che in questo senso si deve ammettere che la cosa è
considerata per se stessa (benchè secondaria, qui, la distinzione tra
l'in sé e il per sé, non si scordi che nel testo c'è anche
quest'ambiguità). All'obbiezione A. risponde (9), che, anche ammessa
buona la predetta definizione in quel senso (discorsivo), non per questo
si tratta di una pura essenza, propriamente, la quale dà sempre l’&ree di
un téde ti (Ja determinazione della natura costitutiva di
un’individualità: di qui la s04 stituzione frequente, nel pensiero
aristotelico, della «sostanza seconda », 0 specie, alla sostanza prima, o téde
tr). Altri intendono che l’obbiezione venga fatta qui (alla fine del $
7), e che A. risponda a essa nel 6 8. Il testo permette, sembra, tutte
due le interpretazioni (per il senso generale la differenza, in fine, è
di poco conto). Si può obiettare che una cosa non è considerata per
se stessa in due casi: o per via di apposizione, o al contrario.
Nel primo caso, ciò che si vuol definire lo si aggiunge ad altra cosa:
per es., volendo definire che cos'è la bianchezza, si dice che è un uomo
bianco. Nell’altro caso, c'è un’altra cosa aggiunta a ciò che si vuol
definire: per es., se vestimento vuol dire uomo bianco, vestimento si definisce
color bianco. Certamente, chi è uomo bianco è un che di bianco,
1030 a ma la bianchezza non è davvero la sua essenza. Ma
con questo si è detto che l’essere del vestimento sia la determinazione
di una pura essenza veramente? (') Non pare. Solo ciò ch'è un «che determinato
» è una pura essenza, Quando, invece, una cosa si predica di un’altra
(*), non abbiamo più un «che determinato »: l’uomo bianco, ad es., non è
la determinazione di un «alcunchè», una volta che tale determinazione
riguarda soltanto le sostanze. In conchiusione, la pura essenza ha luogo
soltanto in quelle cose di cu} il concetto è una definizione. E
definizione non c’è finchè si adoperano parole a signi!! ficare una cosa
invece del concetto: poichè, in tal caso, tutti i discorsi sarebbero
detinizioni, e si potrebbe adoperare una parola sola invece di un
qualsiasi discorso, sì che anche l’Iliade sarebbe una definizione (*).
Invece la definizione c’è soltanto qualora sia di ciò ch’è primo: e
questo ha luogo soltanto dove non c’è bisogno, per ragionarne, di
riferire una cosa a un’altra. Alla 1. 3: 8206; f) où. « Uomo » e « bianco » son due concetti, che
restan due anche se uniti nella sintesi «uomo bianco »; « animale » e
«ragionevole », invece, esplicano il concetto unico di uomo (equivalente
per A. al t6de tu). Aless. (467, 7 88.)
nota acutamente che il tne mira all'essenza nella sun unità, laddove la
definizione esplica le parti in cui quella è organizzata. Di qui la
coincidenza e insieme la differenza tra i concetti di essenza (che, in
quanto sintesi empirica, o concreta, è sostanza; © in quanto concetto può
limitarsi a una designazione generica: altrimenti, equivale al tne), pura
essenza, definizione. Ctr. TRENDELENBURG, Gesch. der Hategorienlehre, pp. 34
s8; BoxiTz, pp. 311 88. I.
e., della parola «Iliade ». Non si scordi che a concetto e discorso corrisponde
lo stesso termine X6yos. Non potrà, quindi, la pura essenza trovarsi nelle
specie che non appartengano a un genere, anzi si troverà soltanto
in quelle che v’appartengono, perchè di quelle soltanto, evidentemente, si può
parlare senza riferirle ad altro come partecipazione o affezione di esso, o
come suo accidente (‘). Delle altre, così come di ogni cosa, ben si può
ragionare, o con un semplice discorso o in modo più esatto, per dirne,
poniamo, se ha un nome, che cosa questo significa, e che questo conviene
a quello. Ma non è questione, con ciò, della definizione e della pura essenza
(°). Ma forse anche per la definizione, come per l’essenza, è bene
osservare che si dice in molti modi. L’essenza, in un primo modo,
significa la sostanza e la determinazione di qualcosa; e in altro modo,
significa quale è, quanto è, e ognuna delle altre cose che si predicano
così. E in quella guisa che l’«è» si trova in tutte le categorie, ma non
ugualmente, perchè in una di esse ci sta in senso proprio, e nelle altre
per derivazione; così anche l’essenza, assolutamente, appartiene alla
sostanza, e al resto delle categorie soltanto in certo modo. Noi
potremmo, infatti, chiederci che cos’è la qualità, facendo, così, anche
della qualità un’essenza: non tuttavia assolutamente, ma in quel modo
come alcuni del non-essere affermano, discorsivamente, che il
non-essere è: non assolutamente, ma in quanto è non-essere. Si dica
similmente della qualità. Senza dubbio, è giusto che si badi anche come
convien parlare in ogni cosa, ma quel che più importa è come essa è
realmente. Oramai, dopo quel che s’è detto, dev’esser chiaro che la pura
essenza apparterrà primieramente e assolutamente alla sostanza; e poi anche
alle altre categorie,
Genere-specie (yévovs elbn) dev’ essere un processo unitario di
realizzazione della pura essenza: la qual cosa non avviene se le specie
son considerate platonpicamente come idee di cuî il genere dovrebbe partecipare
(cfr. III 3, 7); ovvero, secondo la dialettica sofistica, si unisca la sostanza
(ciò ch'è primo: tè xQ6tov 6v) con una qualità o un accidente di essa.
Così il X6yos passa dal suo
officio meramente semantico a quello apofantico (De interpr., 4. 17 a, 1), e da
questo a quello più logico-metafisico. nello stesso modo dell’ essenza, non
assolutamente, in quanto è la pura essenza, ma in quanto è pura essenza
della qualità, o della quantità, ecc. Poichè bisogna bene che uno ci dica
se in queste categorie l’essere ci sta soltanto per omonimia; ovvero se si
tratta soltanto di aggiungere e togliere (come quando si dice che anche
l’ignoto fa parte del noto) ('). In verità, la risposta giusta è di
negare sia la diversità, sia l'identità del significato; e dire che la
cosa sta come per quel che diciamo « medicale », tiferendoci, sì, a
qualcosa ch’ è pur sempre una e medesima, ma non ha un unico e
sempre 1030 b lo stesso significato, senza che perciò si tratti di
mera omonimia: diciamo «medicale» un corpo, un’operazione, uno stramento,
non per omonimia, nè per lo stesso rispetto, eppure ci riferiamo a una cosa
stessa (*). (Qui non importa nulla se uno preferisce un modo o l’altro di
vedere). Quel ch'è evidente, è che la definizione e la pura essenza riguardano
primieramente e assolutamente soltanto le sostanze, e che, s’ esse
valgono parimenti anche per le altre categorie, ciò non è in vero e
proprio senso. Posto questo, non è detto però che’ si abbia definizione
di un oggetto tutte le volte che c’è un discorso intorno a esso, ma
soltanto se ci si esprime in certo modo, cioè se si riguarda l'oggetto
come uno: non per mera continuità discorsiva (come sarebbe ]l’ Iliade)
(*), o perchè si Passo
molto oscuro. Omonime son le cose che hanno lo stesso nome, ma natura
diversa (Callia, per es., e il suo ritratto); sinonime, quando la realtà
o il concetto è lo stesso (abito, per es., e vestito). Per A., qui, non
si tratta nè di mera omonimia, nò di sinonimia: poichè l'essere nella
prima categoria e nelle altre nè è identico, nè è del tutto diverso. Si
tratta, invece, di aggiungere e togliere: i. e. (così parrebbe che voglia dire)
qualificare con un « primieramente » e un «secondariamente » l'essere nei
due casi, si che di esso si dia un più e un meno di realtà. Così anche il
non-essere delle categorie secondarie diventa un essere: come l'ignoto è,
in quanto lo ei sa tale, anch’esso noto (questo sembra dire ciò ch’è in
parentesi). V. per lo stesso
concetto ed esempio, IV. 2, 1-2. Le parole che seguono (messe da me in
parentesi) paiono riferirsi alla distinzione tra il xaè° Ev e il rodc Ev
(Ross). L'esempio (giù veduto
dianzi) dell'Iliade, come di ciò ch'è soltanto ouvdeop® Ev, torna in VIII. 6,
2. Così in Anal. Post., II. 10. 93 b, 96: « Un discorso può essere uno in
due modi: o per collegamento, come l’Iliade; o perchè chiarisce un'unica cosa
da un unico punto di vista, non per accidente », E così anche in Poet.,
20. 1457 a, 29. 218 METAFISICA adoperano
congiunzioni, ma in tutto il vero e proprio senso del termine « unità ».
Questa si dice come l’essere; e l’essere significa un che determinato, o
quanta, o quale è una cosa. Per cui, anche, ben si può parlare e dare una
definizione di assume altrettanti significati diversi: la soglia è
tale perchè situata così, e l’esser suo significa l’esser situata così;
così come l’esser ghiaccio vuol dire aver una certa densità. Ci sono cose
di cui l’essere potrà venir determinato anche con tutte queste
differenze, in quanto possono esser o mescolate, o combinate, o insieme
collegate, o condensate; ovvero esigono, per esser definite, anche le
altre differenze, come, ad es., una mano o un piede. È bene, dunque,
comprendere i generi delle differenze, una volta che queste debbon essere
i principii dell’esser delle cose: queste, infatti, si distinguono per il
più o per il meno, per il denso e per il raro, e per altre qualità sì
fatte: le quali tutte, poi, sono o in eccesso o in difetto. Quando
una cosa differisce per figura, o per levigatezza o ruvidezza,
tutte queste differenze si riducono a quella del dritto e curvo. E
quando l’esser loro consiste nella mescolanza, il non essere consisterà
nella condizione opposta. Risulta chiaro, dunque, che, se la sostanza è
la causa dell’essere di ciascuna cosa, bisognerà cercare in queste
differenze la cagione per cui ciascuna è quella che è. La sostanza, a dir
vero, non consiste in nessuna di queste differenze, neppure se accoppiate alla
materia; tuttavia esse costituiscono in ogni oggetto quel ch’è analogo
alla sostanza ('). E come nelle sostanze quel che si predica della
Queste differenze riguardano la
materia e l’accidentale più che la natura intima delle cose, e però non
ne dànno l’usia nel vero senso. Ciò che
tien le materia è l’atto stesso, così’ anche nelle definizioni delle
altre cose è ciò che meglio ne tien le veci. Per es., se si debba
definire la soglia, diremo ch’è legno o pietra situata in -certo modo: e la
casa è mattoni e legni situati così e così (se pure in certi casi non si
accenna anche allo scopo); e se si tratta del ghiaccio, diremo ch’è acqua
solidificata o condensata in tal modo; e la melodia è una mescolanza così fatta
di suoni acuti e gravi. E nello stesso modo per gli altri casi. Di
qui si vede che l’atto è diverso e diverso il concetto, quando la materia
è diversa: chè in alcune cose ha luogo composizione, in altre mescolanza,
in altre qualche altra delle differenze ricordate. Per cui, se uno, per
definire quel che sia una casa, dicesse che è pietre mattoni legname,
direbbe quel che la casa è in potenza, perchè pietre mattoni legname sono
la materia; se invece dicesse ch’è uno spazio chiuso per riparo delle
cose e delle persone, o aggiungesse altra cosa simigliante, direbbe quel
ch’è l’atto della casa. E se uno riunisse entrambe queste determinazioni,
direbbe la sostanza nel terzo significato, quella che risulta
dall’atto e dalla materia. Par chiaro, infatti, che il concetto che
si ottiene per mezzo delle differenze, è quello della forma e
dell’atto, quello invece degl’ingredienti della cosa riguarda piuttosto
la materia. Tali erano anche le definizioni che Archita (‘) approvava, poichè
esse si riferivano al composto. Per es.: che cos’è il tempo buono? La
quiete in grande estensione di aria: qui l’aria è materia, l’atto e la
sostanza è la quiete. Che cos'è la bonaccia? È l'uguaglianza della
superficie del mare: qui il sostrato, in quanto materia, è il mare, e
l’uguaglianza della superficie è l’atto e la forma. Con le cose discorse
resta così spiegato quel ch’è la __& veci
dell'atto (della vera © propria forma), in queste cose considerate
sensibilmente, sono le su dette differenze. Qui non si possono avere
definizioni (delle sostanze sensibili particolari non c'è dimostrazione,
nò definizione: VII. 15, 2), altro che in largo senso (VII. 4, 12-13).
Di Taranto, famoso pitagorico,
coutemporaneo di Platone. (Alla 1. 18: èvegysiav). sostanza
sensibile e in qual modo sia: essa è tale come materia, come forma e
atto: in un terzo senso, come il loro insieme. CapiToLo
III. Ma si badi che talora non è chiaro se il nome della
cosa esprime la sostanza come composto, o l’atto e la forma sua:
per es., se casa significhi l'insieme, un riparo fatto di mattoni e pietre
situate in un certo modo, ovvero semplicemente un riparo, cioè l’atto e
la forma della casa; e se linea significhi dualità in lunghezza, o
semplicemente dualità ('); e animale, anima in un corpo, o semplicemente
anima. L'anima è la sostanza e l’atto di un certo corpo, e chi dice
animale può riferirsi all’uno e all’altro significato, non perchè
coincidano nel copcetto, ma in quanto entrambi riguardano la stessa
realtà. Ciò per qualche rispetto non è senza importanza, ma per la nostra
questione su la sostanza sensibile non ne ha alcuna, poichè la pura
essenza consiste nella forma e nell’atto. Anima, infatti, ed essenza
dell'anima son la stessa cosa, ma non così uomo ed essenza dell’uomo,
salvo che per anima non s’intenda l’uomo: chè, allora, in un senso,
l’uomo e la sua essenza coincidono; in un altro, no. La sillaba non si
mostra nell’esser suo se uno la cerca nelle lettere e nella loro somma; e
così la casa, se uno guarda ai mattoni e alla loro somma. Ed è giusto che
sia così, perchè la somma o la mescolanza non deriva soltanto dalle
cose sommate o mescolate (°). Similmente, in tutti gli Cfr. VII. 11, 5; e per l'identità (nel par.
seg.) dell'anima e della sua essenza, VII. 10, 16, e 6, 14. Ciò, si aggiunge, può avere qualche
importanza, Der es. per il fisico; non per noi (per il rispetto metafisico),
ora: chò la forma è il priocipio del sinolo ed equivalente a esso (in
quanto, tuttavia, esso venga considerato nell'unità attuale del téde n).
Cfr. VII. 17, $ s8s,: qui
l’apriorità della: forma (ch’è, dunque, magà tà Gtoyela, non in senso
trascendente, ma affine al nostro trascendentale) viene estesa alle forme
sensibili. « Compositio et mixtio, quae sunt formalia principia, non
constituuntur ex his quae componuntur aut miscentur, sicut nec aliquod
aliud formale constituitur ex sua materia, sed e converso »: S. Tom:
(1713). altri casi. Ad es., se qualcosa è una soglia per la
posizione, non la posizione si spiega con la soglia, ma piuttosto
questa con quella. E l’uomo non è semplicemente l’essere vivente
più bipede, ma deve esserci qualcosa oltre di ciò, se ciò è preso
soltanto come materia: qualcosa che non è elemento nè un derivato da un
elemento, ma è sostanza, prescindendo dalla quale non rimane se non la
materia. Se, dunque, questo «qualcosa » è la causa dell’esser suo e della
sostanza, Si dovrà indicare in esso la sostanza stessa ('). Ora,
questa o è eterna, ovvero è corruttibile senza perciò perire, e diviene
senza che perciò si possa dir prodotta. Noi abbiamo altrove mostrato e
spiegato come la specie nessuno la produce o genera, ma quel che si fa è un
qualcosa di determinato, e quel che si genera è l’insieme. Se poi
le sostanze delle cose corruttibili siano separabili, non abbiamo
ancora chiarito, salvo che nei casi in cui è evidente ch’è impossibile, e son
tutti quelli in cui non può esistere la sostanza fuori dei particolari,
ad es., una casa o una suppellettile (*). Ma forse queste non sono da
riguardare come sostanze, e insieme a esse nessuna di quante altre cose
non sono prodotte dalla natura: chè la natura, essa sola, si può chiamare
sostanza nelle cose corruttibili. Perciò non è fuor di proposito la
questione agitata dai seguaci di Antistene e da altri rozzi come loro; i
quali Seguendo la volgata e
l’interpretazione di Alessandro (553, 7) l'accento polemico sarebbe, non
contro il materialismo, ma contro l’idealismo astratto dei Platonici, e
si tradurrebbe così: «.,... ma è sostanza: quella sostanza, a cui si
riferiscono quanti prescindono dalla materia, Se, dunque, questo qualcosa è la
causa dell'essere, e questa è la sua sostanza, essi si riferiranno (col loro
prescindere dalla materia) per l’appunto alla sostanza». Ma par evidente che
non è questo il senso del discorso qui. Meglio, piuttosto, mantenere, con
la volgata, anche l’oò dato da E (1. 14): « Se, dunque, questo qualcosa è
la causa dell’esser Suo, e questa è la sua sostanza, essi [prescindendo
da essa) si troveranno a non dire quel che è la sostanza stessa dell’uomo
[la sua vera realtà)». Così anche il Ross. Cfr. VII. 8, e nota a 7,3. Per A., non
ostante il suo frequente esemplificare con immagini prese dalla produzione
dell’arte, vere e proprie sostanze sono quelle naturali. L'uomo, infatti,
può indurre forme accidentali soltanto, non essenziali in ciò che già esiste ed
ha, quindi, una propria natura già. dicevano ch’è impossibile definire
quel che una cosa è('), perchè definire, per essi, è un tirare il
discorso in lungo, ma si può dire e insegnare soltanto qualche qualità
della cosa: dell’argento, ad es., non ciò che è, ma che è simigliante al
piombo. C'è, allora, una sostanza; e di essa si dà una definizione e un
concetto: di quella cioè composta, sia essa sensibile o intelligibile; ma
non degli elementi da cui essa risulta composta, una volta che il
discorso definitorio ‘significa che qualcosa conviene a qualche
altra, delle quali l'una dev’esser presa nel senso di materia,
l’altra di forma. Questo ci fa vedere anche che, se si vuol sostenere
da un certo punto di vista che le sostanze sono numeri, si dovrà
intendere come s’è detto, e non, come alcuni pretendono (?), che sian
collezioni di unità. Si dica pure che la definizione è un numero, poichè
infatti è divisibile e si risolve in elementi indivisibili (chè i concetti non
sono infiniti): proprio come il numero. E come il numero, se tu vi
sottrai o aggiungi qualcuno degli elementi suoi
e sia pure il più piccolo , non è più lo stesso numero, ma un
altro; così, Se la sua essenza è semplice (v. VII. 10, 17), anche per A. è
oggetto di vénows, non di 6propdc. Ma qui il discorso va ripreso dal $ 4,
come una prova ‘che il principio di una cosa non è dato da una sonma di
elementi. Benchè gli Antistenici (per i quali, v. Teeteto, 201 e; e lib.
V. 29, 2) intendessero ben altro (la definizione è, per essi, una
évopétov cvurioxi, che allunga in un A6y0g paxeés quella parola unica che
sola è propria della cosa: nota, per un confronto, il caso aristotelico
di una definizione meramente verbale, come di «Iliade »). Anzi, A. ne
trae argomento (nel par. seg.) per confermare la validità della definizione,
la quale non è somma (animale + bipede), ma rapporto formale di genere
(materia) a specie (forma). Ovvero, s’intenda la definizione nel senso di
VII, 4, 13. Platone e Platonici
pitagorizzanti, identificando le idee con i numeri, e considerandole
insieme come usie e universali, davano anche del processo dofinitorio una
ragione matematica. A. oppone alla concezione di un molteplice come
aggregato (e tale è l'idea in quanto usia composta di usie: cfr. n. a VII. 15,
6) la sua concezione di un molteplice organico, e a quella dell’unità
astratta (0 tale è l’idea in quanto universale) la sua concezione
dell'unità concreta. Questi paragrafi, duuque, sono strettamente legati a
quanto precede e il capitolo non è, come sembra (v. Ross, p. 231), una
collezione di pensieri sconnessi (lo stesso $ 5, che sembra interrompere
la continuità del ragionamento, è suggerito da quanto precede circa
l'apriorità della forma, che per A. è legata alla questione della sua
eternità, o meno; e introduce il concetto dell’unità viva, naturale,
della sostanza). neppure la definizione e la pura essenza è più la
stessa, se vi togli o aggiungi qualcosa. E anche pel numero ci ha da
esser qualcosa che gli dà unità; ma quel ch’esso sia, per cui il
numero, se possiede unità, è uno, non trovano modo di dire. Poichè o il
numero non ha unità, ed è come un mucchio; ovvero, se è uno, debbono
dirci che cos’ è quel che del molteplice fa un’unità. E poichè la definizione
similmente possiede unità, neppure di es sa sanno rendersi conto. Ed è naturale
che avvenga così, perchè la ragione è la stessa: la sostanza è una nello
stesso senso, non, come intendono alcuni, quasi fosse una specie di unità
o di punto, ma perchè ciascuna è atto in atto compiuto e una natura
determinata. E come il numero non ammette un più e un meno
nell’esser suo, così neppure la sostanza in quanto forma; ma, se
mai, in quanto è unita alla materia (*). Bastino queste
considerazioni intorno alla generazione e corruzione delle sostanze
suddette, in qual senso è possibile e in quale no, e intorno alla
riduzione di esse al numero. CariToLO IV. Per quanto
riguarda la sostanza materialmente considerata, non si deve trascurare che, se
anche tutto viene da uno stesso elemento primitivo o dagli stessi
elementi primitivi, e una medesima materia serve da principio alla generazione
delle cose; pure, c’è una materia propria di ciascuna di esse. Per es.,
materia, immediatamente, della flemma sono elementi dolci e grassi, della
bile elementi amari o altri che siano: anche se hanno la stessa origine.
Per uno stesso oggetto ci possono esser più materie, quando una sia
materia dell’altra: poniamo, la filemma si può dire che vien tanto
La sostanza è esattamente
(puntualmente, quasi matematicamente) quel che è. Ci può esser un più o
un meno nel suo essere, se mai, considerandola dal lato materiale (in
quanto, poniamo, non ha ancora realizzata pienamente ia sua
forma). dal grasso quanto dal dolce, se il grasso deriva dal dolce;
e si può anche dire che vien dalla bile, se si risolve questa sino alla
sua materia prima. Poichè una cosa si dice che viene da un’altra in due
sensi: o nel senso che l’una è uno svolgimento dell'altra, o perchè segue
all’altra risolta ne’ suoi elementi ('). Può darsi poi, che la materia
sia la stessa, eppure, mercè la causa motrice, divenga cose diverse,
per es., il legno può diventare tanto un armadio che un letto. Per
alcune cose affatto diverse ci vuole di necessità una materia diversa: ad
es., un’ascia non si potrebbe fare di legno, e non è questione qui della
causa motrice, perchè nessuno potrebbe fare un’ascia con lana o legno.
Se, quindi, c’è modo di fare uno stesso oggetto di materia diversa,
è chiaro che l’arte e il principio motore è lo stesso. Che se così
la materia come il motore son diversi, anche il prodotto è diverso.
Quando si domandi quale è la causa di una cosa, potendo di causa
parlarsi in molti sensi, bisogna enumerare tutte quelle che possono far
al caso. Per es.: qual’è la causa dell’uomo in quanto materia?
Certamente, il menstruo. Che cosa fa da motore? Lo sperma, per l’appunto.
Quale, da forma? La pura essenza. Quale, da scopo? Il fine
dell’uomo. Si può dire che queste due ultime cause coincidano.
Bisogna, poi, delle cause addurre quelle più vicine, e se si chiede
la materia, non rimontare al fuoco e alla terra, ma a quella ch’è
propria. Per le sostanze naturali, dunque, e soggette a
generazione è necessario procedere così, se si vuole procedere dirittamente,
dato che tali e tante sono le cause, e che noi dobbiamo conoscere le cose per
le loro cause. Ma per le sostanze che, sebbene naturali, sono eterne, la
questione è diversa. Alcune probabilmente, non hanno materia, o almeno non
l’hanno come quella ricordata, ma una materia mutabile soltanto
spazialmente. E neppure per quante cose avvengano naturalmente, ma non sono
sostanze, non si può far questione di materia: in esse è la sostanza
soggetta al fenomeno che fa da sostrato. Poniamo che si cerchi la causa
dell’eclissi. Qual’è la materia? Non c’è la materia, ma c’è la luna
che subisce l’eclissi. Quale la causa motrice dell’eclissi, e che sottrae
la luce? La terra. Quanto allo scopo, non pare che sia da parlarne('). La
causa formale è il concetto, ma esso resta oscuro, se non è accompagnato
dalla causa. Per es., che cos’è l’eclissi? Privazione di luce. Se si
aggiunge che ciò avviene perchè la terra s’interpone nel mezzo tra il
sole e la luna, allora questo è un concetto accompa- gnato dalla causa
(?). Quanto al sonno, non è chiaro quale sia il suo primo sostrato. Che
altro si può dire se non l’animale? Certo, ma da qual
punto di vista considerato? e qual è l’organo ch’è propriamente affetto?
Il cuore, o un altr’organo. Poi: da che cosa è prodotto? Anche: qual’è
l’affezione propria, non dell'organismo intero, ma di quell'organo? Si dirà
ch’è una specie d’immobilità? Sì, ma per quale affezione propria e
primitiva di un organo ha luogo quell’ immobilità?
CapPiTtoLO V. Poichè alcune cose esistono senz’esser generate, o
non esistono senza che perciò siano perite, ad es., il punto (*)
(dato che si possa parlare della sua esistenza) e, in generale, le specie e le
forme; e poichè non la bianchezza diviene, ma il legno bianco se ogni cosa che si genera, si genera
da qualcosa e diviene qualcosa ; non basta, dunque, che ci siano due
contrari perchè si generino l’uno dall’altro: un uomo nero diventa
bianco, ma non si può dir nello stesso Il movimento del sole è, senza
dubbio, Evexé tov, e così quello della luna; ma i due, agendo insieme,
possono produrre un risultato che non è Évexé tou» (Ross, a q. l.):
l'eclissi è, dunque, un esempio di quel taùrépatov, di cui si parlò in
VI. 2-4 e VII. 7. Efficiente:
che, in questi casi, si accompagna alla formale in sostituzione della
finale (Ilnddove, nelle cose che si generano secondo natura, la causa formale è
insieme finale, $ 4, anzi efficiente-finale). modo che il nero diventi bianco.
Aggiungi che non in ogni cosa c’è materia, ma in quelle soltanto che si
generano e passano le une nelle altre: tutte quelle che ci sono o
non ci sono, senza quel passaggio, non hanno materia. Sorge qui la
questione: come si comporta la materia di ogni cosa rispetto ai contrari?
Per es., se il corpo ha in potenza la salute, e alla salute è contraria
la malattia, ha, dunque, in potenza tutte due? E l’acqua è in potenza
vino e aceto? Ovvero essa è materia del primo secondo la sua natura
e per rispetto alla forma, e del secondo per privazione e per una
degenerazione contro natura? Si può domandare anche perchè, sebbene
l’aceto venga dal vino, il vino non è materia dell’aceto e aceto in potenza. E
l’essere vivente, similmente, è forse un cadavere in potenza? Non pare: la
degenerazione non è mai sostanziale; ma è la materia dell’essere vivente
quella che nella degenerazione è materia e potenza del cadavere, così
come l’acqua dell’aceto. L'una cosa, qui, vien dall’altra nello stesso
modo, che la notte dal giorno (!). Quando il passaggio tra gli opposti è
in questo modo, bisogna rimontare sino alla materia d’entrambi: per es.,
affinchè dal morto si generi il vivo, bisogna che quello ritorni prima alla
materia, e da questa poi si avrà il vivo; e l’aceto ridivenga acqua, per
poi diventar così vino. Ripigliamo la questione sollevata intorno alla
definizione e al numero: qual’è la causa della loro unità? Poichè
tutte le volte che le cose hanno parti molteplici e il tutto non è
Cfr. XII. 4, 5: l'aria è la loro
materia comune. Questa, dunque, può avere un processo di evo!zimento
(l’acqua diventa vino), o di degenerazione (aceto); onde soltanto per
accidens si può dire che il vino diventa aceto. Così il vivo non è il
morto in potenza (quasi che questo fosse l’atto di quella potenza: l'atto
è sempre una realtà superiore): scomparendo la forma, con la morte, resta
la materia, e questa è che si corrompe (e ridotta alla materia originaria
può riprendere di qui il processo ascensivo verso la vita). Ricorda, per
la generazione dei contrari, il Fedone come un mucchio, ma è qualcosa di
totale oltre le sue parti, dev’esserci qualcosa che sia la causa della
loro unità (‘). Lo vediamo anche nei corpi: talora è un’esterna adesione
la causa della loro unità, talora una coesione interna, o altra
condizione del genere. La definizione è una serie di parole che ha unità,
non per un collegamento di parti similmente all’ Iliade, ma perchè di un’unica
cosa. Che cos'è, per es., che fa l’unità dell’uomo, e perchè è uno e non
molti, animale e bipede? Alcuni dicono, per l'appunto, che esiste un
animale in sè e un bipede in sè. E perchè, allora, l’uomo non
potrebb’essere quelle due cose, ed esser uomo per partecipazione, non del
concetto di uomo e di un’unica essenza, ma di due, animale e bipede? In
breve: l’uomo non sarebbe, così, una cosa sola, ma più: animale e bipede.
È chiaro che per questa via, abituale a quei che in tal modo
definiscono e parlano, non si riesce a dar conto e a sciogliere la
questione. Se, invece, come noi dieemmo, l’una cosa è materia e l’altra è
forma, l’una è in potenza e l’altra in atto, quel che si cercava non
apparirà più dubbio (’). La difficoltà sarebbe la stessa come se la
definizione di « vestimento » (5) fosse « bronzo sferico »: poichè quel
nome sarebbe il segno del concetto, e rimarrebbe quindi a sapere la causa
per cui la sfericità e il bronzo fanno una cosa sola. Ma la
difficoltà scompare, se si fa osservare che l’uno è materia e Nota in questo concetto il deciso superamento
dell’empirismo, come già in VII. 17, 8 88. Cfr. VII. 12. Ma in questo capitolo il
pensiero è portato a un punto più chiaro e decisivo per il concetto
dell’atto che in questo libro accompagna o sostituisce quello della
forma. Qui il dualismo è superato: materia e forma non 8’ intendono, e
non esistono, l'uno fuori del rapporto all’altro (e così essenza ed
esistenza, individuo e universale): è la forma stessa che dà ragione del
sinolo nel processo di determinazione di questo dalla potenzialità
all’attualità. Per il $ 1 osserva lo Schwegler (che ha spesso acute
considerazioni per il lato filosofico): « Ci sono due specie di unità:
quella dell'aggregato e quella organica. Nelle produzioni organiche della
natura, ad es., il tutto non è un prodotto, ma, invece, il prius e la
ragione del prodursi delle parti. Soltanto ciò che ha unità formale, ha
una ragione del suo esser uno; tuttavia anche i corpi inorganici, 6e
fanno un insieme, hanno un principio, esteriore, per la loro unità » {p.
151). Cfr. VII. 4, 7: per
accentuare, con l’unità del nome, l’unità della definizione.
ARISTOTELE, Metafisica, 18 Q74 METAFISICA l’altra è
forma. E qual’è la causa per cui l’essere potenziale 5 diviene attuale?
Non ce ne può esser altra, nelle cose soggette al divenire, fuori di quella
efficiente. Nè può esserci causa diversa, per cui l’essere ch’era sfera
in potenza è ora sfera in atto, se non la pura essenza, ch'è la ragion
d’essere di ciascuno dei due. ' La materia poi può essere o
sensibile o intelligibile (*). 6 E il concetto si compone sempre di una
parte ch’è la materia e di una ch’è l’attualità sua: per es., cerchio è
una certa figura piana. Le cose, invece, che come individua- 7 lità, qualità,
quantità non hanno materia nè sensibile
nè 1046 b intelligibile, sono immediatamente ciascuna qualcosa che
ha unità e realtà per se stessa (?). Questa è anche la ragione 8
per cui nelle detinizioni non han luogo nè l’essere nè l’uno: chè la pura
essenza è immediatamente, per se stessa, qualcosa che ha essere e unità, onde
nella definizione e nella pura essenza non c’è bisogno di chiedere altra
causa, fuori di loro stesse, della loro unità e realtà: poichè ciascuna
quel certo essere e quell’unità determinata, che le competono, li
La distinzione, qui, ha altro
senso che in VII. 10, 18 (dove riguarda le cose). Nella definizione il
genere è materia intelligibile. (Anche materia sensibile, se la definizione è,
in più largo senso, del composto e della cosa sensibile: cfr. VII. 7, 12; VIII.
2, 6-7). Tali sono le categorie.
« Ch'esse non abbiano materia intelligibile, è chiaro: materia
intelligibile noi diciamo i generi, e delle categorie non c'è un genere,
chè sono esse i generi somml e non è possibile che ci sia una natura che li
sorpassi in generalità. Ma neppure hanno materia sensibile, perchè questa è
delle cose composte e sensibili, non già delle cose semplici e
intelligibili: ora, l’individualità e la quantità e le altre categorie sono
realtà semplici e intelligibili »: Alessandro (562, 32). Noi le diremmo
concetti puri: efr. VII. 9, 8-9. Per
l'ente” e l'uno, cfr. III. 4,31 ss. Il tne può esser inteso per le pure
essenze in generale (cfr. IX. 10,7; X. 1,4), 0 per quella delle categorie
(così il Ross). Nel primo caso l’immediatezza e molteplicità dovrebbero
esser risolte ($ 5) nell'unità mediata del pensiero definitorio, quando
questo fosse considerato, non più in una logica discorsivo-soggettiva, ma
nell'attività del nous che in essa si esplica. Questo punto è molto
oscuro in A., per il quale il nous è il primo principio logico-gnoeeologico, e
però principio e fine anche della verità del pensiero dianoetico; ma
l’atto della vénaws non perciò si risolve nel processo di esso: chè nell'uomo,
come fn Dio, esso è, por se stesso, immobile (e il suo proprio oggetto è
semplice, senza composizione). Cfr. IX. 10, 6-9; XII. 9,8. Nel secondo
caso si dovrebbe intendere la definizione (delle categorie) in senso molto
largo. ha immediatamente, per se stessa, e non come se li ricavasse
dall’ Ente e dall’Uno considerati come suoi generi, ovvero come se questi
esistessero separatamente oltre ciascuna di esse. Intanto, questa
difficoltà ha dato occasione ad alcuni di parlare di partecipazione,
senza che poi abbiano saputo dire quale sia la causa della
partecipazione, e in che consista questo partecipare. Altri parlano di
associazione psichica, e, per es., Licofrone (') dice che la scienza è
un’associazione del sapere con l’anima; e c’è chi dice che la vita è una
composizione o collegamento di anima e corpo. Ma, così, si può
ripeter sempre lo stesso discorso: e l’esser sano sarà
un’associazione o composizione o collegamento, che dir si voglia,
dell'anima con la salute; e il triangolo di bronzo sarà una
composizione di bronzo con triangolo, e il bianco una composizione di
una superficie con la bianchezza. La ragione per cui parlano così è
ch’essi cercano un concetto unificatore e insieme la differenza della potenza e
dell’attualità. Ma, come noi abbiamo esposto, la materia ultima e la
forma sono una e medesima cosa (°), l’una in potenza, l’altra in atto.
Sarebbe come se uno cercasse la causa dell’unità e dell’esser uno un
oggetto: chè uno è qualsiasi oggetto, e l’essere in potenza e
l’essere in atto sono in certo modo una cosa sola. Sicchè non c’è
qui altra causa dell’unità tranne quella motrice, che fa passare l’essere dalla
potenza all’atto. Ciò, invece, ch'è immateriale, è sempre e assolutamente
un’unità per se stesso (?).
Sofista seguace di Gorgia: cfr. Zeller, IS, 1323 (n. 3). f toyxktn Gin xal # poegà taòrò xal Év (come
gradi di un processo unico, ma cfr. nota a IX. 8, 1). Questo non hanno
inteso coloro (Platonici e altri) che, dopo aver separate le due cose,
cercano «un concetto unificatore ».
Qui par chiaro che (in contrasto con le cose soggette al divenire) si
parla del tne in generale, e delle specie esistenti come puro atto (di
cui alla nota a VII. 8, 3). Così vien conchiusa la polemica contro l’ Uno
e l'Ente dei Platonici, risolvendo l’astrattezza di questi principii
nella determinatezza del tne (che ha unità e realtà immediatamente per se
stessa: $ 7), o del xéde x (in cui l'unità e realtà del tne si media nel
processo della potenza-atto: per quanto ricompaia quì l'immediatezza del
tne nell’identità dei due termini materia-forma, o si rimandi il principio
unificatore della loro dualità a una causa motrice o efficiente, $ 5, la
quale può essere esteriore all’attualità del c68e t.: l’uomo che genera
l'uomo. o lo scultore che produce la statua). LIBRO NONO
CapPiTOLO I. 1 Noi abbiam parlato dell'essere fondamentale,
cioè della sostanza, ch’è ciò a cui tutte le altre categorie dell’
essere si riferiscono: chè in grazia del concetto di sostanza
consideriamo come reale tutto il resto: la quantità, la qualità, e quant'altro
si predica di essa in questo modo: tutte implicano il concetto della sostanza,
come dicemmo nei ragio 2 namenti precedenti. Ma, poichè dell’essere si parla,
per un rispetto, come qualcosa di determinato, o come quantità o
qualità; per un altro, come potenza e come atto finale, e come il
realizzarsi di questo , dobbiamo adesso
passare 3 a dir della potenza e dell’atto finale. E cominceremo
dalla potenza nella sua principale e più propria significazione,
ancorchè non sia quella che più c’interessa qui (*): poichè 1046 a
Eoyov è tanto l’azione o funzione
che realizza il fine (tò téAi0g), quanto la cosa in cui questo si è
realizzato. Più difficile ancora è tradurre èvreAéyera [forse, da vò
tvredèg Egov, 0 Evreiws Exov: Ross]: atto finale, sia nel senso che ha il
fine in 8è, e sia nel senso che esso è il fine a cui tutto il resto tende
come alla propria perfezione. In questo secondo significato easo vuol essere
atto puro, atto in atto, onde ogni potenzialità sia risolta
nell’attualità piena e perfetta del t6be tu (che ha realizzato, così, il
tne). Nel primo significato èvr. è, più generalmente, l’attività
(#véoyea) o principio efficiente del processo che porta la potenza a
risolversi nell’attualità, la materia nella forma o pura essenza del
reale. Cfr. nota a VII. 13, 1.
In Metafisica (chè il movimento è oggetto, più propriamente, della
Fisica). Alla l. 36: yenarpotamn (Ab, Aless.). 278
METAFISICA potenza ed atto si estendono molto al di là delle cose
considerate meramente in rapporto al movimento. Dopo di aver accennato
alla potenza in quella significazione, illustreremo, nella
determinazione: dei concetti riguardanti l'attualità, anche gli altri
suoi significati. Altrove (‘') abbiamo spiegato già come le parole
Potenza e Potere si possono adoperare in molti sensi. Lasceremo qui
da parte tutti quelli in cui si parla di potenza per semplice omonimia:
chè alcune si chiamano potenze soltanto per una certa somiglianza: ad
es., in geometria possibile o impossibile dicesi quel che è o non è in certo
modo. Ma quelle che appartengono alla stessa specie, tutte hanno
carattere di principii, e vengono riferite ad un unico concetto
originario della potenza, ch’è quello di esser principio di mutamento in
altro o in sè in quanto altro. C'è, infatti, la potenza di patire, che
nel paziente stesso è il principio di mutamento passivo per opera di
altro o di sè in quanto altro; così come c’è l’abito per cui una cosa non
può patire peggioramento o distruzione da un principio di mutamento che
sia in altro o in sè in quanto altro. Tutte queste definizioni contengono
il concetto di potenza nel suo senso originario. E potenze poi chiamansi
medesimamente sia quelle del fare o patire in generale, sia quelle del
fare o patire in maniera conveniente: sì che anche nel concetto di esse è
immanente in certo modo il concetto delle potenze dette dianzi. È
dunque evidente che la potenza del fare e quella del patire
esistono, per un rispetto, come una sola e medesima potenza, e
per Vedi V.12 (e note per la traduzione dei termini). In generale, potenza
è iu primo luogo la facoltà o capacità di dar principio a un processo di
mutamento in altro, o in 8è in quanto altro (come se un medico curi se
stesso: egli cura sè, paziente, in quanto altro da sè, agente); o di
ricevere questo processo. La potenza è, quindi, o attiva o passiva:
quest'ultima è o di patire in generale, o di ricevere un mutamento in
meglio (o in peggio): potenza attiva e potenza passiva, quindi, possono esser
ristrette al senso dell’agiro o patire bene (in modo conveniente rispetto
a un fine). Come nota il Bonitz (p. 379), questa distinzione si complica
con l'altro significato del Buvarév e dduivarov, di ciò ch'è « possibile
» o «impossibile ». Nè A. tiene abbastanza distinti questi due punti di
vista: l'uno reale; l’altro logico-reale, in assoluto, o in senso
empirico (di ciò che può accadere, o no): ch'è un senso affine a quello dell’
èvSeyxbpevov. altro rispetto come cose diverse: poichè fornito di potenza
è un oggetto tanto se ha la capacità di patire esso stesso per
opera di altro, quanto se ha quella di far patire un altro per opera sua.
Per un rispetto, infatti, la potenza è in quel che patisce, perchè esso
patisce ciò che patisce, ed è altro dall’agente, in quanto ha in sè un
certo principio a essere [e a non-essere], ed è là materia un tal
principio: così, il grasso è infiammabile, e ciò ch’è fragile si può far
in pezzi, e via dicendo similmente per gli altri casi. Per altro
rispetto, la potenza è nell’agente, per es. il caldo o l’arte di
costruire è l’uno nel calorifero, l’altra nel costruttore. Per cui, se
in un essere i due aspetti non sono distinti, non può patir nulla
da sè: esso è uno e identico con sè, e non diverso da sè. La mancanza di
potenza, poi, o impotenza, è la privazione ch'è il contrario di tale potenza:
onde ogni potenza si oppone a un’impotenza, dello stesso oggetto e per lo
stesso rapporto. Ma di privazione si parla in molti sensi ('): privazione
c’è se l'oggetto non ha certe qualità, semplicemente; o non le ha mentre
naturalmente dovrebbe averle, o sempre, o quando dovrebbe averle: e in
quest’ultimo caso se ne manca in un modo determinato, per es.
perfettamente, o ne manca in ogni modo. E in certi casi parliamo di
privazione anche per quelle cose a cui la violenza ha tolto ciò che
avrebbe naturalmente. Poichè principii siffatti trovansi e negli esseri
inanimati e in quelli animati, nell'anima e in quella parte di essa
provvista della ragione, è chiaro che anche delle potenze alcune sono
irrazionali, altre s'accompagnano alla ragione. Tutte le arti e scienze
poietiche sono potenze: principii, cioè, di mutamento in altro o
nell’agente in quanto altro. Tutte quelle dotate di ragione sono, ognuna,
potenza insieme di contrari; di quelle irrazionali ognuna è potenza di Così
anche in un solo contrario: ad es., il caldo ha la potenza di scaldare
soltanto, mentre la scienza medica riguarda tanto la malattia quanto la
salute. E la ragione è che la scienza è concetto, e 3 uno stesso concetto
fa vedere insieme il fatto e la sua privazione, ma non nella stessa misura,
perchè, pur essendo il concetto di entrambi, fa vedere piuttosto il lato
positivo. Sì che anche ognuna di dette scienze sarà, insieme, dei
contrari: dell’uno, tuttavia, per se stessa, dell'altro non per se stessa:
poichè il concetto riguarda l’uno per se stesso, l’altro in certo modo
per accidente (‘). Esso fa vedere, infatti, il contrario negativamente e
per rimozione: chè il contrario del fatto consiste nella privazione
originaria, e questa si ottiene con la rimozione del contrario positivo. E
poichè i con- 4 trari non possono esser insieme nello stesso oggetto, e
la scienza invece per la sua razionalità è una potenza quale 8’è
detta; e poichè l’anima ha in sè il principio del movimento, avviene che, mentre ciò ch’è salubre produce
soltanto la salute, e il calorifero soltanto calore, e il frigorifero
soltanto freddo, l’uomo che sa produce amendue i contrari. Poichè il
concetto abbraccia ambedue, sebbene non nella 5 stessa maniera, e ha sede
nell’anima, la quale, possedendo in sè il principio del movimento, e
unendo col pensiero i contrari nello stesso oggetto, li può muovere (?)
entrambi in virtù del medesimo principio. Ecco perchè le potenze
agenti razionalmente, abbracciando i contrari con un unico principio, la
ragione, operano contrariamente a quelle che della ragione sono
sfornite. Così come il non-essere è un essere per accidente, non in sè e
per sè. Nel pensiero, tuttavia, il rapporto è più profondo: i due
concetti sono uniti; anzi uno è la negazione (&rmégpaars), la
rimozione (&ropopd) 0 privazione originaria (reotm, radicale),
dell'altro (del positivo): dal quale soltanto ricava il proprio
significato. C'è un accenno, rilevato dallo Schwegler (p. 160), al
concetto della mediazione. Infatti, il principio di entrambi è il
medesimo ($ 5). Produrre (i
concetti contrari dell'oggetto, i. e. l’oggetto stesso della contrarietà). If
principio del movimento è l’appetito, comune agli animali. Ma l'uomo
soltanto è potenza attiva capace di produrre effetti contrari, perchè presenti
insieme nel guo pensiero, e questo solo fa dell'appetito una volontà
consapevole (Si può trovare, così, un accenno al libero arbitrio).
L'animale non sa, ed è, per ciò, come le cose, che non hanno possibilità
di scelta. È evidente anche che alla potenza di operare o patire in
modo conveniente si accompagna sempre la potenza difoperare o patire
semplicemente, laddove a questa non si accompagna sempre quella: per la ragione
che, se si opera bene, . necessariamente, anzitutto, si opera; ma non
per il fatto di operare, semplicemente, segue di necessità che anche
si operi bene. Ci sono alcuni, ad es. i Megarici, i quali dicono che
il potere c’è soltanto quando c’è l’azione, e che quando l’azione
non c’è, neppure c’è il potere: per cui, poniamo, se uno non costruisce,
non ha il potere di costruire, ma l’ha chi è costruttore quando
costruisce; e negli altri casi, similmente. Non è difficile vedere in
quali assurdità vanno a conchiu 2 dere. Poichè è chiaro che nessnno sarebbe più
costruttore se non costruisce, laddove esser costruttore è esser in
grado di costruire; e così dicasi per le altre arti. Se, dunque, è
impossibile che possegga tali arti chi non le ha una volta imparate e
apprese, ed è impossibile che uno non le possegga più se non le perde (o per
dimenticanza, o per qualche 1047 a malattia, o perchè è passato molto
tempo: non certamente perchè intanto sia andata distrutta l’arte: chè
essa c'è sempre): come il costruttore perderebbe l’arte quando
cessa di costruire, e come poi di nuovo l’acquisterebbe appena si
3 mette di nuovo a costruire? E dicasi lo stesso per le cose inanimate:
nè il freddo, nè il caldo, nè il dolce, nè in generale nessuna cosa sensibile
esisterà più se noi non la sentiamo: sì che ad essi accadrà di ripetere
il ragionamento di Protagora. E neppure possederà la sensibilità chi noh si
trovi Lett.: l'oggetto
(me&iypa) dell’arte, il concetto. Questo capitolo e il seguente si attaccano
meglio al cap. I. Cfr. IV. 5-6.
Costoro, dunque, accentuano della dottrina protagorea il momento attualistico
(nel senso puntualistico, dell'istante temporale). Per quanto riguarda il
concetto della possibilità, che costoro fan coincidere con quello della
realtà (dell'essere, riannodandosi, così, all'affermazione parmenidea, che
esclude a sentire effettivamente, in atto. Se, quindi, cieco è chi,
pur fornito da natura della vista, non vede quando sarebbe in
condizione di vedere, accadrà che uno stesso, perdurando ad essere,
diventerà molte volte al giorno cieco e sordo. Inoltre, se impotente (')
si-deve dire ciò ch’è privato della potenza, ciò che non è già in
divenire sarà impotente a divenire, e mentisce quindi chi afferma che ciò
ch’è impotente a divenire è o sarà: poichè questo appunto si vuol dire
con «impotente ». Ma, allora, con questi ragionamenti si sopprimono il
movimento e il divenire: ciò che si trova in uno stato, sempre starà in
quello, e chi è seduto starà seduto sempre, e chi si siede non potrà
alzarsi più: poichè, chi non ha la potenza di alzarsi, è impotente ad alzarsi.
Se, dunque, questi son discorsi che non reggono, è manifesto che potenza
e atto non sono la stessa cosa, e poichè, invece, quei discorsi
fanno della potenza e dell’atto una sola cosa, bisogna dire ch’ essi
cercano di sopprimere una differenza che non è trascurabile. Invece, noi
diciamo che ben può darsi che qualcosa abbia la potenza di essere, e
intanto non sia, e abbia la potenza di non essere, e intanto sia; e che
la cosa sta similmente per tutte le categorie, onde, ad es., chi ha la
potenza di camminare può anche non camminare, e chi ha ia potenza
di non camminare può anche camminare (?). Un essere ba una certa potenza
se non c’è nessuna impossibilità ch'egli il nou-essere e il
divenire), e intorno al significato della testimonianza di Diodoro Crono in
proposito (sul quale v. Zeller, II4, 1, 269), v. MEIER, in Archiv f.
Gesch. da. Philos., XIII. 31, e le considerazioni del Ross (a q. l.). O
«impossibile » (&8yvatov): qui sono conglobati i due significati,
della potenza reale e della possibilità logica; e la tesi vien presentata
da A., così: Se impotente (impossibile) è ciò che non può (non ha la
potenza di) essere, di questo non si può dire nè che è, nè che sarà: può
essere soltanto ciò che attualmente è anche quello che sarà o non sarà. Ciù che già non è in divenire, ciò che
non sta accadendo, attuandosi (yiyvépevov, meglio di yevépevov). LI. 23-24: fadlterv e 6v, invece di fadltov e
eivar (così anche il Ross). Per accentuare di più il concetto di possibilità
bisognerebbe tradur quel che segue, così: « Possibile è una cosa se non
c'è nessuna impossibilità (nessun assurdo) che abbia luogo l'atto di ciò di cui
quella dicesi aver la potenza». Una contaminazione dei due concetti è
necessaria ad evitare l'apparenza, almeno verbale, di un circolo vizioso.
traduca in atto ciò di cui dicesi aver la potenza. Voglio dire, ad es.,
che se uno ha la potenza di sedere e si trovi a dover sedere, non c’è
nessuna impossibilità, per lui, di passar all’atto. E similmente se si tratta
d’esser mosso o di muovere, di situarsi o di situare, di essere o
divenire, di non essere o non divenire. La parola «attività»,
implicante un rapporto all’ entele‘chia o atto perfetto, sebbene estesa ad
altri significati, trae origine principalmente dalla considerazione dei
movimenti, poichè sembra che il movimento soprattutto sia attività.
Ecco perchè alle cose che non esistono nessuno attribuisce movimento,
bensì alcuni altri predicati: si dice, per es., che sono pensabili o
desiderabili cose che non esistono; ma non che siano in movimento: e
questo perchè, altrimenti, cose che attualmente non esistono dovrebbero
già esser in atto. 1047 b Ben è vero che, delle cose che non esistono,
aleune hanno la possibilità di esistere; ma non esistono, in quanto
non ancora è cominciato il processo finale che le realizza. Ora, se
« fornito di potenza» è quel che s'è detto (in quanto ne è una
conseguenza) (*), è manifesto che non si può esser nel vero dicendo:
questo è possibile, ma non si realizzerà mai: giacchè, in questo modo, ci
sfuggirebbe che ci son cose che non posson essere. Prendiamo un esempio:
se uno dicesse che la diagonale è possibile misurarla, ma
non L'èvéeyera sembra, qui (6-9), distinta dalla xivnois, in quanto questa
riguarda il principio di mutamento in altro (I, 5), quella, equivalendo
all’evreréyera (nel primo significato, di cui alla nota 1, 2), è attività
che realizza se stessa (come Sè o come altra? cfr. XII. 9, 5-6). Il
pensabile non esiste fisicamente, e però non gli si attribuisce
movimento; pure può esistere nel processo di realizzazione dell'attività del
pensiero, se questo si pone a pensarlo.
dvvatév è quando non c'è nessuna impossibilità ecc., come al $ 7 del capitolo
precedente. Costoro, attualizzando
l’eusere parmenideo, sopprimono la distinzione tra ciò che ha e ciò che
non ha la potenza di realizzarsi (tra « possibile » e «impossibile »: tutto è
possibile, anche se non avverrà mai). sarà misurata mai, perchè niente
vieta che una cosa che può essere o divenire, non sia ora nè in
seguito, costui
ragionerebbe come se non ci fossero casi d’impossibilità. Invece, da quel
che s’è stabilito dianzi deriva di necessità che, affinchè sia lecito anche
solo supporre l’essere o il divenire di una cosa che non esiste ancora, ma è
possibile, bisogna ch’essa non racchiuda nulla d’impossibile. Ma
nel caso accennato si avrebbe qualcosa d’impossibile: chè la
diagonale e il lato non sonò commisurabili. Si badi che il falso e
l'impossibile non sono la stessa cosa: che tu stia in piedi ora, è falso,
ma non è impossibile ('). E chiaro è, insieme, che se, A essendo, è
necessariamente 8, allora, se A è possibile, dev’ essere possibile anche
B: poichè, se questa possibilità non seguisse di necessità, niente
impedirebbe la possibilità ch’esso non sia neppure. Poniamo, ora, che A
sia possibile. Allora, una volta che 4 è possibile, se si pone che 4 sia
realmente, nulla d’ impossibile dovrà risultarne. Allora, anche B dev’essere
reale. Invece, si voleva sostenere ch’è impossibile. Poniamo,
allora, Vero e falso possono riguardare soltanto la logica
discorsiva, ma anche la verità o falsità reale: nel qual ultimo caso,
l'impossibile, coincidendo col contradditorio, è anche il falso (cfr. V. 12,
8-9 e 29, 1). L'impossibile, invece, qui, non è il contradditorio,
semplicemente, ma «ciò che non ha la potenza di realizzarsi ». Il
ragionamento mira dunque ad affermare la necessità che la potenza, 6e è
reale, passi (o abbia l’effettiva capacità di passare) all’atto: si realizzi,
cioè, quandochessia, poichè non presenta nessuna difficoltà, reale e
logica, interna. Così mi par da intendere anche quel che segue, in cui il
rapporto tra A e 8 non dovrebb'esser pensato come rapporto tra due
realtà, ma come rapporto tra due concetti e momenti del processo (potenza e
atto) della stessa realtà. (In Anal. Pr., dove è lo stesso ragionamento,
il rapporto è tra premessa e conseguenza nel sillogismo ipotetico). Non si
scordi, infatti, che A. qui polemizza contro l’affermazione megarica Buvatrdv
pèv toòl, oùx Eorar dé: ch'è inaccettabile, dice A., perchè, dato che A e
B sian due concetti di cui l’uno richiama l’altro, non si può affermare la
possibilità o realtà dell'uno senza affermare la possibilità o realtà
dell'altro. Il passaggio dalla potenza all'atto è, quindi, logicamente
necessario, e ancho realmente, data la concezione deterministica universale di
A., per il quale ogni processo, essendo in qualche modo sempre già
iniziato, deve pervenire al suo compimento; ma, poichò la questione è qui
realistica anche in senso empirico, il passaggio o compimento può non
esser determinato nel quando e nel come. Cfr. nota a VI. 3, 4 per il
concetto dell’accidente e del caso. che B sia impossibile. Se B è
impossibile, impossibile necessariamente è anche A. Ma s'era posto che A fosse
possibile: allora, anche B è possibile. Se, dunque, A, è possibile, anche B
sarà possibile, dato che A e B siano in tale relazione che la realtà
dell’uno porti di necessità la realtà dell'altro. Se, trovandosi A B in
quella relazione, la possibilità di B non stesse a questo modo, allora neppure
4 B avranno tra loro la relazione che s'era posta. Se, invece,
quando A è possibile, di necessità anche 2 è possibile, dato che A sia
reale, sarà necessariamente reale anche B: poichè, che l’esser possibile
di B consegua di necessità se l’essere di A è possibile, vuol dire
appunto questo: che, dato che A sia possibile, quando e come è possibile,
anche la possibilità di B e il quando e il come di essa son dati. Di tutte
le potenze che possediamo, parte sono congenite, come quelle dei sensi;
parte si acquistano con l’abitudine, come quella di suonar il flauto;
ovvero con l’insegnamento, come quella delle arti ('). Quelle che si
acquistano con l’abitudine e col ragionamento, esigono di necessità un
precedente esercizio dell’attività. Quelle invece che non s’acquistano così, e
le potenze passive, di quel precedente esercizio non han bisogno.
Una potenza è sempre una potenza determinata a qualcosa, e in certo tempo, e in
certo modo, e con tutte le altre condizioni che debbono far parte della
definizione. E ci sono esseri che han potenza di muovere secondo ragione,
e di cui le potenze s’accompagnano perciò alla ragione; altri sono
sprovvisti di ragione, e le loro potenze sono irrazionali. Le prime
necessariamente esistono in esseri animati, le se Per es., l’arte del medico. Questo capitolo
prosegue l’argomento del cap. 2. E si richiama alla nota dottrina
aristotelica dell'atto che precede l’'Egts tin cui consiste la virtù:
etica e dianoetica): v. Eth, Nic. conde possono esistere negli animati e in
quelli inanimati. Queste ultime potenze son sì fatte che, quando l’agente
e il paziente s’incontrano in modo conforme alla loro potenza, di
necessità l’uno agisce e l’altro patisce; per le potenze razionali, invece,
tale necessità non c’è. Quelle, infatti, son tutte tali che una di esse
può produrre uno solo dei contrari; queste, invece, entrambi; sì che, se
tale necessità valesse anche per loro, produrrebbero insieme i contrari:
il che è impossibile. Bisogna, allora, che sia qualch’altra cosa
quel che decide (‘). Voglio dire il desiderio o la scelta razionale:
quello dei due contrari che l’animale ragionevole appetisce definitivamente,
quello farà, quand’ egli si trovi conformemente alla sua potenza e in contatto
con ciò che può ricevere la sua azione. Per cui, necessariamente,
l’essere che ha potenza conforme a ragione, fa, quando lo desidera,
tutto ciò di cui ha la potenza, e nel modo che l’ha. Egli ha, tuttavia,
tale potenza se il paziente è presente e nelle condizioni determinate:
altrimenti, non potrà operare. Nò c’è bisogno di aggiungere nella
determinazione che niente di fuori faccia impedimento: perchè ognuno ha
la potenza nel modo in cui questa è potenza effettivamente, e
questa non è potenza di operare in qualsiasi modo, ma in condizioni
determinate; e in ciò è implicita anche l'esclusione degl’ impedimenti
esteriori, in quanto questi sopprimono alcune delle condizioni essenziali alla
determinazione. E così pure, se uno volesse o desiderasse far nello
stesso tempo due cose diverse o anche opposte, non potrà furle: poichè
non è così ch’egli ha la potenza di fare quelle cose, e non esiste
potenza di farle insieme; egli farà soltanto ciò di cui ha, e come ha, la
potenza. Un principio interno, non esterno: la volontà, ossia l'appetito
illuminato dalla ragione (principio delle virtù etiche), ovvero la
ragione mossa dall'appetito (principio delle virtà dianoetiche): per
l’5peew e la xooalgeow v. Eth. Nic.Nota il riflesso della legge dei contrari
nella potenza dell'agire umano, e la determinazione storico-empirica
dell'atto volontario, in cui l'antitesi libertà-necessità è risolta nel
senso del secondo termine. un Dopo aver parlato della potenza
considerata in rapporto al movimento, passiamo a trattare dell’atto per
determinare quel ch’esso è, e i suoi caratteri. Con questo anche la
potenza verrà chiarita, pur che si ponga mente alla distinzione per cui
noi diciamo dotato di potenza non soltanto ciò che muove naturalmente
altro o da altro è mosso, senplicemente o in modo più determinato, ma
anche in un significato diverso: che è quello pel quale abbiam condotta anche
la ricerca su i precedenti significati. L’atto è l’esistenza stessa
dell’oggetto, non nel senso in cui diciamo ch’è in potenza (noi diciamo
ch’è in potenza, ad es., un Ermete nel legno, o la metà di una linea
nella linea intera, in quanto si può cavarla da questa; e diciamo
che uno è un pensatore anche se non sta speculando, perchè è in grado di
speculare): intendiamo, invece, che sia in atto. Ciò che vogliam dire
diventa chiaro ricorrendo a casi particolari, induttivamente: non bisogna
esigere definizione di tutto, ma bisogna talora contentarsi d’intuire il
significato dei termini nel loro rapporto (‘). L’atto, dunque, sta alla
potenza come il costruire al saper costruire, l’esser desto al dormire,
il guardare al tener chiusi gli occhi pur avendo la vista, come l’oggetto
cavato dalla materia ed elaborato compiutamente sta alla materia grezza e
all'oggetto non ancora finito. Con il primo dei membri di questa
differenza intendiamo che venga determinato l'atto, con il secondo la
po tò dv&hoyov ovvogiv (ho
svolto il concetto di proporzione; ma qui è compreso anche quello di analogia
nel senso più comune). Per il pensiero, cfr. 8. Tom. (1826): «Nam prima
simplicia definiti non possunt, cum non sit in definitionibus abire in
infinitum: actus autem est de primis simplicibus, unde definiri non potest».
Vedemmo già (VIII. 6, 7 n.) un equivalente in A. del moderno «concetto
puro ». In questo senso, anche, è anapodittica la filosofia prima (ma, poi, per
lui gi tratta di principi primi nel senso di ciò ch'è dato immediatamente
all'origine del conoseere: cfr. i passi di Anal. Post. cit. in nota a I.
9, 91). Pure, per la parte di verità ch'è in tale intuizione, non è
giustificata l'accusa ch'egli, per definire certi concetti, ne adoperi
altri che già li presuppongono.tenza. Ma non tutte le cose si dicono in atto
nel medesimo 6 significato, salvo che non s’intenda analogicamente,
come quando si dice: questo sta in questo o a questo nello stesso
modo che quello sta in quello o a quello. Esse, invece, sono in atto,
parte, come il movimento in rapporto alia potenza; parte, come la
sostanza in rapporto a una certa materia ('). Per l’ infinito (*),
tuttavia, e pel vuoto, e per tutte le cose 7 di questa specie, si parla
di potenza e atto in significato diverso da quello, più usuale, di quando diciamo,
ad es., che uno guarda, o cammina, o che un oggetto è veduto.
Queste affermazioni possono talora corrispondere a una realtà vera
e propria: noi diciamo che una cosa si vede, o perchè è veduta
effettivamente, o perchè è in condizione d’esser veduta. L’infinito, invece,
non è mai in potenza nel senso che possa poi diventare in atto una realtà
esistente per se stessa: esso è infinito in potenza per il pensiero.
Poichè dal fatto Nel primo
caso l'atto (attività) è definito dal rapporto tra due momenti del
procosso che realizza la forma (questo a questo: per es. il materiale
grezzo in rapporto alla costruzione della casa, o chi è seduto
all'alzarsìî e camminare); nel secondo, come attualità della forma
determinata (questo in questo: la casa esistente, Socrate che cammina).
L’eévéoyera è qui distinta dalla x(vnaws, non nel primo significato
dell’EvreAéyewa (v. nota a 3, 9), ma nel secondo. Il Ross (II, 252) riassume brevemente, dalla
Phys. (III. 4-8), la dottrina di A. su l’infinito. L’estensione è
infinita, per A., soltanto nel senso della divisibilità: xatà dualgeswy, non
xatà nedodeav (delle sue parti). Il numero, invece, infinito
(&irergov, indefinito) xatà snodateaw, nel senso della possibilità di
pensarne sempre uno maggiore; non xetà Bdialgearv (chè dividendo si
perviene all'ultimo limite, all'unità). E la sua infinità non è reale
fuori del suo processo. Il tempo soltanto è infinito xatà Sualpeaw e x.
rododeorv : infinitamente divisibile e realmente infinito; ma la sua
infinità è, come quella del numero, in continuo divenire. Quanto al
vuoto, similmente (P/ys., IV. 6-9): per quanto una materia si pensi più
rarefatta di un’altra, non esiste spazio senza qualche materia. Si può
aggiungere che, proprio per questo rapporto tra spazio e materia,. A. concepisce
l'estensione come finita; e che il tempo è per lui infinito nel senso in
cui è eterno il movimento (cfr. XII. 6, 2), ossia il divenire stesso. E che
l'infinità del numero, così come quella dello spazio, è veduta nell’attività
del peneiero che si esercita su l'oggetto, per sè, sempre finito. Così pel
vuoto: solo col pensiero si può vuotare lo spazio di ogni contenuto.
Probabilmente A. polemizza qui contro la dottrina democritea, oltre che
contro i presupposti delle argomentazioni zenoniane e le conseguenti
applicazioni della scuola megarica.
Un’esposizione della dottrina, tratta spec. dai libri di fisica, è in A.
CovotTiI, Le teorie dello spazio e del tempo nella filosofia greca fin aà
A. (Pisa che non si trova mai la fine a dividere, si deduce che questo è
un atto che ha una realtà puramente potenziale, non che l'infinito abbia
una propria attuale esistenza ('). Delle azioni che hanno termine (*),
nessuna ha valore di fine, ma soltanto di mezzi al fine: per es., il
termine del dimagrare è la magrezza, e se quel che d imagra si
riguarda così, quando è in questo movimento che non ha raggiunto
ancora lo scopo per cui il movimento avviene, non si può dire che ciò
costituisca un’azione, o, per lo meno, un’azione perfetta: perchè non è
questo il fine. Ma quando nel movimento si trova il fine, allora esso è anche
azione. Per es., l’atto del vedere è quello stesso di aver veduto, quello
di pensare e intendere è quello stesso dell’aver pensato e inteso;
invece, quello di chi impara non è lo stesso di chi ha imparato, nè
quello di chi guarisce è lo stesso di chi è guarito. L’atto del ben vivere è
quello stesso dell’aver vissuto bene, e quello dell’esser felice è lo
stesso in chi fu felice. Altrimenti, bisognerebbe una volta arrivare al
termine del movimento, come quando si fa la cura di dimagrare. Qui,
invece, no: chè si seguita a vivere, sebbene si sia vissuto f1) Non
ostante l’incertezza (l’infinito, in quanto indefinito, ha pure una sua
esistenza), è chiaro ad A. che il concetto d'un infinito attuato è
contraddittorio (onde sì fa strada il sospetto che la vera infinità è
soltanto del pensiero). Cfr. XI. 10. Il Bonitz accusa A. perchè, mentre
prima aveva definita la potenza, contro i Megarici, come capacità di
attuarsi, l'attribuisce qui, mira levitate, a un oggetto che tale
capacità non ha. Ma l’infinito non è un oggetto nel senso delle cose,
intorno alle quali verte la disputa precedente. E in ogni modo era da
notare con meraviglia anche il lato profondo, messo allo scoperto da A., in
tale contraddizione. Il
brano seguente, sebbene il pensiero dominante sia abbastanza trasparente, è nel
testo tra i più guasti di tutta la Metafisica. Esso manca nel codice
parigino E (sec. X), nel commento di Alessandro e in quello di 8. Tommaso,
e nella traduzione del Bessarione. C'è nel codice laurenziano Ab (sec.
XII). AccoGliendo alcune congetture del Bonitz (p. 397) sul testo, si può
intendere cosi: il dimagrare ha per fine la salute, non il fatto della
magrezza a cui pon capo il movimento del dimagrare; e se azione o
attività è aver il fine ultimo in sè, 80ltanto l’atto che non si esaurisce in
un termine o fine particolare, ma rimane essenzialmente identico a sè
attraverso i momenti del procéèsso, è perfetto, ed è vera e propria attività
formale: tale è l’atto del vedere, del pensare, del vivere, della
felicità. Così la perfezione dell’ &vreAéyera (nel secondo significato)
abbassa a x{wnow ogni altra forma di attività (anche quella
dell’apprendere). già. Di questi processi, dunque, gli uni son da dire
movi- 11 menti, gli altri attività; poichè ogni movimento è imperfetto:
il dimagrare, l’apprendere, il camminare, il costruire: i quali
sono, appunto, movimenti, e però incompiuti. Infatti non è 12 possibile
che coincida il passeggiare con l’aver passeggiato, il costruire con
l’aver costruito, il divenire con l’esser divenuto, o il muoversi e l’essersi
mosso, e il muovere e l’aver mosso: chè son cose diverse. Invece, l’atto
del vedere e quello d’aver visto, del pensare e dell’aver pensato,
coincidono. Ora, un processo di quest’ultima specie io lo chiamo
attività; l’altro, movimento. CapiTtoLO VII. Da
queste e altre simili considerazioni crediamo chiarito 1 quel ch’è
l’essere in atto e i suoi caratteri. Ora vogliamo determinare quando
ciascuna cosa è in potenza, e quando non è: poichè non in qualsivoglia
tempo è tale. Per es., 1049 a la terra è in potenza già un uomo, o non
ancora, ma piuttosto quando già è divenuta sperma? E forse neppur allora.
Avviene qui come per la salute: non ogni cosa può esser guarita o dalla
medicina o da sè spontaneamente, ma ci vuol qualcosa che abbia tale
potenza, e cioè abbia già la salute in potenza. Per le cose che dipendono
dal pensiero si può 2 definir la questione così: esse passano dall’essere
in potenza all’atto, quando siano volute e niente faccia
impedimento dal di fuori; e dall'altra parte, in chi ha da guarire,
niente faccia impedimento di quel ch’è in lui ('). Dicasi similmente
3 di ciò che deve diventare una casa: esso è una casa in po Alessandro (583, 12): « Per es., il medico
conduce il malato dalla potenza alla salute, quando se lo sia proposto e
non ci siano impedimenti esteriori: il luogo, il tempo, ece.: così dunque
si dovrà definire l’atto dell'agenterazionale; quello del paziente,
invece, dal non esserci impedimenti interiori: perchè un malato guarisca,
si richiede, infatti, che tutte le sue membra siano in condizione idonea a
ricevere la salute ». tenza se niente faccia impedimento di quel ch'è in
esso, sl che alla materia che deve diventar casa, non ci sia nulla
da aggiungere, nè da togliere o mutare. E altrettanto dicasi per tutte le
altre cose di cui il principio generatore è fuori. Per quelle, invece, di
cui il principio generatore è in loro, esse hanno tale potenza allorquando,
nessun ostacolo intervenendo di fuori, si realizzeranno da sè. Lo sperma, ad
es., non ancora ha tale potenza, abbisognando di passare in altro e
trasformarsi. Solo quando una cosa sia in grado di realizzarsi per un principio
suo proprio, si può dire ch’è già in potenza: lo sperma, invece, ha
bisogno d’un altro principio ('): così come la terra non ancora è statua in
potenza, ma deve trasformarsi e divenir bronzo. Come ognuno può
notare, dell’oggetto non diciamo ch'è questo (in cui è in potenza), ma
ch’è fatto di questo: l’armadio, poniamo, non è legno, ma di legno; e il legno
non è terra, ma di terra; e la terra, a sua volta, se deriva da
altro, non è quest’altro, ma è fatta di quest'altro. E quest’altro è sempre,
propriamente, la potenza di quel che vien subito dopo: per cui, ad es.,
l'armadio non è terra, nè di terra, ma di legno: chè questo è armadio in
potenza, e questa è propriamente la materia dell’armadio (dell’armadio in
generale, il legno in generale; di questo armadio particolare, questo
legno particolare). Che se s'incontra qualcosa di primitivo, che non venga più
denominato da altro come fatto di esso, allora quello è la materia prima:
se, per es., la terra è di aria, e l’aria è di fuoco, e il fuoco non
venisse denominato da altro, allora il fuoco sarebbe la materia prima
(?). Questa, poi, soltanto se diviene qualcosa di determinato, è
sostanza. Infatti, in questo differisce il sostrato o soggetto:
Il risultato dell'unione è, poi,
propriamente, la materia come potenza concreta dell'essere umano (come
principio già del processo generatore).
La quale ha, quindi, sempre qualche determinazione: soltanto in
rapporto a ciò che diventerà (poniamo, l’aria), è materia priva di forma.
Ho seguito nel testo l'emendamento proposto dal Christ (conforme
ad Aless., 589, 24). Per secondo ch'è, o no, un «che determinato » (‘). Il
sostrato 8 delle affezioni è, ad es., un uomo, un corpo, un’anima;
e affezioni sono l’ esser musico o bianco. E quando la musica diviene
nell’uomo, noi non diciamo che egli è la musica, ma musico, così come non
diciamo ch'egli è la bianchezza, ma bianco, non è la passeggiata o il
movimento, ma passeggia o si muove: così come dianzi dicevamo di un
oggetto ch’esso è fatto di questo o quello. In tutti i casi di questo
genere il sostrato ultimo è la sostanza. In quelli, invece, in cui
non sì tratta di un’affezione, ma quel che vien predicato è una
forma e alcunchè determinato, allora l’ultimo sostrato è la materia o
sostanza materialmente considerata. In ogni caso, si conchiude che
drittamente l’oggetto, che diciamo fatto così o così, prende questa
denominazione dalla materia e dalle affezioni: perchè quella e queste
sono indeterminate. Quando, dunque, si deve dire che un oggetto è in potenza, e
quando no, s’è detto.
CapirtoLo VIII. Dopo quanto fu determinato dei vari significati in
cui si parla di priorità (*), risulta chiaro che l’atto è prima
della, potenza. È intendo non soltanto della potenza che fu da noi
definita come principio di mutamento in altro o in sè in quanto altro;
ma, in generale, di ogni principio di movimento Alla 1. 28: xa@'ob (invece di xa#6Aov):
proposto dall’Apelt, accolto dal Ross. Il sostrato, o soggetto, o è un
téde ti, sostanza ch'è il soggetto delle determinazioni secondarie; ovvero è la
materia, di cuî si predica la determinazione essenziale, la forma. Cfr.
VII. 3, 7 e 13, 1. Il bianco, o la bianchezza, è un indeterminato, se non venga
aggiunto {(aggettivamente, come per la materia) a «uomo», o a «Socrate ».
Per quel che segue, cfr. De Caelo. La natura è principio del
movimento immanente alla cosa stessa; potenza, invece, è principio di movimentò
in altro in quanto altro» (o in sè in quanto altro). Sarà, dunque,
immanente alla cosa in quanto sè? Ma, da un lato, l’alterità è necessaria
al movimento; dall’altro, come parlare di un sé della cosa? A. si limita a
porre, qui come altrove, entrambe le esigenze: la dualità dei termini, e
l’unità del processo (equivalente, per A., all'identità dei termini: cfr.
anche 1, 7-10). o d’inerzia. La natura, infatti, appartiene allo stesso
genere della potenza, come quella ch'è principio di movimento, sebbene
non in altro, ma nella cosa in quanto è essa stessa. Di ogni potenza,
dunque, così intesa, l’atto è prima, e pel concetto e per la sostanza;
per il tempo, in un senso sì, in un senso no. Che sia prima quanto
al concetto, è evidente, poichè fornito di potenza, nel senso originario del
termine, è ciò che ha la possibilità di passare all’atto: per es.,
chiamiamo costruttore chi ha la potenza di costruire, veggente chi è in
grado di vedere, e visibile ciò che si può vedere: così dicasi per gli
altri casi. Sì che necessariamente il concetto di atto precede quello di
potenza, e la conoscenza dell’uno quella dell’altro. Esso, poi, è
prima quanto al tempo in questo senso: l’individuo attivo è prima di quello in
potenza in quanto è lo stesso per la specie; invece, considerato nella
sua identità numerica, è prima in potenza, e poi in atto. Mi spiego:
di quest'uomo qui ch’è già in atto, o di questo frumento o di
quest’occhio che vede, c’è prima, in tempo, la materia, il seme, la
facoltà visiva, i quali sono uomo, frumento, occhio che vede, in potenza,
non ancora in atto. Tuttavia li precedettero altri esseri in atto, dai quali
essi furono generati. Poichè sempre dall’ente in potenza si passa
all’ente in atto in virtù di un ente in atto: ad es., l’uomo vien
dall'uomo, il musico vien dal musico, Sempre deve precedere un motore, e
questo è già in atto. Abbiamo già visto ne’ ragionamenti intorno alla
sostanza che ogni cosa che
diviene, diviene qualcosa, da qualcosa, e per opera di qualcosa
ch'è della stessa specie di essa. Per cui si vede anche l’impossibilità
che uno divenga costruttore se non ha mai costruito nulla, o citaredo
senza aver mai suonato la cetra: poichè chi vuol imparare a suonar
la cetra, suonandola, impara a suonarla. E similmente per ogni arte. Di
qui prese nascimento l’argomentazione sofistica che non c’è bisogno di
possedere la scienza per fare ciò di cui questa tratta ('), perchè,
finchè uno impara la scienza, non la possiede. Se non che, come di ciò
che diviene qualcosa già dev’essere divenuta, e in generale di ciò che si
muove qualcosa deve già essersi mossa (questo punto fu illu 1950 a strato
nei libri intorno al movimento) (*); così, chi “apprende una cosa,
deve necessariamente conoscerla già in parte. Anche per questa via,
dunque, risulta chiaro che l’atto, pur da questo lato, del processo
generativo e del tempo, è prima della potenza. Ma anche in
riguardo alla sostanza l’atto è prima della potenza: prima di tutto,
perchè quel che pel divenire è ultimo, per la forma sostanziale è prima: per
es., l’adulto è anteriore al fanciullo, e l’uomo allo sperma: l’uno ha
già realizzata la specie che l’altro non ha ancora. In secondo
luogo, ogni cosa che diviene muove verso un principio e un fine: lo scopo
di una cosa ha valore di principio, e il divenire è per il fine: questo
fine è l’atto, ed è in grazia di esso che si pone la potenza: chè
l’animale non vede a fin d’aver la vista, ma ha la vista per vedere.
Similmente, anche l’arte del costruire c’è per il costruire, e l’abito
speculativo per lo speculare: e non è già che gli uomini speculino per aver
l’abito speculativo: salvo il caso di coloro Lett.: «cho chi non possiede la scienza può
far ciò di cui questa tratta »: per es., sonare la cetra. Cfr. EthA.
Nic., II. 1 e 3. La scienza è in atto nel maestro (col quale, in certo
modo, fa tutt'uno lo scolaro). Nota il solito avvicinamento della
produzione naturale a quella umana (consapevole). Phys., VI. 6. Anche nell’individuo, dunque,
se si guarda al processo in sò dell’attività (superando il dualismo tra
l'esterno e l’interno), l’atto precede la potenza (questa è già
attività). Chè, come il sapere vien dal sapere (cfr. I. 9, 94; Anal.
Post., I. 1. 71 a, 1), così l’attività non può venir che dall’attività
stessa. Inavvertitamente A. sorpassa la distinzione posta al $ 4 tra
l'individuo e la spocie empiricamente intesi (termini da lui stesso
riconosciuti astratti altrove) e il Ssignificato meramente cronologico del
tempo (in cui l’argomentazione, come ognun sa, non può esser
conchiudente): questo gli si fa equivalente al divenire sostanziale
dell'individuo come suo svolgimento interno (conforme al concetto di quo
al 6 1). Cfr. note a 6, 7 e VII. 1, 4.
Le considerazioni che seguono, riguardano l'atto come principio finale e
formale del processo stesso di svolgimento, secondo il canone
fondamentale di A., onde ciò che in esso è posteriore spiega quel che
vien prima. che lo fanno per esercitarsi, dei quali si può dire ch’
essi non speculino veramente, tranne che in certo senso, 0 che di
speculare non sentono ancora veramente il bisogno . Inoltre, la materia è
in potenza perchè può pervenire alla forma; ma quando sia in atto, allora
è già formata. E così dicasi delle altre cose, anche di quelle di cui il fine è
il movimento (?): onde, in quel modo che gl’ insegnanti pensano d’aver
raggiunto lo scopo quando han potuto mostrare lo scolaro in azione, così
fa anche la natura. Se così non avvenisse, sarebbe il caso dell’ Ermete di
Pausone: anche la scienza, come quella statua, non si saprebbe se è fuori
o dentro (*). Poichè l’azione è fine, e l’atto è azione: per cui il nome
stesso di atto si dice in rapporto
all’azione, ed esprime la tendenza alla realizzazione finale. In alcuni casi,
poi, il fine ultimo è nell’uso stesso della potenza, per es., della vista
è il vedere, e niun’altra opera si attende dalla vista fuori di
questa. In altri casi, si realizza qualcos’altro oltre l’atto: per es.,
per l’arte del costruire c’è la casa oltre l'atto del costruire. Tuttavia
non si può dire che l’atto sia meno il fine della potenza in questo caso,
e più in quello (*): poichè l’atto del costruire si esercita nell’oggetto
che vien costruito, e il suo processo si realizza insieme con la casa. In
quelle Queste parole
«quomodo sint interpretanda, equidem me non intelligere confiteor ».
Bonitz (p. 403); anche per il Ross (II, 262) sono « excessively difficult
». Mi sono avvicinato al Lasson. Stesso: com'è il caso dell’apprendere
(in coi non c’è una materia che attende di passare nella forma, come per
la casa); o del vedere (in cui il fine ultimo è l’uso stesso della
potenza). « Questo Pausone,
statuario, fece un'immagine di Ermete in una certa pietra, e chi guardava
vedeva nella pietra Ermete; ma non era chiaro se fosso fuori della pietra
o dentro di essa»: Aless. Ma Pausone era un pittore (avrà Aless. pensato
a III. 6, 9; V. 7, 7, ecc?). Secondo il Ross, si trattava di un'illusione
pittorica, Se è (soltanto) fuori (il
sapere: come un’abilità verbale); oppure: se è (soltanto) dentro (come
mera potenza). azione: Eeyov;
atto: evéoyera; realizzazione finale: èvtedéyera. Nel secondo caso pare che i!
fine della potenza non sia l’atto (il costruire), ma il fatto (la casa). Ma non
è così, dico A.: «quia ipsa actio est in facto, ut aedificatio in eo quod
aedificatur. Et aedificatio simul fit et habet esse cum domo »:
$. Tom. (1863). Gli
altri (meno bene) intendono: Nel primo caso (del vedere) l’atto è fine;
nel secondo (del costruire) è fine più della mera potenza. cose, quindi,
in cui vien prodotto qualcos'altro oltre l’uso della potenza, in esse
l’atto si mostra in ciò che vien fatto: per es., il costruire nel
costruito, il tessere nel tessuto, e similmente per altre cose; e, in
generale, l’atto del movimento è in ciò che vien mosso. Quando, invece, non
c’è qualche altra opera oltre l’atto, questo è tutto nel soggetto
stesso dell’attività: per es., il vedere nel veggente, il pen 1650 b sare
nel pensante, la vita nell'anima, e però anche la feli cità: la quale,
infatti, è una vita d’una certa specie. Conchiudendo, è evidente che la
sostanza e la specie sono atto. E, secondo lo stesso discorso, è evidente
che, per la sostanza, l’atto è anteriore alla potenza; per il tempo poi,
come abbiam detto, si concepisce sempre un atto avanti l’altro, fino a
quello del Motore primo ed eterno. Ma l’atto è primo anche in un più
alto senso: perchè l'eterno è, per la sostanza, prima di ciò ch'è
corrattibile, e nulla di ciò ch’è eterno è in potenza soltanto. La
ragione è questa: ogni potenza è potenza di entrambi insieme i
contradittorii, in quanto mentre il non
poter essere non può esistere come proprietà di nulla ogni potenza reale, invece, può anche
non esser in atto. Quindi, ciò che ha la potenza di essere può essere e
anche non essere. Ma ciò che può non essere può darsi che non sia, e ciò
che può darsi che non sia è corruttibile, o in senso assoluto, o per quel
che di esso dicesi che può non essere: relativamente al luogo, ad
es., o alla quantità, o alle qualità. Corruttibile, in senso a ssoluto, è
una cosa, se corruttibile è la sua sostanza. Ora, niuna delle cose
assolutamente incorruttibili è, in quel senso, un essere in potenza,
sebbene nulla impedisca che tale sia per qualche rispetto ('): per una
qualità, ad cs., o per il luogo. Le cose incorruttibili, dunque, sono
attuali. E neppure le cose necessarie posson esser in potenza, e
nondimeno esse sono originariamente (*) esistenti: chè, se queste non
esistes Gris pBPagrév = p#. xatà
ovolav (nascere e perire); in senso relativo (xatà 0), ciò che muta di
quantità, di qualità o di luogo. Ofr. VIII. 1, 8 (e nota). ne@bta: è probabile che queste cose
necessarie siano i principii primi in senso logico e insieme
réale. sero, nulla esisterebbe. E se c’è un movimento che sia
eterno, neppur esso è in potenza; e se esiste un essere eternamente
* mosso, non è possibile che sia mosso in potenza, salvo che non ci
si riferisca a un punto di partenza o di arrivo ('): chè per questa
specie di movimento può bene ammettersi che sia provvisto d’una materia.
Per questa ragione è sempre in attività il Sole, e gli Astri, e il Cielo
tutto quanto, e non c’è da temere che mai si fermino, come han paura i
Fisici (*): chè il loro operare non li stanca. E non li stanca perchè il
loro movimento non riguarda, come quello delle cose corruttibili, la possibilità
dell’una o dell’altra parte della contradizione (*), che renderebbe
faticosa la continuità del movimento. Causa di tal fatica negli esseri
corruttibili è l'essere materiale, e potenziale, non attuale, della
sostanza. Pure, anche le cose mutevoli, come la terra e il fuoco,
si sforzano d’imitare quelle incorruttibili: anch’esse, infatti,
hanno in sè e per sè il movimento (‘), onde sono in continua attività. Ma
le altre potenze, di cui s’è ragionato, son capaci di contradizione in quanto,
quel che ha potenza di muover così, può muovere anche non così: quelle,
s'intende che agiscono secondo ragione. Le potenze irrazionali, invece,
son capaci di contradizione solo in quanto possono esser presenti o
assenti (°). « Quia licet
non sit in potentia ad moveri simpliciter, est tamen in potentia ad hoc vel ad
illud ubi»: S. Tom. Per la materia meramente tori, v. n. cit. dianzi a
VIII. 1, 8. Sembra alluda
specialmente ad Empedocle: cfr. De Caelo. L'essere e il non-essere, tra i quali
ha luogo il nascere-perire (mutamento i sostanziale).
«Il movimento è una specie di
vita in tutti gli esseri costituiti naturalmente » (Plys., VIII. 1.250 b, 14).
Ein De Gen. et Corr., II. 10. 337 a, 2: « Anche le altre cose, quante si
mutano le une nelle altre, per es. i corpi semplici, imitano il movimento
di traslazione ;circolare ». Ovvero, si accenna alla continuità del movimento
(spaziale) degli elementi in generale (Aless., 593, 12); 0 a quello in
giù della texra, in su del fuoco (v. Ross, a q. l.). (5) Ciò ch'è
salubre produce sempre e soltanto la salute, ma può esserci, e anche non
esserci (e in questo caso non produrla). Cfr. cap. 2,4 e 5, 4-5. La possibilità
logica (contraddizione) e quella reale (contrarietà) si alternano in questo
paragrafo, come nel 21. Per entrambi i p. d. v. si distinguono queste altre
po«onze dalle precedenti (eterne). Sia pure, dunque, che esistano certe
nature o sostanze 28 del genere di quelle che sostengono coloro che dei
concetti fanno altrettante Idee; ma chi fa della scienza esisterà con
1061 » maggior ragione della scienza in sè, e ciò che si muove
molto più che l’idea del movimento: poichè questi esseri sono a maggior
titolo attività, e quelle idee, invece, sono meramente loro potenze.
Che, dunque, l’atto è prima della potenza e di ogni prin- 29 cipio
di mutamento, è manifesto.Che poi, in confronto alla potenza del bene l’atto
sia mi- 1 gliore e più degno di onore, si vedrà da quanto segue.
Tutto ciò che noi diciamo esser in potenza, ha il potere di realizzare
l’uno e l’altro contrario ugualmente: quel che diciamo, ad es., poter
esser sano, è lo stesso che può anche esser malato, ed ha la potenza delle due
cose insieme: poichè la potenza di esser sano è la stessa di quella di esser
malato, così come quella di esser in riposo o in movimento, di costruire
o di abbattere, di esser costruito o abbattuto. Ma se il potere dei
contrari si trova ad esser insieme, è impossibile, poi, che questi esistano
insieme, ed è impossibile che sì trovi insieme la loro attualità, per
es., che uno sia sano e malato insieme. Di qui vien la necessità che
soltanto uno dei contrari realizzi il bene, laddove la potenza è di
entrambi similmente, o di nessuno dei due. L’atto è, dunque, migliore.
Che se si tratta del male, la compiutezza dell’atto 2 dovrà,
necessariamente, esser peggiore della potenza: chè questa è tanto al bene
quanto al male, medesimamente (*).
L'atto, per sè, è perfezione, sempre, anche se di cose cattive: cfr.
V. 16. 2. Qui, del resto, si parla di perfezione naturale, non morale.
Cfr. l’&getà quow in Eth. Nic., II. 6. 1106 a, 15: «Ogni virtù
perfeziona il ben condursi di ciò di cul è virtù e rende pregevole la sua
operazione: per es., la virtù dell’occhio fa l'occhio valente e valente
l'operazione sua; parimenti la virtù del È evidente, quindi, che il male
non esiste fuori delle cose quaggiù, poichè esso esiste, per natura,
posteriormente alla potenza. Ed anche questo è evidente: che ne’
principii primi e negli esseri eterni non han luogo nè il male, nè
mancamento, nè corruzione (anche la corruzione è una specie di male).
Anche i teoremi geometrici si trovano per mezzo dell’attività, poichè si
trovano facendo delle divisioni (‘). Se queste fossero già eseguite,
quelli sarebbero evidenti. Così, sono soltanto in potenza. Ad es.: perchè
gli angoli del triangolo fan due retti? Si sa che gli angoli in ogni
punto d’una linea sono uguali a due retti: se, dunque, fosse già tirata
la parallela a un lato (?), la cosa sarebbe chiara al primo colpo d’occhio. Perchè
l’angolo nel semicerchio è sempre retto? Per questo che, quando dei tre
segmenti uguali, di cui due formano la base, si è elevato il terzo
perpendicolare dal centro al vertice, chi già sa che la somma degli
angoli è di due retti, vede subito chiaro (5). cavallo fa il
cavallo valente e buono al corso e a portare il cavaliere e a sostenere
l’impeto dei nemici ». Non opportuno, quindi, il rilievo del Bonitz (p.
407): «iudicium morale de bono et mali immisceri falso iis rebus, a
quibus illud est alienum ». Nò è erroneo il ragionamento che segue, come
pensano il B. e il Ross (II, 268), se si tien presente il passaggio,
abituale in A., alla posizione 0ggettivistica, onde gli atti risultan graduati
in corrispondenza delle cose stesse e delle loro potenze (assolutamente
buone, come quelle incorruttibili; capaci di esser buone o cattive, o
sempre cattive, come quelle corruttibili). E tà redypata (ch'io ho
tradotto: «le cose di quaggiù ») non oppongono le cose cattive in generale
all'Idea del male (come Aless. e i moderni intendono): chè il discorso
varrebbe anche per l’Idea del Bene; ma le cose corruttibili alle
incorruttibili. Srargovvteg: ch'è
operazione affine all'&varterv (benchè qui prevalga il senso
costruttivo), in cui consiste l’attività della è.&vora. V. passo di Erk.
Nie., citata in nota a VII. 7, 7. E ric. il metodo dieretico di Platone.
Dall'estremo della base, e
prolungando questa (come nella nota dimostrazione di Euclide). Vede subito chiaro che i due triangoli
uguali, in cui è stato scomposto quello inscritto nel semicerchio, sono
rettangoli isosceli, sì che l’angolo intero alla circonferenza risulta di
due metà di un retto. A. sceglie il caso più evidente (perchè gl’isosceli
son qui rettangoli); ma, com'è noto, il metodo di dimostrazione è lo stesso
anche per gli altri casi (congiungendo il centro del cerchio col vertice
del triangolo si ottengono pur sempre due isosceli, con due retti al
centro, e due coppie di angoli uguali).
Dei tre segmenti uguali due formano il diametro, il terzo è il
raggio perpendicolare alzato dal centro. 300 3 MBTAFISICA
In conchiusione, è manifesto, che ciò ch’è in potenza noi 6
veniamo a scoprirlo riportandolo (') all’atto. E la ragione di ciò è che
intendere è attualizzare. Onde dall’atto vien la potenza. E perciò,
anche, le cose le conosce chi le fa. L’atto è posteriore alla potenza nel
divenire soltanto dell’ individuo numericamente considerato.
CapitoLO X (?). Dell’ essere e non-essere si parla o riferendosi
alle figure 1 1051 b delle categorie, ovvero alla distinzione di potenza
e atto per ogni cosa che in esse si predica, e pel suo contrario (*);
0, anche, in quanto vero e falso nel lor più proprio significato.
In quest’ultimo senso l’essere è considerato nelle cose in 2 quanto può
essere composto o diviso. Per la qual cosa è nel vero colui che pensa
esser diviso ciò ch’è diviso, e composto ciò ch’è composto; è nel falso,
invece, chi pensa altrimenti di come le cose stanno. Ora, si chiede:
Esiste o non esiste, 3 O portandolo? Il Ross preferisce ky6peva ad
àvaysueva. Ma, comunque si preferisca, il problema è lo stesso, e involge
tutto il pensiero aristotelico in un nodo che può, giustamente, sembrare
insolubile. La verità del teorema, come ogni verità, vien da noi
«scoperta » in quanto già c’è. Ed è in atto, in sè, sebbene soltanto in potenza
per noi in quanto la dobbiamo ancora scoprire; e la scopriamo
riconducendola 8a quell’atto in cui il nostro intenderla coincide con
l'esser suo stesso: si che la dualità, in questo punto, cessa, e noi possiamo
anche dire che l’abbiamo conosciuta perchò l'abbiamo prodotta (sa chi
fa). Intendere è attualizzare:
vénow tveoyera (meglio, col Ross: Î vénars èvée.: altrimenti,
bisognerebbe forse intendere che l’atto dell'oggetto è un atto del vos
stesso: il che è troppo vero per esser asserito, così semplicemente, da
A. qui). Per l'individuo
numericamente considerato, v. capitolo precedente, 4. È dubbio che questo capitolo sia stato
scritto originariamente per esser posto a questo punto. I richiami a V.
7, 4-7e a VI. 2, 1-3 e 4,4 non sono decisivi su ciò. Cfr. JAEGER (Entst.,
49; Arist.). Invero, il rapporto tra il pensiero discorsivo e la verità
reale, tra l'unità del ne e l'atto di apprenderlo, non è questione
estranea all'argomento dei libri VII (cfr. Sommario per capp. 4 e 10),
VIII (capp. 3 e 6), IX (4, 3 e capp. 8 e 9). Dianzi s'è pur trattato di
quelle sostanze semplici ed eterne delle quali si ripiglia qui a parlare.
Ma è il tono che, soprattutto, non si accorda con quello. complessivo della
ricerca precedente. Il non-essere di ogni cosa in ogni categoria. Nel lor più proprio significato: il testo
vuole forse « nel suo più proprio 8. », riferito all'essere. Ma cfr. VI.
4, 4; nè sarebbe conforme al modo di pensare di A., sembra. LIBRO
NONO 301 quel che noi intendiamo per vero o per falso? Bisogna
bene che sappiamo quel che diciamo. Considera, infatti, che, non
perchè noi ti reputiamo bianco, tu sei bianco davvero; ma, all'incontro,
perchè tu sei bianco, pensiamo il vero noi che ti diciamo bianco. Orbene,
l'essere di alcune cose è sempre unito e non può mai venir diviso,
in altre invece è sempre diviso e non può mai congiungersi, in altre
infine può trovarsi ne’ due modi opposti (‘). Se, dunque, l’essere di una cosa
consiste nella composizione sì da formare un’unità, e il suo non-essere
nella divisione sì da formare una molteplicità, nelle cose che possono
trovarsi in entrambi i modi la medesima affermazione può esser vera
e falsa, potendo ben avvenire che una volta si sia nel vero, e un’altra
nel falso. Invece, nelle cose che non possono esser altrimenti di quel
che sono, non avviene che una volta si sia nel vero e un’altra nel falso,
ma si è sempre o nel vero o nel falso. Ma quando l’essere di una
cosa è semplice (?), in che consiste il suo essere o non essere, e come
di essa si può ‘dire il vero o il falso? Chè non è già componibile o
scomponibile, sì che esista quando c’è la composizione e non esista
quando c’è la divisione (come è il caso del legno di color bianco, o
della diagonale che non è commepnsurabile). Qui il vero e il falso non
può aver luogo nello stesso modo che nelle cose dette prima (*), e, come
il vero, così anche Es: il
triangolo e l’uguaglianza della somma degli angoli a due retti; la
diagonale e la sua commensurabilità al lato del quadrato; Socrate e il
suo camminare. V. per quel che segue, note a V. 29 e VI. 4: in questo
secondo venne accentuata sul primo la soggettività della sintesi-dieresi,
in cui consiste il giudizio affermativo o negativo, e il vero o falso; qui si
ricerca, invece, con un passo ulteriore sul secondo, la corrispondenza
oggettiva a quel principio logicosoggettivo. Si potrebbe intendere delle pure essenze in
generale, in sè e per sè, 6 delle categorie (cfr. VIII. 6, 7-8), e dei
principii primi nel senso gnoseologico; ma anche, e forse meglio, in senso
esietenziale, degli esseri immateriali. Comprese (come l'esempio della
diagonale dimostra) quelle che sono sempre vere o false nel
giudizio. Qui vero == intendere (e il suo oggetto); falso = non
intendere, ignorare. 1052 a 302 METAFISICA
l'essere non può avere qui lo stesso significato che là. In queste cose è
possibile la verità e l'errore soltanto nel senso che coglierle (') è già
enunciarne la verità (enunciare non è lo stesso che affermare), non
coglierle vuol dire ignorarle. Sbagliarsi sull'essenza di una cosa non è
possibile tranne che per accidente, e così pure non ci si può sbagliare
per quelle sostanze che non sono composte, perchè sono tutte in
atto, e non in potenza: chè, altrimenti, si genererebbero e perirebbero,
laddove l’essere che è in sè e per sè, non ricevendo il suo essere da altro,
non nasce e non muore. In conchiusione, quando l’essere delle cose è ciò
che è, in atto, su esso non è possibile ingannarsi: si può soltanto
intendere o non intendere. Tuttavia, si può chiedere ciò che esse
sono, se l’essenza loro è tale, o no. Per l’essere nel senso del
vero e il non essere in quello del falso, si ha, dunque, nell’un caso, il
vero se c’è una composizione, il falso se questa non c’è; nell’altro
caso, se il suo essere è il suo stesso esser vero, e se non è così,
neppure è (*). Chè la verità sua consiste nell’intenderla, e il falso o
l’inganno non ha luogo. Ci può essere ignoranza, ma non come una cecità,
chè, allora, vorrebbe dire che uno non ha addirittura la facoltà
d’intendere. &yeîv,
toccare. Cfr. XII. 7. 1072 b, 21 ($ 7). È l’apprensione immediata del
vero e reale: così anche l'atto dell’alo&nors (cfr. IV. 5, 19). E cfr.
anche De An., ITI. 6. 430 b, 26-30: dove pure si accenna alla pdow come
distinta dalla xatapagws; cfr. De interpr., 6. 17a, 25: « Affermare è
enunciare qualcosa di qualcosa ». Infatti, nel paragrafo seguente, si concede
di chiedere ciò che esse sono. La distinzione dei termini (del discorso
in generale e di quello che ha valore propriamente logico) non è mantenuta
altrove. Chi chiede, non sa nel senso
che non gi rende conto ancora, e però può sbagliare per accidente.
Passo molto tormentato
dagl'interpreti. Mi sono ispirato a S. Tom. (1915): «Alio vero modo in
rebus simplicibus verum est, si id quod est vere eng, i. e. quod est ipsum quod quid est, i. e. substantia rei simplex, sic est sicut
intelligitur; si vero non est ita sicut intelligitur, non est verum (in
intellectu)». Toglierei
queste ultime parole. In A., inoltre, l'equivalenza della verità del pensiero
all'essere dell’oggetto è posta più immediatamente, anzi sottintesa più
che espressa (di qui una causa dell'oscurità del passo, il quale, in
sostanza, sembra voler affermare che per gli esseri semplici, così come
per la véno, esiste la verità, non l’errore: vero e falso, riguardo a
essi, equivale ad esistere o non esistere). Anche in riguardo agli
enti immobili, finchè uno li considera tali, non è possibile, evidentemente,
cadere in errore quanto al tempo. Mi spiego: a meno che uno non
pensi che la natura del triangolo possa mutare, non potrà pensare che una
volta la somma de’ suoi angoli è uguale a due retti, e un’altra no
(altrimenti, la sua natura mauterebbe). Invece, può darsi che nello
stesso genere reputi che un oggetto sia in un modo e un altro in un altro: ad
es., che dei numeri pari nessuno sia primo, ovvero qualcuno sì e altri
no (‘). Ma quando si tratta di un unico oggetto, questo non è mai
possibile, perchè non si potrà già credere che sia ora in un modo e ora
in un altro; ma, riguardo a esso, si sarà nella verità o nell’errore nel
senso che esso rimane eternamente uguale. Ovvero, che il due sia primo, gli altri no
(giustamente, se dei pari; non cosi, se dei numeri in generale). Se
l’oggetto è unico, per es. un tal numero, non il numero in generale,
neppure tale errore è possibile: il giudizio nostro (vero o falso)
implica ch'esso è sempre così. Dell’errore intorno al numero parla anche
il Teeteto Che dell’Uno si parla in molti modi, si disse già (') discorrendo
dei molteplici significati di alcuni termini. Ma, pur dicendosi in vari
modi, questi si riducono per le cose
che si dicono une, non per accidente, ma primariamente e per Se
stesse a quattro capitali. Uno
dicesi, infatti, il continuo, o in generale, o score tutto quel ch’è tale
per natura, e non per contatto o per legame esteriore; e questo tanto più
e più propriamente è uno, se sia di cose il cui movimento è meno
divisibile e più semplice (?). Inoltre, uno, e a maggior diritto,
è l’intiero (?), e ciò che ha qualche figura e forma: specialmente se
qualcosa sia tale V. lib.
V. 6: qui si tralasciano i modi accidentali; e quelli essenziali vengon
divisi in quattro corrispondenti, nell’ insieme, a quelli del lib. V
d’individuo e l’universale sono una distinzione dell'unità dell'atto anche colà
affermata, nel $ 10, ma qui posta a fondamento, oltre che per il
pensiero, anche per le cose). Invece, prende il priino posto qui la
trattazione colà brevemente accennata (13-15) del concetto dell’unità in
sè e per sò. Per il rapporto tra
i due concetti, di continuità sostanziale e unità del movimento, cfr.
nota a V. 6, 5. All'interezza si
accennò anche in V. 6, 12: qui ha maggior rilievo, e determina l'unità del
movimento non soltanto in rapporto al tempo, ma anche allo spazio (tale
è, si direbbe, l’atto vitale: f 82 toù èveoyera xs toriv: Eth. Niec., X.
4. 1175 a, 12, e cfr. ivi, cap. 4, per il piacere, che nell’atto è sempre
intero e perfetto, e in questo senso non è della specie di movimento che
si produce attraverso le varie parti dello spazio e del tempo). per
natura, e non per forza (come quel ch'è unito con la colla, con chiodi o
corda), ma abbia in se stessa la causa della sua continuità. E tale è in
quanto il suo movimento è unico e indivisibile nello spazio e nel tempo:
così che è evidente che, se una cosa ha per natura il principio più
eccellente di quel movimento ch’è primo (voglio dire, dei movimenti spaziali,
quello circolare) ('), essa è, tra le cose estese, una per eccellenza.
Queste cose, dunque, sono une così, o per continuità o per
interezza. Altre, quando uno sia il concetto. Tali sono quelle di cui
unica è l’intellezione; e tali, quelle che s’intendono con un atto
indivisibile. E questo è indivisibile se sia di ciò ch’è indivisibile per
la specie o pel numero. Indivisibile numericamente è l’individuu; per la
specie, ciò ch’è tale per la conoscenza e per il sapere: sì che
primariamente uno sarà quel ch’è causa dell'unità delle sostanze (?). Si
dice, dunque, l’uno in tutti questi sensi: ciò ch’è continuo per natura,
l’intero, l'individuo e l’universale. E l’uno vale per tutte queste cose,
in quanto nelle une è indivisibile 1058 b il movimento, nelle altre
l’intellezinne o il concetto. Ma si ponga mente di non prendere come la
stessa questione questa: quali sono le cose alle quali si attribuisce
unità; e l’altra: qual’è l'essenza propria dell’uno e il suo concetto.
L’uno, infatti, si dice in tutti i modi accennati, e ogni cosa, a cui
convenga qualcuno di questi modi, è una. Dei movimenti spaziali quello circolare è
perfetto, per la semplicità (indivisibilità) e continuità: tale, quello eterno
del cielo: come si dimostra nel cap. 8 del lib. VIII della Fisica (nel
cap. 7 si era dimostrata la superiorità del puro movimento spaziale, in
generale, alle altre forme di movimento proprie delle cose che si
generano e mutano di quantità e qualità: cfr. qui VIII. 1,8; IX. 8, 25;
XII. 6,2 7,4). Cose estese: lett.
grandezza (peyedog: ciò che è o ha grandezza). El principio dell'unità nel sinolo (sostanza)
è la forma, la pura essenza nel pensiero discorsivo, l'atto in sè nella
realtà in generate, e la sua attualità nell'individualità concreta. Nota lo scindersi dell’atto della vénows, nel
brusco passaggio alle cose, nelle due categorie supreme del pensiero
discorsivo: l’ individuo e l’universale (anzi, in quelle della conoscenza in
generale: il dato della percezione e quello, il concetto, della divora...
L'oscillazione tra questi punti di vieta spiega anche il passaggio tra i
termini di concetto, specie, universale, che ora coincidono e ora non
coincidono nel pensiero aristotelico. Ma l'essenza dell’uno si dirà, talora,
secondo qualcuno di essi; tal’alra, secondo altro che è anche più vicino
al nome, e contiene quelli in potenza ('). La cosa sta come per
elemento o causa: altro è se uno debba determinare a quali cose si
attribuisce, altro se debba dare la detinizione del nome. Poichè come
elemento si può addurre il fuoco (e certamente l’indefinito per se
stesso, 0 altro di questa specie, può essere un elemento) , ma
anche non addurlo: chè non è la stessa cosa esser fuoco ed esser
elemento: il fuoco è elemento in quanto è una cosa particolare, esistente in
natura; mentre il nome elemento significa che questo appartiene al fuoco perchè
c’è qualcosa di cui esso è la parte costitutiva e originaria. Così dicasi
anche della causa e dell’uno, e di tutti gli altri termini somiglianti.
Per ciò, anche, l’essenza dell’uno è di esser indivisibile, come
quello che è un determinato ed ha una propria esistenza separata per lo spazio
o per la specie o per il pensiero; o, anche, di esser un intero indivisibile
(*); ma, soprattutto, di essere la prima misura di ogni genere, e in
primo luogo del genere della quantità: chè di qui si estese agli altri
generi. Passo un po' oscuro. Meglio di tutti, mi sembra, S. Tom.: « Hoc
ipsum quod est unum, quandoque quidem accipitur secundum quod inest
alicui dietorum modorum, puta ut dicam quod unum secundum quod est
continuum, unum est. Et similiter de aliis. Quandoque autem hoc ipeum
quod est unum, attribuitur ei quod est magis propinquum naturae unius,
sicut indivisibili, quod tamen secundum se potestate continet praedictos
modos: quia indivisibile secundum motum, et continuum et totum; indivisibile
autem secundum rationem, est singulare et universale »., Qui si
parla, infatti, del concetto puro dell’uno, in sè e per sè, non in rapporto
alle cose, sebbene si dica che possa esser concepito anche secondo i modi
in cui l’uno si predica delle cose (ossia come essenza di questi: così intendo
il dativo della 1. 6, non, come il Bonitz o il Ross, quale termine di
appartenenza predicativa). Prù
vicino al nome, ossia al concetto puro (nota l'oscillazione tra il punto
di vista logico puro e quello verbale), è il concetto di misura. L'indefinito: l'&xergov di Anassimandro
(non il fuoco, s'intende). Un
intero indivisibile: par raccogliere l’unità formale e materiale, distinta
prima in indivisibilità per lo spazio, per la specie o per il pensiero,
analogamente al $ 11 di lib. V. 6. Il concetto di misura, dunque, vuol essere
un principio conoscitivo per ogni genere di cose, sebbene si applichi più
comunemente al genere della quantità. Poichè misura è quella per cui si
conosce la quantità; e la quantità, in quanto tale, si conosce o per
mezzo del numero o dell'uno: ma ogni numero si conosce per mezzo
dell’uno. Per cui ogni quantità, in quanto tale, si conosce con
l’uno; e ciò per cui primieramente le quantità son conosciute è
l’uno in sè e per sè. L'uno, dunque, è il principio del numero in
quanto numero. Di qui anche per gli altri casi dicesi mi. sura ciò per
cui primieramente conosciamo ciascuna cosa, e misura di ogni cosa è l’uno
per la lunghezza, per la larghezza, per la profondità, per il peso, per la
velocità. (Peso e velocità, potendo ciascuno avere due significati, si
usano in comune per i contrari: pesante dicesi ciò che ha un qualsiasi
grado di gravità e ciò che ne ha in eccesso, e veloce ciò che ba un
qualsiasi grado di movimento e ciò che ne ha in eccesso: poichè anche ciò
ch’è lento ha una certa velocità, e ciò ch’è leggero una certa pesantezza).
In tutti questi, dunque, la misura principale è qualcosa d’uno e
senza parti: anche nelle linee si usa come indivisibile quella d’un
piede. In ogni caso, infatti, si cerca per misura qualcosa d’uno e
indivisibile, e questo è ciò ch’è semplice o per qualità o per quantità.
Ora, dove sembra non esserci nulla da togliere o aggiungere, ivi la
misura è esatta: perciò 1053 a quella del numero è la più esatta,
perchè l’unità si pone come indivisibile per ogni rispetto, e
negli altri casi non si fa che imitare questa specie di misura. Di uno
stadio, infatti, e di un talento, e di ciò che in generale è più grande,
ci sfugge se qualcosa vien aggiunta o tolta, più facilmente che per
una quantità minore. Laonde quella prima, a cui niente di percepibile può
esser aggiunto o tolto, quella tutti prendono per misura: per i liquidi come
per i solidi, per il peso come per la grandezza. E allora pensano di
conoscere la quantità di una cosa, quando la conoscono per mezzo di
quella misura. E anche il movimento si misura con quello semplice
e ch'è più veloce: chè questo occupa un tempo minimo. Ond’è che in
astronomia questa è l’unità che serve di principio e misura (poichè si
suppone che il movimento del cielo sia uniforme e il più veloce, e in
rapporto a questo si giudicano gli altri). E in musica, il diesis, perchè
è l'intervallo minimo; e nella parola, la lettera. E in tutti questi casi
c’è, così, un qualcosa di uno: non come se l’uno sia qualcosa di
comune (‘), ma come s'è spiegato. Ma non in ogni caso la misura è una
numericamente; talora è più di una: i diesis, ad es., son due (non per
l’orecchio, ma per il computo) (?); e i suoni articolati, con cui misuriamo le
parole, son più di uno; e due misure hanno la ‘diagonale e il
lato, e tutte le grandezze. Così, dunque, l’uno è la misura di
tutte le cose, perchè noi conosciamo ciò di cui si compone la sostanza
dividendola o secondo la quantità o secondo la specie. L’uno è perciò
indivisibile, perchè in ogni cosa ciò ch’è primo è indivisibile. Ma non
nello stesso modo ogni uno è indivisibile: per es., il piede e l’unità,
questa è indivisibile per ogni rispetto, quello vuol esser tale rispetto
alla sensazione, come 8’è detto: chè ogni continuo è, senza dubbio,
divisibile. Sempre, poi, la misura è dello stesso genere: delle
grandezze, una grandezza; e in particolare: della lunghezza una
lunghezza, della larghezza una larghezza, dei suoni articolati un suono
articolato, del peso un peso, delle unità una unità (così bisogna intendere
qui: non che dei numeri la misura sia un numero: si dovrebbe dir così, se
il caso fosse simile; ma che non sia simile si vede da questo, che si
farebbe misura delle unità, non l’unità, ma le unità: chè il numero è
molte unità). Anche la scienza e la sensazione diciamo che sono misura
delle cose, per questo, che con esse conosciamo qualcosa: sebbene siano esse
misurate, piuttosto che esse misu
Punta polemica contro l’Uno platonico. Il Ross riferisce la distinzione di
Aristosseno, scolaro di A., del diesis come un quarto e come un terzo di
tono. I suoni articolati: vocali e
consonanti. Due misure hanno, ecc. Oscuro. Si può pensare alla
incommensurabilità della diagonale al lato, sì che esigano unità di
misura diverse; ed alla necessità di almeno due dati per la misura
delle superfici, dei solidi, ecc. Ma il testo, questo, non lo
dice, rare. Accade a noi come se un altro ci misurasse e noi conoscessimo
quanto siam grandi per aver egli applicato il cubito su noi per tutta la
nostra altezza. Protagora dice che 1023 b l’uomo è misura di tutte le
cose, intendendo di chi sa e di chi sente: e questi, perchè hanno l’uno
la sensazione, l’altro il sapere, che noi pur diciamo esser misure de’
loro oggetti. Sembra voglia dire qualcosa di profondo: invece, non
ne dice nulla ('). Che, dunque, l’essenza dell’uno, se si deve
definire il si- 16 gnificato del termine, consiste soprattutto nell’esser
una de* terminata misura, e in primo luogo della quantità, in secondo
della qualità, è manifesto. E tale sarà
se sia indivisibile, in un caso, per la quantità, nell’altro per la
qualità; sì che l’uno è indivisibile, o assolutamente, o in quauto
uno. Già nella trattazione dei Problemi incontrammo la que- 1
stione, che qui convien riprendere, della natura sostanziale (?)
dell’uno: che cosa esso è, e come si deve di esso giudicare. E cioè, come
se l’unità stessa sia una determinata sostanza (al modo dei Pitagorici
prima, e di Platone poi); o se non piuttosto abbia qualche natura a
sostrato, e però si debba parlare di esso più intelligibilmente, e
piuttosto come i Fisiolugi, dei quali chi dice che l’uno è l’amicizia, chi
Varia, chi l’indefinito.
V. nel lib. IV la polemica contro il Protagorismo: là come qui, A.
respiage decisamente il soggettivismo della conoscenza (chi 8a, chi
sente: per il significato preciso di questo soggettivismo, v. nota al
passo simibe in V. 15, 8). Sensazione e sapere sono misure per quanto
contengono di realtà e verità oggettiva. È realismo? (Cfr. Rolfes, a q. 1.: «
A. è realista, non idealista. Egli si oppone a JIegel, che fa il concetto
misura e principio delle cose, ecc. »). Sì, ma in senso affine
all’idealismo del suo maestro. (9) Lett. «la natura e la sostanza». Ma
quos vale talvolla la sostanza in generale (V. 4, 9), e odola è l'essere
nella categoria principale. Trattazione
det Problemi: lib. III, 4, 31-42. Per i Pitagorici e Platone: lib. I. 6,
9-10. I Fisiologi ricordati sono Empedocle, Anassimene, Anassimandro.
Se nessuno degli universali può essere sostanza, come 8’è detto dove
parlammo (!) della sostanza e dell’essere; € se l’essere stesso non può
essere sostanza nel senso di qualcosa che sia uno fuor del molteplice (chè esso
è un termine comune), ma è soltanto un predicato; è chiaro che
neppure l’unità è sostanza: l’essere e l’uno, infatti, sono di tutti
i predicati i più universali. Sì che neppure i generi sono determinate
nature e sostanze separabili dalle altre cose; nè l’unità può esser
genere (?), per le stesse ragioni per le quali non sono genere nè
l’essere nè la sostanza. Inoltre, bisogna che si applichi a tutte le
categorie ugualmente. L’essere e l’uno hanno gli stessi vari significati:
sì che, come per le qualità l’uno è qualcosa di determinato e d’una
certa uatura, e così pure per le quantità,
è chiaro che bisogna anche domandarsi per tutti i casi che cosa
è l’uno (così come che cosa è l’essere), e che non basta dire che
questa è la sua natura, di esser uno. Non è dubbio: nei colori l’unità è
un colore, poniamo il bianco, e però da questo e dal nero si veggono
generarsi gli altri (*): il nero è privazione del bianco, così come della
luce l’oscurità (questa è la privazione della luce). Talchè, se le cose
fossero colori, esse formerebbero, sì, un molteplice , ma determinato,
e appunto, evidentemente, di colori; e l’unità sarebbe un uno
determinato: poniamo, il bianco. E similmente, se le cose fossero note,
ci sarebbe un numero, ma di diesis, e non sarebbe già numero la loro sostanza;
e l’unità sarebbe qualcosa, di cui Ja sostanza sarebbe non di esser unità, ma
diesis. E similmente dei suoni articolati: le cose sarebbero tante
lettere, e l’uno sarebbe una lettera, una vocale. Se fossero figure
rettilinee, ci sarebbe una molteplicità di figure, e Lib. VII. 13. | Cfr. lib. IIT. 3, 7: qui, genere è g. reale;
invece, nella frase precedente, î generi sono universali. Alla 1. 30 ho accettato l’elca (invece di el)
proposto dal Ross. Lett. «un
numero », come dopo. Ma ho tradotto cosi per chiarire l’equi valenza dei
termini qui. (Così come ho usato talora unità invece di uno, quando
questo equivale all'astratto). l'uno sarebbe il triangolo. E il discorso è
lo stesso per gli altri generi. In conchiusione, come, allorchè si tratta
di affezioni (di qualità, di quantità, o di movimento) delle cose, c’è un
molteplice e un uno che è, in tutti i casi, un molteplice determinato e
un determinato uno, di cui la sostanza non è quella di esser uno; nello stesso modo, necessariamente,
dev’essere per le sostanze: perchè la questione è la stessa per tutti i
casi. Che, dunque, l’unità sia in ogni genere una natura determinata, e
che in niun caso la natura di una cosa sia l’uno per se stesso, è
manifesto: ma, come nei colori l’unità da cercare è quella che è un
colore, così anche nella sostanza l’unità è quella ch’è sostanza.
Che, poi, l’uno significhi in certo modo (') la stessa cosa che l’essere,
è chiaro, in primo luogo, dal fatto che s’accompagna a esso per altrettante
categorie, e non è compreso in nessuna (non, poniamo, in quella
dell’essenza, nè in quella della qualità), ma ci sta così come l’essere;
in secondo luogo, perchè con « uno-uomo » non vien predicato nulla di
diverso che con « uomo », nello stesso modo che l’essere non è nulla
fuori dell'essenza, della qualità o della quantità; in fine, perchè esser
uno vale esser individuo. CapitoLo III L’uno e il
molteplice si oppongono in molti modi, dei quali uno è come quello
dell’indivisibile al divisibile: molteplice si dice qualcosa s’è divisa o
divisibile, una s’è indivisibile o non divisa. Ora, poichè l'opposizione è di
quattro specie, una delle quali si dice secondo privazione, qui
avremo quella di contrarietà, non quella di contraddizione nè di termini
relativi (*). E l’uno si denomina e si chiarisce Chè l’unità può indicare, più propriamente,
la misura, come s’è visto dianzi.
« Uno-uomo »: cfr. IV. 2, bd.
Cfr. V. 10, 1. Intendi: una specie di opposizione è quella in cui si
guarda alla privazione: non a quella opposta all'EE, ma a quella propria
della contra-dal suo contrario: dal divisibile, l’indivisibile; e la
ragione è che il molteplice e divisibile si percepisce meglio dell’
indivisibile: per cui il molteplice è prima dell’indivisibile nel
concetto, a cagione della percezione. All’uno appartiene, come
descrivemmo anche nella Distinzione dei contrari ("), lo stesso, il
simile, l’uguale; al molteplice, il diverso, il dissimile, il disuguale. Lo
stesso (?) si dice in molti modi: in un modo si dice talora badando
al numero; in un altro, se la cosa è una e per il concetto e per il
numero: poniamo, tu sei una cosa sola con te stesso e per la specie e per
la materia; in fine, se il concetto che riguarda la sostanza prima (?)
sia unico: per es., le linee rette uguali sono le stesse, e così i quadrilateri
equivalenti e con angoli uguali, benchè sian molti: chè in essi
l’uguaglianza vale identità. Simili son
le cose se, non essendo assolutamente le stesse, nè senza differenze per
la sostanza che fa loro da sostrato, siano pur le stesse per la
specie: per es., il quadrato maggiore è simile al minore, e le
linee rette disuguali sono simili: esse sono simili, non assolutamente le
stesse. Altre cose sono simili, se, avendo la stessa specie, ed essendo
cose in cui si dà il più e il meno, non abbiano in questo differenza.
Altre cose, se hanno la stessa affezione, che sia la medesima per la
specie, per es. la bianchezza, ma in grado maggiore o minore, si dicono
simili perchè identica è la loro specie. Altre si dicon tali, se di
qualità che son le stesse ne hanno in numero maggiore che di diverse, o
assolutamente, o quelle più in vista: per es. lo rietà (ch’è
privazione totale). Par come manchi qualcosa nel testo. Il termine negativo, qui, è l’uno
(nell’esperienza ci è dato il molteplice, non il meramente uno). Vedi IV. 2, 6. All'uno appartiene lo stesso
per la sostanza, il simile per la qualità, l'uguale per la quantità.
Cfr. V. 9. L'identità per il
numero Aless. (615, 23) l’intende come l’unità accidentale; ma nota che
poco dopo essa è fatta equivalente a quella per la materia (i due
concetti del sinolo): elBog dè Abyo tò ti fiv elva: éxdatov xal Thv
aQOInY odolav. Nota, tuttavia, che l'illustrazione del concetto è
presa da realtà matematiche. stagno è simile all’argento per il bianco (‘),
l’oro al fuoco per il colore giallo-ardente. Per ciò è chiaro che anche
il diverso e il dissimile si dicono in molti modi; e la diversità si oppone
così all’ identità, che ogni cosa rispetto a ogni altra o è la stessa o è
diversa. Ma diverso è anche ciò di cui la materia e il concetto non è identico:
tu, per es., e il tuo vicino siete diversi. E la diversità, in terzo
luogo, è come negli oggetti matematici (*). Diversità, dunque, e identità si
dicono di ogni cosa rispetto a ogni altra, purchè siano cose che hanno
unità e realtà: poichè il diverso non è il contradittorio dell’
identico, onde non si dice delle cose non esistenti (delle quali la
nonidentità pur si predica), ma delle cose esistenti tutte quante: chè
queste, avendo per natura unità ed esistenza, o sono identiche o non
identiche (*). Il diverso, dunque, e l’identico si oppongono in questo
modo. Ma differenza e diversità non son lo stesso. Ciò ch'è diverso e
ciò da cui è diverso non son di necessità diversi per un rispetto determinato.
Tutto, pur che sia reale, o è diverso o identico. Ma quel ch’è differente
da qualcosa, ne differisce per qualche rispetto : quindi c’è
necessaria Alla 1. 23: fl Aeuxév,
inv. di 7 xQvo@ (Ross). Per la somiglianza, cfr. V. 9, 6. La somiglianza,
dunque, è o per la specie , o per il grado di questa , 0 perchè una
qualità delle cose è la stessa, sebbene in grado diverso , o perchè di
qualità ne hanno un buon numero, o le più evidenti, in comune . Nel 1°
caso, la specie ha significato formale, ma non sostanziale (concreto),
onde ]a differenza resta puramente quantitativa (la specie qui fa
anche da qualità); nel 2°, è forma sengibile, chiarita dal 3° caso: in
questi © nel 4° si unisce un criterio quantitativo. Forse per questo A. non
tratta, dopo, dell'uguale (di questo egli si è valso anche per
l’identico: cfr. $ 4‘. Gli opposti (dissimile e disuguale) vengono,
quindi, assorbiti dalla trattazione seguente intorno alla diversità,
differenza e contrarietà. Vedi $
4. Qui la diversità, forse, è nella forma o concetto; nel caso precedente,
nella materia: entrambi fan capo alla prima definizione (la quale vien
determinata nel paragrafo seguente per le cose esistenti sostanzialmente).
Ho tradotto con diverso o diversità sia l’Étegov, che l'&XX0; con lo
stesso o identico (o identità), tadté, e qualche volta anche l’Év (1. 22,
dove l’altro Ev è, propriamente, l’unità). Per la diversità e la differenza (1
Biapoodi, cfr. V. 9, 4-5. Ev e
oòy Ev: ma questo bisogna pensarlo come privazione, 0 equivalente
all’Evegov: se, invece, si fa equivalente.al pù taòré della parentesi, si torna
alla negazione che vale per l'esistente e per il non-esistente.
vivi: prima tradotto «per qualche
rispetto determinato ». La differenza di mente qualcosa d’identico per cui
differiscono. Questo ch'è identico, è o il genere o la specie. Noi
vediamo, infatti, che tutte le cose differiscono o per il genere o per la
specie: per il genere, quelle che non hanno una materia comune, nè
si generano le une dalle altre (*): così, quelle che figurano in una categoria
diversa; per la specie, invece, quelle che hanno il medesimo genere. E si
chiama genere ciò che di entrambe le cose differenti si dice, secondo la
sostanza, identicamente. E i contrari son differenti: chè la
contrarietà è una differenza determinata. Che questo, come ora s8’è esposto,
stia bene, è manifesto per induzione: poichè essi si mostrano,
tutti, differenti e identici, non soltanto diversi : ma alcuni diversi
per il genere; altri, essendo nella stessa serie della categoria, son
nello stesso genere e identici per questo. Abbiamo altrove determinato
quali cose sono per il genere identiche o diverse. genere
può ammettere un’unità soltanto analogica: efr. V. 6, 15 (dove il genere
vien già identificato con la categoria: come nel paragrafo seguente). Prima,
per le forme dell’uno, è presupposto il molteplice; qui, il molteplice
implica un p. d. v. unitario (ma A. mette ciò poco o nulla in rilievo).
Nota la mescolanza del p. d. v. realistico con quello logico. Di qui le
difficoltà del passo, onde il Christ vorrebbe espunta la frase seguente,
ch’egli, d’accordo col Bonitz, trova in contraddizione con l’altro accenno alle
categorie nel S 10. Il colore e il suono, ad es., son generi diversi,
entrambi nella categoria delia qualità, Il testo, tuttavia, dà ragione al
Ross di sostenere che la serie categorica del $ 10 non accenna a una
distinzione interna a ciascuna categoria, ma coincide con l’accenno qui
alle figure categoriche. « A. senza dubbio chiama generi molte classi che
non sono categorie, ma in senso stretto le categorie sono i soli generi,
perchè sono le sole classi che non sono specie» (Ross a q. l.). Si può
aggiungere che A., quando ha in vista l'essere concreto, lo pensa, insieme, come
sinolo di materia e forma (dove il genere primo è la materia nella sua
maggiore indeterminazione), e come usia ch'è sostrato delle altre
determinazioni (donde le categorie come summa genera, reali e logici insieme).
Il testo è alquanto incerto: così, com'è nel Christ, meglio sottintendere
come soggetto tà èvavila (Ross), e fare del passo un preludio al capitolo
seguente. Certo, il discorso si complica, qui, di entrambi i concetti, della
diversità e della differenza: il diversi in questo punto non ha lo stesso
valore di quello che segue (che comprende i contrari per coppie,
non l’uno in rapporto all’altro). Abbiamo altrove determinato: V. 28,
6. Poichè può darsi che le cose tra loro differenti differiscano 1
più o meno, ci ha da essere anche una differenza massima. Questa io
chiamo contrarietà: e che sia la massima differenza, si vede per
esperienza. Invero, tra le cose di genere differente non c’è passaggio, anzi si
tengono lontane, sì che non vengon mai a confronto. Ma quelle che differiscono
per la specie si generano da estremi che sono i contrari. Ora, la
differenza degli estremi è la maggiore che ci sia. E tale è anche quella
dei contrari. Ma ciò che in ciascun genere vi 2 è di maggiore, è
perfetto: poichè maggiore di tutto è ciò di cui niente è superiore, e
perfetto è ciò fuori del quale non è possibile trovar altro. La
differenza perfetta possiede il fine (‘), così come anche le altre cose
si dicono perfette perchè posseggono il fine: e fuori del fine non c’è
nulla, poichè esso in ogni cosa è l’ultimo termine e abbraccia tutto.
Perciò non c’è nulla fuori del termine finale, e ciò ch’è perfetto
non ha bisogno di nulla. Da questo è, dunque, chiaro che la contrarietà è
una differenza perfetta. Ma, poichè i contrari si dicono in molti sensi,
la perfezione che a loro compete si dirà, di conseguenza, negli stessi
modi. Così stando le cose, è manifesto che un contrario non può 3
avere più di un contrario: poichè del termine estremo non se ne può dar
uno più estremo, nè possono esserci più di due estremi di una sola e
unica distanza. E in generale, se la contrarietà è una differenza, e la
differenza è fra due termini, così, dunque, sarà anche di quella ch’è
differenza perfetta. E di necessità anche le altre definizioni dei
contrari trar- 4 ranno di qui la loro verità. Poichè la differenza
perfetta è quella onde le cose differiscono di più: onde non è
possi Si tengano presenti i
termini greci téievov e térog, e cfr. V. 16. Vedi anche ivi, cap. 10, per
l'opposizione in generale e per la contrarietà.
La fine di questo paragrafo è chiarita dal 8 5. bile trovar
nulla fuori di essa, sia che le cose differiscano di genere, o di specie.
Si è mostrato, infatti, che non è possibile una differenza in rapporto a cose
che sian fuori del genere, ma è tra quelle dello stesso genere che la
differenza può esser massima, ed i termini che qui più differiscono sono
contrari: chè differenza massima, in questi, è quella perfetta. E dove
ciò che può ricevere quei termini è lo stesso, son contrari quelli che
più differiscono: poichè la materia per i contrari è la stessa, e così
dicasi per le cose che, cadendo sotto la stessa facoltà, differiscono
di più: poichè la scienza, se unica, è intorno a un unico genere,
dove la differenza perfetta è quella maggiore. La principale
contrarietà, poi, è tra abito e privazione: non, tuttavia, ogni
privazione (chè questa si dice in molti modi), ma quella che sia
perfetta. E le altre contrarietà si diranno secondo questa: alcune perchè
la posseggono, altre perchè la producono o sono in grado di produrla,
altre perchè rappresentano un acquisto o una perdita di questi o di altri contrari. Che se opposizione
è la contraddizione, la pri La differenza tra i generi o tra cose di
genere diverso non è considerata da A.come vera differenza, perchè manca
il rapporto, identificato, da un p. d. v. realistico-empirico, col
passaggio, di cui al $ 1. Quando quel rapporto c'è, si ha un p. d. v.
logico (che vuole identità e ditterenza insieme). Ma, poi, questo 0 è
riguardato in una logica astratta (che sta tra quella del pensiero in sè e
per sè, e quella meramente discorsiva: i due terinini son racchiusi nella
sintesi del giudizio, ma il pensiero non si media ne'suoi termini, sì che
questi restano uno di fronte all'altro immediatamente), e si ha la
contraddizione; ovvero il p. d. v. logico vien concepito come coincidente
con quel passaggio, e si ha la contrarietà. I contrari banno sempre una
materia, si dice in XII. 10, 12: ossia, una materia comune, ch'è il genere
reale e logico, dentro il quale si muove il reale e il pensiero che lo
pensa. D'altra parte, poichè i limiti estremi, entro i quali si vuol
pensare ogni possibile mutazione, tendono a idealizzarsi sino al rapporto
assolutamente esclusivo (la privazione dev'essere totale, affinchè si abbia la
differenza massima), la vera contrarietà diventa la contraddizione, pur che in
questa si concepisca il termine negativo non nell'espressione
astratta, ma nell’opposizione concreta (ch'è del pensiero a se stesso, non
delle cose come pensa A.). La &ivauw qui è tanto potenza empirica
(oggettiva), che razionale (s0gGettiva), come l’esempio della scienza chiarisce
(salute e malattia, ad es., in quanto dipendono dalla scienza medica).
Una stoffa possiede il bianco o
il nero; l’arte medica o una medicina produce, o può produrre, la
salute o la malattia; il corpo puo perdere la salute e riacquistarla;
ecc. vazione, la contrarietà e la relazione, e di queste la principale è
la contraddizione, della quale non si dà. mezzo, mentre si dà dei
contrari, è chiaro che contraddizione
e contrarietà non son la stessa cosa. La privazione è una contraddizione
(') di certa natura: poichè ciò che soffre privazione, o in generale o in un
certo modo, vien così determinato, secondo che o non abbia punto la capacità di
una cosa, o non abbia questa cosa pur essendo fatto da natura per
averla. Qui abbiamo già molti significati: secondo che altrove
distinguemmo. Per cui la privazione è una contraddizione di certa natura,
o un’incapacità ch’è del tutto determinata, ovvero è presa insieme a ciò
che può riceverla. Perciò, mentre della contraddizione non si dà mezzo,
della privazione in qualche caso si dà: tutto, infatti, è o uguale o non
uguale; non tutto invece è uguale o disuguale, ma, se mai, ciò vale
soltanto per quel ch’è suscettibile dell’uguale. Che se il divenire, dove
c’è la materia, è tra i contrari, e avviene o dalla forma e dal possesso
della forma, o dalla privazione determinata della forma o figura, è chiaro che ogni contrarietà è una certa
privazione; ma, invero, non ogni priva
Partendo dalla contraddizione, e realizzando il termine negativo
nella privazione in generale, questa si presenta come un caso della
contraddizione, e la contrarietà, a sua volta, come un caso della
privazione (dove l'opposizione steretica è la massima). Se partiamo,
invece, dal mutamento reale, la contrarietà è una generalizzazione
dell'opposizione steretica (atégeors ed Esc), e sta tra questa e la
contraddizione. Si risolve così la questione tra lo Zeller ‘che voleva
ridurre la privazione o alla contrarietà o alla contraddizione) e il Ross
(a q. 1.), che sostiene la subordinazione della privazione alla contraddizione,
e della contrarietà alla privazione. Ma A., preso nel testo, in verità, dà
ragione a tutti due; e come riconosce molti significati alla privazione,
sì che c'è da pensare che uno sia fondamentale (quello di contrarietà),
così nel $ 5 ne riconosce molti per la contrarietà, sì che fa pensare che
fondamentale sia l’opposizione steretica pura e semplice (senz’altra
determinazione). L'incertezza nel pensiero di A. si nota anche nella
frase che segue, in cui la privazione vien attribuita anche a ciò che
«non ha affatto la capacità di qualcosa »: ch'è contro il concetto
fondamentale della steresi in quel che si distingue dalla negazione
astratta; e poco dopo è definita con analoga oscillazione, o per sò («
determinata incapacità »), «o insieme a ciò che può riceverla». Per
l'opposizione di relazione, o correlazione (tà med x: ma A., in realtà,
distingue i due concetti), v. 6, 5. Secondo che altrove distinguemmo: V.
22. zione è una contrarietà: la ragione è che ciò ch'è passibile di
privazione può averla in molti modi, e soltanto quando i termini del
mutamento sono quelli estremi si ha la contrarietà. Lo si vede anche per
esperienza. Ogni contrarietà implica una privazione di uno dei due
contrari, ma non allo stesso modo sempre: la disuguaglianza è privazione
dell'uguaglianza, la dissomiglianza della somiglianza, così come il vizio
della virtù. I casi sono differenti, secondo si è detto: in uno, si bada
semplicemente alla privazione, in un altro al tempo o ad una parte, per
es., a una certa età o alla parte principale, oppure si tratta di una
privazione totale. Sì che in certi casi si da un mezzo (è possibile che
un uomo non sia nè buono nè cattivo), in altri non si dà (un numero
è necessariamente pari o dispari). Inoltre, alcuni contrari hanno un
sostrato determinato, altri no. È perciò manifesto che sempre uno dei due
si dice secondo privazione: basta che questo sia manifesto per i generi
fondamentali dei contrari, come l’uno e il molteplice: chè gli altri si
riducono a questi. Poichè a un contrario si oppone un solo
contrario, si potrebbe far questione come l’uno si opponga al
molteplice, e l’uguale al grande e al piccolo. La disgiuntiva noi
l’adoperiamo sempre per esprimere un’antitesi: chiediamo, ad es.: È
bianco o nero? È bianco o non bianco? Non diciamo: È uomo o bianco? Salvo
che per un presupposto: come se si chiedesse se venne Cleone o Socrate.
Qui si ha un caso che non ha carattere di necessità per nessun genere di
cose. Pure, anch'esso ha la stessa origine: poichè, non essendoci
che gli opposti che non possono trovarsi insieme, di tale incompatibilità
fa uso chi domanda quale dei due venne: chè, se poteva darsi che
venissero insieme, la domanda non avrebbe avuto senso. Pure, anche in tal
caso, si può similmente cadere nell’antitesi, in quella dell’uno e del
molteplice, chiedendo, ad es., se son venuti entrambi o uno solo. Se,
dunque, negli opposti la domanda è sempre disgiun- 2 tiva; e poichè si
può chiedere: È maggiore, minore, o uguale?: di che natura è l’antitesi
dell’uguale, a questi? Chè non è contrario a uno solo, nè ad entrambi.
Perchè, infatti, sarebbe contrario al maggiore più che al minore?
Aggiungi che l’uguale è contrario al disuguale: per cui dei contrari
esso ne avrà più di uno. Che se il disuguale significa la stessa
cosa di quei due presi insieme, l’uguale si dovrebbe opporre ad entrambi,
e si finirà col dar ragione a quei che van dicendo che il disuguale è la diade
('). Ma, allora, uno solo avrebbe due contrari: la qual cosa è
impossibile. Poi, l’uguale appare intermedio tra il grande e il piccolo;
ma non si vede come un contrario possa esser intermedio, nè, stando
alla definizione, è possibile: chè non sarebbe perfettamente contrario se
fosse intermedio, anzi, se mai, c’è sempre un intermedio tra esso e l’altro
termine. Resta, allora, che l’opposizione sia o come negazione o 4
come privazione. Di uno solo dei due termini, non può essere. Perchè, infatti,
si opporrebbe al grande piuttosto che al piccolo? Sarà, dunque, una
negazione privativa di entrambi (°). E per questo la disgiuniiva riguarda entrambi,
e non un termine solo, come farebbe chi chiedesse: È maggiore o uguale? oppure:
È uguale o minore? Invece, i termini son sempre tre. Ma questa
privazione non ha carattere di necessità: chè 5 non tutto è uguale ciò
che non è nè maggiore nè minore; YI Così i Platonici
ricordati in XIV. 1, 3. Soltanto il nome sarebbe uno solo (disuguale): in
realtà i termini son due. Negazione (contradittoria), ch'è, come viene
spiegato, doppia; ed esprimendo la possibilità reale di entrambe le
contrarietà, è chiamata privativa, e intermedia fra esse. Il termine
doppiamente negativo è, qui, l’uguale; le due contrarietà corrispondono
alle due disgiuntive, nelle quali si determina la negazione, la quale è
trattata come una realtà oggettiva, una potenza di contrari 0 un intermedio
tra essi, La soluzione permette ad A. di mantenere cho a un cor» trario
si oppone un solo contrario ; di risolvere la diade dei Platonici nella
dualità espressa dalla parola « disuguale » ; trasferendo l’intermedietà nell'«
uguale » non più come contrario, ma come negazione, di unificare, in
certo modo, in questa (quasi come un'attività di pensiero) le due
disgiuntive . Cfr. con quest'ultimo punto la discussione in IV. 7-8
intorno al terzo escluso. ma le cose soltanto che hanno natura di esser
tali. L’uguale è, appunto, ciò che non è nè grande nè piccolo, ma ha
unatura di essere o grande o piccolo; e si oppone ad entrambi come una
negazione privativa: per cui è anche intermedia. Anche ciò che non è nè
buono nè cattivo si oppone a entrambi, ma non ha un nome, perchè ciascuno dei
due si dice in molti sensi (!), e non c’è una sola cosa che di essi
sia suscettibile. Non così, piuttosto, si può pensare di ciò che non è nè
bianco nè nero: pure, neanche qui si può dire qualcosa di unico, sebbene
i colori dei quali si enuncia privativamente tale negazione siano, in certo
modo, limitati: chè, necessariamente, o è grigio o è giallo, o altro di
tal natura. Per cui non dirittamente obiettano coloro che stimano il caso
esser lo stesso per tutte le cose, sì che, come ciò che non è nè buono nè
cattivo sta in mezzo tra il buono e il cattivo, della scarpa e della mano
ci dovrebb’essere un intermedio che non è nè scarpa nè mano, e così ce ne
dovrebb’essere uno per tutte le cose. Questa non è una conseguenza
necessaria: poichè in un caso è possibile una simultanea negazione degli
opposti in quanto è di cose di cui esiste un intermedio e un intervallo
naturalmente determinato; nell'altro caso, invece, non esiste questa
differenza, perchè le 1086 b cose delle quali si fa la negazione
simultaneamente, son di genere diverso, sì che non è identico il loro
sostrato. Si può far questione, similmente, intorno all'uno e ai
molti: chè, se molti si oppone all’uno semplicemente, si hanno alcune
conseguenze assurde. L’uno sarebbe poco, 0 pochi: molti, infatti, si
oppone a pochi. Poi, due sarebbe In ogni categoria: cfr. Eth. Nic., I. 4.
1096 a, 19. Non c'è un termine unico che esprima (come l’« uguale ») le
due negazioni. Neanche per il bianco-nero, che pure son nella stessa categoria.
Tanto meno quell’unico termine può esistere in cose di genere diverso,
tra le quali, mancando l’identità che accompagni la differenza, non
esiste passaggio. molti, una volta che doppio è multiplo e doppio dicesi
considerando il due; per cui l’uno sarebbe poco. Infatti, in rapporto a
che il due è molti, se non all’uno, e però al poco? Chè non c’è nulla che
sia più poco. Inoltre: come 2 nella lunghezza il lungo e il corto, così
nel molteplice è il molto e il poco, e ciò ch’è molto è anche molti, e
ciò ch'è molti molto: sì che (se ne togli il caso di un continuo
che sia facile a limitare) il poco sarà una specie di molteplice, e tale quindi
l’uno, se esso è anche poco: e che questo sia, è necessario, se il due è
molti. Pure, se il molti dicesi anche in certo modo molto, una 3
differenza c’è: l’acqua, ad es., dicesi molta, non molti. Molti, invece,
dicesi per quante cose sono divisibili: in un senso, se queste formino un
molteplice che ecceda, o assolutamente o relativamente (e dicesi, similmente,
poco se quel molteplice sia in difetto); in un altro, vuol dir numero,
e in questo senso soltanto si oppone all’uno. Noi, infatti, diciamo «uno
o molti», proprio come se si dicesse «uno e uni», 0 «cosa bianca e cose
bianche », e mettiamo in rapporto le cose misurate con la misura, e
parliamo del misurabile così come del
multiplo: poichè ogni numero è molti in quanto risulta di uni ed è
misurabile con l’uno, e ne parliamo come di opposto all’uno(*), non al
poco. E così, quindi, anche il due è molti, non già nel senso che 4
sia un molteplice eccedente o relativamente o assolutamente, ma nel senso
ch’esso è il primo molti. Assolutamente inteso, il due è pochi: chè esso
è il primo molteplice che può
Il molto è, dunque, equivalente al molti: è, cioè, un molteplice. Se
ne tolga il caso di ciò ch'è «facile a limitare» (etoglotw), come i
liquidi e tutto ciò che prende dal limite (per es. del recipiente) la
forma delia continuità: l'acqua, ad es., non uvendo parti discrete, può
esser un molto, non un molti. Soppresso il punto (Ross). Le
conseguenze assurde derivavano, dunque, dall’opporre il molteplice all’uno
senza distinzione di significato (semplicemente). V. Sommario, e conchiusione
del capitolo, Il due parrebbe,
quindi, il principio del molteplice (come la dualità platonica), D'altronde, il
principio di esso, nel senso di misura, è l’uno. La soluzione sembra
questa: in quanto l'uno e il molteplice sono contrari, come
l’indivislbile esser in difetto (perciò, anche, andò fuori strada
Anassagora quando disse che « tutte le cose erano insieme, infinite
e per molteplicità e per piccolezza »: invece di ): il quale stabiliva
quale fosse il numero di qualcosa (questo qui, ad es., dell’uomo; questo qui,
del cavallo), imitando con sassolini le forme degli esseri viventi,
al modo stesso di coloro che riducono i numeri alle figure, al
triangolo e al quadrato. Ovvero è perchè l’armonia è un rapporto di numeri, e così è anche l’uomo e ognuna
delle altre cose? Ma come, poi, le qualità, il bianco e il dolce e
9 il caldo, son numeri? Che, poi, i numeri non siano sostanze, nè
cause della forma, è evidente: è il rapporto ch’è la sostanza, il numero è
materia (°). Per es., la sostanza della carne o dell'osso è un numero in
questo senso: che ci vogliono tre parti di fuoco e due di terra. E sempre il
numero, assorbito nel prodotto, sì che fuori non ne sia restato
nulla a insidiare la vita dell'altro; cfr. VI. 3, 2: «chi vive dovrà
morire, perchè è già avvenuto questo, che elementi contrari si trovano
nello stesso corpo »): il numero, dunque, non è eterno. Le
considerazioni che seguono, sino alla fine del libro, come nota il
Bonitz, « Pythagoreorum doctrinam praecipue tangunt et fortasse
Platonicos quosdam qui ad Pythagoreos proxime accedebant». Scolaro di
Filolao, al principio del sec. IV: porta, come si vede, al comico la dottrina
dei numeri come sostanza delle cose e la loro figurazione geometrica. putàv, delle piante; ma è probabile,
suggerisce il Ross, che qui sia usato nel senso più antico e ampio di «
essere vivente ». È sostanza o
rapporto? Se sostanza (essenza), come, allora, la qualità? Se è rapporto,
invece, non è sostanza (sostrato). Numero equivale qui a molteplicità di cose
(soltanto il numero monadico, 1. e. aritmetico, è di unità astratte).
Cfr., per gli esempi, I. 9, 18 e 10, 2. sia quale si voglia, è numero di
certe cose: di particelle di fuoco o di terra, ò è un numero di unità
astratte. La s0stanza, invece, implica che c’è tanto di questo unito per
la mescolanza a tanto di quello: e questo non è già un numero, ma
rapporto numerico della mescolanza di cose corporee, o 10 d’altra
specie. Il numero, dunque, sia quello in generale e sia quello ch’è di
unità astratte, non è causa delle cose nè per il fare, nè come materia,
nè come concetto e specie. Nè, certamente, come causa finale ('). Si
potrebbe anche far questione in che consiste la perfezione che alle cose
deriverebbe dal numero, quando la loro mescolanza è fatta secondo un
rapporto numerico perfetto 0 secondo un numero dispari. Sta di fatto che
non per questo l’idromele è più salubre se acqua e miele siano mescolati
in modo da fare tre volte tre (*); anzi, se è acquoso senza nessun
determinato rapporto può giovare di più che se, per farlo. in 2 rapporto
numerico, sia troppo forte. E si noti che i rapporti delle parti di ciò
che vien mescolato si esprimono con l’addizione del loro numero, non con i
numeri soltanto: per es., «tre parti a due», non «tre volte due ». Poichè
le cose che vengono moltiplicate debbon essere dello stesso genere:
per cui, data una serie di fattori, 1. 2.3, essa dev’esser misurata dal
primo termine: se è 4.5. 7, dal 4. Insomma, in tutti i casì, dal termine
ch’esprime lo stesso genere. Non può essere, quindi, che il numero del
fuoco sia 2. 5. 3. 7, e quello 3 dell’acqua 2.3(*). Che se il numero
fosse una natura co- 1009 a
Nessuna, dunque, delle quattro specie di causa, Nota concetto e
specie: la causa formale come pensiero e insieme come forma reale.
(2) tels tela: si deve dire, invece, ammonisce A. dopo, «tre a tre », poichè
si tratta di un iniscuglio. In « tre volte tre », e nella moltiplicazione
in generale, ch'è un'addizione ripetuta dello stesso numero, questo dev'
esser sempre dello stesso genere.
Chè anche il fuoco sarebbe acqua. Penso che questo patagrafo prosegua
ancora l'argomentazione ch'è alla fine del 8 9 del cap. prec. mune di
tutte le cose, ne verrebbe, di necessità, che molte cose sarebbero le
stesse, e lo stesso numero sarebbe proprio di questa cosa e di una cosa
diversa. Ma è questa, allora, la causa delle cose, ed è per questo che
una cosa è quello che è? O non è ciò molto oscuro? Poniamo: esiste un
certo numero per le traslazioni del sole, e così per quelle della
luna, e anche per la vita e l’età di ciascuno degli esseri viventi. Che
impedisce, allora, che alcuni di questi numeri siano quadrati, altri
cubici, alcuni uguali e altri doppi? Nulla; anzi, di necessità, tutti (')
si aggirano in questi rapporti, una volta che la natura del numero è
comune a tutte le cose, e quelle che sono differenti possono cadere sotto
lo stesso numero. Per cui, se ad alcune convenisse lo stesso numero,
quelle sarebbero identiche tra loro che avessero la stessa forma del
numero: il sole e la luna, ad es., sarebbero identici (?). E perchè son
cause questi numeri? Ci sono sette vocali, sette corde o note musicali,
sette son le Pleiadi; al settimo anno, almeno alcuni animali (altri, no),
perdono i denti; sette, quei che pugnarono a Tebe. È, dunque, perchè
quel numero ha quella natura lì, che quelli si trovarono in sette,
o che le Pleiadi hanno sette stelle? O non piuttosto, per quelli, perchè
sette erano le porte della città, o per qualche altra causa? E per le
Pleiadi siam noi che così le contiamo, come ne contiamo dodici per l’Orsa
(altri ne contano di più). Essi dicono anche che E Y Z sono consonanze, e
poichè tre sono in musica le consonanze, tre, dicono, sono queste
doppie consonanti. Non si dànno nessun pensiero che di questa
specie ce ne potrebbero esser mille: basta, poniamo, porre un segno
unico per I° P. Che se opponessero che ognuna di quelle è doppia delle
altre, e che nessun’altra consonante è così, la Non è chiaro se voglia dire: a)
che tutti è numeri sono risolubili in rapporti o figure geometriche (8v
tovtotce); b) che tutte le cose, per i Pitagorici, sono risolubili in
numeri. Ma, forse, son conglobati entrambi i pensieri (nota infatti, alla
fine del paragrafo, «la stessa forma del numero »: t. aùrà elbos do.)
(2) Alcunì citano XII. 8, dove il sole e la luna hanno lo stesso numero
di sfere o movimenti di traslazioni. O si riferisce qui alla
figura? ragione, poi; è che tre sono i luoghi della bocca (‘) in cui
si producono le consonanti e a ciascuna vien congiunto medesimamente il
sigma: per questo sono tre sole, e non perchè tre siano le consonanze
musicali: in realtà, queste sono più di tre, di quelle non ce ne possono
esser di più. Costoro somiglian proprio ai vecchi interpreti d’Omero, i
quali vedono le somiglianze piccole, e sfuggono a loro le grandi.
Ci sono alcuni che dicono ancora molte cose di questo genere: per es., che
avendo le due corde di mezzo l’una nove l’altra otto toni, il verso epico
ha diciassette sillabe, uguale al numero di quelle, e ch’esso si
scandisce a destra (*) con nove sillabe, a sinistra con otto. E dicono
che l'intervallo tra l’alfa e l’omega nelle lettere è uguale a quello tra
la nota più bassa e la più alta del flauto, e che il numero di
quest'ultima è uguale alla totalità dell’armonia celeste (*). Si deve
notare che nessuno troverebbe difficoltà a spiegare in questo modo le
cose eterne e a scoprirne le concordanze: chè non è difficile neanche per
le cose corruttibili. Le nature tanto lodate che sarebbero nei numeri, e
quelle a loro contrarie, e in generale le proprietà degli oggetti
matematici nel senso in cui ne parlano alcuni per farne cause della
natura, sembrano svanire agli occhi di coloro che considerano le cose così come
noi facciamo (°): chè nessuna di esse si può dir causa, in nessuno dei
modi da noi determinati trattando dei principii. Certamente, come essi fan
vedere, la perfezione appartiene a tali oggetti, manifestamente; e alla serie
delle cose dov’ è la bellezza appartengono il dispari, il retto,
l’uguale, le potenze di certi numeri. Chè (1) Donde la distinzione
di gutturali, dentali, labiali. (3) La prima parte; a sinistra, la
seconda (Aless.). (3) Secondo Aless., il 24 (12 segni dello zodiaco; 8
sfere, quella delle stelle fisso e le sette dei pianeti; 4 elementi).
Le une benefiche, le altre malefiche. La mentalità critica allontana
molto A. da’ suoi contemporanei. (6) Lo Schwegler intende che questo sia
detto ironicamente. Pensando alla fine del $ 5 e al passo già citato di
XIII. 3, 8, ho dato, invece, alla traduzione il tono come se A. faccia
qualche concessione alla dottrina combattuta così vivacemente. In ogni modo,
egli afferma, in fine, che si tratta di mere analogie. le stagioni e un
numero di certa specie vanno insieme; e tutte le altre proprietà ch’essi
raccolgono dai teoremi matematici, hanno questo valore. Perciò anche si rendono
appa- riscenti le coincidenze: poichè sono, sì, meramente proprietà
di ciascuno di essi, ma tutte si corrispondono tra loro, e fanno una cosa
sola dal punto di vista dell’analogia. Poichè in ogni categoria
dell’essere c’è l'analogia: come la linea retta nella lunghezza, così è
il piano nella superficie, e senza dubbio il dispari nel numero, e il
bianco nel colore. Quanto ai numeri, in fine, che consistono nelle
specie, essi non sono la causa delle armonie e delle cose di questa
natura: poichè essi differiscono tra di loro, anche se uguali, per ia
specie, una volta che anche le unità son differenti ('). Sì che, almeno
per queste ragioni, non c’è bisogno di porre tali specie. Queste,
dunque, le conseguenze che si posson trarre, e più ancora se ne
potrebbero addurre. Il fatto stesso del loro grande travaglio a spiegarne
la genesi, e il non riuscire in niun modo a dar coerenza all'insieme, è
un indizio che gli oggetti matematici non hanno esistenza separata,
come alcuni dicono, dalle cose sensibili, e che i primi principii
non son questi. (1) I numeri ideali, essendo di unità di specie
differente (e però &ovufàintay, come si dice nel libro precedente),
sono anch’ essi differenti di specie, anche se uguali (se son triadi, ad
es., comprese nello stesso numero nove). Non con essi, dunque, ma con i
numeri matematici, se mai, ci si può render ragione di cose, le quali,
come nell’armonia le unità e i rapporti di uno stesso tono, sono della
stessa specie. Armando Carlini. Carlini. Keywords: filosofia
fascista, Bovio, Locke, senso, esperienza, il mito del realismo, la categoria
dello spirito, animus e spiritus, filosofia italiana, storia della filosofia
romana, l’ambasciata di Carneade a Roma, la antichissima sapienza degl’italici,
la scuola di pitagora, sicilia e la magna grecia, geist, ghost, spirito, animo,
spirito oggetivo, Bosanquet, testi di filosofia ad uso dei licei, aristotele,
il principio logico, Cartesio, il problema di cartesio, senso ed esperienza,
storia della filosofia, avvivamento alla filosofia, i grandi filosofi –
mondatori – the great and the minor -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carlini”
– The Swimming-Pool Library. Carlini.
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