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Monday, February 10, 2025

LUIGI SPERANZA -- GRICE ITALO A-Z C CARLI

 

Luigi Speranza -- Grice e Carli – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A cura di  alberto schiavo Gy  giovanni volpe editore  FUTURISMO E FASCISMO. Una fotografia inedita di Marinetti mentre si esercita  al poligona di tiro di Gorizia. Marinetti e Russolo si erano  arruolati volontari nel Battaglione Lombardo Volontari Ciclisti il  3 agosto 1914 per poi combattere da alpini sul Monte Altissimo. In  seguito Marinetti verrà assegnato ad un reparto di autoblindate e poi  servirà nei bombardieri. Sarà tre volte ferito e tre volte decorato  al valore.   Tutti i diritti riservati. Giovanni Volpe Editore  in Roma, Via Michele Mercati. FUTURISMO E FASCISMO a cure di ALBERTO SCHIAVO GIOVANNI VOLPE EDITORE FUTURISMO CON E SENZA FASCISMO A Giacinto Menotti Serrati allora direitore del-  l’Avanti, che si era recato in Russia per respirare  aria comunista. Lenin affermò: “Voi socialisti non  siete dei rivoluzionari. In Italia ci sono soltanto tre  uomini che possono fare la rivoluzione: Mussolini,  Annunzio, Marinetti”. Il povero Menotti, inotridito, ritornò a Milano precipitosamente. E. quando, paco dapo, un capo scarico con un  magistrale colpo di forbice gli tagliò di netto, per  beffario, Ia veneranda barba, reagì in questo modo:  facendo proclamare nella grande città lombarda lo  sciopero generale. I milanesi orripilarono, è il caso  di dirlo, perché si sentirono da quel giorno appesi  ai peli del direttore dell'Avarti  EmiLio SErTIMELLI, Mille giudizi di statisti, scrittori, giornalisti, scienziati, industriali di Cinquanta  Stati sulla personalità e misstone di Mussolini, Erre, Milano). Quale futurismo? Il futurismo è ormai un fatto d’esportazione: italiano  d'origine pur se si è cercato di farlo passare per francese  e russo poi di acquisizione e di affermazione, è ormai  alla ribalta dell’esperimentazione artistica americana. Segno questo che il fenomeno è vitale e ancora carico di  prospettive, nonostante la storicizzazione di un avvenimento che fu d'avanguardia. Ma quale avvenimento?  Il manitesto del futurismo fu pubblicato sul parigino Le Figaro. Si tratta di un manifesto letterario di rinnovamento e di rivoluzione, se vogliamo, della tradizione classicista e passatista {secondo un termine caro ai futuristi) dominante.  Gli aspetti politici non furono tuttavia estranei alla sua volontà di rivolgimento letterario ed artistico. Ci  sembra quindi giusto prenderli in considerazione, eftet tuarne un esame. Anzi, è proprio di questi che ci vogliamo occupare, del loro svolgersi, articolarsi 0, comunque, manifestarsi nel corso del tempo e della vita del futurismo. Che, in fondo, ancora oggi è accettato o respinta,  condiviso o negletto, approvato o denigrato a seconda  delle posizioni o degli intendimenti politici del momento.  Ma anche è ticonsiderato, tivisto e rivisitato nel suo  complesso, da tutte le parti, vicine e lontane, amiche ed  avverse, per la carica vitale e rinnovatrice che lo anima,  suscitatrice di nuovi spiriti e ancòra, in fondo, moderna.   La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pensosa, l'estasi e il sonno , scriveva Marinetti in quel Mani  festo di settanta e più anni fa. Noi vogliamo esaltare il  movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. E non è  già atteggiamento letterario aggressivo , ma anche di  rinnovamento, questo? Non è, come si suol dire ancora,  fare politica ? Al settimo punto del Manifesto, Marinetti così continuava: Non c'è più bellezza, se non  nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere  concepita come un violento assalto contro le forze ignote,  per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo . Per concludere poi con l'undicesimo: Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa; canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da  violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici  di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole. E tutto questo cantava e diffondeva da Parigi, da uno  dei più gloriosi quotidiani della capitale francese; ma ciononostante...è dall'Italia, che noi lanciamo pel mondo  questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria, col quale fondiamo oggi il “Futurismo”, perché  vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena  di professori, d’archeologi, di ciceroni e di antiquari. Un grido così coinvolgente e totale non può, in fondo, non trascinare ancora gli osservatori della cultura, A  non invitarli almeno a prendere posizione, poco importa  se favorevole o contraria. Non si può rimanere indifferenti ancora negli Anni Ottanta, non sentirlo tutt'ora presente nei suoi contenuti prospettici e attuali. Ecco  perché tutti lo hanno ripreso, riconsiderato o riabilitato alla loro dimensione storica: liberali e comunisti,  socialisti e conservatori, cattolici e radicali, fino alla nuova destra. Anche noi, vorremmo quindi riesaminarlo a  distanza non però per riappropriarcene, ma solo per vedere la sua origine, il muoversi storico e la collocazione  politica nel corso della sua esistenza, che in fondo, è ancora incerta e anche, in parte, controversa. Si è parlato d’irrazionalismo filosofico, di decadentismo o di romanticismo letterario, di surrealismo con evidente errore di collocazione, di nietschianesimo natural  mente, o di bergsonismo ecc. ecc. Ma non sta a noi questo compito, perché siamo convinti che rutto si potrebbe  dite, o comunque tutto si potrebbe adattare in buona  combinazione di purpurie filosofica, o di pensiero. E invece è il futurismo che vorremmo considerare nella sua  realtà storica, nella sua entità e valenza politica , di  fianco o a distanza di quel fascismo con cui bene o male  si è accompagnato. Anche se ciò non basta certamente  per avere un'idea chiara e precisa della sua effettiva portata e del suo valore storico . Perché il futurismo va  visto sì nel suo tempo, che non è poi tanto passato, pur  se non è più momento dell’oggi; ma va visto anche nella  sua prosecuzione e nella sua proiezione al tempo presente, sia pure per quel che riguarda la dimensione d’arte ».   Il futurismo oggi non è più un fatto politico, ma è  tuttora fatto culturale, e diverse manifestazioni e pubbli  cazioni lo dimostrano ancora. Quando nacque, fu espressione rivoluzionaria di un paese giovane e nuovo mosso dalla felice conclusione dei fermenti unitari, i quali è ovviocomportano sempre semi di sconvolgimento e di rinnovazione. L’Italia di Vittorio Veneto sancità definitivamente  ed epicamente il ciclo dell’unità e segnerà così anche, nel  l'immediato dopoguetra, il momento di temperatura massima del futurismo politico , che vedremo poi ricadere  in seguito completamente a zero.   Oggi, in tempi di riflusso dopo una guerra perduta  anche se ormai lontana, il futurismo risulta meno comprensibile e meno attuale alla nostra capacità d'intendimento storico. Ma a ben osservare possiamo ancora  intravvederlo, per intendere poi anche meglio il futurismo  artistico e letterario, che del tutto estraneo a quello politico proprio non è.   La cultura è un fatto del presente, ma anche dell’avvenire. Come tale è o dovrebbe essere giovane, perché  vissuta, voluta, creduta e quindi guardata in prospettiva nella visione dell’oltre, nell'ottica di uno sguardo lontano. Il futurismo si pone in questo taglio di visuale  sull'inizio del secolo, e si focalizza in tale dimensione.  Vuole aprire una nuova strada e vuole porgere un'indicazione, una proposta.   Erano i tempi del progresso, dello sviluppo della scienza e dell'industria, del nascere della velocità dei nuovi  suoni e dei nuovi rumori, quelli delle scoperte e delle  invenzioni, del cinema e dell'aviazione. Marinetti percepì  tutto questo e lo espresse. E fondò il futurismo, pose  le sue basi e cantò la sua prima voce. Nessuno forse  s’aspettava o s'immaginava che potesse riuscire a trovare  ascolto. Marinetti però viveva a Parigi a quel tempo, e  seppe approfittare dei contatti che aveva con la cultura  rancese per lanciare il Manifesto: fu un'occasione, e fu  anche un lancio sicuro. Futurismo e passatismo    Esiste ancora oggi il passatismo , quello di marinettiana memoria. E se è pet questo c'è ancora il futurismo. Proprio per tale suo aspetto, dunque, il futurismo  è ancora attuale: la decadenza della cultura o il suo invecchiamento, e la sua inadeguatezza ai tempi; il prevalere per contro dell'accademia, della pedanteria, del vecchiume cattedratico sono sempre all'ordine del giorno. Il futurismo, quindi, non ha esaurito il suo compito, ovvero non è riuscito nel suo intento. E allora dovremo dire  che non è morto ed è tuttora attuale. Ma prima di aprire  un'ipotesi di nuovo futurismo , dovremmo esaminare  quello passato, fattosi movimento d'avanguardia, e ormai  da ridefinirsi vera e propria avanguardia storica, solo ed  esclusivamente.   Il passatismo può essere oggi solo un fatto di  ritorno , o esser rientrato ad occupare il suo campo d'’origine, ma il futurismo settanta anni fa aveva già conosciuto quello di allora, tanto da indicarlo e da definirlo, con  una sua caratteristica espressione: passatismo, appunto.  E non si trattava anche allora di una cultura ripetitiva  e monocorde, puntualizzatrice e pedante, noiosa e inattuale? Allora come oggi: una cultura fuori dal tempo,  sterile e ferma. E il futurismo aveva voluto muoversi a  rinnovarla, a darle nuova spinta vitale. Ecco allora le  sue invettive contro l’accademismo o il professorume, i  suoi appelli alla distruzione di musei, archivi, biblioteche.   Si trattava di appelli squisitamente letterari, ma sono  stati presi il più delle volte alla lettera o in senso letterale, per farne atto d'accusa al futurismo e alla sua anticultura. Leggendo al di là delle righe, invece, dovremmo  capire la portata o la dimensione del messaggio, rivolto  agli uomini più che ai musei e alle accademie, o almeno  a certi uomini capaci di rappresentare solo ed esclusivamente cultura da museo.   Sulla spinta di questo stimolo ideologico , era fatale  che il movimento trovasse più facili accoglienze 0 accostamenti con le parti politiche d’azione, quelle dell'inter  vento prima della Grande Guerra, e dell’arditismo prima  durante e dopo il conflitto. La guerra veniva ormai intesa  sola ed unica igiene del mondo , ed era logico che i  futuristi si accostassero a lei, come ad una forza capace  di debellare ed estirpare il tanto inviso passatismo .  I futuristi quindi furono interventisti accanto ai nazionalisti (D'Annunzio) ed ai socialisti di Corridoni e di Mussolini. La ineluttabilità della storia accosta spesso e volentieri i differenti . Furono vicini nei comizi, nelle  manifestazioni, nella propaganda per l’intervento.  E poi partirono, praticamente tutti 1 futuristi, volontari per il fronte di una guerta che avevano inteso e visto  aggressiva, purificatrice e moderna. Una guerra al passo  coi tempi, si direbbe oggi, una guerra insomma futurista . Partì Martinetti e partì Boccioni, partirono Funi  e Sitoni, partì Sant'Elia, che lasciò i suoi 23 anni in trincea sulle colline del Carso. Erano entrati tutti e cinque  compatti in quel glorioso battaglione ciclisti, che tanto fece patlare di sé, e che Funi rittasse in un famoso  quadro. Anche Boccioni morirà in ospedale a Verona.  La vita fu forse la massima offerta all’igiene di una  guetra tanto desiderata.    Il futurismo in quanto fermento rinnovatore di una  lotta nazionale che concluse il Risorgimento, potrebbe essere inteso come un epigono del Romanticismo. Fu invece di più e di meglio, visto in altra dimensione o in  altro significato. Perché fu avanguardia, anzi il primo veto e proprio movimento d’avanguardia culturale del nuovo secolo. E l'avvento del fascismo in senso politico, dimostra in fondo che lo sbocco di tutto quel rivolgimento  innovativo 0 avanguardistico che tutti sentivano e avevano  nel sangue , era diventato una ineluttabile necessità del  momento. L’irreggimentazione del fascismo è un fatto successiva,  indipendente dal futurismo. Il fascismo-regime, per dirla  con De Felice, è un'esito autonomo e solitario di Mussolini e del potere. Il fascismo-movimento invece, sempre  per dirla alla De Felice, no. I) fascismo-movimento è una  realtà più complessa, articolata e multiforme, più sentita e  partecipata. Ed in essa entra il futurismo, che vive il fascismo ma anche lo anima, che Jo vuole in parte, ma anche  lo informa.    Il passatismo doveva essere stroncato: e in un  primo momento, con l'avvento di Mussolini, languì. La  cultura subì uno svecchiamento non indifferente ed il fermento del nuovo portò sulla scena uomini giovani accantonando | vecchioni dell'accademia libera!socialista.  Balla, Carrà, Soffici, Funi, Sironi, Prampolini si affermarono col vento futurista che stava soffiando. Ed ebbero spazio nelle mostre, almeno in un primo momento, apertura nei musei, apprezzamento all’estero, dove vennero  accolti, ammirati, imitati. Il futurismo ebbe una grande  forza vitale sua, autonoma e individuale. Senza per questo imporsi e schiacciare la concorrenza , anzi. I futuristi accettatono nuove esperienze ed accolsero scambi  con avanguardie straniere (come l'astrattismo), che vol.  lero mutuare in reciprocità l’influenze. Il fascismo fu l’avanguatdia collaterale politica del futurismo, che tuttavia quest'ultimo cronologicamente precedette e ideologicamente ,  almeno in parte, ispirò. La lotta al passatismo divenne così quasi simbolo del fascismo, che si fece portabandiera del rinnovamento e della nuova rivoluzione nazionale.   I professori , non avendo messaggi originali da contrapporre, rimasero in disparte. Marinetti divenne accademico d’Italia a fascismo avanzato e, forse, suo malgrado. Tuttavia usò l'Accademia per promuovere ed appoggiare i suoi futuristi, per dar loro spazio nelle diverse manifestazioni d’arte e di cultura. Il filosofo Croce,  professore ad honorem , era stato proposto alla presidenza dell’Accademia, ed era stato proposto da parte fascista, quando ancora da Napoli applaudiva a Mussolini:  ebbe invece più consensi la presidenza Marconi, lo scienziato, e Croce si ritirò nell’antifascismo, forse mi litante,  della sua incensurata e liberissima Critica. Croce fu passatista , 0 tortò ad essere tale dopo una parentesi {od  un tentativo di rivolgimento innovativo), che non lo sottrasse tuttavia dalle carte della sua più o meno immobile filosofia.    3. Futurismo e politica    La comparsa politica del futurismo fu praticamente  contemporanea alla sua nascita artistica: infatti avvenne  in occasione delle elezioni del 1909, quando Marinetti  lanciò il suo Primo Manifesto Politico, che così si rivolge agli Elettori Futuristi : Noi Futuristi invochiamo da tutti i giovani ingegni d’Italia una lotta ad oltranza  contro i candidati che patteggiano coi vecchi e coi preti .  Posizione confermata nel marzo dello stesso anno in un  famoso Discorso ai Triestini tenuto al Politeama Rossetti, della città giuliana, dove così sottolinea: In politica,  stamo tanto lontani da] socialismo internazionalista e antipatriottico ignobile esaltazione dei diritti del ventre quanto dal conservatorismo pauroso e clericale,  simboleggiato dalle pantofole e dallo scaldaletto . Sono  le premesse del famoso anticlericalismo marinettiano, che  sfocerà poco dopo nello svaticanamento tanto predicato per la salvezza nazionale. Dopo la nascita del futurismo politico, viene fondato il Partito Nazionalista Italiano, antidemocratico ed antiborghese. Nel 1913 nasce Lacerba, cui diedero vita a Firenze Soffici e Papini, la rivista che in pratica divenne ben presto organo ufficiale del futurismo /ato  sensu. Sempre nel 1913 sorgeva a Napoli un’altra rivista  futurista, diretta da Ferdinando Russo e intitolata Vele  Latina, che si ergeva in un primo tempo a voce di pasizioni morigerate e tranquille, e poi dal 1915 più spinte  nella mischia dell'intervento.   Ancora del ’13, e dell'11 ottobre per l'esattezza, è  la pubblicazione del Programma politico futurista a firma  di Marinetti, Boccioni, Carrà e Russolo, per le elezioni  dello stesso anno. Questo programma vincerà , s'indica al margine inferiore del foglio, il programma clerico-moderato-liberale e il programma democratico-repubblicana-socialista . Cosa che poi in realtà non avvenne.    Il 12 dicembre dello stesso anno Marinetti pronunciava un discorso al Teatro Verdi di Firenze, dove saostiene la volontà di appoggiare l'impresa libica ed il suo  felice compimento. Il discorso viene immediatamente ripreso e pubblicato da Lacerba, nel numero del 15 dicembre (n. 24, anno I): Si convincano i socialisti che noi  rappresentanti della nuova gioventù artistica italiana combatteremo con tutti i mezzi e senza tregua i loto vigliacchissimi tentativi... iniziava il discorso; e così concludeva, a rafforzamento delle sue inconciliabili posizioni:  Noi siamo dei nazionalisti futuristi e perciò ferocemente avversi all’altro grande pericolo imminente: il clericalismo con tutte le sue propaggini di moralismo reazionasio, di repressione poliziesca, di professoralismo archeologico e di quetismo rammollito o affatismo di partito .  Ormai la collocazione del movimento è quanto mai chiara e inequivocabile.    4. Futuristi e fiorentini. Che i futuristi fossero milanesi è problema tutto  da vedere, anche se è vero che Marinetti abitava a Milano e che dopo la fondazione del movimento a Parigi  fu a Milano il suo centro di spinta e di irradiazione.  Ma i legami con Firenze furono ben presto agganciati,  e determinanti. Scrive Luciano De Matia: Fsiste un futurismo milanese (con Marinetti e Boccioni in simbiosi); esiste un primo futurismo fiorentino lacerbiano, che  assimila, elabora in modo nuovo, creativo, le istanze milanesi; esiste un secondo futurismo fiorentino (la pattuglia azzurra ; i giovani de L'Italia futurista) psicologico,  occultista, predadaista e presurrealista. E potremmo continuate nelle differenziazioni ”.   Ma non è tanto per questo tipo di differenziazioni che  ci interessa il futurismo fiorentino, quanto per la dimensione politica dei personaggi che vi aderirono, diversa  da quella di Marinetti e degli altri futuristi milanesi o  degli altri politici che a Milano operavano e si muovevano (Boccioni, Sant'Elia, Balla; più tardi poi, Vecchi  e Mussolini). Milano era già città d'avanguardia e alla  guida dell’industrializzazione settentrionale: questo non va  dimenticato.   Firenze era ancora passatista , accademica e salottiera; legata comunque ad una cultura d’indagine e di    ! Tuciano De Maria, Palazzeschi e l'avanguardia, Mondadori,  Milano, 1968, 31. riesumazione di un passato ricco e glorioso, ma ormai ripetitivo e sclerotizzato. Firenze tuttavia era anche la terra  feconda del primo Novecento, delle nuove riviste, dei  tentativi di rivisitazione di una cultura pur sempre nazionale, e di lancio dell'avanguardia sullo scorcio del nuovo secolo, che andava creato e costituito, Il Leonardo apre  le sue tirature il 4 gennaio 1903, per chiuderle poi nell'agosto del 1907. Era stato Papini a fondarlo, ma c’era  già anche presente Prezzolini (Giuliano il Sofista). Che  poi mise in piedi La voce nel 1908: uno dei migliori tentativi di collegamento delle forze intellettuali e di fondazione di un minimo denominatore comune, letterario e  politica {idealismo e sindacalismo socialistico di tipo soreliano). Papini continuò la collaborazione . Ma vi furono anche, sulle pagine de La Voce, Amendola e Sal  vemini, Soffici e De Robertis, oltre che il futuro fondatore de Il Popolo d’Italia e del Fascismo. La Voce chiudeva però i battenti nel 1912 senza eccessiva eco politica immediata. Papini non aveva condiviso certe alleanze del suo amico Giuliano il Sofista, come  non condivideva l'intento didascalico e divulgativo della  Voce su qualsiasi argomento artistico e sociale, come anche idealistico . Si unì a Soffici di cui condivideva gli  atteggiamenti, ed insieme fondarono Lacerba (il 1° gennaio del 1913, sempre a Firenze). Non si volge chi  a stella è fisso! , portava come motto il Leonardo sotto  la testata. Volendo dare tono battagliero a Lacerbae, Papini forse ancora seguiva le prospettive d’arte e di cultura del Leonardo. Anche se in una dimensione attiva  che già i leonardiani avevano inteso fondare nell’utilizzazione del pragmatismo come strumento di potenza . (In quegli anni tutti vollero sapere che cosa fosse  il pragmatismo ).  Lacerba riprende l’impostazione di  battaglia, tipica di Papini, e ritotna all’orientamento specifico dell’arte. Vedi anche Giovanni Papini, Pragmatismo, Firenze, Vallecchi. In questo contesto è evidente che non poteva mancare l’incontro col futurismo.   La scazzottatura dei futuristi con Soffici e i vociani  nel 1911° non poteva aver contribuito all'incontro? Potrebbe darsi, anche se Papini non vi aveva partecipato,  come Marinetti stesso asserisce in una sua lettera a Pratella. Sta di fatto che col 15 marzo del 1913, cioè col  suo sesto numero, Lacerba diventa futurista. Con un articolo proprio di Papini dal titolo Contro il futurismo che  dal famosa attacco iniziava così: Il futurismo italiano ha  fatto ridere, urlare e sputare. Vediamo se potesse far pensare. Segue un passo di Boccioni sul fondamento plastico  della scultura e pittura futurista. Proprio Boccioni che aveva investito Soffici col suo celebre pugno, poco più di  un anno prima a Firenze. E che continuerà a pubblicare  articoli sul numero del 1° di aprile e su quello del 1° di  agosto e poi sul primo numero del 1914, ecc. Per non  parlare di Carrà, Marinetti, Russolo, Sant'Elia, Auro d'Alba, ecc., che porteranno continuamente i loro contributi.   Il 15 ottobre del ’13 Lacerba pubblicherà addirittura  il citato Programma politico futurista in occasione delle  elezioni generali. Il manifesto politico compare in prima  pagina con tutti i crismi d'appoggio o di affiancamento  della rivista. Papini ne dà un commento più che soddisfacente . E lo stesso Papini il 1° dicembre dello stesso anno uscirà poi con un lungo articolo intitolato Perché  son futurista. Sarà l’atto di accettazione definitiva del futurismo, od il suo accoglimento più completo, e globale. Su La Voce Soffici pubblica la sua Ricetta di Ribi Buffone. Vi si elencano gli ingredienti del neonato  futurismo: Un chilo di Verhaeren, 200 gr. di Alfred Jarry, cento  di Laforgue, trenta di Laurent Tailhade, cinque di Viélé Griffin, un  pugno di Morasso..., una presa di Pascoli , aggiungendovi poi una  pila di undici automobili, sette aetoplani, quattro treni, due carghi,  due biciclette, diverse batterie elettriche e qualche candela ardente. Sempre su La Voce Soffici pubblicherà poi nel ‘10 e nell’11  dei rendiconti negativi sulle opere futuriste esposte a Venezia e a  Milano, per cui sarà decisa la spedizione punitiva a Firenze da parte dei fuiuristi,   Non molti giorni dopo, il 12 dicembre (lo abbiamo già visto), si tenne al Teatro Verdi a Firenze  una grande serata futurista , di cui riporta il resoconto sintetico il numero 24 della rivista (del 15 dicembre 1913).   Non molto tempo dopo, però, il 15 febbraio del ’14,  appare sul quarto numeto del nuovo anno I! cerchio si  chiude, che avvia inesorabilmente al declino della collaborazione. Autore ne è ancora una volta Giovanni Papini,  che chiuderà definitivamente il colloquio sull'ultimo  numero dell’anno insieme a Soffici, cofirmatario de Il Futurismo e Lacerba. È l'atto di chiusura di un periodo : quello, appunto, del futurismo lacerbiano. Risponderà Boccioni il 1° di marzo sul numero 5 con Il cerchio  non si chiude; ma sono solo sussulti, e anche sugli ultimi  numeri dell'anno della rivista compariranno solamente i  cosidetti canti del cigno .   Il cerchio era ormai già chiuso. E non molto dopo  chiudeva anche Lacerba, nonostante i suoi ultimi tentativi interventisti di rivivificazione (1915) e le sue discriminazioni tta futurismo c marinettismo, che ne sarebbe  stata la versione deteriore‘. 1l marinettismo sarebbe pra  ticamente già morto secondo i fiorentini , mentre il  futurismo avrebbe potuto tendere a mete migliori. Dopo  pochi mesi in realtà morirà definitivamente anche Lacerba.    5. Il futurismo e la guerra    Nel 1929 Marinetti ricordava così l’inizio della sua  carriera interventista : Nel settembre 1914 dutante  la battaglia della Marna e in piena neutralità italiana, noi  futuristi organizzammo le due prime dimostrazioni contro  l’Austria e per l'intervento. Bruciammo il 15 settembre  nel Teatro Dal Verme e il 16 settembre in Piazza del Palazzeschi, Papini, Soffici, Futurismo e Marmnettismo, in  Lacerba, anno III, n. 7, 14 febbraio 1915, 49-50. Duomo e in Galleria undici bandiere austriache . Poco  prima di quegli avvenimenti, Mussolini aveva fondato il  suo nuovo quotidiano, I{ Popolo d’Italia. Contemporaneamente, sotto l'auspicio e il favore di Corridoni, i gruppi  rivoluzionari di sinistra, già pronunciatisi a favore della  guerra, si stavano organizzando per sostenere anch’essi  l'intervento. Come ricorda De Felice, il 5 ottobre il  Fascio Rivoluzionario d'Azione Internazionalista avrebbe lanciato il suo primo appello ai lavoratori italiani in  questo senso * L'incontro tra futuristi e rivoluzionari  di estrema sinistra si stava verificando e stringendo ,  anche se già confortato da reciproche simpatie per le uni.  voche posizioni anticlericali ed antiborghesi.  Mussolini scriveva dalla direzione de Il Fopolo d'Italia una lettera a Buzzi, che  riportiamo interamente: Caro Buzzi, Boccioni vi avrà  detto se mai vi avrà parlato di me che tutte le  mie simpatie sono anche nel dominio dell’arte per  i novatori e i demolitori: per i “futuristi”. Inattesa, e  perciò gradita, mi giunge la vostra lettera riboccante di  simpatia. È questo uno dei momenti più amari della mia  vita. Ma vincerò. Vincerò. Lo sento. F' necessario. Ho  messo nel gioco tutta me stesso. Credetemi. Vostro Mussolini. L’amarezza gli è data probabilmente dall’espulsione  dal Partito socialista proprio per la posizione da lui assunta a favore dell'intervento. La conoscenza da parte di  Mussolini, di Boccioni e del movimento d’arte d’avanguardia di Marinetti, risultava sino a poco tempo fa inesistente.  La lettera, unica del genere, conferma la precedenza del  futurismo politico rispetto al fascismo ancora da sorgere,  che poi mutuerà da esso idee, elementi e programmi.   Le simpatie si manifestano per il dominio dell'arte,  al dire di Mussolini, ma non solo; c'è un anche , che  indica chiaramente dell'altro e un'apertura, forse politi  ca, possibile nei confronti degli innovatori e dei demo  Renzo De Felice, Mussolini il Rivoluzionario, Einaudi, Tori. litori , vale a dire per i futuristi. Che ancora il 9  dicembre di quell’anno organizzano le prime manifestazioni interventiste all’Università di Roma, sotto la guida  di Marinetti, Balla, Cangiullo e Depero. Qualche mese  dopo, nel ’15, le autorità di governo fermano Marinetti,  Cangiullo, Balla e Depero che avevano indetto una manifestazione interventista un’altra volta a Roma, in Piazza  Venezia. È il primo fermo politico di Marinetti. Siamo quasi alla vigilia della guerra. Si mette in piedi la terza grande  dimostrazione interventista davanti alla Camera dei Deputati. È presente anche Mussolini e si verifica uno dei  maggiori momenti d’incontro tra futuristi e Mussolini  sul terreno dell’intervento. Balla, Corra, Settimelli, Marinetti e lo stesso Mussolini vengono attestati. Tutti gli  sforzi ormai, tutte le volontà e tutte le energie sono concentrate verso un'unica e suprema meta: quella della guerra. A Messina esce il nuovo periodico La Balze, e Marinetti pubblica il manifesto Guerra sole igiene del mondo, mentre il poeta futurista Auro d'Alba lancia a Milano per le Edizioni Futuriste di Poesia (sostenute  da Marinetti) il volume Baionette.    Con l’entrata in guerra nel maggio, a Fitenze Lacerba  interrompe come si è visto le pubblicazioni. Una  guerra che avevano tutti quanti, in un certo senso, preparato con interventi, discorsi, giornali, manifestazioni e  pubblicazioni. Fra questi non va dimenticato il manifesto  del Teatro futurista sintetico, firmato da Martinetti, Corra  e Settimelli, nel quale, fra l’altro, così si legge: Aspettando la nostra grande guerra tanto invocata noi Futuristi alterniamo la nostra violentissima azione artistica sulla sensibilità italiana, che vogliamo preparate alla grande ora  del massimo pericolo . E più avanti: Perché I’Italia  impari a decidersi fulmineamente a slanciarsi, a sostenere  ogni sforzo e ogni possibile sventura non occorrono libri  e riviste... La guerta, futurismo intensificato, ci impone  di marciare e di non marcire nelle biblioteche e nelle sale  di lettura. No: crediamo dunque che non si possa oggi  influenzare guerrescamente l'anima italiana, se non mediante il teatro . E in effetti, a partire dal gennaio del '15,  i futuristi avevano iniziato una serie di Tournées di teatro futurista interventista per sostenere la necessità dell’intervento con un mezzo di comunicazione ben più popolare e circolante della letteratura. Anche la serata futurista , per esempio, è un al  tro canale o strumento di incoraggiamento dell'intervento. Si tratta di una sorta di riunione o ritrovo di artisti futuristi, uno dei quali sollecita gli intervenuti (pubblico) danda uno spunto, e proponendo un tema, o aggredendo qualche aspetto dell'arte del passato, da cui nasce  lo stimolo alla creazione e alla lotta del nuovo 0 del futuro, e anche lo stimolo alla guerra che lo conduce sino alle  ultime conseguenze. Ma sentiamo Marinetti come la definisce quando si rivolge agli studenti in un altro manifesto,  di poco precedente a quello teatrale , intitolato Im quest'anno futurista, rivelto agli studenti italiani e datato  29 novembre 1914. Laddove si esortano i giovani alla  guerra così si afferma: ... il futurismo segnò appunto  l’irrompere della guerra nell’arte, col creare quel fenomeno che è la Serata futurista (efficacissima propaganda di  coraggio). Il futurismo fu la militarizzazione degli artisti  novatori. E la guerra arrivò, come A biamo visto, e per molti  versi fu vera e propria guerra futurista . In luglio partiva il gruppo più consistente di volontari : Marinetti,  Boccioni, Russolo, Sant'Elia, Bucci, Carlo Erba e Funi.  Ma ci saranno al fronte anche Carrà e Sironi, fattosi futurista nello stesso anno, e Piatti e Fortunato Depero. Alla fine dello stesso anno Boccioni, Russolo, Sant’Elia, Sironi e Piatti, sempre sotto l'egida di Marinetti, firmano un altro manifesto futurista, quello dell’Orgoglio  italiano, con cui si promettono pugni, schiaffi e fucilate  a quelli degli italiani che avessero manifestato in sé la  più piccola traccia del vecchio pessimismo imbecille, denigratore e straccione che ha caratterizzato la vecchia Italia  di mediocristi antimilitaristi (tipo Giolitti), di professori  pacifisti (tipo Benedetto Croce, Claudio Treves, Enrico  Ferri, Filippo Turati), di archeologi, di eruditi, di poeti  nostalgici. Sant'Elia muore al fronte, e Boccioni, una settimana dopo, per una caduta da cavallo durante un'esercitazione militare a Orte. Nasce a Firenze la  nuova rivista L'Italia futurista. Prampolini fonda con Folgore il foglio d'avanguardia Awvenscoperta. Nel ’17 nasce  il periodico Deda, che tanto dovrà nell’ispirazione al nostro futurismo. I) 18 è ormai l'anno della vittoria. Depero realizza i suoi nuovi balli plastici . Bruno Corra  pubblica a Milano con i tipi dello Studio Editoriale Lombardo Per l'arte della nuova Italia. Siamo infatti nell’Italia della vittoria.    6. Il Partito politico futurista    Nella nuova realtà del dopoguerra il futurismo cerca  una sua nuova collocazione politica più pacifista , se  il termine non è nella fattispecie una contraddizione. Ai  fasti dell'intervento e della militarizzazione, succede un  nuovo intento programmatico di realizzazione. La prima  espressione di questa volontà è ancora una volta dovuta a  Marinetti che pubblica nel febbraio del ’18 un Manifesto  del Partito politico futurista, l'adesione al quale era libera  ed aperta a tutti coloro che avessero accettato i principî  del suo programma, indipendentemente dalle concezioni  dell’arte o dal consenso all’estetica futurista . E questo  indica una presa di posizione più ponderata e meno di  rottura , almeno in senso sociale.   Il documento esprime, negli intenti, il desiderio di  rinnovamento di quelle fasce del combattentismo inter.  ventista, comprese fra i mussoliniani, i sindacalisti tivoluzionari, i socialisti e i repubblicani di sinistra, che avrebbero poi dato vita alla formazione dei Fasci di Combattimento, quelli cui futuristi ed arditi avrebbero infuso la  prima linfa vitale. Si possono considerare punti essenziali  del nuovo programma l'estensione del suffragio universale, comprendente anche le donne, la socializzazione della  terra con assegnazione ai reduci, la tassazione progressiva, l'abolizione dell'esercito e la sua professionalizzazione  (volontariato), la giustizia gratuita, la libertà di sciopero  e stampa, le otto ore lavorative e Î contratti collettivi di  lavoro, l'assistenza e la previdenza sociale, la tecnicizzazione clel parlamento e l’introduzione del divorzio. A  diffondere le idee del nuovo partito era destinato il periodico Roma futurista, fondato a Roma da Marinetti, Mario  Carli ed Emilio Settimelli, che vedeva la luce il 20 settembre 1918 e portava come sottotitolo Giornale del  Partito politico futurista. Roma futurista , racconta Marinetti nel suo libro  Futurismo e Fascismo (1924) nacque un mese e mezzo  prima dell’armistizio, cioè il 20 settembre 1918, e portava nel suo primo numero tre scritti importantissimi dei  suoi tre direttori: Mario Carli, Marinetti, Settimelli. Scriveva Settimelli: “Il Futurismo che fino ad oggi esplicò  un programma specialmente artistico, si propone una integrale azione politica per collaborare a risolvere gli urgenti problemi nazionali. Coloro che ci accusarono di squilibrio dovranno ricredersi. I] preconcetto di serietà pedantesca e quietista imposto alla vecchia Italia dai professori rammolliti, dai preti anti-italiani e dagli affaristi giolittiani, cercò di svalutare la nostra genialità di giovani  audaci e novatori. Ma la vera Italia non può rimanere e  non rimarrà neppure parzialmente nelle loro mani incapaci. La guerra ha rivelato le vere forze italiane. Sono forze giovani, violente, antitradizionali e ultra-italiane” .   Il primo numero di Roma futurista (decadario, poi  settimanale) pubblicava il programma del giornale medesimo ed anche il manifesto di quel Partito Politico Futurista che si doveva ancora fondare. Partito che, nell’intendimento di Settimelli, doveva essere più che altro una  tendenza psicologica , una fusione di realtà e di scon(inamento, di praticità e di lirismo , che avrebbe contribuito a creare un nuovo tipo d'italiano. Ma ecco ancora  come si esprime la volontà di fondazione del movimento:  Il Partito politico futurista che noi fondiamo e che orxanizzeremo dopo la guerra, sarà nettamente distinto dal  movimento artistico futurista. Questo continuerà nella  sua opera di svecchiamento e rafforzamento del genio creatore italiano... Potranno aderire al partito politico futurista tutti gli Italiani, uomini e donne d’ogni classe e di  ogni età... Questo programma politico segna la nascita  del partito politico futurista invocato da tutti gli italiani,  che si battono oggi per una più giovane Italia, liberata  dal peso del passato... . La firma è di Roma futurista,  cioè, come si presume, del direttore, o anzi di tutti i tre  direttori.    Ecco alcuni punti del manifesto-programma del partito: 4) Trasformazione del Parlamento mediante un'equa  partecipazione di industriali, di agricoltori, di ingegneri e  di commetcianti al Governo del Paese. Il limite minimo  di età per la deputazione sarà ridotfò a 22 anni. Un minimo di deputati avvocati {sempre opportunisti) e un minimo di deputati professori (sempre retrogradi)... Abolizione del Senato... Unica religione, l'Italia di domani...  10)...Svalutazione della pericolosa e aleatoria industria  del forestiero... Difesa dei consumatori... Svalutazione dei  diplomi accademici e incoraggiamento con premi della  iniziativa commerciale e industriale. Le adesioni all'iniziativa si fecero subito sentire da  diverse parti: ci furono vecchi futuristi come Auro d'Alba,  Rosai e Rocca, reduci dalla guerra come Bolzon e Bottai  (che avrebbe poi rivestito un ruolo di primo piano nell'ambito del nuovo regime fascista) e Massimo Bontempelli, secondo il quale il programma fondamentale del futurismo politico sarebbe stato quello di sostituire la giovinezza alla vecchiaia nelle funzioni direttive . E non  sarebbe stato poco. Sarebbe stato uno dei tentativi, anche  se non del tutto riuscito, dell’insorgente fascismo.    Nel dicembre dello stesso anno 1918, quasi ad esito  naturale della formazione del nuovo partito, poco organizzato e poco costituito , s'istituirono invece i Fasci  politici futuristi , più attivi e vitali particolarmente in  diverse città dell'Italia centrale e settentrionale, la prima  ossatura su cui si sarebbero appoggiati e sarebbero cresciuti i muovi Fasci di combattimento , voluti e promossi da Mussolini quattro mesi dopo. Nel febbraio del  '19 i Fasci futuristi erano già una ventina, tra quelli di Roma (Balla, Carli, Bottai, d'Alba e Chiti), Milano (Marinetti, Buzzi, Somenzi e Bontempelli), Firenze (Settimelli, Rosai, Marasco), Perugia (Dottori), Genova (Depero),  Torino (Azari), e poi ancora Bologna, Palermo, Napoli,  Fiume, Messina, Ferrara, Piacenza, Venezia, Taranto, Modena, Stradella, ecc. I futuristi avevano quindi accolto  con entusiasmo l'iniziativa e vi si erano immersi fino a  determinare una prima ossatura: l’organizzazione. E Mussolini a sua volta aveva visto di buon occhio e seguìto  la formazione dei Fasci politici futuristi, sino a scopri  re in essi un punto d'appoggio per la sua campagna  combattentistica ed antisocialista che si concretizzerà nei  suoi Fasci di combattimento (quelli di Piazza San Sepolcro).  Carli, come condirettore di Rowza futurista e  dietro spinta di Marinetti stesso, caldeggiava da tempo,  anche dalle colonne del suo nuovo periodico, l’avvicendamento e l'annessione degli arditi al partito politico, di  cui sul primo numero del giornale si pubblicava il rivoluzionario programma: era il 20 settembre 1918.    Dieci giorni dopo, il 30 settembre 1918, le proposte  politiche si fanno più tecniche, più specializzate , più  particolari. Volt firmerà un testo dinamico per dichiarare: Sostituiremo il Parlamento con le tappresentanze dei sindacati agricolo-industriali ed operai. La rappresentenza sindacale sarà la base dello “Stato tecnico” futurista . Ma allora di quale rappresentanza sindacale si ttatrerà e quale sarà riconosciuta dallo Stato nella sua veste  di personalità giuridica? Sono tutti problemi che già Volt  si pone e così, a suo modo, risolve , e continua: To  credo non si debba tener conto del numero degli iscritti  al sindacato, ma della importanza della funzione economica  che esso esercita nel Paese . Ed ancora, prosegue ad interrogatsi: Quali saranno i limiti posti all'esercizio del  potere dell'assemblea eletta mediante la rappresentanza  sindacale? La competenza dell'assemblea dovrà essere limitata alle questioni prevalentemente economiche, che sono del resto le più importanti in politica. Le questioni  di famiglia, di politica estera, ecc. dovranno esser risolte    II! 'EUE vu SS it: _gLZffkfkzstllEaAaz:F:=+”sxx:®(  '81‘daoiaaiA'.°’°à0‘@e ra  in parte mediante il referendum popolare diretto ed in  parte attribuito alla competenza del potere esecutivo .   Gli arditi venivano poi sciolti nel gennaio del ’19  dai loro reparti di ufficiali, sottufficiali e truppa, perché  considerati provocatori di disordini e di incidenti nella  vita civile. L'iniziativa era stata ovviamente criticata dai  diretti interessati come manovta socialista-giolittiana atta  a disconoscere i loro meriti di guerra. Ed anche Marinetti  aveva appoggiato dalle colonne di Roma futurista 1’unificazione (ira futuristi ed arditi),   Alla fine di novembre del ’18 Mario Carli fondava,  a conclusione di questa campagna , l’Associazione fra  gli Arditi d’Italia , che fu un po’ l’altra faccia del Partito  politico futurista. In breve, l'associazione atrivò a raccogliere circa diecimila iscritti, la maggior parte, forse, degli  ex reparti militarizzati . Futurismo e arditismo  Ormai anche gli arditi, nonostante lo scioglimento della loro organizzazione paramilitare, hanno una consistenza  civile ed in certo modo un loro peso politico. Tanto da  poter fondare un loro organo di stampa che prende a  uscire a Milano dall’11 di maggio 1919: il settimanale  L’Ardito, edito dall’Associazione nazionale, e condiretto  da Ferruccio Vecchi e, non a caso, da Mario Carli. Nello  stesso periodo altre furono le voci di stampa allineate su  analoghe posizioni: Armando Mazza, per esempio, fondò  a Milano I remici d'Italia, settimanale antibolscevico ;  il più importante di questi giornali minori fu però  L’Assalto, pubblicato a Bologna come voce dell’arditismo,  e diretto da Nanni Leone Castelli. Marinetti ed i futuristi non potevano a questo punto non vedere negli arditi  dei nuovi futuristi politici, così come Mussolini non poteva non vedere in loro dei potenziali simpatizzanti e alleati. La pronta adesione di molti di essi ai Fasci di combattimento lo dimostrerà definitivamente.   Arditismo e futurismo furono dunque componenti es  dd    senziali del nuovo insorgente fascismo. Almeno dal punto  di vista ideologico, o formativo del suo nascere. Mussolini aveva, per così dire, abiuraro il suo vecchio socialismo e aveva bisogno di una forza nuova, una forza ideale o di pensiero che gli permettesse il suo slancio in  avanti . Il futurismo gliela porgeva già bell'e pronta, o  quasi, mentre il precedente socialismo gli alimentava certi  spunti sociali, in parte, almeno, già presenti nel futurismo.  L'arditismo, ancora, gli comunicava una spinta, una forza  di aggressività e di assalto , che forse gli sarebbe mancata, o non sarebbe stata, senza di esso, tanto irruente. Il futuro duce partecipava a Milano  ad una serata futurista contro Bissolati, alla Scala, contribuendo in parte al suo siluramento . C'era anche  Marinetti e, forse, non fu un caso, e si trattò di un incontro importante.    II 23 marzo dello stesso anno in una riunione milanese  a Piazza San Sepolcro, presieduta da Ferruccio Vecchi, Marinetti tenne un discorso alla presenza di Dessy e di altri  arditi e futuristi, per la fondazione dei Fasci di combattimento, decisa da Mussolini. Questi propose come programma ai nuovi raggruppamenti l'abolizione del Senato,  il suffragio universale, il sindacalismo nazionale, riconascendo le rivendicazioni d'ordine materiale e morale  agli ex-combattenti e rimproverando al partito socialista  di essere stato nettamente reazionario, assolutamente  conservatore , col negargli così qualsiasi possibilità di  mettersi alla testa di un'azione di rinnovamento e di  ricostruzione . La conclusione del discorso, antimassimalista ed antitotalitaria, era in fondo quanto mai futurista . Così terminava il Mussolini:  Noi conosciamo  soltanto la dittatura della volontà e dell’intelligenza. Al  termine della riunione si nominava un comitato centrale  dei Fasci di combattimento di cui facevano parte anche  Vecchi e Marinetti.   Il 1° di aprile Marinetti venne nominato insieme a  Mussolini membro della commissione di lavoro nazionale  per Ia propaganda e la stampa. Ancora in aprile a Milano  nuclei di futuristi, arditi e principianti fascisti assali  tu    rono la sede del quotidiano socialista Avanti! Il giorno  dopo i fattacci del 15 aprile, visto il mancato inter  vento delle forze dell’ordine nel prender provvedimenti  contro i promotori dell'azione, Vecchi e Marinetti emisero un proclama agli italiani a nome dei futuristi, degli  arditi e dei fasci: Nella giornata del 15 aprile avevamo  assolutamente deciso, con Mussolini, di non fare alcuna  controdimostrazione perché prevedevamo il conflitto e abbiamo orrore di versare sangue italiano. La nostra controdimostrazione si formò, spontanea, per invincibile volontà popolare. Fummo costretti a reagire contro la provocazione premeditata degli imboscati. Col nostro intervento intendiamo di affermare il diritto assoluto dei quattro milioni di combattenti vittoriosi, che soli devono dirigere e dirigeranno ad ogni costo la nuova Italia . La  controdimostrazione si riferisce ad una manifestazione  socialista all'Arena, cui seguì la battaglia di Via Mercanti , dove furono chiari, secondo i reduci, alcuni momenti di provocazione nei confronti del combattentismo  {da qui, l'assalto all’Avanti!).   Sempre nell'aprile del *19 esce a Milano per i tipi dell’Editore Facchi un volume politico di Marinetti, forse il  suo più importante: si tratta di Democrazia futurista, che  porta come sottotitolo dinamismo politico . È una raccolta di articoli apparsi su Roma futurista e che appari  ranno sul nuovo giornale di Vecchi, L’Ardito, generoso  sempre di spazio per Marinetti. Questi definisce il suo  concetto democratico in un altro articolo edito in aprile sempre dall’Ardito: Vogliamo dunque creare una vera  democrazia cosciente e audace che sia la valutazione e  l'esaltazione del numero poiché avrà il maggior numero  di individui geniali. L'Italia rappresenta nel mondo una  specie di minoranza genialissima tutta costituita di individui superiori alla media umana per forza creatrice, innovatrice, improvvisatrice. Questa democrazia entrerà naturalmente in competizione con la maggioranza formata dalle altre Nazioni, per le quali il numero significa invece  massa più o meno cieca, cioè democrazia incosciente .  Certo, si tratta di una nuova cancezione di democrazia, che con quella tradizionale, anche attuale, non ha niente  a che vedere. È una lotta di democtazie, o una democrazia di lotta, il che alla fin fine non è poi molto diverso.  E’ una vera e propria concezione dinamica. Che, tanto  per tener conto del suo opposto si mette a confronto, a  dire di Marinetti, così: Arturo Labriola definisce la democrazia "come sentimento dei diritti concreti della massa sullo Stato e sulla Economia“... Noi intendiamo la democrazia italiana come massa di individui geniali, divenuta petciò facilmente cosciente del suo diritto e natural  mente plasmatrice del suo divenire statale. La sua forza  è fatta di questo diritto acquisito, moltiplicata dalla sua  quantità valore, meno il peso delle cellule morte (tradi.  zione), meno il peso delle cellule malate (incoscienti, analfabeti). La democtazia italiana è per noi un corpo umano  che bisogna liberare, scatenare, alleggerire per accelerarne la velocità e centuplicarne il rendimento... . Come  potrebbe essere più futurista e avanzata questa nuova concezione democratica progressiva ? Che così, giustamente, si conclude e si definisce: La democrazia futurista  è ormai pronta ad agire, poiché sente vibrare tutte le sue  cellule vive .   E’ il punto d'arrivo, logico e conseguenziale, di una  concezione d’assalto . E per la definizione ulteriore delle posizioni e dei concetti, il 27 aprile 1919 ancora, sulle  pagine di Roma futurista, un testo di Mario Carli (Non  chiamatela reazione) afferma: Non è per l’ordine, non  è in difesa dell’autorità costituita o della borghesia vile,  non è in appoggio alla così detta “benemerita” che noi ci  siamo battuti a Milano, e ci batteremo altrove, se se ne  presenterà l’occasione. Ma è per un'idea, per un principio: è per l’idea di patria, è per il principio di progresso,  che noi crediamo realizzabile con mezzi e con metodi opposti a muelli dei rivoluzionari russi .   Ciò nonostante Gramsci e Lunaciarsky, al TI Congresso dell'Internazionale comunista, difendono i futuristi italiani e li considerano veri e propri rivoluzionari . E  Lenin medesimo dità a Giacinto Menotti Serrati, che, come direttore dell’Avanti!, si era recato a Mosca a respirare il nuovo comunismo: In Italia ci sono soltanto  tre uomini che possono fare la rivoluzione: Mussolini,  D'Annunzio e Marinetti . Mentre a proposito di questo  ultimo, cioè di Marinetti e del suo movimento futurista,  Gramsci così annotava in un suo articolo pubblicato su  Ordine nuovo nel 1921: Distruggere, in questo campo,  non ha lo stesso significato che nel campo economico...  significa non avere paura della vanità e delle audacie, non  avere paura dei mostri, non credere che il mondo caschi  se un operaio fa errori di grammatica, se una poesia  zoppica, se un quadro assomiglia a un cartellone... I futuristi hanno svolto questo compito nel campo della cultura  borghese... hanno avuto cioè una concezione nettamente  rivoluzionaria . E continuava a migliore definizione del  concetto:...Quando i socialisti si sarebbero spaventati  al pensiero che bisognava spezzare la macchina del potere  borghese nello Stato e nella fabbrica, i futuristi, nel loro  campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari: in questo campo, come opera creativa, è probabile che la classe  operaia non riuscirà per molto tempo a far di più di quanto hanno fatto i futuristi!    L'11 luglio del '19 Marinetti otteneva un biglietto d'’invito alla Tribuna di Montecitorio. Andò con Ferruccio  Vecchi, gran capitano, ad aspettare un momento opportuno per l’intervento . L'occasione fu data alla fine del  discorso di un deputato socialista (Lucci). Martinetti si  sporse e, rivolto a Nitti, gridò: A nome dei Fasci di  Combattimento, dei futuristi, e degli intellettuali, protesto per la vostra politica e vi urlo: Abbasso Nitti! Morte  al Giolittismo! Dichiaro che non può sussistere il Ministero dei sabotatori della Vittoria, degli schiaffeggiatori degli ufficiali, un ministero che si difende coi carabinieri e  coi poliziotti!.. Vergognatevi! La gioventù italiana, per  bocca mia, vi urla: Fate schifo! Fate schifo! . Vecchi ancora inveisce a voce alta contro Nitti, mentre Marinetti  lotta con usceri e carabinieri, come descrive egli stesso nel  suo Futurismo e Fascismo di cinque anni dopo. L’indomani avrebbe ricevuto da D'Annunzio la presente missiva: 2R Mio caro Marinetti, bravo per il grido di ieri, coraggioso  come ogni vostro atto. Vorrei vedervi. Se potete, venite.  Il vostro Gabriele D'Annunzio. In settembre Carli, con Mino Somenzi ed altri  futuristi, partecipano con D'Annunzio alla presa di Fiume  (11 del mese): vi si recheranno anche Vecchi e Marinetti  a tenere discorsi ai legionari. Anzi, i due personaggi sembra  fossero considerati, a dire di De Felice facinorosi sovversivi o addirittura in qualche caso bolscevici , per il  loro atteggiamento intransigente ed estremistico.° Tanto  che si era detto fossero stati espulsi da Fiume, mentre  erano stati solo richiamati da Paselia, segretario politico  dei Fasci, che aveva bisogno di loro per l'organizzazione,  forse, del primo congresso fascista. All'inizio di ottobre,  infatti, Marinetti partecipa a Firenze al I Congresso dei  Fasci di Combattimento dove, dopo l'intervento di Mussoltni, parla a futuristi, arditi e fascisti sostenendo la necessità dello svaticanamento : Noi dobbiamo domandare. volere, imporre , dice fra l’altro il capo del futurismo, l’espulsione del papato, o meglio ancora, per usare un'espressione più precisa, lo “svaticanamento” .  Le elezioni generali vengono condotte a  Milano all'insegna del blocco fascista con lista autonoma di Mussolini, Marinetti (secondo), Toscanini, Podrecca e Bolzon. Comizi elettorali si tennero a Milano in Piazza Belgioioso (10 novembre) e in Piazza S. Alessandro e  a Monza, dove parlarono sempre accoppiati Marinetti  e Mussolini. Dopo il 16 novembre, giorno delle votazioni,  in seguito ad incidenti coi socialisti, Marinetti, Vecchi e  Mussolini furono atrestati sotto l'accusa di attentato alla  sicurezza dello Stato ed organizzazione di bande armate,  come afferma ancora il De Felice.    Breton e Aragon, direttori della rivista Littersture, organizzano a Parisi una manifestazione di solidarietà a Matinetti: sono i momenti di affermazione del dadaismo e del  muoversi, lento, verso il surrealismo.    Renzo De Felice, Mussolini i! Rivoluzionario, Gli incontri e gli scontri, oltre che gli incidenti, tra  socialisti e futuristi non etano cosa nuova. E la battaglia  di Via Mercanti del 15 aprile fu solamente il punto di  arrivo di una vecchia e lunga polemica.   Già negli anni prebellici il futurismo si era scontrato  col socialismo neutralista (Turati), che non poteva andar  d’accordo con un movimento intrinsecamente interventista.  Lacerba, per esempio, entrava nella polemica affiancandosi  al futurismo e pubblicando, il 15 ottobre del ’13, quel  famoso Programma politico futurista, esaminato in precedenza. La postilla di Giovanni Papini non fa altro che  convalidare, sia pure con riserva, la sostanza del programma.   A proposito di socialismo interviene poi nel '14 sempre  sv Lacerba, Ardengo Soffici, affermando nel suo articolo  Per la guerra che l’idea che i socialisti si fanno del mondo è questa: un capitalista borghese e sfruttatore alle prese  con un magro popolano sfruttato. La cultura, le scienze, le  arti, la bellezza, i sentimenti, gli amori, le passioni  tutto ciò insomma che fa la vita così terribilmente complessa, così colorita, così varia, multiforme, incoetcibile  non è nulla per loro. Tutto è grigio, e l'universo intero una  specie di ragnatela squallida senza confini né orizzonti,  eterna, in mezzo alla quale un ragno cetca di succhiare  una mosca alla quale Karl Marx ha insegnato che non  deve lasciarsi succhiare . Sicché, conclude Soffici, i socialisti nemmeno capiscono che si combatte una guerra per  difendere anche, magari, le loro stesse idee, o il mondo  dove l’idea socialista è nata e cresciuta, contro i nemici  medesimi del socialismo e dei socialisti: i tedeschi. Ma  questo non ha nessuna importanza, giacché, ed eccoci  alla mentalità di codesto partito, ogni buon socialista non  vede nella guerra, qualunque essa sia, se non una lotta di  capitalisti e banchieri contro capitalisti e banchieri i quali  si servono del proletariato per liquidare le loro partite .    La polemica continua com'è logico, dopo la guerra.  Il primo ad accenderla è Mario Carli su Roma futurista  con un articolo del 13 luglio 1919, che ha un titolo significativo: Partiti d'avanguardia: se tentassimo di collaborare? Laddove si considera partito d'avanguardia , ovviamente, anche quello socialista, che tanta parte ha esercitato nella storia d'Italia. Ho esaminato seriamente l'ipotesi , esordisce Carli, di una collaborazione fra noi {futuristi, arditi, fascisti, combattenti, ecc.) e i Partiti cosiddetti  d'avanguardia: socialisti ufficiali, riformisti, sindacalisti, repubblicani... Il terreno comune c’è... E' la lotta contro le  attuali classi dirigenti, grette, incapaci e disoneste, si chia.  mino borghesia e plutoctazia o pescecanismo o parlamen.tarismo... sono una casta che deve cadere e cadrà , E cadde infatti, come sappiamo, però non certo per merito di  quei socialisti con cui Carli stava cercando di trovate un  punto di contatto, sia pur rendendosi conto che la collaborazione sarebbe stata difficile per non dire impossibile o,  peggio, inutile.   Ciò nonostante Giuseppe Bottai farà eco alla sua tesi  con un paio di lunghi articoli: uno del 9 novembre e l'al.  tro del 21 dicembre 1919 entrambi col titolo Futurismo  contro socialismo, il cui succo riesce già evidente. Noi  siamo contro il socialismo , afferma Bottai, perché astrazione filosofica senza possibilità di contatti vitali. Simbolo  che si agifa nel mondo da secoli, e di cui mai si è trovato,  e mai si troverà la formula di traduzione in positivi sviluppi  di masse sociali... Noi siamo contro l’idea socialista perché  sosteniamo la necessità della diseguaglianza... Siamo contro il socialismo perché idea generatrice di vigliaccheria .   Ii 14 dicembre sempre del 1919, tuttavia, certo Mannarese, avversario, pubblica un articolo per espotre l’impossibile intesa fra le due avanguardie, o l'impossibilità di accordo in unione d’intenti e di lavoro. Il Mannarese sottolinea l'identità di socialismo e masse proletarie con loro  relative e legittime aspirazioni. Romza futurista non gli ne.  sa spazio, ospitandolo apertamente e liberamente.   Ci pensa Bottai a rispondere e confutare Mannarese  col suo secondo articolo preciso ed aggressivo. Il titolo:  Insisto: futurismo contro socialismo; la data, 21 dicembre  dello stesso anno. La posizione polemica si specifica e si    SAI puntualizza: Prima caratteristica del futurismo è questa,  libera, sciolta sfrenata spregiudicatezza: e se il salumaio ci  crede oggi difensore dei suoi salami, delle sue salsicce, poco  male! ciò potrà darci la prova della sua minchioneria, non  già infirmare l'esattezza del grido “futurismo contro socialismo. L’intonazione antibotghese è evidente e forse si sposa, per così dire, con quella antisocialista, essendo l'una  complementare all'altra, e viceversa. Non si può essere  antisocialisti senza essere antiborghesi, e viceversa non si  può essere antiborghesi senza essere antisocialisti, sembra  quasi che dica Giuseppe Bottai, e l’invettiva contro il salumaio non ha nient'altro che questo sapote.   L'equazione socialismo-proletariato , sostenuta dal  Mannarese, è vacua e falsa, dice Bottai, e bisogna distinguere, perché va da sé, afferma, che il socialismo è uno  dei tanti sistemi, i quali, da che il mondo è mondo, si  accaniscono sulla disparità di condizioni delle classi . Lo  esempio dato poi, del fenomeno dell’arditismo, è quanto  meno sufficiente e significativo a smentire una tesi tanto  inutile. Infatti, in parecchi mesi di convivenza con le  fiamme nere mi son trovato attorno solo contadini, operai, lavoratori-proletari! ; e gli arditi non erano certo socialisti, anzi. Tuttavia l’autore è ben consapevole della  portata economica del socialismo e nello stesso tempo  delle esigenze dei ceti umili o dei proletari, e degli scompensi derivanti da queste esigenze anche per la loro cattura  da parte di un socialismo ignorante e incapace.   L'individuazione dell'errore di dimensione del sociali  smo è evidente, nonostante i successi già conseguiti. Tanto  che, concludeva il Botrai, nel cogliere le possibilità della  formazione di un letale assolutismo, con la postulazione della differenziazione futuristica da esso, intesa nella diffusione  di programmi e di rimedi economici: Noi siamo per la  elevazione del popolo, e non per l'assolutismo di esso .  Dove il nai , è evidente, si riferisce ai futuristi ed al  loro movimento.    Tirando le somme , alla fine, si postula petsino un  programma, quasi, nei rapporti col socialismo, di cui i punti più interessanti sono il secondo ed il quarto, cioè  l'ultimo. Il secondo postilla una possibile comunanza di  vedute economiche: il che non implica nessuna fusione ;  l'ultimo sostiene e ribadisce, sottolineandolo tutto in maiuscolo: CONTRO IL SOCIALISMO NON VUOLE DIRE CONTRO IL PROLETARIATO.   La miopia del socialismo nella considerazione dei futuristi appare evidente e inequivocabile. E si parla del socialismo dei primi del secolo, quello storicamente più capace di quanto non lo sia l'attuale, e consono ad una  realtà epocale ad esso, tutto sommato, più favorevole.  L’esito del socialismo italiano, confluito in massima parte  nel fascismo, non fa che confermare l'opinione o l’ipotesi  dei futuristi, che avevano saputo vedere la sua minima  portata da inserire, eventualmente, nel panorama di una  prospettiva ben più vasta e diversificata. A Fiume Gabriele D'Annunzio dà alla luce la sua  Carta del Carnaro . Siamo agli inizi del ’20 e la nuova  proclamazione statutaria sarà base fondamentale per la successiva politica sindacale fascista (si veda la Carta del Lavoro ad esempio). Sempre a Fiume Mario Carli dirige il  nuovo foglio di vita istriama La Testa di Ferro, sulle cui  colonne (la seconda, per l'esattezza, della prima pagina) ;l  12 settembre esce un riquadro firmato da Marinetti. Che  così commenta la Prima vittoria della quindicesima battaglia, come dice il titolo della pagina: Nell’applaudite oggi  D'Annunzio, liberatore di Fiume, penso che questo meraviglioso genio riassuntivo della nostra razza, uscito dalle  alcove del Pizcere... dopo aver esplorato le profondità del  la lussuria... ha logicamente... strappato Fiume all’imperialismo europeo e americano, ed ora deve, seguendo la linea  della sua fortuna inesauribile, logicamente, con genio sempre più rivoluzionario e futurista, liberare Roma dal Papato e dalla Monarchia, e creare la grande Repubblica Italiana . Siamo di fronte aul'ittedentismo integrale che i futnristi sostenevano contro l’irredentismo mutilato di  Bissolati, favorevole al Patto di Londra. Di cui il movimento  per contro chiedeva un’estensione , oltre che una modificazione del Patto di Roma in modo che si potesse favorire l’inserimento italiano sulla costa dalmata e garantire  all'Italia l'egemonia sull’Adriatico. Il Trattato di Rapallo,  poco dopo, dichiarerà Fiume città libera ed assegnerà  Zara all'Italia. 11 24 e 25 maggio dello stesso anno si tiene a Milano  il IX Congresso dei Fasci di Combattimento, che segna una  svolta del movimento o anche si potrebbe dire una  sua conversione in senso conservatore . Si assiste ad un  parziale ma consistente ricambio del nucleo dirigente fascista. Solo 10 membri su 19 del comitato centrale eletto a  Fitenze vengono riconfermati: tra essi Marinetti e Ferruccio Vecchi.    Mussolini sostiene un nuovo indirizzo: l'accordo fra  proletariato e borghesia produttiva, tipico di quel fascismo  provinciale che stava prendendo il sopravvento. Marinetti reagisce confermando la sua intransigenza antimonarchica ed antipontificia. I Fasci di Combattimento, come  riporta ancora il De Felice, avrebbero dovuto, secondo  Marinetti, iniziare una politica decisa in difesa delle rivendicazioni proletarie, appoggiando e scioperi e agitazioni che siano fondati o formulati su un principio di giustizia . Mussolini aveva cercato di replicare che i Fasci  hanno anzi aiutato gli scioperi che avevano un chiaro  contenuto economico , ma aveva sottolineato di non poter accettare la pregiudiziale antimonarchica e: Quanto  al Papato, bisogna intendersi: il Vaticano rappresenta 400  milioni di uomini sparsi. Io sono, oggi, completamente  al di fuori di ogni religione, ma i problemi politici sono  problemi politici. Racconta lo stesso capo del  futurismo nel suo volume Futurismo e Fascismo pubbli  cato quattro anni dopo, Marinetti e alcuni capi futuristi escono dai Fasci di Combattimento, non avendo potuto imporre alla maggioranza fascista la loro tendenza  antimonarchica e anticlericale . Gli altri capi futuristi sono Mario Carli e Neri Nannetti, appena eletto a  Milano come membro del comitato centrale per Firenze.  Ferruccio Vecchi si allontanò dai Fasci poco dopo, anche  per la crisi interna che stava attanagliando l’Associazione fra gli Arditi d’Italia.   La spaccatura risulta evidente all'uscita dell’opuscalo  Al di là del comunismo, pubblicato in agosto da Marinetti,  per giustificazione alle sue dimissioni ed in risposta allo  svuotamento della portata rivoluzionaria, o futurista, dei  Fasci di Combattimento. Al di lè del Comunismo sarà  la sua seconda opeta politica (dopo Democrazia futurista,  del ’19), quella più ricca di spunti e di idee: quella, insomma, sua fondamentale.   L'opera è dedicata sul colophox Ai futuristi francesi,  inglesi, spagnoli, russi, ungheresi, rumeni, giapponesi :  it che esprime già tutto un programma. Fra le sue tesi,  dd esempio queste: Noi futuristi abbiamo stroncato tutte le ideologie imponendo dovunque la nostra nuova concezione della vita, le nostre formule d’igiene spirituale,  il nostto dinamismo estetico, sociale, espressione sincera  dei nostri temperamenti d’italiani creatori e rivoluzionari. L'umanità cammina verso l'individualismo anarchico, meta e sogno di ogni spirito forte. Il Comunismo invece è  una vecchia formula mediocrista, che la stanchezza e la  paura della guerra riverniciano oggi e trasformano in moda spirituale... La storia, la vita e la terra appartengono  agli improvvisatori. Odiamo la caserma militarista quanto  la caserma comunista. Il genio anarchico deride e spacca  il catcere comunista. Fu questo passo a provocare la reazione dell’Ardito?  Che ben presto si fece sentire, a più riprese, per denigrare il volumetto marinettiano, mentre al contrario La  Testa di Ferro ad opera di un gruppo di futuristi fiumani  (e di Mario Carli, ardito a sua volta) elogiava pubblicamente ed ardentemente il nuovo testo. Bottai, già fututista, interverrà ben presto (sul n. 35 dell’Ardito) con  una lettera aperta a F.T. Marinetti per mettere in risalto la sua posizione critica all’atteggiamento anarchichegpiante dello scritto, inconciliabile con qualunque espressione di potere, sia pur di tipo tecnico , come quello  a suo tempo proposto dallo stesso padre del futuri  smo. L'attacco di Bottai è senz'altro il più autorevole e  i] più significativo.   L'ideologia del fascismo-regime (da parte di un mini  stro in pectore come Bottai) cominciava già a farsi sentire. E si chiudeva, ovviamente, almeno sul terreno storico della prassi politica, l'ideologia del fascismo-movimento, quello dell’intransigenza e del fervore mistico, del  libertarismo e dell'avanguardia, dell'anarchismo e dell’antiautoritarismo verso la monarchia ed il papato. Il possibilismo politico e il realismo tattico per la conquista  del potere subentrano e il fascismo-regime si muove ormai, anche se lentamente, sotto la guida del suo abile e  compromesso condottiero. A Marinetti non restano che le dimissioni, e dopo il  suo canto del cigno politico (Al di là del comunismo),  il ritorno alla letteratura.    10. La dimensione futurista    Nel 1921 esce a Piacenza per i tipi dell'Editore Porta  il volume di Francesco Flora Dal Romanticismo al Futurismo. Il giudizio più interessante è senz’altro quello  di Luigi Russo, che così si esprime al proposito: Il  Flora, mentre vi grida il superamento sillogistico dell’arte decadente, la guarigione del suo spirito dal generale  futurismo, passa poi egli stesso a fare troppo rumorosa  e compiaciuta mescolanza con quell'arte e con quel futurismo . Pirandello pubblica nello stesso anno I sei personaggi in cerca d'autore. Marinetti sostiene che sono  ispirati al futurismo e al suo spirito creatore. Il congresso socialista di Livorno si spacca, e dalla scissione  si forma il neonato partito comunista. A Catania vede  la luce la nuova rivista futurista Heschisch.   Nel 1922 il fascismo salirà definitivamente al potete.  Marinetti fonda una nuova rivista, I{ Futurismo, che dirige in prima persona. A Berlino sarà poi tradotta in edizione tedesca (Der Futurismus), a cura di Ruggero Vasari. Bragaglia fonda a Roma il Teatro Sperimentale degli Indipendenti, primo teatro stabile italiano, da Ivi di  retto fino al ’36: metterà in scena duecento opere d'’avanguardia fra quelle di autori italiani e stranieri. A_ Monza  si crea l’Istituto Superiore delle Arti decorative, trasformato poi in Biennale e dal ’30 definitivamente in Triennale, con sede nel palazzo di Milano (al parco, arch. Muzio). Mussolini, dopo la marcia su Roma del 28 ottobre,  forma il governo con radicali e liberali, e istituisce il Gran  Consiglio del Fascismo. Prezzolini, come sempre lucidamente, poco  prima del grande ritorno del futurismo al fascismo,  metteva ancora una volta in risalto come possa l'arte  futurista andare d'accordo con il Fascismo italiano, non  si vede. C'è un equivoco, nato da una vicinanza di per.  sone, da un’accidentalità d’incontri, da un ribollire di  forze, che ha portato Marinetti accanto a Mussolini. Ciò  andava bene durante il periodo della rivoluzione. Ciò  stona in un periodo di governo. Il Fascismo italiano  non può accettare il programma distruttivo del Futuri  smo, anzi, deve, per la sua logica italiana, restaurare |  valori che contrastano al Futurismo. La disciplina e la  gerarchia politica sono gerarchia e disciplina anche letteraria. Le parole vanno all’aria quando vanno all'aria le  gerarchie politiche. Il Fascismo, se vuole veramente vincere la sua battaglia, deve ormai considerare come assotbito il Futurismo in quello che il Futurismo poteva  avere di eccitante, e di reprimerlo in tutto quello che  esso consetva ancora di rivoluzionario, di anticlassico, di  indisciplinato dal punto di vista dell’arte (da I/ Secolo,  3 luglio 1923).   Nel marzo dello stesso 1923 s'inaugura alla Galleria  Pesaro di Milano una mostra dell'Arte del Novecento .  Si trattava di un gruppo formatosi alla fine del ’22 intorno alla medesima galleria milanese, che affiancava la  nuova tendenza del regime in senso conservatote, già sancita dal 2° Congresso Fascista (Milano, maggio 1920).  L'animatrice del nuovo movimento Arte del Novecento era Margherita Sarfatti. Il gruppo fu accolto, neanche due anni dopo dalla sua costituzione, alla Biennale  veneziana del ’24, e si affermò definitivamente attraverso  due ulteriori mostre: una del '26 al Palazzo della Permanente a Milano, e l'altra del ’29 alla Galleria Pesaro,  sempre a Milano. I futuristi invece, rimasti esterni al  regime e aderenti ancora, in fondo, all'avanguardia, furono ammessi alla Biennale solo nel ’26, e fuori dal padiglione italiano additittura. All'inaugurazione della Biennale, Marinetti  si rivolge al Re, a Venezia in visita ufficiale, e gli denuncia gridando l’incapacità senile e antitaliana della  Direzione, che massacra i giovani artisti italiani . L’intervento di Marinetti suscita scandalo. Tuttavia nello stesso anno 1924 si verifica anche un cetto riavvicinamento tra futurismo e fascismo, e forse anche tra Marinetti  e Mussolini. L’occasione viene data dall’edizione della  terza ed ultima opera politica del capo futurista, che, come già detto, s'intitola Futurismo e Fascismo, ed esce  a Foligno per i tipi dell'Editore Campitelli. Ancora nello stesso anno escono diverse altre significative testate, futuriste ma anche fasciste. Mino Maccari  fonda I! Selvaggio (organo del fascismo strapaesano) ed  Enzo Benedetto a Reggio Calabria pubblica il foglio futurista Originalità, da lui stesso direrto: compaiono fra  i suoi collaboratori Marinetti, Jannelli, Nicastro e Sanzin,  Quest'ultimo scrive un saggio su Marinetti e il futurismo.  Gerardo Dottori, altra collaboratore di Originalità, crea  le prime aeropitture, che si affermeranno in seguito come  espressioni del secondo futurismo.  A Milano si tiene il Primo congresso futurista e Somenzi vi organizza le onoranze nazionali a Marinetti.  Siamo al 23 di novembre 1924, ore 10, al Teatro Dal  Verme di Milano. Mino Somenzi legge il telegramma di  Mussolini: Considerami presente adunata futurista che  sintetizza 20 anni di grandi battaglie artistiche politiche  spesso consacrate col sangue. Congresso deve essere punto  di partenza, non punto di arrivo. Credi mia cordiale amicizia e ammirazione . Alle 16 parla Marinetti, che conclude i lavori del congresso, così rivolgendosi all’indirizzo  del duce : I futuristi italiani, primi fra i primi interventisti nelle piazze e sui campi di battaglia, e primi  fra i primi diciannovisti più che mai devoti alle idee ed  all'arte, lontani dal politicantismo, dicono al loro vecchio  compagno Benito Mussolini: Con un gesto di forza ormai  indispensabile liberati dal parlamento. Restituisci al Fascismo ed all'Italia Ia meravigliosa anima diciannovista,  disinteressata, ardita, antisocialista, anticlericale, antimo.  narchica. Concedi alla Monarchia soltanto la sua provvisotia funzione unitaria, rifiutale quella di soffcare o mor.  finizzare la più grande, la più geniale e la più giusta Italia  di domani. Non imitare l’inimitabile Giolitti, imita il  Grande Mussolini del diciannove. Pensa sempre all’Italia  immortale ed al Carso divino. Schiaccia l'opposizione cle.  ricale antitaliana di Don Sturzo, l'opposizione socialista  antitaliana di Turati e l'opposizione mediocrista di A’  bertini con una ferrea dinamica aristocrazia di pensiero  armato che soppianti l’attuale demagogia d’armi senza  pensiero. Tu puoi e devi fare ciò, noi dobbiamo volerlo  e lo vogliamo . Lo vollero, ma non lo realizzarono. La  volontà può essere bella, ardita, ispira ai più alti sensi  di giustizia, anche se non sempre la realizzazione le tiene  dietro. Come in questo caso. Mussolini telegrafa ancora il 1° marzo del ’25 ad un  banchetto romano offerto da Carli e Settimelli a Ma:  rinetti: Sono dolente di non poter intervenire al ban:  chetto ofterto a F.T. Marinetti. Ma desidero che vi giunga la mia fervida adesione che non è espressione formale  ma vivo segno di grandissima simpatia per l’infaticabile  e geniale assertore di Italianità, per il poeta innovatore  che mi ha dato la sensazione dell'oceano e della macchina, per il mio caro vecchio amico delle prime battaglie  fasciste, per il saldato intrepido che ha offerto alla Pa  tria una passione indomita consacrata dal sangue . Ma.  rinetti si era già trasferito a Roma con Benedetta. La  capitale diveniva così anche centro del futurismo. In que.  sta stessa occasione Marinetti dichiarava, un'altra volta  inascoltato: Vi sono in Italia forze che osteggiano la nostra idea imperiale, combattiamole, non dimenticando  però fra queste la più segreta e la più antitaliana: il  Vaticano! Un discorso di Mussolini alla Camera (3 gennaio 1925)  dà inizio al vero fascismo-regime. A Tortino si tiene a  Palazzo Madama un'esposizione nazionale futurista. La  tendenza al riavvicinamento ira i due movimenti è già  indicata nella dedica di Futurismo e Fascismo: Al mio  caro e grande amico Benito Mussolini . Il che dimostra,  in fondo, una certa volontà di non troncare i contatti: ma  anche gli scritti raccolti, gli articoli e le tesi sostenute  sono di tipo più che altro conciliativo. Mussolini vi è  definito meraviglioso temperamento futurista : e non  risuoni però ad adulazione, perché il tentativo di recupero del futurismo in senso artistico e letterario (o cul  turale in senso lato) è evidente, nonostante l'occasionale  dimensione del movimento nell'attività e nell'impegno  politico. Non senza motivo, il volume prende inizio con  queste parole: Il Futurismo è un grande movimento  antiflosofico e anticulturale di idee, intuiti, istinti, pugni... . E subito dopo: Fra le tante definizioni io prediligo quella data dai teosofi: “I futuristi sono i mistici  dell’azione”. Infatti i futuristi hanno combattuto e combattono il passatismo. Il nuovo regime e la portata  storica di realizzazione di quello che si considera il patrimonio del futurismo è così giudicato: Vittorio Veneto e l'avvento del Fascismo al potere costituirono la  realizzazione del programma minimo futurista . Dove si  dimostra in fondo la connessione inscindibile tra futuri.  smo e fascismo, ma nello stesso tempo il distacco, in  questa realizzazione minimale ; comunque la mancanza  di coincidenza totale delle entità ideali dei due blocchi.    Questo programma minimo , specifica ancora Marinetti, propugnava l'orgoglio italiano... la distruzione  dell'impero austro-ungarico, l’eroismo quotidiano, l'amore  del pericolo... . Ma, alla fine, quello che più conta è  che il Futurismo italiano, tipicamente patriottico, che  ha generato innumerevoli futurismi esteri, non ha nulla  a che fare coi loro atteggiamenti politici, come quello bolscevico del Futurismo russo, divenuto arte di Stato.  Il futurismo italiano fu sempre italiano, non mai italiano  di Stato.  Il futurismo , afferma ancora il nostro, è un movimento artistico e ideologico. Interviene nelle lotte politiche soltanto nelle ore di grave pericolo per la Nazione , E un'altra volta a migliore definizione della posizione concettuale o della sua immagine: Il Fascismo  nato dall'interventismo e dal Futurismo si nutrì di principî futuristi... Il Fascismo opera politicamente... Il Futurismo opera invece nei domini infiniti della pura fantasia, può dunque e deve osare osare osare sempre più  temerariamente. Avanguardia della sensibilità artistica italiana, è necessariamente sempre in anticipo sulla lenta  sensibilità delle masse. La consapevolezza della difficoltà del consenso è più  che sentita, ed è convinzione al tempo stesso che il fascismo sia più capace di farsi accogliere o di comunicare  certe necessità, e certi principî. E la convinzione implica  la coscienza che sia il fascismo ad aver raccolto © mutuato  idee e posizioni dal futurismo, solo ed esclusivamente.  Senza che mai sia avvenuto il contrario. Ed appare evidente, perché non viene mai fatto cenno a questa seconda ipotesi: che cioè sia stato il futurismo ad attingere  al fascismo. Anche se affiora l’autocritica , l’interrogazione, il domandarsi sotterraneo della coscienza.   Il lettore domanderà: “Ci sono idee futuriste superate o da scartarsi, oggi?” Nulla da scartare. Le idee  vittoriose tengano fermamente le posizioni conquistate.  Per esempio questo principio: “Noi vogliamo glorificare  la guerra, sola igiene del mondo... le belle idee per cui  si muore e il disprezzo della donna”, fu una pietrata feroce ma necessaria nel pantano letterario di sentimentalismo dannunziano sulle cui rive singhiozzavano i giovani malati di luna e di donne fatali. La condanna della decadenza di un romanticismo fiacco e sdolcinato che ha irretito la realtà della Penisola è  quanto mai chiara ed evidente. E la volontà di scuoterla  per una necessità di spirito, per una volontà di resurrezione, per una coscienza ancora viva di grandezza e di  capacità creativa e rinnovatrice, porta inevitabilmente allo  scontro e alla conflagrazione, quella della guerra, che è  guerra di sentimento e di volontà, prima ancora che di  occasione politica. Oggi , continua Marinetti, l'Italia è piena di giovani forti e sportivi. Ma molti purtroppo sacrificano ad  una donna la loro volontà di conquista e l'avventura. Dopo Vittorio Veneto io predicai la necessità per ogni  combattente di diventare un cittadino eroico. Oggi esiste uno Stato fascista che tutela il diritto individuale.  Ma bisogna alimentare ancora lo spirito del cittadino eroico, amico del pericolo e capace di lotta, poiché occorretà  improvvisare domani gli indispensabili volontari della nuova guerra. Questa, lo ripeto, è certa, forse vicina. Perciò  è sempre vivo il grido futurista: glorifichiamo la guerra  sola igiene del mondo! Il Futurismo interprete delle forze telluriche, il Futurismo, manometro della nostra penisola (caldaia bollente!), odia i macchinisti incapaci. Si  palesano tali i culturali d’Italia che verniciati di patriottismo parlano oggi d’Impero, con un'anima pacifista pronti ad imboscarsi al minimo pericolo. Essi ignorano che  Impero significa guerra. Votrebbeto conquistarlo con una  lezione sulla Roma Imperiale! . Ecco, ancora, la coscienza di cui parlavamo prima: quella della curiosità antiquaria di una cultura d’accatto non più in grado di tenere il passo della storia e di muovere lo spirito della  giovinezza vittoriosa. Marinetti lo coglie e lo esptime in  una testimonianza, ancora una volta, di vita e di speranza, che è vita perché è speranza del futuro.    Noi futuristi parliamo d’Impero convinti e lieti di  batterci domani... Parliamo d’Impero perché è venuto per  l’Italia il momento di prendere le tetre indispensabili. IÎ programma politico futurista lanciato l’11 ottobre 1913  che propugnava una politica estera cinica astuta e aggressiva è più che mai di attualità. Le idee vittoriose tengano  fermamente le posizioni conquistate. Le nuove idee si  slancino all'assalto. Marciare non matcite! . Firmato:  Marinetti. Il futurismo ha dimostrato di voler procedere sulla  strada del nuovo: il fascismo lo ha accolto ed ha accondisceso, almeno fino a un certo punto, al suo messaggio.  Oltre è stato frenato, forse, non solo dal borghesismo ,  ma anche da quel socialismo, che avanti non è mai stato  capace di andare e che di nuovo ha portato solamente  vuote formule e fantasmi. Non così il futurismo, ben aderente al reale, e capace di ritirarvisi anche, nel caso di  inadempienza (o di mancanza di corrispondenza) della  realtà ai suoi messaggi.   Marinetti docet, proprio con quel fascino che aveva  voluto, o con cui aveva marciato, e in cui aveva creduto  senza marcire mai, nemmeno nell’auge del regime, quando avrebbe potuto sedersi sulle comode poltrone di un  otmai arrivato futurismo di destra . Ma il futurismo per Marinetti era e rimaneva comunque movimento  d'avanguardia artistica e culturale, nonostante gli agganci  più 0 meno politici, più o meno di regime, e nonostante  l'amicizia con Mussolini, che poteva anche essere un futurista , ma era e doveva essere prima di tutto il capo  dello Stato e il duce del Fascismo . E il fascismo aveva preso e doveva tenete ormai una certa linea, molte  volte non gradita, o valida, per il futurismo, ed anzi proprio al contrario.   La gloria di Roma rievocata nel monumentalismo  classicheggiante, il novecentismo ricalcante vuoti modelli  di un fasullo rinnovamento filotradizionale, la riesumazione del mito della storia come copia di grandezza e novella misura di falsa gloria, erano tutti temi aborriti da  Marinetti proprio perché segni ed indici di passatismo ,  messaggi sterili di una mentalità ferma e statica, incapace  di dare alcunché di vitale all'Italia in movimento. Marinetti era invece, e rimaneva, anche nel fascismo e nonostante il fascismo, futurista , come lui amava definirsi, e come lo rimanevano anche altri, non tutti però,  anzi forse troppo pochi. Marinetti, quindi, futurista, e futurista nonostante tutto, fu forse fascista solo ed esclusivamente per quel che  il futurismo poteva consentirgli di essere. Ma fu anche  grande oratore Marinetti, e fu oratore d’arte, oratore di  genio letterario e improvvisatore della parola, più 0 meno libera o in libertà che fosse.   Mussolini fu oratore politico e parlava, anche, nella  ricerca del consenso. Marinetti invece fu poeta, e parlava  per stimolare la curiosità, per muovere l'incanto  dell'espressione. La sua oratoria fu essenzialmente artistica,  il suo discorso fu culturale e poetico. Mussolini forse  in parte la imitò, sempre attenendosi all’oratoria politica  e trasformando il messaggio letterario in presenza ideologica e in colloquio popolare . Forse qui sta inoltre  la differenza fra i due movimenti: il futurismo avanguardia di rottura e il fascismo sistema di potere. Anche se  il primo l’aveva spinto e sorretto nella sua azione di conquista. Il fascismo è allora per un suo aspetto futurista,  e non invece il contrario. E' la realizzazione di quel piogramma minimo futurista che abbiamo già esaminato.  E Mussolini si può dire fosse stato anche futurista, o  comunque molto vicino al movimento di Marinetti. E  gli era stato anche amico, o c’era stata una reciproca  comunanza di sentimenti, che non esula dall’amicizia.   Ma Mussolini era stato anche socialista, anzi lo era stato davvero e fino in fondo . Che fosse anche per questo che i futuristi non potevano essere completamente  fascisti? O non si potevano identificare completamente  nel regime? Almeno i futuristi autentici, quelli più idealisti .   Il futurismo era stato sempre e comunque antisocialista, in modo integrale, totale come si è visto. E lo era  stato dall’inizio antisocialista, per la sua posizione culturale, per il suo intendimento antimilitaristico ed antiegualitario, per il suo slancio antipassatista di svecchiamento.    Lo schiaffo ed il pugno, la velocità e l’aggressione,  la lotta e la vittoria erano tutti temi o motivi antisocialisti. Il fascismo, nonostante tutto, era meno antisocialista. In primo luogo per le origini del suo capo, per la  sua formazione-estrazione, per i suoi intendimenti di  visuale che non si erano spenti del tutto, ma si erano  solo attenuati e modificati: e si erano travasati, anche,  nella novità del futurismo.    Comunque, e malgrado questo, il fascismo rimase e  resta agli atti della storia un movimento di massa ,  una realtà sociale , un fenomeno popolare, un sistema  del numero in scala comunitaria e nazionale: questo è  acquisito, ed è incontestabile. E non può essere confutato  dagli storici seri. Mussolini lo volle e lo promosse que.  sto popolarismo e, se vogliamo anche, riuscì lenta.  mente e gradatamente ad imporlo . Ma non volle mai  l'uguaglianza o il livellamento, e cercò sempre di favo.  rire la distinzione dell’individualismo. Lo stimolo stesso  alla competizione nel campo dell’arte e l’amicizia con  l’amico-nemico Marinetti ne sono garanti. L’amicizia fra  i due personaggi non fu esclusivamente un fatto episodico o della prima ora; fu un fatto profondo e vitale,  forse inalienabile ed assoluto . E durò, a controprova  del vero, fino alla morte. Quando Marinetti, reduce dalla guerra di Russia per  cui si era arruolato volontario (malgrado i suoi 64 anni),  aderiva alla Repubblica Sociale Italiana dopo i tragici fatti  dell’armistizio, dimostrava sino all'ultimo fede ad un’amicizia e ad un'idea, comunque e nonostante tutto. Marinetti era partito per la Russia all’insegna della coerenza,  non potendo contraddire il suo messaggio della guerra  sola igiene del mondo . Messaggio che anche il duce  aveva sentito, forse tragicamente e forse fuori tempo. Ma  lo aveva comunque sentito, e l’amicizia con Marinetti e  la sua nomina ad Accademico d'Italia lo dimostra. Quando avrebbe benissimo potuto bruciarlo . E aveva anche sentito che il nuovo secolo richiedeva un cambiamento, che si doveva in qualche modo maturare.    Volle promuoverlo e accelerarlo (da futurista ?), intervenite e spingere l'avanzata fino all'assurdo. Ne rimase  coinvolto e definitivamente inghiottito .  Marinetti si era salvato, e con se stesso aveva salvato  la poesia. La guerra (leggi: politica) non poteva averla distrutta.  In età avanzata era rientrato a vivere brevemente, a lottare fino all’ultimo per consegnare a Venezia un messaggio, quello vitale e ineliminabile verso il futuro . I suoi  discepoli lo accolsero come un testamento e qualcuno lo  trasmette ancora per testimonianza. Nonostante la trasmutazione dei tempi e le difficoltà del presente. Lo documenta ancora per la verità storica e per la risonanza dell'oggi. E, forse, per un nuovo futuro di domani.    12. Sindacalismo futurista    II fascismo aveva creato la Carta del Lavoro , che  ricalcava a sua volta quella ptima espressione originale  di emissione statutaria d’impronta sociale, che era stata  la dannunziana Carta del Carnaro . Ma già prima i  futuristi avevano inteso una loro sindacalizzazione in  senso artistico, ed avevano ancora una volta concepito un  manifesto. Si tratta del manifesto al governo fascista del  1° maggio 1923 intitolato I diritti ertistici propugnati  dat futuristi italiani.   I diritti rimasero in gran parte sulla carta, ma l’intenzione era evidente: quella di creare una specie di carta sindacale per la costituzione dei sindacati artistici  futuristi , atti alla difesa ed all'assistenza degli artisti  eventualmente bisognosi. Oggi quel poco che offre il sindacalismo dell’arte è dovuto per lo più al sindacalismo  futurista e, in parte, a quello fascista. Ma l'idea del mutuo soccorso e della solidarietà del lavoro era già presente nella mentalità futurista, orientata sempre verso  giustizia (in questo caso, giustizia dell’arte). Il proletariato delle rappresentanze artistiche è fatto ben noto, e  non da oggi: non ne furono esenti i futuristi, che anche  in questo senso furono rivoluzionari veri e propri, e cercatono comunque il rinnovamento. E vollero un’istituzione che li garantisse dalla loro precarietà, dalle loro difficoltà e dalla loro miseria.   La Banca di Credito per artisti fu iniziativa di  Marinetti, in seguito approvata e patrocinata dal duce .  Che così rispose per l’occasione all'amico futurista: Mio  caro Marinetti, approvo cordialmente la tua iniziativa per  la costituzione di una Banca di Credito specialmente per  gli Artisti. Credo che saprai sormontare gli eventuali ostacoli dei soliti misoneisti. Ad ogni modo questa lettera  può servirti di viatico. Ciao, con amicizia. Mussolini .   Si trattava di una vera € propria forma di assicurazione del denaro che doveva favorire gli artisti, o soddisfare le loro necessità. Ma non solo Îa costituzione della  Banca di Credito chiedeva il manifesto del ’23, firmato  da Martinetti per la direzione del movimento-futurista e  per tutti i gruppi futuristi italiani . Si volevano anche  realizzare: 1) Difesa dei giovani artisti italiani novatori  in tutte le manifestazioni artistiche promosse dallo Stato,  dai Comuni e private... 2) Istituti di credito artistico ad  esclusivo beneficio degli artisti creatori italiani [dove si  propone l’apertura d’istituti di credito per la sovvenzione di artisti, manifestazioni artistiche ed Istituti d'arte.  Tali istituti si manterrebbero con la buona volontà degli  aderenti, se privati, o con imposte sui redditi di guerra,  pet esempio, se statali. Le opere d'arte depositate costituirebbero valorizzazione fruttifera per l’artista medesimo, ecc., n.d.r.] Agevolazioni agli artisti [tramite  il riconoscimento legale dei diritti d’autore, la riduzione  del 75% della tariffa per i viaggi degli artisti e il trasporto delle loto opere, l'abolizione delle tasse doganali  nell’importazione ed esportazione delle opere d’atte, il  catico sull’assicuratore delle spese per lettere di cambio  o assicurazioni delle opere d’arte, ecc..., n.d.r.]. Come  si vede i futuristi guardavano sì al futuro, ma stavano  ben calati nel presente e cercavano di opetare e di agire  di; presente pet migliorare e per rendete più giusto il  uturo. Col ritorno all’ordine , come si definisce dagli storici l'affermazione del fascismo e la sua lenta istituzionalizzazione in regime, si parla anche di modifica del futurismo 0 di suo adeguamento ad una nuova realtà sistematica e organizzativa, conseguita al periodo rivoluzionario; e si chiacchiera ancora di secondo futurismo.  Anche se il futurismo, primo o secondo che fosse, non  ha mai avuto a che fare con l'istituzionalizzazione del  l'arte nell’ordine fascista . Dice il critico Enrico Crispolti in un suo saggio, e lo asserisce in modo categorico e definitivo: In questo senso è politicamente inammissibile e culturalmente scorretta una liquidazione del  Secondo Futurismo in quanto collusivo out court con  il fascismo.   Ma come si atriva a questa seconda definizione del  movimento? E poi eventualmente alla sua demonizzazione 0 fascistizzazione in senso politico?   Avevamo già visto nel ’24 Gerardo Dottori provare le sue prime aeropitture. Nel frattempo i futuristi  continuano a scambiarsi esperienze ed a lavorare intensamente. È ad esporre spesso e volentieri, anzi velocemente e freneticamente, alla futurista . Nel 1926 vengono  invitati diversi futuristi italiani alla International Exhibition of Modern Art di New York. Nello stesso anno  alla IX Biennale d'Arte di Reggio Calabria espongono  Depero, Tato, Benedetto, Rizzo, Fillia e Dottori. A_Milano intanto al Palazzo della Permanente si allestisce la  seconda mostra, che abbiamo già visto, del Novecento,  ormai in auge e prossimo ad assurgere ai fasti della glo.  ria del potere. C'è anche la dichiarazione ufficiale del neocostituito Gruppo 7 di architettura, composto da Terragni, Libera, Frette, Figini, Pollini, Rava e Larco. I futuristi partecipano alla Biennale di Venezia. A Torino, all'Esposizione Nazionale, ? Enrico Crispolti, Appunti riguardanti i rapporti fra futurismo  e fascismo, in Arte e Fascismo in Italia e Gertania, Feltrinelli, Milano 1974, 54. si allestisce un padiglione di architettura futurista, con  opere di Sant'Elia, Sartoris, Balla, Fillia, Prampolini e  Chiattone.   Nel 1929, 33 futuristi espongono ancora alla Pesa:  ro di Milano (Balla, Farfa, Benedetto, Lepore, Dottori,  Marasco, Tato e Prampolini). Azari pubblica il suo Primo  dizionario aereo; Balla, Fillia, Depero, Marinetti, Tato,  Somenzi, Benedetto, Rosso, Prampolini e Dottori lanciano il famoso Manifesto dell’Aeropittura. Terragni termi.  na 2 Como la costruzione di Novocomum, nuovo edificio  residenziale periferico. Marinetti è ‘accolto il 18 matzo  nell'Accademia d’Italia, insieme a Fermi e Pirandello, su  istanza personale di Mussolini.    Esce per le Edizioni di Augustea, Roma-Milano, il  volume Marinetti e il Futurismo, quarta ed ultima espressione di letteratura politica del capo futurista. L’opera  ricalea in termini ancor più encomiastici e di supporto il già conciliante Futuriszzo e fascismo.  Il volume esce ancora dedicato Al grande e caro Benito  Mussolini , definito questa volta già nella prima pagina  temperamento esuberante, strapotente, veloce. Non è  un ideologo. Se fosse un ideologo, sarebbe incatenato  dalle idee che sono spesso lente, e dai libri che sono  sempre morti. Egli è invece libero, scatenatissimo. Fu  socialista e internazionalista, ma soltanto in teoria. Rivoluzionario sì, ma pacifista mai . Il che equivale a dire  futurista .   Del socialismo di Mussolini abbiamo già parlato, e  della sua portata teorica, a questo punto effettivamente  e praticamente confermata. Del futurismo fascista  di Marinetti si sono scritti fiumi d’inchiostro e sproloqui  di parole. La dimostrazione più lampante della sua partecipazione estetna al fascismo e della sua continua difesa  del futurismo e delle avanguardie è data dal rifiuto di  onorari e prebende: unica accettazione per  contto,  quella dell'Accademia d’Italia, che gli servì poi per difendere il fututismo e per lanciarlo meglio in Italia  ed all’estero. Terragni realizza un monumento a Como su un disegno di Sant'Elia (che era stato totalmente rielaborato da Prampolini) in occasione delle Onoranze  Nazionali all'architetto futurista Sant'Elia , che viene  commentato anche alla Pesaro di Milano. Marinetti  pubblica Futurismo e Novecentismo. Molti futuristi partecipano alla IV Mostra delle Arti Decorative di Monza  ed alla XVII Biennale di Venezia. Nello stesso anno Ma.  rinetti pubblica a Torino sulla Gazzetta del Popolo i) Manifesto dell’Aeropoesia, che fa eco a quello dell'Aeropittura del *29. E’ il momento dello sviluppo aereo e  dell’aeronautica: è giusto che il futurismo si muova nella  direzione del progresso e senta, ritragga e proietti la nuova dimensione aerea dello spazio verso il futuro. Esce a Roma il nuovo quotidiano L’'Impeto. Nel 1932 la Galleria Pesaro allestisce una mostra  vera e proptia, ed esclusiva, di aeropittura . Fortunato  Depero ottiene che gli venga concessa una sala personale alla XVII Biennale veneziana. Prampolini erige un  plastico a ricordo di Marconi a Roma per la Mostra della  Rivoluzione Fascista. La partecipazione futurista è segno  della nuova collaborazione politica. Ciò non toglie che  le realizzazioni esprimano intenti d'avanguardia. L’Istituio Editoriale Italiano pubblica per la prima volta i Manifesti del Futurismo, in quattro volumi.    Fillia fa uscire il periodico Le Città Nuova e Sartoris  il volume sugli Elementi dell’Architettura funzionale;  Terragni comincia la costruzione della Casa del Fascio di  Como. Mino Somenzi fonda il nuovo periodico Futurismo,  definito settimanale dell’artecrazia italiana . Cambierà  poi titolo in Atfecrazia. Hitler sale al potere e sconfessa l’arte moderna (l'espressionismo, nella fattispecie). Vasari organizza con Marinetti una mostra futurista a Berlino nel tentativo di promuovere, e di far recepire le avanguardie al  nuovo regime. Nel settembre dello stesso anno il Congresso nazista di Norimberga condannerà al rogo l’arte  degenerata . Esce la rivista Diamo futurista, diretta da  Depero; il periodico di architettura Casebella è invece diretto da Pagano, mentre Bardi e Bontempelli pubblicano  Quadrante. Prampolini progetta una stazione per aeroporto civile al padiglione futurista della V Triennale di  Milano, mentre al Castello Sforzesco si organizzano le  onoranze nazionali a Boccioni, con la presenza di Paul  Klee, Piet Mondrian, Pablo Picasso, Vassily Kandinsky  ed Ezra Pound.    Nel 1934 Depero lancia un nuovo manifesto dell’Aeroplastica, sempre sulla falsariga di quello dell’Aeropittura. Fillia e Prampolini pubblicano a Torino la nuova rivista Stile futurista, dalle cui colonne Prampolini attacca  Hitler per le posizioni naziste sull’arte espresse a Norimberga. I futuristi partecipano ancora alla XIX Biennale  di Venezia. Ad Amburgo Ruggero Vasari e Marinetti difendono l'avanguardia in occasione della mostra Aeropittura futurista italiana , organizzata appositamente in  polemica alle censure naziste. A Lipsia ancora Vasari pubblica Aeropittura, arte moderna e reazione, che dimostra  la voce della nuova avanguatdia italiama improntata ai  progressi aeronautici ed in polemica contro i soliti passatisti censoti . Marinetti parte volontario per la guerra di  Etiopia. A Parigi viene organizzata una mostra futurista.  A Roma i futuristi partecipano alla II Quadriennale. Marinetti pubblica l’Aeropoema del Golfo della Spezia, che  ispirerà poi ancora molti aeropittori. Nel 1936 Prampalini realizza un salone da riunioni per municipio alla VI  Triennale di Milano. I futuristi partecipano alla XX  Biennale di Venezia. Muore Fillia esponente del primo  futurismo . Mussolini proclama l’Impero. La mostra di Monaco attacca e denuncia l’arte degenerata con esemplificazioni e dimostrazioni . Viene messa in luce per contro, o in risalto, l'arte sana nazista. Cominciano le polemiche e le  divisioni di fronti. Il fascismo ufficiale e d'ordine attacca, e nuove violente polemiche scuotono l'avanguardia.  Il Popolo d'Italia e IL Perseo, diretto da A.F. Della Porta,  muovono guerra al futurismo. Quest'ultima rivista aveva  già polemizzato, insieme a Il regime fascista di Farinacci,  con l’architettura razionalista di Bardi e Terragni: Noi siamo dell’opinione , si legge su Il Perseo del 15 giugno  1937, che il Fascismo ha tutto da perdere da un’alleanza col Futurismo e sia pure da una semplice connivenza.  Risponde il periodico Artecrazia di Somenzi che contrattacca in prima persona a sostenere l'avanguardia e il futurismo. Difendo il Futurismo è la raccolta dei testi di Somenzi pubblicati sulla rivista. Editi nel '37, sono l’opera  più coraggiosa e significativa della polemica per la lotta  dell’avanguardia. Futurismo di destra e futurismo di sinistra  L’avanguardia, del resto, è sempre eterogenea e sfaccettata. Ecco perché si parla di destra e di sinistra  all'interno del futurismo nella fase della maturità (il  cosiddetto secondo futurismo). Destra e sinistra sono  termini abusati e inflazionati , buoni per tutto. Se ne  fa spesso uso eccessivo ed improprio, semplicistico e gratuito. D'altra parte, poiché avviene ancora e soprattutto  oggi, non si vede perché non dovesse avvenire allora,  quando anche si parlava, al tempo, di fascismo di destra e di fascismo di sinistra.   Il centro, almeno nelle avanguardie, non ha tendenze, o ne ha molto pache e solo per qualche momento.  Il centro ha poche tensioni, pochi impulsi vitali, di  rinnovamento. Il centro , quindi, risulterebbe amorfo,  inutile, privo di idee 0 spirito di catatterizzazione. L’avanguardia allora sta a destra 0 a sinistra : non è mai  al centro, o almeno è difficile che lo sia. Il futurismo  fu forse un’avanguardia di destra se intendiamo per  destra una certa qual spinta ideale d'impronta bergsoniana o nietzschiana: poteva però essere anche di sinistra per le sue istanze sociali. O poteva essere al di  là della destra e della sinistra , per ricalcare una  espressione del pensatore tedesco. Sta di fatto che il futurismo non fu mai di centro .  Ma se si vuole dar credito a quello che comunemente si  intende otmai per destra , si deve anche accogliere un futurismo di destra , o rivolto verso destra : se  è vero che a destra sta la conservazione, lo spirito  borghese, il richiamo all’ordine ecc. ecc. E se è vero per  contro che a sinistra sta la spontaneità o lo spontaneismo, la sincerità, la schiettezza, l'onestà e quindi anche  la miseria e la rivoluzione : ecco, allora, esiste anche  il futurismo di sinistra . Com'è possibile?    La polemica, anche se non sembra vero, fu proprio  di quegli anni. Comincia Bruno Corra con un fondo  di prima pagina su Futurismo, diretto dal Somenzi, n. 27  del 12 marzo del 1932, anno I e X dell’Era Fascista .  Il titolo è già sintomatico: No: futuristi di destra. Anche se  Corra aveva usato il termine destra con le attenuazioni del caso, affermava che l'essenza del Futurismo è  e non può non essere rivoluzionaria . E ancora, a specificare meglio il concetto: ... Bisogna dire che nel nostro movimento i termini di sinistra e destra non si oppongono, perdono cioè il loto significato convenzionale.  La mentalità futurista supera il contrasto fra il sovvettimento e la conservazione, in quanto si libera di continuo  in uno slancio creativo , tanto per la precisione dei termini e la puntualizzazione del linguaggio. E siccome il  linguaggio ci investe di una sua moralità, ecco che è  bene tenerne conto quando ancora il Corra così sottoli  nea: Mi pare che qui si tratti, prima di tutto, di una  questione di moralità. Dare al Fututismo quel che al Fututismo appartiene: e non truccare il proprio ingegno con  un'etichetta di convenienza. Chi si dichiara avanguardista ma non futurista, sputa nel piatto dove ha mangiato . E fin qui è tutto chiaro e conseguenziale. Ma vediamo come ancora il Corra continua: Poi, lo stabilirci  questo principio; che il privilegio di poter restare nella  sfera magnetica del Futurismo pure affermando, nella propria opera un temperamento realizzatore di destra, debba  accordarsi soltanto a coloro che han dimostrato di sapere  essere integralmente futuristi. E reclamerei il diritto  di sedermi a destra, per mio conto, in nome della mia  effettiva collaborazione al Futurismo più rivoluzionario... .  Insomma, essere stati di sinistra per poter essere poi di destra , o aver fatto i rivoluzionari in gioventù,  per poter pai sedere tranquillamente sugli scanni del  concreto o nella comodità del reale (di quando, cioè,    x    si è arrivati ). Può darsi sia vero, pur se non proprio giusto 0 corretto il ragionamento, ma concreto sì ed anche, che ci  piaccia o meno, realistico. La polemica inizia ed. è un  susseguirsi di botte e risposte. Fra tutte vediamo come  replica Paolo Buzzi su un altro fondo di prima  pagina dello stesso Futuriswo n. 30, anno II, del 2 aprile  1933. Il titolo è anche questa volta emblematico,  Estrema sinistra, puntualizzato poi meglio nell’occhiello :  Non c'è che un futurismo: quello di estrema sinistra. Dove  si sancisce la necessità dell'avanguardia a sinistra , e  la sinistra del futurismo, l’unica possibile. Questo,  e non altro, è il vero futurismo. Perché dovrei sedermi a  destra, proprio io? Mi sembrerebbe di tradire la causa di  Aeroplani, di Ellisse e la Spirale, di Cavalcata delle vertigini... . E ancora: Questo è futurismo: e di ultra estrema sinistra. Le mie autonomie sintetiche di anime e di  sensi, le mie aeropitture di tipi e di paesaggi, i miei cosmopolitismi spaziali e i miei intimismi votticosi, stanno  per una intransigenza etico-estetica che costituisce, ormai, la gioia (ed, un pochino, anche la gloria) della mia  lunga carriera di vomo che ha sempre fatto dell'Arte come  il sacerdote celebra messa. Aviatore sempre, adunque: fante o stradino, non mai . E conclude poi, con patole un  po’ altisonanti e troppo, forse, di effetto: I giovani,  quelli veramente degni di questo nome primaverile, sanno  che al di fuori e al di sopra d'ogni inevitabile chiasso  letterario, la parola “futurismo” risponde alla sola unica  vera “idea forza” che oggi esista nella sfera ideale del  mondo: e che è in grazia di essa, unicamente di essa, se  oggi la Poesia della miracolosa Italia fascista vive e vivrà . Dove si dimostta ancota una volta, come se non bastasse, il collegamento tra futurismo e fascismo, almeno  nella loro spinta spontaneistica e rivoluzionaria.    Dobbiamo comunque tenere conto del tempo della  pubblicazione di questi articoli, nel °32 e '33, in pieno ed affermato regime. Ecco, quindi, anche, il senso di una  destra e di una sinistra , di un futurismo ancora  giovane ed esuberante, e di un altro futurismo per contro  già assiso sugli allori della gloria o sul comodo giaciglio  della meta raggiunta e della calma del riposo. Quando  cioè il fascismo, movimento politico rivoluzionario, eta diventato regime , ed aveva, per così dire, assunto le sue  caratteristiche sembianze (almeno fino a un certo punto).  Perché il futurismo, così come era sotto, in fondo si era  voluto mantenere. AI di là dei tentativi di conglobamento  o di cattura della sua entità esercitati dal regime o  da singole personalità fasciste, alcune delle quali, magari,  erano state futuriste o vicine al futurismo. Tuttavia era  e restava, il futurismo, in fondo, quello di sempre: solo  ed esclusivamente un movimento d'avanguardia. Futurismo ed ebraismo Innumerevoli differenze separano il popolo russo dal  popolo italiano, oltre a quella tipica che distingue un popolo vinto e un popolo vincitore. I loro bisogni sono divetsi e opposti. Un popolo vinto sente morire in sé il  suo patriottismo, si rovescia rivoluzionariamente e plagia  la rivoluzione del popolo vicino. Un popolo vincitore come il nostro vuol fare la sua rivoluzione, come un aeranauta getta la zavorra per salire più in alto... Non esiste  in Italia antisemitismo. Non abbiamo dunque ebrei da redimere, valutare o seguire , sosteneva Marinetti:  e lo diceva nella sua opera già esaminata A! di là del Comunismo. Lo riportiamo non tanto per rilevare le diffe  renze fra rivoluzione futurista e rivoluzione bolscevica 0  spirito comunista, quanto per far rilevare quale era la  posizione di Marinetti nei confronti degli ebrei già nel  1920. Gli ebrei da redimere, valutare o seguire sono  evidenti: Marx ed Engels. Il problema invece si affaccia,  come tutti sappiamo, sul volgere del '38 e all'alba del  °39. Il Manifesto del Razzismo italiano, quello degli scienziati del 14 luglio ’38, e la Carta della Razza, cui fanno seguito le leggi razziali  sulla falsariga dell’antisemitismo tedesco,  danno buon gioco alla cultura dell’ordine , quella più  direttamente sostenitrice o affiancatrice del regime.    Secondo Crispolti il tentativo della cultura legata  alla destra reazionaria fascista di profittare della campagna antisemita per promuovere un'edizione italiana della  operazione nazista dell’“arte degenerata” è un aspetto notevole dell’azione pubblicistica che precedette e accompagnò quei provvedimenti. L'azione pubblicistica era condotta da Telesio Interlandi in prima persona, che attacca spesso e volentieri Marinetti, il futurismo e le avanguardie attraverso il suo periodico: dal Quadrivio, settimanale romano ad impronta razzista, al quotidiano romano Il Tevere, a La difesa della razza. Oltre a Interlandi  si distinguevano Preziosi con il mensile La wite  italiana, e Farinacci con Il regimze fascista, quotidiano di Cremona. L'arte moderna è un tumore che deve essere tagliato  non che si debba esibire come una gloria nazionale sol  perché piace a Marinetti , aveva affermato I/ Tevere  del 24-25 novembre 1938, pubblicando un’antologia di  esempi d’arte degenerata italiana. Quadrivio aveva a  sua volta proposto un referendum contro l'arte moderna  considerata in blocco bolscevizzante e giudaica , ma  senza alcun successo.    Marinetti rispondeva con una manifestazione indetta  il 3 dicembre 1938 da lui e Somenzi al Teatro delle Atti  di Roma. E Somenzi stesso lo accompagnava con un fondo polemico su Arfecrazia, n. 117 del 3 dicembre, dal  titolo Razzismo. Ad esso facevano seguito sul n. 118 dell'11 gennaio 1939 due articoli (Arte e... razzia, e Italianità  dell’arte moderna), ancora in posizione di attacco, aspro  e violento. Quest'ultimo, firmato Artecrazia  pottò a  determinare la chiusura stessa del giornale. Non è escluso Crispolti, Appunti riguardanti 1 rapporti fra futurismo  e fascismo che lo avesse scritto proprio lo stesso Marinetti (con Somenzi). Il pretesto di voler colpire con l’antigiudaismo l’arte  moderna era messo all'indice dell'accusa. Si dimostra così  ancora una volta lo spirito d'avanguardia con cui il futurismo e i futuristi operavano, sia pur sotto le bandiere del  regime, ma in fondo in opposizione a una cultura d’ordine e di conservazione, priva di spunti nuovi e originali,  o addirittura chiusa ai contatti e alle avanguardie europei  sotto il pretesto dell'antigiudaismo, che non poteva certo  essere aperto a nuove esperienze.   Nel 1940 entta in guerra l’Italia. Marinetti parla Per  l’italianità dell’arte e tiene un discorso al Teatro delle  Arti a Roma sulla bellezza aeropoetica della guerra meccanizzata . Intervengono Radice e Terragni a difendere  l’arte moderna. Declatmano Marinetti, Farfa, Scrivo, Monachesi e Berardi. La rivista Autori e Scrittori pubblica  il manifesto Nuova estetica della guerra. A Genova Mari.  netti parla su La poesia e la guerra nel Salone dei  Professionisti e degli Artisti, dove si declamano poesie  di Mazzotti e Balestreri. Bosso lancia il nuovo Manifesto  dell’Aerosilografia. Nel 1942 Marinetti pubblica  Carto  eroi e macchine della guerra mussoliniana. Poi parte volontario a raggiungere le truppe italiane in Russia. Rientrerà nel ’43 malato, e già intaccato nella salute. Mussolini  cade il 25 luglio e Marinetti si trasferisce a Venezia, dopo  l'8 settembre. Il fascismo è finito, ma il futurismo ancora continua.    16. Il futurismo tra ieri e oggi    Dopo la morte di Terragni a Como per malattia contratta sul fronte russo, Marinetti aderisce nel  44 alla neo-costituita Repubblica Sociale Italiana. A_Venezia riceverà gli ultimi futuristi, rimastigli fedeli nonostante il declino : Crali (ancora vivente) e Andreoni  (recentemente scomparso). A loro vorrà consegnare il futurismo perché non muoia con lui. Si trasferisce poi a  Cadenabbia sul lago di Como e muore a Bellagio nella  notte fra il 2 e il 3 di dicembre, per crisi cardiaca (i funerali di Stato porteranno le spoglie a Milano, al Cimitero  Monumentale). Postuma a lui e alla fine del fascismo  (repubblicano) si pubblicherà la sua ultima opera, che  così inizia: Salite in autocarro aeropoeti... Si tratta  del Quarto d'ora di poesia della X Mas, in cui l’invocazione all'avanguardia alita uno strano ed inevitabile senso di morte, violento ed inesorabile.   Ma l'avanguardia è, pare, ineliminabile, tant'è che il  futurismo continua come espressione artistica almeno, anche se ormai non più politica. I suoi epigoni lo sostengono ancora, con le parole e con le opere. Crali  Primo Conti a Milano e a Firenze, Sartoris a Losanna, Di  Bosso ed Anselmi a Verona, Enzo Benedetto a Roma  portano ancora avanti il suo programma d'avanguardia. Con  parole e con scritti, con opere e con progetti, col messaggio dell’arte sempre e comunque. I seguaci di Marinetti  si rifanno a lui e sostengono con vivacità e con brio la  vitalità di una prospettiva che si vuole sempre rinnovare.    Questo è ancora, malgrado tutto, il valore attuale del  futurismo. Quello di un'avanguardia italiana aperta alle  avanguardie europee, ma avanguardia comunque e  valorizzatrice in ogni caso dell'arte. Che dev'essere libera e  moderna, nuova ed attuale, viva e presente ai suoi tempi.  Per questo deve ancora schiacciare le pastoie dei vecchiumi passatisti , deve smuovere il conservativo e assalire i fantasmi di prolungamento di polverosi e sclerotici  retaggi. Deve insomma comunque essere avanguardia. Il  messaggio futurista, in questo senso, è ancora attuale. Ce  lo dicono Crali e Benedetto, fra gli altri, con le loto  testimonianze. Che ci aiutano a tivedere la dimensione del futurismo: una dimensione presente in tanta  odierna penuria di originalità nel moderno, presente almeno come forza dinamica nella prospettiva di migliori,  più aperti, e più geniali futuri. SCHIAVO  SOFFICI, MARINETTI, BOCCIONI, RUSSOLO  SANT'ELIA, SIRONI, PIATTI FUTURISMO E  GUERRA SOLA IGIENE DEL MONDO. Ben presto si manifesta l'interesse dei futuristi per  la politica. Nel 1911 Marinetti pubblica giò un mani  festo politica , che sarà la sua prima espressione di  intervento nelle cose pubbliche. Tyripoli Italiana  vuol dire presenza dell’Italia e primato dell’Italia;  vuol dire guerra ed espansione, allargamento del vitalismo italiano, e vittoria. Il panitalianismo si esprime e si dichiara apertamente, per la prima volta.  L'avanguardia politica deve accompagnare  l'avanguardia artistica. E il primato italiano in arte st deve manifestare anche in politica, nella forza dell'espansione  del genio (al tempo, di arbizione coloniale).   Poco dopo la Libia, è la volta dell'Austria. L’amore della guerra non può che portare a voler V'intervento. Ci sembra significativa la penna di Soffici su  Lacerba del ‘14, dove si osa dire la verità e mettere  in luce la finzione del moderatismo neutralista (cattolico o socialista che sia).    Il manifesto, dedicato all'orgoglio italiano , è già un manifesto di guerra. Per  questo lo riportiamo interamente, a dimostrazione della fiducia e dell’ottimismo degli artisti combattenti,  la loro convinzione della forza attiva e dello funzione  battagliera dell’arte    PER LA GUERRA Valvola    Essere italiano (mi piace ripeter qui che adoro il  popolo italiano) non è in generale gran fatto entusiasmante, in questa nostra epoca. Ìn questi ultimissimi tempi, confesserò che per conto mio mi vergogno un poco  di portar questo nome. E’ un sentimento che si è andato  sviluppando leggendo i giornali, e posso anche ammettere  che una tale causa non meriterebbe di produrre un tale effetto; ma i giornali son tutta la nostra vita ormai e purtroppo. E. dai giornali italiani si alza e si propaga un tal  lezzo d'abbiezione e d’imbecillità che chi ha un po' di  cuore e di spirito non può fare a meno di sentirsene sof.  focato. E' una gara in cui corrispondenti, redattori ordinanati e straordinari, politicanti e governo fanno del loro  meglio per sorpassarsi a vicenda. Non che siano espliciti  nei loro articoli e nei loro comunicati, ma la bassezza tra  spare e offende. Sono reticenze abbiette, raccomandazioni  infami, voltafaccia vergognosi, silenzi più vergognosi anco:  ra. Si sente che il calcolo idiota comanda e regola tutti  questi spiriti subalterni. La guerra? Le mani in mano?  Questo enimma terribile non è affrontato a viso aperto,  ma una battaglia vinta o persa lontano detta il tono ed il  catattere (anche tipografico) della notizia, del commento  o della nota ufficiosa. Dà il là all’elucubrazione insulsa del  machiavello rimbastardito. La stampa italiana è opgi come  oggi l’indizio della più ripugnante psicologia e mentalità  che possa avere una nazione. Davanti al mondo che com  Tralasciamo i paragrafi: Toccami il naso, Grandezzate, e Sublimità, che ci sembrano poco significativi dal punto di vista politico,  per riprendere con Socialismo, molta più denso e pregnante. batte e soffre, accanto a una civiltà che difende le sue  le nostre ricchezze dal sacrilegio di un'orda senza  stotia, noi siamo il leguleio diseredato di viscere, sollecito della sua trippa mediocre che occhieggia le fortune  dei popoli, e risponde di sbieco o tace aspettando dietro  lo schermo della sua neutralità. Non hanno il coraggio  questi figuri di dirla una buona volta ta verità. Ditelo che  siete i più ignobili rappresentanti di un paese che è miserabile perché non vi calpesta come cimici. Ditelo che vi  mancano il cuore e i testicoli. Ditelo che avete paura. O  confessate almeno che dietro la vostta prudenza c'è la  vostra impotenza, la verità che ci buttano in faccia i nostri  alleati quando fra una batosta e l'altra voglion levarsi il  gusto di pigliarci per il bavero. Che cioè l’Italia non ha  quattrini, non ha armi, non ha munizioni e che i suci  magazzini son vuoti come la badia di Spazzavento. E ci sono infine i socialisti. Io non ho un'esagerata  antipatia pet i socialisti. Trovo che la loro cravatta rossa,  il loro sol dell’avvenir, i loro discorsi in piazza, e generalmente tutto ciò che li caratterizza, così a occhio e  croce, sono un tantino ridicoli; ma le case popolari, l'aumento delle mercedi operaie e tutto ciò che il proletariato deve loro di miglioramenti per la vita di tutti i  giorni sono cose ottime e sante. Ciò non toglie che una  cosa mi stupisce straordinariamente ogni volta l'intravedo  e mi stupirà in eterno: la loro mentalità. Si rivela spessissimo in questi giorni, e sempre a proposito della neutralità italiana. I socialisti l'’ammettono, non solo, ma la vogliono perpetua. Io sono e resto un fautore ogni giorno  più convinto della neutralità per la pace ha dichiarato  in un referendum uno di loro. E voleva forse dire (giacché è difficile immaginare una neutralità per la guerra)  che lui e il suo partito sono per la pace a ogni costo.  Giacché, ed eccoci alla mentalità di codesto partito, ogni  buon socialista non vede nella guerra, qualunque essa sia, se non una lotta di capitalisti e banchieri contro capitalisti e banchieri i quali si servono del proletariato per liquidare le loro partite. Ammettiamo che in ogni guerra ci  sia un sostrato d'interessi; ma non c'è altro? Per i socialisti non c'è altro. L'idea che i socialisti si fanno del  mondo è questa: un capitalista borghese e sfruttatore alle  prese con un magro popolano sfruttato. La cultura, le  scienze, le arti, le delicatezze, l’eleganze, i raffinamenti,  le filosofie, la bellezza, i sentimenti, gli amori, le passioni  -— tutto ciò insomma che fa la vita così terribilmente complessa, così colorita, così varia, multiforme, incoercibile non  è nulla per loro. Tutto è grigio, e l’universo intero una  specie di ragnatela squallida senza confini né orizzonti,  eterna, in mezzo alla quale un ragno cerca di succhiare  una mosca alla quale Marx ha insegnato che non  deve lasciarsi succhiare.   Così, nella guerra presente, che cosa importa se intere  nazioni difendono una civiltà che è la nostra, le libertà  conquistate le idee stesse dei socialisti contro i nemici  che sono gli stessi nemici dei socialisti? Per i compagni  di Filippo Turati non si tratta che della solita altalena dei  capitali sulle povere spalle del popolano e bisogna astenersi. E parlo espressamente degli ufficiali ex cattedra,  giacché agli altri, a quelli del colloquio coll’emissario tedesco, dobbiamo l’atto forse più nobile e generoso che si sia  compiuto in Italia in quest'ora di straordinaria bassezza. Il trionfo della merda La cieca incoscienza dei socialisti ufficiali e l’untuosa  malafede dei cattolici alla Meda (ecco un uomo cui manca  indicibilmente l’erre!) si possono anche capire in un momento come questo, chi consideri la speciale mentalità  di codesti gruppi e la messa in giuoco violenta dei principî e degli interessi di tutti.   I primi, i socialisti, non d'altro solleciti che di vuote  teoriche malamente idealistiche, non possono vedere nella  guerra se non un fatto inquietante, uno di quei fatti che afferrando tutto l’uomo ne mettono in mato ogni energia  vitale il che è sempre a scapito certo delle ideologie unilaterali, e credono l’'opporvisi con tutte le loro energie  una coerente difesa dell’idea mentre non si tratta in  fondo che di un semplice istinto di conservazione. I secondi, i cattolici, sanno benissimo che un nostro intervento nel conflitto attuale favorendo il trionfo di popoli tutt'altro che asserviti alla secolare imbecillaggine papale, significherebbe un indebolimento considerevole della loro  compagine, e maschetano di prudenza pattiottica il loro  desiderio di vedere ancora l’Italia ribadir con la sua neutralità incondizionata i vincoli che la fanno setva e complice del bigottismo e dell’inciviltà eutopea. Contro gli uni e gli altri, se si può usar del disprezzo,  non sarebbe dunque logico indignarsi. Ma c’è una massa  dei nostri connazionali che nessuna collera, nessuna abominazione potrà mai bollate con l’infamia che merita la  sua straordinaria abbiezione. E' Ja massa oscura, anemica  informe degli irresponsabili, dei disamorati, degli abulici:  dei parassiti della società e della vita. Non vedendo nulla  più di là della lora piccola tranquillità presente, del loro  affare meschino, del loro affetto senza energia; rincantucciati nel loro buco momentaneo al sicuro dalla burrasca  che gli sgomenta soltanto a intravederla nelle corrispondenze del loro mediocre giornale, essi credono che nulla  possa essere più profittevole del prolungare, sia pure a costo di ogni mortificazione, questo stato d’incolumità ruminativa nell'ombra e in margine alla storia. Chè se domani  la preponderanza in Europa di una razza di pachidermi  violenti, chiusi a ogni luce di vera intelligenza, conculcherà  ogni espressione geniale di vita; se i popoli cui si lega una  comunanza di cultura, di ricordi e di tradizioni, saranno  mortificati e asserviti a un’etica da ingegnere belligero e  spia; se le nostre stesse fortune intellettuali, morali e materiali saranno manomesse e asservite, che cosa importa  a questi miopi sdraiati nella loro flaccidezza quietovivente? A costoro importa che l’oggi sia senza strepiti e senza  pericoli, che il tran tran dell’esistenza seguiti: felici se l'Italia potrà uscire dal rotto della cuffia e sia magari verso l'abisso. Così nessuno si affida con più sicurezza di loro  alle decisioni del nostro governo. Il govetno italiano che  fino ad oggi s'è dimostrato come la quintessenza di questa  materia fiscale, perché non d -*ebbe divenirne anche la  stella fatale? L’ospizio degl lidi della Consulta è il  faro naturale di questa marea .ercoraria che monta. Poi  ché essa monta, trionfando. Ogni giorno che passa nella  passività, ogni occasione perduta, ogni ambizione abdicata, ogni nuova difficoltà creata servono ottimamente al  suo incremento e alla sua propagazione. Siamo già a  buon punto. Dopo aver impedito con tutto il suo peso ripugnante ogni movimento, questa massa pestifera ha già  una voce per dire che muoversi ora è troppo tardi. Ancora poche settimane e sarà forse vero, e tutti saremo  sommersi per sempre. Amici! Noi abbiamo parlato e scritto: abbiamo propugnato tutto il calore delle nostre anime per oppotci alla  vigliaccheria inaudita di una bella parte dei nostri concittadini. Credo che il momento di una lotta più diretta e  dura stia per giungere. Le armi della mente e del cuore  stanno per esaurirsi. Bisognerà ricorrere alle altre, se non  vogliamo che l’Italia piombi al livello della più vergognosa  fra le nazioni. Un paese che abbia per scrittori dei Paolieri e la Nazione come giornale ufficiale. Arvenco SOFFICI  [da: Lacerba, n. 18, 15, settembre 1914; e n. 19, 1° ottobre 1914]    L'ORGOGLIO ITALIANO Il 13 Ottobre, nella prima perlustrazione fatta da me  agli ordini del capitano Monticelli e del sergente Visconti  in terreno nemico, a 6 Km. dalle nostre trincee, fra le  alte roccie a picco, nelle boscaglie e nelle pietraie dell'A]  tissimo, dopo esserci incontrati con una pattuglia austriaca che ci voltò le spalle e fuggì, constatammo con gioia  la superiorità enorme della nostra artiglieria, i cui tiri  meravigliosi, passando su di noi e sul lago, sostenevano la  nostra avanzata in Val di Ledro. Nella seconda perlustrazione fatta da  me, dai miei amici futuristi Boccioni e Sant'Elia e dal  pittot  Recci, esplorando e occupando la trincea delle Tre  Piante, constatammo con quale gioconda disinvoltura dei  giovani pittori e poeti italiani possano trasformarsi in  audaci, rudi, instacabili alpini.   Durante l'avanzata, l'assalto e la presa di Dosso Casina, compiuta dai Volontari ciclisti lombardi e da un  battaglione di alpini, vedemmo le truppe austriache sgominate dalla baldanza di pochi italiani diciassettenni e  cinquantenni, non allenati alla guerra in montagna. Dopo  aver matciato per 7 giorni in un foltissimo nebbione, con  vestiti quasi estivi malgrado la temperatura di 15 gradi  sotto zero, i Volontari ciclisti pernacchiavano allegramente alle migliaia di sbrapne!s prodigati loro da 5 forti austriaci. I nuovi raccoglitori di bossoli e di schegge micidiali  facevano finalmente dimenticare gli stupidissimi e sentimentali raccoglitori di edelweiss. Constatammo che degl'italiani, già operai, impiegati o  borghesi sedentarii, sapevano vincere in astuzia qualsiasi  pattuglia di Kazserjigers. Constatammo che un corpo di  300 valontati ciclisti improvvisati alpini sapeva strategicamente manovrare su per montagne ignote, con tale abi  lità che il nemico si credette accerchiato da migliaia d’uomini. Constatammo che uno studente italiano, trasformato in ufficiale, può comandare tutta l'artiglieria d'una zona  e sfondare coi suoi tiri 6 o 7 forti austriaci, scientificamente preparati alla difesa in 20 o 30 anni. Constatammo  come il popolo italiano, sotto la direzione geniale di Cadorna, abbia saputo improvvisare in pochi mesi la prima  artiglieria dei mondo e vincere di continuo nella più spaventosa e difficile guerra che sia mai stata combattuta.  Singhiozzammo di gioia all’udire dalla viva voce di 20 o 30  giornalisti esteri, quali Jean Carrère e Serge Basset, che l'esercito capace di vincere e di avanzare sul Carso è sicuramente il primo esercito del mondo. Dopo aver visto il popolo italiano, il più mobile di  tutti i popoli , liberarsi futuristicamente, con una scrollata di spalle, dalla lurida vecchia camicia di forza giolittiana, vediamo ora nelle vie milanesi fervide di lavoro,  come il popolo italiano, che sembrava avvelenato di pacifismo, sa guardare con fierezza questa nobile, utile e igienica profusione di sangue italiano. Tutto questo ci conferma una volta di più che nessun  popolo può uguagliare: il genio creatore del popolo italiano; l'elasticità improvvisatrice di cui sempre danno  prova gl’italiani; la forza, l’agilità e la resistenza fisica degl'’italiani; l'impeto, la violenza e l’accanimento con cui gli  italiani sanno combattere: la pazienza, il metodo e il calcolo degl'italiani nel  fare una guetra; il firismo e la nobiltà morale della nazione italiana  nel nutrirla di sangue o denaro. ITALIANI! Voi dovete costruire l'Orgoglio italiano  sulla indiscutibile superiorità del popolo italiano în tutto.  Questo orgoglio fu uno dei principii essenziali dei nostri  manifesti futuristi dall’origine del nostto Movimento, cioè  da 6 anni fa, quando primi e soli (mentre l’irredentismo  agonizzava e il partito Nazionalista non era ancora nato)  invocammo violentemente, nei teatri e sulle piazze, la guerra come unica igiene, unica morale educatrice, unico veloce motore di progresso. Eravamo allora sicuri di vincere l’Austria e di centuplicare il nostro valote e il nostro prestigio vincendola.  Eravamo soli convinti della prossima conflagrazione generale, che tutti giudicavano impossibile in nome di due  pseudo-fatalità: lo sciopero delle Banche e lo sciopero dei  proletariati. Eravamo convinti che coll’Inghilterra, la Francia, la Russia, noi dovevamo utilizzare le nostre inesauribili  forze di razza e il nostro genio improvvisatare, collaborando allo strangolamento del teutonismo, fatto di balordaggine medioevale, di preparazione meticolosa e d’ogni  pedanteria professorale.   Apparve allora il mio Monoplan du Pape, visione profetica della nostra vittoriosa guerra contro l’Austria. Infatti noi soli fummo profetici ed ispirati, perché, più giovani  di tutti, più poeti, più imprudenti, più lontani dalla politica opporttunistica e quietista, traemmo la visione del futuro dal nostro temperamento formidabile, e pur constatando intorno a noi la vecchia mediocrità italiana, credemmo fermamente nell’avvenite grande dell’Italia, semplicemente perché noi futuristi eravamo Italiani. ITALIANI! Voi dovete manifestare dovunque questo  orgoglio italiano e imporlo in Italia e all'estero colla parola e colla violenza, come facemmo noi in Francia, nel  Belgio, in Russia, nelle nostre numerose conferenze battagliere.   Merita schiaffi, pugni e fucilate nella schiena l'italiano  che non si manifesta spavaldamente orgoglioso d’essere  italiano e convinto che l'Italia è destinata a dominare il  mondo col genio creatore della sua arte e la potenza del  suo esercito impareggiabile.   Merita schiaffi, pugni e fucilate nella schiena l'italiano  che manifesta in sé la più piccola traccia del vecchio pessimismo imbecille, denigratore e straccione che bha caratterizzata la vecchia Italia ormai sepolta, la vecchia Italia  di mediocristi antimilitari (tipo Giolitti), di professori pacifisti (tipa Croce, Treves, Ferti,  Turati), di archeologhi, di eruditi, di poeti nostalgici, di conservatori di musei, di albergatori, di topi di  biblioteche e di città morte, tutti neutralisti e vigliacchi,  che noi, primi e soli in Italia, abbiamo denunciati, vilipesi  come nemici della patria, e veramente frustati con abbondanti e continue doccie di sputi.    Merita schiaffi, calci e fucilate nella schiena l’artista  o il pensatore italiano che si nasconde sotto il suo ingegno come fa lo struzzo sotto le sue penne di lusso e non  sa identificare il proprio cotgoglio coll’orgoglio militare  della sua razza. Merita schiaffi, calci e fucilate nella schiena l’artista o il pensatore italiano che vernicia di scuse la  sua viltà, dimenticando che creazione artistica è sinonimo  di eroismo morale e fisico. Merita schiaffi, calci e fucilare nella schiena l'artista o il pensatore italiano che, fisicamente valido, dimostrando la più assoluta assenza di valore umano, si chiude nell’arte come in un sanatorio o in  un lazzaretto di colerosi e non offre la sua vita per ingigantire l’Orgoglio italiano.   Mentre altri futuristi fanno il loro dovere nell’esercito  regolate, noi futuristi volontari del Battaglione lombardo,  dopo essere stati semplici soldati in 6 mesi di guerra, ed  aver preso cogli alpini la posizione austriaca di Dosso  Casina, aspettiamo ansiosamente il piacere di ritornare al  fuoco in altri corpi, poiché siamo più che mai convinti che  alle brevi parole devono subito seguire i pronti, fulminei  e decisivi fatti. La sensibilità e l'acume politico d'avanguardia  dei futuristi non potevano rimanere indifferenti di fronte ai loro avversari 0 alla controparte dell'avanguardia, quella socialista. La reciprocità dell'opposizione al  potere liberalborghese, a passatista per dirla alla  Marinetti, era motivo di accostamento, forse, 0 per lo  meno di attenzione da ambo le parti. E sappiamo dal  De Felice che molti proletari o esponenti dei ceti  umili osservavano con attenzione e seguivano il movi  mento di Martinetti con calore di simpatia. C., fra i più sensibili esponenti certo del  futurismo d'assalto , si accorge della presenza di elementi comuni nelle avanguardie, e lancia un appello da  Roma futurista # 13 /uglio del ’19 nel tentativo forse  di un avvicinamento. L'avvertimento della necessità di  rovesciare la classe dirigente corrotta e impreparata offre una base comune all'intento di collaborazione per  il sostegno del proletariato, operaio od ex combattente  che sia. La polemica continua sulla stessa testata, nel  numero del 92 novembre dello stesso anno con un arti  colo di Giuseppe Bottai dal titolo Futurismo contro  Socialismo. L'immpossibilità di collaborazione è già vista  dal Bottai con tutta la sua evidenza, ed è vista per  ragioni squisitamente ideologiche, rifacentesi gi presupposti filosofici del socialismo e del socialismo italiano,  in particolare. Il 14 dicembre ancora del ’19, entra  nella polemica un socialista, certo Moannarese, cui vengono aperte le colonne di Roma futurista @ fargli sostenere più o meno la stessa tesi di Bottai, anche se  vista da angolazione marxista, dogmatica e inequivoca  bile. L’impossibilità della collaborazione è data dalla  ostrattezza del futurismo secondo Manmarese, e dal suo  scarso od insufficientemente risaltante contenuto sociale,  che esula dall'unico e imprescindibile metodo possibile:  quello della lotta di classe. L'ultima battuta è ancora  del Bottai ed esce la settimana dopo, sul numero del  21 dicembre ‘19 dello stesso periodico. La puntualizza  zione degli argomenti e la precisazione dei temi e delle  tesi di pensiero son lutte protese a dimostrare lo sincerità filo-popolare del futurismo e la falsità democratica del socialismo per cui è quasi necessario essere  contro il socialismo, ed indispensabile, se si ama il popolo italiano, quello dei proletari arditi con cui anche  Bottai aveva combattuto nelle trincee al fronte della  prima guerra. Noi siamo per l'elevazione del popolo,  e non per l'assolutismo demagogico di esto, sottoli  neava l'autore, concludendo a grandi caratteri Contro  il socialismo non vuol dire contro il proletariato . Ho esaminato seriamente l'ipotesi di una collaborazione  fra noi (futuristi, arditi, fascisti, combattenti, ecc.) e i  Partiti cosiddetti d'avanguardia: socialisti ufficiali, riformisti, sindacalisti, repubblicani.   A parte il fatto che, in realtà, essi siano assai meno  precursori ed audaci di quanto a parale vogliano far credere, io mi sono preoccupato esclusivamente di cercare  il terreno comune nel quale si possa, noi e loro, associare gli sforzi e marciare d'intesa verso lo stesso obiettivo.   Il terreno comune c'è. Ed è quanto di più nobile e  attraente possa offrirsi a degli spiriti sinceramente amanti del progresso e della libertà. E' la lotta contro le attuali classi dirigenti, grette, incapaci e disoneste, si chiamino borghesia o plutocrazia o pescecanismo o parlamentarismo. Non è possibile lasciar loro più oltre la potenza  del denaro e il potere governativo e amministrativo; sono  una casta che deve cadere e cadrà. E’ questa caduta che  noi dobbiamo affrettare, con tutti i mezzi e con tutte le  fotze disponibili.   Or ora, l'esperimento del caro-viveri in tante città  d’Italia, ci ammonisce che di fronte a problemi gravi e  pressanti, non c’è odio di parte né antipatia sentimentale  che tenga. Noi possiamo ben dare (e l'abbiamo data) una  valida mano ai pussisti per impedire che il popolo sia  affamato. Non pottebbero i socialisti vedere nel nostro  gesto disinteressato e leale una prova della nostra simpatia per il popolo, si chiami combattente o si chiami  operaio, e riconoscere che la nostra azione tende, quanto  e più forse della loro, ad equiparare le classi sociali?   Esiste un Marifesto del Partito Futurista, ed un libro  di Marinetti dal titolo Democrazia futurista , dove è  condensato quanto di più moderno, di più progredito,  di più spregiudicato, di più audace e rivoluzionario si  può oggi pensare nel campo politico. Ma i partiti pseudo-avanguardisti e pseudo-rivoluzionari ostentano di ignora.  re e manifesto e libro, né mai hanno fatto il più timido  gesto di simpatia o d'interesse verso idee o remperamenti  ai quali dovrebbero sentirsi attratti per istinto! Perché?  Eppure noi siamo libertari quanto gli anarchici, democratici quanto i socialisti, repubblicani quanto i repubblicani più accesi.   Si tratta dunque di mala fede? Pare di sì, perché, se  non fossero in mala fede, costoro dovrebbero inginocchiarsi davanti a noi e chiamarci come loro capi. Se la  loro lotta politica fosse sincera e convinta (parlo special  mente dei pussisti), dovrebbero ammirate senza riserve  il nostro spirito rivoluzionario che, dopo aver schiantato  quella fetida cancrena del passatismo europeo che si chiamava Impero d’Asburgo e contribuito a umiliare il tracotante militarismo tedesco, vuole oggi demolire a colpi  di bomba i vecchi sistemi, i regimi decrepiti, i focolai di  putredine che costituiscono la grande cloaca politica italiana.   Se fossero in buona fede, dovrebbero riconoscere che  noi soli, uomini di guerra che non ignoriamo il piombo  e l’acciaio laceratore di carni, sapremo, a tempo debito,  scatenare e condurre una rivoluzione, non già dal Quartier  Generale di una qualsiasi Camera del Lavoro, ma alla  testa delle moltitudini in marcia.   Se fossero in buona fede, sapete che cosa dovrebbero  dire questi organizzatori di masse a scopi elettorali? Ci  direbbero Venite qua, futuristi, arditi, fascisti, combattenti tutti: voi che siete più rivoluzionati di noi, più  audaci di noi, più liberi di noi, voi che amate il popolo  più sinceramente di noi! Venite qua, uomini d'azione e  di comando: a voi il guidare le masse verso la libertà e  la ricchezza! a voi il rovesciare i vecchi sistemi, i vecchi  dogmi e le vecchie tirannidi! noi ci ritiriamo nei ranghi.    Perché non lo fanno?    Perché questi falsi socialisti che scrivono in giornali  luridamente borghesi come Il! Tempo e La Stampa, per  ché pagano bene, si sfiatano a chiamarci reazionari della  borghesia, carabinieri più dei carabinieri, a diffamarci imbecillescamente? Perché hanno respirato di soddisfazione all'avvento del reazionarissimo gabinetto Nitti e complici?   Perché hanno lanciato dalle colonne dell’Avanti pochi  giorni fa, un grido d'amote alla censura che se n’andava,  promettendole di richiamarla con tutti gli onori non appena il socialismo ufficiale fosse salito al potere?   Perché tentano di far credere ai soldati che gli ufficiali combattenti costituiscono una casta borghese,  quando i soldati ricordano ancora il loro tenentino che  in trincea si adagiava nello stessa fango, mangiava nella  stessa gavetta, correva gli stessi rischi, buscava le stesse  ferite, come ciascuno di loto?   Perché non si decidono a riconoscere che la guerra  ha liberato il mondo dall'incubo dell'imperialismo germanico e ha impresso alle conquiste ideali e materiali dei  popoli un ritmo di fantastica velocità, che, senza di essa,  non si sarebbe neppure sognato?   Perché seguitano a confondere guerra rivoluzionaria  con militarismo, socialismo con bolscevismo, popolo con  pagliacci tesserati?   Perché combattono gli Arditi, che pure sono usciti  dal popolo, e del popolo rappresentano la parte più vigorosa e combattiva?   Perché si ostinano a ripetere con tediosa monotonia  che la guerra è stata voluta dalla borghesia, attribuendo  dunque a questa classe un vanto che certo non le spetta?   Ho lanciato l’invito.   Ho mostrato ai nostti avversari il terreno sul quale  potremmo intenderci, e le pregiudiziali antipatiche che  c’'impediscono un avvicinamento.   Sapranno essi spogliarsi di queste pregiudiziali che  sono altrettanti errori gravissimi?   Sapranno a loro volta dirci una patola onesta e schietta di simpatia disinteressata? Se capiranno che è assurdo  e bestiale continuare una campagna diffamatoria contro  una guerra che si è chiusa vittoriosamente e che, malgrado  tutto, ha giovato enormemente al proletariato, se capiranno che noi pur amando fieramente l'Italia, non abbiamo nulla a che fare con i nazionalisti reazionari, codini    Fb) e clericali, essi ci tenderanno la mano e ci aiuteranno a  spezzare tutte le schiavitù che ancora ci sovrastano.  Dopo, potremo tornare a divorarci, se sarà necessario.  Marro CARLI  {da: Roma futurista)  Bisogno, ad ogni sosta, di guardare attorno. Vedere  un po' come va la vita, la cui visione precisa, a volte,  si perde nel martellamento sanguigno della lotta. Misurare i compagni e gli avversari. Riprendere le distanze. Ci teniamo molto, via via che più si ingarbuglia il  fascio di forze e di tendenze del mondo politico italiano,  a rittovare i nostri contorni. Pulirli. Indurirli sì che si  rimbalzi sopra qualunque tentativo di penetrazione impura.   La lotta di partiti, nel suo svolgimento poco netto,  si traduce rispetto a noi futuristi, assertori del predomi.  nio della genialità italiana, in un lavoro di isolamento.  Le scorie cadono. La marcia viene schizzata via dalle  contrazioni atletiche della nostra carne sana. Solitudine splendida. Nella costituzione organica dei vari aggregati di parte  noi siamo il cetvello possente che domina, e comanda  alle tre membra funzioni del tutto subordinate. In questa  immagine somatica, il partito socialista ufficiale rappresenta, rispetto a noi, l'intestino retto, maceratore e scaricatore d'ogni feccia.   Un compito troppo importante, come bene ha detto  l’amico Settimelli, per poterlo disprezzare. Ci vuole.   Solamente è bene che non si dimentichi mai la sua  posizione assolutamente accessoria.   La nostra antipatia per il socialismo in genere, pet il socialismo italiano in particolare, ha delle ragioni profonde balzanti dall'istinto della nostra razza di cui noi  siamo i rappresentanti più interiori, con tutti i suoi difetti se si vuole, ma anche con tutte, t44te, le sue doti  di energia, di intelligenza, di ardimento. E distinguiamo  ciò che sempre si può giustificare nel quadro infinito della  vita, l'idea, da ciò che, appunto perché nella vita, si ha  il dovere di discutere e di espellere, quando ne arresti  il libero svolgimento.   Idee e uomini.   Socialismo e socialisti italiani.   Noi siamo contro il socialismo perché astrazione filosofica senza possibilità di contatti vitali. Simbolo che  si agita nel mondo da secoli, e di cui mai si è trovata,  e mai si troverà la formula di traduzione in positivi sviluppi di masse sociali. Meditazioni di uomini respinti  dalla vita calda e vibrante, per un ingranaggio disgraziato  della loro mente incapace di aderire alla bellezza appas  sionante del mondo. La riforma che l'idee socialiste propugnano, non nasce da noi, dalla nostra maniera di essere, dalla nostra  natura di uomini, dal nostro modo di riunirci e dividerci.  Cala dall'alto, da cieli metafisici. Ha l’impotenza caratteristica di tutte le religioni meditate, ragionate, logiche,  e non create dallo slancio lirico di un'anima d'uomo. Marx ed Engels hanno costituito delle sopra realtà  gigantesche che tutti hanno dichiarato magnifiche, ma  che nessuno ha avuto il coraggio di criticare, appunto  perché la critica umana non si può esercitare su delle concezioni prive di umanità.   Boris d’Ysckull, uno di quei mistici slavi capaci di  bere ogni miscela più insipida, ha confessato di non aver  mai compreso quasi niente di simili esposizioni dommatiche, e di essere stato attirato solo per la loro oscurità  affascinante. Chi, italiano, può così rinunziare alla vulcanica e solate natura da itrigidirsi in questi mondi senz'aria, non può che trovarsi nell’identica posizione dell’illustre imbecille  surricordato. Le prime utopie della  Città, mantenentesi allo studio di immaginose e dilettose; invenzioni nei primitivi Platone, Tommaso Moro CAMPANELLA (vedasi) passando a peggior vita nelle scatole craniche dei tedeschi, si sono meccanizzate in modo da di  venire delle cose perfettamente anti-geniali, anti-latine e,  soprattutto anti-italiane. Noi fututisti, che abbiamo violentato il vuoto e sognante torpore italiano riempiendolo di idealità fatte di  vita, intessute di nervi sensibili, calde di sangue rossissimo, vogliamo una penetrazione a fondo nel blocco psicologico della nazione: ivi è la direttiva unica delle trasformazioni che il nostro destino esige. Noi siamo contro l’idea socialista perché sosteniamo  la necessità della diseduguaglianza. Diseduguaglianza di  valori, che bisogna esaltate, lievitare, mantenere ad ogni  costo. Un piano uguale di esistenza, una distribuzione armonica dei beni, una soppressione assoluta di privilegi  ma su questo livellamento di condizioni materiali  l’esplicarsi diverso, individualissimo delle singole capacità. II socialismo, pretendendo distruggere la molteplicità  innata di un popolo non può, in via logica, che discendere dalla nazione alla città alla famiglia, dalla famiglia  all'individuo, e quindi alla creazione di tanti individui  identici, a stampo, senza differenze di tipi. Il comunismo,  ch'è la forma più in voga, non può tradursi, a meno di  negatsi, che in un monismo esasperante, monotono e inerte. La Russia ce ne dà la prova: la massa oppone al tentativo di numerazione, che offre appena una pallida idea,  per il carattere più pacato e passivo di quel popolo, di  ciò che avverrebbe da noi.   L'Italia è tutta un magnifico inno di incoerenza, dal  l'Alpi alla Sicilia. Follemente varia. Ogni provincia un  mondo. Popolazioni dolci come le sue pianure, laboriose  come i suoi fiumi, divampanti come i suoi vulcani.   Noi non possiamo pensare che tutto ciò si riduca a  un uniforme impasto. Noi futuristi opponiamo la necessità assoluta di un decentramento che mantenga, esalti,  vivifichi fino al culmine ogni caratteristica, ogni genialità,  ogni attitudine delle singole regioni: l’unità italiana sarà  allora una valorizzazione completa di sufta i'Ttalia.Siamo contto il socialismo perché idea generatrice di  vigliaccheria. Della gente che riuscisse davvero ad attuare  la distribuzione economica dello Stato socialista, dovrebbe basarsi su un concetto di mutualità cooperativistica.   Cooperativa a mutuo soccorso vuol dire la sicurezza  matematica di non rimaner mai al verde quindi abolita  ogni situazione di Jotta, reso campletamente inutile lo  sviluppo e il gusto del rischio. Spatizione di coraggio.   Se ciò è immaginabile su piccola scala, perché gli effetti malefici sarebbero ridotti così al minimo da essere  cancellati dai vantaggi, non si può pensare cosa sarebbe  mai una nazione sottoposta a tale regime, soppressa ogni  difficoltà di cartiera, butocratizzata Ja conquista della vita,  scomparso ogni pericolo, ogni ansia, ogni tensione. Non trovando nulla di vario nei suoi sirzili, non trovando nulla di divertente nella sua esistenza logica, a ore,  a mansioni fisse, l'uomo socialista finirebbe col rientrare  in sé stesso. Cercare in sé l'interesse che il mondo non  gli offre. Alla forza di diffusione dei popoli geniali, si  sostituirebbe quella di egoismo egocentrico dei popoli cal  colatori. Da simili mondi la generosità fugge taccapricciata, non  può distribuire i suoi insegnamenti di grandezza: è come  andare a vendere ombrelli in un paese dove non piove  mai a che serve esser generosi con della gente che è  tutto misurato, tutto il necessario? La morale che tali ambienti possono produtre è marale di egoismo e di vigliaccheria. Noi opponiamo la morale della generosità, lucidamente affermata da Balilla Pratella, quotidianamente da noi  vissuta in una dedizione senza calcolo, in una aderenza  spontanea e intellipente alle tramutanti necessità della  Patria. Queste le tre ragioni fondamentali che ci dividono  dal socialismo idea: la astrazione filosofica e inumana della formula, la sua azione di parificazione monistica, la derivazione logica di antigenerosità = vigliaccheria, egoismo. Altre ragioni particolari ci sono, che ci porterebbero  ad una disanima troppo lunga ragioni, del resto, che  non sono specifiche della nostra differenza dal socialismo,  ma che possono essere anche di altri partiti. Esempi:  l'assurdità della soppressione dello Stato come potere centrale, la sciocca concezione di una pace eterna, ecc. ecc. I socialisti italiani.   Sono, indubbiamente, dei buoni socialisti perché hanno già, in pieno regime borghese lo stadio mentale senza  calore e senza colore del socialista di domani. Non sentiamo il bisogno di spenderci molte parole, né di passarli in rivista uno ad uno. Dirigenti: dittatura di vomini che hanno la mira precisa di diventare qualche cosa, un'autorità, una persona  importante. Non c'è tra loro neppure un mistico esaltato  che interessi. Calcolatori. Cinici.    Seguaci: massa la cuì concezione più alta è questa:  bisogna distruggere il caroviveri. Gente che cerca di mettersi a posto. Invidia il horghese, quindi ha desiderio di  divenire il borghese. Le loto qualità principali sono:    inintelligenza: non hanno ancora capito che il sociali  smo è diverso da popolo a popolo: commerciale  nell'America del Nord, conservatore in Inghilterra, filosofico  in Germania, mistico in Russia. Non hanno capito che il  socialismo in Italia può, caso mai, balzare dalle nostre  istituzioni rurali;   inattualità: sano coerenti in una maniera fantastica,  tant'è vero che le idee invecchiano e loto seguitano ad  usarle. Credono d’essere all'avanguardia, e lo sono come  il gambero, il cui traguardo è sempre alle spalle, dietro:   vigliaccheria: oltre la vigliaccheria propria della idea  hanno una viltà tutta propria, personalissima, originale:  inutile parlarne: chi interviene ai comizi elettorali ne sa  qualcosa. Il futurismo è il mondo più lontano dal socialismo. Il futurismo è veramente il senso di una religione  nuova, che si dirige alle anime, agli spiriti, ai cervelli,  e non si interessa del corpo che per fortificarne i muscoli,  farne strumento di agilità audacissime e di voluttà sane.   Generato dal cervello di un attista ha tutta l'umanità  di una idea italiana, sempre profumata di buona terra fertile anche quando si esalti fino ai più puri orizzonti. Attività poliedrica, il futurismo è lo sfruttamento completo di tutte le penialità italiane, manuali e cerebrali.  Ridarà all'Italia i suoi magnifici artieri, maestri d'ogni  sotta di lavoro, come lo à dato e lo darà ai suoi artisti  più grandi. I suoi vomini non hanno deficienza: danno  la loro vita in una proteiforme attività prodigiosa. Poeti  e soldati, sogno e vigilanza, idea e azione.   Non c’è possibilità di contatto tra la nostra morale  e quella socialista, tra i nostri uomini e i loro.  È assurdo ogni pensiero di collaborazione. FUTURISMO CONTRO SOCIALISMO. SEMPRE A  QUALUNQUE COSTO!   GiusePPE BOTTAI  {[da: Roma futurista.Noi e i borghesi    Non una polemica, ma una discussione calma e pacata. Polemica no, per non arrivare fino a quella animazione un po’ acre e impetuosa, che annebbia le idee e  deforma la realtà.   Ci tengo, a questa dichiarazione preliminare, perché  l'amico Mannarese, nel suo lucido articolo, pur mantenendosi in una linea di cortese serenità, devia in puntatine ironiche, che non èànno ragione di essere, se veramente egli ci vuole aiutare, nella demarcazione esatta della  nostra individualità politica.   Trovo ad esempio molto strano, per un futurista, l'osservarsi che la mia formula (adopto la parola formula,  per attenermi alla dizione dell'amico, per quanto essa abbia un senso storico, che mi ripugna) abbia potuto ringalluzzir di saverchio, con la sua violenza: “futurismo contro sociglismo, sempre, a qualungue costo” qualche buon  borghesetto. Questo non mi preoccupa, e direi, anzi non  ci preoccupa. Noi esprimiamo liberamente le nostre idee,  le gettiamo nel mondo, tta la gente; e i casi sono due,  come sempre: o la gente non le capisce e allora non c’è  nulla da fare: o le capisce, le approva, ci si interessa, c  le apprezza nel giusto valore, e allora poco ci importa  che tale gente sia proletaria o borghese, destra o sinistra,  e, anche, ambidestra.   Noi non sosterremo mai, com'un certo avvocatino di  nostra conoscenza fece in una recente seduta del Fascio  di Combattimento romano, che la guerra ha distrutto agni  distinzione tra destra e sinistra; ma non vogliamo di tali  logiche e necessarie e salutari differenziazioni (?) fare il  nostro spaventacchio. Chè, pet questa via, si giunge alla  grossolana affermazione di Adriano Tilgher (Tempo, Piccoli borghesi al bivio): essere il furore  antisocialista degli atditi originato dall’appartenere costoro, quasi tutti alle classi medie; e pensare che in parecchi mesi di convivenza con le fiamme nere mi son trovati  attorno solo contadini, operai, lavoratori-proletari!   Prima caratteristica del futurismo, è questa, libera,  sciolta sfrenata spregiudicatezza: e se il salumaio ci crede  oggi difensori dei suoi salami, delle sue salsicce, poco male! ciò potrà darci la prova della sua minchioneria, non  già infirmate l’esattezza del grido futurismo contro socialismo. Socialismo non è proletariato L’amico Mannarese fa un’identificazione  pericolosissima, e non rispondente alla realtà positiva dei fatti. Egli pone sullo stesso piano socialismo e proletariato, stabilisce senz'altro questa identità matematica: socialismo = proletariato.   Ciò spiega perché tanto si accanisca contto la finale  del mio articolo. Alle parole contro socialismo, sempre  a qualunque costo è dato il valore di un'affermazione di  questo genere: contro le aspirazioni del popolo, contro  i diritti dei poveri, ecc., ecc... .   Orta, mi ribello assolutamente. Non in nome mio sol  tanto, ma di tutti i futnristi, e anche, di tutti i nostri  amici fascisti.   Distinguere bisogna.   Una cosa è quello che l'amico chiama: /o sforzo violento, l’oscura irresistibile aspirazione della massa verso  un regime di maggior giustizia economica e un'altra cosa  è il socialismo. Le aspirazioni proletatie sono fatto immanente, istintivo, fatale, non pensato ma sorto da sé, il socialismo è uno dei tanti sistemi, i quali, da che il mondo  è mondo, si accaniscono sulla disparità di condizioni delle  classi.   Se io mi pongo contro il socialismo o contro i socialisti, mi dichiaro contrario ad un sistema filosofico, giuridico, economico, morale ed ai suoi sostenitori (filosofi,  demagoghi e procaccianti che siano), ma non è detto ch’io  voglia attaccare l’oggetto di tale sistema che è il proletariato. Non debbo, quindi, rettificare in nulla la mia incriminata frase, ch'era un grido, un appello conclusivo del  mio articolo, limitatosi ad una valutazione di idee, e non  aveva la pretesa d’essere un caposaldo, un domma, un  punto cardinale, ed altri simili paroloni che noi lasciamo  agli oratori da comizio.   L'affermazione: Noi non siamo contro il socialismo,  ma contro gli uomini, i metodi e la filosofia socialista  del Mannarese è un non-senso, perché appunto: socialismo  è flosofia sostenuta da wormini con determinati metodi.   Quella che il Mannarese chiama sostanza (eh! queste  parole che otribili titi giuocavano, a volte) ossia: la  guerra per l'indipendenza economica dei poveri contro i ricchi non è privativa assoluta del socialismo, è solo  l'obiettivo dei suoi studi, dei suoi tentativi, come essa  fu obbietto della favola di Menenio Agrippa, e delle  teorie di Fenelon, e della scuola di Saint Simon, e del  sistema di Grace Baboeuf e Roberto Qwen, e così pure  della filosofia di Marx ed Engels. Anche il nazionalismo,  anche il partito popolare, tutti anno affermazioni solenni:  qui è l'unico infallibile specifico per il dolore del popalo e io posso essere contro questi modi da cerratani  senza mai essere né contro il popolo né contro le sue  sacre e legittime aspirazioni economiche  I programmi economici  All'amico Mannarese è forse sfuggito nel mio articolo  questo periodo: Un piano eguale di esistenza, una distribuzione armonica di beni, una soppressione assoluta di  privilegi ma su questo livellamento di condizioni mateviali l’esplicarsi diverso, individualissimo delle singole capacità. Qui, evidentemente, si dice:  noi passiamo essere  d'accordo nelle finalità economiche del socialismo . Quelle  tre proposizioni del programma politico futurista di Matinetti, Carli e Sertimelli, che il Mannarese dice troppo  generiche, anno il merito di poter domani assorbire in sé,  senza contrasto, qualunque ardimento consono allo spirito dei tempi. Hanno un’intenzione pragmatista, che non deve sfuggite.   Il programma di riforme economiche, lanciato ai popoli come panacèa, è cosa vecchia di tutti i tempi e di  tutte le genti. Ogni scuola politica è per prima cosa inalberata questa insegna molto attraente. Tutti i programmi  ben definiti, schematizzati, rigidi, anno sempre atteso,  con grande pazienza, che le cose del mando si incanalassero ne’ fossati, canali e zenelle da loro tracciati, ma le  cose del mondo anno dimostrato, a lume di storia, di  procedere per via di approssimazioni successive, le quali  avvengono non già pet magnetizzazione esetcitata cai suddetti programmi, ma per madificazioni addotte, nel blocco  fisiopsicologico di una collettività, dal sistema di educazione, dalle idee di morale circolanti, dalla rinnovatasi  coscienza giuridico-sociale.   Se oggi, per ragioni ovvie, il problema economico è  venuto in primo piano, non bisogna dimenticare che la  parte veramente essenziale di un sistema politico non è  già il disegno di un futura assestamento economico, ma  è il metodo con cui saprà, attraverso uno studio positivo  dello stato presente e dei caratteri permanenti della società in genere (meglio ancora di una data parte di società) creare tutt'un’atmosfera spirituale intellettuale psicologica, che renda possibile l’attuazione di quel dato ordinamento economico, che nel momento è bene limitarsi  a definire desiderabile.   I socialisti italiani sanno che il popolo italiano non  à neppure iniziata l'evoluzione sociale che permetta l’avvento, ad esempio, del comunismo. Ora essi, scavalcando  completamente ogni lavoro di educazione, sventagliano i  loro proclami di rivendicazioni economiche. Il popolo  risponde, è naturale: è Bengodi con i suoi meravigliosi  panorami. Ma ciò non significa aver creata una società  comunista, come non è fare un signore aristocratico d'un  villanzone qualsiasi il riempirgli le tasche di denaro. Sotto il punto di vista della potenzialità vera di un  partito il valore di tali programmi è nullo. Hanno un  valore pratico di specchietto per gli allocchi, e se l'amico  Mannarese ci avesse detto che, abbondando gli allocchi,  è bene ch’anche noi abbiamo il nostro specchietto, gli  avremmo dato piena ragione. Il nuovo imperialismo Non ci deve, quindi, affligere di soverchio, la mancanza di formulazioni teoriche, di programmi economici.  Noi futuristi non siamo mai stati assenti quando questioni positive siano in tal senso nate. Né il trionfo socialista  deve farci perder la resta così da correr subito ai ripari.  No. La nostra posizione è netta, e possiamo guardarci tranquillamente intorno: il germe della morte del socialismo è appunto localizzato nel suo sistema di rivendicazioni economiche, aggravato dal fatto di essete così isolato da ogni altra considerazione d'ordine superiore da  divenire il segno folle di un nuovo imperialismo.    Non è possibile nessun contatto tra due sistemi così  opposti come sono quello socialista e quello futurista.  È l’anima differente. È il cervello diverso.    Se anche noi potessimo conglobare per intero nel nostro ordine di idee ogni aspirazione economica del socialismo, rimarrebbe la differenza profonda, incancellabile di  indole, di origine e di finalità.  Noi siamo per l'elevazione del popolo, e non pet l’assolutismo demagogico di essa. Tirando le somme    E riassumiamo, perché la discussione non rimanga uno  sterile battibecco. L'amico Mannarese m’à offerto il modo  di delineare meglio la nostra situazione innanzi al socialismo: posizione di ostilità per indole spirituale diversa; possibile comunanza di vedute economiche: il che  non implica nessuna fusione; condivisione di alcune idee (come ad esempio il  divorzio ecc. ecc.) che non sono prerogativa socialista, €  che non possono, quindi, render omogenee due sostanze  diverse. CONTRO IL SOCIALISMO NON VUOL DIRE  CONTRO IL PROLETARIATO. BOTTAI  [da: Roma futurista]   La lentezza delle democrazie, le pastoie burocrati  che dei procedimenti parlamentari. il vecchiume parolaio dei barbuti senatori non possono essere ben visti  dai futuristi. La velocità, il dinamismo, la lotta, la  competizione, l’azione mal si addicono agli organismi  pingui e sclerotici delle democrazie, quella italiana in  particolare. Già nel 1910 Marinetti lo mette in rilievo ed indica nel suo manifesto Contro l'amore e 3  parlamentarismo , sintomo ed espressione di questa  sua antipatia e di guesta sua avversione Persino l'amore e le donne in senso romantico sono indici e stru  menti di rallentamento , e come tali da evitare tranne che per una loro ben precisa ed organica funzione  vitale. Le donne andrebbero invece bene pei parlamen  ti, dove dovrebbero entrare con le loro chiacchiere e  la loro prodigiosa e altisonante facoltà di falsificazione.   Ma non è solo Marinetti a inveire contro il parla  mentarismo: c'è Tavolato che uddirittura bestemmia  contro la democrazia in un suo articolo apparso con  questo titolo su Lacerba del 1° febbraio 1914, ricco di  espressione e carico di colore linguistico e letterario.  I 30 dicembre dello stesso anno un altro futurista,  Volt, tuona dalle colonne di Roma fututista: Aboliamo il parlamento! In sua sostituzione si propongonna le  rappresentanze dei sindacati per la formazione dello  Stato tecnico futurista. E si entra nel merito della  personalità giuridica dei sindacati e della loro forza rappresentativa in base all'importanza della loro funzione  economica. Non in base numerica, per cui si rientrerebbe nella concezione democratico-parlamentare. Non più  onorevoli quindi sulle assise delle due camere, ma lavoratori. E sono tutti concetti che ritroveremo nella  concezione corporativa fascista e nella suu Carta del  Lavoro   Dopo la guerra Marinetti intervtene su Roma futurista mel maggio del '19 per ribadire la sua.concezione  futurista della democrazia , come s'intitola il suo scritto, che era già apparso um mese prima, più 0 mena  analogo, su L'Ardito. Vi si sostiene la democrazia tipi  camente italiana dei geni: una sorta di minoranze di  individui superiori alla media, destinati a entrare. in  competizione con le altre, definite democrazie incoscienli, come prodotta numerico d’inetti e di sconclusionati. La forza della nuova democrazia dovrà essere naturdimente violentissima data l'accelerazione e il ren  dimento degli individui geniali. La sua conclusione  sarà logica e conseguenziale: La democrazia futurista  è ormai pronta ad agire, poiché sente vibrare tutte le  sue cellule vive . L'azione sarà condotta da Mussolini, ma il presupposto è già comunque e totalmente presente. BESTEMMIA CONTRO LA DEMOCRAZIA Tre spanne sotto il cervello io nutto un odio, un  odio contro la presunzione del lavoro, un odio contro il  puzzo cosciente, un odio contro l’imbecillita evoluta. Tre  spanne sotto il cervello si spenge ogni polemica. I democretini rinunzino alla discussione. I democretini s’adagino sopra i loro luoghi comuni, perché il mio piede possa calpestarli. Via, batbe comiziesche che mi nascondete il sole. Via,  mani a ventola e cravatte a bandiera. Fermati, passo democratico sotto cui trema la terra offesa. Arrestatevi, lamentele filamentose, voci incristianare, zuccherose o  pepate. Via, spade di legno, trombe sfiatate, via, inesistenti  barricate. Smontate, uomini di paglia, uomini di stoppa  uomini di cartastraccia. Nascondetevi, ceffi di cera, mascheratevi, faccie rinfisecchite, sparite, ghigne insolenti.  Sgonfiate, protobischeri pastori di popolo. Aria ci vuole,  e luce e calore e solidità, o anima mia. Abbasso la democrazia! Fumano d'orgoglio, le gran fave. Fumano, questi straccioni e stronzoni, questi mangiasputi e fiutarutti, questi  tinconi, questi turabuchi, questi scotticapidocchi, questi  merdaioli, questi caconi, questi galoppini, questi pagnottisti, questi biasciconi, questi lumaconi, questi minchioni,  questi balordi gonzi e gralli, questi coglioni appuzzoni e  cittulli, questi sussurroni caccoloni, questi satraponi virtuosoni. Già tutto il paese fuma, smerdata com'è da queste pecore matte. Pulizia, pulizia, pulizia! Abbasso la democrazia!    Bischeri sollevatissimi, bischeri smargiassi, bischeri  ventosi, bischeri girandoloni, bischeri soppiattoni, bischeri politicanti, bischeri economicizzanti, bischeri vani, bischeri solenni, bischeri tronfi, bischeri crespi, bischeri cal.  losi, bischeri pensosi, bischeti pacifisti, bischeri leghisti, bischeri classisti, bischeri marxisti, bischeti riformisti, bischeri collettivisti, bischeri revisionisti, bischeti comunisti,  bischeri credenti, bischeri fetenti, bischeri ufficiali, bischeri legali, bischeri di cartapecora, bischeri del braccio, bischeri del cervello, bischeri antilibici, bischeri internazionalisti, bischeri democratici BISCHERI DI TUTTO  IL MONDO UNITEVI! La vostra individualità non ha  importanza. Unitevi! Amalgamatevi! Confondetevi in melma! Anche la melma dei bischeri, come ogni melma, s'incrosterà. E sotto le croste ci sarà il gelo della morte.  Così sia. Abbasso la democrazia! Accidenti alla democrazia, impero delle bestie da soma, regno degli schiavi, padronanza dei servi, supremazia  degli impiegati! Democrazia, sostegno degli sfiaccolati,  trionfo dei cimiciosi, glotia dei piattolosi, arma dei brodolosi; democrazia, orchestra di miasmi, concerto di sputi,  convegno di sudori, sistema di muffe; democrazia, vittoria dei muscoli e disfatta dei nervi, esautorazione dell’arte  e imposizione del mestiere, vita del debole e agonia del  forte; lurida, sudicia, tetra democrazia, cloaca dove affogano fantasia, ingegno, energia, e tutte le soavità; proterva asineria, fessa stivaletia: abbasso la democrazia!   E rovini Ia mediocrità!   Fuoco al tugurio dei democretini! I democretini è la lanterne! La libertà soltanto a chi sa cosa farsene, a chi sa viverla.    Agli altri il giogo, la sferza e la schiavitù. EVVIVA LA FORCA, o amici, per la libertà vostra  e per la libertà mia! ABBASSO LA DEMOCRAZIA. TAVOLATO  [da: Lacerba,Firenze]   Aboliamo pure il Parlamento si domandano molîi ma cosa metteremo al suo posto? La risposta è pronta. Soszituiremo til Parlamento con  le rappresentanze dei sindacati agricoli industriali ed ope  rai. La rappresentanza sindacale sarà la base dello Stato  tecnico futurista. AI collegio elettorale, circoscrizione fittizia ed arbitraria, entità che sembra creata apposta per l'esercizio  del broglio, sostituiremo il sindacato, espressione organica  delle forze economiche che danno effettivamente forma  alla società. AI posto dell’onorevole deputato, demagogo costretto all’accattonaggio sistematico del voto e feudatario di una nuova feudalità peggiore dell'antica, manderemo a governare il paese ingegneri, commercianti ed  operai, gente che sa il suo mestiere e conosce i bisogni  reali della propria classe. Invece di un’Assemblea di inttiganti, di chiacchieroni e di incompetenti, avremo un  corpo tecnico adatto allo scopo di dirigere, con conoscenza di causa, la grande azienda dello Stato. In pratica l'idea della rappresentanza sindacale si trova di fronte a difficoltà serie ma non insopportabili. Vati problemi ci si presentano. A quali sindacati concederà lo Stato la personalità  politica? Si tratterà di determinare le categorie di ptoduttori che avranno diritto a una rappresentanza nel corpo  legislativo.  L'iscrizione ai sindacati sarà obbligatoria per tutti  i cittadini? A me sembta che sia più logico lasciare che  esercitino i diritti politici coloro che ne hanno la volontà  e coscienza. Coloro che resteranno volontariamente fuori dei sin.  dacati cortisponderanno in parte alle masse degli astenuti  nelle odierne elezioni a suffragio universale. In base a quale criterio si misurerà il numero di voti da attribuirsi a ciascuna categoria di sindacati? E’ la  questione più scottante. Il criterio più semplice è quello  numerico. Ma così si ricade nell'atomismo individualistico  del suffragio universale. Io credo che non si debba tener conto del numero  degli iscritti al sindacato, ma della importanza della funzione economica che esso esercita nel Paese. Quindi un  sindacato di industriali metallurgici avrà una rappresentanza eguale a quella di un sindacato di lavoratori del  ferro benché questi ultimi siano molto più numerosi. E ciò perché l’importanza delle due funzioni si controbilancerà nell'economia nazionale. L'amico Settimelli dirà che questo è un criterio poco  democratico. Me ne infischio. Quali saranno i limiti posti all'esercizio del potere  dell'assemblea eletta mediante la rappresentanza sindacale?  La competenza dell'assemblea dovrà essere limitata alle  questioni prevalentemente economiche, che sono del resto  le più importanti in politica. Le questioni di famiglia, di politica estera ecc. dovranno esser risolte in parte mediante il referendum  popolare diretto ed in parte attribuite alla competenza del porere esecutivo. Non ho fatro che accennare le principali questioni. Invito tutti i giovani futuristi ad inviarmi le loro soluzioni  ai quattro problemi che ho posta, senza avere la pretesa  di risolverli definitivamente. Ma mi sembra che la questione sia matura per lo studio. E poi per noi futuristi  studio deve significare già un principio di esecuzione.È l’ora di finirla col Parlamento. Abbiamo fatto la guerra  senza bisogno del Parlamento. Senza il Parlamento sapremo fare la pace. E' ora di sbarazzare l’Italia dalle 508  incompetenze che spadroneggiano a Montecitorio. VOLT  [da: Roma futurista, DEMOCRAZIA FUTURISTA L’orgoglio italiano non deve essere, non è imperialismo  che spera imporre industrie, accaparrare commerci, inondare di prodotti agricoli. Nai difettiamo di materie prime,  e siamo una potenza di ricchezza agricola mediocre. Il nostro orgoglio italiano è basato sulla superiorità  nostta come quantità enorme di individui geniali. Vogliamo dunque creare una vera democrazia cosciente e audace  che sia la valutazione e Ja esaltazione del numero poiché  avrà il maggior numero di individui geniali. L’Italia rappresenta nel mondo una specie di minoranza genialissima tutta costruita di individui superioti alla  media umana per forza creatrice innovatrice improvvisatrice. Questa democrazia entrerà naturalmente in competizione con la maggioranza formata dalle altre nazioni, per le  quali il numero significa invece massa più o meno cieca,  cioè democrazia incosciente.   Su 1000 slavi vi sono due o tre individui. L'ultima fulminea nostra vittoria ha dimostrato che non  vi è gruppo di italiani (20, 30 o 40) che non contenga almeno 10 o 15 individui capaci di iniziativa e di direttiva  personale Abbiamo ancora da sgombrare e da bonificare le zone  morte dell’analfabetismo. Questo compito molto arduo con un nemico minaccioso alle porte è oggi compito facile e senza pericoli per la  unità e indipendenza nazionale.    Nazione ricca di individui geniali, democrazia intelligentissima. Quantità di personalità tipiche, massa di tipi  unici, democrazia che non vuole imporsi bancariamente,  industrialmente, colonialmente, ma può e deve dominare  il mondo e dirigerlo con la sua maggiore potenzialità ed  altezza di luce. Noi crediamo che l'ora è venuta di tentare tutte le rivoluzioni per liberare il popolo italiano da tutti i pesi  morti e da tutti i ceppi (matrimonio e famiglia Cattolica soffocatrice, pedantismo professorale, elettoralismo, mentalità pessimistica, provinciale mediocrista e quietista). Liberata dal giogo della vecchia famiglia tradizionale,  dal dogma dell'anzianità, l'Italia manifesterà finalmente la  sua potenza di 40 milioni d’individui italiani tutti intelligenti e capaci di autonomia. Concezione assolutamente apposta alla cretinissima concezione germanofila che voleva svalutare i 40 milioni di  individui italiani per organizzarli meccanicamente. Su] palcoscenico della razza italiana dobbiamo mettere in luce 40 milioni di ruoli diversi perché in questa luce  possa perfettamente svolgersi il valore tipico d'ognuno.(Censura) Noi non abbiamo la nevrastenica pigrizia, la neghittosità, il misticismo, il boiantismo ideologico, l’ossessione teorificatrice della Russia. Siamo pieni di senso pratico, di  tenacia costruttrice, di ingeniosità inesauribile, di eroismo  bene impiegato. Possiamo dunque dare tutti i diritti di fare  c disfare al numero, alla quantità, alla massa poiché da noi  numero quantità e massa non saranno mai come in Germania e in Russia numero quantità o massa d’inetti e di sconclusionati, LABRIOLA (vedasi) definisce la democrazia come sentimento dei diritti concreti della massa sullo Stato e sulla  Economia. Noi futuristi consideriamo la democrazia non in astratto ma bensì la democrazia italiana . Parlare di democrazia in astratto è fare della retorica.  Vi sono numerose democrazie, ogni razza ha la sua democrazia, come ogni razza ba il suo femminismo.   Noi intendiamo la democrazia italiana come massa di  individui geniali, divenuta perciò facilmente cosciente del  suo diritto e naturalmente plasmatrice del suo divenire  statale.La sua forza è fatta di questo diritto acquisito, moltiplicata dalla sua quantità valore, meno il peso delle cellule  malate (incoscienti, analfabeti). La democrazia italiana è per noi un corpo umano che  bisognerà liberare, scatenare, alleggerire, per accelerarne  la velocità e centuplicarne il rendimento.    La democrazia italiana si trova oggi nell'ambiente più  favorevole al suo sviluppo. Ambiente di rivoluzione-guerra  nel quale è costretta a risolvere tutti i suoi casi-problemi  insoluti, le cui soluzioni possono esercitare una influenza  sul suo avvenire. Necessità igienica di continua ginnastica  trasformattice, improvvisatrice. Il governo si allarma oggi nel vedere formarsi innumerevoli associazioni di combattenti. Se non fosse un governo  di miopi reazionari tremanti di paura accaglierebbe favo.  revolmente questo nuovo ritorno di vitalità italiana.    La guerra ha semplicemente svegliate le coscienze di 4  o 5 milioni di italiani che tornano oggi dalla guerra, atricchiti di una personalità politica. E’ la prima volta nella storia che più di quattro mi.  ltoni di cittadini di una nazione hanno Ja fortuna di subire  in soli 4 anni un'educazione intensiva e completa con lezioni di fuoco, di eroismo e di morte.   Spettacolo meraviglioso di tutto un esercito partito per    la guetra quasi incosciente e ritornato politico e degno di  governare. La democrazia futurista è ormai pronta ad agire, poiché  sente vibrare tutte le sue cellule vive.   Naturalmente ha un bisogno urgente di spalancare le  porte e di uscire all’aperto. I) governo si allarma, reprime  e trema, come la nonna leggendaria teme che il nipotino  pigli un raffreddore. Fuori l’aria è frizzante e salubre. Il sole, spalancato, beve il mare di liquido quasi solido saporito azzurro, tutto  spumante di raggi, tutto da bere fino all'ultimo sotso. MARINETTI  fda: Roma futurista, un SETTIMELLI  MARINETTI    FUTURISMO E PRIMO FASCISMO Settimelli commenta il Congresso di Firenze  su 1 nemici d'Italia (settimanale antibolscevico diret  to da Armando Mazza ) del 10 ottobre del 1919. I  discorso di Meorinetti al congresso apparirà su L'Ardito  del 26 ottobre dello stesso anno, ma era già apparso  tre giorni prima su I nemici d’Italia (23 ottobre). Del  discorso e della necessità dello svaticanamento  abbiamo già parlato. Ma si postula anche l'ipotesi di un  eccilatorio di giovanissimi capaci di sostituire il semato  dei vecchi, ormai da abolire. Al suo posto un consi  glio tecnico andrebbe sollecitato e stimolato da gio  vani sotto i trent'anni, a moto continuo    Si parla poi di un proletariato dei geniali, quello  degli artisti d’Italia, più o meno a nascosti od esclusi ,  che andrebbero favoriti o promossi da iniziative pub.  bliche atte all'aiuto della loro espressione. L'origine  della proposta da parte di una mente d'artista ri.  sulta evidente. Marinetti è definito, al caso, ardito  della poesia. La definizione è sempre di Settimeth,  che sostiene inoltre Marinetti sia uscito dal Con  gresso in trinonmio con Mussolini e D'Annunzio.  quello del dopo Fiume : un'alleanza politica mei fino  ad allora verificatasi. Ed è ancora Settimelli, a questo proposito, a inneggiare ai due personaggi (Marinetti e Mussolini) in un  suo scritto, già pubblicato su I nemici d'Italia # 4 set  tembre 1919. Lo riportiamo perché ci sembra significa  tivo di un legame e di un rapporto. Non è vero che  l'arte debba essere estranea alla politica, vi si sostiene.  Anzi, è proprio l'artista a darle una sua interpretazione  od un suo connotato, un suo travestimento , od usa  sua immagine fanto più nuova, quanto più ardimentose  ed ardita. Mussolini è stato capace di recepirlo, e  il fascismo è un fenomeno nuovo praprin per questo,  e d'avanguardia. La tesi di Settimelli è tipica del futurismo delle  origini o classica di un momento rivoluzionario, 0 di  rinnovamento. Ma anche Armando Mazza pubblica un  fondo il 30 Ottobre dello stesso anno sulla medesima testata (I nemici d'Italia). L'articolo non è firmato, ma è inserito sotto il titolo a quattro colonne:  Fascisti, a noi!, con un commento alle prospettive elettorali, un trafiletto in commemorazione della vittoria  nella’ ricorrenza annuale, e una colonna intestata: Ciò  che ci divide. Vi si spiegano 1 motivi di disaccordo e  distacco da tutte le altre forze politiche, quelle ew-neu  traliste e quelle del passatisma MUSSOLINI E IL FASCISMO Pensare col proprio cervello originale, liberare completamente il proprio temperamento, essere gli annunciatori  e i fondatori di una nuova mentalità: sofferenza di tutti i  momenti.   Mantenere la provria posizione di avanguardia, è cosa  da giganti.   Parteciparvi per qualche tempo è da tutti. À un certo momento rimani quasi solo: la gran parte  degli amici si arrende, brutta e spregevole nella sua viltà  mascherata di scetticismo, oppure non crede più, sopraffatta dalla vecchia e comoda mentalità. Disertano, perdono ogni ritegno, ti attaccano. Si vendicano di averli resi  sia pure per un anno intelligenti, credono di poter menomare la saldezza del tuo accizio, ti fanno recedere con i  loro atteggiamenti di commendatoria superiorità: cafoni addomesticati, provinciali inguaribili.   Vivi in un ambiente pericoloso e stancante perché senti che è creato per l’altra gente 1 mediocre, podagrosa.   Ti urti della continua ostilità.   Ti trovi dinanzi ad un avversario senza spirito, monotono, insistente.   Un avversario indegno che ha la bruttezza goffa del  rinoceronte e il rompiscatolismo della zanzara.   Hai delle donne. Tentano di tutto per convincerle a  rinsavire e ti denigrano in mille modi cercando di portarle  a qualche mediocre ronzino o a qualche nobilissimo eunuco  lucroso 0 decorativo.   Lavori. Il tuo lavoro ba sempre qualche parte che  esorbita. Mai delle amicizie, ti seguono fino ad nn certo  punto. Non possono capirti a fondo.   Sei fatto per un mondo di eroismo, di forza, di bellezza, di temerità. Le tue grandi ali t’impediscono di camminare come il gabbiano di Baudelaire. (eTe) Tutto questo è atroce, ma di colpo una vittoria ti ripaga  di tutto. Aver avuto ragione, aver visto lontano, aver costruito  un nuovo pezzo della vita, sia pure un piccolo pezzo, avere  anche per un attimo e per un millimetro contribuito allo  allargamento del mondo ti fa vibrare per la gioia dei vertici. Oggi ho questa gioia e la divido con quei pochi che  da dieci anni lavorano con me alla formazione di un ambiente intellettuale italiano libero dai professori, dai tradi.  zionali, dai gottosi (non alludo ai seguaci del romanziere  Salvator!).   E Ia nostra gioia diviene frenetica quando constatiamo  che da un'altra parte, dalla politica ci veniva incontro un  uomo formidabile, nuovo come noi, libero come noi. E'  la gioia dei minatori che s'incontrano finalmente dopo aver  forata la montagna. Un evviva , una manata di terra  sulle facce ebbre, sopra i sudori riganti e una stretia di  mano che è una prova del cuore e dei garretti.   Mentre con Marinetti e con gli altri amici lavoravamo  il campo artistico, dall'altro si muoveva Mussolini lavorando il campo politico. Ci dovevamo incontrare. Un gigante questo magnifico Mussolini! Con la forza ma anche  col peso di un grande ingegno, di un'anima vasta, di un  temperamento spaccafore, figlio di un fabbro ferraio si tira  su a suon di muscoli, di ingegno e di fegato. Supera la  più massacrante battaglia: quella contro la miseria, quella  che non potrà mai esser capita da chi non l’ha provata.  Chi è nato ricco non potrà mai essere completamente dentro la realtà e non avrà mai il collaudo delle sue energie.  Domina le folle, organizza, sbaraglia Turati, Treves, Raimondo. Galvanizza il partito socialista. Scoppia la guerra,  capisce che la neutralità sarebbe contro il socialismo € per  il medioevo autocratico. Tenta di persuadere. I mediocri  ne approfittano per liberarsi della sua grandezza. Si forma  la imbecillocrazia dell’Avanzi! Mussolini lascia il partito che  rimane acefalo e si divincola in movimenti balordi e vili.  Intanto i piedi ridono soddisfatti per essersi liberati della testa. Nasce così il Popolo d'Italia. Il primo quotidiano  veramente moderno e veramente italiano. Un ritrovo di  energie vive, spregiudicate, temerarie. Il lievito di questo  buon pane italiano nato dalla guerra. In esso tutti i vivi  si incontrano: Futurismo, Arditismo, D'Annunzio. E' una  punta sensibile e perforante, è l'effervescenza della grande  coppia italica, è il primo nucleo per una Italia nuova. Ma il quotidiano non basta a Mussolini. Uomo d'azione ha bisogno di concretare, vuol raccogliere ciò che semina giornalmente. Nasce il fascismo. Fenomeno degno della  più grande ammirazione e del più appassionante esame. Più  che un partito è una mentalità. Non si basa sulla promessa  di un certo paradiso futuro, si muove problematicamente  passo per passo alternando transigenza a intransigenza,  idealismo a realtà, arte a pratica concreta. Gli avversari del  Fascismo sono le vecchie anime che marciano solo dietro  promesse iperboliche e utopistiche, che scambiano incoerenza con duttilità, che non vivono dentro la vita vera e  vibrante, ma fra gli schemi arrugginiti di una mentalità  libera. Il Fascismo raccoglie gli italiani più intelligenti e più  moderni con la sua ferrea ossatura di concretamento fasciato da una atmosfera di sensibilità, di cordialità idealistica, di eleganza e di colore. Rende possibile la politica  anche per i temperamenti più contrari ad essa. Per esempio gli artisti e gli ironici. L'Italia abbonda di artisti e di  ironici, anzi essi formano la sua parte migliore, intellettual.  mente.   Mussolini ha avuto il grande pregio di creare un’atmosfera politica che non ripugna a questi scelti, a questi migliori. L'intelligenza disinteressata si allontana dalla politica  quando essa s'imperna sulla falsa promessa di un paradiso  certo, sul settarismo, sulla gretteria animale.   Si sta preparando in Italia quella rinascita totale, basata sull’arte che tra le più feroci ironie e gli scetticismi  più assoluti amnnunciai nella Inchiesta sulla vita italiana.  SETTIMELLI  (da: 1 nemici d'Italia, Milano, SOGNO UN GOVERNO DI TECNICI,  ECCITATO DA UN'ASSEMBLEA Cari Fascisti! Cari Arditi! V'invito ad acclamare un valoroso fascista assente, che  sarebbe qui con noi se il Governo anti-italiano di Nitti  non l’avesse condannato a tre mesi di fortezza C.,  (Grida unanimi di: Viva Mario Carli! e applausi). Il futurista Mario Carli è sfuggito alla polizia di Albricci e gode l'atmosfera igienica di Fiume italiana. Ha  brillato così una volta di più l'elasticità veramente futurista di questo poeta che sa tutti i viaggi più pericolosi  dello spirito, le esplorazioni più sottili della psicologia, i  razzi più colorati ed anche la strategia delle strade in  tumulto e il governo delle assemblee popolari. A Mario  Carli, poeta delle Notti filtrate, si deve la fondazione del  Fascio di combattimento romano, e, insieme con Settimelli, del Partito politico futurista, e del giornale Rome  futurista. Egli capeggiò tutte le dimostrazioni violente per  Fiume italiana, per la Dalmazia italiana e per la difesa  della vittoria, contro il bolscevismo rosso e nero, rinunciatario e nittiano. V'invito a gridare ancora: Viva il futurista Mario Carli! (Quazione, applausi). Lo svaticanamento. Io approvo incondizionatamente, in nome del futuri  smo e dei futuristi italiani, tutto il programma dei Fasci  di combattimento, che vi è stato esposto dal mio amico  Fabbri. Trovo però in questo programma delle lacune  gravi, sulle quali richiamo tutta la vostra attenzione.   Fascisti! Non c'è maggior pericolo, per l’Italia, del pericolo nero. Il popolo italiano, che ha saputo osare, volere e compiere l’immane sforzo eroico e vittorioso della grande guerra, decidendo, con la sua vittoria, la vittoria  del futurismo elastico, geniale, sul passatismo teutonico,  cubico e professorale, fallirebbe alla sua missione se non  sapesse energicamente liberare la bella penisola, agile e  palpitante di vita, dalla lue mortale del papato. Noi dobbiamo domandare, volere, imporre, l'espulsione del papato,  o meglio ancora, per usare una espressione più precisa, lo  svaticanamento . (Applausi, ovazione)    L'Eccitatorio. Continuando nell'analisi del Programma dei Fasci di  combattimento, trovo l'abolizione del Senato, al quale si  sostituirebbe un Consiglio nazionale tecnico. Ebbene: io  vi dichiaro che il concetto di tecnicità è importantissimo,  ma non basta. Il Senato rappresenta nella storia dei popoli un costante ossequio alla saggezza dei vecchi, chiamati intorno al potere per frenarlo, maturarne i propositi,  dirigerne le decisioni. La concezione del Senato, simile  a quella del coro nella tragedia greca, ha singolarmente  appesantito, imbrogliato, buroctatizzato e ritardato il progresso spirituale e materiale delle razze. I legislatori hanno sempre sognato di frenare il potere del Governo. Essi ignoravano dunque che potere significa frenare. Essi ignaravano che un Governo è sempre più o meno un carabiniere. Nulla di più assurdo che  il porre un carabiniere a sorvegliarne un altro. Mettiamo:  gli al fianco, piuttosto, un sovversivo, un rivoltoso, un  eccitante. Ed ecco nata la concezione dell’Eccitatorio, organo animatore, semplificatore e acceleratore, che in una  razza come la nostta, piena di precoci geniali, sarà Ja miglior difesa della gioventù e la migliore garanzia del progresso e di alta spiritualità. Io sogno in Italia un Governo di tecnici eccitato da un’assemblea di giovanissimi, al  posto dell’attuale Parlamento di oratori incompetenti €  di dotti invalidi, che si fa moderare da un Senato di moribondi.   Il Consiglio tecnico che rimpiazzerà il Senato dovrà  dunque essere composto di giovanissimi, non ancora trentenni. Insisto su ciò, poiché in Italia si usa invitare i giovani al potere e si considera poi virile e giovanissimo un  uomo di 55 anni. Salandra grida: Avanti i giovani! Ma  tutti con lui temono i giovani, mettono in quarantena un  quarantenne come un coleroso, un cinquantenne come un  dinamitardo, e considerano un sessantenne come un audace quasi maturo per il governo d’Italia! Occorre un Eccitatorio di giovanissimi, per evitare un  Consiglio tecnico di vecchi, che dopo aver tenuto inutilizzato per molto rempo il loro ingegno tecnico non sanno più che tecnicamente morire.   La vita italiana si riduce ancora ad una convivenza  cretina di quadri d'antenati senza autorità e senza prestigio, che spandono intorno, in una penombra tediosa, pessimisino, pedantismo, austerità professorale, verbalismo patriottico e polvere di Roma antica, e in mezzo ai quali si  aggira sporca, taccagna, provinciale, brindellona, la servaccia che fa tutto male, tiene malissimo la casa, non  vuo! migliorare nulla, perde la giornata a verificare i conti di cucina, ha sempre paura di spendere e di rovinarsi,  ed è tronfia perché sa fare una minestra non troppo salata che costa poco.   T quadri d’antenati si chiamano Boselli e Salandra: la  servaccia si chiama Giolitti o Nitti. (Quazione)   Contro i quadri d'antenati e la servaccia, poi propo  siamo un eccitatorio di studenti e di Arditi futuristi.    Arditismo. Scuole di coraggio fisico e patriottismo. Una terza lacuna io trovo nel programma dei Fasci  di combattimento, e riguarda la scuola. L'amico futuri  sta Fabbri ha precisato genialmente la grande e necessa  ria riforma completa della scuola. To credo petò che tutto si potrebbe ottenere, e forse  anche un al di là meraviglioso che superi il tutto sogna.  ta, mediante un'imposizione assolutamente ferrea, dirò  meglio feroce, della ginnastica nelle scuole.   Si deve giungere anche presto, oltre che a tutte le forme d'insegnamento pratico e tecnico, nelle officine e nei campi, alle scuole viaggianti, 0, per meglio dire, viaggi  d'istruzione, e a dei veri corsi o scuole di coraggio fisico  e di patriottismo. Bisogna ogni giorno, nella giocondità di una vita all'aria aperta, con un predominio assoluto del giuoco sulla lettura, parlare dell'Italia divina ai ragazzi italiani, insegnare loro, accanitamente, il coraggio fisico e il disprezzo del pericolo, e premiare dovunque l'audacia temeraria  e l'eroismo.   Le scuole di coraggio fisico e di patriottismo devono  rimpiazzare nelle scuole gli oramai preistorici e troglodi.  tici corsi di greco e di latino.   Noi futuristi siamo convinti di preparare così quel  tipo di cittadino eroico che saprà difendersi da sè, veramente capace di libero pensiero e di libero cazzotto, e  che renderà assolutamente inutile l'esistenza delle polizie,  delle questure. dei carabinieri e dei preti. Ferruccio Vecchi. Il mio amico futurista Mario Carli, capitano degli Arditi, e il capitano Vecchi, capi dell'Associazione degli Arditi, hanno sentito come me, nascere dal futurismo e dalla guerra, l'Arditiswo, nuova sensibilità di patriottismo eroico e rivoluzionario. ]l giornale L'Ardito, diretto dal  capitano Vecchi, il celebre sfasciatore dell’Avanti! è un  forte giornale che si deve consigliare ai giovani italiani.  {Qvazioni)   Verrà forse un giorno in cui avremo in Italia quelle  scuole di pericoli che io proponevo dieci anni fa nei primi manifesti futuristi e che furopo realizzate durante la  guerra nelle esercitazioni quotidiane degli Arditi (avanzata carponi sotto un tiro radente di mitragliatrici; aspettare senza chiudere gli occhi il passaggio radente di una  trave sospesa sulla testa, ecc.). Il proletariato der geniali  Ed ora voglio colmare un'altra lacuna dei programma, parlandovi del solo proletariato veramente dimenticato ed oppresso: l'importantissimo proletariato dei geniali. È indiscutibile che Ia nostra razza supera tutte Je razze per il numero stragrande di geniali che produce. Nel  più piccolo nucleo italiano, nel più piccolo villaggio, vi  sono sempre sette, otto giovani ventenni che, fremono  d’ansia creatrice, pieni di un orgoglio ambizioso che si  manifesta in volumi inediti di versi e in scoppi di eloquenza sulle piazze, nei comizi politici. Alcuni sono dei  veri illusi, ma sono pochi. Non potrebbero giungere al  vero ingegno. Sono però sempre dei temperamenti a fondo geniale, cioè suscettibili di sviluppo e utilizzabili per  accrescere l’intellettualità geniale di un paese. Il movimento artistico futurista, da noi iniziato 11  anni fa, aveva precisamente per scopo di svecchiare brutalmente l'ambiente artistico-letterario, esautorarne e distruggerne la gerontocrazia, svalutare i criteri e i professori pedanti, incoraggiare tutti gli slanci temerari dell’ingegno giovanile, per preparare una atmosfera veramente  ossigenata di salute, incoraggiamento ed aiuto a tutti i  giovani geniali d'Italia. Incoraggiarli tutti, centuplicarne  l'orgoglio, aprire davanti a loro tutti i varchi, diminuire  al più presto, così, il numero dei geniali italiani falliti  e stroncati. Il futurismo radunò molti di questi giovani geniali.  Fra di loro, nella vampa futurista, ingigantirono e brilla  rono: Boccioni, Russolo, Buzzi, Balla, Mazza, Sant'Elia,  Pratella, Folgore, Cangiullo, Mario Carli, Funi, Sironi,  Chiti, Jannelli, Nannetti, Cantarelli, Rosai, Baldassari, Galli, Depero, Dudreville, Primo Conti, i geniali creatori del  Teatro Sintetico: Bruno Corra e Settimelli, e i valorosi  scrittori futuristi di Roma futurista, Rocca, Bottai, Federico Pinna, Volt e Rolzon, altissima bandiera d'’italianità  in America.   Con meravigliosa elasticità passando dall'arte all’azione politica, questi giovani furono con me dovunque nelle nostre primissime dimostrazioni contro l’Austria durante  la battaglia della Marna, in prigione per interventismo e  sui campi di battaglia. Propongo che in ogni città siano costtuiti dei palazzi  che avranno una denominazione sul genere di questa:  Mostra libera dell'ingegno creatore. Tn tali palazzi: Verrà esposta per un mese un’opera di pittura,  scultura, plastica in genere, disegni di architettura, disegni di macchine, progetti di invenzioni. Verrà eseguita un’opera musicale, piccola o grande, orchestrale o pianistica di qualsiasi genere, di qual:  siasi forma, di qualsiasi dimensione. Verranno letti, esposti, declamati poemi, prose,  scritti di scienza di ogni genere, d'ogni forma, d'ogni dimensione. Tutti i cittadini avranno diritto di esporre gratuitamente.  Le opere di qualsiasi genere o valore apparente  anche se apparentemente giudicate assurde, cretine, pazze,  immorali, saranno esposte o lette senza giuria.   Con queste mostre libere e gratuite del genio creatore,  noi futuristi ci opponiamo a un pericolo gravissimo: quel  lo di vedere nella marea delle ideologie che rissano intorne alle formole del comunismo e della dittatura del prolerariato, il naufragio dello spirito. Difendiamo il cervello! Vi sono fenomeni dovuti alla stanchezza prodotta dal  la guerra, alla manîa plagiaria, alla miopia provinciale,  alla verbosità giornalistica e alla vigliaccheria conservatrice.  Si tenta dovunque di divinizzare il lavoratore manuale e  d'innalzarlo al di sopra del lavoratore intellettuale, No, italiani: il futurismo politico si opporrà accanita.  mente ad ogni volontà di livellamento. Tutto, tutto sia concesso al proletariato manuale, salvo il sacrificio dello  spirito, del genio, della gran luce che guida. Alle classi  oppresse, ai lavoratori che stentano, sia sacrificata tutta  la plutocrazia parassitaria del mondo. Voi fascisti interventisti sapete che la nostra grande  guerra rivoluzionaria è stata osata, voluta, imposta e tenacemente portata alla vittoria finale da una minoranza  di intellettuali. Erano i migliori, i meno tradizionali, i  più futuristi. Mentre tutto il popolo era ancora immerso  nella quiete pacifista, essi videro la necessità di guerra,  si separarono brutalmente da altri intellettuali, da quelli  che dello spirito altro non hanno che le qualità negative,  pedantesche, culturali, reazionatie, quietiste. Contro e so:  pra il piombo del vecchio intelletrualismo professorale e  vigliacco dei Benedetto Croce e dei Barzellotti, contro l’intellettualismo cavilloso e avvocatesco dei Treves e dei Turati, si scagliarono gli spiriti veramente puri, lirici e creatori, per segnare la via da seguire.   Fra questi, Gabriele D'Annunzio, che volò su Vienna  e regalò Fiume all'Italia. Fra questi Benito Mussolini, il  grande Fututista italiano, che impavido nel campo trincerato del suo Popolo d’Italia ha difeso alle spalle noi combattenti al fronte contro le ondate dei nemici interni, portando le città italiane dal lurido episodio di Caporetto  alla storia ideale di Vittorio Veneto (Applausi).  Gli artisti faranno finalmente del governo un’arie disinteressata, al posto di quello che è ora, cioè una pedantesca scienza del furto e della vigliaccheria.  eri Io credo che le istituzioni parlamentari siano fatalmenre destinate a perire. Credo anche che la politica italiana  sia destinata a un inevitabile fallimento, se non si nutrirà  di questa forza viva: gl’ingegneri creatori d’Italia, sbarazzandosi di queste due malattie italiane: l'avvocato e il  professore. Genio creatore, elasticità artistica, praticità sintetica,  velocità improvvisatrice ed entusiasmo fulmineo: ecco le  belle forze che spiegano la vittoria del 15 giugno sul Piave e quella di Vittorio Veneto (Applausi).    Artisticamente improvvisando tutto, e con genio creatore, la mia bella autoblindata dell'ottava Squadriglia al  comando del capitano Raby guadava come una torpediniera i torrenti gontiati. Poi si slanciava giù dalle monta.  gne carniche col tuffo frenetico fulmineo di un pugnale  d'Ardito nella smisurata pancia idropica dell'esercito austriaco disfatto, e schizzava fuori dalla schiera contro  Vienna.   Artisticamente, il genio creatore di D'Annunzio conquistò Fiume italiana.   In Fiume italiana, io provai recentemente il più acuto spasimo di guida della mia vita, nel gualcire un pacco  di corone austriache deprezzate a pochi centesimi dalla nostra vittoria.   Gioia forsennata di stritolare così finalmente il cuore  finanziario, militare, passatista del nemico ereditario, fra  le mie mani ancora frementi della vibrazione della mia  mitragliatrice di Vittorio Veneto! (Ovazione). MARINETTI  [da: L’Ardito, MARINETTI  MARIO CARLI  MINO SOMENZI    SECONDO FUTURISMO  E FASCISMO-REGIME ll 1923 è un po' l'anno di apertura del futurismo dopo la ritirata e il distacco dal fascismo del II  Congresso di Milano al nascente fascismo-regime (secondo la definizione di De Felice), quello dell’assestamento o dell'e ordine (che si consoliderà il 3 gen  naio 1925). Marinetti si accosta in un certo senso al  nuovo governo con una richiesta in forma di mani  festo al Governo Fascista del 1° maggio 1923.   Col manifesto e con l'affermazione di un certo qual  futurismo mussoliniano , 0 nel sottolineare la realizzazione di un programma minimo futurista da par  te del fascismo, Marinetti cerca di porsi in buona luce  e di far accettare le sue proposte al governo fascista.  ll programma fu in linea di massima approvato da  Mussolini. Quel Mussolini che comincerà a venir illustrato e celebrato anche dai futuristi, forse molte volte  in buona fede per l'effettiva sua vicinanza alle tesi ed  al dinamismo tipico di Marinetti e delle sue teorie.  Tuttavia Mario Carli nel '26 pubblica nel suo li  bro Fascisma intransigente wn articolo a suo tempo se  questrato e che risuona echi di sinistri miraggi . S'intitola Natale senza luce e si riferisce probabilmente al  Natale del ‘21, dopo l'impresa di Fiume cui Carli aveva  ben ardentemente partecipato: si augurava inutilmente  C. che l'impresa di Mussolini (la marcia su Roma)  continuasse quella breve esplosione innovatrice della  nuova Italia della Vittoria (la marcia su Ronchi). Ma  le vecchie pance e le vecchie barbe tengono invece  il canzpo della vita nazionale e la manovra parla  mentare domina ancora tutto il congegno di governo .  Marinetti sul numero 9 del 2-11-1932 del nuovo Futurismo, esprime aminirazione ed esalta lo spirito  rivoluzionario della Mostra nel decennale della Rivoluzione (svoltasi a Roma). Intitola Varticolo Stile futurista e vuole commemorare in certo senso uno stile degli  anni d'oro dello spirito interventista e rivaluzionario da  cui è nato il fascismo, quello così detta antemarcia. Sul terzo numero di  SunWElia, che è secondo titolo di Futurismo, generoso  tuttavia di perticolare spazio cd attenzione at problemi  dell'architettura, Mino Somenzi intitola un suo pezzo  a IT Duce e il futurismo, e vi sostiene la necessità di  Mussolini, come capo del governo, di non essere né  futurista né passatista. Per il superiore equilibrio sulle  parti che la sua posizione richiede. Tuttavia le simpatie  di Mussolini non possono non andare ai futuristi, dice  Somenzi, quali novatori e sostenitori dell'arte d'avanguardia italiana. In questo sensa i futuristi non possono  non guardure a lui come ad un appoggio e ad un sostegno, come del resto egli medesima più volte si è dimostrato. E qui forse, in questa tesi, vediamo tutta la  posizione ed il carattere del secondo futurismo .  Ancora sulla stessa testata del 4 aprile ’34, n. 64.  un grande intervento centrale di prima pagina su Ventitre marzo futurfascista, mette in rilievo i caratteri comuni di futurismo e fascismo, anche quelli per cui  molti fascisti non st identificano con i futuristi ed anzi  simmedesimano nel loro contrario essendo dei rimorchiati che non hanno assorbito lo spirito diciannovi  sta e rivoluzionario delle origini . I DIRITTI ARTISTICI PROPUGNATI  DAI FUTURISTI ITALIANI Manifesto al governo fascista    Mio caro Marinetti, approvo cordialmente la tuu  iniziativa per la costituzione di una Banca di Credito  specialmente per gli Artisti. Credo che saprai sormontare gli eventuali ostacoli dei soliti misoneisti. Ad ogni modo questa lettera può servirti di viatico.   Ciao, con amicizia, MUSSOLINI Vittorio Veneto e l’avvento del Fascismo al potere costituiscono la realizzazione del programma minimo futurista lanciato (con un programma massimo non ancora raggiunto) 14 anni or sono da un gruppo di giovani audaci  che si opposero con argomenti persuasivi all'intera Nazione  avvilita da un senilismo e da un mediocrismo paurosi dello  straniero.   Questo programma minimo propugnava l’orgoglio italiano, la fiducia illimitata nell’avvenire degli italiani, la distruzione dell'impero austroungarico, l’eroismo quotidiano,  l’amore del pericolo, la violenza riabilitata come argomento  decisivo, la glorificazione della guerra sola igiene del mondo, la religione della velocità, della novità, dell’ottimismo e  dell’originalità, l'avvento dei giovani al potere contro lo spirito parlamentare, burocratico, accademico e pessimista. La nostra influenza in Italia e nel mondo è stata ed è  enorme. Il Futurismo italiano, tipicamente patriottico, che  ha generato innumerevoli futurismi esteri, non ha nulla a  che fare coi loro atteggiamenti politici, come quello bolscevico del Futurismo russo divenuto arte di Stato.   Il Futurismo è un movimento schiettamente artistico e  ideologico. Interviene nelle lotte politiche soltanto nelle  ore di grave pericolo per la Nazione.   Fummo primi fra i primi interventisti; in carcere per interventismo a Milano durante la Battaglia della Marna;  in carcere con Mussolini nel 1919 a Milano per attentato  fascista alla sicurezza dello Stato e organizzazione di bande  armate.Abbiamo creato le prime associazioni degli Arditi e  molti tra i primi Fasci di combattimento. Divinatori e lontani preparatori della grande Italia di  oggi.   Noi futuristi siamo lieti di salutare nel non ancora quarantenne Presidente del Consiglio un meraviglioso remperamento futurista. Da futurista, Mussolini ha parlato così ai giornalisti  esteri: Noi siamo un popolo giovane che vuole e deve crea  re e rifiuta d'essere un Sindacato di albergatori e di quardiani di museo. Il nostro passato artistico è ammirevole.  Ma, quanto a me, sarò entrato tutt'al più due volte in un  MIUSCO. Recentemente Mussolini ha pronunciato questo discorso tipicamente futurista:    Il Governo che ho l'onore di presiedere è Governo  di velocità, nel senso che noi abbreviamo tutto ciò che  significa ristagno nella vita nazionale. Una volta la burocrazia si addormentava sulle pratiche emarginate. Oggi tutto deve procedere con la massima rapidità. Se tutti procederemo con questo ritmo di forza e di volontà e di allegrezza, supereremo la crisi, la quale, del resto, è già in  parte superata. lo sono lieto di vedere il risveglio anche  di questa Roma che offre lo spettacolo di officine come  questa. lo atfermo che Roma può diventare centro industriale. 1 romani devono essere i primi a disdegnare di  vivere soltanto sulle loro memorie. Il Colosseo, il Foro  romano sono glorie del passato: ma noi dobbiamo costruire le glorie del presente e del domani Noi siamo la generazione dei costruttori che col lavoro e con la disciplina  del braccio e intellettuale vogliono raggiungere il punto  estremo, la meta agognata della grandezza della Nazione  di domani, la quale sarà la Nazione di tutti i produttori  e non dei parassiti . Con Mussolini il Fascismo ha ringiovanito l'Italia.   Spetta a Lui l'aiutarci nel rinnovamento dell’ambiente  artistico ove permangono uomini e cose nefaste.   La rivoluzione politica deve sostenere la rivoluzione  artistica, cioè il futurismo e tutte le avanguardie. DOMANDIAMO: DIFESA DEI GIOVANI ARTISTI ITALIANI  NOVATORI in tutte le manifestazioni artistiche promosse dallo Stato, dai Comuni e private. Esempi: Alla Biennale di Venezia furono invitati avanguardisti e futuristi stranieri {Archipenko, Kokoschka, Campendonk), mentre non furono mai invitati i futuristi italiani  (creatori di tutti i futurismi). Bisogna sradicare questa ignobile antitalianità sistematica!    c) Al Teatro della Scala {che ha la funzione di rivelare, glorificandoli, i nuovi musicisti italiani) si danno ogni  anno due opere di Wagner e nessuna (o quasi nessuna)  di giovani italiani. Si preferiscono cantanti stranieri inferiori ai nostri, Bisogna sradicare questa ignobile antitalianità sistematica! Il Teatro di Siracusa non può essere riservato alla  gloria dei classici greci! Domandiamo che, alternativamente  alle rappresentazioni delle opere classiche, si svolga un concorso per un dramma moderno pittoresco adatto all'aria  aperta di un giovane siciliano da premiarsi e incoronarsi solennemente nel teatro stesso. (Proposte Marinetti, Prampolini, Jannelli, Nicastro, Carrozza, Russolo, Mario Carli, Depero, Cangiullo, Giuseppe Steiner, Volt, Somenzi, Azari,  Matasco, Dottori, Pannaggi, Tato, Caviglioni, Paladini Raciti, Mario Shrapnel, Raimondi, G. Etna, Sportino-Bona,  Cimino, Soggetti, Rognoni, Masnata, Mortari, Piero Illari,  Rizzo, Soldi, Leskovic, Buzzi, Casavola, Clerici, Caprile, Scirocco),  ISTITUTI DI CREDITO ARTISTICO ad esclusivo beneficio degli artisti creatori italiani.   Come si aprono delle Banche di credito a favore delia  industria e del commercio, similmente si dovranno creare appositi Istituti che sovvenzionino manifestazioni artistiche  o Istituti d'arte industriale o anticipino denaro agli artisti  per il loro lavoro (manoscritti, quadri, statue, ecc.) i loto  viaggi di isttuzione o di propaganda.   Tali Istituti di credito potranno avere carattere privato (Società anonime per azioni) o governativo (enti e  fondazioni). Nel primo caso la nascita di tale Istituto è  legata alla maggiore o minore buona volontà e mumero  degli aderenti. Nel secondo caso il capitale necessario satebbe sicuramente e prontamente realizzabile solo che lo  Stato decretasse un'imposta od una ritenuta anche minima,  ma estesissima, sui redditi di guerra, sui patrimoni, ecc.,  o mediante una sottoscrizione nazionale ad iniziativa statale.   L'Istituto agirebbe poi come una Banca per gli artisti,  accetterebbe depositi di opere d'arte, e in base alla valutazione reale darebbe sovvenzioni od aprirebbe crediti.   L’opera d’arte giacente costituirebbe un deposito fruttifero per il depositante e per l’Istituto stesso che promuoverebbe iniziative artistiche, vendite, ecc. Così l'artista e  l'opera d’arte sarebbero valorizzati.   Questi Istituti potrebbero intraprendere concessioni di  mutui a favore d’'industrie artistiche e ottenere l’uso di  palazzi per adibirli ad abitazioni di artisti, d’istituzioni artistiche od aprirvi periodiche mostre. (Proposta Prampolini,  Marinetti, Russolo, Cangiullo, Depero, Settimelli, Mario  Carli, Buzzi, Matasco). DIFESA DELL’ITALIANITÀ.  Italianizzazione obbligatoria immediata degli alberghi (tutte le diciture, insegne, liste delle vivande, conti, ecc.,  in lingua italiana), dei negozi e della corrispondenza commerciale. Mezzi automatici per propagare la lingua italiana  senza spese. (Proposta Marinetti, Russolo, Buzzi, Folgore,  Mario Carli, Settimelli, Depero, Cangiullo, Somenzi, Marasco, Rognoni. Italianizzazione della nuova architettura contro l'uso  sistematico di plagiare le architetture straniere. Cominciare  questa italianizzazione in tutti gli edifici statali, specialmente nei paesi redenti. (Proposte Virgilio Marchi, Depeto, Russolo, Buzzi, Somenzi, Azari, Marasco, Prampolini, Folgore, Volt. Italianizzazione obbligatoria delle edizioni e dei caratteri tipografici. Proposta Frassinelli, Rampa-Rossi. ABOLIZIONE DELLE ACCADEMIE, Istituti di Atte e Scuole professionali. Gl’attuali sistemi d'insegnamento nan corrispondono alle esigenze estetiche dell'evoluzione dell’arte attraverso i  tempi. L'arte non si insegna. Gli attuali diplomati non sono  né tecnici competenti né artisti.    Abolizione delle Accademie di Belle Arti e Professionali senz’altre sostituzioni. (Proposta Marasco).  PROPAGANDA ARTISTICA ITALIANA ALL'ESTERO mediante un Istituto Nazionale di propaganda artistica all’estero che tuteli glì interessi artistici ed economici degli artisti italiani.   Questo Istituto dovrà essere diretto da giovani artisti  stimati all’estero e che propugnino con italianità il genio  novatore italiano Avrà commissioni permanenti riguarda  ti le varie arti e uffici di corrispondenza nei principali  centri artistici esteri. Agirà mediante conferenze, concerti,  esposizioni e pubblicazioni periodiche di propaganda. (Proposta Prampolini, Russolo, Buzzi, Volt, Marasco). CONCORSI LIBERI D'ARTE.    Utilizzare una parte del denaro che lo Stato spende  attualmente per l'arte in concorsi di poesia, plastica, architettura, musica, riservati ai giovani non ancora venticinquenni, da premiarsi mediante un referendum popolare. (Proposta Balla, Marinetti, Marasco).  AFFIDARE L'ORGANIZZAZIONE DELLE FE.  STE NAZIONALI E COMUNALI (cortei, gare sportive,  ecc.) ai gruppi d’artisti d'avanguardia italiani, i quali hanno ormai provato in modo incontestabile la loro genialità  innovatrice, fonte di quell’ottimismo che è indispensabile alla salute della Patria. (Proposta Depero, Azari, Marinetti, Marasco).  AGEVOLAZIONI AGLI ARTISTI. Riconoscimento legale da parte del Governo dei  diritti d'autore per gli artisti delle arti plastiche, sul maggior prezzo raggiunto dalle opere loro, attraverso le vendite successive, mediante una istituzione simile alla Società degli Autori . Abolizione delle tariffe doganali internazionali sia  riguardo le importazioni che le esportazioni delle opere  d’arte moderna. (Proposta Prampolini, Depero, Azari, Marasco, Marinetti, Volt). CONSIGLI TECNICI CONSULTIVI formati da  artisti ed eletti fra artisti con una rappresentanza proporzionale delle tendenze d'avanguardia. Questi Consigli Tecnici consultivi avranno lo scopo di tutelare gl’interessi degli artisti nei rapporti con le istituzioni statali, comunali,  private e gli artisti stessi. {Proposta Prampolini, Marasco, Marinetti, Volt)  RAPPRESENTANZA PROPORZIONALE. Le avanguardie artistiche italiane dovranno essere invitate a partecipare con una rappresentanza proporzionale  a tutte le manifestazioni e cariche artistiche statali, comunali e private. (Proposta Prampolini, Marasco, Marinetti, Volt). CONSORZIO INTERNAZIONALE per la tute.  la degli interessi artistici ed economici degli artisti d'avanguardia. Questo Consorzio dovrebbe proporsi l’accentramento delle migliori istituzioni artistiche di avanguardia,  per la solidarietà, la difesa e la propaganda artistica ed  economica. (Proposta Prampolini, Marasco, Marinetti,  Volt). Per la Direzione del Movimento Futurista  e per tutti i Gruppi Futuristi ltaliani MARINETTI   NATALE SENZA LUCE  sequestrato). Chi fu legionario di Fiume non potrà mai dimenticare le rosse giornate natalizie di quattro anni fa, con  le quali si conchiudeva tragicamente e desolatamente una  breve ma non ingloriosa epopea. Il ricordo ha poi un  valore particolare per chi lo avvicini al pensiero della  situazione politica odierna, che ha qualche vaga analogia  con quella che segnò la fine di un generoso sforzo della  nuova Italia.   Il sangue fraterno di quelle Cinque Giornate non è  stato ben vendicato. Pareva a molti di noi che la Marcia  su Roma dovesse continuare quella di Ronchi per dare  alla nostra grande Patria una nuova fisionomia di potenza e per vivificarla di un nuovo afflusso di giovinezza. Ma la spinta rinnovatrice della generazione di Vittorio Veneto si è, ahimé, fiaccata nel labirinto delle vecchie pance e vecchie barbe che tengono tuttora il campo  della vita nazionale. E sul tempo d’arresto che oggi fa  segnare il passo alle orgogliose avanguardie d'impero, la  sagoma immortale del cavalier Giolitti si profila  come quattro anni fa a rassicurare il mondo che l’Italia è ancora quella mediocre, umile nazioncella di molte  chiacchiere innacue ma di pochi fatti pericolosi, e che  agni tentativo di virilizzarsi e impennarsi in alati eroismi,  è destinato al più pietaso insuccesso. Sembra a ben considerare i più recenti avvenimenti che il sogno di una politica più alta, più rettilinea,  più forte, sia una morbosa fantasia di cervelli malati; e  che una sola specie di politica sia possibile: quella che  ha nome Giolitti. Vale a dire: quella basata sull’intrigo,  sul compromesso, sulla pattuizione, sull’arte di farsi ricattare. La manovra parlamentare domina ancora tutto il congegno di governo. E’ pacifico che non si governa coi  parlamenti, poiché essi sono l’antigoverno per  eccellenza: ma è altrettanto pacifico che questo popolo italiano rabbiosamente ingovernabile non vuol rinunciare al suo  bravo Parlamento, fonte di ogni male, serbatoio di ogni  decadenza. Contro questa massima cloaca nazionale (parlo, s’intende, dell'Istituto, non degli uomini) il Fascismo è andato a impantanarsi pazzescamente. Il Fascismo ha commesso questo gravissimo errote iniziale: di non saltare  a pié pari il Parlamento. Viceversa vi si è sentito attratto,  ha voluto saggiarne le delizie, ha voluto conquistare questa quota a colpi di scheda mortificando la sua anima  guerriera quando avrebbe dovuto farla saltare a colpi  di bomba. E certi errori sono troppo gravi perché non  si debbano scontare.    Tuttavia, non si potrà negare a noi irriducibili antiparlamentari, a noi rimasti fuori dell'aula per volontà premeditata, e quindi immuni da interessi e da schiavitù  elettorali, it diritto di tener fede ai principi per quali s'iniziò la battaglia, e soprattutto alla nostra accesa spiritualità di italiani #4ovi: nuovi nella mente, nel temperamento, nell’educazione, nella passione. Anche se tutto  crollasse attorno a noi, e il nostro sogno trilustre, perseguita con appassionata tensione di nervi e di cervello, dovesse ridursi in polvere di macerie, noi non rinunzieremmo ad essere quelli che fummo e che siamo: cittadini di  una Patria più grande, più eroica, più possente, più dominatrice.   Mai non rinunceremo lo sappiano bene i nostri  nemici alla nostra sete d’impero, alla nostra fiamma  di grandezza, che odia la vita democratica, l’egualitarismo  ipocrita, il pietismo umanitario, l’eunuco calamento di brache. A noi conviene la formula maschia di Silla, che  per disciplinare la repubblica in dissoluzione e prepararla  all'impero, chiedeva tutti i poteri, il controllo sui tribunali civili e militari, la giurisdizione eccezionale, la legisiazione di gabinetto da sovrapporre a tutte le leggi anteriori, il diritto di battere moneta, di convocare il popolo,  di sospendere e punire i funzionari dello Stato, e infine,  di mettere fuori della legge i cattivi cittadini. A noi piace  infinitamente Ja salutare ferocia di questo Dittatore-modello, che, mentre il Senato discute se conferirgli o no  la potestà dittatoria, fa giungere nell'aula il fiero ululato  dei seimila prigionieri di Porta Collina, sgozzati al suo  segnale, e che incide sulla tabella i nomi dei Senatori  vetanti contro di lui, per ricordarsene a tempo e luogo.   Il Fascismo è venuto al potere più attraverso la spa  da di Silla che l’oratoria di Cicerone. Perché dimenticarsene? II Fascismo non ha nulla da sperare da una  sua politica di debolezza conciliatrice. I suoi nemici lo  vogliono polverizzato e disperso, e tale lo avranno se si  continuerà a ceder loro in ogni occasione. Dal 10 giugno  in poi, si può dire che l’Italia è stata governata dall'ombra dell’Aventino. Tutto questo è contro natura, contro  storia, contro giustizia. Non sono le ombre che possano  aver diritto al comando, bensì le energie luminose. Quando ci scrolleremo di dosso tutte le ombre importune che  ci soffocano come ali di corvacci e di vampiri?    Mario CARLI  [da: Fascismo intransigente, Bemporad, Firenze]   Con la Mostra della Rivoluzione si risolve finalmente,  e in modo favorevole, il grave problema della militarizzazione della fantasia creatrice mediante temi fissi da imporre agli artisti.   Molti fra i pittori, scultori e architetti, invitati a realizzare questa Mostra grandiosa, furono indubbiamente  turbati dal prestigio di queste gloriose parole che dominano ormai nella nuova storia d’Italia: interventismo, Vittorio Veneto, Mussolini, e Popolo d'Italia, Diciannove,  battaglia di via Mercanti e incendio dell’Avanti!, covo di  via Paolo da Cannobio, Casa Rossa, Lodi, Palazzo Accursio, Marcia su Roma. Legati tradizionalmente ai noti motivi idilliaci cittadinì o rurali, tramonti melanconici e ritratti statici, questi artisti sentirono subito la necessità di capovolgere il  loro spirito per disegnare nell'aria un tuffo perfetto nel  mare della novità.   Da tempo il Futurismo italiano, con il suo seguito di  avanguardie estere più o meno originali, gridava per insegnare l'invenzione a ogni costo. Quattro mesi fa il Duce, con la sua bella parola imperiosa e veloce, ordinò che  si evitasse il passatismo della palandrana di Giolitti. Suggestionati poi dal dinamismo aggressivo colorato e  tragico della Rivoluzione, essi abbandonarono la loro staticità e la classicità placida. Gli architetti incaricati di dare  una faccia nuova al vecchio e brutto Palazzo dell’Esposizione, sentirono l’assurdità di qualsiasi decorativismo simbolico, floreale, mitologico o grazioso. Le loro prime linee gettate sulla carta, rizzandosi ascensionalmente, presero lo slancio aggressivo, guerriero e minaccioso di altissime torri di acciaio o ciminiere naviganti. A me ricordano simpaticamente i geniali fasci di ascensori dell'architettura di Antonio Sant'Elia, il grande e compianto padre futurista dell’architettura moderna. Logicamente andò determinandosi lo stile della Mostra  per virtù della Rivoluzione e del suo ritmo mobile aggressivo. Si ricorda l’intero profilo d’uno squadrista. Un  dettaglio basta. Di quell’autocarro schiacciato dal peso  dei fascisti come un tino stracarico di giganteschi grappoli neri io ricordo soltanto il mosto rosso a terra e l’acutissimo odore di benzina. Quindi sintesi, dinamismo e intersecazioni di piani. Visibilità aggressività giocondità.  Questa Mostra della Rivoluzione, che tutti gli squadristi  augurano non effimera ma duratura, stabilisce la gloria  del Fascismo con uno stile rivoluzionario italiano che ha  avuto pet primi maestri Sant'Elia e Boccioni. E’, secondo  le parole di Rossoni dettemi questa mattina, il  trionfo dell’arte futurista. MARINETTI  [du: Fuiuriszo, Nel fervore della polemica pro e contro il Futurismo  molti si chiedono: come la pensa il Duce? A questo in  terrogativo i nostri avversari rispondono arbitrariamente  come saremmo ugualmente arbitrari noi volendo asserire  l'opposto di ciò che loro affermano. Per la verità il Duce  non può essere dall’una o dall’altra parte (passatismo ©  futurismo) ma nella sua specifica qualità di Capo della  Nazione non può essere passatista e futurista nello stesso  tempo. Che Egli prediliga come certuni pretendono correnti intermedie lo esclude il suo temperamento nemico  di tutti gli oscillamenti e di ogni mezzo termine. Preferisce le posizioni diritte anche le più azzardate e non è  detto quindi che si compiaccia trattenersi ad ammirare le  varie denominazioni che si dànno alla strada nel corso  di così lungo e complicato cammino com'è quello dell'arte.  Egli tende alla meta: L’arte fine a se stessa. Passatismo  e Futurismo: due colossi che se non esistessero Mussolini li avrebbe creati apposta non fosse altro, per }a gioia  patriottica di vedere scaturire dal cozzo di queste mentalità  opposte, nuove faville di luminosa genialità italiana. I  piccoli mondi che rotolano ai margini di questa battaglia  sono frammenti o scorie staccatesi, nell’urto, dal corpo  dei titani: hanno una vita effimera e quelli che precipitando come valanghe trascinano nella loro scia deboli detriti  superficiali, se sopravvivono, sono sempre alimentati dall'atmosfera incandescente generosa che emana il corpo che  li ha creati. Passatismo e Futurismo rimangono inamovibili l'uno di fronte all'altro: impossibile conciliare il  concetto conservatore tradizionale del primo col principio  rivoluzionario rinnovatore del secondo. Chi sia il più forte  non è facile stabilite: dipende da determinate condizioni  intellettuali e spirituali di tempo. Oggi però in questo secolo fascista più che le biblioteche e i musei si  moltiplicano scuole avanguardiste, impressioniste, razionaliste, novecentisie, moderniste in genere, tutte volenti o  nolenti generate dal futurismo. Volenti o nolenti: non ha valore il fatto che molti sconfessano la loto origine. E'  fatale; anzi vorremmo dire storico. Probabilmente tra cinquant’anni il mondo fascistizzato considererà Mussolini un  utopista e ogni nazione vanterà il merito di avere instaurato per prima il nuovo regime politico. Di queste infamie la storia è... maestra; solo dopo qualche secolo si  rende giustizia alla verità. Tornando al nostro argomento,  è fuori dubbio che Mussolini, valotizzatore delle gloriose  conquiste del passato, sprona i capaci a superarle sul traguardo del più fulgido domani. Quindi il futurismo rappresenta infatti quell’eroica generosa pattuglia d’assalto  che trascina l’esercito degli artisti alla conquista del nuovo. Questo fatto in sé eloquente e inconfondibile, unico  nella storia dell’arte, ha rapporti precisi in campo politico con la gloriosa epopea mussoliniana. L'inesauribile  ottimismo futurista si identifica così con il concetto generoso originale ardito del fascismo vittorioso. Senza citare  fatti e particolari di cui sono ricchi i nostri ricordi personali, in tema Mussolini e il futurismo basterà ricordare giacché l'occasione è opportuna queste tre date  significative: Boccioni vi  avrà detto che tutte le mie simpatie sono, anche nel  dominio dell’arte, per i novatori e i distruttori e per i  futuristi... Mussolini: presente adunata futurista che sintetizza vent'anni di grandi battaglie artistiche  politiche spesso consacrate col sangue. Congresso deve  essere punto di partenza non punto d'artivo Mussolini Dopo di avere concesso il suo alto patronato per le onoranze nazionali al futurista  Boccioni, Mussolini offre il PRIMO generoso contributo materiale per il trionfo della grande rassegna dell’arte futurista italiana.   A questo punto, dopo quanto abbiamo detto, ulteriori  considerazioni sono superflue come sarebbe superfluo ricordare ancora una volta l'influenza patriottica esercitata  dal futurismo sulla gioventù italiana prima durante e dopo  la guerra e il fattivo isolato contributo dei futuristi al  fascismo. SOMENZ2I  (da: Sant'Elia]  Allorché quindici anni or sono, nel palazzo di Piazza  San Sepolcro, Mussolini gettò le fondamenta di quello  edificio colossale che doveva essere il Fascismo, se nel  manipolo degli intervenuti individuò degli artisti, questi  erano soltanto ed esclusivamente artisti futuristi. Appena creati i Fasci di combattimento, i primi gruppi  che cotseto ad ingrossare le schiere che cominciavano a  formarsi furono i gruppi politici futuristi, prima, e gli  arditi di guerra e i legionari fiumani, poi, sempre per merito esclusivo dei futuristi. Il nostro Movimento diede quindi al Fascismo un  apporto qualitativo e un apporto quantitativo: inoltre diede alla creazione mussoliniana un conttibuto gigantesco  di fede cieca, di entusiasmo eroico. Vogliamo indagare il perché di questa spontanea simpatia, di questo irresistibile trasporto del Futurismo verso  il Fascismo; il perché della meravigliosa, totalitaria corrispondenza fra una cemcezione eminentemente politica ed  una concezione eminentemente artistica? Prima di tutto, troviamo che il Fascismo e il Futurismo hanno alla loro origine dei germi comuni: l’amore  disperato alla propria terra, la necessità di moto e di  azione. Dell’intervento nella grande guerra uno fece il  punto di partenza per la sognata rivalorizzazione della  patria; l’altro, lo sbocco conclusivo di quei fatti e di quelle idee che possono riassumersi nei tre principii futuristi:  Tutti 1 diritti, meno quello di esser vigliacchi . La  parola Italia deve prevalere sulla parola libertà . La  puerta, sola igiene del mondo ,   Dalle piazze affollate d'Italia si passò alle trincee insanguinate d'Italia: interventisti intervenuti: identico entusiasmo: identici sacrifici: identica volontà di far germogliare il bene della Patria dal martirio e dalla morte  dei suoi figli. E questa è già molto per dimostrare la straordinaria  affinità sentimentale, di origine e di scopi esistente tra  Fascismo e Futurismo.   Ma v'è di più. Infatti, passando dal campo delle concezioni teoretiche a quello delle espressioni pratiche, noi  vediamo il Fascismo disdegnoso di adagiarsi nei ricordi  del passato, ansioso di sciogliersi dai vincoli del presente,  protesa con gli spuardi e con tutte le energie alla conquista del domani. Avanti, avanti sempre, incita il Duce;  raggiunta una mèta, mille altre se ne profilano: occorre  raggiungere anche queste: ogni sosta è un tradimento:  ogni indugio è un delitto.   Non sona questi i principii stessi cui s’informa il  Futurismo?   E il Futurismo è tutto azione e vita: nelle sue schiere accoglie la più bella e sana gioventù d'Italia: gioventù d'anni, ma anche di spiriti. I suoi artisti creano con la stessa generosità, con lo  stesso dispregio di ogni premio e di ogni riconoscimento,  con i quali ! nostri soldati scattavano all’assalto: loro unico orgoglio, lora unica aspirazione è di poter contribuire  a che il nome d’Italia sempre più alto e sonoro e sempre  niù in estensione squilli nel mondo.   E non è Fascismo, questa?   Ma non è soltanto ciò quello che ci spiega come, fatto  mai verificatosi nella storia dell'umanità, una concezione  esclusivamente morale ed artistica abbia potuto così bene  assorbire ed assorbirsi in una concezione esclusivamente  politica e sociale   Il fatto straordinario che oggi non può non riempirci  di legittima se pur meravigliata soddisfazione, è questo:  un colosso della politica che pensa, agisce, crea, con la  ispirazione e la chiaroveggenza luminosa di un poeta: un  poeta che vive la sua arte come una battaglia politica per  la gloria della Patria sua. Né le due espressioni, fino ad  oggi antitetiche, politica e arte, s'urtano o si contrastano:  anzi si può ben dire che esse hanno così informato di sé  medesime le due personalità che concepirle in diversi atteggiamenti spirituali ci sarebbe impossibile. Come spiegare questo fatto così nuovo e così fuori del comune, se non riferendoci ad una forza incoercibile, misteriosa, ma che tuttavia sussiste, a quella forza cioè che crea in alcuni privilegiati quegli speciali stati  d'animo per cui il Genio, attraverso l'adamantina luminosità di un pensiero superiore, giganteggia e s’infutura? È indubbiamente questa forza contro la quale noi  nulla possiamo che fa di Mussolini un futurista della  stessa tempra di Marinetti e di Marinetti un fascista, degno seguace di Mussolini. È sempre questa forza che avvicinando i due crea-  tori, avvicina conseguentemente le loro due creature: è  perciò che come non potrebbe comprendersi un futurismo  non fascista così non si potrebbe concepire un fascismo  conservatore e passatista. È perciò ancora che i futuristi e i fascisti, se veri  ambedue, s’intende, non possono distinguersi: l’italiano  nuovo è un miscuglio nel valore che la chimica dì  a questa parola di fascismo e di futurismo: essi costituiscono i due elementi inscindibili e insostituibili di un  tutto organico.   Chi ha detto ai nostri giovani di chiamarsi /uturfascisti? Nessuno: eppure essi, generalmente, così amano definirsi. Inconscio, spontaneo riconoscimento di una grande verità che non può discutersi e non si distrugge.   Come altrettanto vero è che i fascisti autentici sono  ottimi futuristi. e non potrebbe essere diversamente data  l'essenza dinamica, generosa, novatrice, ottimista nella  quale il Duce vuole plasmati i nuovi italiani.   Ma come avviene, allora, che anche tra i fascisti sono  molti i contrati al Futurismo?   Perché molti sono i rimrorchiati che pur vestendo in  camicia nera e ostentando il distintivo, parlando (e purtroppo parlando solo) fascisticamente e mettendosi sempre in prima fila nei cortei, han tuttavia conservato l’anima italiana di anteguerra, pavida, gretta, piccina.   Molti altri poi, pur sentendo nel loro intimo tutto  ciò che di bello e di buono ha il Futurismo, per un senso invincibile di borghesisma, per timore di essere ridicolizzati e per desiderio di essere tenuti e rispettati quali  persone serie, dicono e non dicono, ammettono e smentiscono, concedono e negano, opportunisti rammolliti, borghesi, vigliacchi.   Ma ciò che prima o poi capiterà a costoro, che noi  sentiamo di odiare profondamente, molta ma molto di  più dei nemici nostri aperti e leali, che almeno rispettiamo, lo ha detto chiaramente il Duce nel suo recente  magnifico discorso all'Assemblea quinquennale. Per essi  non si tratta né di Fascismo né di Futurismo: si tratta di  vigliaccheria, e basta. Non han diritto neppure a chiamarsi  italiani.   Né escludiamo da questa ignominiosa schiera quei giovani d'anni che han conservato intatta l’anima dei bisavoli: che gridano doversi l’arte rinnovare e si impuntano  come muli riottosi dinanzi al futurismo: che accettano e  sì prosternano ad ogni novità che ci proviene d'oltre  confine, anche se figlia di genitori futuristi italiani, e  fanno i disdegnosi, gl’incontentabili, i superuomini verso  il nostro movimento che gli stranieri stessi ammirano come un’altra delle tante glorie italiane.    Anche questi così detti giovani non possono e non potranno mai essere fascisti sul serio, giacché essi non  hanno del Fascismo né compreso né assimilato quelle caratteristiche di spiccato futurismo che sono il rinnovamento, la velocità, il dinamismo, il continuo superarsi, la mat  cia ininterrotta verso la perenne conquista.    E lo stesso diciamo di quei critici che si fermano a  vivisezionare un'opera d’arte, isolandola dal vasto ambiente donde essa ttae la sua ragione di vita; che fanno  l'anatomia di un nostro artista senza riflettere che esso è  soltanto un membro di un corpo gigantesco. Essi dimostrano di aver perduto o di non aver mai posseduto quella  somma virtù latina, fascista e futurista insieme, che è la  virtù della sintesi soffocata in loro dalla fredda pesantezza anglo-sassone dell’analisi. Ma costoro sono i comprimatii, le comparse della nostra vita e abbiamo di già  concesso loro troppo onore di discussione. Su tutto e su tutti restano le idee: nel campo politico-sociale, l'idea fascista; nel campo artistico-spirituale.  l’idea futurista.   Ambedue han detto al loro mondo una parola non ancorta udita; ambedue hanno tracciato, ognuna nei propri  confini, la via nuova da seguire per giungere alla salvezza:  tanto l’una che l’altra si sono dimostrate possenti dinamo, generatrici di forza, di fiducia in noi stessi, dì ottimismo. di passione, di entusiasmo.   L'una, nel campo politico, ha raccolto infiniti proseliti  ovunque, e ciò in relazione ai numerosi problemi d’indole  contingente di cui ha trovato o propone le soluzioni; l'altra, nel campo più ristretto dell'arte, ha egualmente suscitato energie, ridestato gli addormentati, incitato i pigri,  rincuorato i pavidi, persuaso i dubbiosi.   Se qui dovesse attestarsi l’opera vitale sia dell'una  che dell'altra idea, già tutti i diritti esse avrebbero acquistati per l'imperitura riconoscenza della civiltà.   Ma ambedue continuano nella loro marcia ascensionale: e i critici che affermano essere il Futurismo superato ci fan lo stesso effetto di quei pochi e sparuti anti.  fascisti che affermano aver il Fascismo esaurito il suo  compito. Idee come queste nostre non possono né sostare, né  esaurirsi, né esser superate: la loro essenza stessa di continua marcia, di continua ascesa, di continua conquista  non lo permette.   Un uomo, a idea, una opera potranno esser superati: ma non l'Uomo, non l’idea, non l’opera.   Ed ora che conclusione trarremo dalla dimostrata identica struttura spirituale del Fascismo e del Futurismo, dalla dimostrata perfetta corresponsione fra loro di scopi e  d’intenti?   La conclusione è la solita: ripetiamo ancora una volta  e confermiamo che il solo artista capace di riprodurre in  tutta la sua ampiezza, in tutta la sua luce e in tutta la  sua gloria la vita nuova dell’Italia di Mussolini è l'artista  futurista e che il Futurismo è la sola espressione d'arte  degna e capace di tramandare ai posteti la vitalità, la potenza, la dinamicità dell’éra fascista. Questo diritto che noi accampiamo ci proviene da quell'identità di spirito, di tendenze, di sensibilità che fa del  Fascismo e del Futurismo un unico, perfetto blocco e che  nessuna scuola, nessuna tendenza, nessun'altra forma di  arte può vantare   E noi teniama al riconoscimento di questo nostro diritto: non perché ci spingano meschini interessi o poco  nobili ambizioni ma perché, forti di un infinito amore per  la patria nostra e di una dedizione cosciente e completa  di tutta la nostra spiritualità alla sovrumana potenza di  un'idea, al fascino gigantesco di un Genio universale, vo.  gliamo che non abbia soste il cammino trionfale che l’Italia rinnovata sta compiendo verso le sue più alte mète,  sotto il comando romano di Benito Mussolini. FuTURISMO  [da Sant'Elia]  La polemica accesasi negli Anni Trenta tra futuristi  rivoluzionari e futuristi sostanziali o di destra, è già  espressione di quel secondo futurismo, che abbia  mo visto e detto essere momento collaterale del fascismo-regime. O tentativo piuttosto di conservare la  avanguardia nell'ambito di un sistema che come tale  era più propenso ad un suo ordine intrinseco e imprescindibile da mantenere 0 da continuare. In questo  senso il futurismo di destra, come lo definisce il  sansepolcrista Bruno Corra nel marzo del ‘32 su Futurismo, vorrebbe un po’ essere quello degli arri.  vati , di chi si asside sulle comode poltrone della  fine della carriera, pur cercando di mantenere uno  Spirito 4 precedente , giovanile e innovatore, che non  può essere venuto meno in chi ha giù combattuto e  si è esposto per una causa di rinnovamento. Gli fa  eco Corrado Gawvoni riprendendo il discorso e puntualizzando il concetto stesso di futurismo, senza che  gli si debba o gli si voglia nulla rubare, come è staio  fatto da tutte le parti, e a riconoscergli invece la sua  portata e i suoi risultati.   Solo una settimana dopo ribatte Paolo Buzzi sul  numero del 26 marzo sempre di Futurismo con un  violento attacco ai futuristi di destra e il sostegno  4 un ritorno alle estrema sinistra , come già dice nel  titolo. L'’avanguardia, in quanto avanguardia e se vuol  rimanere avanguardia, non può che esercitare una  funzione di vottura per il rinnovamento ed il rivolgimeuto del vecchio e del passato. Come tale l'aver  guardia non può che essere e rimanere di estrema  sinistra , sC il futurisito si ritiene ancora uvangaar  dia 0 vuole mantenersi e vivere. Resta però forse una  voce isolata quella del Buzzi, rincalzato ancora il 2  aprile, sul numero della settimana dopo, da Remo  Chiti che postula un futurismo sostanziale in cui tutto  si annulla, destra e sinistra, nel momento stesso in  cuni tt futurismo diviene ercativo e vu libera dvi conformismi e delle convenzioni.   Ancora all'Avanguardia dedicava un quinto ed  ultimo articolo Luciano Folgore, sempre su Futurismo  dello stesso anno. Il futurismo di destra e  quello di sinistra st superano oramai nell'avanguardia  che ancora continua e sì muove nell'avanzata dell'entusiasnio. E l'ottintismo continua in effetti fino al’ultimo, anche con la fine del fascismo, anche con la  morte di Marinetti, anche con la sconfitta nella guerra  sola igiene del mondo , continua ancora nelle ulti  me gencrazioni e nel messaggio dell'ultimo manifesto,  quello del futurismo-oggi , che vive e crea nel presente. NOI FUTURISTI DI DESTRA Quando si riunirà in Roma il primo grande congresso  dei futuristi di tutto il mondo, io andrò a sedermi  vicino a Buzzi, a Notari, a Folgore, a Govoni ad un  banco dell’estrema destra. Ma esiste dunque, può esistete un Futurismo di destra? I due termini non fanno a  pugni? Un movimento rivoluzionario può contenere in sé  tendenze conservative? E, infine, l’espressione futurista di destra non val quanto futurista annacquato e  prudente non s'identifica con l’ambigua parola novecentista ?   Mi pare che qui si tratti, prima di tutto, di una questione di moralità. Dare al Futurismo quel che al Futuri  smo appartiene: e non truccare il proprio ingegno con una  etichetta di convenienza. Chi si dichiara avanguardista ma  non futurista, sputa nel piatto dove ha mangiato. Poi, io  stabilirei questo principio: che il privilegio di poter restare  nella sfera magnetica del Futurismo pure affermando, nella propria opera matura un remperamento realizzatore di  destra debba accordarsi soltanto a coloro che han dimostrato di saper essere integralmente futuristi. E reclamerei il diritto di sedermi a destra, per mio conto, in nome della mia effettiva collaborazione al Futurismo più rivoluzionario: Teatro Sintetico; Cinema futurista; e due  opete di audacissima narrazione fututista (La donna ce  duta dal cieln Sam Dunn è morto).   In realtà, fermo restando che l’essenza del Futurismo  è e non può non essere rivoluzionaria, bisogna dire che  nel nostro movimento i termini sinistra e destra non si  oppongono, perdono ciaè il loro significato convenzionale.  La mentalità futurista supera il contrasto fra il sovvertimento e la conservazione, in quanto si libera di continuo  in uno slancio creativa. Perciò un eventuale Congresso futurista dovrebbe assumere una configurazione non orizzontale ma verticale: fututisti di cima e futuristi di base, aviazione e fanteria. E soltanto per ragioni di comodo, io  qui mi son servito della parola destra.   Ma diciamo pure i fanti, i pontieri, i costruttori di strade del Futurismo, e avremo indicato il carattere e spiegato la necessità di questo settore nel nostro movimento:  l'aderenza al terreno pratico. Come l'architettura, come la  decorazione, l’arte narrativa adempie a una funzione in  gran parte pratica: da ciò l'obbligo per essa di equilibrarsi tra il dovere del rinnovamento artistico e l’imperativo degli scopi vitali ai quali la sua natura la destina.  Un romanzo illeggibile equivale a una casa senza finestre  per vederci o a una stazione dove i treni non possono circolare. Ora il Futurismo vanta la proptia aderenza al tempo attuale anche nel senso della praticità. Le case futuriste  vogliono essere le più comode: la struttura delle città futuriste mira ad assicurare i massimi vantaggi alle moltitudini che devono abitarle. Allo stesso modo il narratore futurista ambisce di garbare alle folle dei giovani, traendone  e in esse trasfondendo gli ideali tipici del nostro tempo,  per via di una tecnica intonata alla sensibilità moderna,  tutta nitidezza brevità sintetismo. Va da sé che il buon  narratore futurista dovrà ogni tanto lasciare la sua bisogna  terrestre, per collaudare ed eccitare nell’ebbrezza di un  volo lirico la propria tempra di novatore. Questa nota veloce non intende di risolvere l'importante problema al quale si riferisce: ma soltanto di proporre lo studio ai camerati futuristi.   Bruno CorRrA  Sansepolcrista  [da: Futurismo -- Con il suo articolo Noi futuristi di destra uscito  nell'ultimo numero di Futurismo, Bruno Corra ha opportunamente aperto una tempestiva discussione intorno al  movimento futurista che, secondo me, va allargata e approfondita da una serie di perentorie domande argomenti che, investendone in pieno la vita e la vitalità, richiedono altrettante risposte urgenti e risolutive,   Quali sono le origini e le funzioni del movimento futurista in Italia.   Quanti e quali sono i movimenti artistici e letterari  succedntisi in questi ultimi venti anni in Europa, che  accusano sinceramente una netta derivazione dal Futurismo.   Individuazione dei movimenti artistici e letterari che  rappresentano una deviazione e una contraffazione del  Futurismo e dei movimenti che, o fingendo d’ignorarlo,  o ammettendolo furbescamente solo attraverso la propria  attenuazione, continuano a pompargli generoso sangue e  a servirsene di veicolo sull’allegro esempio della comoda  simbiosi di Bernardo l’Eremita.   Quali sono Je vere umane ragioni per cui elementi  di primissimo ordine si dispersero e si distaccarono dal  movimento futurista dopo averne fatto parte, o. dopo averne attraversata l’esperienza (cito alcuni nomi: Palazzeschi  e Carrà; Soffici e Papini).   In che cosa consista e came vada intesa il cosidetto  contenuto polemico che, seconda certa critica nostrana, costituirebbe il peso morto e il punto d'arresto del  Fututismo.   Quale fondamento abbia l'accusa spesso rivolta al Fututismo di essere un movimento difettoso e caduco perché nato senza una dottrina estetica che lo giustifichi. Espansione influenza e fortune del Futurismo in tutto il mondo e suo riconoscimento in Italia.   Sono tutte domande che hanno bisogno per una conveniente risposta, di lunghe e minuziose trattazioni.   Ed è più che naturale e logica la irresistibile tendenza  dei nostri connazionali a sbarazzarsene con una sola parola.   Questa parola la conosciamo troppo bene: Marinetti!   Ma conosciamo troppo bene anche il grossolano  trucco, Si accarezza Marinetti (fino ad un certo punto, e il più nascostamente che sia possibile: è bene non compromettersi troppo!), per negare poi il Futurismo e massacrare i futuristi. Da troppo tempo si pratica ormai l'iniquo inganno  per non sperare che abbia finalmente a fruttare un risultato vittorioso e definitivo! È il trucco indegno tentato dagli antifascisti contro  il fascismo quando si cercava di mettere in mora il fascismo proclamando il Mussolinisma, nell’assurda canagliesca mira di dividerli, per batterli poi con più comada  separatamente.   Mussolini anche a quei tempi era trappo Duce per  non avvertire la subdola insidia e sventarla.   Marinetti! Chi più di noi l’ha più fedelmente amato  ed ammirato?   Per conoscere quali prodigiosi tesori di amore e di  energia egli possieda, bisogna vederlo all'estero. Bisogna  sentire allora con che fuoco egli è capace di affrontare  i pubblici più paurosi per numero e distinzione, più ostili  ad ogni cosa che abbia la nostra impronta di quanto non  st creda, e per mentalità, per gelosia e furore d'inferiorità;  bisogna sentirlo dominare a poco a poco col suo impeto  irresistibile gli spiriti o avversi o diffidenti, e, mentre  fa giganteggiare nelle assemblee stipate l’ombra magnanima del Duce, vederlo a trascinarle all’'entusiasmo e costringerle a riconoscere la poesia italiana come una cosa  caduta dal cielo: bisogna, dico, vedere quest'Uomo straordinario all’estero, per capire che instancabile affascinante  ambasciatore d'italianità nel mondo noi abbiamo in lui.   Se l’attività di Marinetti presenta una debolezza, questo avviene proprio in casa nostra. E' una debolezza che  è forse il suo più alto titolo di gloria. E ritorneremo sull'argomento.   Ma approfitrarsene come troppi fanno, è un mostruoso delitto.   Che cosa volete allora?, ci domanderà qualche imprudente con un sorriso allusivo.   No, no, non invidiamo il puzzo di benzina, state tranquilli: a questo volevate alludere. Ma troppe volte ricevia  136    mo in faccia la cenciata dell'insolente puzzo di benzina  per non sentirci offesi e disgustati nella nostra rassegnata  povertà.   La ragione del nostro malcontento è che da troppo  tempo noi andiamo seminando e falciando per quelli che  ci seguono e allegramente raccolgono senza nemmeno rivolgerci un pensiero di ringraziamento.   Amici cari, se ci fermassimo un po’, se ci voltassimo  un pochino indietro anche noi? Se pensassimo anche noi  di raccogliere un pugno di quelle spighe, da portarcele a  casa se non altro per ricordo e testimonianza della lunga  fatica compiuta?   Ma se lasciamo ancora correre un poco, ho paura che  ci negheranno anche questo piccolo premio di consolazione; e se ci destineranno un posto {bontà loro!), questo  non sarà che per il museo, tra le mummie di coloro che  st prodigarono e sactificarono per una fede e un ideale  e che Alfredo Panzini già propose di raggruppate in una  sola classifica con la denominazione di collezione di fessi. GovonI  [da: Futwrismo,  ESTREMA SINISTRA E non vorrei altro aggiungere. Le distinzioni, i punti fermi, Îe categorie anagrafiche non contano. Si sa  che, per taluni, l'età del destino futurista è passata da  un pezzo. Pure, quando la febbre della creazione non è  discesa e, soprattutto, quando il traguardo tremendamente  astrale della proptia Opera non è raggiunto, ci si sente,  ogni mattina, l'età magari di Vittoria, di Ala e di  Luce Marinetti...! Questo, e non altro, è il vero futurismo.  Perché dovrei sedermi a destra, proprio io? Mi sembrerebbe di tradire la causa di Aeroplani , di Ellisse €  la Spirale , di Cavalcata delle vertigini , di Popolo  canta così! di Dannazioni e di tutto il mio Teatro  inedito, ma ultra violetto, che ha forse, a suo tempo, spaventato anche i genii scenici sovversivi di Petrolini e di  Bragaglia.   Soprattutto, mi sembrerebbe di tradite le mie Opere  fantasticamente audaci di domani: Beatitudini  (affrettati mio caro Campitelli: perché l'aeroplano-razzo deve  partire per le stelle!). Canto quotidiano , dove vedrete  il Poema attimistico del 1932 (la Prora , lo sta stampando); e Nostra Signora degli Abissi : dove, fina]  mente, la Motte sarà vinta e le onde cosmiche impasteranno da pari loro la nuova genesi delle radiazioni interplanetari.    Questo è futurismo: e di ultra estrema sinistra.    Le mie anatomie sintetiche di anime e di sensi, le mie  aeropitture di tipi e di paesaggi, i miei cosmapolitismi spaziali e i miei intimismi vorticosi stanno per una intransigenza etico estetica che costituisce, ormai, la gioia (ed, un  pochino, anche la gloria) della mia lunga carriera di uomo  che ha sempre fatto dell'Arte come il sacerdote celebra  messa. Aviatore sempre, adunque: fante e stradino, non  mai. Lo so che i miei romanzi (appunto perché sempre ed  esclusivamente poemi) non hanno trovato che editori santi, martiri ed eroi. Ma anche questo è un segno nobile delle cose e degli uomini e degli eventi. In quanto alle mie  opere di Poesia pura, ho avuto la soddisfazione recente di  trovarmele analizzate e comprese e discusse ed evidentemente quindi amate da una Rivista di giovanissime  menti e di ardentissimi cuori: dico, la Penna dei Ragazzi diretta da Vittorio Mussolini, edita in Roma.   I giovani, quelli veramente degni di questo nome primaverile, sanno che, al di fuori e al di sopra d’ogni inevitabile chiasso letterario, la parola futurismo risponde  alla solo unica vera idea forza che oggi esista nella  sfera ideale del Mondo: e che è in grazia di essa, unicamente di essa, se oggi la Poesia della miracolosa Italia  fascista vive e vivrà.   Naturalmente io dico ai giovani, anche e specie se coronati dal casco d'alluminio in pieno cielo: lavorate  non accontentatevi di quattro parole intonate all’onomatopea del motore: la Poesia italiana ha ben altri diritti ed  impone ben altri doveri! guardate dalle finestre di Palazzo  Venezia, la Via dell'Impero! e cantate i nuovi Carmi degli Augusti e dei Consolari , se ne siete capaci! Il Duce  vi premierà. BUZZI  [da: Futurismo,  FUTURISMO SOSTANZIALE  Non c’è che un futurismo: quello di estrema sinistra , ha affermato Paolo Buzzi. Ma questa generosa  intransigenza che parrebbe volere ammettere un unico  modo di manifestarsi contro la premessa di Bruno Corra circa il riconoscimento o meno d'un futurismo di destra  aderente al terreno pratico rimane una questione  poetica e individuale di fronte agli argomenti che le terranno dappresso: Il futurismo non è formalista; non si crea né  si lascia creare barriere dalle definizioni; pago della propria influenza, lontano da ripulse d’ortodossia vendicativa, riconosce per suo anche quello che è tale sull’altro  name. Del resto Corra aveva scritto: fermo restando che  l’essenza del futurismo è e non può non essere rivoluzionaria, bisogna dire che nel nostro Movimento i termini sinistra e destra non sì oppongono, perdono cioè il loro  significato convenzionale. La mentalità futurista supera  il contrasto fra il sovvertimento e la conservazione, in  quanto si libera di continuo in uno slancio creativo . Le centinaia di migliaia di aderenti al Movimento non si compongono di un solo tipo di futurista. La convinzione può essere unica; ma l'ispirazione e i temperamenti saranno naturalmente diversi. Così uno stesso  tema, di sentimento futurista, verrà espresso in stili diversi.   Si dovrebbe scartare i meno intensi? Fino a quel punto? E come negarne la sostanza futurista?    3) La varietà di tipi, che documenta l’importanza  sociale del fenomeno futurista, è assoluta; e va dai poeti  ai militari, dai pittori agli industriali, ecc.   Bisogna presupporne quindi una gradazione di realiz.  zatori; gradazione intimamente connessa alle diverse si.  tuazioni ambientali o tecniche in cui i tipi si trovano. Non  si tratta qui di temperamento o di mentalità più o meno  ardenti. Si tratta di concezione e di azione che devono  spesso basarsi sul comune campo pratico dove s'incontrano il numero o la psicologia, cioè i mezzi materiali  negli scambi del pensiero e del lavoro (p. e, i giornalisti,  gl'ingegneri).   Io penso che Marinetti, quando parla nei convegni e  alle inaugurazioni, faccia con istintiva attenuazione della sua anima inquieta del futurismo di destra. Perché  allora è sul terreno pratico. E buon testimone potrebbe esserci Mino Somenzi stesso, uomo ardito, pittore d'incendi, cervello intransigente,  che pure fu l'organizzatore, modesto e alacre del I. Congresso futurista a Milano, 1924, riuscendo con l'intelligente accoglienza a dare alla manifestazione una luce  di concordia, rara nelle ancor più rare grandi adunate di  artisti e di caratteri spiccatissimi; Somenzi stesso che fondò questo giornale indispensabile alle rivendicazioni di conquiste artistiche e ideali misconosciute ed alla continuazione della tenace opera di ringiovanimento, ed accolse  dopo, con larghezza d'intenti, l'ingegno d'ogni età e d'ogni  fama purché attratto da poli positivi. Dunque, se si dovesse affermare l'essenza d’un solo  futurismo bisognerebbe dire: futurismo sostanziale , che  è poi quello del 1909, di oggi e dell'avvenire: umano, illimitato, ascendente. Le idee vitali sono al disopra degli stessi uomini che le divinano e le dettano. Esse formano il tempo , mi.  racolosamente, quasi contro tutte le volontà. Govoni, a seguito della discussione aperta da Corra, proponeva di riesaminare la posizione del  tuturismo fra le correnti nostrane ed estere. Dei sette quesiti presentati, una richiamava l’attenzione su l'accusa mossa dal culturalismo circa una pretesa assenza di dottrina  giustificante l'estetica futurista. Anche il Fascismo fu accusato di assenza di dottrina: e non dai soli avversari. Quale dottrina, quando la critica ufficiale vede attraverso la cultura, divenuta una seconda natura?    Remo CHITI  (da: Faturismo, n. 30, anno II, 2 aprile 1933] Mi ricordo che Umberto Boccioni propendeva per un  movimento chiuso e voleva che i giovani artisti, i quali  si dichiatavano futuristi e aspitavano ad entrare nel nostro  gruppo, subissero un lungo periodo di quarantena.   Secondo Boccioni non bastava proclamarsi novatore  per esserlo, in realtà; non era sufficiente una adesione più  o meno entusiastica per avere ingresso libero in un movimento che si proponeva di attuare nell'arte e nella vita  un nuovo ordine di cose. Dal suo punto di vista, puramente artistico, il creatore del dinamismo plastico non aveva torto. Il dono  della originalità non è largito che a pochi. Per superare  il già fatto, mettersi in armonia coi propri tempi e prevedere i lineamenti estetici del futuro occorre un’intelligenza ardita, geniale e di largo respiro. Ma contro l’esclusivismo boccioniano insorgeva la vibrante liberalità di Marinetti, che più futurista di ogni  altro intuiva la necessità di creare un clima, di generalizzare una tendenza, di suscitare una vasta atmosfera spirituale in cui si dovessero respirare continuamente il senso  e il desiderio della novità.   Ecco la ragione profonda del suo proselitismo, della  sua accettazione, quasi incondizionata nel movimento, di  tutti quei giovani e giovanissimi che avessero fede nel  futurismo.   Tale generosità non fu e non sarà mai faciloneria.   Nel fervore del diciottenne c'è sempre qualcosa di vivo  e di sacro che è impossibile trascurare. Ognuno di noi  sa per esperienza che è la primavera, anche con le sue  intemperanze, la stagione che prepara i germi e i frutti di  domani. E non bisogna aver paura che gli entusiasmi sbolliscano presto. Basta che la fiaccola timanga accesa e che  trascorra di mano in mano agitata e sollevata continuamente da qualcuno che ha fiducia nell’eterna giovinezza  della nostra arte e della nostra vita.   Futurismo di destra? Futurismo di sinistra? Non credo che sia il caso di parlarne. In quanto alle benemerenze  e al sacrifici, talvolta eroici, dei primi banditori del fututismo essi appartengono ormai alla storia.   L'amico Govoni vorrebbe che i futuristi della vigilia  fossero promossi al grado di santoni e avessero quel tributo di applausi e di ricompense che essi giustamente meritano. Ma ciò equivarrebbe a una giubilazione e noi rischieremmo di diventare dei sopravvissuti.   Il piedistallo e l’altare non sono il nostro posto di  combattimento.   In prima linea sempre e all'avanguardia ad ogni costo! Anche a costo di essere eternamente in contrasto con  il gusto del pubblico che è per sua natura ritardatario e  accetta soltanto il futurismo di seconda mano, addomesticato dagli abili profittatori del nostro movimento. Questo disprezzo del rendiconto e del caso personale,  questa ferma volontà di essere più giovani dei giovani è  un segno di vitalità e quindi di ottimismo. Di quell’ottimismo che molti pseudo-avanguardisti aborrono perché sono nati con la barba nel cervello, non hanno avuto mai  vent'anni e non arrivano a comprendere che soltanto nell'entusiasmo assoluto e nella fede cosciente ma senza mezzi termini c'è il lievito di ogni grandezza futura e d’ogni  poesia nuova. Chi ha il torcicollo nostalgico non può guardare dititto innanzi a sé e andare oltre speditamente.   Chi nega l'ottimismo nega lo slancio vitale che si perpetua nel tempo e nello spazio perché ricco di speranze  istintive e fornito da madre natura del vero e genvino  senso dell'immortalità.   Avanti dunque coi giovani e giovanissimi. Il clima futurista dev’essere sopratttuto un clima primaverile e  acerbo.   Luciano FOLGORE  [da: Futurismo, Abbiamo raccolto quattro testimonianze futuriste, è  sul futurismo. Una è di Alberto Sartoris, architetto,  una di Tullio Crali, pittore, una di Curto Belloli, eritico d'arte, e una di Enzo Benedetto, pittore e giornalista. Tre furono e sono futuristi: il quarto (Carlo Bel.  loli) è un esperto, studioso ed interprete del futurismo.  Ci sono sembrati interventi significativi e ittdispensabili alla puntualizzazione dell'argomento, visto che si  tratta di personaggi viventi, che hanno partecipato al  futurismo e che ancora oggi lo sostengono e cercano  di dargli alito o di vivere futuristicamente a tutt'oggi  in un mondo, forse, ricaduto nel passatismo . Crali  con l'aeropittura e la sassintesi ha continuato l'avanguardia, cui aveva aderito col futurismo che sempre  l'aveva sostenuta, al di qua e al di là del fascismo.  Benedetto con un manifesto {Futurismo oggi) e poi    con un foglio periodico operativo , capace di pro  porci il futurismo di ieri e anche quello di oggi. Sar  toris con un'ottività artistica professionale volta 4 contimuare, anche se in oltre direzioni n con altri strumenti di vicerca, la prima avanguardia cui aveva aderito  entusiasta. Belloli puntualizza e sancisce criticamente  con la profondità dell’evperto certi. rapporti e certe  colleganze , troppo spesso volutamente dimenticate 0  accantonate. La critica deve essere seria e intellettual.  mente, n ideologicamente , corretta. E° quello che  abbiamo cercato di fare. Anche con la pubblicazione  di questo testimonianze    Carlo Belloli, critico, poeza visuale di sperimen  tazione futurista, e docente nelle università svizzere di  estetica {Basilca) e storia della critica d'arte (Strasburgo). Vive a Milano e Basilea. È collaboratore de La Martinella di Milano, già del Roma di  Napoli, e della rivista Les Arts di Parigi Organizza  come consulente le mostre di numerose gallerie d'arte di Milano. Benedetto, pittore e scrittore, futurista da  sempre. È nato a Reggio Calabria nel 1905,  vive a Roma, dove ha lo studio e pubblica Futurismo  aggi, che esce dal ‘69, bimestralmente, con saggi e ri  produzioni di opere futuriste. Fu anche autore del  l'omonimo manifesto nel dopoguerra. ‘Tullio Crali, pittore futurista e aeropittore. E' nato  nel 1910 a Igalo, in Dalmazia. Vive a Milano dove ha  lo studio e il più importante archivio del futurismo  attualmente esistente. Futurista dal '29 e creatore della  camicia anticravatta e della giacca antibavero (nel '33),  é firmatario nel ‘58 del manifesto futurista sulla Sassintesi . Sarà uno degli ultimi a vedere Marinetti nel  ‘4d, prima della morte, a Venezia e e concordare can  lui la continuità del futurismo dapo la guerra    Alberto Sartoris, architeito e professore dll'Univer  sità di Losanna. Futurista e amico di Terragm e di Le  Corbusier, E' nato a Torino nel 1901. Vive a Cossonay  Ville, vicino a Losanna, Aderì al futurismo nel 1920 e  nel ‘28 sarà con Prampolini e Fillia nel gruppo torinese.  Nel ’36 fonda il gruppo degli astrattisti a Como, dove  collabora con Terragni nel progetto della città operaia  di Rebbio. Sua opera fondamentale è il li  bro Gli elementi dell’architettura funzionale (1932),  pilastro teorico del razionalismo architettonico italiano  (introdotto da Le Corbusier) FUTURISMO-FASCISMO:  OSMOSI DI DUE MOVIMENTI DELL'ITALIA  CONTEMPORANEA Dal futurismo confluirono al fascismo, o viceversa, alcuni letterati e pittori, qualche pensatore, di singolare autonomia espressiva. È il caso di Mario Carli, Emilio Settimelli ed Armando Mazza letterati e giornalisti di non trascurabile incidenza che dalla originaria militanza futurista estrassero  dialettica, argomentazioni autonome e maturazione spirituale, per assumere nel giornalismo fascista più avanzato  ruoli protagonisti.   Mario Carli, ufficiale degli Arditi nella prima guerra  mondiale e poi legionario fiumano, fondò con F.T. Marinetti l'Associazione degli Arditi d’Italia e il periodico  Roma Futurista dalle cui colonne trovarono sistematica  divulgazione il teatro sintetico, le pratiche parolibere dei  poeti futuristi e le prime prove versoliberiste di Giuseppe  Bottai che ne fu redattore.   In quel 1919 anche il generale Luigi Capello si avvicinerà ai futuristi per esporre alcune tavole parolibere di  accertata ingegnosità, alla Grande Esposizione Nazionale Futurista nella galleria centrale d'arte di Palazzo Cova a Milano, mostra successivamente presentata a Firenze  e a Genova.   Mario Carli con la raccolta di versi liberi e parole  in libertà Caproni, pubblicata a Milano nel 1925, precorse  l’aeropoesia futurista degli Anni Trenta. Alla prosa poetica, C., aveva dedicato Le notti filtrate, singolare repertorio lirico pubblicato nel 1918 e ristampato a Roma, nel 1923 per i tipi di Giorgio Berlutti  che dirigerà quella Libreria del Littorio, editrice di mo:  numenti e documenti dell'era fascista. Il suo debutto di  prosatore era avvenuto nel 1909 con un seguito di novelle, Seduzioni, cui seguirà, nel 1915, il suo primo romanzo, Retroscena. All’attività letteraria e giornalistica Mario  Carli alternerà quella politica e diplomatica. Pubblica a Firenze Fascismo Intransigente,  con prefazione di Roberto Farinacci, che inaugurerà la tendenza più oltranzista del fascismo.   Nel 1925 Carli era stato nominato Console d’Italia  in Brasile, per essere in seguito trasferito a Porto Alegre  nel 1927, anno in cui Bernardo Attolico assumerà la reggenza dell'Ambasciata d’Italia a Rio de Janeiro. La tournée brasiliana del fondatore del futurismo a  Rio de Janeiro, Porto Alegre, San Paolo e Santos, nel  maggio del 1926, troverà Mario Carli a fianco di Marinetti per arginare le polemiche causate in Brasile dalla  aperta posizione fascista dell’inventore delle parole in li  bertà.   Dalla ribalta dei teatri brasiliani Carli prenderà la  parola con Marinetti ricordando che il fascismo dei-futuristi non aveva impedito di condurre ricerche nuove nelle  arti e nell'estetica alle quali la poetica futurista aveva  aperto liberi orizzonti precisamente influenzando il modernismo sudamericano.Settimelli, poeta, scrittore di teatro e giornalista, aveva debuttato nel gruppo futurista toscano nel  1915 e con F.T. Marinetti e Bruno Corra aveva curato  la prima antologia del Teatro Sintetico Futurista, edita da  Umberto Notati, a Milano in quel medesimo anno, nella  collezione dei Breviari Intellettuali del suo Istituto  Editoriale Italiano. Settimelli pubblicherà a Firenze Mascherate e I capricci della Duchessa Pallore, edito a  Milano dalle Messaggerie Italiane. Settimelli risulta precursote di un periodare scarno e telegrafico, serrato e dialettico, inttoducendo la pratica di neologismi sociopolitici  che avranno fortuna nel linguaggio governativo e giornalistico italiano degli Anni Venti e Trenta. Il teatro sintetico di Settimelli si differenzia da quello degli altri autori futuristi per lucida imprevedibilità di azioni-stati d’animo simultanei. Nel fascismo anche Settimelli appartenne  alla corrente più revisionista e le sue Sassate, pubblicate a Roma-Firenze nel 1926 dalla Casa Editrice Italiana, col:  piranno più di un gerarca in posizione moderata e conformista.   Filippo Tommaso Marinetti redigerà con Settimelli e C. il manifesto Che cos'è il Futurismo | Nozioni elementari, dove vengono considerati futuristi nella politica coloro che amano il progresso dell'Italia più di loro stessi, quelli che vorranno liberare  l'Italia dal papato, dalla monarchia, dal senato, dal parlamento, dal matrimonio, precorrendo molti, successivi, propositi del fascismo.   Così la volontà di perseguire un governo tecnico di  giovani, senza parlamento, vivificato da un consiglio eccitatorio di giovanissimi , la determinazione di espropriare gradualmente tutte le terre incolte e malcoltivate,  preparando la distribuzione della terra ai suoi lavoratori  e l'abolizione di ogni forma di parassitisma burocratico,  industriale e capitalistico, diventeranno tipicamente nazionalfasciste e fasciorepubblicane.   Il manifesto considera, poi, futurista nella vita chi  sa dare a tempo un cazzotto e uno schiaffo decisivo ,  chi agisce con energia pronta e non esita per vigliaccheria , come chi fra due decisioni da prendere preferisce  la più generosa e la più audace, sempre che sia legata al  maggiore perfezionamento e sviluppo dell'individuo e della razza... : medesima l'etica fascista di alcuni anni dopo. Settimelli aveva dedicato un saggio  critico all'opera di Marinetti, edito a Milano con | tipi  di Gaetano Facchi, che può essere considerato il primo tentativo di analizzare la letteratura marinettiana al di sopra  del clamore scandalistico e della propaganda futurista. Settimelli pubblicherà a Roma, nelle Edizioni  d'Arte e di Critica, Come combatto che raccoglie i suoi  più polemici scritti apparsi sul quotidiano romano L’Irmpero, diretto con Mario Carli.   Verso la fine degli Anni Trenta, Settimelli, subirà al.  cuni anni di confino di polizia causati dalla sua intransigenza critica verso alcuni personaggi-chiave del regime.   Di Armando Mazza, che ci fu dato di personalmente conoscere e frequentare, il futurismo si avvaleva per presentare le prime, contestate, serate propagandistiche nei  teatri della Penisola.   Eccellente declamatore di versi, tonante dicitore di  manifesti tecnici futuristi, Mazza possedeva un fisico atletico di lottatore greco-romano. Marinetti affidava, quindi,  a Mazza la protezione della ribalta dagli attacchi passatisti,  mentre Îa sua voce tonante sovrastava i fischi e il vociare  degli oppositori.   Singolare poeta parolibero, Mazza, sarà il primo ad  organizzate un movimento anticomunista, fondando nel  1919 a Milano, il settimanale politico I wmemzici d'Italia,  organo antimarxista, nazionalista e prefascista. Mazza pubblica dall'editore Gaetano Facchi di  Milano 10 Liriche d'Amore, seguito di altrettanti poemi  in versi liberi stampati come cartoline postali raccolte in  contenitore di carta crespata. Queste cartoline poetiche sono il primo esempio rilevabile e significativo di quella che  negli Anni Settanta verrà definita Ma:l Art, Arte postale , assegnando alla comunicazione poetica il canale  inabituale della spedizione a domicilio del messaggio estetico. Già nel 1917, Armando Mazza, aveva introdotto l’uso  delle Cartoline Postali di Guerra , edite dallo Stabilimento Tipografico Taveggia di Milano, di cui Vedetta  (cm. 13,7 x 19) resta la più curiosa ed esteticamente determinante. Ai poemi postali faranno seguito Due morti.  liriche pubblicate nel 1919. Nel 1920 Mazza pubblica Firmamento / con una spie  gazione di F.T. Marinetti sulle Parole in Libertà, edito a  Milana dalle Edizioni Futuriste di Poesia. Si tratta di  una pregevole sequenza di parole in libertà dove la componente tipovisuale dialettizza le scelte semantiche, talvolta enfatiche ed irruenti con frequenti ricorsi ad analogie non sempre depurate. Poi Mazza verrà totalmente  assorbito dal giornalismo e dall’attività politica    Sarà direttore di importanti periodici come La grande  Italia e di quotidiani: L'Arena di Verona, I! Giornale di  Genova, Il Resto del Carlino di Bologna.  Ricordiamo i grandi occhi azzurri di Armando Mazza farsi ancora più liquidi e trasparenti quando ci parlava del  Manifesto dell’Antitradizione Futurista dalle righe del quale Apollinaire gli inviava, nel 1913, fiori, rose , riservando merde ai conservatori e ai romantici. Mazza  aveva frequentato Guglielmo Apollinaire a Parigi e Grasa  Aranba a Rio de Janeiro, Croce a Napoli, ai  tempi de La Diana e Giovanni Gentile a Milano, proprio  mentre il filosofo stava orientandosi verso il fascismo.  Amicissimo di Umberto Boccioni, che aveva aiutato nei  primi anni del soggiorno milanese, Mazza, era stato dipinto dal maestro futurista in un esemplare pastello di  rara fattura e di deflagrante cromaticità, che pubblicammo nel 1977 fra le opere inedite di Boccioni.    Sarà Mazza a favorire l'attitudine di Boccioni per la  critica d'arte, presentandolo ad Umberto Notari, editore  del quotidiano, poi settimanale, Gli Avvenimenti dove il  pittore reggerà per qualche tempo la rubrica d'arte. Il  fascismo di Armando Mazza restò sempre moderato e la  sua coerenza politica gli causerà nel dopoguerra 1940-1945  il più completo ostracismo, impedendogli di continuare la  attività giornalistica di cui ebbe profonda nostalgia sino  agli ultimi giorni di vita.   Il forzoso silenzio pubblicistico ricondusse Mazza alla  poesia alla quale apporterà non trascurabili contributi in  versi liberi pubblicati, fra il 1948 e il 1959, presso editori  inadeguati. Fra i più importanti poeti del futurismo confluiranno al fascismo, assumendovi incarichi di alta responsabilità, anche Auro d'Alba (Umberto Bottone) che,  a Roma, diventerà capo dell'ufficio stampa della M.V.S.N.  (Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale) e Paolo  Buzzi che, a Milano, assumerà la carica di Segretario Generale della Deputazione Provinciale. Altri futuristi di  minore rilievo, come il poeta Federico Pinna-Berchet, autore delle Liriche d’Assalto, pubblicate a Roma nel 1930,  il poeta parolibero giuliano Bruno Sambo e Ferruccio  Vecchi, prosatore e capitano degli Arditi, aderiranno al  fascismo svolgendovi ruoli anche decisivi. Sambo diventerà  federale di Addis Abeba, mentre Pinna-Berchet e Vecchi  ricopriranno alte cariche corporative. Così il genovese Bolzon, poeta-pittore futurista dal 1919 e battagliero  giornalista, sarà Sottosegretario alle Colonie nel 1928, poi  Consigliere di Stato e autore, fra il 1920 e il 1930, di  saggi di critica sociale e di teoria fascista pubblicati dalle  edizioni Alpes di Milano. Anche il grande invalido di guerra Giuseppe Steiner,  piacentino, poeta parolibero e autore di quei fondamentali  Stati d'Animo disegnati, editi nel 1923, che precorsero la  poesia grafica di Pino Masnata e la poesia visiva  dei giovani fiorentini negli Anni Sessanta, sarà nominato  Consigliere Nazionale fascista. Dal futurismo si orienteranno verso il fascismo anche il poeta-aviatore Guido Keller, legionario fiumano e autore del lancio aereo di un  pitale su Montecitorio a monito di Francesco Saverio Nitti,  il cagoia del Natale di sangue fiumano; e la Medaglia d'Oro ferrarese Olao Gaggioli, poeta parolibero futurista e pluridecorato ufficiale del XXIII Battaglione di  Assalto dei Bersaglieri sul Podgora. Nan va, infine, dimenticato il giornalista Ernesto Daquanno, poeta parolibero e cofondatore a Milano del periodico I Principe, organo fascista difensore della Monarchia integrale . Daquanno, che nel 1925 aveva pubblicato Now c'è poesia, saggi sul risveglio dell’artigianato  italiano, diventerà nel 1927 capo ufficio stampa della  Federazione Fascista delle Comunità Artigiane. Un riferimento, poi, al poeta parolibero e autore di  teatro sintetico Guglielmo Jannelli, messinese, che dai Fasci Futuristi , di cui era stato promotore nel 1918 con  Marinetti, passerà ai Fasci di Combattimento Siciliani  assumendovi compiti determinanti. Nel 1924 Jannelli pubblichetà a Messina, per i tipi delle Edizioni della Balza  Futurista un polemico saggio dedicato a La crisi del Fascismo in Sicilia, dedicato in frontespizio A Emilio Settimelli e Mario Carli, miei fratelli nella avanguardia artistica e politica della nuova Italia e anime capaci di rendere pienamente la sincerità che mi ha mosso a compiere  queste franche pagine obbiettive. Questo scritto di Jannelli conferma l’esistenza di una  autocritica nell’ambito del fascismo, di una volontà revt con 1acusaro adagio. .., oDbDedienza pronta, cieca, aSS0luta. Così Jannelli vede il fascismo nel 1924: ... il  fascismo si è rotto in due pezzi: molta della parte più  buona è rimasta bloccata, impedita di agire; e l’altra parte trionfa esteriormente unita ma intimamente diversa, poco moderna, niente affatto veloce e qualche volta insi  gnificante. Anche Pavolini, poeta, autore teatrale, regista, critico d’arte e letterario, che si era avvicinato al movimento di Marinetti attraverso l’opera del pittore futurista fiorentino Primo Conti e aveva dedicato nel 1924 un  saggio monografico al fondatore del futurismo pet, infine,  pubblicare nel 1927, a Bologna per i tipi dello Zanichelli,  quel fondamentale Cubismo Futurismo Impressionisnio, aderirà al fascismo assumendo importanti incarichi nel diret.  torio del partito e al Ministero della Cultura Popolare.  Dal fascismo perverrà, invece, al futurismo il filosofo Francesco Orestano, Accademico d’Italia, che negli Anni Trenta dedica al movimento di Marinetti saggi di teoria estetica e di critica letteraria. Orestano aveva pubblicato nel  1907 quegli importanti Valori Umani la cui struttura teoretica aveva particolarmente influenzato il giovane Marinetti. Anche ORANO (vedasi), scrittore, STORICO DELLA FILOSOFIA e sindacalista sorelliano, che fu Deputato fascista per la  Sardegna alla XXVI legislatura e per la Toscana alla XXVII  e al quale venne affidata nel 1926 la prima cattedra di  storia del giornalismo nella facoltà di Scienze Politiche  dell’Università di Perugia, si orienterà verso il futurismo.  Nella raccolta di saggi critici I Contemporanei, pubblicata  a Milano da Mondadori nel 1928, Orano riserverà a Marinetti una esegesi determinante, del tutta favorevole al  futurismo considerato estetica nuova di apertura internazionale. Dalla pittura futurista si muove, invece, verso  il fascismo Antonio Marasco, senz'altro il più impegnato  e coerente politico fra tutti gli operatori plastici del futurismo. Calabrese di nascita, Marasco, ebbe parte rilevante nelle squadre d'azione fasciste di Firenze dove si era trasferito prima ancora di arruolarsi volontario per la guerra  1915-1918, in cui verrà gravemente colpito da gas di iprite sul Piave e dopo essere stato promotore con Marinetti  dei Fasci Futuristi. Marasco aveva accompagnato Marinetti nel  suo secondo viaggio in Russia, a Mosca e a Pietroburgo,  dove avrà modo di conoscere Velimir Klebnikow e Wladimir Mavakowsky e di dedicare fisiosintesi di estrema  inventività grafica al  medico-pittore Nicolaj Kulbin, al  pittore Nikolaj Burliuk, alla poetessa Elena Guro, al poeta-aviatore Kamensky, al poeta-scrittore B. Livshits, al musicista A. V. Lurié e al regista Tairow. La pittura di Ma.  rasco presenterà sempre componenti sperimentali, non condizionata da temi fascisti o da enfasi dell'aviazione militare e civile che, purtroppo, sviliranno molta parte della  neropittura futurista degli Anni Trenta. Antonia Matasco  precorre il cosiddetto astrattismo delineatosi nell’ambito della milanese Galleria del Milione dei fratelli Ghiringhelli e può essere considerato uno dei pionieri del  costruttivismo e del concretismo internazionali.    Particolarmente affezionati a Marasco avevamo avuto  modo, negli Anni Sessanta, di presentare la sua prima  mostra personale a Milano, di carattere antologico, attraverso la quale il più vasto pubblico riuscì a scoprire le  sue ricerche preastratte e protoconcretiste realizzate a Firenze fra il 1923 e il 1930 Marasco restò sempre legato al futurismo e il suo fascismo ebbe coerenza di adesione alla Repubblica Sociale  Italiana dove ricoprì importanti incarichi nella rinnovata  Direzione Generale delle Belle Arti e dei Beni Culturali  del Ministero della Cultura Popolare. Questo magistrale  pittore svolse anche attività di scrittore e di critico d’arte  e un suo libro, pubblicato a Firenze, Parrorami  allo Zenit, risulta anticipatore dell’attuale science-fiction.   Nell'ambito del movimento futurista, Marasco, promosse i Gruppi Futuristi Indipendenti, attivi a Firenze, che rivelarono personaggi della  importanza di Cesare Augusto Poggi, architetto razionalista, tecnologo del cemento armato e ideatore di singolari  costruzioni civili per la difesa bellica. Quando, nella seconda metà degli Anni Trenta, s'inasprirà la campagna fascista contro il futurismo, accusato di difendere l'arte  astratta considerata giudea e massonica , Matasco  sarà a fianco di Marinetti per chiarire i termini di indipendenza dell’astrattismo plastico da ogni motivazione di razza, da qualsivoglia matrice israelitica o muratoria. Se disponessimo di maggiore spazio per analizzare  compiutamente questo pericoloso momento dei rapporti futurismo-fascismo ne risulterebbe la conferma di una precisa interdipendenza di propositi e di azione fra i due  movimenti. Il futurismo non condizionò mai le proprie  libertà espressive, i propositi di rinnovamento, di costante evoluzione spirituale, alle esigenze agiografiche del fascismo che, del resto, non considerò il futurismo come  arte di Stato, riservando questo pericoloso privilegio al  movimento del Novecento, celebrarore di miti romanistici  e imperiali, istigarore del ritorno al neoclassicismo, pur  mascherato da un malcompreso funzionalismo.   Antonio Marasco morirà a Firenze, nel 1975, alla soglia degli ottant'anni.   Dopo un Jungo soggiorno romano aveva dipinto, sino  all'ultimo, cromostrutture dinamiche e inoggettive di autonoma soluzione cinevisuale. Puntualmente ci inviava lettere di accorata italianità, preziosi appunti di teoria plastica che, un giorno, dovremo pur raccogliere e pubblicare  come contributi fondamentali alla storia del costruttivismo  e del concretismo internazionali. Noi giovanissimi non eravamo disposti ad anteporre la dogmatica della mistica fascista alle libertà espressive promosse e favorite dal futurismo, né ci si potrà accusare di aver posto le nostre prime ricerche futuriste al servizio dell'apologia di regime.   Così le nostre Parole per la Guerra, pubblicate nel marzo del 1944 dalle edizioni dî Futuristi in Armi, sovvenzionate e dirette da F.T. Marinetti, non rinviano ai canoni  conformisti dell'aeropoesia futurista di guerra di quegli anni ma anticipano, piuttosto, modalità di poesia concreta e visuale, come è stato ampiamente rilevato dalla critica  internazionale più obiettiva e attenta.    Il nostro poema Bimba / bomba, del 1943, può essere,  infatti, considerato il primo esempio esistente di poesia  concreta a struttura semantica reversibile e a susseguenza  ottica alternata, dove l'uso della parola-chiave è già serialistico.    Il nostro fascismo eta quindi disarticolato dalle pratiche dell’estetica futurista, proprio come si era verificato  per gli iniziatori del futurismo: F.T. Marinetti, Paolo Buzzi, Armando Mazza, Auro d’Alba, Luciano Folgore. Infatti anche i nostri Testi-Poemzi Murali, pubblicati nel 1944  dalle Edizioni Etre (Repubblica) con un collaudo di  Martinetti, piuttosto di risolversi nell'abituale apologia  guetresca di quel periodo, introducono un modo nuovo di  poetare inaugurando le problematiche di quella poesia  visuale che, solo negli Anni Cinquanta, troverà consensi  internazionali sino a farsi scuola di poesia avanzata. L’ideologia politica di Marinetti, le teorie del suo particolare nazionalismo prefascista sono raccolte in due volumi pubblicati in tempi diversi. Democrazia Futurista, edita a Milano da Facchi, è la sintesi delle posizioni politiche assunte da Marinetti nell'immediato dopo-guerra. Vi si ripercorre l'atmosfera in cui nel 1918, dopo Caporetto, Marinetti fonda i Fasci Politici Fututisti con  Bottai, Settimelli, Carli,  Jannelli, Marasco, i pittori Galli, Balla, Rosai, Depero, il poeta-pittore cremonese Mainardi, lo scrittore Chiti,  il poeta Nicastro, Bontempelli, il chirurgo Masnata, poi Senatore del Regno, padre del  poeta parolibero stradellino Pino Masnata, ai quali aderiSta settanta intellettuali e uomini di varia estrazione culturale.    I Fasci Politici Futuristi si trasformeranno, poi,  gradualmente in Fasci di Combattimento confluendo nel.  lo squadrismo fascista. Così, quando i fascisti parteciperanno per Ja prima volta alle elezioni politiche del 1919, rinetti, Piero Bolzon, il poeta-aviatore Giacomo Macchi,  Baseggio e Podrecca. Futurismo e Fascismo, pubblicato da Franco Campi.  telli, editore in Foligno, nel 1924, indica, invece, la personale interpretazione della dottrina fascista praticata da  Marinetti e da molti artisti futuristi, come dai numerosi  affiancatori e propagandisti del movimento futurista. Con  il manifesto L'Impero Italiano / A Mussolini Capo della Nuova Italia redatto da Marinetti,  Carli e Settimelli, il futurismo, già in quegli anni, istigherà il fascismo alla fondazione dell'Impero,  precorrendo una realtà che, negli Anni Trenta si concluderà  con la conquista dell'Etiopia.   Marinetti scriverà nel 1924: il Fascismo, naro  dall’interventismo e dal futurismo si nutrì di principi futuristi. Una storia parallela dei due movimenti, ancora da scrivere, dovrà tener conto della mai rinunciata indipendenza  futurista che non condizionò le esigenze di libera ricerca  espressiva alla necessità della politica dominante. Innanzi tutto confesso che sono nato alla vita sociale  prima come fascista e dopo come futurista.   Avevo sedici anni quando, proprio in corti.  spondenza del mio compleanno, sottoscrissi una domanda  di ammissione ai Fasci di Combattimento . La domanda fu avvallata da due miei amici di maggiore età, come  soci presentatori, i quali compirono coscientemente un piccolo falso alterando di due anni la mia data di nascita al fine di consentire la mia ammissione come socio ad ogni  effetto. Così diventai a pieno titolo uno dei pochi iscritti  della Sezione di Reggio Calabria dei Fasci di Combattimento , che aveva allora sede in una baracchetta per i  bagni di mare, in disuso.   Perché questo sedicenne studente del Liceo aveva  ascoltato e risposto ad un richiamo politico certamente  pericoloso? A mio avviso, furono determinanti, l’amore  per la Patria, nato dentro durante fa guerra sull’esempio  di un avo materno che ne aveva avuto, forse, di troppo;  l'entusiasmo per la vittoria e la conseguente indignazione  per quanto accadde subito dopo con l’attività dei cosiddetti progressisti del momento, ostili ai reduci, in contrasto con la spavalderia ed intraprendenza di questi ultimi.   Il mio apptoccio con il Futurismo avvenne, invece,  due anni dopo, con la scoperta di Zang iumb tuumm e  l’incontro con F.T. Marinetti Questo essere prima fascista e poi futurista, mi sembrò una particolarità personale e la confessai un giotno  dopo tantissimi anni  a Dessy, e lui mi disse che  gli era accaduto lo stesso benché avesse cinque anni più  di me. Comunque è chiaro che vi fu un rapporto di identità ideale fra queste  due forze, anche se vi furono dissensi spesso di carattere  costruttivo, E’ difficile infatti che possano andare  in tandem per lungo tempo movimenti di carattere politico e movimenti di carattere intellettuale o culturale. Le  ragioni mi sembrano evidenti: un movimento culturale,  anche se basa la propria forza nelle realtà della vita (come  il futurismo), ha il suo fulcro nella idea-base che difende  con ortodossia e non è disponibile per transazioni ideologiche. Il movimento politico, invece, pet propria natura,  specie quando atrivi alla gestione del potere, diviene duttile e transigente al fine di mantenere è consolidare la  proptia forza concreta, allargando la base dei consensi. Il Futurismo prima della guerra mondiale si caratterizza artisticamente con l'invenzione dei grandi temi di rinnovamento nei settori di tutte le arti e, in veste politico-sociale, nell’esaltazione dell’Italia, fantasticando per questa, una nuova organizzazione anti-demo-liberale ed anticlericale. Un nuovo mado di vivere. Uno Stato industriale  ed agricolo tecnicamente progredito, che si progettava  astrattamente, certamente irrealizzabile. Qui i tentativi di  un’azione politica che non aveva, però, un valido autonoma  sviluppo organizzativo. Come pretenderlo da poeti ed artisti?   Nel tempo in cui Marinetti iniziò il Movimento,  le forze che affermavano di voler realizzare un nuovo sviluppo sociale al fine di un miglioramento della situazione  economica delle classi più disagiate e trascurate, trovavano una sede formalmente appropriata nelle spinte del sacialismo deamicisiano; ma tale situazione ebbe durata breve perché questo socialismo si sviluppò in senso internazionalista apatriottico collettivista antindividualista e fu  sconfitto dagli eventi della prima guetra mondiale. Tanto  è vero che dal suo seno, a guerra conclusa, prosperarono  il comunismo ed altre scissioni e nacque il fascismo. Sono noti e possono essere facilmente consultati i documenti delle manifestazioni spiccatamente politiche del  movimento futurista che precedettero la Fondazione dei  Fasci di Combattimento . Intendo rifetirmi al Programma Politico Futurista, firmato da Marinetti Boccioni Carrà Russolo, all'azione politica svolta da La Balza Futurista fondata da Di Giacomo  Jannelli e Nicastro del 1915, e dei Fasci Interventisti  Siciliani , di Roma Futurista e dei relativi gruppi del Partito Politico Futurista che concretizzava un suo programma nel libro Democrazia  Futurista di Marinetti, eccetera eccetera. Tutte queste forze si concentrarono nel movimento fascista, sia  aderendo direttamente all'assemblea di fondazione di Piazza San Sepolcro in Milano, sia successivamente anche per  forza d'inerzia. Il fatto è che di solito quando si parla di partecipazione politica dei futuristi, ci si richiama soltanto  al ricordo dell’attività degli artisti che militarono con la  qualificazione di futuristi . Vale a dire dei poeti, scrittori, pittori, limitandosi ovviamente ad esaminare il contributo di coloro che hanno raggiunto maggiore notorietà,  trascurando i minori . Ma questi ultimi erano in numero stragrande e molto attivi. Senza tenere inoltre conto  che i maggiori spesso presi del tutto da altre attività, non  erano altrettanto validi e disponibili in campo politico. In  verità, il Futurismo di quel tempo è stato un movimento a larga partecipazione di giovani, di tantissimi giovani. Non tutti poterono ovviamente militare nel  campo dell'Arte e maturare tanta notorietà da essere ricordati anche oggi. Ma tutti furono politicamente attivi e  furono a migliaia i militanti di futurismo che parteciparono ad episodi fascisti negli anni precedenti, o appena successivi, alla marcia su Roma.    Non credo di sbagliare se affermo che nelle cosiddette schiere dello squadrismo molte furono le partecipazioni futuriste. Azione lotta e coraggio erano proposizioni  futuriste. Basta ricordare la prima azione di Marinetti e  Ferruccio Vecchi (16 aprile: Piazza Mercanti Milano) e ricordare i tanti nomi dei militanti futuristi che  ebbero più spicco in campo politico che in quello dell’arte. Alla fondazione dei Fasci, confluirono nel fiume che  diventò principale, molteplici rivoli di pensiero (come ho  già accennato) movimenti di ogni genere che avevano un  minimo comune denominatore nella volontà di rinnovare  in qualche modo l’Italia che, pur vittoriosa nella guerra,  si dimenava in serie difficoltà ed era incapace ad affrontare la svolta storica che la vittoria aveva aperto. Anche  i Fasci Interventisti Futuristi Siciliani, che avevano preso  forza dalla volontà di Jannelli e Nicastro (il prima con  capacità ed intendimenti politici ed il secondo come letterato e poeta), ma dei quali non si è ancora scritta la  storia, né accertato la reale efficienza, vi aderirono. Come  aderì Marinetti con tanti altri futuristi che risultano elencati nella schiera dei cosiddetti sansepolcristi .    In seguito, quando il fascismo andò al potere, ai futuristi sembrò che finalmente sarebbero stati realizzati nell’arte gran parte dei propositi del futurismo. In questa  illusione fummo cullati da alcuni elementi: la impostazione altamente patriottica dei propositi, la valorizzazione del  combattentismo e del volontarismo, l'amore per il nuovo  ed il rischio, il pragmatismo attivo dimostrato immediatamente con i primi atti di governo, eccetera. Va anche  rammentato ai giovani di oggi, frastornati da affermazioni  non rispondenti alla realtà di allora, che la personalità  di Mussolini era molto al di sopra non solo di quella dei  suoi collaboratori politici, ma sovrastava la media dei cervelli politici di quel periodo. Tanto è vero che furono appunto gli avversari a votargli subito i pieni poteri che  gli consentirono l'avvio della prima gestione governativa.  Questo fatto rilevante, gli consentì di attrarre dapprima  le simpatie collettive ed in seguito a conquistare  una enorme fiducia, non solo da parte dei suoi sostenitori  di un tempo, ma anche da parte di ex avversari e simpa.  tizzanti e nei periodi più floridi perfino dai nemici  del sistema politico che egli cercava di sviluppare.   Quando il fascismo s’insediò al governo per realizzare  la rivoluzione {a dire dei fascisti), o perché chiamato dalla  debole monarchia (come dicono gli altri), subì dapprima  una sosta di aggiornamento dovuta alla urgenza de) problemi immediati dalla cui soluzione dipendeva il recupero dell'ordine econamico e politico. Per questo, Mussolini  non si sbarazzò immediatamente degli avversari che erano  troppi e in gran parte si erano dichiarati disponibili a  collaborare per il meglio, pur costituendo nello stessa  tempo zone di resistenza alle innovazioni    Così anche nei fatti dell’Arte ovviamente meno pressanti, ove non comparvero personalità nuove che avessero seri propositi di rinnovamento e disponibili a rivoluzionare tutto, come i futuristi. I quali con a capo Mari.  netti e nella quasi totalità si convinsero che la rivoluzione potesse realizzarsi per pradi anche in Arte. Che  la forza del nuovo potesse penetrare per gradi nelle istituzioni d’Arte e trasfarmarle. Pura illusione. Illusione giustificata sul momento non solo dal fascino personale di  Mussolini al quale ho già accennato, ma anche da certe  sue caratteristiche gestuali (come la particolare sintetica  e precisa oratotia che andava direttamente allo scopo in modo esplicito) che lo presentavano come un congeniale  capo futurista. Se si aggiunge inoltre l'amicizia personale  fra Mussolini e Marinetti, vicini anche in altre precedenti  azioni politiche, si comprende come il movimento rivoluzionario rappresentato in arte dal Futurismo, rimase a fianco del Fascismo (esso stesso ancora tivoluzionario alla basel, anche se in via di adattamento, questo, alle esigenze  immediate dell'esercizio del potere su una nazione che di  rivoluzionari di qualsiasi tipo ne ha avuto per la verità sempre pochi, anche se gonfiati ad oltranza quando  occorre, in tutti i testi di storia antica e recente. I futuristi costituirono una avanguardia nelle fila del  fascismo e vi rimasero nella quasi totalità. Basta citare i]  messaggio che concluse il Congresso futurista di Milano  (L'Impero, 27 novembre 1924): L'ultima riunione del congresso futurista è stata dedicata all'esame dell'attuale momento politico. Marinetti  espose alla numerosa assemblea una dichiarazione precedentemente elaborata in accordo con i maggiori futuristi  politici, la lettura della dichiarazione fu entusiasticamente  approvata ed acclamata in ogni suo punto. Ecco la dichiarazione: I futuristi italiani, primi fra i primi interventisti nella  piazza e sui campi di battaglia e primi fra i primi diciannovisti più che mai devoti alle idee ed all'arte lontani dal  politicantismo, dicono al loro vecchio compagno Benito  Mussolini: Primo: con un gesto di forza ormai indispensabile liberati del parlamento. Secondo: restituisci al fascismo ed all'Italia la meravigliosa anima diciannovista disinteressata ardita antisocialista anticlericale  antimonarchica. Tetzo: Concedi alla monarchia soltanto la sua provvisoria funzione unitaria, rifiutale quella di soffocare e  morfinizzare la più grande, più geniale, più giusta Italia  di domani. Quarto:- non imitare l’inimitabile Giolitti, imita il grande Mussolini. Quinto: Pensa sempre all'Italia immortale ed al Carso divino. Sesto: Schiaccia la  opposizione socialista antitaliana di Turati e l'opposizione  mediocrista di Albertini con una ferrea dinamica aristocrazia di pensiero. Tu puoi e devi far ciò. Noi dobbiamo volerlo e lo vogliamo. Marinetti - Capo del Movimento Futurista  Italiano. Sono inoltre innumerevoli le manifestazioni dei futuristi in tanie occasioni, con opere scritti ed anche con  la partecipazione concreta alle guerre di quel periodo.Voglio ricordare, però, un solo scritto di Fillia (morto nel  1930 e che adesso cercano di passare per antifascista) il  quale in occasione della Quadriennale di Torino, così scriveva sulla sua rivista Vetrina Futurista: Bisogna, però, giungere a “convincere” il grosso  pubblico, ingannato a nostro riguardo dalle false inter  pretazioni. Perché il favore organizzativo che oggi ci circonda, non basta: è assurdo riconoscere il futurismo come  manifestazione d'Arte ed ammettere contemporaneamente  le antiche manifestazioni. La vita può avere individual  mente, diverse interpretazioni, ma tutte devono essere inquadrate in una sola atmsofera sensibile, corrispondente  alla vita stessa. Non voglio con questo negare il diritto di  esistenza a intere categorie di pittori rimasti spititualmente arretrati: ma è necessario preparare il pubblico alla loro  graduale eliminazione dalla vita artistica ufficiale, fino al  riconoscimento del Futurismo “arte di Stato” massimo riconascimento che lo caratterizzerà nella sua importanza. Purtroppo però le autorità artistiche avevano il sopravvento favorendo a vele spiegate l’architettura di Piacentini e gli enormi pupazzi della scultura e pittura novecentista, effettivamente arte del regime. E noi futuristi  interpretavamo le isianze di rinnovamento dell’arte senza  alcun riconoscimento dal Regime che ritrovava sé stesso  nelle manifestazioni novecentiste.   Questo, non mi stanco di ripeterlo, negli Anni Venti.  E poi?   Poi nulla. Le vicende, le difficoltà personali, gli entusiasmi e le depressioni, gli alti e i bassi, il lavoro e la maggiore maturità. Ma non creda di sbagliare se affermo che  noi futuristi vivemmo quel tempo con spirito indipendente  e piena libertà fiduciosi che in fondo avremmo avuto ragione. Anche se spesso sopportati e negletti dalle autorità  artistiche e subiti obiorto collo quando necessario.   Poi andammo all'ultima guerra, che fu sconvolgente per  tutti. To ne vissi scrupolosamente la mia parte con coerenza. Fui costretto fuori a lungo. Pet un anno di guerra, ne  subii sei di prigionia e non conosco nei particolari ciò che  è avvenuto qui mentre ho già scritto delle mie esperienze. AI ritorno mi sembrò di sbarcare  in un altro mondo al quale non mi sono ancora completamente assuefatto. Ma ripresi a vivere da zero e nell’aprile  del ‘47 cominciai la mia nuova personale battaglia per il  futurismo con la mostra alla Galleria di Roma inaugurata da Benedetta c dedicata a Marinetti.   Continuai ancora e vado avanti con i futuristi sopravvissuti e con l'appoggio dei giovani che comprendono e non  disdegnano l’idea del futurismo che continua e si rinnova  attraverso le spiccate personalità dei suoi artisti. Crali, lei è pittore ed è futurista Uno dei pochis.  simi, oggi. Crede che il futurismo sia ancora attuale?  SÌ, ma non per merito dei futuristi. Ma ha una sua  attualità perché si è espresso, si è mosso, e ci parla ancora.  Ma non certo per chi ci ha mangiato sopra, per chi non è  mai stato futurista, ed ha espresso solamente necrofilia,  vera e propria necrofilia. Il futurismo di prima, quello per cui lei aderì  al movimento, o vi st convertì, come la investì per così  dire, o come la ispirò? Non mi sono affatto convertito , perché non  c'era niente da convertite. Mi sono trovato di fronte al futurismo come un’anima candida, che non sa e non è consapevole di nulla. Mi sono ritrovato una simpatia inconscia per alcuni quadri riprodotti su Il Mazzino illustrato di  Napoli. Mi sono piaciuti, mentre ad un amico mio, che  la pensava diversamente da me, non piacevano. Cominciammo a litigare, e per litigare ad approfondite l’argomenta  ecc. ecc. Così ho cominciato ad essere interessata al futurismo. E sono partito senza avere una preparazione di mestiere. Ho fatto rutto da solo, senza imparare a dipingere  o disegnare, anche se poi una specie di grillo della coscienza  mi ha suggerito che dovevo imparare a dipingere, sia pure  da solo (anatomia, prospettive, ecc ). L’astratto e il figurativo erano | temi o le prospettive dominanti. Ho cercato  una terza via , che fosse tutta mia, tutta personale: una  ia di mezzo fra il figurativo e l'astratto. Poi ho lasciato il  figurativo per la mia pittura futurista. Credevo di dover  dire ciò che altri non avevano detto. Così mi sono accostata  a Marinetti nel '29, quando gli scrissi per aderire al movi.  mento. L'aeroplano era una macchina nuova, un congegno  del futuro, o, per allora, del futuribile . E fu una delle  realtà che mi diedero più spunti, più ispirazione (l'Idrovolante italiano, D’ANNUNZIO (vedasi) e il volo su Vienna, e il campo  di atterraggio vicino a Zara, dove io sono nato, ecc.). Così  sono diventato acropittore. E lo sono rimasto, ancora oggi.  Marinetti, invece, per quello che lo frequentò  o poté essergli vicino, come lo considera? Forse l’unico vero  futurista, © forse solo un grande maestro ? No, non lo considero un maestra, perché non ha  mai voluto essere un maestro . Ci ha sempre stimolato  e spinto a lare, senza mai dire però come dovevamo fare  Era contrario ad ogni gerarchia nel movimento del futuri.  smo. E si opponeva sempre a Boccioni e Prampolini, che  volevano imporre la loro pittura. Voleva che ognuno di  noi fosse libero e indipendente. Prampolini invece voleva  fare il caposcuola. Marinetti voleva solo che ognuno fosse  se stesso e non ha creato nessuna scuola. Amava la sua  libertà e la sua indipendenza a tal punto che non poteva  imporre insegnamenti. Forse D'Annunzio lo aveva influenzato in questo senso, nella vita mandana libera, giovane e spregiudicata. Io lo ricordo e lo ricorderò sempre con riconoscenza. Quasi come un padre. O come un fratello mapgiore. E come l’unico vero futurista, come ho sempre de!  resto pensato. Gli altri hanno tutti mollato . Lui è andato avanti fino all'ultimo. L'unico che può personificare  il futurismo è fui, l’unico che non ha rivestito patine di cul:  turame intellettvalistico, come hanno fatto invece molti altri (Soffici, Conti, Palazzeschi, Papini, ecc.). Amava essere  futurista sempre e comunque, anche nel gusto del contrasto. Amava la luna, e scrisse un manifesto contro il chiaro di Juna . Uccidiamo il chiaro di luna , vi si diceva,  forse contro i poeti. Ma non era poeta? Predicava la guerra, anche se non avrebbe fatto male a nessuno. Amava la  madre e la donna in assoluto, e ciecamente. Ma combatté  la donna sul piano ideologico. In questo è veramente futurista. E lo è solo lui. Gli altri non lo sono mai stati.  Il futurismo di Marinetti che accento o che angolazione aveva particolarmente: letteraria, artistica, filosofica o piuttosto politica? Politica no, assolutamente e mai. Filosofica neanche, se non forse in senso attivo, ma allora senza pensiero . Il futurismo entra in politica soltanto quando la  patria entra in pericolo , aveva detto Marinetti in un  momento cruciale della nostra storia nazionale. Il manifesto  politico del fuuttismo è conseguenza del fatto che esso sta  movimento d'arte e di vita, e come tale anche di vita politica, tout court. Il manifesto politico è del ’13. Dopo la fine della guerra l'accostamento agli arditi o al fenomeno  dell’arditismo era inevitabile, e Marinetti si unisce in  vincolo d'amicizia, anche politica, con Mario Carli per esempio (ardito) e con Mussolini. All’avvento del fascismo e allo  accostamento di Mussolini alla monarchia e alla chiesa Marinetti si stacca. Abbandona il partito e si ritrova pressoché  in miseria, con moglie e figli. Aveva grande ammirazione  ed amicizia per Mussolini, che non credo fosse ricambiata  per una certa forma di invidia-gelosia mussoliniana nei confronti di Marinetti. Il regime gli offriva incarichi 0 prebende, che continuò a rifiutare. Mussolini arrivò ad offrirgli la  presidenza dell’Associazione dei grandi alberghi italiani, proprio a lui che disprezzava l’industria del forestiero. Accerta solamente, e sollecitato, la segreteria dell'Associazione  Italiana Autori ed Editori, altrimenti forse destinata al  solito arraffone di turno. Tuttavia si tenne sempre in  disparte e non fece mai politica attiva, non partecipò mai  direttamente al regime, che anzi forse osservava contrariato,  a parte solo qualche onesta e sincera manifestazione di simpatia per Mussolini. Si oppose alla presa di posizione politica di Hitler contro l’arte moderna e d'avanguardia, che si manifestò  e sfociò nella censura e nella repressione dell'arte. E nella  stesso momento organizzò a Berlino una mostra di aeropittura futurista che creò non pochi problemi e suscitò non  poche difficoltà anche diplomatiche fra i due governi ira  liano e tedesco. Oltre che produrre una situazione difficile  e imbarazzante per le posizioni o i movimenti artistici e intellettuali della Germania dell’epoca. In Italia fu l’unico  in questa occasione a prendere posizione ed esprimersi contra l’ingerenza politica e l'intervento del regime di Hitler  nella cultura e nell'arte. Ero da Marinetti a Roma: arrivava Marinotui  (presidente della Snia Viscosa) che era stato da Mussolini  insieme ad altri consiglieri regionali del regime. Marinotti si era accinto a raccontate a Marinetti che tutti i  consiglieri avevano relazionato Mussolini e che nessuno aveva avuto il coraggio di dirgli che le cose andavano  male, tranne uno, il consigliere sardo, che aveva sostenuto  la stanchezza della gente, la maldicenza, il tradimento. Marinetti osservava che non era possibile che non si sapesse... È Marinotti ribatté che lo si sapeva, ma che non  era possibile dirlo a Mussolini... Il giorno dopo ritornai da  lui e mi comunicò che il consigliere sardo era stato nominato da Mussolini ispettore generale per tutta l'Italia. Poi si mosse da Venezia e risalì verso la Lombardia, perché non se la sentiva di starsene in disparte a  far l’antifascista ... L'ultimo suo poemetto in versi, l'ultima sua espressione letteraria s'intitola appunto: Musica  di sentimenti per la X Mas. E vi si dice: Io sono fato di aeropoesia fuori tempo e spazio . E' già definizione  sintomatica e totale dell'opera. Ailora, Marinetti fu fascista? E se lo fu, lo fu  fino a che punto? O non lo fu, e fino a che punto non lo  fu per essere futurista?  Marinetti è stato sempre e comunque e saprattutto futurista. Questa è la mia impressione. Perché ha seguito la sua natura e la sua volontà. E nel suo essere futurista non è mai entrata la faziosità di un genere che entra  in politica . Non fu mai fazioso. Una volta eravamo a  casa sua, in un gruppo di amici, a parlar di Majakowski  e di futurismo russo. Qualcuno obiettò: Ma Majakowski  è un comunista . Ed egli allora ribatté immediatamente:  Non ha nessuna importanza. Perché Majakowski è prima  di tutto un grande poeta . Nei suoi rapporti cal fascismo si può considerare forse il fatto che fosse nato al  l’estero, che fosse educato in Egitto alla cultura francese,  spesso pesantemente sprezzante verso l'Italia. Sentì quindi  una specie di aspirazione all’Italia 0, più ancora, di nostalgia della patria. Poi, volle rivendicare il futurismo come  fatto classicamente e squisitamente italiano. Così s'inimicò  tutta la cricca culturale parigina, ma volle sprovincializzare  e dare un certo orgoglio e una certa autonomia alla cultura italiana. E pensò o vide che Mussolini potesse essere  l'uomo adatto per rifarla, l’Italia, e per darle una sua nuova base, culturale ed artistica. Senza sapere, alle origini o  senza conoscere, quando era all’estero, ed anche a Parigi,  la furbizia, anche culturale degli Italiani. Lui fu in buona  fede. Dal fascismo ebbe l’Accademia d’Italia (con appannaggio onorario in un momento in cui era anche in disagi  economici), ed ebbe la Biennale di Venezia {come una  riserva indiana ). Il suo è un fascismo di speranza o di  desiderio, nella speranza di poter vedere realizzato il suo  futurismo. E' contrario al Novecento e al classicismo  romano alla Piacentini, che Mussolini invece appoggiava. Forse tutti i regimi, quando si affermano, cercano di  eliminare le avanguardie. Il fascismo non le appoggiò, mentre il nazismo e il comunismo le stroncarono. Sta di fatto  che Marinetti appoggiava Terragni a Como, e non appoggiò mai Piacentini. Alla Biennale, a Venezia, il futurismo  è stato accettato sì, ma mon con la considerazione che  Marinetti si sarebbe aspettato, e che sarebbe davuta spettare all'unico movimento d'avanguardia esistente allora in  Italia. E invece è stato accolto sì il futurismo, ma quasi  messo in disparte. All'inaugurazione della mostra, durante il discorso di presentazione, Marinetti si alzò ed intervenne ad  alta voce, presente il Ministro dell'Educazione Nazionale,  lamentando l'ingiustizia per l'esclusione dell'unico  movimento d'avanguardia dell'arte italiana. L'anno dopo Mussolini stesso gli concesse un padiglione di riserva, che doveva rimanere, ogni anno, a disposizione dei futuristi (la  riserva indiana , già summenzionata).  Mussolini invece, secondo lei, fu futurista?È stato un politico ed ha appoggiato Marinetti  per avere il futurismo dalla sua parte. Anche se il futurismo aveva contribuito, pure, alla sua formazione. Che  avesse jspirato un regime al ritorno verso l'antica Roma  nei suoi simboli e nei suoi modelli, vuol dire tuttavia che  era rimasto fuori dal futurismo. E allora il fascismo di Mussolini ed il futurismo  di Marinetti non hanno nessun punto in comune? O si  possono, secondo lei, mettere in relazione o in collegamento, e fino a che punto ciò è possibile? Per Mussolini il fascismo è politica, per Marinetti il futurismo è poesia. Sono due posizioni completamente diverse. Non si può quindi parlare di futurismo fascista,  nemmeno del primo, quello delle origini? Finché un movimento politico è in fase rivoluzionaria, le posizioni della rivoluzione culturale con  quelle politiche coincidono; poi però quando il movimento  politico diventa regime si burocratizza, e allora non può  non scontrarsi con la cultura che rimane sempre rivoluzionaria e che non può assimilare come tale le esigenze politiche di un partito. Ecco perché esistono punti di contatro o momenti di simbiosi tra affermazioni marinettiane e fascismo politico dei primi anni, poi rallentati o rilasciati  quando si afferma l’ordine romano , utile al regime, ma  speculare di un passatismo senza mezzi termini, e totale. Marinetti tollera questa esigenza politica di Mussolini, ma  non la condivide od ammette in campo artistico e culturale. Tuttavia Marinetti era uomo che non confondeva amicizia ed ideologia: poteva combattere con un amico per  principi ideologici, anche violentemente, senza però intaccare l'amicizia, che rimaneva sempre e comunque. Resta oggi il futurismo? E resta come realtà  artistica solamente, o anche politica, nella sua dimensione  d’espressione artistica? Senza fascismo, che è finito ovviamente, e da tempo. Forse resta il futurismo, come tensione di rinnovamento?  Sì, il futurismo resta, credo, nella sua posizione  di rinnovamento, o di indicazione nella creazione di nuove  forme, e di nuove idee, o di valori nuovi. Oggi si contesta  per distruggere senza dire quello che si vuole proporre in  sostituzione. Il futurismo aveva invece dato i suoi manifesti. Volle distruggere, ma propose ciò che voleva ricostruire. Anche oggi, per quel che resta, il futurismo cerca  un suo rinnovamento che si superi continuamente. Oggi  c'è molta saggistica, ma si vede poca poesia. Forse manca  l’entusiasmo, nonostante la grinta. Penso che esista ancora futurismo oggi, perché esiste ancora temperamento di  novità, e di rinnovamento. Perché esiste ancora una spinta  vitale di ossigeno . E l'opera deve avere un suo sangue,  se si tratta d’opera d’arte. Un sangue di cui deve vivere,  o un sangue per cui possa vivere. É l’ossigeno è un valore  assoluto che resta, non si toglie, perché è ineliminabile.  Anche in bottiglia, nella plastica, rarefatto o alla luce del  sole. Il futurismo è un po’ come l'ossigeno, o l'anima  o lo spirito del lavoro e dell’opera, o della vita: è un po’il suo entusiasmo. [Intervista u cura di Schiavo] Per quanto riguarda lo svisceramento dei collegamenti  fra Je correnti del futurismo indipendente come movimenro artistico e culturale ed il fascismo come movimento politico e sociale, particolarmente per quel che si riferisce  al carattere autonomo del futurismo torinese e al fascismo  delle origini, è ovvio che i tapporti intercotsi fra di loro  furono lungi dall’essere quelli di un matrimonio d'amore. Consistettero specificamente in taciti e necessari accordi  immaginati per pater dare vita a creazioni autentiche che  abbisognavano di un ambiente rispettoso dei motivi di una  vera rivoluzione (quella artistica e spirituale scatenata dal  futurismo), in un clima fascista che di rivoluzionario non  ebbe in seguito che la sola etichetta. Il futurismo torinese, nel tentativo di operare in piena italianità, condivise nelia sua giusta misura taluni prin  cipî che il primo fascismo stabili quando provò a integrarsi nel campo difficile della moderna civiltà europea. Alla stessa stregua e per raggiungere gli stessi fini il futurismo piemontese trattò anche con l’anarchismo e il comunismo idealitario di GRAMSCI (vedasi), sui quali ebbe una considerevole influenza negli sviluppi dell’architettura. Il senso altamente novatore di Fillia e la sua molte.  plice attività (stupefacente in una esistenza così breve) per:  sonificano le forme coerenti e concrete dei concetti più  originali e più saldi delle imprese del futurismo torinese. Figura rappresentativa dell’essere istantaneo, Fillia non  temporeggiava mai, viveva come una ruota, partiva come  una freccia. Propugnatore di quel futurismo mistico che  per ordinarie ragioni razionali ed estetiche militava in  margine della Chiesa cattolica apostolica e romana di quel  l'epoca, egli affermava con rigare di logica e con argomentazioni arditissime che la religione ha relazione di somiglianza con la geometria interna dell’arte. Misteri dottri.  nali da ricrearsi plastiicamente per dare forma concreta ai  nuovi concetti della pittura sacra erano per lui la Trinità, la Redenzione e la Vergine. L’apostolato di Fillia s'immedesimava con quello del futurismo in cui si cercava una  forza di liberazione, e la trovava in quel movimento, ciecamente. Originati da una geometria astratta superiore, i suoi  dipinti possiedono quella qualità rara di non essere visà,  e perciò non ricavati dal vero, ma di sorgere senza shavatura alcuna dal proprio io, e come se l'artista non vi  fosse per nulla, per cui aspettavamo ogni sua scoperta con  un senso di impazienza, di ansietà, perché Fillia non cessava di inventare e di portare sempre più avanti i perfezionamenti pittorici del futurismo. Tuttavia, una continuità è discernibile nella sua arte che è, innanzitutto, di una  grande purezza, di una grande acconcezza, di una grande  serenità. I colori si oppongono l'uno all'altro e si sovrappongono con curve e frangie di corallo, macchie di cielo, fantasticherie metafisiche, sogni astrusi. Opera di contemplativo che accomuna sempre iutto e sempre con estrema  dolcezza, e dalla quale si spande una pace angelica che  sembra invalidare, apparentemente, taluni assiomi violenti della dottrina futurista. Ma è invece la prova Iampante  che il dinamismo di questa scuola italiana non esclude  quello stato di grazia dove i conflitti diventano preghiere.  Si tratta di fermare il nemico per ritrovare Ja quiete, di  combattere ferocemente per amare di un più grande amore. Tale atteggiamento è proprio l’antitesi del sentimentalismo romantico, dell’ebetismo della debolezza: esso convoglia l’arte verso quell'alta sfera mitica e visionaria che  invade la mistica futurista. Gl’errori di pensiero che possono insinuarsi nella mente di un poeta come Fillia, che non può sempre ridurre  tutto al controllo della logica, non vanno interpretati nel  lo stretto senso letterale. Il movimento è irrefrenabile,  talvolta irresistibile, porta oltre la matura e si perde in  un mondo di realtà fantasmagoriche. Nessuna amarezza, nessuna amarezza siatene cetti si  nascondeva in questa libertà concettuale e della riflessione:  vi era troppa gentilezza in questo cuore di pittore e di poeta, troppa felicità per i suoi amici, perché si possa attribuire un significato ironico alle sue composizioni sacre  come non hanno mancato di fare borghesi indirozzabili e  bolsi dalle maniche troppo lunghe, dalla mente inceppata. Ho buona speranza per Fillia, per questo artista pensatore che fu anche un provetto artigiano; non mi rattrista la sua morte prematura. Un suo misterioso paesaggio dell'ex raccolta Ferrari di Ginevra mi scopre un cimitero e la scala rossa che lo vincolò in eterno con gli  eroi: quello stesso cimitero e quella stessa scala di Sant'Elia. Distinguo la luna bianca della sua grande dolcezza, e le  cose della terra non reggono, sono rovesciate su loro stesse. Le pitture religiose di Fillia sono un richiamo allo  spirituale puro, degli abbozzi di Paradiso. S’intende che  un tentativo di tal fatta non deve giungere al disprezzo  della cosa creata, dell’Incarmazione: ma non è il caso di  Fillia le cui forme della sua arte si disegnano, si creano e  si distaccano dalla loro causa prima. Tutto il lavoro dell’opera si riporta ad una giornata  ben definita della creazione dove gli uomini non sono  ancora che allo stato di abbozzo, ma dove la macchina  respira già, dove i fantasmi girano secondo una traiettoria circolare, dove l'arcobaleno annuncia la riconciliazione. Una siffatta pittura è infinitamente rispettosa, il suo  pudore è un perpetuo tremita davanti alla bellezza; essa  sprigiona cdelicatezze insospettate, scrupoli inauditi e nondimeno una audacia che le viene soffiata dallo spirito. Nonostante il suo atto di fede nella macchina, Fillia è  certamente un pittore spirituale. La bellezza intrinseca del.  le macchine corrispande ad un suo bisogno di esattezza  sovrumana, di perfezione nelle linee e negli spazi. È una  dimostrazione pratica che consente all'uomo di disincagliare la vera vita, di ricercare quegli elementi universali  dell’arte che scaturiscono nei momenti fecondi ed imperiali  delle Nazioni e ne rendono lo spirito eierno. Per non spappolarsi nella struttura, per non sgretolarsi alla radice, il futurismo è lui stesso alla ricerca dell'eterno. E’ ben vero che questa eternità non è sotto i  nostri passi, non è dietro di noi, ma davanti a noi, In  questo senso tutti i cristiani dovrebbero essere futuristi,  diceva Fillia, perché meno legati degli altri uomini al  passato e al presente, e più ferventi dell'avvenire. Questo  richiamo ad una tradizione spirituale, questo allenamento  {secondo la felice definizione di Marinetti) non ha nulla  di necroforo, non intralcia lo sviluppo dell'arte ma stimola, spinge in avanti, crea. Non si dimentichi perciò il contributo molto importante di quella autentica tradizione che  serve a ristabilire l'equilibrio normale. Infatti, all’inizio Je  forze novattici distruggono talvolta, svelano uno sprezzo  irragionevole del passato e di ciò che la vera tradizione  conserva pertanto di eternamente vivo. Un rifiuto non  controllato potrebbe anche andare a scapito del progresso  stesso e insabbiare per sempre l'incitamento che motiva  nuove conquiste. Non si negano gli elementi universali  dell’arte passata perché non si possono negare quelli dell’arte nuova. L’opera di Fillia rivela una tendenza perpetua verso  il progresso nel senso più alto della definizione. Trasformandosi da una pitiura all’altra svolge senza contraddizioni la sua sincerità primitiva. Un futurista non può  dunque negare la storia della sua opeta e tanto meno quel  la del suo movimento: egli porta il peso di un passato  inventato che non può rinnegare senza distruggersi. Questo passato inventato risale certamente al di là  del futurismo che costituisce una specie di dialettica  dello spirito  e affre l’unica possibilità capace di abbattere gli ostacoli. Il fiume precipita giù dalla cascata come  se vi prendesse nascita; in realtà la sorgente è al ghiacciaio.  Il futurismo ha radici italiane ed europee: il tempo aiuta  a farle scoprire senza remissione. Fillia è l'uomo intuitivo di una nuova era. Dalla sua  opera e dai suoi tentativi, come da quelli di Balla, di  Boccioni, di Prampolini, di Diulgheroff e di Benedetto,  si stacca un’arte pubblica universale che l'architettura funzionale rivela, contribuendo efficacemente alla diffusione  delle idee futuriste di Antonio Sant'Elia e degli slanci del  purismo di Le Corbusier. Nell’intento di realizzare ad ogni costo, Fillia si appoggiò al Regime attraverso gli interventi efficaci di Marinetti. Però, non ho mai visto Fillia in camicia nera,  ne lo sentii mai parlare di politica nostrana. Parlava solranto dell’Italia che amava. Le due idee rispecchiano gli  scopi e i metodi creativi di quel movimento indipendente  di buona lega che fu il futurismo torinese. 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Luigi Speranza -- Grice e Carlini: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della filosofia fascista – scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I love Carlini, and Speranza loves him even more,  but then he is Italian! My favourite is his “A brief history of philosophy,” especially the subtitle: “Da Talete di Mileto a Talete di Mileto, con una postfazione di Talete di Mileto – “Nel principio era l’acqua”!” – “Il primo filossofo – che cadde in un pozzo.” Si laurea a Bologna (“l’unica universita italiana”) sotto Acri. Insegna a Iesi, Foggia, Cesena, Trani, e Parma. E chiamato presso Pisa per sostituire Gentile, trasferitosi a Roma, come titolare della cattedra di filosofia teoretica. Membro dell’Accademia d'Italia. Inizia a farsi conoscere assumendo la direzione di una collana edita da Laterza che inizialmente venne lanciata sotto il nome di “Testi di filosofia ad uso dei licei”. Ad introdurlo nella Laterza è GENTILE, conosciuto qualche anno prima, e CROCE, all'epoca ancora in rapporti col filosofo di Castelvetrano. “Testi di filosofia ad uso dei licei” ha un scopo divulgativo, ma divenne presto celebre per l'alto livello degli autori che collaborarono in vario modo al suo interno, fra cui, oltre al C., anche Saitta e lo stesso Gentile. Oltre al lavoro di direzione e coordinamento in qualità di direttore responsabile, pubblica due saggi su Aristotele (in realtà raccolte aristoteliche da lui curate, commentate e tradotte) cui fa seguito uno studio su BOVIO che desta l'interesse di non pochi studiosi e l'approvazione di GENTILE, considerato da C. suo tutore indiscusso. Pubblica due corposi volumi che gli assicurarono un posto di assoluto rilievo nell’ambiente filosofico: un esaustivo studio sul sense e l’esperienza, e soprattutto “Lo spirito”.  In “Lo spirito” si inizia infatti chiaramente a delineare il proprio pensiero: adesione alla dottrina idealista, vista come sintesi fra il pensiero immanentista gentiliano (GENTILE è, fino alla propria scomparsa, suo amico, oltre che tutore) e quello crociano. Il soggetto attraversa un costante irto di dubbi ed angosce e un dialogo che riusciamo ad instaurare con noi stessi, in un percorso critico dialettico, una conquista realizzabile solo attraverso gli strumenti di una metafisica critica. La centralità della teoria della conoscenza e sviluppata in “Lineamenti di una concezione realistica dello spirito umano” e “Alla ricerca di noi stessi”, “alla ricerca di tu”. Comprensibile appare pertanto l'interesse che nutre per l'esistenzialismo, che però si espresse con una singolare preferenza verso Heidegger, nelle cui speculazioni trovarono ben poco posto le istanze metafisiche, piuttosto che nei confronti di Jaspers che su quelle stesse istanze aveva strutturato la propria filosofofia. Commenta il pensiero logico di Heidegger, e Che cos'è la metafisica? (“La nulla anihila”). Rende un commosso omaggio a Gentile con i suoi Studi gentiliani, raccolta di scritti in massima parte già pubblicati precedentemente, tesi a ricordarne la figura e le affinità intellettuali che un tempo lo avevano legato al grande filosofo siciliano. “Bovio” (Bari, Laterza); “Senso ed esperienza” (Firenze, Vallecchi); “Lo spirito” (Firenze, Vallecchi); “Note a la metafisica d’Aristotele” (Bari, Laterza); “Filosofia” (Roma, Quaderni dell'Ist. Naz. di Cultura); “Il mito del realism” (Firenze, Sansoni); “Lo spirito” (Roma, Perrella); Filosofia (Roma, Ist. Naz. di Cultura); Il problema di Cartesio, Bari, Laterza); Storia della filosofia, Firenze, Sansoni); “La Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi filosofici” (Firenze, Sansoni); Le ragioni della fede, Brescia, Morcelliana); Michelino e la sua eresia” (Bologna, Nicola Zanichelli). Dizionario biografico degli italiani. l'architrave 4  ala I ai Mi L. LL   SIRIA]   PST   IR del   (5   FILOSOFI ANTICHI E MEDIEVALI b)  A CURA DI G. GENTILE    ARISTOTELE    LA METAFISICA    TRADUZIONE E COMMENTO    AKA  E  EL Ò.  SX  QAR  RAT  (07 Ds)    A CUR. C.    gt    (O    )    53  Jy   i,  SK    NT    rx  SD    SR  AS,    di  CL n 4 ù TA  d    la  INS    a  SO    i Dya. | VAZAZA  pu SV  lea A PAGA NN  Ì rezza MI 7 / p) NIN N % té  dEILR Li CE. SENI È FILOSOFI ANTICHI E MEDIEVALI A CURA DI GENTILE  ARISTOTELE LA METAFISICA ARISTOTELE LA METAFISICA TRADUZIONE E COMMENTO CUR. DI C. STA  4 ar y A) ù  (NRE (2 CN  SES  ei rrA i N /2.,  (STRU: DEA  ISIN NZIIA SIA  SNA RNIMEN  ENI | Nin KI  ILA AVIS  & N , MS x Na  w ELE  VIRZIONI    BARI  GIUS. LATERZA & FIGLI  TIPOGRAFI-EDITORI-L]BRA A  GENTILE  AMICO E MAESTRO AMATISSIMO. Dubbi su l’autenticità di alcuni libri della Metafisica  aristotelica, e su la sua composizione, furono sollevati sin dai  tempi antichi. Il testo, quale noi oggi abbiamo, corrispondente, salvo lievi differenze, a quello del commento che va  sotto il nome di Alessandro d’Afrodisia, mostra sconnessioni  tali da far nascere sùbito i sospetti. L'occasione è offerta già  dal piccolo libro II (I minore, nell’enumerazione greca).  Asclepio (4, 9) notò che l’opera lascia molto a desiderare per  l'ordine della trattazione, e che vi sono passi ripetuti e parti  prese da altri scritti aristotelici; e aggiunse che, secondo alcuni, Aristotele aveva affidato ad Eudemo il manoscritto per  la pubblicazione, ma Eudemo non reputò opportuno pubblicarlo così come si trovava: il manoscritto subì molti danni  col tempo, onde, quando più tardi alcuni della Scuola ne  impresero la pubblicazione, non osando colmar le lacune di  loro testa, attinsero ad altre opere aristoteliche e armonizzarono il tutto meglio che poterono. L’autorità di Asclepio non  conta molto, ma quel che dice basta a provare che dubbi  si sollevarono ben presto. Questi non mancano del tutto negli  Scolastici, e risorgono più che mai con gli studi aristotelici  nel Rinascimento.   Nell’età moderna, dopo un tentativo, riuscito vano, di dimostrare che la Metafisica è un complesso risultante da libri  aristotelici ricordati nell’indice di Diogene Laerzio (nel quale  non si trova menzione della Metafisica), la questione è stata  ripresa, da un secolo in qua, più criticamente; ma, come    VUuI MBTAFISICA    spesso avviene, a un indirizzo rivoluzionario, che ha rifiutati  come spuri alcuni libri o parti di libri e tentato di dar al  resto un ordinamento del tutto arbitrario, si è opposto l’altro,  più cauto, di mantenere e giustificare, per quanto era possìbile, il testo nell’ordinamento attuale. A dar conto di tutto  ciò, ci vorrebbe un volume a parte, con dubbio vantaggio  per quel ch’è lo scopo principale della presente traduzione:  l'intelligenza dell’opera: la quale è senza dubbio di Aristotele, anche se redatta in qualche parte su suoi appunti e  ordinata nell’insieme da suoi scolari.   Ma non possiamo prescindere da un critico recente, dallo  Jaeger, il quale, dopo di avere, negli Studien zur Entstehungsgeschichte der Metaphysik des A. (Berlin, 1912), tentato di  sciogliere il testo nelle parti originarie, liberandole da quelle  via via aggiunte in sèguito, ha voluto, nel volume Aristoteles:  Grundlegung einer Geschichte seiner Entwicklung (Berlin), collegare la storia della costituzione del testo a quella  più generale dello sviluppo del pensiero aristotelico in tutte  le sue opere. A noi conviene, tuttavia, non allontanarci dal  nostro scopo, e però vagliare i risultati, a cui giunge lo Jaeger  per la Metafisica in particolare, soltanto dopo di avere fissata  la linea di pensiero che si svolge in ciascun libro o gruppo  di libri. Cominciamo dal libro primo. Questo primo libro della Metafisica ha une linea di svolgimento  interno e un'unità di concetto benwisibile. Pone dapprima il concetto  del sapere come fondato su l'esperienza e ascendente per gradi dalla  conoscenza sensibile a quella logico-scientifica; poi, distingue in seno  a questa la forma più elevate del sapere, quella filosofica, ch'è conoscenza dei principii e cause prime. °   Si presenta, allora, il problema della causalità come dottrina dei  principii di ogni realtà nel mondo. Dai primi pensamenti della causalità come ricerca dell'elemento o degli elementi primordiali, si passa,     Un'esposizione del contenuto (per questo come per gli altri libri) è data  nel Sommario. Qui si dà rilievo alle critica delle Idee, ch'è la parte più importante.     rx    sebbene vagamente, al concetto della causalità come principio efficiente  e finale, e alla scoperta della causa logico-formale, posta, quest'ultima,  chiaramente da Platone. L'interesse della trattazione si concentra  naturalmente, ora, su questo punto, ch'è decisivo, non soltanto per il  problema particolare delle varie specie di causa, ma, ben più, per tutta  le concezione aristotelica della realtà.   Della filosofia platonica A. espone prima (nel cap. 6) le origini storiche, la concezione centrale delle idee, la dottrina ultima delle ideenumeri: e accenna già al punto fondamentale di divergenza dal suo  maestro nel concetto del rapporto tra materia e forma. La critica si  svolge con certa ampiezza nel cap. 9, seguendo nell'insieme quest'ordine: a) contro la dottrina generale delle idee; è) contro le idee-numeri  in generale; c) contro la derivazione del geometrico dell’ari tmetico;  d) contro il concetto innatistico dei principii della conoscenza.   a) Per combattere la dottrina delle idee in generale, si parte dal  concetto rimasto nel platonismo delle idee come realtà trascendenti il  mondo sensibile. Le idee, infatti, non sono ancora l’intelligibile aristotelico, e per quanto la dialettica platonica abbia sempre più accennato a considerarle dentro il processo del pensiero pensante il reale,  esse non perdettero mai il carattere di reali posti accanto, e però fuori,  del sensibile. Questa trascendenza restò in seno all'idea stessa, quando  Platone distinse in essa il principio puramente formale (e però veramente ideale) da quello del molteplice, ch'è suo contenuto. Quindi  A. può dire che Platone, per spiegare il mondo sensibile, lo raddoppia  e moltiplica; e che quella spiegazione, in ogni modo, è puramente  formale (detinitoria), non reale, perchè l’idea non è causalità, attività,  principio interno alle cose (reale della stessa realtà di queste). E anche  nella sua formalità non può riuscire a dar ragione delle cose, perché  così il principio dell'unità come quello della molteplicità, presi nella  loro assoluta indeterminazione, non possono produrre concetti di nulla  che valga a intendere il reale nella sua costituzione effettiva. Col criterio dell'unità del molteplice, ad es., si dovrebbero ammettere idee  di proprietà, di relazioni, ecc., laddove l’idea vuol essere ragione di  ciò che nelle cose è fondamentale, ossia della sostanza. Ma come pervenirvi senza la distinzione dell'essere reale in ciò che ha di costitutivo ed essenziale da ciò ch'è suo modo di essere secondario o accidentale?   b) Contro le idee-numeri A. fa valere il suo concetto dell'astrattezza del numero, e la sua ripugnanza a identificare il pensare col  numerare. Le idee non si possono trattare aritmeticamente, nè possono esprimere la sostanza delle cose. Questa è data, invece, nel processo logico-reale dei generi e delle specie, con le determinazioni  peculiari che l’esperienza ci scopre nel mondo della natura.   c) Dal grande-piccolo, poi, cercano invano, i Platonici, di dedurre  le determinazioni delle figure geometriche. Non soltanto passano indebitamente da ciò ch'è inesteso (il numero) all’esteso (figura), ma  anche, in questo, tentano invano di spiegare il passaggio dal concetto  di punto a quello di linea, da questo a quello di superficie, da questo  a quello di solido. Considerandoli come divisioni del concetto (con  metodo definitorio), dovrebbero ridursi l'uno all’altro, predicarsi l'uno  dell’altro: la geometria verrebbe annullata. Invece, le figure geometriche si costituiscono nel processo di determinazione del concetto  di spazio, come svolgimento logico di esso ch'è insieme la sua generazione reale.   d) Tutte queste idee e idee-numeri, poi, in quanto son altra cosa  dalle sensazioni, l'anima le dovrebbe portar in sè, come una scienze  innata, e dimenticata. Ma come, allora, distinguerle e applicarle nei  casi* particolari? E se, avendole dimenticate, non ne possediamo in  principio attualmente nessuna, come dar origine al sapere? Ci vuole,  invece, un principio attuale in noi, l'intelligenza, dal quale scaturiscano  i principii, immediatamente, di ogni sapere; e ci vuole la sensazione  come punto di partenza di ogni conoscenza fondata su l’esperienza.   Così si ritorna al concetto posto nella prima parte del libro, e si  chiude il cerchio del pensiero intorno al fondamento del sapere. Nello  stesso tempo vien conchiusa l'illustrazione, proposta con la seconda  parte, della definizione della filosofia come scienza dei principii e delle  cause prime. L’indagine storica, che ha servito a quella illustrazione,  ha dato questo risultato: i Fisiologi trascurano l’incorporeo, non  vedon chiaro il processo causale efficiente-teleologico, ignorano la  forma; i Pitagorici confondono il fisico col matematico, ignorano la  causa del movimento, identificando le cose con la loro definizione si  lasciano sfuggire il concetto della forma; Platone mette in rilievo la  forma, ma cerca invano di assorbire in essa le altre specie di causalità. Conchiusione ultime è che nessuno dei filosofi precedenti vide  chiaro nel concetto della causalità; e tuttavia, pur attraverso le deficienze e i barlumi, tutti mirarono a esso e nessuno accennò ad altre  specie di cause da quelle poste. Si che si può dire che il concetto posto  della causalità, nella sua distinzione e precisa formulazione, risulta  storicamente confermato.    Su la data probabile (') della composizione di questo libro, v. nota al cap. 9, $ 2; e per il suo rapporto al lib. XIII,  dove è ripetuta quasi letteralmente la parte riguardante la     Poco dopo la morte di Platone, secondo lo Jaeger (Arist., p. 178), a poco  distante dalla composizione del dialogo regi priogoqplas, nel quale erano tre parti:  una storica, una contenente già la critica delle idee, una terza teologica, corrispondenti al contenuto dei libri I e XII della Metafisica. I primi due capitoli,  invece, di questo libro riproducono un motivo del giovanile Protreptico. La critica  delle idee in questo libro forse presuppone anche il magl l8e6v (v. nota a 9, 2). critica delle idee, v. nota, ivi, al cap. 4, $ 4. Anche l’aggiunta del $ 11 a questo capitolo del lib. XIII prova che  quella parte fu trasportata dal lib. I nel XIII, e non viceversa, come pensa il Christ (v. nota al testo greco, nella sua  edizione, in fine al cap. 7).   Più difficile da risolvere è la questione per il cap. 10:  v. nota, ivi, al $ 1. L’ipotesi dello Jaeger è ravvalorata dal  fatto che la fine di questo capitolo distingue due ordini di  aporie: le prime, intorno allo stesso argomento del lib. I,  debbono spianare la via alle seconde, e queste ultime sembrano dover essere quelle del lib. III. Sì che parrebbe che  la clausola finale del cap. 10 stesse più a posto alla fine del  cap. 7. È vero che il Ross obietta potersi riferire anche le  prime aporie al lib. III, adducendo le parole iniziali del $ 3°  del III. 1; ma, da un lato, resterebbero indeterminati «i problemi ulteriori , a cui A. accenna; dall’altro, par poco verosimile che un libro così rieco e ben ordinato, come questo I,  dovesse conchiudersi con l’attuale cap. 10.   Ma c’è un’ipotesi ulteriore dello Jaeger: che, trasportata  la critica delle idee al lib. XIII, A. stesso pensasse più tardi  di far terminare il lib. I col cap. 7. Togliendo, infatti, la  clausola finale ($ 8), si avrebbe un risultato della trattazione che par definitivo ($ 7: questo potrebbe esser stato  aggiunto dopo, proprio a questo scopo). Qui sorge una questione che involge quella dell’origine storica e dell’ordinamento delle parti di tutto il libro. I lavori dello Jaeger,  a mio avviso, mettono fuori discussione un punto di capitale importanza: che la Metatisica non segue il piano di  svolgimento di un’opera propriamente detta: essa non è  un «libro , come siam soliti d'intendere, ma una « serie   di libri, o di parti, delle quali ognuna ha originariamente  una sua propria significazione. Certo, non è una serie  « episodica : c’è un ordine generale tra le varie parti, anzi  un nesso interiore che fa della Metafisica un’opera organica.  Ma quest’organismo risulta dal movimento complessivo del  pensiero, indipendentemente dall'ordine che vi hanno le varie parti, e quest'ordine, in quanto mira a un disegno o piano costitutivo dell’opera intera, è dubbio che si possa  attribuire (come pur lo Jaeger sostiene, non ostante la sua  tesi accennata) ad A. stesso. Prendiamo questo libro I: ci sarebbe di questo la prima redazione, ch’ è l’attuale con l’esclusione dell’ultimo capitolo; una seconda redazione, rielaborando il cap. 7 come dianzi s’è detto, avrebbe mirato a unire  il lib. I al III; in una terza redazione A. avrebbe pensato di  far terminare il libro al cap. 7. Ora, a me pare che la prima  ipotesi abbia molta probabilità, minore la seconda, presso che  nessuna la terza. Perchè sopprimere tutto il cap. 8 e la parte  del 9 non compresa nel XIII? E, soprattutto, perchè guastare  un libro che, integrando l’esposizione storica con la parte polemica, si presenta di così unitaria fattura come poche altre  parti della Metafisica? E con la terza redazione non si sarebbe  perduto il vantaggio della seconda ? Quanto a questa seconda,  poi, non va trascurato che, in ogni modo, il nesso tra il libro I  e il III resta più esterno che interno: non si può dire che questo rappresenti uno sviluppo di quello stesso, o, insomma, che  l’uno presupponga l’altro necessariamente.   Lasciando, dunque, in disparte le questioni d’incerta soluzione, possiamo tener fermo questo: che il libro I raccoglie un corso a sè (A6yoc, péd0osoc) di lezioni (conversazioni e  discussioni), tenuto da A. intorno al concetto della causalità  nella formulazione già data in precedenti scritti di Fisica  (cfr. 3, 6), allo scopo di dimostrare ch’essa va concepita secondo la quadruplice distinzione immanente a quel concetto,  di cui il valore è insieme ontologico e gnoseologico (epistemologico). Quest’immanenza, che tuttavia non accenna ancora a risolvere le distinzioni in un principio unitario, è ciò  che dà il tono più aristotelico alla trattazione: chè la distinzione, per sè, delle quattro specie di causa egli la derivava  dalla scuola di Platone. :    3.  Lo sviluppo del pensiero nel libro II è il seguente.    Il capitolo primo pone il concetto della filosofia come scienza della  verità, ed illustra poi la definizione a parte subiecti e a parte obiecti.  La difficoltà di vedere con chiarezza la verità dipende dalla debolezza del nostro occhio mentale: di qui }a necessità di esercitare ed educare la nostra facoltà intellettiva. A questo può giovare molto il contributo de’ pensieri altrui intorno alle verità. (In questo modo, vien  disperso il germe di misticismo, o di scetticismo, e di aguosticismo,  ch’era nel pensiero precedente: la difficoltà non è insuperabile, come,  invece, è quella dei pipistrelli di fissare la luce del giorno).   . La verità, oggettivamente, è l'essere stesso delle cose. Per cui  l'essere ch'è più essere, è anche il più vero: è causa prima dell’essere  e della verità di tutto il resto. Tale è l’essere eterno, e i suoi principii Son principii di tutto.   Dopo ciò, si attenderebbe di passare alla ricerca dei principii dell'essere eterno, di ciò che non appartiene al mondo corruttibile. Invece, il pensiero si abbassa nel capitolo secondo al mon do del divenire  in generale per affermare la necessità di porre un principio, ansi dei  principii o cause prime del suo essere e del nostro conoscerlo.   Non ostante la oscurità e incertezza di singoli punti, la tesi svolta  in questo secondo capitolo, dell'’impossibilità di un processo all’ infinito, risulta abbastanza chiara. Ci ha de essere, anzitutto, un punto  di partenza e un punto di arrivo: un processo chiuso, in somma, da  entrambi i lati. Chi pone, infatti, una questione di causa-effetto, comincia di necessità de un punto, de un fatto, ch'è il primo, poniamo  l'attuale, dal quale procederà, rimontando indietro, alle cause che  l'hanno prodotto. Se, poi, vien concesso un punto di partenza, l'acqua  o l'aria, ad es., per spiegar l'origine causale delle cose, ci vorrà necessariamente un punto d’arrivo: bisognerà pur arrivare al mondo  attuale delle cose. L'oggetto (il mondo, la cosa, la realtà attuale) è,  così, determinato ne' suoi limiti estremi.   Qui, allora, si pone un problema più interno a esso: il concetto  del suo divenire in quanto processo immanente. A. presenta il suo  concetto del divenire come svolgimento graduale, irriversibile. E passa,  quindi, alla considerazione della necessità di un principio finale e di  un principio formale. (La dimostrazione precedente dava rilievo specialmente alle causa materiale e a quella efficiente, in riguardo alle  quali si esercita in primo luogo l’aporia del processo all'infinito).   In fine: son queste tutte le possibili specie di cause? Le domanda  in A. suona così: possono esser infinite le specie di causalità? Egli  non affronta veramente il problema, e si limita a constatare che, se  fossero infinite, noi non arriveremmo mai a conoscer veramente una  cose. Il concetto di tempo, qui introdotto, non aveva che vedere. Se  mei, un altro: che le molte cause debbeno formare una causalità totale, affinchè possiamo affermere di conoscere una cosa.   L'ultimo capitolo comprove l'indole proemiale del libro. In esso  si chiarisce il metodo di trattazione ed esposizione proprio delle scienze  in riguardo al modo di pensare comune, e la differenza tra il procedere matematico e quello delle scienze fisiche. Di quello filosofico non    X1V MBTAFISICA    si parla. Ma, mentre nel cap. 1 la metafisica par aver in comune con  la fisica lo studio della realtà delle cose, qui il suo oggetto (e però  anche il suo metodo) par più vicino a quello della matematica.    Per l’autenticità, v. nota  al libro: ne sarebbe redattore Pasicle, di Rodi; per la sua tardiva inserzione in questo punto, v. nota a IlI. 1, 3. Ma anche il tono generale è  ancora quello del libro precedente: cfr. il cap. 1 col 2 del],  e la susseguente trattazione della causalità in entrambi. La  sconnessione tra il cap. 1 e il 2 (cfr. nota a 2, 1) si può  spiegare con l'interruzione degli appunti presi da Pasicle.    4.  La serie di questioni, di cui risulta composto il libro III, comunque si vogliano dividere e numerare, ha un  ordine interno di pensiero, e comprende veramente i problemi capitali della metafisica aristotelica ?    Poichè la filosofia è la scienza delle cause prime, è giusto cominciare  dall’aporia prima: se, infatti, le cause son di più specie, l’esistenza  di quella scienza par compromessa. Quando A. avrà definito come  oggetto della metafisica l’essere in quanto essere (IV. 1 e VI. 1), serà  chiaro che quelle cause debbono esser studiate da essa in quanto causelità dell'essere stesso. Questo concetto porta a una superiorità della  metafisic a su le altre scienze: a una scienza dei principii di tutte le  scienze. Questi son di tre specie: principii logici, o assiomi; il genere  delle sostanze o cose prese in considerazione; e le proprietà, accidenti  o attributi che vengon dimostrati di esse. Bisognerà che la metafisica  sia scienza di questi principii. Di qui le aporie 2-4, nelle quali A. tace:  a) che c’è un altro tipo di scienza oltre quello apodittico; è) che dei  principii logici, o assiomi, la metafisica deve considerare il principio  primo, quello ch’ è il fondamento degli altri di ciascuna scienza; c) che  la sostanza studiata dalla metafisica è, diciam così, l'a priori o trascendentale delle sostanze particolari, sì che una scienza di essa non  è, per questo, una scienza (unica) delle sostanze (tutte); d) e che gli  accidenti, di cui tratta la metafisica, son quelli soltanto che appertengono al concetto dell'essere in quanto tale.   Il predetto modo di considerare la scienza e i suoi principii riceve  in concreto il suo significato, per A., dall'opposizione in cui si pone  al concetto platonico del sapere. Per Platone e per i Platonici la  scienza non è della realtà sensibile, ma delle sdee e degli intermedi:  essi, staccando l’oggetto del sapere dal sapere stesso, lo ipostatizzano  e moltiplicano in entità ideali o matematiche. Non vedono che la realtà  studiata dalle scienze è la stessa, la realtà naturale: solo che è con  NOTA INTRODUTTIVA xv    siderata da punti di vista diversi. Soltanto su la base di questa diversità di punti di vista è lecito porre una diversità anche dei loro  oggetti: dell'oggetto della fisica da quello della matematica, e di  quello proprio della metafisica.  La forma aporematica in questa  questione (ò3) è più tenue: prevale l'opinione contraria all’esistenza  delle idee e degl’intermedi.   Ma è pur vero che l'oggetto della scienza fisica solo in generale  si può dire ch'è la medesima realtà naturale: in concreto ci sono  tante scienze quanti sono i generi di essa. Sì che, pare, i suoi principii  (che la metafisica deve studiare) debbono essere questi generi resli,  non quelli dell'essere nella generalità del concetto. La tesi vien ribadita nella questione 6a con la considerazione delle superiorità del  principio definitorio su quello meramente materiale delle cose. Ma il  vero sviluppo della tesi è nelle questioni che seguono. In primo luogo,  nélla 7a: se si prendono come principii i generi, come determinarne  il numero? Si ricorrerà all'’Uno e all'Essere come principio di tutti?  Ma l'Uno e l'Essere non son genere, e per la loro indeterminatezza  non possono in concreto spiegarne nessuno. Senza dire che entro  l’imbito dello sviluppo di ciascun genere, questo genere stesso si moltiplica indefinitamente passando attraverso le sue varie specie, sì che,  da una parte, non si tratta, in realtà, di un genere unico nel senso  dell'identità, anzi di molti generi; dall'altra, esso non esiste fuori  delle specie in cui si realizza: sì che principii, se mai, sono le specie  o concetti specifici piuttosto che quelli generici,   Qui sorge, allora, une difficoltà: noi, anche ponendo come principii  le specie, riconosciamo che i principii son tali in quanto universali.  Ln specie, anche quella più vicina alla concretezza dell'individuo, è  pur sempre un'universelità. Questo pensiero, mentre chiude la questione 7* con un’argomentazione in favore dei generi che hanno un’universalità maggiore delle specie, apre la via alla questione 8*. La quale ha  una parte poco o nulla aporematica: quella in cui A. si pone lui stesso  il problema d'intendere come un principio possa essere universale, e  tuttavia non esistere fuori dell'individuo. Egli lo risolve facendo della  specie la forma che si realizza nell’individuo, nel sinolo, e tuttavia  non si esaurisce nella particolarità di questo. Ma c'è una parte, anche,  veramente aporematice: la forma in niun caso è separata? (Dio è separato). E anche dove non è separata (nella natura), ma immanente  agl'individui, diremo ch'essa è unica (identica) in tutti, o differente  in ognuno? Nè l'una nè l’altra affermazione è sostenibile: nel primo  caso si ha una identità materiale, numerica, una sostanza uguale in  tutti gl'individui, che sarebbero, così, tutti, una cosa sola; nel secondo,  la differenze sarebbero tante de sopprimere ogni realtà, unità e identità, della specie entro la quale soltanto, poi, si realizzano quelle  differenze.   La questione ®, infatti, fa vedere che nè il primo punto di vista,    XVI METAFISICA    nè il secondo, sono soddisfacenti.  A. qui tace la sua soluzione: dell’unità che si realizza attraverso le differenze, onde il punto di vista  ch'egli chiama numerico non è guardato fuori di quello specifico, e  viceversa.   .+ Questa soluzione, sottintesa, presenta, tuttavia, una difficoltà al  pensiero di A.:il concetto di svolgimento, in cui l'identità si concilia  con le differenze, vale, propriamente, per il mondo della generazionecorruzione. Come estenderlo al mondo di ciò ch'è eternamente lo  stesso? La soluzione di questa difficoltà (questione 10*) parrebbe data  nel pensiero aristotelico dalla considerazione della realtà naturale nel  complesso del sistema, dove i cieli rappresentano anch'essi un grado  di svolgimento in perfezione.   Ma, qui, allora, torna più incalzante la questione (11°) già accennata a proposito dei generi: se, cioè, considerando la realtà nella  sua totalità, e non nelle divisioni in cui si offre dei generi diversi,  si debba dire che essa è quell’Essere e Uno che Parmenide, Pitagorici  e Platonici, per diverse vie, ponevano come principio primo e assoluto. Il pensiero prevalente in questa aporia è che porre l’Essere e  Uno come reale porta necessariamente a negare il molteplice e il numero. A questo punto s'insinuerebbe una difficoltà, quale un oppositore potrebbe addurre: se non è reale l'Essere-uno, come è reale il  molteplice-numero? Come, senza quello, spiegar questo? A., che alla  difficoltà ha tacitamente risposto dianzi per quanto riguarda la realtà  della forma e della natura nel loro svolgimento, attenua la questione  riducendola alla parte riguardante l'uno-molteplice matematico, cioè  alla realtà del numero e degli enti matematici in generale. E passa, così,  ‘alla questione 12*. Spezza una lancia in loro favore, me per dovere  dialettico più che per convinzione: questa si vede bene nella parte  opposta, la quale conferma definitivamente l’astrattezza del punto di  vista matematico, impotente a spiegare la realtà sostanziale e il processo di generazione delle cose. °   Quella realtà sostanziale i numeri, mera determinazione quantitativa, non possono darla. Ci vuole una determinazione qualitativa,  un'unità formale, non materiale. A questo, infine, mirò Platone quando,  prima di complicare la sua dottrina con quella pitagorica, pose per,  principio l’Idea. Nella questione 13*, infatti, A. par così pensare.   Il passaggio alla 14° questione è oscuro: l'occasione può esser offerta del pensiero che l'Idea platonica, pur in certo modo lodata dianzi,  é mera possibilità, non attività.   Le questione 15* non sembra introdurre un problema nuovo ed è,  come la precedente, appena accennata.    ‘Integrando, dunque, il pensiero espresso con quello sottinteso, si vede svolgersi, attraverso l’apparente molteplicità,  una questione unica: qual"è la natura del principio o dei principii, di cui la metafisica è scienza. Le prime quattro  questioni sono introduttive, e son quelle che hanno una più  immediata soluzione nei primi tre capitoli del libro IV e  nel 1 del VI. Questi tre libri (ITI, IV, VI) vengono perciò  considerati come formanti un gruppo idealmente e storicamente Compatto, e la prova maggiore di ciò è attinta dal  fatto che il loro contenuto si presenta unito anche nell’abbozzo del lib. XI. 1-3. Ma la forma in cui queste prime quattro questioni vengon riprese, discusse e risolte, mostra, con  la diversità d’impostazione nel IV e nel VI, con gli sviluppi  ed i pensieri ivi aggiunti, che il III ha, anche, una propria  autonomia. Tanto più questo diventa evidente per il resto  della trattazione: le undici questioni, che vengon dopo quelle,  trovano una risposta nei libri VII, IX, X, XII-XIV, ma in  forma generalmente indipendente da quella che hanno nel  lib. III ('). Sì che soltanto approssimativamente, e badando  più ai germi speculativi racchiusi in esso che alla loro posteriore trasformazione, si può riguardare questo libro come  un programma svolto nei libri seguenti. Per se stesso, esso  è una ripresa del motivo dominante già nel I: i principii  del reale non si possono più concepire platonicamente, come  idee e intermedi, e tuttavia essi debbono, come Platone pur  vide, trascendere la realtà considerata al modo dei Presoeratici. Per questo rispetto la questione 13° è da considerare  come conchiusiva (*). Il « noi , ch’è in principio (6, 1: cfr.  anche 2, 17), mostra che A. si considera ancora dell’Accademia come nel lib. I. :    5.  Anche il lib. IV ha un’unità di pensiero, che ne fa  una trattazione indipendente, non ostante la connessione  col III.     Vegga, chi desidera, i raffronti fatti dal Ross, nell’Introduzione (vol. I  della sua ediz. della Met. con comm.: Oxford, 1934), pp. XxIM-xxIv, © pp. 298-233;  e i richiami da noi posti nelle note al libro,   (9) Lo Jaeger (Arist., p. 322) ha avanzata l’ipotesi, abbastanza persuasiva,  che la questione 14° sia stata aggiunta più tardi, dopo l’inserzione dei libri VII-IX:  e888 MANCA, infatti, nei capitoli corrispondenti dell'XI. Si può pensare che anche  la questione 16 sia stata rielaborata e posta in fine a questo scopo. La Parte prima espone concetti generali su l’oggetto della filosofia  e sul suo rapporto alle altre scienze; e, propriamente, nel cap. 1 si  accenna all’universalità e necessità dell'oggetto della metafisica in  opposizione alla particolarità e contingenza di quello delle altre  scienze in generale; nel 2, la metafisica (non ostante alcune riprese  dell'argomento del cap. prec.) si presenta piuttosto come «filosofia   nel senso platonico più generale, e la questione del rapporto non è  più ‘alle scienze, ma alla dialettica. Meglio: alle specificazioni o applicazioni della dialettica, nella Sofistica (eristica), nella Dialettica propriamente detta-(esercitazione logica), nell’Apodittica. Questa tripartizione  corrisponde a quella da noi notata (a 2, 1) dei tre aspetti del pensiero  per A.: soggettivo-verbalistico, logico-discorsivo, logico-oggettivo: tre  aspetti che abbiamo trovato espressi anche nella formulazione del principio di non-contraddizione, e nella conseguente difesa che ne fa A.  nella Parte seconda. In conchiusione, quanta è la distanza tra la Sofistica e la Dialettica, tanta e più è tra la Dialettica e l'Apodittica: la distanza, qui, è misurata dall'amore della verità, e qui la Filosofia sta  vicino all’Apodittica. Se ne allontana, invece, per l'oggetto e per il  metodo: l’oggetto dell'Apodittica è quello della scienza propriamente  detta, sempre empirica in fine; mentre la filosofia studia la realtà in sé  e per sè, nel suo significato e valore assoluto. Il metodo scientifico è,  perciò, dogmatico, quello della filosofia critico: essa soltanto esamina  e discute i principii primi nel senso dei fondamenti stessi di ogni  conoscere e sapere. E si rifà, quindi, al principio primo di quei principii, che è il pensiero in sè e per sè.  È da notare, tuttavia, che  A. mantiene questo concetto dentro l'ambito della dialettice platonica,  per cui i principii dell’apodittica vengon limitati a certe verità logiche  o nozioni comuni del pensiero discorsivo, chiamate assiomi, e conseguentemente anche il principio primo resta limitato nell’ambito di essi,  come un assioma, per quanto supremo e più saldo.   La difesa di questo principio logico si svolge in tre parti: la prime  (cap. 4) mire prevalentemente all'eristica; la seconda (capp. 6-6), ai  dialettici seguaci di Protagora; la terza (capp. 7-8), a confermare,  contro i precedenti avversari, il principio di non-contraddizione mediante l’altro, implicito in esso, del terzo o mezzo escluso. A quali  avversari A. abbia l'occhio, nella loro precisa determinazione storica, non è sempre facile stabilire. Oltre gli Eraclitei e i Protagorei,  è molto probabile ch'egli abbia in viste i Megarici ei seguaci di Antistene (v. lib. V. 29, 2): è il gruppo stesso contro il quale è diretto  il Teeteto di Platone, ma allargato e fatto più petulante per pretese  di ragioni logiche.   La prima parte della difese ha carattere negativo (la seconda, carattere positivo), e, trattando con gente che fa questione meramente  discorsiva, non rifugge dall'uso del metodo sofistico (così come negli  Elenchi Sofistici). Quel che più importa è di costringere l'avversario & der un significato preciso alle parole ch'egli adopera (cfr. Sommario,  a). L'essere e il non-essere (0, uomo e non-uomo) sono presi come  casi estremi: se non si riesce a fargli distinguere questi, non c'è da  sperar più nulla. Un secondo ordine di considerazioni riguarda le  conseguenze in rispetto al reale (chè, in fine, non si vuol far questione  di parole, dice A., ma di fatto): non c'è più modo di distinguere la  sostanza dall’accidente, un accidente de un altro, una cosa da un'altra  cosa (è, c). Vien fuori il caos! (A., con la maggiore serietà, dà all’avversario un fondamento scientifico e avvicina questo caos alla dottrina  anassagorea, o alla propria della potenza indeterminata). Un terzo  ordine di considerazioni riguarda le conseguenze in rispetto al giudizio (d, e): non c’è più opposizione tra l'affermare e il negare, e costoro o non dicon nulla o contraddicono se stessi. Ma, poichè neanche  questa considerazione può spaventer l'avversario, che fe proprio di  questa contraddizione il suo principio inespugnabile, A., stanco dell'assedio ($ 32), invoca contro di Jui il buon senso e la testimonianza  del giudizio pratico, onde nella vita nessuno è scettico, perchè della  verità noi abbiamo bisogno per inoppugnabile necessità.   La difesa è ripresa da ccapo determinatamente ai Protagorei (distinti  in seri e non seri, ma questi sono ancora quelli della parte precedente,  e non si aggiunge per essi nulla di nuovo). Anche questa è divisa in  tre ordini di considerazioni, le quali, per maggiore chiarezza, chiameremo oggettive, soggettive, oggettivo-soggettive. Quelle oggettive  si rifanno alla dottrina eraclitea e le sostituiscono le concezione che  A. he del rapporto dei contrari nel divenire reale (a). In conchiusione,  il divenire presuppone l'essere: l'essere del sostrato e delle sue forme  (non solo intelligibili, me anche sensibili!); e oltre quest'essere che  passa da una forma all'altra, c'è l'essere che non passa, ma è eternamente lo stesso.  Le considerazioni soggettive prendono in esame  il criterio della verità posto da Protagora nella sensazione (d, c).  L'errore dei Protagorei è di ridurre l'intelligenza alle sensazione,  questa o all'immaginazione o all'impressione corporea (si scopre la  tendenza materialistica, l'affinità alla dottrina democritea, di questa  dottrina). Con felice ardire A. prende l’avversario nel suo stesso principio: l’atto del sentire è vero, di una verità non contradittoria, se  guardato nella sua piena attualità. Le differenze di quell'atto si spiegeno dal di dentro di esso stesso, come capacità dell'anima di sentire  l'un contrario e l'altro. Ma A. non ve più in là di quanto gli basta  contro i suoi avversari: quest'atto si determina nell’attualità come la  potenza dei contrari nelle cose, e il suo determinarsi in un modo o  nel modo opposto dipende da circostanze esteriori. Per questo, il pensiero arietotelico trova aperta lo via a ripassare dalla legge di noncontraddizione a quelle dei contrari (6, 12), come s'è notato a suo  luogo (nota alla fine del. cap. 3).  Il terzo ordine di considerazioni  riguerda, più propriamente, il concetto protagoreo della correlatività, dell’esistenza del soggetto e dell'oggetto nell'atto o incontro istantaneo  che produce il conoscere. In quell’atto soltanto esiste per Protagora  il soggetto e l'oggetto, almeno per noi. Ad A. sembra che questo sia un  vanificare la realtà (5, 26-28; 6, 8-10), la realtà dell'oggetto e quella del  soggetto, le quali esistono come potenze per se stesse, e sono il sostrato  nelle cose e l’anima in noi. Egli ha, bene, il suo principio dell’atto,  ma questo, a differenza di quello protagoreo, è realtà ch'è insieme  esistenza e verità positiva dell'oggetto e del soggetto, perchè ripete  il suo principio primo da quell’atto puro ch'è la ragion prima di tutto  il reale.   La parte terza illustra il principio del terzo escluso mostrando  come la negazione di esso porta alle conseguenze esaminate precedentemente: si confonde tutto, e non si dà più un significato alle  parole; si sopprime il giudizio, il quale non può non essere o affermativo o negativo; non s'intende più la realtà nel suo divenire determinato dalla legge (aristotelica)dei contrari. Sono ancora i tre aspetti  della questione, come noi l'abbiamo distinta. E questi si avvicendano  paragrafo per paragrafo nel cap. 7. La dottrina eraclitea sembra favorire il mezzo nel senso positivo (e-e), e negare più immediatamente  il giudizio nella sua disgiuntività e la stericità del negativo nel divenire reale; la dottrina anassagorea sembra favorire il terzo nel senso  negativo (né-nè), e l’eristica. Ma poichè la forma positiva e la negativa  si equivalgono in fine, le due dottrine vengon ridotte l’une all'altra  (7, 10; 8, 2).  L'ultimo capitolo ha carattere conchiusivo: il principio di  non-contraddizione esige per ogni giudizio l'affermazione del vero come  opposto al falso, sì che l’uno non s'intenda senza l’altro: nasce nell'opposizione all’altro. Posti uno fuori dell’altro (come due che si  contraddicono), il vero si converte in falso, il falso in vero, immediatamente, Il giudizio presuppone questa disgiuntività, ch'è opposizione  assoluta del vero al falso, e mediazione dell'uno per mezzo dell'altro.  Ma, come per l'atto del sentire, così qui per quello del pensare logico  A. non dialettizza, poi, in sè l’atto del giudizio ne’ suoi momenti delle  negazione e dell’affermazione: queste, così come il vero e il falso, pur  opposti e uniti nella sintesi che li media, gli divengono due giudizi  corrispondenti a quelli che nella realtà delle cose sono i contrari. Il  capitolo, infatti, termina passando bruscamente ell’esempio di coloro  che o affermano esistere soltanto il movimento (eraclitismo), o soltanto  la quiete (eleatismo): i quali sono due stati contrari, ognuno in fine  esistente positivamente in atto senza l’altro, anche se idealmente l'uno  nasca dall’opposizione all’altro: onde sono insieme in potenza. Anche  realmente, in quafito si guardi ell’essere nella sua universalità:  nell'universo, infatti, il movimento, ch'è anche cangiamento, digrada  sempre più verso la quiete e l'’immutabilità assoluta. L’e-e di Eraclito,  così come il nè-nè anassegoreo risorge, ma in altro senso, dentro la  dottrine aristotelica dei contrari, come un divenire ch'è intermedio tra i due stati opposti dell'essere, attraverso i quali passa l’essere  svolgendosi nella fenomenia della natura: quell’essere che, in quanto  è, spiega il divenire (Eraclito), mea è anche al di là del divenire (Parmenide). E come l'essere, così il pensiero nello svolgimento umano  dall’errore alla verità, de una verità a una verità superiore. La scienza  di questo essere ch'è pensiero, perchè il pensiero è l'essere stesso  delle cose, è la filosofia, nel senso ancora della dialettica platonica,  diversa dalla Sofistica per l’amore della verità, dalla dialettica delle  opinioni per la verità, dall’apodittica per la consapevolezza della verità che possiede e cerca (i).    6.  Il lib. V, citato più volte nella Metafisica e altrove  con la frase tà megi toù smocayic, o altra simile, e ricordato  con proprio titolo nel catalogo di Diogene Laerzio, è sembrato a molti una mescolanza di pensieri troppo disordinati  e di vario genere per poterne ricavare, come pure altri tentarono, un disegno o una qualsiasi linea di trattazione. Qualcuno lo riguarda quasi un piccolo dizionario dei termini  più usati in filosotla; ma questa non può esser stata, di Sicuro, l'intenzione dell’autore: chè troppi sono i termini  mancanti, e de’ più importanti; nè l'indole della trattazione  è quella di un’esposizione in tal senso. Pare piuttosto che  si tratti di un primo tentativo (questo libro è probabile che  sia stato composto prima degli altri della Metafisica) di chiarimento di alcuni concetti, dai quali moverà la riflessione  aristotelica per l'ulteriore elaborazione. Gran parte di essi,  infatti, vengon ripresi, chiariti e sistemati in altri libri e  scritti. Guardando bene, si scorge facilmente che un ordine,  o meglio una serie di problemi organizzati intorno a, un nucleo di carattere strettamente conforme al resto della Metafisica, c'è; ma è un ordine piuttosto interiore che esterno,     Un’esposizione di questo libro sì trova nel volume di Guino CaLoczro,  I fondamenti della logica aristotelica (Firenze, Le Monnier, 1927), di cui un saggio  fu citato in nota al 8 20 del cap. 4. La tesi del C. è che la logica dianoetica  di A., che concepiace l'attività del pensiero come sdoppiamento predicativo (e  quindi come giudizio, sillogismo ed apodissi) sl riduce interamente alla posizione  noetica, laquale fonda ogni determinazione del contenuto logico su l'atto unitarlo dell’appercezione intellettuale (noetico). La dimostrazione è condotta con  vigore e penetrazione. La mia esposizione, qui come altrove, vuol essere più  aderente ai termini in cui si presentava ad A. storicamente il problema. risultante piuttosto dal complesso che dalle parti così come  son disposte in questo libro.    I primi capitoli su principio, causa ed elemento mostrano subito l’interesse predominante per l'oggetto della scienza prima, e preludiano  alla ricerca propria del lib. I; il cap. su la natura è strettamente legato allo stesso argomento: la distinzione di materia e forma, e i  principii aristotelici intorno al divenire naturale ci sono già tutti  chiaramente. Aggiungerei a questi, come complementari, i capitoli su  ctò per cui e per se stesso, da qualcosa, genere, perfetto e limite o termine.   Un altro gruppo ben definito di pensieri è intorno.alla sostanza e alle  sue determinazioni: quantità, qualità, disposizione, abito, affezione, privazione, avere, e intorno al relativo.  L'essere già si pone nelle distinzioni dell’accidentale e dell’essenziale, del vero e del falso, e (per il  processo reale) della potenza e dell’atto. Le indagini su la potenza, sul  necessario e su l’accîdente, sul falso, approfondiscono l’uno o l’altro  aspetto di quelle distinzioni. Meglio ancora si profilano le distinzioni  dialettiche dell'unità, dell’identico, dell’opposto, che verranno elaborate  nel lib. X. Con il concetto di unità stanno quelli di parte, intero e tutto,  e anche il capitolo su mutilato ha relazione con questi; mentre il capitolo su anteriore e posteriore si lega variamente alle riflessioni su la  natura in sè o in rapporto alla nostra conoscenza.  Sono, come si  vede, i problemi dei primi libri della Metafisica, sebbene non ancora  distinti e ordinati come, poniamo, nel lib. III. Onde il raggruppamento  da noi fatto non è rigoroso: nel capitolo, ad es., su ciò per cui e per  se stesso ci sono considerazioni che toccano di più la questione della  sostanza e dell'essenza; e il capitolo su relativo ha pensieri che stanno  bene con quelli delle distinzioni dialettiche.   Si può notare, inoltre, in questo libro, una più rilevante mescolanza del punto di vista naturale e oggettivo con quello umano e soggettivo: già nel cap. 1 si vedono, per es., al paragrafo conchiusivo,  messi insieme la natura e gli elementi col pensiero e la deliberazione;  così nel cap. 5 per il necessario, nel 28 per i) genere, e nel capitolo  seguente per il falso ($ 3: un «uomo falso ). E spesso anche altrove.  La mescolanza su detta deriva in parte dell'altra, molto lamentata dai  commentatori, del modo comune di parlare messo insieme con quello  filosofico, e, in generale, dal minor rigore (ch’ è spesso anche minore  chiarezza), o nel pensiero o nell'esposizione, predominante in questo  libro in confronto con gli altri della Metafisica.    Niun dubbio che questo libro è stato aggiunto in epoca  posteriore: messo qui forse perchè citato in VI. 2, 1 e in  VII. 1, 1. Ma, evidentemente, esso interrompe la continuità  del gruppo che dopo il IV vuole il VI. Il lib. VI è breve, quasi quanto il II, ma supera  questo di assai per importanza, in sè e in rapporto agli  altri libri.    Anch'esso si compone di tre parti, tra le quali non è visibile immediatamente il legame, se si bada, non al-risultato comune dichiarato, ma alla sostanza di ognuna di esse. Il risultato comune è che  l’oggetto della metafisica è l'essere in quanto essere, non l’accidentale,  o ciò che ha una realtà soltanto soggettiva: è il vero essere, di cui  la realtà è eternamente, universalmente e necessariamente, tale. Ma,  poi, la prima parte svolge, con punti di mirabile chiarezza, il rapporto tra la metafisica e le altre scienze, come un problema a s'; la  seconda tratta la questione dell’accidente senza coordinarla a quanto  precede o segue; e così la terza, per il vero e falso. Nè si può dire  che A. nelle parte prima non faccia un posto conveniente anche alle  altre scienze; e nella seconda oltre « ciò ch'è sempre  si pone come oggetto di scienza anche «il per lo più; e nella terza è un accenno  che oltre al vero nel senso soggettivo c'è pure una verità che serve  di fondamento a quello, e non è perciò da relegare fuori della metafisica, insieme all’accidente e quasi al non-essere. Tuttavia, nel complesso, il movimento principale del pensiero in questo libro si può  dire lineare, e in senso inverso a quello del lib. IV. Là dal concetto  dell’essere in quanto essere si passa ai presupposti della pensabilità  e conoscibilità del reale in generale; qui dal rapporto tra l'oggetto  della « filosofia prima e quello delle altre scienze si procede eliminando ciò che non ha vera e stabile realtà; e per assicurarne questi attributi, si arriva persino a identificare il pensiero con l’accidentale. Cfr. note a IV. 1, 1 e 2, 1 su questo doppio movimento del  pensiero in A.    Lo Jaeger (Arist., pp. 209-212) pensa che, mentre il capitolo 1 rappresenta una ripresa del cap. 1 del IV rielaborato sin da principio nella forma attuale, come prova il  corrispondente cap. 7 del lib. XI, il cap. 2 e il 4 abbiano,  invece, subìto un ritocco che alterò la fisonomia generale  del libro. Confrontando, infatti, i capitoli 2-4 con il corrispondente cap. 8 dell’ XI si trova che in questo mancano  i $$ 2 e 3 del cap. 2, e che il contenuto del cap. 4 è ivi  ridotto alla pura e semplice esclusione del pensiero soggettivo dall'essere in sè e per sè, ch’è l'oggetto della metafisica.  Si può aggiungere che anche la trattazione dell’accidente  nel cap. 3 mostra l’influsso di pensieri posteriori (cfr. $ 1 e le citazioni in fine della mia nota al $ 4). Secondo lo Jaeger il pensiero originario di questo libro (e del gruppo III,  IV, VI, tutt’intero) era schiettamente platonico: la vera  realtà è quella dell’essere divino, immoto e separato, trascendente. A questi libri, i quali, a cominciare dal I, costituiscono, con le loro ricche indagini intorno all’oggetto della  metafisica, una parte di carattere essenzialmente introduttivo,  doveva seguire oramai la parte costruttiva di carattere eminentemente teologico. Invece, segue il gruppo VII-IX che  ha un carattere del tutto opposto! Questi libri, infatti, come  ora vedremo, appartengono con ogni probabilità a un periodo posteriore dell’attività filosofica di A., e si possono  considerare come espressione della piena maturità della sua  riflessione critica. In essi non è quasi più nessuna traccia  del precedente suo platonismo. Ora, secondo lo Jaeger,  quando A. decise di introdurre questi libri nel corpus metaphysicum, rielaborò i capp. 2-4 del VI in modo che si stabilisse un passaggio dai libri introduttivi I, III, IV, VI  (cap. 1) ai libri VII-IX. Al cap. 2 aggiunse i $3 2-3, affinchè, oltre i modi dell’essere come accidente e come vero,  venissero anticipati quelli delle categorie e della potenzaatto (‘). Il cap. 4, poi, fu rielaborato in modo da costituire  un precedente al cap. 10 del lib. IX: accanto al principio  dianoetico fu accolto quello noetico (*), non senza un visi   Il lib. VII, infatti, prende per punto di partenza la categoria della sostanza e in questa approfondisce l'indagine logico-ontologica sino alla fine del  lib. VIII. Ed è notevole che al principio del cap. 1 (del VII) si richiama per i  vari sensi dell'essere nelle categorie al megl toù a0cay®g, anzichè al 8 2 del cap. 3  del VI: non c’era, dunque, ancora in A. il proposito di unire questa trattazione  a quella dei libri precedenti della Metafisica.    Anche il cap, 10 del lib. IX è un'aggiunta posteriore, che mal s'intona ai  capitoli precedenti del lib. IX: cfr. nota, ivi. Il principio noetico, dice lo Jaeger,  ò l'ultimo avanzo della platonica intuizione delle idee (in A., le essenze semplict) rimasto nella metafisica aristotelica. L'osservazione è esatta, se s'intende  quel principio nel senso del cap. 10 del IX. Ma nei libri VII-I1X c'è anche uno  sforzo potente di calare quel principio dentro il pensiero dianoetico stesso e farne  motivo dell’unità del molteplice nell'oggetto e nella nostra conoscenza di esso.  In questo senso, esso è un principio ben lontano dall’intuizione platonica, puramente intellettuale, del trascendente. bile turbamento della chiarezza del ragionamento e della regolarità della costruzione sintattica di questa parte del  capitolo (‘).   Le congetture dello Jaeger sono a primo aspetto del tutto  persuasive, e soltanto in un secondo tempo, scoprendosi il  loro fondamento meramente ipotetico, perdono alquanto della  loro persuasione. Intanto, le aggiunte o modificazioni apportate ai capitoli 2 e 4 non introducono pensieri nuovi per A.:  cfr. V. 6, 9-10 e 7, 4-7 (qui l’essere nel senso delle categorie  e quello nel senso della potenza-atto è parimenti unito a  quello nel senso del vero-falso). Sì che aggiunte e modificazioni si potrebbero spiegare anche fuori dello scopo attribuito  ad A. dallo Jaeger. Poi, quel deciso atteggiamento platonico  ch’egli vede nei libri introduttivi va, a mio avviso, attenuato  nel senso dato dianzi nell'esame sintetico di essi. C'è un  concetto fondamentale nel IV e nel VI, e che, essendo presente già nell’ XI anteriore a questi secondo lo stesso Jaeger,  si può ben sottintendere nel III e anche nel I(*): quello  dell’oggetto della metafisica come l’essere in quanto essere,  il quale basta a bilanciare la tendenza platonica della concezione teologizzante con una tendenza opposta, in cui vien  sorpassato il criterio della distinzione della « filosofia prima   dalle altre scienze su la base della diversità e dignità del  genere de’ loro oggetti. Come, poi, avvenga che A. passi  d’un tratto da un concetto all’altro, sebbene non inconsapevole della differenza (la quale non era per lui tanto grande  da costituire, come per noi, un’irriducibile opposizione) (?),  sì cercò di chiarire nella nota in fine al cap. 1 del lib. VI.  In fine: che A. stesso adattasse con un mero accomodamento     V. JaEGER, Fntst., pp. 29 88.    L’essere in quanto essere è ancora il concetto della causalità come immanenza a uno stesso principio della quadruplice distinzione colà posta.   (9) L'essera in quanto essere è l'essere che il pensiero scopre nel fondo di tutto  ciò ch'esiste (nel mondo seneibile e in quello intelligibile), in quanto ragione  della realtà e conoscibilità di esso: p. d. v. critico e immanentistico, dunque,  che A. non poteva scambiare con quello dogmatico e trascendente dello schietto  platonismo (dell’essere eterno e immobile). esteriore una sua precedente trattazione a un intendimento  addirittura opposto a quello ch’essa realmente aveva, è, per  lo meno, una congettura che lascia molto perplessi.    8.  Il lib. VII è de’ più ampi, e prosegue nell'VIII.  Il IX, invece, è una trattazione ben distinta, e tuttavia forma  con i due precedenti un sol gruppo, che qui si esaminerà  insieme. Nel VII specialmente, ch'è il più aspro a interpretare, le singole parti paiono talora seguirsi come serie d’in@agini che mirano, sì, a uno stesso scopo, ma per vie diverse.  Il Natorp lo ha scisso in due parti, e in ciascuna ha riordinati a modo suo i capitoli del libro. Il Ross pensa che i  capp. 7-9 formassero originariamente una trattazione separata. Lo Jaeger divide i libri VII-VIII in tre parti originarie,  delle quali le prime due son costituite dai capp. 1-11 e 13-17  del VII, la terza dai capp. 1-5 dell’ VIII; e poichè l’11 par  conchiudere la prima parte, e il 13 cominciarne un’altra, il  12 si trova isolato. L’annuncio, infatti, verso la fine dell’11  (cfr. ivi, nota al $ 11), non può riferirsi al 12 che segue  subito dopo, e questo (pensa lo Jaeger) è una rielaborazione,  rimasta incompiuta, del cap. 6 del lib. VIII: i due capitoli  sono stati aggiunti dopo, questo come un’ulteriore illustrazione del precedente cap. 3, quello perchè c’era forse spazio  disponibile nel rotolo (cfr. Entst., pp. 53 ss.). Ma a noi preme  di più individuare il problema intorno al quale gira il pensiero di questi libri.    L'essere in quanto essere è qui la pura essenza, il ti fiv slva: che  vuol essere il principio trascendentale del x65  11°  (IV) a fs (XIV) =  18  (Vv) =  4* (XV) >  i4s  (VI) cx (manca) (XVI) = (manca)  (VII) = Questione Ga (XVII) = Questione 12%  (VIII) >  7   136  (IX 6e.X)=  gs    Quest'ultima (13%) non è enunciata a parte nel presente capitolo, ma è pur  compresa nella IV (5) e T1X-X (8). Nella (III) c'è una parte non trattata nella 8*:  86, cioè, qualora delle sostanzo siano più le scienze, queste sian tutte « filosofie .  Ma essa è risolta insieme alla parte precedente nel lib. IV, capp. :-2, e nel VI,  cap. 1. Anche la (VI) è ripresa in connessione con In (V) nel lib. IV, cap. 2.  E Siriano, infatti, la riduce alla (V), perchè, secondo lui, le contrarietà dialetticho  Appartengono agli «accidenti essenziali  delle sostanze (p. 59, 17 88.)  Per lu  (XVI), similmente, si può diro ch'è inclusa, in certo modo, nolla 14* (fin dove la  questione della potenza coincide con quella del movimento: per la differenza  v. lib, IX, cap. 6).   Per il rapporto tra i problemi posti in questo libro quasi come un programma  da eseguire in seguito, o gli altri libri della Metafisica, v. Introduzione.    Il riferimento è al lib. I, come notò già Alessandro, uon al II, che fu  interpolato forse per il suo carattere proemiale. eneri, ovvero alcune si debbano chiamare filosofie, altre  generi, ovVero alcune    altrimenti (‘).  E anche questo è necessario investigare: se soltanto le  sostanze sensibili si deve concedere che esistono, ovvero,    oltre esse, anche altre; e se delle sostanze c'è un genere    soltanto, o più, come vogliono quei che pongono le specie  Ro. intermedie tra queste e i sensibili, le entità matematiche.   “Questi problemi, dunque, a nostro avviso, sono necessari  a considerare. Poi, se la speculazione versi intorno alle sostanze soltanto, o anche intorno agli accidenti essenziali (*)  delle sostanze.   Anche, il medesimo e il diverso, il simile e il dissimile,  l'identità e la contrarietà, il prima e il poi, e tutte le altre  determinazioni di questa specie, in cui i dialettici si esercitano con un’indagine che non sorpassa il modo comune di  vedere, di quale scienza formano tutte l’oggetto di studio?  E anche le proprietà di queste stesse determinazioni. E non  solo ciò che sia ciascuna di loro, ma anche se a ogni contrario si opponga un solo contrario (*).   Inoltre, se principii elementari siano i generi, ovvero le    10 parti costitutive in cui ciascun essere si divide ('). Qualora    11    poi siano i generi, è a vedere quali di quelli che si predi"cano ‘degl’ individui: se i più prossimi, o i generi sommi;  ‘voglio dire, se sia principio ed abbia maggiore realtà, dopo  quella del singolare, uomo o essere vivente.   Di somma importanza sarà la ricerca, con adeguata trattazione, se oltre la materia esiste, o no, una causa per sè;  e questa, se sia separata. C) no, una di numero ‘o più.    tr nni     Nel lib. VI, cap. 1, si distinguono le scienze pratiche o poietiche da quelle  puramente teoretiche.   ‘2) Che la somma degli angoli di un triangolo sia uguale a due retti è un  accidente essenziale (ovpfefaxòds xad’avté) del triangolo; che questo ala grande  LI piccolo, mM un colore o di un altro, è uu_accidonte secondario,   ‘ (8) Le coppie qui enunciate di contrari vengon ridotte a quella dell'uno e del  molteplice nel lib. IV, a 2; è riprese in esame nel lib, X.    L'uno è un punto di vista «logico, l’altro « reale; ma, poi, iu quanto  _i generi sono reali, l'uno è un punto di vista, come appunto si dice, « generale     . l’altro ‘semplicemente «materiale , Asi       IG a E se c’è qualcosa oltre il « sinolo  (‘) (dico sinolo quando  la materia è in qualche modo determinata), o nulla; ovvero,  Se per certe cose sì, per altre no, e quali sono esse.   Di più: se i principii sono determinati di numero o di  specie, sia quelli riguardanti i concetti delle cose, e sia quelli  riguardanti il sostrato (”).   E se delle cose corruttibili e delle incorruttibili i principii  sono gli stessi o diversi; e se son tutti incorruttibili, o corruttibili quelli delle cose corruttibili.   Ancora (e qui è il problema più difficile e più degli altri  pieno di dubbi): se l’uno e l’ente, come i Pitagorici e Platone  dicevano, non è altra cosa dalla sostanza degli enti; o se è  diversa (*), e però il sostrato sia qualcosa di diverso, per es.  l’amicizia , come dice Empedocle, o il fuoco, o l’acqua,  o l’aria, come dicono altri.   Poi, se i principii sono universali o al modo delle cose  singolari; e se in potenza o in atto. E se si debbano congsiderare anche da un altro punto di vista che per rispetto al  movimento. ;   Tutte questioni, queste, che possono offrire grandì difficoltà. E oltre queste, se i numeri e le lunghezze e le figure  e i punti sono sostanze, o no; e qualora fossero sostanze, se  separate dai sensibili, o in essi esistenti.   In tutti questi problemi, non soltanto è difficile procedere speditamente alla verità, ma neppure è facile discorrerne  i dubbi acconciamente.     «Tutto-insieme , il reale nella «totalità e unità delle sue determinazioni. Ho preferito conservare il termine molto espressivo di A. Si potrebbe, sì,  tradurre «concreto , ma questo ha un significato troppo ristretto alla sua opposizione all’« astratto .   (8) Principii logico-formali e principii materiali. L'enunciazione è generica.  ma è ovvio che A. ha in vista, qui e altrove, le concezioni più determinate che  di questi principii avevano avuto i filosofi di cui ha parlato nel lib. I.   (9) Cfr. lib. I, cap. 5, 8 22.    Cfr. qui 4, 93: chè, altrimenti, è un po' difficile interidere l’Amicizia  empedoclea come sostrato. Cominciamo di dove si prese le mosse: se appartenga a  una sola scienza, o a più, studiare tutti i generi delle cause.   Ora, come mai apparterrebbe ad una sola scienza di conoscere principii che non sono contrari? E poi, tra gli enti  ce ne sono molti, ai quali non tutti i principii convengono (').  Infatti, come potrebbero il principio del movimento e la natura del bene riguardare gli esseri immobili, se tutto quel  che è buono per sè e per propria natura, è fine, e però causa,  sì che per cagion sua le altre cose e si generano ed esistono?  Il fine e lo scopo sono termine di qualche azione, c le azioni  sono tutte con movimento; laonde negli esseri immobili non  può darsi questo principio del movimento; nè quello di un  bene per sè. Appunto per ciò nelle matematiche non si dimostra nulla mediante questa causa, nè c’è nessuna dimostrazione finchè s’adduce che così è meglio o peggio: anzi addirittura nessuno fa menzione di simili cose. Tanto che alcuni  Sofisti, per es. Aristippo , le coprivano di disprezzo, perchè,  dicevano, mentre nelle altre arti, anche volgari, come quella  del falegname e del calzolaio, di ogni cosa si discorre in ragione del meglio o del peggio, nelle matematiche invece nessuno fa parola del bene e del male.   D'altra parte, se sono parecchie le scienze delle cause e  diverse quelle di principii diversi: quale di esse si dovrà (Questione 18)  Ossia: a) ogni scienza è di contrari (vero-falso, bene-.  male, sano-malato, ecc.); ma le quattro specie di causalità non costituiscono con-'    trarietà (i contrari, propriamente, per A., son quelli che implicano un sostfato  che li comprende entranbi), La materia, ad es., non è un contrario della forma  (efr. XII, 10, 6). ) I generi delle cose sono, per A., diversi, e però di essi non  e’ è un’unica scienza (il genere della fisica è diverso da quello della matematica). E tuttavia in tutti si può considerare, come fa la metafisica, l'essere  semplicemente, in quanto essere. Questo solo è un oggetto universale assolutamente. Ma, non essendo ancora stata spiegata questa universalità, vien sottinteso  un conc etto affine: che i generi di causalità studiati da quell’unica scienza dovrebbero valere per ogni essere.    Aristippo seguì Protagora nella dottrina della conoscenza. Molti dei socratici minori proseguono ancora il movimento dei Sofisti. dire che è quella di cui noi andiamo in cerca? e chi, tra  coloro che le posseggono, si dovrà dire che conosce meglio  l'oggetto delle nostre ricerche? Poichè può ben avvenire che  nella considerazione di una stessa cosa trovino luogo tutti i  modi della causalità: per una casa, ad es., l’arte e l’architetto sono principio del movimento, l’utilità è lo scopo, la  terra e le pietre sono la materia, la nozione è la forma (').  Ora, stando a quanto fu da noi precedentemente determinato (?)  intorno a quale tra le scienze si dovesse chiamare sapienza,  si avrebbe ragione di chiamar tale ciascuna di quelle (*).   Infatti, in quanto è principalissima e la più alta signora  delle altre scienze, le quali, quasi serve sue, non hanno diritto neppure di far obiezioni, tale è quella del fine e del  bene (chè per questo si fa tutto il resto). Invece, in quanto  fu stabilito che fosse la scienza delle cause prime e di ciò  che è massimamente conoscibile, tale sarà quella della sostanza (*). Poichè, quando una stessa cosa è nota in molteplici  modi, noi diciamo che ne sa più chi la conosce per quello  che è, piuttosto che per quello che non è; e di quelli stessi  che ne conoscono l’essere, diciamo che uno ne sa più di un  altro, e più di tutti chi sa l’essenza, non chi ne sa la quantità o la qualità (*), o quel che naturalmente può fare o patire. E come nelle altre cose, così anche in quelle di cui c’è  dimostrazione, allora noi reputiamo di sapere, quando conosciamo l’essenza. Per es.: che cosa è ridurre a quadrato?  La scoperta d’una media (°). E similmente negli altri casi.     Traduco elBos con « forma quando la specie è contrapposta alla materia.    Nel lib. I. 2.    Ciascuna di quelle scienze che riguardano una delle quattro cause.    Sostanza è la categoria principale dell'essere, l'essenza concreta (non  fuori della materia). Paiono, così, ricordate qui soltanto tre delle quattro specie  di cause, perché la materia, osservano giustamente i commentatori, non è oggetto  di conoscenza: salvo, si può aggiungere, in quanto è compresa nel concetto della  sostanza.   (5) A. dice qui, o spesso, «il quanto , «Il quale (nel senso del nostro pluale: «le qualità  di una cosa).   (6) La media proporzionale ai lati di un’altra figura. Pare che con «le cose  di cui c'è dimostrazione  si vogliano distinguere i due tipi di conoscenza: l’uno,  immediato, l’altro mediato. Nel qual caso sarebbe meglio tradurre: « E nelle  Invece, le generazioni e le azioni, ed ogni mutazione, ci  pare di conoscerle quando ne sappiamo il principio del movimento. Ma questo è diverso dal fine, anzi opposto. Di maniecra che parrebbe appartenere ad una scienza diversa lo  studio di ciascuna di queste cause (').   Anche per i principii delle dimostrazioni c’è da star in  dubbio se appartengono a una scienza sola o a più. E chiamo  principii delle dimostrazioni quelle comuni sentenze (°), da  cui tutti muovono a dimostrare, per es., che ogni cosa è  necessità affermarla o negarla, e che è impossibile insieme  essere e non essere, e quante altre proposizioni sono simili  a queste. Si chiede se la scienza di essi e quella dell'essenza  è una stessa, o se son diverse; e se diverse, quale bisugna  riconoscere per quella che si cerca qui.   Intanto, che appartengano a una scienza soltanto, non  pare ragionevole. Perchè mai sarebbe proprio, poniamo, della  geometria piuttosto che di qualunque altra scienza intendersi  di essi? Se, dunque, spetta del pari a ciascuna, e d'altronde  a tutte quante non può spettare (*), non è più proprio della  scienza che conosce le sostanze, che di qualunque altra,  averne cognizione.    altre cose, in quelle di cui c'è dimostrazione , c considerare, così, come cpesogetico il secondo «at della 1, 19. Ma forse la distinzione non è voluta, e il senso  è che l’ossenza ci fn conoscer le cose meglio dello loro qualità accidentali, così  come si vele anche nella conoscenza propriamente sclentifica di esse.    Alesa. inserisce un otx innanzi a &XXmg, € il ragionamento, allora, sarebbe:  «Ne si pongono scienze diverse per ognuna delle apecie di causalità, non s! saprà  più qualo chiamare Rapionza; quindi di ciascuna di esso non c’è una scienza diversa . Ma non pare necessario alterare il testo: A. non pretende In questo libro  a una trattazione rigorosa delle questioni, por tesi e antitesi ben definite; ma  pone innanzi dubbi e pensieri discordanti. Qui,ad es., dice che se la causa efficiente e la finale sono diverse, anzi opposte (cfr. I. 3, 6), auche le scienze di esse  dovrebbero esser diverse, La questione è ripresa, sebbene non in questa forma,  e risolta in lib, IV. 1-2.    (Quertione 2*) xotval Béear, ma «opinioni comuni ben fondate, generalmente ammesse (cfr. tò EvBofov, il probabile da cui muovo la dialettica delle  opinioni). A. le chiama anche « principii comuni , « principii apodittici (&gxal  Uroberntixal), «assioni comuni, o semplicemente « assiomi (&Ebpara) o «comuni  (tà xotvd),    « Quia sic sequeretur quod idem tractaretur in diversis scientiis, quod  esset superfluum. E insieme, come s'avrà mai una scienza di essi? Quel  che sia ciascuno, lo sappiamo sin d’ora: tanto è vero, che  anche le scienze pratiche (') se ne servono come di principii  noti. Ma se ci fosse una scienza che li dimostrasse, hisognerebbe che avesse per soggetto un qualche genere; e che di  quelli alcuni fossero sue affezioni; altri, assiomi (poichè è  impossibile che ci sia dimostrazione di tutto): infatti, la dimostrazione, di necessità, è da qualcosa, intorno a qualcosa, e  di qualcosa (?); sì che accadrebbe che, servendosi di assiomi  ogni scienza dimostrativa, tutte le cose che si d imostrano  apparterrebbero a un unico genere.   Dall’altra parte, se la scienza dell’essenza è diversa da  quella di codesti principii, quale delle due deve precedere     Il testo dico le altre arti: intendo le scienze non apodittiche, quelle che  nel lib. I. 1, son considerate anche come téyvat.    In ogni dimostrazione o scienza apodittica sono tre cose: seo 5 te Belxvuor  sal & Seixvuor xaì E &v (Anal. Post., I. 10. 76b, 21). Ossia: l'oggetto, il genere  di enti, «intorno a cui versa (per es. il numero, per l’aritmetica); l’assioma, o  gli assiomi « da cui trae forza l’argomentazione (per es., che tutti i numeri derivano dall'unità; ovvero, che le unità non cambiano comunque si raggruppino;ecc.);  le affezioni o proprietà « di cuì  si dimostra o sì mostra che l’osgetto è investito, e qui propriamente consiste il lavoro scientifico (per es., cho ogni numero  è o dispari o pari; che cambiando posto agli addendi, il totale non muta; ecc.).   Per l’argomentazione complessiva, più chiaro di tutti il Ross. Se gli assiomi  sono dimostrabili, di questi alcuni debbono esser provati, altri accettati come  assiomi non provati (per cul la supposizione che gli assiomi siano dimostrabili,  va corretta in questa: che alcuni di essi sono dimostrabili per mezzo di altri  îndimostrabili). Ora, tutte le scienze dimostrative usano gli assiomi come loro  premesse, e le loro conchiusioni appartengono allo stesso genore delle premesse  (questo non è detto, ma evidentemente sottinteso). Quindi, se gli assiomi sono  dimostrabili, tutto ciò che si può dimostrare appartiene a un unico genere, e tutte  le scienze diventano un’unica scienza: ch'è per A. una reductio ad absurdum.   Si noti che A. trascura qui due punti: 1. Che c'è una terza via in cui può  esserci una scienza degli assiomi: quella iudicata nel lib. IV, per cui essi non  vengono nè definiti nè dimostrati, ma raccomandati al senso comune col mostrare  le conseguenze assurde a cui conduce la loro negazione; 2. A. qui non distingue  tra i principii propri e quelli comuni: ogni scienze deve avere principii riguardanti lo stesso genere di cui trattano le sue conchiusioni, ma essa ha unche principii comuni a tutte le sclenze, (Questi stanno a quelli come l’essere in generale  ai generi reali delle cose, i quali non possono esser, per A., assorbiti in quello  senza disperdere la distinzione necessaria alle scienze: ne verrebbe fuori un'unica  scienza, quella dell'essere nella sua indistinzione, ch'è un concutto contro il quale  A. combatte ripetutamente). ed è superiore per natura? Gli assiomi, di certo, sono gli  universali supremi e i principii di tutto. E se non spetta al  filosofo, a chi mai altro spetterà di studiarne il vero e il falso?   Poi, per le sostanze, c’è una sola scienza di tutte in generale, o più? E se non è una sola, di quale sostanza si  deve stabilire che è scienza, questa nostra? Che ce ne sia  una sola di tutte, non pare ragionevole, perchè, allora, ci  sarebbe anche una sola scienza dimostrativa di tutti gli accidenti, una volta che ogni scienza dimostrativa, versando intorno a un sostrato, ne studia gli accidenti essenziali movendo dalle opinioni comuni. In quanto, dunque, spetta a  una stessa scienza studiare gli accidenti per sè di uno stesso  genere e dalle stesse opinioni,  e poichè sarebbe una sola  la scienza del sostrato, e una sola quella degli assiomi (siano  poi la stessa o diverse),  anche gli accidenti li studieranno  o quelle due scienze, o una che le comprenda entrambe (‘).   Ancora, lo studio verserà soltanto intorno alle sostanze,  o anche intorno ai loro accidenti? Voglio dire: se il solido  e le linee e le superfici sono sostanze (*), spetterà a una  stessa scienza conoscere queste cose e insieme gli accidenti  di ciascun genere di cui trattano le dimostrazioni matematiche,  ovvero a un’altra? Se a una stessa, ci sarebbe una  scienza dimostrativa anche della sostanza: ma non pare che     (Questione 3*) Nella questione presente, e in quella che segue, vengon prospettnte tre ipotesi: che ci sia una scienza unica degli assiomi, una scienza  unica delle sostanze, e una sclenza unica degli accidenti (i tre termini intorno  al quali versa ‘ogni scienza apodittica). Viene, naturalmente, lasciato in sospeso  non soltanto l’esistonza di queste tre presunte scienze, ma anche Il loro rapporto:  sé sarebbero, In realtà, tre scienze distinte, due, o una soltanto.  Le ultime parole, èx tovtwy pla, è dubbio come si debbano tradurre. Il Bonitz (a q. 1.) interpreta: «sive haoc sclentia suspensa nb illis eademque ab illis diversa, at una  tamen est. Il Ross: «one compounded out of these . Il pensiero sottinteso è  che, per tali ipotesi, tra gli accidenti non sì può far distinzione, quanto alla  scienza che li deve studiare: onde si distruggerebbe, da capo, ogni criterio di  distinzione delle scienze particolari. Per le questioni 3* e 42, v. lib. IV. 2 (per la  9, anche VI. 1).    (Questione 4*) Quelle della matematica sono «sostanze intelligibili .  Ma qui (come spesso) « sostanze  vale semplicemente « esseri reali , 0 « realmente  esistenti. dell'essenza ci sia dimostrazione('). Se a una scienza diversa, quale sarà quella che studia gli accidenti che riguardano la sostanza? Dar conto di ciò è ben difficile.   Un’altra questione è questa: si deve dire che esistono le  sole sostanze sensibili, o anche altre oltre di esse?.e di generi di sostanze ce n’è uno solo;  o più, come dicono quei  che pongono le specie e gl’intermedi, di cui, secondo essi,  trattano le matematiche?   In qual senso noi diciamo (*) che le specie sono causa e  sostanze per sè, s'è discorso precedentemente, Tra le difficoltà e gl’inconvenienti molteplici, non è minore degli altri  quello di affermare, da un lato, che ci sono certe nature al  di là di questo mondo; e dall’altro, che esse sono le stesse  delle sensibili, tranne che quelle sono eterne, e queste corruttibili. Essi dicono che esiste l’uomo in sè, il cavallo in sè,  la salute in sè, sì che par non ci sia altra differenza (*). Essi  fanno press’a poco come quelli che van dicendo che ci sono,  sì, gli dei, ma simili agli uomini : come costoro non riescono ad altro che a far degli uomini eterni, così quelli non  fanno delle specie altro che sensibili eterni.   Parimenti, se alcuno oltre la specie e oltre i sensibili  vorrà porre degl’intermedi, si avranno molte difficoltà. Poichè è chiaro che, come ci saranno delle linee oltre le linee  in sè e le linee sensibili, così per ciascuna cosa degli altri  generi: di maniera che, essendo l’astronomia una scienza  pure matematica, ci sarà un cielo oltre quello sensibile, con  un sole e una luna, e così di tutto il resto che al cielo ap   L'essenza del triangolo non si dimostra. Si dofinisce. SI dimostra, invece,  che la somma degli angoli suoi è di due retti.    (Questione 5%) Noi della scuola di Platone. Cfr. lib. LT. 9, 2.    Non che le Idee fossero sensibili, ma la natura loro, per quanto univerralizzata e sottratta al flusso del diveniro, era quella stessa delle cose sensibili :  donde quel raddoppiamento della realtà, di cui si parlò in I. 9, 1. (In A. la forma  non riproduce, immediatamento, il contenuto, ma Jo media in un processo, sì che  esso diventa un momento, quello potenziale, della forma stessa).    Nella seconda parte del lib. XII A. espone il suo concetto della divinità    ‘come puro pensiero (Dio e le Intelligenze motrici: queste sono «sostanze non    sensibili od esistenti separatamente). partiene. Eppure, come crederci? Poichè esso non si dovrebbe dire che è immobile; d’altronde, non è affatto possibile che si muova ('). Parimenti per le cose di cui. tratta  l'ottica e l’armonica matematica: è impossibile che di esse  ce ne siano altre oltre quelle sensibili, per gli stessi motivi.  Che se gl’intermedi fossero sensibili, e di essi ci fosse sensazione, è evidente che dovrebbero esserci anche degli animali intermedi tra quelli in sè e quelli che periscono (?).   Ci sarebbe anche imbarazzo a stabilire di quali enti si  danno questi intermedi intorno (*) ai quali converrebbe cercare queste scienze. Poichè, se la geometria differisse dalla  geodesia soltanto perchè questa è di cose sensibili e quella  no, è evidente che dovrà esserci una scienza intermedia tra  la medicina in sè e la medicina attuale; e come per la medicina, così per ogni altra scienza. Ma, come questo è possibile? Ci dovrebbero essere anche delle cose salubri oltre  quelle sensibili e ciò che è salubre in sè.   E bada che nonè neppur vero che la geodesia sia scienza  di grandezze sensibili e corruttibili: chè, perendo queste,  anch’essa perirebbe.     Come «cielo, parimenti a quello che si vede, dovrebbe muoversi; ma,  essendo matematico, dovrebbe, così come gli oggetti della geometria, esser immobile. l'Armonica come scienza di rapporti quantitativi dei suoni, non come  musica, era considerata come matematica anch'essa. Ricorda le speculazioni pitagoriche, che «nei numeri vedevano le proprietà e ragioni dell'armonia  e dell'ordinamento dei cieli: I. 5, 3-5.    «Si (ista) sensibilia sint intermedia, sc. soni et visibilia, sequetur etiam  quod sensus sunt intermedii. Et cum sensus non sint nisì in animali, sequetur  quod etiam animalia sint intermedia inter species et corruptibilia, quod est omnino  absurdumn : S. Tom. ($ 419). Così anche Aless, (198, -28).    Leggo xegt, non ragd: v. giusta osservazione del BonuHI [Metafisica di A.,  l'orino, 1854}, p. 139 F. Per il senso, tieni presente che per A. anche le matematiche, come le scienze fisiche, riguardano il mondo sensibile; e la differenza è  che quelle nstraggono dalla materia e dallo qualità, per considerare la sola  quantità e i rapporti quantitativi delle cose; le scienze fisiche, invece, pur  astraendo dalle particolarità delle cose singole, considerano la forma o le forme  in quanto sono unite alla materia. I Platonici non partivano da questo doppio  modo di considerare la stessa realtà, matematicamente o fisicamente; e però A.  dice che, come per spiegare il carattere scientifico delle matematiche ricorrevano a questi enti intermedi tra le idee e i sensibili, così essi avrebbero dovuto,  coerentemente, porre tali intermedi anche per le altre scienze. D'altra parte, l'astronomia non può essere scienza di grandezze sensibili e del cielo che si vede: poichè, nè le linee  sensibili sono tali, quali dice il geometra (') (non c’è nessuna  cosa sensibile retta o rotonda a quella maniera: chè, come  già Protagora obiettava ai geometri, il cerchio non tocca la  riga in un punto solo), nè i movimenti e le spirali sono simili  a quelli del cielo, dei quali discorre l’astronomia, nè i punti  hanno la stessa natura degli astri.   Ci sono, infine, alcuni (?), i quali dicono che ci sono, sì,  questi intermedi tra le specie e i sensibili, ma pon separati  da questi, anzi ad essi immanenti. A scorrere tutte le conchiusioni assurde che vengon fuori a costoro, ci vorrebbe un  lungo discorso. Contentiamoci di queste considerazioni: le  cose non è ragionevole che stiano così per quegl’intermedi  soltanto, ma anche le specie, evidentemente, dovrebbero esser  immanenti ai sensibili: chè le stesse ragioni sono qui e là.  Aggiungi che ci sarebbero in questo modo, di necessità, due  solidi nello stesso luogo; e che gl’intermedi non potrebbero  esser immobili, essendo dentro ai sensibili che sono in moto.  E insomma, a che scopo si dovrebbero porre queste entità,  quando poi si debbono porre dentro ai sensibili? Si cadrà  negli stessi assurdi di cui già si discorse: ci sarà un cielo  oltre al cielo, salvo che non separato, bensì nello stesso luogo:  la qual cosa, se così si può dire, è ancora più impossibile.    t     Alessandro (200, 11): « A. disso il geometra invece dell’astronomo : intende, cioè, della geometria di cui fa uso l'astronomia. Protagora moveva, nella  obiezione che segue, dalla sua dottrina sensistica. Pare ch’egli scrivesse un  libro segì tov pa&nuicov (Diog. Laert., IX, 55).    Platonici anch'essi: v. XIII. 1, 7 e 2, 1 ss. (MA in XIV. 3, 3-4 quest’opinione par attribuita ai Pitagorici). Cfr. Zeller, II4, 1009-4. Lo Schwegler suppone  che si tratti di E1dosso, e cita il lib. I. 9, 11: ma ivi si dice che Eudosso poneva  le Idee immanenti alle cose. La presente questione è discussa ampiamente nei  due ultimi libri. Intorno a queste cose, dunque, ci sono molti dubbi, come  dobbiamo giudicarne per cogliere la verità. Così pure intorno  ai principii: dobbiamo ritenere che i principii elementari  siano i generi, o piuttosto i componenti primi da cui risulta  costituita ciascuna cosa? Elementi, per es., e principii della  voce sembrano essere quelli da cui tutte le voci son composte per natura: non quel ch'è comune a tutte, l’esser voce.  Anche delle proposizioni geometriche diciamo elementari  quelle le cui dimostrazioni entrano nelle dimostrazioni o di  tutte le proposizioni o della maggior parte ('). E nei corpi,  tanto coloro che dicono che gli elementi di essi sono più,  quanto coloro che ne pongono uno solo, chiamano principii  ciò di cui essi si compongono e da cui son costituiti: Empedocle, per citarne uno, dice che il fuoco l’acqua e i loro  intermedi (*) sono gli elementi da cui risultano le cose intrinsecamente, e non ne parla già come di generi degli enti.  Oltre di che, se qualcuno vuole indagare la natura di una  cosa qualsiasi, di un letto, per esempio, allora è pago di    conoscere, quando sa di che parti consti e come composte.    Per queste ragioni, dunque, non dovrebbero esser i generi  i principii degli enti.   Eppure, in quanto noi conosciamo ciascuna cosa per mezzo  delle definizioni, e poichè principii delle definizioni sono i  generi, di necessità anche dei definiti saranno principii i ge      (Questione 6*) Cfr. gli Elementi di geometria di Euclide (fiorito  circa 300); 6 anche prima, al tempo di A., si chiamavano così . Il termine, tuttavia, è usato da A. per « proposizioni elementari anche fuori della geometria:  v. Index Arist., 702 b, 59 88.  Proposizioni: &eyoGppara, prop. « figure , ma, come  notano Asclepio (174, 9) e Bonitz, vale qui «proposizioni , « teoremi .    tà usetatò tovtov; leggendo, invece, t. petà t.: «e seguenti, Il Ross  osserva in proposito: « Empedocle non sembra aver trattato l’aria e la terra  come intermedi tra il fuoco e l’acqua: anzi egli oppose il fuoco a tutti gli altri  elementi (cfr. lib. I. 4, 9). Ma A., per il quale il fuoco è caldo e asciutto, l’acqua  fredda e umida, può naturalmente aver trattato l’aria (calda e umida) e la terra  (fredda e asciutta) come fornite di differenze intermedie (sebbene si possa dire  altrettanto del fuoco e dell’acqua in rispetto all'aria e alla terra),  neri. E se acquistare la scienza degli enti è acquistare quella  delle specie alle quali ci riferiamo quando parliamo degli  enti, i generi, di certo, sono i principii delle specie. Sembra  che anche alcuni (‘') di coloro che pongono quali elementi  Uno e l’Ente, o il grande e il piccolo, se ne servano come  di generi.   D'altronde, dire che i principii sono in entrambi i modi,  non è possibile: perchè il concetto della sostanza è unico:  invece, la definizione per mezzo dei generi sarebbe diversa  da quella che ne dicesse gli elementi costitutivi.   Inoltre, se anche spetta soprattutto ai generi di esser  principii, bisogna poi ritenere per principii i generi sommi,  o quelli infimi che si predicano degl’individui (*)? Anche  questo è da discutere.   Se, difatti, gli universali sono sempre a maggior diritto  principii, è evidente che tali saranno i generi che stanno più  in su: chè questi si dicono di tutti. Tanti, allora, saranno i  principii degli esseri, quanti i primi generi. Vien di conseguenza che principii sostanziali sarebbero l’Ente e l’Uno,  perchè essi, più che alcun altro genere, si dicono di tutti  gli esseri. Invece, non è possibile che l’Uno e l’Ente siano  generi degli esseri: poichè è necessario che le differenze di  ciascun genere e siano e siano una ciascuna; ora non può     Pitagorici e Platonici. Le questioni 6° e 72 vengon riprese vel lib. VII.  10-13, da un altro punto di vista (del rapporto concreto di materia e forma): se,  cioò, gli elementi materiali entrino nella detinizione di una cosa, e se gli universali (generic! o specifici) costituiscano la sostanza.    (Questione 7%)Si bndi che con tà Aropa A, designa tanto « gl'individui , le cose singolari; quanto «le specie indivisibili , le specie propr. dette,  in quanto « generi prossimi all'individuo . Un terzo significato è quello puramente  fisico-matematico, riguardante ad es. l'atomo propr. detto o il punto. V. Znder  Arist. Prescindendo da questo terzo, puramente materiale, si potrebbe dire che il  primo è piuttosto logico-reale; il secondo reale-logico: nel senso del determinarsi  tlel pensiero, nel giudizio, come pensamento dell'individuo concreto, ovvero come  sua universalizzazione. Per A., infatti, il processo del pensiero deve corrispondere  a quello del reale. Vi corrisponde, in effetto? Si sa che A. non riesco nd assorbire  interamente la materia nel processo accennato, sì ch’essa resta come un « caput  mortuum , che fa ostacolo alla piena intelligibilità delle cose. Di qui la verata  quasestio del « principium individuationis , e le controversie medievali su la realtà  dell'universale, dei generi e delle specie.    c.    L}BRO TERZO 79    concedersi che delle proprie differenze si predichino o le  specie ‘del genere o il genere senza le sue specie: così che,  se l’Uno e l'Ente fossero generi, nessuna differenza dovrebbe  essere nè ente nè una. E se d’altra parte non sono generi,  non saranno neppur principii, una volta che principii sono  i generi (*).   Di più, anche ciò che tramezza fra i sommi e gl’infimi  generi, preso insieme con le differenze, formerebbe una serie  di generi, fino al punto che è possibile dividere (*): ora, per        Più breve e chiara In nota del RoLFES (A.' Metaphysil, 2 ediz. 1931, presso  il Meiner di Lipsia) a q. l.: « Prendinmo un esempio, Il genere nnimale sl divide  in duo specie: uomo e bruto. La differenza specifica è ragionevole e irragionevole.  Ora, io non posso dire: il ragionevole è uomo: perchè ragionevole ha un’'estensione maggiore di uomo. Ma neppure: il ragionevolo è animale: perchò il concetto  di ragionevole non ha che vedere con quello di animale. Invece, io posso e debbo  dire: Il ragionevole è ente, è uno. Quindi ente e uno non possono esser un genere,  al quale ragionevole è irragionevole si riferiscano come difl'erenze specifiche .   Una dimostrazione dal punto di vista logico-ustratto sl può avere dai Topic/.  VI. 6. 144 a, 36-Db, 11. Ma più interessante a notare è che qui si considernuo le difforenze specifiche come forme o concetti che, mentre rendono intelligibile la realtà  al pensiero, la «determinano, ingieme, come un processo di generi-specie, Sì che  non questi generi-specie renli si predicano (si pensano come predicati determinanti) delle difforenze, ma queste di quelli (nel processo dol peuslero, onde la  razionalità si predica dell'animale come niteriore determinazione di questo nell’uomo). Le differenze, qui, sono come i concetti puri che noi moderni distinguiamo  da quelli empirici. O, meglio, come le idee platoniche, fatte tuttavia immanenti  nl reale e organizzate nel suo svolgimento. S' intende, orn, che l’essere e l’unità  indifferenziata, non facendo pensar nulla di determinato, non possano esser principiî, nè nol senso delle ditforenzo, nè in quello dei goneri-spocie reali. IL tuttavia, se si va cal criteria «dell’universalità, esst dovrebbero esser principi  più che mai.    héxet TtOv dtépov: alcuni intendono «sino nile specie ultime , altri « sino  agli individui : in entrambi i casi non senza inconvenienti, perchè nel primo caso  l'individuo vien escluso dal processo del reale; nel secondo, vien trattato come  punto finale di una serie di generi. Meglio, in ogni modo, la prima interprotazione in questo Inogo, e però ad essa ho intonato la traduzione, nllargando un  po’ il testo. Il quale, letteralmente, dice: « Inoltre nnche gl’intermedi, presi con  le differenze, saranno generi sino agl'indivisibili: ora, alcuni par di sì, altri no .  Cfr. la buona nota del Bonghi a q. I., conforme del rosto nd Alessandro (207, 17) e n  Siriano (33, 8), i quali fauno osservare che, seguendo il metodo platonico dotla divisione contradittorin, i concetti negativi (auimali-senza piedi) e quelli indicanti  qualità accidentali (animali con i piedi) non fondano generi reali. lL’argomentazione, in questo modo, sembrerebbe «diretta contro il metodo platonico della divisione. Ma, in realtà, il pensiero prevalente è che, piuttosto che porre l’Uno è  l'Ente come principio, si dovrebbero porre infiniti principii, se priucipii sono i  generi, e generi son tutti quelli superiori all'individuo. Questo pensiero, a sua    80 METAFISICA    alcune divisioni partebbe doversi concedere, per altre no.  Aggiurigi che le differenze sarebbero principii ancora più  che non i generi: ma, se anch’esse sono principii, i principii diventano, per così dire, infiniti, soprattutto se uno  ponga per principio il primo genere (').   D’altra parte, si ponga pure che l’Uno ha maggiormente  carattere di principio. Ma l’Uno è indivisibile, e ogni indivisibile è tale 0 secondo la quantità o secondo la specie:  quello secondo specie è anteriore; ora i generi sono divisibili in specie; dunque maggiormente uno dovrebbe essere  l’ultimo predicato: di fatto l’ «uomo non è genere degli  uomini singoli (?).   Di più, nelle cose in cui c’è priorità e posteriorità, non  è possibile che quel che han di comune sia qualcosa fuori  di esse. Per es., se tra i numeri vien prima la dualità, non  può esserci un numero oltre la specie dei numeri. E similmente, non si dà figura oltre le specie delle figure. E se per  queste cose, di cui par ci siano generi più che mai, non ci  son generi fuori delle specie, tanto meno per le altre: nelle       volta, non sembra diretto immediatamente alla questione se principii son piuttosto i generi sommi o gl’infimi. Il pensiero nascosto sembra, invece, che i generi  non sono affatto principii.    Il primo genere è l’essere (o l’ Uno), che, per A., non è genero (in «rerum  natura ci 6ono i generi, in cui si divide l'unità astratta dell’essere, come di un  mero xovw6v). Per il senso, meglio di tutti, mi pare, S. Tom. (8 485): «Si prima  genera sunt principia, quia sunt principia cognitionis epecierum, multo magis  differentiae sunt principia formalia specierum. Forma autem et actus est maxime  priocipium cognoscendi. Sed differentias esse principia rerum est inconveniens:  quia, secundum hoc, erunt quasi infinita principia. Sunt, enim, ut ita dicatur,  infinitae rerum differentiae, non quidem infinitae secundum rerum naturam, sed  quoad nos. Et quod sint infinitae patet dupliciter, uno modo si quis consideret  multitudinem ipsarum differentiarum secundum se, alio modo si quis accipiat  primum genus quasi primum principium. Manifestum, enim, est quod sub eo continentur innumerabiles differentiae . i   (3: L'uomo, specie ultima, non è ulteriormente divisibile, perchè i singoli  momini (criterio quantitativo) non rappresentano una divisione de! concetto. L'anteriorità del criterio qualitativo, qui, è superiorità dal punto di vista concettuale.  Il che non toglie che altrove A., contro l’unità meramente generica del concetto,  non faccia valere come superiore all’Ev tò elber l'Ev td dortuò, in quanto sintesi  del qualitativo e del quantitativo, nell'individuo che realizza la specie. Cfr. lib. V.  6, 15; e VII. 6. (In Dio, ch'è puro atto di pensiero, la coincidenza dei due punti di  vista, dell'essenza e dell’esistenza, è perfetta). V. note segg. a 4, 16, ed a 6, 1-5. indivisibili specie, poi, non c’è «questo vien prima  e «questo vien dopo . Anche: dovunque c'è un «questo è meglio   e «questo è peggio , il meglio ha sempre la priorità: così  che neanche di queste cose ci sarà un genere (‘).   Per queste ragioni, dunque, pare che le specie che si  predicano degli individui siano principii a maggior diritto  che non i generi. Eppure, da capo, non è facile dire come  si debbano ammettere queste per principii. Il principio e la  causa bisogna che siano al di là delle cose di cui son principii, e ne possano star separati (*). Ora, una simil cosa al  di là del singolare, perchè mai uno la penserebbe, se non  perchè si predica in universale e di tutti? Ma, se per questo,  i più universali più si debbono reputare principii: di maniera che sarebbero principii i primi generi.     Passo controverso: cfr. Zeller, pp. 568 ss. del vol. cit. (Platone) e commentatori posteriori che in parte concordano, in parte discordano da lui. Rifacendomi alla concezione intera di A., intendo così: dove c'è un processo di  svolgimento, il principio appare in tutta la sua evidenza nell’ultimo termine, o  in ogni punto del processo dove esso mette capo a una realtà «determinata.  Il genere, che è un comune astratto o un indeterminato, non può valere, quindi,  come principio. Si prenda, ad es., la serie dei numeri o delle figure geometriche,  pensandola come sviluppo concettuale: numero e figura che non siano un determinato numero o figura sono astratti. E il numero e In figura che vengon dopo,  in quanto implicano il numoro o la figura precedente, rivelano ancor meglio il  concetto (îl tre meglio del due, il quadrato meglio del triangolo). E nei numeri  e nelle figure il processo dei generi è infinito? Che se consideriamo le altre cose,  dove pare lo svolgimento non aver luogo (le specie indivisibili), perchè di generi  diversi (uomo, albero, ecc.), o coordinati in uno stesso genere (uomo, bruto, ecc.),  tanto più per esse è chiaro che il genere non esiste fuori delle specie concrete.  Che se anche in queste si vuo! guardare al processo teleologico, come svolgimento  in perfezione dell’essere (il bene), e si dirà che il bruto vale più dell’albero,  l’uomo più del bruto (il meglio o il peggio), varrà anche per esse ‘la considerazione precedente. Cfr. Eth. Eud., I. 8. 1318 a, 2: «In tutte quelle cose in cui ha  luogo il prima e il dopo, non esiste qualcosa di comune oltre di esse, e che sia  da esse separabile. Infatti, se esistesse, sarebbe qualcosa di anteriore al primo  termine: e sarebbe anteriore, il comune e separabile, per questo, che, tolto esso,  verrebbe tolto il primo termine. Per es.: se l'esser doppio è il primo termine dei  molteplici, non può darsi che esista separatamente l'essere molteplice, che è ciò  che di essi si predica in comune: poichè sarebbe, allora, prima del doppio. E così  dovrebbe accadere, se il comune gi vuol porre come idea, ovvero se del comune  si vuol far qualcosa di separato ,   Con la interpretazione proposta circa le «specie indivisibili  si evita la contraddizione che il Ross rimprovera ad A. di ammettere un universale ragù calura.    Come il Motore Immoto e le Intelligenze motrici di A. Una questione affine a queste ('), la più difficile di tutte  e pure la più necessaria a meditare, è quella di cui è venuto  il momento ora di ragionare.   Se non c’è niente fuori dei singoli esseri, e questi sono  infiniti, come mai di esseri infiniti si può acquistare scienza?  Di fatto, intanto conosciamo ogni cosa, in quanto c’è qualcosa di unico e identico, in quanto c’è qualcosa d’universale.  Ma, allora, se ciò è necessario, e se bisogna che ci sia qualcosa oltre gli esseri singoli, bisognerà che i generi, o gli  ultimi o i primi, siano fuori dei singoli: il che s’è questionato dianzi che è impossibile.   Di più, dato che esista qualcosa oltre il sinolo, quando  qualcosa vien predicato della materia (*°),  si domanda se,  dato che esista, esso debba esser fuori di tutte le cose, o di  alcune sì e di alcune no, o di nessuna.   Che se non ci fosse niente fuori dei singolari, niente sarebbe intelligibile, ma sarebbe meramente sensibile ogni cosa  e non ci sarebbe scienza di nulla: a meno che uno non dica  che scienza è la sensazione (*). E neanche ci sarà nulla di  eterno e immobile: poichè le cose sensibili tutte s! corrompono e sono in movimento (‘). Ma, allora, se niente c’è di  eterno, neppure è possibile che ciì sia il divenire, perchè quel  che diviene ha da essere qualcosa, e così anche quel da cui  viene, e l’ultimo di questi termini più non deve essere generato: chè una fermata ci vuole, ed è impossibile che il  divenire venga dal non-essere. Così, essendoci generazione e     (Questione 8*) Ripresa, infatti, in lib, VII. 93. 7-9. 17; VIIL A. 6.    La forma sostanziale, l’anima, ad es., la quale, appunto, è principio determinante, o categorico, del corpo vivente.    Così Protagora nel Teeteto. Qui la questione s'incontra con la 5*, la quale,  tuttavia, fu trattata piuttosto storicamente e criticgmente, che in via teoretica e    . costruttiva.     I cieli sono sensibili, ma ‘eterni, sebbene in movimento. A., tuttavia, qui  parla degl'individui soggetti al processo di generazione-corruzione,    (da |    e.  movimento, c'è di necessità anche’ un limite; poichè nè c’è  movimento che non abbia fine, ma ognuno ha un termine (');  nè è possibile che divenga quel che non perviene mai ad  essere: di necessità, tosto che il suo divenire si compie, ogni  cosa, divenuta, è. E se la materia deve esistere, appunto perchè non soggetta al divenire, sarà molto più ancora ragionevole che ci debba essere la sostanza, che è ciò che la  materia diviene. Altrimenti, se nè quella nè questa ci fossero,  non ci sarebbe proprio niente del tutto. Questo non è ammissibile; deve, dunque, esistere qualcosa oltre il sinolo: la  forma e la specie.   Ma, di nuovo, se si ammetterà. questo, sorgerà il dubbio  per quali cose si debba ammettere, e per quali no. Di tutte  è evidente che non si può: di certo, non ammetteremo che  ci sia una qualche casa (*) fuori delle cose particolari.   Inoltre, la sostanza sarà unica per tutti: ad es. per tutti  gli uomini? È assurdo: chè gli esseri di cui la sostanza è  unica per tutti, sono una cosa sola. Diremo, invece, che sono  molti e differenti? Ma anche questo è assurdo (*). E intanto,  come la materia diviene ciascuna delle cose particolari, e come  il sinolo è materia e forma insieme?   Si potrebbe su i principii sollevare anche questo dubbio.  Se la loro unità è specifica, niente sarà uno numericamente,  neppure lo stesso Uno e l'Ente (‘).     In conchiusione, come ha dimostrato nel lib, II. 3, ci ha da essere per il  divenire, nella serie delle cause, un principio materiale, da cui vengono le cose;  un termine finale (ch'è anche principio motore), e una causa formale (per cui ciò  che diviene diviene qualcosa).    La casa è un prodotto artificiale, non naturale, onde la sua forma non è  organizzata nel sistema delle specie dell'essere. Non c’è, quindi, la casa-specie,  come forma pura che si svolga attraverso le case particolari.    Nè un'unica forma sostanziale, nè una molteplicità di forme sostanziali,  ma un'unica forma che, diversamente sostanziandosi con la materia, produce la  molteplicità degl’individui. In questo senso soltanto par doversi concedere l’esistenza di un principio puramente formale oltre la materia e il sinolo, per la realtà  e intelligibilità delle cose della natura.    (Questione 9£) Principii della stessa specie possono esser meramente  simili. non esser forme di un unico principio.  E come potrà esserci il sapere, se non ci sarà qualcosa 15  di unico che si predica di tutti?   Invece, se la loro unità è numerica, ciascuno dei principii 16  sarà uno e identico; e non, come nelle cose sensibili, sempre  diverso, secondo la diversità delle cose ('). Ad es.: se questa  sillaba è tale perchè ha una determinata qualità, anche i suoi  principii, o elemen  ti, sono da considerare specificamente gli  stessi: ma, se li ripeto, non son più gli stessi quanto al numero. Se, dunque, non è così, ma l’unità dei principii dei  reali è soltanto numerica, non esisterà nient'altro fuori degli  elementi: infatti, dire «uno di numero e dir «singolare    1000 a è lo stesso. Noi diciamo, appunto, singolo quel che è uno  numericamente, universale quel che riguarda tutti. Sarebbe  come se gli elementi fonici delle parole fossero determinati  quanto al numero: necessariamente, l’alfabeto non potrebbe  contenere un numero di lettere maggiore di quegli elementi:  e non ce ne sarebbero due, nè più, della stessa specie.   Di non minore importanza delle altre è una questione 17  trascurata dai moderni non meno che dagli antichi: se i  principii delle cose corruttibili (*) e delle incorruttibili siano  gli stessi, o diversi. Se sono g li stessi, come accade che le 18     Un principio unico senza differenze non può spiegare la diversità delle  cose. Separando, per la discussione, nel concetto dell’unità, il lato fomnale dal  materiale, questo assume un significato aritmetico, semplicemente quantitativo,  con esclusione del qualitativo 0 specifico; quello, a sua volta, acquista il senso  di un'universalità astratta, indifferente al contenuto. (Il rapporto dei due punti di  vista nel giudizio concreto è dato da quello del soggetto individuale al predicato  universale: sì che s'intende come ognuno dei due può giustamente aver pretesa  di superiorità su l’altro).   Le lettere dell’alfabeto, le sillabe, ecc. (noì diremmo le parole) son sempre  diverse nelle parole (e queste nel discorso), pur essendo numericamente e specificamente le stesse (è pur sempre quel certo significato che si svolge nella diversità  della parola). Se dovessero esser le stesse soltanto numericamente, sarebbero come  tessere che, per quanto diversamente configurabili, resterebbero identiche: così  erano gli elementi (terra, acqua, ecc.) immaginati come dati, una volta per sempre,  per la costruzione del mondo. Questo, non ostante le apparenze, sarebbe immobile,  senza generazione nè svolgimento. Così il linguaggio sì ridurrebbe a parole, la  parola a lettere alfabetiche corrispondenti al numero degli elementi fonici di essa.  La questione è ripresa, ma in polemica contro le Idee, nel lib. XIII. 10.    (Questione 104) Corruttibili e incorruttibili: noi diremmo transitorie  ed eterne. une siano corruttibili e le altre incorruttibili, e per quale  motivo?   Quei del tempo di Esiodo, e tutti quanti teologizzarono,  pensarono soltanto a dir cose conformi alle loro credenze,  e delle difficoltà che travagliano noi non si curarono. Essi  dei principii facevano Dei e dagli Dei facevano venir tutto,  e dicevano che gli esseri i quali non hanno gustato il nettare  e l'ambrosia nascono mortali. Certamente, parlavano così  sapendo, essi, quel che dicevano. Ma le ragioni che apportano, sorpassano la nostra intelligenza. Poichè, se è per  cagion del piacere che quegli esseri l’assaggiano, non è il  nettare o l'ambrosia la causa del loro essere; e se fosse la  causa del loro essere, come sarebbero eterni avendo bisogno  di nutrimento? Ma non vale la pena di fermarsi a indagare  intorno a queste escogitazioni mitologiche. Bisogna apprendere da quelli che parlano dimostrando, e chieder loro come  mai degli enti che vengon dagli stessi principii, alcuni sono  eterni per natura, e altri periscono. Non dicendo costoro la  ragione di questo fatto, e non sembrando neppur ragionevole  che stia così, si potrebbe conchiudere che non sono gli stessi  i principii degli enti, nè le loro cause. A Empedocle, del quale  si potrebbe pensare che più degli altri sia d’accordo con se  stesso, anche a lui è accaduto lo stesso. Egli pone, è vero,  un principio causa della corruzione, la discordia; ma parrebbe  che questa fosse causa non più della corruzione che della  generazione d’ogni cosa, ad eccezione dell’ Uno ('), perchè le  altre cose tutte vengono da essa, tranne Dio. Dice, infatti:    Dei quali sono tutti gli esseri, quanti ce ne furono,   e quanti ce ne saranno di nuovo; {quanti ce ne sono,  e le piante germogliarono, e gli uomini e le donne,   e le belve e gli uccelli e i pesci che nutre l'onda,   e i numi longevi.    E anche senza questi versi, è evidente: chè, se non ci  fosse la discordia nelle cose, queste sarebbero tutte una sola,        L' Uno, Dio, è lo Sfero (quando questo era governato dall’Amore soltanto).    1000 b    86 METAFISICA    come egli stesso dice: infatti, quando si trovavano riunite,  allora «la Contesa se ne stava all’estremo confine . D’onde  gli avviene anche di fare il felicissimo Dio meno intelligente  degli altri: di fatto, non possedendo la discordia, non ha  cognizione di tutti gli elementi, chè la cognizione è del simile  col simile. Egli dice:    terra con terra, acqua con acqua scorgiamo,  con l’etere l’etere divino, e il fuoco distruttore col fuoco,  con l’Amore l'Amore, con la Discordia funesta la Discordia.    Ma, per tornare al nostro discorso, è manifesto che per  lui la discordia bisogna che sia non meno cagione dell’essere  che della corruzione. E neppure l’amicizia è causa soltanto  dell'essere: rimenando tutto all’unità, fa perire ogni altra  cosa. Intanto non ci dice niente su la causa di questa mutazione, ma solo che così è per natura:    ma quando la Discordia fu cresciuta grande nelle membra  e sali al comando, compiendosi il tempo   che ad entrambe è prefisso,   in alterna vicenda, da un inviolabile giuramento ('),    come se la mutazione fosse necessaria; ma non ci palesa nessuna cagione di questa necessità. Pur tuttavia egli è il solo  che parli coerentemente, in quanto non fa già degli enti gli  uni corruttibili, e gli altri no; ma tutti corruttibili, eccetto  gli elementi. Invece la questione, di cui qui trattiamo, è perchè  aleuni sono corruttibili ed altri incorruttibili, una volta che  vengono da gli stessi principii.   Che, dunque, i principii non possano esser gli stessi, basti  quanto s’è detto.   Ma se i principii son diversi, uno dei dubbi sarà se quelli  delle cose corruttibili siano ineorruttibili, o corruttibili anch’essi (*). Se corruttibili, è chiaro che anch’essi debbono        Per frammenti Empedoclei, cfr. Diels, op. cit., I, 180 88. (nn. 21, 30, 96, 109).  V. anche E. BicnonE, E., pp. 417 88.   (9) Così anche il Lasson (trad. della Met. di A., Jena, 1* ediz. 1907, p. 51).  Letteralmente sarebbe: «uno dei dubbi sarà se essi stessi sono incorruttibili o  necessariamente venire da altri principii, perchè ogni cosa  si corrompe in ciò da cui deriva: onde risulterebbe che ci  sono altri principii anteriori ai principii. Ma questo non è  accettabile, sia che ci si voglia fermare, sia che si proceda  all’ infinito (‘). E poi, quando i principii loro saranno stati  distrutti, come possono esserci più i corruttibili?  Se, invece, sono incorruttibili: perchè mai da alcuni di essi verran  fuori gli enti incorruttibili, mentre da altri, incorruttibili  anche essi, verran fuori enti corruttibili? Non par davvero  ragionevole: anzi, o è impossibile, o c’è bisogno di molte  spiegazioni.   In fine, nessuno mai ha preso a dire che i principii degli  enti fossero diversi, anzi dicono che son gli Stessi per tutti.  Nella questione, tuttavia, che agitammo dianzi, non s’addentrano, quasi reputandola di poco conto.   La questione più di tutte difficile a meditare e la più necessaria alla conoscenza della verità, è se l’Ente e l’Uno  sono sostanze degli enti, sì che ciascuno di essi, quello in  quanto ente, questo in quanto uno, non siano predicato di  altro; ovvero se bisogni cercare che cosa sia l’Ente, e che  cosa sia l’ Uno, in quanto un’altra natura sta loro a sostrato.  Alcuni la pensano nella prima maniera, altri nella seconda.  Platone e i Pitagorici ritennero che l’ Ente e 1’ Uno non siano  null’altro se non quello che è la loro natura, di essere cioè  la sostanza loro l’essenza dell’ Ente, appunto, e dell’ Uno (?).    I    corruttibili . Ma mì par chiaro, da quel che segue, che la questione riguarda 801tanto i principii dello cose corruttibili. Delle incorruttibili come può sorgere il  dubbio? Nò ia questione è diversa dalla precedente: l’incorruttibilità dì quei  privcipii, infatti, è dimostrata per la medesimezza, laddove la corruttibilità de’  loro effetti è adotta in prova della loro diversità,    Se ci sì ferma, ci son principii anteriori, e son essi principii, non gli altri.  Se si volesse procedere (o regredire) all'infinito, non ci sarebbero principii addirittura, In entrambi i casi quei principii supposti corruttibili verrebbero distrutti  come principii, logicamente e, in quanto abbassati a cose corruttibili, anche realmente. La presente questione si può considerare risolta nel lib. XII (spec. nei  primi capitoli).    (Questione 11) L'essere in sò e per Sè, e così l'Uno, sono sostanza  «lelle cose, come vogliono Pitagorici e Platonici; ovvero la sostanza delle cose  consiste nel sostrato determinato (materia e forma nell’unità del BIinolo), del quale  si possono predicare l’essere e l'uno? I Fisiologi la pensarono altrimenti. Empedocle, ad es., per    dire che cosa è l’Uno cerca di ridurlo a qualcosa di più    facile a sapersi, e parrebbe che questo fosse per lui l’amicizia: per lo meno, essa è la causa dell’unità di tutte le cose.  Altri dicono il fuoco, altri l’aria: questa è, per essi, la natura dell’ Uno e dell'Ente, da cui sono e si generano le cose.  E del pari, coloro che pongono più elementi: anch'essi son  costretti a dire che l’Uno e l’Ente è tante cose quanti per  l'appunto sono i principii (‘).   Se non si volesse concedere che l’Uno e l’Ente sia una  sostanza, neppure quindi può esser tale nessuno degli altri  universali: chè quelli sono universali a maggior titolo degli  altri. Se per ciò non è qualcosa (?) l’Uno per sè e l’Ente per  sè, molto meno si può dire degli altri che siano qualcosa  oltre le cose singolari.   In secondo luogo, se l’Uno non fosse sostanza, è chiaro  che neppur il numero sarebbe una natura separata (*) dalle  altre: poichè il numero è fatto di unità, e l’unità è l’essenza,  per l'appunto, d’ogni cosa ch'è una.   Ma se l’Uno e l’Ente sono qualcosa che è in sè e per sè,  necessariamente la loro sostanza è l’Uno e l'Ente, perchè non  c’è in essi qualche altro sostrato di cui essi si predichino  universalmente, ma sono essi questo sostrato.   Ma, allora, se l’Ente e l’Uno sono qualcosa in sè e per  sè, la difficoltà grande è come ci potrà essere qualche altra  cosa oltre di essi: in altri termini come gli enti potranno  essere più di uno. Poichè l’altro dall’ente non è: per cui si  è costretti a ragionare come Parmenide (‘), che tutte le cose     I Fisiologi posero per principio, non l' Uno in sò e per sè, ma una materia  primordlale, unica o molteplice, come sostrato del divenire,    Qualcosa di esistente in sè e per sè: i. e. una sostanza.    I. e., come prima, una sostanza: ciò che ha un'esistenza indipendente  (in sè e per sò),    I Platonici intendono l'essere come essenza (l'essere intelligibile) dolle  cose, e in questo il loro principio è ben altro da quello parmenideo. Ma essi,  dice A., debbono pure, come Parmenide, escludere ogni molteplicità dal principio posto come assolutamente Uno. (Ricorda che, pur riconoscendo l'esistenza  del molteplice, Platone, come si vide nel lib. I. 6, 9, pose questo come contenuto sono Uno, e questo è l’Ente. Non c’è da star contenti nè in 1001 b  un caso nè nell’altro: o che l’Uno non sia sostanza, o che  l’Uno sia qualcosa in sè e per sè, il numero non può essere  sostanza. Se l’Uno non è sostanza, quest’impossibilità s'è  dimostrata prima. Se invece è sostanza, vale per esso la  stessa difficoltà che intorno all’Ente: donde verrà un altro  uno oltre l’Uno in sè e per sè? Necessariamente, esso non  potrà esser uno. Ora, tutto ciò che è, o è uno, o molti, dei  quali ciascuno è uno.   39 In secondo luogo, se l’Uno è in sè indivisibile, stando  alla sentenza di Zenone esso sarebbe nulla; poichè, ciò che  o aggiunto o sottratto non fa esser perciò una cosa nè più  grande nè più piccola, non è secondo lui da annoverare tra  gli enti; come se fosse evidente che l’essere sia una grandezza, e, se grandezza, sia perciò corporeo: chè questo sarebbe ente da ogni lato. Le altre grandezze ('), invece, aggiunte in un certo modo (*), dice, fanno più grande ciò a  cui si aggiungono, e in un altro, no: per es. una superficie,   40 una linea. Il punto e l’unità, in nessun caso, mai. Costui è  rozzo nelle sue speculazioni; e poichè qualcosa indivisibile  esiste, se ne potrebbe far la difesa contro di lui anche così:  esso è di tal natura che, aggiunto, non farà più grande ciò   41 a cui si aggiunge, ma, con esso, farà più nel numero. Rimarrebbe, ciò non ostante, la questione (*): come da un tale uno,       soltanto: laddove il principio formale dell'idea era l’unità pura). In termini filosofico-religlos!, la dottrina platonica conduceva ad un misticismo pantelstico (salvo  il motivo, teistico, della trascendenza formale, svolto da A.).    L'Uno, contro il quale Zenone combatte, non è (come giustamente fa  osservare il Ross) il principio parmenideo, ma quello pitagorico, o l'uno come  prinelpio di spiegazione del molteplice fisico (sensibile, corporeo). Esso era pensato, infatti, come una grandezza indivisibile (cfr. l'atomo democriteo). E però  Zenone accetta questo modo di vedere, e considera il corpo (il solido, la grandezza a tre dlmensloni) come ente a maggior ragione delle altre grandezze. Egli  può, così, dimostrare che il mondo e ogni cosa, in quanto risultante da quelle  unità elementari, sarebbero insieme infinitamente grandi e infinitamente piccoli,  ossia contradittorli.    Secondo che si agglungono l’una di seguito all'altra, oppure vengon so0vrapposte;    A. non condivide il modo dl vedere pitagorico-platonico che identifica  l'arltmetico col geometrico, e però trova rozza l’argomentazione di Zenone. o da molti come esso, si avrà la grandezza? Poichè è come  dire che la linea risulti di punti. E se anche si vuol ammettere quel che dicono alcuni, che il numero provenga dall’Uno in sè e da qualcos’altro non uno ('), resta sempre a    sapersi perchè e come l’effetto è talora un numero, talora’    una grandezza, una volta che il non-uno è la disuguaglianza  e la sua natura è sempre la stessa (?). Non si vede nè come  da l’Uno più questa, nè come da un numero più questa,  potrebbero venir fuori le grandezze. A queste fa seguito la questione, se i numeri e i corpi (*) e  le superfici e i punti siano da porre tra le sostanze, o no.   Se non sono sostanze, ci sfugge che cosa sia l’essere, e  quali cose siano sostanze. Le affezioni, i movimenti, le relazioni, gli ordinamenti e rapporti diversi delle cose, non pare  davvero che esprimano la sostanza di nulla: essi vengono  tutti riferiti a un sostrato, e nessuno è un essere concreto.  Si prendano pure, come esprimenti la sostanza meglio di  ogni altra cosa, l’acqua e la terra e il fuoco e l’aria, di cui  constano i corpi composti; ma il loro riscaldarsi o raffreddarsi, e simili altre affezioni, non sono sostanze: solo il corpo  che li riceve, rimane come qualcosa di concreto e come una  sostanza reale. E tuttavia, il corpo è ancor meno sostanza  della superficie, e la superficie della linea, e la linea del  ‘Tuttavia dà ragione a costui quanto all’impossibilità di dedurre l’esteso dall’ inesteso. Ricorda, infatti, l'imbarazzo di Platone per il concetto di punto:  lib, I. 9, 25.    La diade indefinita (il grande-piccolo).    Onde, o è ineste sa, e dall'unione con l'Uno verranno i numeri, non le  grandezze; o è estesa, e dall'unione con l’Uno verranno le grandezze, non i  numeri. Nè, se uno dicesse che, prima, dall’Uno e dalla diade si genera il numero, poi da questo con la diade le grandezze,  neanche così resterebbe spiegato  il passaggio dall'inesteso all’esteso. La questione 11° è ripresa in VII. 16, 3-4 e X. 2  (oltre gli accenni sparsi nei libri XIII-XIV).   (8) (Questione 12*)I solidi (corpi matematici). unità e del punto. Infatti, da questi vien determinato il  corpo: e se questi parrebbe che possano esistere senza il  5 corpo, il corpo senza di essi non può('). Avvenne per ciò  che i più antichi filosofi, pur reputando, conforme all’opinione dei più, che il corporeo fosse la sostanza reale delle  cose, considerarono il resto sue affezioni, così che i principii  dei corpi erano, anche per essi, i principii delle cose. Ma  i filosofi posteriori (*) e più raffinati di quelli reputarono che  principii siano i numeri.  6 Dunque, come s’è detto, se questi non Sono sostanza,  non c’è punto nessuna sostanza, nè alcun essere reale: chè  i loro accidenti non meritano davvero di esser chiamati enti.  7 D’altra parte, se si concede questo, che le linee e i punti  sono sostanza più dei corpi, non vedendo noi di quali corpi  possano esser sostanza (di quelli sensibili non è possibile),  8 non ci sarebbe sostanza nessuna (*). Inoltre, pare che tutte  queste cose siano divisioni del corpo, l’una in larghezza,  9 l’altra in profondità, e l’altra in lunghezza (*). Aggiungi che  nel solido o c’è del pari ogni sorta di figure, o non ce n'è  nessuna: per cui, se, poniamo, non c’è un Ermete nella pietra, neppure c’è la metà del cubo nel cubo(°): s’intende     Tanto poco si deve ritenere per sostanza ciò che a unu veduta grossolana  pare più corporeo, che anzi gli elementi primi e i principii generatori del reale  si trovano per ultimo con l’anallsl della riflessione: la superficie come principio  generatore del solido, lu linea della superficie, il punto della linea.  Parrebbe  che il semplice possa esistere prima e indipendentemente dal più complesso  (v. lib. I. 8, 9 88.), 6 però esser sostanza n maggior diritto.    I più antichi filosofi: i Fisiologi. I filosofi posteriori: Pitagorici e Platonici.    Cfr. VII. 10, 19: «La materia intelligibile, quale quella delle matematiche,  è nei sensibili, ma non in quanto sensibili . E già in I. 8, 1 aveva detto che con  i principii matematici non si può dar conto delle proprietà e qualità delle cose  oggetto della Fisica.    Non sostanze, ma divisioni che noi operiamo nei corpi.   (5) Come nota S. Tom. (8 509): «haec in continuo non sunt in actu, nisi solum  quantum ad illa quae terminant continuum, quae manifestum est non esse substantiam corporis. Aliae vero superficies vel lineae non possunt esse corporis  substantiae, quia non sunt actu in ipso: substantia autem actu est in eo cuius  est substantie . In potenza ci son tutte: così come la figura di Mercurio è nel  blocco di marmo, e la superficie che divide 11 cubo a metà è nel cubo. In atto  ci sono soltanto se le realizziamo: se no, rimangono, come idee soltanto, nel come figura determinata. E così per le superfici: se, infatti,  ci fosse ogni sorta di superfici, ci sarebbe anche quella che  determina la metà del cubo. Lo stesso ragionamento vale  anche per la linea, per il punto e l’unità. Sì che, se il corpo  principalmente è sostanza, ma queste cose, che pur han diritto di esser sostanza più di esso, non sono poi per nulla  determinate sostanze,  ci sfuggirà quel che è il reale, e  quale sia la sostanza degli enti.   Altri assurdi vengon fuori considerando la generazione e  la corruzione. Sembra, infatti, che la sostanza, se prima non  era ed ora è, oppure prima era ed ora non è, subisca queste  vicende perchè si genera e si corrompe. Ma i punti e le linee  e le superfici, pur talora essendo e talora no, non possono nè  generarsi nè corrompersi, per la ragione che è nell’atto in cui  i corpi si toccano e si dividono che, in un caso, di quel che  viene in contatto (') si fa unità, nell’altro, quel che vien diviso diventa due: quei che si compongono, c’erano, ma, essendo stati distrutti nella composizione, non sono più; quando  invece vengono divisi, ci sono, mentre prima non c’erano. Di  sicuro, non si è già diviso in due l’indivisibile punto (?).  Eppure, se si generano e corrompono, ciò avviene da qualcosa.   Press’a poco lo stesso vale, in riguardo al tempo, per  l'istante: neppur di esso si dà generazione e corruzione, e  tuttavia sembra che sia sempre diverso pur non essendo una  sostanza. È chiaro che lo stesso vale anche per i punti, per le  linee e per le superfici: perchè il discorso è lo stesso: tutti  sono similmente o limiti o divisioni (*).    pensiero e virtualmente (ricorda Leibniz!) nelle cose. L'« argumentationis fraus   (Bonitz, p. 167), per cui A. estenderebbe la conchiusione «ad eam figuram quae  actu corpus circumsceribit , non mi par che ci sia.    I. e. punti, linee, superfici (propriamente, superfici, so si compongono 0  dividono due corpi; linee, se due superfici; punti, se due linee).     «Neque enim illud quisque statuitur, ita in dirimendis corporibus fieri   planum vel lineam, ut ipsum punctum dissecetur: Bonitz (p. 168). A ciò, infatti,  ci vorrebbe un passaggio, dalla potenza all'atto. Laddove l’atto è istantaneo, e  nell'istante non c'è generazione (che implica un processo temporale).    V. il passo di S. Ton. cit. dianzi. Degli enti matematici trattano ampiamente i libri XIII-XIV; ivi è ripresa anche la questione delle idee, alla quale  si ritorna nella 13% (efr. la questione 5* e 9°). Si potrebbe anche in generale far questione, perchè mai  bisogna cercare altre entità oltre le sensibili e le intermedie,  2 e quali siano: per es., le specie, che noi poniamo. Si può  rispondere che gli enti matematici differiscono bensì per un  verso dalle cose di quaggiù, ma non ne differiscono punto  in quanto ce ne sono molti della stessa specie ('): per cui i  principii delle cose non si possono determinare con il numero;  così come l'alfabeto non è determinato dal numero delle lettere, ma dalla loro specie (a meno che uno non prenda le  lettere di una sillaba o parola attualmente determinata: chè  3 lì anche il loro numero è determinato). Ma lo stesso vale per  gli intermedi: anche-là, infiniti sono quelli della stessa specie.  Così che, se oltre le cose sensibili e gli enti matematici non  ci fossero altri enti, quali sono le specie secondo alcuni,  nè  ci sarebbe una sostanza unica per numero, oltre che per specie (°), nè i principii degli enti sarebbero tanti, e non più,  di numero, ma di specie soltanto. Che se questo è necessariamente conchiuso, bisogna conchiudere anche che le specie  4 esistono. E se pure non si spiegano bene i loro sostenitori,  bene è questo quel che vogliono, ed è necessario che questo  essi intendano dire: che delle specie ciascuna è una sostanza     (Questione 18%)  Molti (infiniti) triangoli sensibili, e molti (infiniti)  triangoli geometrici (sebbene questi siano eterni e immobili). Questa molteplicità  ha bisogno di un principio di unificazione, che non può esser altro che ideale  (in questo caso, il concetto stesso dij triangolo). Così, come l'alfabeto è tale per  In «specificità delle lettere in cui i suoni fonici ri determinano, non per il  numero dei suoni che fan capo a esso.    Oppure, secondo la variante difesa dlal Bonitz e dallo Schwegler (e già  in Aless.): «ma soltanto di specie . Il senso, tuttavia, è giusto anche tenendo  il testo com'è. Nota che nell'argomentazione i termini s'inerociano: il molteplice sensibile e matematico è veduto deutro la specie, ed è perciò « della stessa  specie ; esigere, poi, che anche per questo molteplice ci sia una specie unica,  che ne dia la ragione logica e insieme reale, è esigere un’unità numerica, oltre  che specifica: laddove, se quel molteplice è veduto fuori della specie, questa rappresenta di esso un’unità specifica, non numerica. determinata, sì che non si tratta .di determinazioni accidentali dell’essere.   D'altra parte, se noi porremo che le specie esistono ('),  e che i principii abbiano unità per il numero, non per la  specie,  s'è detto innanzi (*) a quali conchiusioni inaccettabili si arrivi.   Affine a questa è la questione se gli elementi sono in potenza o in qualche altro modo (*). Se fossero in qualche altro  modo, ci sarebbe qualcos’altro, anteriore ai principii, poichè  la potenza sarebbe anteriore a una tal causa, non essendo  necessario che tutto ciò che è possibile sia a quel modo (*).   Se, invece, gli elementi sono in potenza, potrebbe non  esister nulla attualmente, poichè è possibile anche ciò che  ancora non è. Diviene, infatti, ciò che non è ancora. Invece,  nulla diviene di quel che è impossibile che sia.   Queste, dunque, sono le questioni da discutere intorno ai  principii; e anche se siano universali, o al modo che diciamo  dei singolari. Se universali, non saranno sostanze, perchè  nessun termine comune esprime un essere concretamente determinato, bensì una certa natura dell’essere; invece, la sostanza è un essere concretamente determinato. Se ciò che si  predica in comune (*) fosse un essere concretamente deter   A sè, come sostanze, enti separati o indipendenti.    V. nel Sommario quest. 54, a); quest. 9, b). L'unità per il numero, soltanto,  fa dei principii elementi materiali, incapaci di dar ragione delle cose. Cfr. S. Tom.  (8 518): « Principia rerum efficientia et moventia sunt quidem determinata nuniero;  sed principia rerum formalia, quorum sunt multa individua unius speciei, non sunt  determinata numero, sed solum specie .    (Questione 148)  In atto. La questione è a/fne alla procedente, perchò l’unità numerica, oltre che specifica, è Atto e individualità; quella soltanto  specifica corrisponde alla mera possibilità,    L'attuale (empiricamente inteso) presuppone il possibile (come sua propria  pensabilità, diremmo noi), non viceversa. Nota che altro è il « possibile , altro ciò  ch’ è «in potenza  (sebbene di solito indicati con lo stesso termine: tò Buvaréy):  in questo è già il principio del processo determinato del divenire, che si svolge  da una forma già realizzata in una materia; il possibile, invece, non ha altra  determinazione che di non esser contradittorio. La questione è ripresa e trattata in lib. IX. 1-9.   (5) (Questione 15%)  xatnyogovpeva, universali astratti. La questione è  implicata già nella minato, e si potesse staccare dai particolari, Socrate sarebbe  molti esseri viventi: cioè, lui stesso, l'uomo, l’animale: dato  che ognuno di questi sia un essere concreto e qualcosa che sta  da solo. Questo, dunque, accade se i principii sono universali.   Se, poi, non sono universali, ma al- modo dei singolari,  non saranno più oggetto di scienza, perchè la scienza in ogni  cosa è dell'universale. Sicchè, se la scienza deve esserci, ci  saranno altri principii anteriori ai principii: quelli che si predicano in universale.  C'è una scienza che studia l'essere in quanto essere (')  e le sue proprietà essenziali. Essa è diversa da ognuna delle    scienze particolari: poichè nessuna delle altre scienze studia  in universale l'essere in quanto essere, re, ma, dopo averne recisa qualche parte, di questa considera gl: gli accidenti. Così,  le matematiche.     Td Bv fi Bv: l’essere, il reale, in Sè e per sò. Questa è "la definizione  fondamentale della Metafisica, alla quale si riducono le altre due vedute finora:  quella del lib. I, di scienza dei principii e cause prime, e quella del lib. II, di  scienza della verità. Salvo che l’una determina il senso della definizione fondamentale piuttosto in riguardo alla realtà delle cose, l’altra piuttosto in riguardo  al pensiero che le pensa. Ma, sì può chiedere, i principil e le cause prime delle  cose non le studinno anche le altre scienze, e in primo logo le fisiche? Qual'è,  allora, la differenza tra la Metafisica e le altre scienze? La questione è trattata  più ampiamente nel cap. 1 del lib. VI, Qui si.ascenna soltanto-che-le-Matafisica  considera 1’ essere nella sua universalità e necessità. Le altre scienze, il infatti, si  restringono t) “considerare un genere di enti (gli unimalt, Te piante, ece.; i ‘’auoni,  i colori, ecc.; i numeri, lo figure reometriche, ecc.), € però son tutte particolari.  Non solo: ma nel genere particolare di cose, che studiano, non riguardano no alla  loro pura essenza, a ciò che sono per una necessità intima dell'essere stesso, ma  considerano le loro qualità e proprietà, astraendole (quasi recidendole) dalla  sostanza ed essenza loro, data nel concetto e nella definizione. Ne cgnsiderano  gli accidenti: le fisiche, gli accidenti sensibili; le matematiche (che astraggono  dal resto per considerare le sole proprietà quantitative), gli accidenti che possiam  chiamare intelligibili. Invece, l’essere vien studiato dalla Metafisica come principio da cui necessariamente dipendono gli altri principi, in quanto questi non  son altro che parti o elementi dell’intelligibilità e realtà dell'essere per se stesso. Ora, volendo noi conoscere i principii e le cause supreme,  è chiaro che li dobbiamo cercare come proprietà di una natura  considerata per se stessa. Se, dunque, coloro che cercavano  gli elementi degli enti ('), cercavano anch'essi questi principii, di necessità anche gli elementi erano dell’essere non  accidentalmente considerato, ma in quanto essere. Per ciò  anche a noi convien prendere le prime cause dell’essere in  quanto essere.    CaPiToLO II.    Dell’ente si parla in molti modi (*), ma sempre per un  solo rispetto e determinatamente alla natura di una cosa, non  per omonimia semplicemente, ma nello stesso modo che di   I Fisiologi, i quali facevano anch'essi, inconsapevolmente, della metafisica.    L'essere in quanto oggetto del pensiero è l'essere che viene affermata nel  conoscere e nel sapere: l'essere delle cose di cui il metafisico indaga le categorie  supremo. Le altre scienze adoperano queste categorie; il metafisico le studia  come puri concetti in cuì si distingue o determina il concetto in sè e per sè  dell'essere. Dell'essere reale, s'intende: di quello ch'è predicato delle cose.  Questo viene quindi distinto in sostanza e accidenti, gli accidenti in essenziali  e non essenziali, e vla dicendo. E di ognuno di questi aspetti, che il pensiero  coglie nelle cose, si chiarisce il significato e il rapporto che hauno tra loro.   Il conoscore e il sapere, inoltre, procedono ponendo rapporti tra le cose dentro  ciascuna delle categorie sostanziali o accidentali: rapporti, cioè, di identità, di  uguaglianza, di somiglianza, ecc., e de’ loro contrari, Il metafisico studia il significato e il rapporto anche di queste categorie che potremo chiamare dialettiche,  pur che sai badi che qui A. intende del pensiero che si muove nella realtà delle  cose: non per mera esercitazione.   Non basta. Questo pensiero che peusa le cose e i loro rapporti, già nel conoscere comune; ma molto più visibilmente in quello scientifico, procede affermando  o negando, con giudizi, ragionamenti, dimostrazioni. Ma affermare o negare, giudicare, ragionare e dimostrare, è impossibile se non si pongono a fondamento  principii di pensabilità delle cose: ci sono certe verità evidenti, sopprimendo le  quali diventa impossibile pur cominciare, non che a pensare, n parlare.   Parlare non è lo stesso che pensare e ragionare: uno può parlare per esprimere un sentimento o per comunicarlo ad altri. Ma anche il pensare discorsivamente può essere riguardato e studiato in sè e per sè, come mero movimento 0  processo dialettico del pensiero attraverso i concetti e i loro rapporti. Di questo  trattano specialmente i Primi Analitici. Data questa indipendenza del pensiero  in quanto discorso, è possibile abusarne come fanno i Sofisti. La Metafisica lo  sottrae a questo pericolo soggettivo, perchè essa considera il pensiero in quanto  pensa l'essere reale delle cose; e però spetta ad essa lo studio di quelle verltà ciamo salubre tutto ciò che riguarda la salute: o perchè la  conserva, o perchè la produce, o perchè indizio di salute, o  perchè ci rende capaci di essa. Così, dicesi «medico  ciò 1008 b  che riguarda la medicina: chiamiamo medico chi possiede  l’arte della medicina, e anche ciò che ha natura buona a  medicare, oppure quel che è effetto di essa. E nella stessa  maniera di queste si avranno da intendere altre espressioni.  L'ente si dice per l'appunto così, in molti sensi, ma tutti in  riguardo a un solo principio: enti noi diciamo le sostanze,    e anche le affezioni della sostanza, e tutto ciò che alla sostanza    conduce : corruzioni, privazioni, qualità, quel che produce o  genera una sostanza, cose che si riferiscono. alla. sostanza,  ovvero sono o negazioni ( di i qualcuna di ‘queste v della sostanza  stessa: per cui del non-ente diciamo pure che «è non-ente(!).    supreme o assiomi, o principii di pensabilità, che scaturiscono immediatamente  dall’intelletto nell'atto del conoscere e di costruire il sapere. Di questi principii  il fondamentale è quello di non-contraddizione.   La Metafisica di Aristotele, veduta da questo lato, è una scienza della scienza,  fin dove, alineno, questo concetto moderno può essere, senza anacronismo, attribuito a lui. Manca, naturalmente, il senso dì soggettività in cui si pone questo  concetto dopo Kant, C'è soltanto quel senso di essa che poteva esserci dopo la  Sofistica e in opposizione all’idealismo oggettivo di Platone. Di qui un primo  spunto di criticismo. La Metafisica di A. è più critica che costruttiva. E poichè  la critica è fondamentalmente concettuale, si può definire una scienza che mira  a chiarire, nella molteplicità del reale, il concetto puro di esso. La dipendenza,  in cui il pensiero è ancora dalle cose, dà, tuttavia, anche a questa definizione un  significato lontano da quello che oggi ci sì potrebbe aspettare: molte volte, più  che elaborare i concetti, A. si limnita ad esporne il significato, o a distinguerne  i vari significati. Dono, più che risolva, spesso, i problemi: mostrandosi, anche  in questo, scolaro di Platone.    In questo capitolo il peusiero procede un po' a sbalzi, e sembra infatti che  il testo vada in qualche punto riordinato.   Esso si compone di tre parti: due pongono il concetto che c' è un'unica scienza  dell'essere in quanto essere, sia in riguardo alla sostanza e ai suoi attributi, sia  in riguardo alle opposizioni dialetticheia terza differenzia questa forma di scienza  dalle altre. Riassumiaino brevemente, per mostrare l’ordine delle idee:   I) Ogni scienza ha un suo oggetto (un certo genere di cose), del quale considera i vari aspetti. Ma questi si posson ridurre tutti a quello fondamentale  della sostanza e de’ suoi attributi. Questa distinzione riguarda l'essere di ogni  cosa: sarà, dunque, oggetto della scienza che studia l'essere in sè e per sè. La  quale sarà unica, così come resta unica ogni scienza non ostante la varietà delle  specie del genere che studia: il che non impedisce che abbia parti, e saranno,  queste, organizzate in essa, così come lo sono in ogni altra scienza. In quel modo, dunque, che di tutte le cose salubri c’è 2  una scienza sola, così anche delle altre. Compito, infatti, di  un’unica scienza è lo studio, non soltanto di quel che si dice  per uno stesso rispetto (‘), ma anche di quel che si dice considerando una stessa natura: chè anche questo, in certo modo,  si dice per uno Stesso rispetto. È dunque chiaro altresì che 3  unica è la scienza che dovrà studiare gli enti tutti in quanto  enti. Ma, dappertutto, scienza è principalmente quella dell'essere che è primo, e da cui tutto il resto dipende, e per  cui di tutte le cose sì parla. Se dunque questo primo è la  sostanza, dovrà il filosofo possedere i principii e le cause  delle sostanze (?).   In ogni genere di cose, come uno è il senso (*), se i sen- 4  sibili appartengono a uno stesso genere, così è della scienza:  la grammatica, ad es., sola, basta alla considerazione di tutte  le voci. Per ciò ad una scienza unica di genere spetta di  studiare quante ci sono specie dell’ente come ente: alle specie  di quella, poi, le specie di questo. Parlar dell'Uno e parlar dell’ Essere è lo stesso. Le opposizioni dialet‘tiche sono opposizioni dell'essere, perchè il non-essere in realtà è, non mera  negazione, ma privazione, contrarietà. Ora, l'opposizione unità-molteplicità è opposizione di contrari, e questi, a lor volta, si riducono sempre all'opposizione  upo-molteplice. E poichè ognuno concede che dei contrari la scienza è unica,  unica sarà la scienza della contrarietà in generale. Questa avrà significati diversi.  che tale scienza dovrà studiare, chiarire e organizzare logicamente [5-6, 8-11, 15-16).   III) E per il primo e per il secondo rispetto si conchiude che unica è la  scienza dell'essere în quanto essere, la quale studierà l’essere in quanto sostanza  e attributi, e in quanto alle contrarietà o opposizioni dialettiche [12]; vien nggiunto il concetto di svolgimento e di definizione (19; così mi par si possano  intendere le ultime parole « genere e specie, «tutto e parte: questi concetti  non si riducono, infatti, immediatamente salle opposizioni precedenti).   Questa scienza è diversa da quella sofistica, che guarda gli accidenti e le  «opposizioni, e non li coglie come determinazioni essenziali dell’essere in se  ‘stesso [13-14]. Ma è diversa anche da quella degli scienziati, perchè, sebbene  l'essere nella sua universalità astratta non sia nulla di reale, pure, considerato  come dianzi s'è detto, è quella realtà che fa roali tutto le cose: intorno a queste  versano le scienze, intorno a quella la Metafisica [17-18]. /    xa@” Ev, distinto da reds plav qpuow, l'uno come poni di vista logico, l’altro  reale (e logico insieme),    Enti, sostanze: questi plurali vanno intesi nel senso del singolare.   (8) Uno è il senso per i colori, ad es., per i suoni, ecc.    L’organizzazione del sapere coincide, così, in ogni scienza, con quella  dell’essere nelle cose.  L’ente. poi, e l’uno sonola stessa cosa, ed esprimono una  medesima natura,.in quanto s’implicano l’up l'altro così. come  principio e causa, sebbene i loro. concetti, a volerli illustrare,  non siano identici (') (e non fa nulla se noi ora Ii consideriamo tali, che anzi, ci gioverà meglio allo scopo). Non è,  infatti, la stessa cosa « uno-uomo  e «un uomo, «ente-uomo  e «l’uomo  (?)? E che altro è se non una ripetizione verbale  il dire: «l’uomo è, «l’uomo è uno? E se l’uomo nasce e  muore, è chiaro che non per questo esso si separa dal suo  essere; e similmente dicasi anche per la sua unità (*). Per cui  è evidente che l’aggiunta nelle frasi su dette non muta il  senso, e che l’uno non è nulia di diverso dall’ente. La sostanza  di ciascun essere è un’unità,-enon--per-aeeidente, ma pro 6 prio come ogni cosa che sia un essere determinato. Così che  tante saranno le specie dell’uno(‘*), e tante saranno anche  quelle dell’essere; e la scienza che studia l'essenza delle une  é Ia stessa, in fondo,. di. quella che studia }essenza . delle  altre. Voglio dire, ad es., lo studio dell’identità, dell’uguaglianza e delle altre simili, e delle loro opposte: chè, si può  dire, tutti i contrari si riducono-a questo principio dell’uno 1004 a     L'Uno si adopera in sensi più particolari, esposti in V.6 e X. 1: esprime,  soprattutto, l’indivisibilità, la misura, il principio del numero. Per principio e  causa, v, llb, V.162.    Ho accettata nel testo la giusta modificazione proposta dal Ross. Il greco  non ba l'articolo indeterminato, nò quello determinativo, ch’io ho aggiunti innanzi  all'« uomo  del secondo membro dei due incisi. Questi mirano a porre le due  uguaglianze, poi l'uguaglianza loro, in fine quella dei due termini uno e ente.    Questo periodetto (che il Christ mette tutto tra parentesi, e io ho così  interpretato, perchè mi par giusto intendere la seconda parte, «e similmente  dicasi, ecc., in rapporto a quel che precede, anzichè a quel che segue, come  intendono invece il Bonitz e il Ross) vuole semplicemente dire che il divenire  non muta la questione. Cfr. S. Tom, (552): « Et sicut elictum est quod ens et homo  non separantur in generatione et corruptione, similiter apparet de uno. Nam cum  generatur homo, generatur unus homo; et cum corrumpitur, similiter corrumpitur.  Unde manifestum est quod appositio in Istis ostendit idem; et per hoc quod additur  vel unum vel ens, non intelligitur addi alique natura supra hominem. Ex quo  manifeste apparet quod unum non est praeter ens: quia quaecumque uni et eidem  sunt eademi, sibi invicem sunt eadem . ,    Qui specie vale, evidentemente, nozioni, concetti: chè 1’ Uno e l'Ente non  sono generi e del molteplice (‘). Si vegga in proposito la nostra trattazione: La scelta dei contrari (?).   Ci sono, in conchiusione, tante parti della filosofia, quante  appunto sono le sostanze delle cose, onde, di necessità, ci  deve essere tra esse quella che vien prima e quella che vien  dopo. Poichè l’essere e l’uno si trovano sin da principio divisi in generi (*), e anche le scienze si partiscono in conseguenza. Il filosofo è come colui che diciamo matematico: la  matematica anch'essa ha parti, e delle scienze matematiche  ce n’è una che vien prima, un’altra viene in secondo luogo,  e ordinatamente le altre.   E poichè a una sola scienza appartiene lo studio degli  opposti, e all'uno si oppone il molteplice, apparterrà a una  sola scienza lo studio della negazione e della privazione, perchè in ambedue i rispetti si considera pur sempre quell’uuo  a cui la negazione e Ja privazione si riferiscono. O infatti  noi diciamo semplicemente che esso non ha luogo, ovvero  che non ha luogo in un certo genere di cose: quivi, dunque,     Non è, questa specificazione, nel testo. Cfr. S. Tom. (561-562): « Et ad hoc  principium, sc. unum, reducuntur omnia contraria fere [si può dire]. Et hoo addit  quia in quibusdam non est ita manifestum. Et tamen hoc esse necesse est: quia  cum in omnibus contrariis alterum habeat privationem inclusam, oportet fieri  reductionem nd privativa prima, inter quae praecipue est unwn. Et iterum multitudo, quae ex uno cansatur, causa est diversitatis differentiae et contrarietatis,  ut infra dicetur. L'uno è il sostrato in cui il molteplice è allo stato potenziale,  di privazione (positiva), non di mera negazione (astratta),    ‘’ExAZoyd t6v èvavilov sembra il titolo di un'opera di A. perduta (intorno  a essa, v. Fragmenta, ed. Rose, 118-124),    L'essere è un xovvév, astratto; iu realtà si presenta eù@vs, immediatamente,  diviso neì generi del reale, oggetti delle particolari scienze. Qui si tornerebbe  alla prima definizione della Metafisica, anzi al primo significato di essa: ci sono  i generi della sostanza materiale e immateriale, mobile e immobile, sensibile e  intelligibile, ecc. (cfr. XII. 1). Ma generi può esser inteso anche come equivalente  n specie, di dianzi, cloè a concetti sostanziali, 1 quali possono esser organizzati  logicamente, così come le parti della matematica, nell'esempio che segue, col  criterio della semplicità o complessità maggiore (noi diremmo: astrattezza è  concretezza graduale): aritmetica (11 numero), geometria (la figura), astronomin  (il movimento celeste), armonica (rapporti matematici di suoni), ecc. In questa  seconda veduta viene implicato il concetto di una gradualità logica dell'essere,  che nella prima (molto più frequente in A.) può mancare. Per A. tra i generi  non c'è passaggio. oltre a ciò che è nella negazione, viene aggiunta all’uno la  differenza ('): poichè la negazione di esso indica soltanto l’assenza, mentre nella privazione viene in chiaro anche una determinata natura come sostrato di cui si predica la privazione.   All’unità si oppone la molteplicità, così che anche gli opposti dei concetti citati dianzi, il diverso e il dissimile e il  disuguale, e quanti altri si dicono o secondo quelli, o in generale secondo il molteplice e l’uno, vanno imparati a conoscere  dalla scienza in discorso. Tra essi è anche la contrarietà,  poichè la contrarietà è una differenza, e la differenza è diversità (?). Di modo che, dicendosi l’uno in molti modi,  anche quelli si diranno in molti modi; tuttavia appartiene  a una sola scienza di conoscerli tutti. Questa molteplicità di  modi non richicde scienze diverse, le quali ci vogliono quando  questa molteplicità non sì lascia ridurre logicamente nè sotto  un unico rispetto nè sotto un’unica relazione. Ma, poichè  tutto sì può ridurre a un principio supremo, ad es., tutto  ciò di cui si predica l’unità a un’unità suprema, lo stesso si  deve ripetere anche dell’identico e del diverso e dei contrari.  Cosicchè, dopo di aver distinto in quanti modi ciascuno di  essi si dice, bisogna render ragione, per ciascuna categoria (*),  in qual rapporto esso stia con il modo principale e come  a esso venga attribuito: di alcuni, ad es., si troverà che esso     Alessandro, Schwegler, Bonitz intendono che si parli non dello privazione,  mn della negazione, e non riescono a dar un senso alla frase. Vedo che anche  il Ross propone di riferliria alla privazione; l'esitazione, che ancora lo trattiene,  ò per l’inciso «nll’uno , ch'egli vorrebbe soppresso: i mo pare che il passo citato  dianzi di S. Tom, lo chiarisca a sufficienza, In ogni modo, è nota In dottrina  aristotelica cho non-bianco è negazione soltanto (astratta), nero è privazione  (concreta, positiva): nell'una non sì deterinina altro, e potrebbe predicarsi, ad es.,  anche di un suono; nell'altra viene aggiunta «la differenza di colore, in riferimento nl sostrato ra cui nppartiene (diremmo, l'inchiostro). Così, non-veggente  e cieco, non-dotto e ignorante, ecc.    La diversità è, propriamente, una cifferenza di genere; la differenza  (propr. detta) è una diversità nello stesso genere (le specie), la quale, quando è  massima, è contrarietà: X. 8, 8; ivi, 4, 1-2.   (8) Categoria, qui, vale (come avverte il Bonit2, p. 180) predicato, nozione, ecc.:  ossia, per la nozione d'identità, diversità, ecc., si deve far lo stesso lavoro d'analisi  che per l’essero in generale: distinguere i diversi significati e determinare la  relazione tra i significati secondari o derivati e quello fondamentale originario. li comprende, di altri che li produce, di altri esso sarà predicato in altri modi siffatti.   È dunque palese quel che già si accennò nella esposizione  dei problemi: che spetta a un’unica scienza ragionare di tutte  queste determinazioni e della sostanza. Questa era una delle  questioni colà agitate. Ed è dovere del filosofo di esser in   1004  grado di speculare intorno 4 tutte queste cose. Che se tale  non è il compito del filosofo, chi sarà allora che indagherà  se Socrate e Socrate seduto sono lo stesso (*); ovvero, se  ogni contrario ha un solo contrario, e che cosa è il contrario, e in quanti modi si dice? E così di altre tali questioni.  Orbene, essendo queste per se stesse affezioni dell’uno in  quanto uno e dell’ente in quanto ente, e non in quanto numeri o linee o fuoco, è chiaro che quella scienza dovrà conoscere e che cosa sono e le loro proprietà. E coloro che intorno  a esse indagano, non sbagliano già perchè non sia da filosofi  l’indagarne, ma perchè par che non s’accorgano neppure  della sostanza; e sì che questa è prima di tutto il resto! Che  se il numero in quanto numero ha le sue proprie affezioni,  come parità e disparità, commensurabilità e uguaglianza, eccesso e difetto (qualità che appartengono ai numeri o per se  stessi considerati o in relazione gli uni con gli altri); e se  altre ne ha di proprie parimenti il solido, quel che è immobile e quel che è mobile, quel che ha peso e quello che ne  manca; bene ne avrà di sue proprie anche l’ente in quanto  ente, e queste costituiranno appunto ciò di cui sarà compito  del filosofo l’indagare il vero.   Ne è un indizio questo: dialettici e sofisti, volendo fare  la stessa figura del filosofo, sebbene la loro sapienza sia solo  apparente, ragionano di tutte le cose e dell’essere che è  comune a tutte, evidentemente perchè questo è l’oggetto  proprio della filosofia. Infatti, la dialettica e la sofistica s’aggirano intorno alla stessa sfera di oggetti della filosofia, ma     La sostanza per sè o congiunta con alcun accidente (ricorda discussioni  sofistiche, soprattutto dei Megarici, in proposito).  Ovvero, se riascun contrario, ece.:  per queste questioni questa differisce dall’una per il modo d’impiegare la facoltà  conoscitiva, dall’altra per il tenore di vita (‘) da quella prescelto. La dialettica si esercita saggiando intorno a quelle  cose di cui la filosofia si sforza di aver conoscenza; la s0fistica si contenta di un sapere apparente, non reale.   Si noti anche che una delle due serie di contrari indica  la privazione, e che entrambe si riducono all’essere e al non  essere, all’uno e al molteplice: ad es., la quiete all’uno, il  movimento al molteplice. Ora quasi tutti i filosofi son d’accordo che gli esseri e la loro sostanza risultano da contrari;  per lo meno, affermano che i principii loro sono contrari:  essi sono per alcuni il dispari e il pari, per altri il caldo e  il freddo, per altri il limite e l’illimitato, per altri l'amicizia  e la discordia (*). Queste e tutte le altre contrarietà si riducono, manifestamente, a quella dell'uno e del molteplice (ci  si conceda dimostrata questa riduzione), sì che sotto essi,  come sotto due generi, cadono tutti i principii: quelli dei  filosofi su detti vi si riducono completamente.   Non c’è dubbio, dunque, anche per queste ragioni, che  còmpito di una sola scienza è lo studio dell’essere in quanto  essere. Chè tutti gli esseri o son contrari o vengono da contrari, e principii dei contrari sono l’uno e il molteplice, e  questi appartengono a un’unica scienza, sia poi che si debbano prendere  in un senso solo, o in più sensi, come forse (*)  la realtà e la verità esige. Ciò non ostante, pur dicendosi  l’uno in molti sensi, questi verranno riferiti tutti a quello  che è prima di tutti; e per i contrari sì dica similmente.   E però, seppure l’essere o l’uno non è qualcosa d’universale e d’identico in tutte le cose, nè da esse separato     Non ispirata dall'amore della verità, ma dall'ambizione o dal guadagno, Per la differenza tra rpodittica, dialettica ed eristica, cfr. Anal. Pr., IL 1.  24 a, 22, 6 Top., I. 1. 1004, 27: l’apodittica pone una sola delle due parti della  contraddizione, invece la dialettica pone l'una e l'altra parte; ma l’una parte da  ciò ch'è primo e vero, l'altra si aggira tra opinioni soltanto, più o meno ben  fondate; l’eristica non cura la fondatezza di queste opinioni.    Pitagorici, Parmenide (?), Platonici, Empedocle.    forse, e poco dopo certo («come certo non è in realtà ): lowg (in entrambi  i casì), na: come certo non è in realtà,  tuttavia esse tutte si riguardano o in rapporto a ciò che hanno d’identico o per i signignificati derivati dall’essere. Non può dunque esser còmpito,  ad es., del geometra lo speculare che cosa è il contrario o  il perfetto o l’essere o l’uno o l’identico o il diverso, tranne  che in quanto se ne serve come d’ipotesi (').   Resta così chiarito che a un’unica scienza spetta la considerazione dell’ente in quanto ente, e di ciò che a esso appartiene in quanto ente, e che essa è la stessa che deve studiare  non soltanto le sostanze, ma anche tutto ciò che appartiene  a loro; e, oltre i concetti accennati dianzi, anche, che è quel  che precede e quel che segue, e il genere e la specie, e il  tutto e la parte, e tutto ciò che altre tali questioni riguarda.    CapirtoLo III.   Si deve ora accennare se la scienza di quelli che i matematici chiamano « assiomi  sia tutt’una con quella che tratta  della sostanza, oppure diversa. Evidentemente, anche l’indagine intorno ad essi appartiene a una scienza che è la stessa  di quella del filosofo, poichè essi valgono per tutti gli esseri,  e non sono una proprietà di qualche loro genere, ad esclusione degli altri. Tutti gli scienziati se ne servono, infatti,  perchè appartengono all’essere in quanto essere, e ciascun  genere di cose è essere; e se ne servono fin dove fà al loro  proposito, cioè fin dove si ends il genere di cose, intorno alate .    studio di essi sarà di pertinenza di chi fa o -del suo sapere l'essere in quanto essere. Perciò, appunto, nessuno di 2°       Se     Ipotesi: non in senso moderno (8° intende !), ima come assunzione di concetti  non dimostrati, che il geometra (e ogni scienziato, in fine) adopera senza discutere: «Il geometra fa uso (yefjta) di essi, non mostra (oò Bdeltac) che cosa sia  ciascuno di essi (Alesa, 264, 9). Il termine ritorna. coloro che-attendono-allo studio delle cose nella loro particolarità, s’azzarda di dir nulla di essi, se_gono. Veri o. Do.  Non ne dice “nulla il geometra nè l’aritmetico, e se alcuni  fisici (') si permisero di parlarne, essi fecero ciò con qualche  ragione, perchè credevano di esser i soli che facessero oggetto  d’investigazione la natura nella sua totalità e l’essere. Ma  c’è uno che sta ancora più su del fisico (chè la natura è uno  soltanto dei generi dell’essere), sì che anche lo studio di tali  assiomi spetta a chi medita in universale e intorno alla’ s0stanza prima. Certo, anche la Fisica è una sorta di sapienza,  ma non è la prima(?). E tutto ciò che alcuni(?) si sono  affaticati a dire della verità degli assiomi e in qual senso  bisogna ammetterli, prova appunto che non hanno studiato  gli Analitici. Chi si applica allo studio delle scienze deve  conoscerli già questi assiomi, e non chiederne la dimostrazione nel corso dello studio (‘).   Non e’ è dubbio, dunque, che anche la considerazione dei  principii sillogistici spetta al filosofo e a chi specula intorno  alla natura delle sostanze tutte. In ogni genere di cose, convien dire che possiede principii più saldi del suo oggetto  colui che ne ha maggior conoscenza: vien di conseguenza  che colui che ha la conoscenza degli enti in quanto enti,  deve possedere i principii più saldi di tutti. Questi è il filosofo.° E il principio più saldo di tutti è quello intorno al  quale è impossibile trovarsi in errore, poichè è necessario che  tale principio sia il più: noto di tutti (tutti errano, infatti,  intorno a quelle cose che non conoscono); e non deve aver        «Forse pensatori che svolsero elementi scettici di Eraclito, Empedocle,  Anassagora, Democrito  (Ro88).    Così anche in VI. 1. 1026 a, 24 e 30 ($ 7): la Metafisica è qriccogpia xq@rn,  la Fisica deutéga.    Sono i fisici ric. dianzi ? O, come sembra più probabile, Antistene? Cfr. qui  Cap. 4, 2; 5-2, ecc.; il nome è fatto in V. 29. 1024 b, 32 (S$ 2), e in VIII. 3. 1049b, 24  ($ 6). Ma mi par che non debba neppur escludersi un’interpolazione del passo.    La dimostrazione differisce dal sillogismo in quanto muove da principii  immediatamente certi e veri (dul punto di vista della scienza particolare): « Vero  © primo è quel che non per altro, ma per se stesso ha certezza: invero, dei principii scientifici non bisogna richieder la ragione, ma ognuno di essi deve esser  certo per Be stesso : Top., nulla d’ipotetico (‘): chè non può essere ipotetico quel principio senza del quale è impossibile che uno possa comprendere una qual si voglia delle cose che sono. La conoscenza  di esso è indispensabile a chiunque vuol conoscere una cosa  qualsiasi, ed è necessario che ne sia provvisto già chi viene  per imparare. Che dunque un principio tale'sia il più saldo  di tutti, non è chi non vegga. Quale poi esso sia, passiamo  a dirlo. i   È impossibile che la stessa cosa convenga e insieme non  convenga a una stessa cosa e per il medesimo rispetto (e  quante altre determinazioni potremmo aggiungere, si tengano  fatte a scanso delle difficoltà discorsive) (?). Questo è di tutti  i principii il più saldo: esso, infatti, ha i caratteri che dianzi  determinammo, poichè è impossibile che uno stesso pensi la  stessa cosa essere e non essere, secondo che alcuni credono  dicesse Eraclito (*). Vero è che non è necessario che tutto  quello che uno dice, lo pensi anche (‘). Ma non potendo i     Qui la parola ha un valore diverso dal precedente (per quanto resti in  comune il concetto di assunzione dogmatica, caratterizzata qui dalla particolarità dell'oggetto, piuttosto che dall'uso pratico), e agli effetti del pensiero può  esser inteso nel senso moderno che l’'oppone al «categorico  (a ciò che non presuppone nulla, perchè è incondizionatamente vero).    A scanso delle difficoltà discorsive, così come le consuete riserve più giù,  accennano ad argomentazioni che tendessero a metter in dubbio o ad impugnare  il principio così com'è formulato: per es., per il concetto del divenire, che avviene tra contrari, ecc. Più in là A. chiarisce, ad es., che i contrari sono insieme  in potenza, non in atto. i    A. attribuisce, dunque, l'opinione agli interpreti di E. più che ad I. stesso:  cfr. XI. 5, 7.    Qui il discorso è considerato verbalisticamente, non come pensiero.   Del celebre « principio di non contraddizione , chi ben consideri, s'avvedrà  che son date qui tre formule corrispondenti ai tre punti di vista dianzi accennati:  1) «non è possibile a uno di avere, o pensare, a un tempo, opinioni contrarie :  ch'è questione soggettiva; 2) «una stessa cosa non si può insieme affermare o  negare : ch'è questione logico-dialettica, della realtà veduta nell’atto del giudizio, che o pone il rapporto di convenienza del predicato al soggetto, o esclude  quel rapporto; 3) «i contrari non possono trovarsi insieme nella stessa cosa  (in  atto): ch'è questione dell'essere, i. e. dei principii reali, delle cose.   La giustificazione della prima formula è data dalla terza (non potendo è  contrari trovarsi insieme) e dalla seconda (e dacché un'opinione è contraria all'opinione contradittoria); quella della seconda, dalla terza (un'opinione è contraria all'opinione contradittoria) e dalla prima (poiché è impossibile che uno contrari trovarsi insieme nella stessa cosa (aggiungiamo anche  a questa proposizione le consuete riserve), e dacchè una opinione è contraria all'opinione contradittoria, è chiaro non  esser possibile che lo stesso uomo pensi che la stessa cosa  sia e insieme non sia: chi fosse in questo errore, avrebbe  a un tempo le opinioni contrarie. E però tutti i dimostranti  a questa riducono l’ultima opinione: essa, per la natura stessa  delle cose, è il principio anche di tutti gli altri assiomi.    CapitoLo IV (').    Pure, ci sono alcuni, come s’è accennato, i quali affermano  potersi dare che la stessa cosa sia e non sia, e poterla appunto pensare così. Fanno uso di questo modo di ragionare  molti anche dei fisici (°). Ma noi abbiamo stabilito che è im  stesso pensi la stessa cosa essere e non essere); quella della terza, al cap. 6 (8 12),  dalla seconda,la quale riacquista rispetto a essa l'indipendenza posta qui preliminarmente al s 6. Questa ha in A. il significato semplicemente di una condizione  necessaria per il conoscere e il sapere, ossia per il pensiero che pensa la realtà  itelle cose, perchà per l'intelligibilità, reale e logica, di queste è un presupposto  indispensabile la distinzione fra un concetto e l’altro, e in primo luogo fra concetti opposti, e, prima ancora, tra l'affermare e il negare. Il principio del mezzo,  o terzo, escluso integra, qui, il principio di non contraddizione, e lo sottrae,  anche per questa via, alla dipendenza immediata da quello di contrarietà, dove,  invece, quel mezzo esiste.   Quando, in seguito, fu aggiunto il principio d’identità, non soltanto si guadaguò in compiutezza formale, ma si vide meglio e il rapporto fra i tre principii  e il carattere puramente logico che ha questa parte della Metafisica aristotelica.  Naturalmente, nel formulismo scolastico si perdette, poi, gran parte dell'interesse  cho aveva la questione in A. per le conseguenze, a cui la negazione del principio  di non contraddizione portava rispetto al conoscere e al sapere, anzi rispetto alla  concezione e realtà dell'universo intero.   Comincia di qui la difesa del principio di non contraddizione contro coloro  che lo negano. Questi, sebbene la trattazione li mescoli di frequente, son tuttavia  abbastanza distinti in tre gruppi corrispondenti alla triplice formulazione del  principio: a) di coloro che l'impugnano per mera esercitazione eristica; bd) di coloro che, come i Protagorei più seri, si fondano su la natura propria della dora;  e) di coloro che, eraclitizzando, pongono l’unione degli opposti nella realtà stessa  delle cose.    Son nominati, nel capitolo seguente, Eraclito e i suoi seguaci, Empedocle,  Anassagora, Democrito. possibile essere e non essere insieme, e però dichiarammo  che quello è il più saldo di tutti i principii. Ed è effetto  d’ignoranza (‘) se alcuni reputano che anche quel principio  si debba dimostrare: chè no n altro che ignoranza è non sapere di quali cose bisogna chiedere la dimostrazione, e di  quali no. Che di tutto, assolutamente, ci sia dimostrazione,  è impossibile: si andrebbe all’infinito, sì che per tal modo  non ci sarebbe dimostrazione di nulla. Che se di alcune cose  non si deve esigere la dimostrazione, non riuscirà loro di  dire quale altro principio meglio di quello, a loro avviso, è tale.   Certo, anche di esso si può dimostrare, in via di confutazione (*), che è impossibile negarlo, solo che, chi lo mette  in dubbio, dica qualcosa. Che se non dicesse nulla, sarebbe  ridicolo andare in cerca di ragioni contro chi, in quanto non  ragiona (*), non ha ragioni di nulla. Un tale, in quanto tale,  sarebbe già simile a un tronco. Il dimostrare poi in via di  confutazione, io dico che differisce dal dimostrare vero e  proprio, perchè chi si accingesse a dimostrare lui quel principio mostrerebbe di presupporre ciò che deve dimostrare;  ma, qualora la colpa (‘) fosse di un altro, si tratterebbe di  una confutazione, e non di una dimostrazione.   In tutti i casi simili, la norma è di non pretendere che  l'avversario dica che una cosa è o non è (perchè egli obicetterebbe subito che si presuppone ciò che è da dimostrare);  ma che dia un significato a quel che dice, per sè e per gli  altri: e questo è pur necessario, se egli vuol dir qualcosa.  Altrimenti, costui non direbbe nulla, nè per suo proprio conto,  nè per gli altri. Che se, invece, lo concede, la dimostrazione  allora è possibile. Già, infatti, s'è per tal modo determinato  qualcosa. La colpa non è del dimostrante, sì di chi è costretto ad accettare la dimostrazione, perchè, mentre vuol     Cfr. dianzi (3, 3) per quelli che non hanno studiato gli Analitici.    La confutazione (é EXeyyxog) è una dimostrazione negativa o indiretta, che  si limita a portare all’assurdo la sentenza dell'avversario, o a purificarla dai fraintendimenti e sofismi ch'egli vi ha intrusi.   (9) Ho tentato di giustificare così le parole che il Christ vorrebbe espunte.    La colpa del circolo vizioso, che alcuno gli volesse addebitare. distruggere il ragionamento, è costretto a ragionare. Oltre  di che, chi ha fatta quella concessione, ha già concesso che  ci sia qualcosa che è vera senza dimostrazione, e che perciò  non ogni cosa è possibile che sia così e non così (').  Anzitutto è chiaro che questo alieno è vero: che le parole « essere e non-essere  hanno un significato ben determinato, per cui non ogni cosa è possibile che sia e non sia  così. Parimenti, se la parola « uomo  ha un significato solo:  sia esso quello di « animale bipede . Dicendo che ha un solo  significato, intendo che, se uomo vuol dir questo, ove ci  sia un essere che è uomo, esso sarà ciò che per uomo 8’è  definito. E non importa nulla se si obietta che di significati    ne ha parecchi, pur che vengano definiti; chè si può a ciascun 1006 b    concetto assegnare un nome diverso. Facciamo il caso che  si obiettasse che uomo non ha un solo, ma parecchi significati, e che la definizione animale-bipede vale per uno soltanto  di essi, laddove ce ne sono parecchi altri, ma in numero  determinato : ebbene, si dia un nome appropriato a ciascuno  di essi. Che se, per non far questo, si adducesse che i significati di quel nome sono infiniti, è manifesto che esso non  avrebbe più nessun senso, perchè, se non significa una cosa  determinata, è come se non significhi nulla; e quando le  parole non hanno senso, è tolta la possibilità di discorrere  con altri, anzi, propriamente, anche seco stesso: giacchè non  può neanche pensare chi non pensa una cosa determinata:  e se egli è in grado di pensare, dovrà anche dare un nome  unico alla cosa cui pensa.   Stabiliamo, quindi, che, come s'è detto da principio, ogni  parola significa qualcosa, anzi qualcosa di unico. Ora, esser-uomo non potrà significare lo stesso che non-esser-uomo,  se la parola uomo ha un significato non soltanto come predicato di un unico oggetto, ma in quanto significa essa stessa  un oggetto unico. Per noi, infatti, una parola ha un unico  significato, non in quanto si predica di un unico oggetto: C'è sospetto d’interpolazione nel testo: le ultime parole del periodetto,  ad es., son ripetute poche linee dopo. chè, a tal patto, musico e bianco e uomo significherebbero  la stessa cosa, e in conchiusione, designando con nomi diversi la stessa cosa, sarebbero tutti una cosa sola. Una stessa  cosa potrebbe essere e non essere soltanto nel caso di un  equivoco, qualora, ad es., quel che noi chiamiamo uomo,  altri lo chiamassero non-uomo. Quel che è in questione non  è già se lo stesso possa insieme essere e non essere uomo  di nome, ma di fatto. Se poi uomo significa lo stesso che  non-uomo ('), è chiaro che anche esser-uomo sarà lo stesso  che non-esser-uomo, per cui tra essere e non esser uomo,  essendo l’identica cosa, non ci sarebbe nessuna differenza.  Questo appunto vuol dire esser l’identica cosa; come chi  dicesse abito e vestito : chè il concetto è unico. Se fosse unico,  esser-uomo e non-esser-uomo significherebbero lo stesso. Ma  8’era mostrato che il loro significato è diverso. Se, dunque,  si deve poter dire qualcosa di vero, bisogna necessariamente  che, chi dice di uno che è uomo, intenda dire che è un animale bipede: questo era, infatti, ciò che la parola uomo significava. E se questo è necessario, non è possibile che quello  stesso non sia un animale bipede: chè questo appunto vuol  dire che una cosa è di necessi tà: esser impossibile che non  sia. Non si può dare, quindi, il caso che sia vero insieme  dire che uno stesso è uomo e non è uomo.   Il discorso vale anche per il non-esser-uomo. L’esser-uomo  esprime un’altra cosa dal non-esser-uomo, come del resto anche l’esser-bianco è diverso dall’esser-uomo: anzi, la opposizione tra i primi termini è anche maggiore, esprimendo  essi una cosa del tutto diversa. E se qualcuno ci volesse  sostenere che bianco e uomo significano una stessa e mede   Chiarisce il par. precedente, dove aminette che una cosa può essere e non  essere la stessa soltanto per un equivoco (il testo ha omonimia, usato qui, come  la sinonimia della 1. precedente, in senso alquanto diverso da quello stabilito in  nota a lib. I. 6, 5: qui si bada se uno intende con la stessa parola indicare concetti opposti, oppure lo stesso concetto con parole diverse). Se l'avversario vuol  dare alla parola «uomo  lo stesso senso di « non-uomo , deve anche identificare  il fatto e il concetto di «esser uomo  con quello opposto di « non-esser-uomo :  e venir meno, quindi, al patto (cfr. 11) di non dare a una stessa parola significati  diversi in confronto alle cose, sima ‘cosa, noi ripeteremo quel che abbiam detto prima: che  allora tutte le cose, e non soltanto gli opposti, fanno una  cosa sola ('). E se questo non può essere, pur che l’avversario risponda alle nostre domande, dovrà convenire in quel  che s’è detto.   Ma, se egli a una semplice interrogazione rispondesse aggiungendo anche delle negazioni, non risponderebbe propriamente a quel che si chiede (*). Niente impedisce che uno stesso  sia, oltre che uomo, bianco e innumerevoli altre cose; ma, interrogato se si può con verità dire che quello è un uomo o no,  egli deve rispondere soltanto ciò che la parola significa, e  non aggiungere che è anche bianco e grande; poichè, essendo  infiniti gli accidenti, è impossibile percorrerli tutti, si che o  li citi tutti o non ne citi nessuno. Se anche lo stesso è uomo  e diecimil’altre cose diverse da uomo, egli non deve rispondere, a chi gli domanda se uno è uomo, che è uomo, sì, ma  insieme anche non-uomo: a meno che non intenda di aggiungerli tutti gli accidenti: quante altre cose, cioè, l’uomo è o  non è. Che se si mettesse per questa via, non c’è più modo  di discutere,   In somma, quei che si mettono per questa via, vengono  a sopprimere la sostanza e la pura essenza di ogni cosa,  perchè son costretti ad affermare tutto esser accidentale, e  che non esiste un concetto tale, quale quello di uomo o di  animale. Se ci fosse, infatti, un concetto tale, quale quello  di uomo, esso non potrebbe essere quello di non-uomo, 0  quello di non esser uomo: e questi sono pure negazione di    PI     Se non si concede che nomo= bianco, tanto meno si può concedere che  momo = non-uomo. Se si concede, non soltanto gli opposti, ma tutto è la stessa  cosa, e non c'è modo di parlar più di nulla,    «Sarebbe assurdo che. interrogato sè Socrate è uomo, rispondesse che è  anche .non-cavallo e non-cane : Alessandro (284, 32). Ovvero, riferisse la negazione  agli accidenti: « est enìm v. g. albus, musicus, etc.; quae omnia in ambitu notionis non-homo continentur: Bonitz, p, 199. Ma anche le prime negazioni si  possono riguardare come accidentali, se sì bada, non alla sostanza propriamente,  ma alla definizione di uomo.  L’avversario deve rispondere con un sì, o con un  no (ovvero ripetendo semplicemente il nome, o premettendogli la negazione:  uomo, non-uomo).  quello ('). Non s’era d’intesa che esso aveva un solo significato, e che questo era la sostanza della cosa? Ma esprimere  la sostanza di una cosa vuol dire che questa, e non altra, è la  sua essenza. E se c’è qualcosa che ha l’essenza di uomo,  essa non potrà coincidere con quella che non ha tale essenza,  o con quella che ha l’essenza di non-uomo.   Costoro son costretti a dire che tale concetto non è concetto di nulla, ma che tutto è accidentale (*). Poichè in  questo si distingue la sostanza dall’accidente: l’esser bianco  è accidentale per l’uomo, perchè egli è, sì, bianco, ma non  è bianco per l’essenza. Ma se tutto si affermasse in via accidentale, non ci sarebbe più niente di primo a far da soggetto:  eppure l’accidente esprime sempre la categoria di un qualche  sostrato. Si andrebbe, necessariamente, all'infinito: il che è  impossibile. Anche perchè ogni connessione è soltanto tra  due termini (*). L’accidente, infatti, non può essere accidente  di un accidente, salvo in quanto entrambi sono accidenti di  uno stesso soggetto. Voglio dire, per es.: il bianco è musico,  e il musico è bianco, in quanto entrambi sono accidenti di  uomo. Ma Socrate non è musico a questa maniera, come  entrambi i termini fossero accidenti di un terzo. Questi accidenti, dunque, sono predicati in due maniere diverse. Quelli  che si predicano così, come il bianco di Socrate, non possono  formare una serie che proceda all’infinito: ad es., di Socrate,  che è bianco, predicare un qualche altro accidente, e così  via via: chè, dall'unione di questi accidenti, non verrebbe  fuori un’unità ('). E neppure del bianco si può dire che ci     Il che non avverrebbe se, come l’avversario sostiene, la negazione fosse  vera quanto l’affermazione.  Sul valore della negazione, talvolta riguardata nella  c. d. copula, tal’altra nel predicato del giudizio, e sul rapporto tra la forma  affermativa e quella negativa in A., v. G. Catocero. în Giorn. critico della fil.  ital., VII (1926), fasc. 5.    Se non è concetto (esseuza) di nulla, ma si può attribuire, insieme al  contrario, a qualcosa (x è uomo € non-uomo, nello stesso modo che l’uomo può  esser bianco e non bianco), sarà, dunque, non sostanza, ma accidente.    Il soggetto e il predicato.    Dall’unione degli accidenti non vien fuori l'unità del reale, se questa non  è raggiunta già con la posizione del primo accidente, col quale la sostanza forma sia un‘altro accidente da predicare, per es., musico, perchè  questo non è un accidente di quello più che quello di questo.   Resti con ciò determinato che di accidentalità si può parlare in due maniere: o come in quest’ultimo esempio, o come  musico si predica di Socrate, nel qual caso l’accidente non  è predicato accidentalmente di un altro accidente, come era  l’altro caso. In conchiusione, non tutto potrà essere affermato  come accidente, e deve quindi esserci anche qualcosa che si  riguardi come sostanza. Se così è, riman chiarito che è impossibile predicarne insieme concetti contradittorii.   Inoltre, se i contradittorii si potessero predicare sempre  insieme, con verità, dello stesso,  chi non vede che tutte  le cose diventerebbero una sola? Sarebbe, infatti, lo stesso  e una trireme e un muro e un uomo, una volta che una cosa  si può tanto affermare che negare di ogni cosa. Che è una  conseguenza inevitabile per coloro che ripetono il ragionamento di Protagora: poichè, se ad alcuno pare che l’uomo  non sia una trireme, è chiaro che non è una trireme; ma,  se la contradittoria è vera, ne consegue che egli è anche una  trireme. Si va alla sentenza di Anassagora: tutte le cose sono  tutto insieme. Per cui, niente si può predicare con verità di  nulla. Si ha l'impressione che essi parlino dell’indeterminato;  e pur credendo di parlare dell’essere, parlano, invece, del  non essere: chè l’indeterminato è l’essere in potenza ('), non  quello in atto. E in vero, costoro si trovano nella necessità di  dire che di ogni cosa si può affermare o negare ogni altra. Sarebbe infatti assurdo che, mentre a ogni cosa deve convenire  la sua negazione, non le dovesse poi convenire quella di  un’altra che già non conviene a essa. Voglio dire che, se è  vero dir dell’uomo che è anche non-uomo, è chiaro che deve    «un che determinato . In altri termini: non dall’enumerazione degli accidenti,  a volta a volta incorporati al soggetto, si ha da attendere l'unità di esso.   L'altro modo di predicazione è quello in cui la serie non gira attorno al soggetto, ma fa une catena da accidente ad accidente.    L'indeterminato è l’essere in potenza, nel quale i contrari sono insieme;    non quello in atto, nel quale la potenza (ch’è un non-essere-ancora) vien determinata. esser vero anche dire tanto che è trireme, quanto che è nontrireme. Intanto, se l’affermativa (che è trireme) fosse concessa, di necessità sarebbe concessa anche la negativa. Ma  poniamo che l’affermativa non sia concessa; tuttavia Ja negativa di questa gli dovrebbe convenire meglio di quella sua.  Ora, dacchè quest’ultima gli conviene, gli converrà anche  quella di trireme; e convenendogli questa, gli conviene anche  l’affermativa di essa (').   A queste conseguenze arrivano coloro che sostengono tale  dottrina. E a quest’altra, anche: che nulla è necessario o  affermare o negare. Infatti, se è vero che l’uomo è uomo e  non-uomo, è chiaro che sarà vero anche che egli non è nè  uomo nè non-uomo: poichè alla doppia affermativa corrisponde  la doppia negativa, e se là delle due affermazioni se ne fa  una sola, una sola sarà anche questa opposta.   Proseguiamo: o, quel ch’essi dicono, vale per tutte le cose,  o no: nel primo caso, ogni cosa bianca è anche non bianca,  quel che è anche non è, e similmente per le altre affermazioni  e negazioni; nel secondo caso, se esso non vale per tutte,  ma per alcune sì e per altre no, per queste ultime anch'essi  son d’accordo che il loro principio non vale. Se, invece,  vale per tutte, da capo: o di tutte quelle di cui si afferma  qualcosa, questo si può anche negare, e viceversa; ovvero,  di quelle di cui si afferma qualcosa, questo si può unche  negare, ma non di tutte quelle di cui si nega qualcosa, questo si può anche affermare. In quest’ultimo caso, si avrebbe  un punto fermo, un non-essere, e questa sarebbe già una     Accogliendo (1007 b, 33) la lezione del cod. fiorentino Ab (come il Ross  propone), e riordinando un po'il testo, il ragionamento risulta così: A. sostiene  che se, poniamo, di Socrate si può predicare insieme uomo e non-uomo, allora  di lui si può affermare o negare ogni altra cosa indifferentemente: per es., ch'è  trireme e non-trireme, Se, dunque, l'avversario concedesse ch'è trireme, dovrebbe  concedere (secondo il suo principio onde si può affermare anche la contradittoria)  ch’è anche non-trireme. Ma poniamo, dice A., che «l'affermativa non sia concessa. Egli dovrà, almeno, concedere la negativa, perchè «sarebbe assurdo che,  mentre a uomo conviene la negazione di uomo, non gli convenisse quella di  trireme: anzi, gli deve convenire anche meglio, perchò è la negazione di qualcosa che già si pone non convenire a esso . Ma, concessa questa, deve poi concedere anche l’affermativa: che è trireme. salda opinione; ma, se il non-essere è qualcosa di saldo e  conosciuto, tanto più sarà tale l’affermazione (‘) opposta. Ma  poniamo, invece, che di tutte quelle di cui si nega qualcosa,  questo si possa anche affermare: allora, di necessità, o è nel  vero chi tiene separate le due parti, e dice, ad es., che una  cosa è bianca, e poi che non è bianca; ovveroè nel falso.  Se per essere nel vero le deve tener unite, costui disdice ciò  che dice, ed è come non esistesse niente. O come poi parlerebbe e camminerebbe ciò che neppure esiste? (?). E tutte  le cose sarebbero una sola, come anche prima s’è detto, e  sarebbe lo stesso e uomo e Dio e trireme e i loro contradittorii. Chè, se di ciascuna cosa si può ripeter questo, l’una  non differirà dall’altra: se differisse, essa avrebbe già qualcosa di proprio, e questa sarebbe la sua verità. Alla stessa  conchiusione si perviene dicendo che è nel vero chi tiene  separate le parti contradittorie (9). Ne deriva, anzi, anche  questo: che tutti dicono vero e tutti dicono falso, e però concede che dice falso anche lui.   Evidentemente, con costui non si può discuter di nulla,  perchè non dice nulla: non dice mai che è così, o non così,  ma sempre che è così e non così (‘); e poi, negando ambedue  queste cose, che non è nè così nè non così. Se parlasse altrimenti, ci sarebbe già qualcosa di determinato. Che se, poi,  ci si facesse concedere che, quando l’affermativa è vera, la  negazione è falsa, e che, quando è vera questa, l’altra è falsa,  non sarebbe più vero che si può nello stesso tempo affermare  e negare la stessa cosa. Ma, senza dubbio, tutti direbbero  che questa è una petizione di principio.   In fine, diremo che sono in errore quelli che pensano che  una cosa sta, oppure non sta, in un certo modo, e che invece  è nel vero chi le pensa tutte due quelle opinioni? Che se  costui non dice neppure di esser nel vero, o che cosa vor   «Per mezzo dell’atfermazione la negazione è più conoscibile; chè l'affermazione è prima, come l’essere è prima del non essere : Anal. Post., I. 25. 86 b, 34.    Qui, l’uomo di cui si parla (e colui stesso che parla).   (9) Come se fossero due persone diverse a sostenerle.    Similmente in Teeteto. rebbe dire la sua asserzione che la natura delle cose è proprio così fatta? ('). E se non pretende di dir giusto, ma di  dire più giusto di chi la pensa in quell’altro modo, ecco che  le cose starebbero già in un certo modo, e questa sarebbe la  verità, e non già vero e falso insieme. E se ribatte che tutti  sono nel falso e nel vero ugualmente, a costui non è più lecito  aprir bocca a parlare: perchè dice nello stesso tempo Sì e no.  E se non ha nessuna opinione, ma crede e non crede del  pari, quale differenza c’è tra lui e le piante?   Da ciò si vede benissimo che nessuno, non solo gli altri,  ma neppure chi fa questi discorsi, è persuaso che così stiano  le cose. O perchè mai va egli a Megara, e non se ne sta tranquillo a casa pensando di camminare? (?). E perchè un bel  mattino non va diritto a gettarsi in un pozzo o, se gli càpita, giù da un precipizio, anzi si vede bene che se ne guarda,  proprio come se pensasse che non sia tanto buono quanto  non buono il caderci? È dunque chiaro che crede l’una  cosa migliore e l’altra peggiore. Ma se è così, deve convenire anche che una cosa è uomo e un’altra non-uomo, una  cosa è il dolce e un’altra il non-dolce. Egli non mette tutto alla  pari quando pensa ad avere qualcosa che cerca; ma, avendo  pensato che per lui è meglio ber dell’acqua o vedere qualcuno, va in cerca proprio di quello. Eppure doveva mettere  tutto alla pari, se uomo e non-uomo fosse la stessa cosa. Invece, come abbiamo detto, non c’è nessuno che non si vegga  guardarsi da alcune cose e da altre no. Non pare, dunque,     Intendo: Chi dice che la verità è nella contraddizione, riconosca almeno  che c'è questo che diciamo la verità. O non vorrà neppur riconoscer questo? Ma,  allora, che cosa intende quando asserisce che la natura delle cose è così fatta,  che in essa (secondo la sentenza di Eraclito) i contrari son sempre uniti? ecc.   Tralasciando il pi della 1. 9, come consiglia il Ross, il senso verrebbe trasformato così: Se egli ritiene di esser nel vero, che vuol dire che la natura è così  fatta? In essa non si dovrebbe parlare di «essere, nè di esser essa l’una cosa  piuttosto che l’altra (chè tutto è e non è, ed ogni cosa è ogni altra).    Non è lo stesso per lut camminare e non camminare. Ovvero, se col  Ross si aggiunge il deiv (da Ab e Aless.): non è lo stesso per lui dover, 0 no,  andar a Megara. Quest'argomentazione, presa dal meglio e dal peggio, è già  in Teeteto. che ci possa esser dubbio: tutti credono che le cose stanno  assolutamente in un modo, se non tutte, almeno quelle che  riguardano il meglio e il peggio. E se lo credono(‘), non  per scienza, ma per opinione, tanto più dovrebbero esser  solleciti della verità, così come deve curar la salute più chi  è malato del sano: e infatti, chi opina, al paragone di chi  sa, è in una disposizione non sana in rispetto alla verità.   Finalmente, sia pure che tutte le cose stiano così e anche  non così. Ma in natura c’è il più e il meno in ogni cosa:  noi non diremmo che il tre è pari nella stessa misura del  due, e credere che il quattro valga cinque non è un errore  uguale a quello di chi crede che valga mille. Ora, se l’errore  non è uguale, manifestamente uno dei due erra di meno, e  però è nel vero più dell’altro. Ma se è più nel vero, al vero  è più vicino, e ci sarà quindi una verità a cui è più vicino  chi è più nel vero. E anche se tale verità non c’è,  ma,  insomma, c'è almeno qualcosa che ha maggiore o minore  fondamento e certezza, e questo basta a liberarci (?) da un  discorso che non si lascia ridurre in termini di pensiero e  impedisce di determinar nulla. Il ragionamento di Protagora deriva anch’esso da questa  opinione, e però la sorte dell'uno è necessariamente legata  a quella dell’altra. Poichè, se tutto quello che si crede e appare, è vero, ogni cosa di necessità è vera e falsa insieme.  Di fatto, gli uomini hanno, per lo più, opinioni contrarie le  une alle altre, e tuttavia stimano che sia in errore chi non  la pensa come loro: per cui è necessario che la stessa cosa  sia e non sia. Viceversa, se si concede questo, vien di con   Se lo credono, il meglio e il peggio.    Come nella precedente invocazione della testimonianza dell'azione, così  nelle ultime parole si può notare un senso della verità come di un bisogno che  il soggetto ha di essa per se stesso. seguenza che tutte le opinioni sono vere. Poichè le opinioni  di chi è in errore e quelle di chi è nel vero, sono tra loro  opposte; ma se tale è l'essere delle cose, tutti saranno nel  vero. È chiaro, dunque, che i due ragionamenti svolgono.  lo stesso pensiero (‘).   Tuttavia, a combatterli, non si ha da prendere la stessa  strada per tutti: con alcuni ci vuole la; persuasione, con altri  la sopraffazione (*). Non è difficile curare l’ignoranza di coloro che s’indussero a credere così in sèguito a dubbi e difficoltà, giacchè per essi si ha che fare, non con parole, ma  col pensiero. Invece, a curar quelli che giuocano di parole  non c’è altra via che confutarne il discorso letteralmente, in  quanto è di parole espresse con suoni.   Coloro che in sèguito a dubbi e difficoltà vennero nell’opinione che le asserzioni contradittorie e i contrari possono  stare insieme, mossero dalla osservazione delle cose sensibili,  dove una stessa causa produce effetti contrari. Ora, se quello  che non è non può generarsi, il fatto preesistente era già ambedue i contrari insieme. Anche Anassagora dice similmente  che tutto si trova mescolato in tutto, e Democrito, anche  lui, insegna che il vuoto e il pieno si trovano in ogni particella alla pari, sebbene l’uno di essi sia un ente, e l’altro  un non-ente.   A coloro, dunque, che fondano su queste ragioni la loro  sentenza, noi diremo che in un senso parlano giusto, ma in  un altro ignorano come stanno le cose. In realtà, dicendosi  l'essere in due sensi, in uno di questi qualcosa può generarsi  dal non-ente, ma rell’altro non può (*); ed è possibile che     Partendo, l'uno, dall'oggetto; l'altro, dal soggetto (dall’opinione).    Sopraffazione: col ragionamento, Cfr. Top., I. 12. 105 a, 16: « L’induzione  è più persuasiva...  ma il sillogismo stringe di più, ed ha maggior forza contro  quei che contraddicono ,    Poichè l'essere si dice o in atto o in potenza, così c'è un modo di essere  (in potenza) ch'è anche un modo di non essere (in atto). (Il puro non-essere non  ha realtà: il non essere è un momento di sviluppo dell'essere, che, come pura  essenza, è già, nel concetto, almeno, se non nella realtà temporale). E come per  la sostanza, così per le sue determinazioni secondarie: «sic, enim, tepidum est  in potentia calidum et frigidum, neutrum tamen actu: S. Tom. ($ 667). (Qui, una stessa cosa si trovi ad essere e a non essere insieme,  ma non per lo stesso rispetto: poichè in potenza i contrari  possono essere insieme, ma non in atto.   Inoltre, li inviteremo a persuadersi che c’è anche un’altra sostanza degli esseri, la quale non è per nulla affatto s0ggetta a movimento, nè a nascita o corruzione.   Dalle sensazioni muove parimenti l’opinione di alcuni che  la verità sia di ciò che appare ('). Essi stimano che a giudicare del vero non convenga rimettersene alla maggioranza  o alla minoranza. La stessa cosa, essi dicono, al gusto di  aleuni pare dolce, ad altri amara: sì che, se tutti ammalassero o impazzissero, e soltanto due o tre rimanessero sani  e in cervello, costoro sembrerebbero malati e pazzi, e non gli  altri. Inoltre, a molti altri animali le stesse cose appaiono al  contrario che a noi; anzi a ciascuno di noi singolarmente,  stando alla sensazione, le cose non sembrano sempre le stesse.  Quali, quindi, di esse siano vere o false, ci è nascosto: queste  non hanno maggior diritto di quelle alla verità, ma uguale.  Perciò, appunto, Democrito afferma che o non c’è nulla di  vero, o, almeno, ci è nascosto. In somma, se essi insegnano  che quel che appare al senso è necessariamente vero, ciò  avviene perchè ritengono per ammesso che l’intelligenza si  riduca alla sensazione, e questa a un’alterazione (?). Se ed  Empedocle e Democrito e, in breve, ciascuno degli altri si  trovarono prigionieri di tali dottrine, ciò non avvenne per  altro motivo. Dice, infatti, Empedocle che chi cambia abito,  cambia intelligenza:    Quali le sue condizioni, tale cresce l’uomo per senno;    veramente, si tratta non di un non-essere-ancora, in opposizione a un essere-giù;  ma di un modo dell’essere che è già, del sostrato, che può ricevere ambedue le  determinazioni contrarie, ed è, quindi, per se stesso potenza di contrari),    tà parvépeva: non si dia un senso troppo soggettivo all'espressione (non  esatto il Bonitz, p. 201: «quidquid cuique videatur ).    Alterazione (mutamento qualitativo), che subisce l'organo del senso da  parte dell'oggetto.    1009 b    1010 a    122 METAFISICA    e altrove:    Tanto essi si mutano, e tanto si rinnovano  sempre anche i loro pensieri.    E Parmenide si esprime nello stesso modo,    Quale in ciascun uomo è la temperie delle membra flessibili,  tale è la sua mente. Essa è appunto   quel che pensa negli uomini, in tutti e in ognuno:   la natura de’ loro organi: quel che in essa prevale è il pensiero .    E si suole ricordare anche un detto di Anassagora ad alcuni suoi scolari: che le cose sarebbero per essi tali, quali  piacesse loro di crederle (?). Dicono che anche Omero sembra  di questa opinione, perchè imaginò che Ettore, quando per  la ferita uscì di sè, giacesse «altro pensando: quasi che  anche coloro che sono fuori di senno pensassero, sebbene non  alle stesse cose: è chiaro, dunque, dicono, che se pensiero  c’è in un caso e nell’altro, anche le cose sono insieme così  e non così.   Il pericolo maggiore è nelle conseguenze: se coloro che  hanno guardato più a fondo quel che può essere il vero  (e tali sono quelli che più di tutti lo cercano e lo amano),  proprio essi, hanno opinioni di questo genere, e in questo  modo si esprimono su la verità,  con quale animo i principianti sì metteranno a filosofare? Il cercare la verità sarebbe un correr dietro alle nuvole!   A tale opinione essi arrivarono perchè cercavano bensì  la verità nella realtà, ma reali reputavano soltanto le cose  sensibili: ora, in queste ha gran parte l’indeterminato, e anche l’essere, ma nel significato che dicemmo (*). Perciò il loro     Cfr. Diela. Sembra ad alcuni che A. forzi  troppo il pensiero di costoro col farne dei sensisti. Ma è anche vero ch'essi non  distinguono il sensibile dall’intelligibile, 0, se distinguono, fanno del pensiero  quasi un senso superiore: come dimostrano i versi citati.    Buone o cattive, a seconda della disposizione d'animo. Cioè, potenziale. Per Epicarmo, non si conosce a quale giudizio di lui  contro Senofane, A. qui alluda. discorso ha somiglianza col vero, ma non è vero. E c’è maggior proprietà a parlar di loro così, che non come Epicarmo  contro Senofane.   Un altro motivo della loro opinione era questo: vedendo  che tutto in questo mondo si muove, e ritenendo che del mutevole non ci sia nulla da dire di vero, conchiusero che neppure  è possibile parlare con verità di un mondo che sempre e in  tutti i modi si muta. Da questa constatazione germogliò l’opinione più estrema in questo argomento, quella di coloro che  professano di « eraclitizzare , quale aveva anche Cratilo:  questi finì col credere che non si debba parlare, e moveva  il dito solamente, e biasimava Eraclito per aver detto che  non è possibile immergersi due volte nello stesso fiume: £  suo avviso, neppure una volta è possibile. Ma noi anche contro questo ragionamento risponderemo che certamente quel  che muta, mentre muta, dà loro qualche ragionevole motivo  di credere al suo non essere. Eppure c’è da discuterne; poichè, l’oggetto che perde una proprietà, conserva ancora qualcosa di ciò che perde, ed è già necessariamente qualcosa di  ciò che diviene. E in generale: se qualcosa si corrompe, deve  continuare a essere qualcosa; e se qualcosa si genera, di  necessità dev’esserci ciò da cui si genera, e che lo genera;  e questo processo non può andare all’infinito. E anche lasciando questo da parte, noi diciamo che non è la stessa cosa  il mutare nella quantità e il mutare nella qualità: per la  quantità, sia pure che non ci sia al mondo nulla di permanente; ma noi conosciamo tutte le cose per la forma. À quelli che la pensano a quel modo, noi non possiamo  fare a meno di rimproverare che, limitandosi a un piccolo  numero di osservazioni, pur nella cerchia stessa delle cose  sensibili, i lor pronunziati estesero all'universo intero. Se la Cratilo, ricordato già in I. 6, 1 come maestro di Platone. Il passaggio è, dunque, sempre dall’essere all'essere: poichè per A. è  l'essere che spiega il divenire, non viceversa. La pura essenza non diviene, e  questa è forma che spiega il mutare delle cose (qualitativamente: qualità, qui,  è il punto di viste formale, della sostanza e delle sue determinazioni conoscitive,  opposto a quello meramente materiale della quantità). regione del sensibile, che ci circonda, è in perpetuo nascere  e perire, tale, tuttavia, è essa soltanto, e rispetto al tutto è  una piccola parte, che conta, si può dire, niente: sì che sarebbe molto più giusto in grazia del tutto assolvere questa  parte dalle sue mancanze, piuttosto che a cagion di questa  condannare il tutto. Inoltre, potremo evidentemente indirizzare anche a costoro le stesse considerazioni fatte addietro.  Bisogna mostrare anche a costoro, € persuaderli, che esiste  una natura immobile. In fine, costoro che dicono ogni  cosa essere e non essere insieme, se fossero conseguenti, dovrebbero affermare che tutto è quieto, piuttosto che in movimento: chè, se tutto è in tutto, non c’è più niente in cui  qualcosa possa mutarsi. I cieli sono incorruttibili, e al di sopra di essi Dio e le Intelligenze  motrici son fuori di ogni specie di movimento. His igitur rationibus A. removisse sibi videtur eas causas, quae quosdam ad recusandum principium contradietionis impellerent: quae quam non sufficiant in prompt u est intelligere. Ac  primo quidem argumento quod mutationem ad essentiam redigere studet, facile  est videre eum, dissecta in partes quasdam mutatione, ea spectare, in quibus vel  coepta nondum sit vel iam absoluta inutatio, nec vero ipsum illud, quod mutatur,  quatenus mutatur. Altero argumento, quod speciem ac formam rerum ac per eam  certum cognitionis fundamentum manere contendit, confidendum quidem est in  nullo mutationis genere ex Aristotelis decretis ipsam formam vel fieri vel mutari; sed ita, non sublata est, verum translata in alium locum dubitatio de mutatione. Reliquie argumentis quod in angustiores fines ‘mutationis ambitum studet  includere, nihil videtur ad refutandos adversarios efficere: sive, enim, latius patet  mutatio sive minus late, quatenus invenitur, eatenus principium contradictionis  tamquam universale principium tollit: propositio enim universalis unius propositionis singularis instantia tollitur. His scopulis hoc loco, ubi mutationis mentio  necessaria non erat, propterea illidit A., quiaprinelpium contradictionis non de  notionibus, sed de rebus valere posuit : Bonlitz, pp. 204-5.   Ma lo spirito dell’argomentazione aristotelica non è colto, così. Qui A. difende  il suo principio contro l’indebita ipostatizzazione della negazione assoluta, propria del pensiero discorsivo, insieme e al pari dell'affermazione, nella realtà e  intelligibilità delle cose, le quali verrebbero, così, negate non soltanto nel loro  essere determinato, ma anche nel loro divenire: come il par. seguente (18) mostra  chiaramente. (Di vero, tuttavia, della critica, resta questo: che quella realtà e  intelligibilità è affermata, nel suo essere e divenire, con procedimento analitico,  prima o dopo del suo attuarsi, non nel suo attuarsi, in cui l’opposizione passa  dalla forma astratta a quella concreta dell'essere che diviene in quanto assorbe  in sè la propria negazione. Quel procedimento, quindi, porta A. a vedere lo sviluppo dell'essere come già attuato e irrigidito nelle forme dell'essere universale,  dal mondo sensibile soggetto a corruzione a quello pur sensibile ma incorruttibile,  e da questo a quello sottratto a ogni forma del divenire). In quanto, poi, alla verità di ciò che appare, che, cioè, 1010 b  non tutto ciò che appare è vero, noi osserviamo anzitutto  che l’atto del sentire non è per nulla falso quando è dell’oggetto suo proprio, ma la fantasia non è la stessa cosa della   20 sensazione ('). C'è, quindi, proprio da stupire al sentirli discutere se le grandezze e i colori siano realmente quali appaiono da lontano o quali appaiono da vicino, e se le cose  siano quali appaiono ai malati o quali appaiono ai sani, e  se siano più o meno pesanti secondo che uno è robusto o è  fiacco, e se la verità sia di quelli che dormono o di quei che  son desti. Che in realtà non abbiano questi dubbi, è palese:  nessuno, per lo meno, se, di notte, imagina di essere in  Atene, mentre è in Libia, s'incammina verso l’Odeone. Ag 21 giungi, quel che già Platone osservava, che intorno all’avvenire, se, ad es., un malato guarirà o no, non è davvero  ugualmente autorevole l'opinione di un medico e quella di un     «Quod Protagorei contendunt verum esse quod cuique de qualibet re  videatur, hoc placitum in fines longe artiores est restringendum: illud, enim,  vere contendi licet sensum quemlibet non falli in percipiendis rebus ipsi proprie  subiectis; at phantasia, quam Protagorei, quum tò parvépevov dicunt verum esse,  veritatia faciunt indicem ac testem, differt a sensu : Bonitz, p. 205.   Il Ross suggerisce un’altra interpretazione, onde il passo verrebbe trasformato così: Quanto alla verità di ciò che appare, noi osserviamo che non tutto  ciò che appare è vero: anzitutto, se anche, come essi dicono, la sensazione non  è falsa, quando però sia di un oggetto appropriato a un senso, ecc.  Migliore,  sembra, l’interpretazione del B., che non rischia dl prestare all'avversario la  tlottrina di A. intorno aî sensibili propri. Per questa, cfr. De An., II. 6. 418 a, 8:  « Sì dice sensibile in tre sensi: in due dei quali si parla del sentire per sè,  nell’altro per accidente. Dei due primi modi di sentire, uno è proprio di ciascun  senso, l’altro è comune a tutti. Dico proprio ciò che non può esser sentito per  altro senso, è intorno al quale non è possibile cadere in errore: così il colore  rispetto alla vista, e il suono rispetto all’udito, il sapore rispetto al gusto. Ciascun senso discerne intorno a essi, e non può ingannarsi in quanto colori 0 suoni,  ma solo intorno alla cosa colorata o al luogo, ecc. . In questo, ch’ è piuttosto un  inferire che un percepire (e così se un senso pretende di giudicare dell'oggetto  di un altro senso), il senso può ingannare.  La fantasia era stata da Platone  trattata come la stessa cosa della sensazione (Teeteto, 152 c). A. la distingue dal  senso e dal pensiero discorsivo, benchè non sorga senza la sensazione, e senza  di essa non ci sia l’opinione. Essa tramezza, dunque, tra l’una e l’altra: appartiene alla parte sensibile dell'anima, ma è attiva e indipendente dall'oggetto  attuale come il pensiero. Cfr. De An., ignorante ('). E anche per le sensazioni, non è ugualmente  autorevole la sensazione di un oggetto che è proprio di un  senso e quella di un oggetto estraneo, la sensazione dell’oggetto attuale e quella di un oggetto vicino (*). Invece: del  colore giudica la vista, non il gusto; del sapore, il gusto,  non la vista. E ogni sensazione, nel tempo stesso e intorno  allo stesso oggetto, non dice mai che una cosa sta così e non  così ; e anche in tempi diversi, la questione non cade  propriamente su la qualità, ma su l’oggetto a cui essa conviene: dico, ad es., che lo stesso vino può bene parere una  volta dolce e un’altra no, o perchè s’è mutato esso, o perchè  s’è mutato il nostro organo; ma la qualità del dolce, quale  essa è, quando è, non muta mai: il senso ne dice sempre  il vero, e quel che dovrà esser dolce, sarà sempre dolce in  questo modo (‘). A dir vero, proprio questo vogliono distruggere i sostenitori di tutte queste dottrine, e in quel modo che  negano la realtà di ogni sostanza, così per essi non c’è nulla  al mondo di necessario: poichè necessario è ciò che non può  essere ora in un modo, ora in un altro, sì che se qualcosa  esiste di necessità, non potrà essere così e non così (°).   E in somma, se solo ciò ch’è sensibile può esistere, qualora non ci fossero animali, non esisterebbe nulla: chè non  ci sarebbe sensazione. Ebbene, dire che nè le qualità sensibili,     Per questi due paragrafi, cfr. Teeteto, 157 e 8.; 1710, 178c s, Ma giusto, per  queste e altre concordanze, lo Schwegler (p. 180): A. attinge direttamente dalla  protagorea ’AAntea, indipendentemente dai giudizi di Platone.    Intenderei così le parole invano, mi sembra, tormentate anche da altri:  toù rimolov xal toù ati; (Aless.: la sensazione di un oggetto vicino è più sicura  che quella di un oggetto distante; Bullinger e Goebel, cit. in Ross: la sensazione  dell'oggetto proprio è più sicura che quella di un oggetto di un senso affine; ecc.).    La sensazione (l’atto del percepire) è già conoscenza per A., come si notò  a I, 1, 4, e però soggetta alla stessa legge di non-contraddizione del pensiero.    L'attributo o qualità, per sè, non muta e non passa nel suo contrario: il  dolce (la dolcezza) non diventa amaro: quel che muta è il sostrato, che può passare da un contrario all’altro (o agli intermedi). Nota, anche qui, l’irrigidimento  del reale in forme definitorie (come in Platone).   (5) La ragione del predetto irrigidimento è nella preoccupazione, che A. hu  qui in comune col suo maestro, di combattere le dottrine protagoree portanti alla  negazione di ogni realtà su cui il pensiero possa posare con la certezza della  propria validità. nè le sensazioni (‘') esistono, forse è anche giusto, in quanto  queste altro non sono che affezioni del senziente; ma è impossibile che, anche senza la sensazione, non esistano tuttavia i sostrati che la producono. Infatti, Ja sensazione non è sensazione  di se stessa (*), ma c’è, oltre di essa, anche qualcos'altro, che,  necessariamente, è prima di essa: ciò che muove è per natura  anteriore a ciò ch’è mosso. E se anche si obietta che essi  sono in relazione di reciprocità, la cosa non è men vera. Ci sono alcuni  e tra quelli che son persuasi di ciò che dicono, e tra gli altri che fan questione di parole soltanto   i quali muovono una difficoltà: essi voglion sapere chi sarà  poi a decidere se uno sia sano e, in generale, se uno intorno     Mi par giusto tornare alla volgata: uite và aloîntà (le qualità sensibili,  qui: non le cose stesse) pinTe tà alcèf pate. Poichè non è conforme alla dottrina  più chiara di A. porre come esistente il sensibile fuori della sensazione (in atto  o in potenza): cfr. De An., III. 2. 425 Db, 26: « L’atto del sensibile e della sensazione è identico, ma l’esser loro non è il medesimo: dico, per es., del suono in  atto e dell'udito in atto. Poichè è possibile posseder l'udito e non udire, e ciò  ch'è sonoro non sempre rende suono. Ma quando ciò che ha potenza di udire, è  in atto, e ciò che ha potenza sonora rende suono, allora ha ÎInogo insieme l'atto  dell'udire e l’atto del suono . Ciò non toglie, naturalmente, l’esistenza di un  mondo sensibile esteriore all'anima: poichò il sentire, diversamente dall’intendere, non passa all’atto senza un oggetto esteriore materiale: « Perciò dipende  da noi l’intendere, quando lo vogliamo, ma non così il sentire : De An., II. 5.  417 Db, 24. °    La sensazione non è sensazione di se stessa, nel senso che l’occhio, ad. es.,  non vede se stesso. Ma A. accenna anche a una alognows ch'è aùti avtis (De An.,  III. 2. 425 b, 15, 0 Cfr. De sensu, 7. 448 a, 26): autocoscienza sensibile, noi diremmo,  corrispondente a quella intellettiva (del tutto spiegata in Dio, com'è noto). Per  cui anche la sensazione, così come il pensiero per l’intelligibile, non ha fuori  di sè il sentito (in quanto tale).    Posta anche la correlatività protagoree, onde il sentire risulti dall'incontro dell’agente col paziente (della cosa visibile, ad es., con la vista: cfr. Teeteto,  156 d), vale quanto si è detto: debbono esistere, indipendentemente dalla sensazione, i due sostrati, la cosa che ha la potenza di esser vista e l’anima che ha  la .\otenza di vedere.   (4\ Questo capitolo prosegue il precedente, e s'aggira ancora intorno alla verità,  di ciò che appare. Vien ripetuta la distinzione tra coloro che seguono    o meno,  la dottrina protagorea in buona fede e con qualche ragione degna di esser presa a ogni cosa giudichi rettamente. Dubbi di questo genere sono  simili a quello di sapere se in questo momento dormiamo o  siamo desti. Simili difficoltà valgono tutte lo stesso. Costoro  pretendono che si dia ragione di tutto: cercano un principio,  e lo vogliono ottenere per via dimostrativa: sebbene dalle  loro azioni si veda chiaro che di tale necessità, di dimostrar  tutto, non sono persuasi. L’errore in cui cadono, come si  disse, è questo: cercano un ragionamento per cose in cui il  ragionamento non esiste, perchè il principio de lla dimostrazione non è una dimostrazione. Essi stessi possono facilmente  persuadersi di ciò: chè non è difficile a comprendere. Coloro,  invece, che esigono che uno li confauti per forza di ragionamento soltanto, esigono l’impossibile: poichè pretendono  che si dica il contrario di loro, e cominciano intanto col  dirlo essi (').   Se le cose non tutte sono relative, ma alcune soltanto, e  altre sono in sè e per sè, allora non potrà tutto ciò che appare, esser vero. Poichè, ciò che appare, appare a qualcuno:  di modo che, chi dice che tutto ciò che appare è vero, fa  tutte le cose relative. Perciò quelli che chiedono di essere  confutati per forza discorsiva  se tuttavia acconsentono di  discutere ragionevolmente , bisogna che facciano bene attenzione che non c’è ciò che appare semplicemente, ma c’è  ciò che appare a chi appare, e quando appare, e in quanto  e come appare. Se vogliono discutere, ma non in questi termini, accadrà loro ben presto di dire cose tra loro contrarie (*). Può, infatti, alla stessa persona una cosa parer miele  alla vista, e al gusto no; e non parer identica una stessa    in considerazione, e coloro che ne cavan :notivo per nera esercitazione discorsiva. I trapassi, tuttavia, dalla considerazione di un gruppo o dell'altro, o di ciò  che essi hanno in comune, non sono abbastanza netti. Può darsi che il testo sia  atato in qualche parte disordinato.    Intendo: pretendono che altrî dimostri il contrario di ciò che dicono:  ma, com’ è possibile ciò, se già essi lo affermano? V. nel Ross gli altri tentativi:  d'interpretazione.    Cose tra loro contrarie essi possono dirle soltanto se escono «indll’atto.  omnimode determinatus del conoscere. Ma, se accettano la determinazjfone, non:  riuscirà a ]Joro più.    2    (uh) |    6    de)    10 cosa alla vista di ciascuno dei due occhi, se sono disuguali.  Coloro che, per le ragioni già dette, van dicendo esser vero  ciò che appare, e però tutto ugualmente vero e falso, perchè non a tutti le cose appaiono le stesse, e neppure a uno  stesso sempre, e spesso appaiono contrarie anche nello stesso  tempo (il tatto, per es., se s'intrecciano le dita, dice che  son due gli oggetti, la dove la vista ne dà un solo),  quei  tali, dunque, badino che in realtà, qui, le sensazioni non  riguardano lo stesso senso, e per lo stesso rispetto, e nella  stessa maniera, e nello stesso tempo: per cui vero’ sarà ciò  che appare solo se è così determinato (‘).   Ma, appunto per ciò, quei che parlano non perchè dubitino, ma per parlare, si troveranno forse costretti a dire, non  «questo è vero >, ma «è vero a questo ; e quindi, anche,  come si disse dianzi, dovranno far tutto relativo, all'opinione  e al senso, sì che se non si presupponesse l’opinione di qualcuno, in realtà non ci sarebbe stato e non ci sarà mai niente (*).  Che se, invece, qualcosa fu o sarà, è chiaro che non tutto  è questione di opinione.   Inoltre, se l’oggetto è uno solo, bisogna che sia in relazione a uno solo o ad altri in numero determinato: che se  una stessa cosa si trova insieme ad essere metà e uguale,  non è relativamente al suo doppio ch’essa è uguale (?).   E quanto a colui che opina, se la realtà dell’uomo è anch’essa oggetto di opinione, non sarà uomo chi opina, ma     Così determinato l'atto, esso spiega le differenze, non solo tra individui  diversi, ma anche nello stesso individuo, dipendendo queste o dalla cosa che ha  potenza di produrre sensazioni diverse o contrarie, ovvero dalle condizioni e dall’uso degli organi, ovvero dal giudizio (talvolta errato) che l’anima trae dal confronto delle sensazioni o di queste con precedenti immagini (v. dianzi la possibilità  «dlell'errore nei sensibili per accidente, e la distinzione tra sensazione e fantasia;  e cfr. anche De An.,, III. 3, 428a, 11: «Le sensazioni sogo' sempre vere, invece  le fantasie nascono il più delle volte false : di qui, gt possibilità del vero    e del falso nella déta).     Come dianzi per la sensazione, così qui per l'opinione: il soggettivismo  è assurdo per A.  (9) Si riannoda al pensiero precedente al $ 8: anche fatto tutto relativo, se    la relazione vien determinata ne’ suoì termini esattamente, essa non è mai con  tradittoria.  l'oggetto opinato. Ma, siccome ogni cosa è quale è chi l’opina,  costui sarà infinite specie di cose (‘).   Che, dunque, l’opinione più salda di tutte è questa, che  le affermazioni opposte non possono esser vere insieme; e a  quali conseguenze vadan incontro coloro che la impugnano, e  quali ragioni li muovano a ciò,  si è detto quanto basta.   Ora, posto che è impossibile che si verifichi la contradizione nello stesso tempo e per il medesimo rispetto, è manifesto altresì che neppure i contrari possono trovarsi insieme  nello stesso soggetto. Poichè uno dei contrari non esprime  altro che la privazione: la privazione della sostanza. Ma la  privazione è la negazione d’un certo genere determinato. Se,  dunque, è i mpossibile che l’affermazione e la negazione siano  vere nello stesso tempo, dovrà anche essere impossibile che  i contrari si trovino insieme (?), a meno che entrambi non  si trovino in una certa maniera soltanto, ovvero }’uno in una  certa maniera soltanto, e l’altro semplicemente.    CapitoLo VII.    Delle due parti della contradizione non si dà mezzo, ma  è necessario che o si affermi o si neghi, e che, quel che si  afferma o nega, sia una sola cosa di una sola. Questo diventa  chiaro appena ci si faccia a definire che cosa è il vero e il  falso. Falso è dire che l’essere non è, o che il non-essere è; Ripiglia il pensiero del $ 8: se tutto è relativo all’uomo (Protagora),  l’uomo stesso che cos'è? Da una parte, non esistendo altro che l'oggetto di opinione, l’uomo non è più il soggetto pensante, ma quello ch'è pensato; dall'altra,  anche in quanto soggetto pensante, per la reciprocità protagorea (di cui alla fine  del capitolo precedente), egli esisterà come è nella relazione a ciò che pensa, e sarà  un opinante d'infinite specie: tante, quante sono le specie degli oggetti opinati,  in rispetto ai quali egli è un opinante sempre diverso (data la varietà continua  delle cose opinate). In conchiusione, neppur l’uomo esiste.   Ho tradotto come se il xgòds della 1. 12 non ci fosse (così il cod. E). Mantenendolo: «costui sarà (tale) in relazione a un numero infinito di specie di cose  (e quindi sempre diverso).    Salvo che in potenza, o l’uno in atto e l’altro in potenza; o l’uno sotto  un aspetto, e l’altro sotto un altro, ecc.    11    12    ro    (ce i vero è dire che l’essere è, e il non-essere non è. Per cui,  anche, chi dice che una cosa è, o non è(‘), o dice il vero  o dice il falso; invece, se si desse il mezzo, nè dell’essere  sì direbbe che è o non è, nè del non-essere.   In secondo luogo, quel mezzo della contradizione dovrebbe essere o a quel modo che il grigio è in mezzo tra  il nero e il bianco, ovvero tra uomo e cavallo un terzo  ente che non sia nessuno dei due. Se fosse in quest’ultimo  modo; non ci sarebbe mutamento (perchè mutamento si  ha quando dal non-buono si passi al buono, o da questo a  quello): invece lo si vede ognora, ed è tra contrari e intermedi, e non altrimenti. Se poi il mezzo fosse come un  intermedio, si avrebbe anche così una generazione del bianco  che non verrebbe dal non-bianco: ora, nessuno l’ha mai  vista (*).   In terzo luogo, tutto ciò che pensa e intende (°), il pensiero o lo afferma o lo nega: questo è chiaro dalla definizione stessa del vero e del falso (‘). Vero è il pensiero quando,  affermando o negando, unisce le nozioni in un certo modo;  quando, invece, in un certo altro, è falso.   In quarto luogo, quel mezzo, se uno non fa questione di  parole, dovrebbe essere al di lA di tutte le contradizioni, per  cui uno neanche direbbe nè il vero nè il non vero. E sa   Non «chi dice che questo (toùto 0 èxgsivo, che altri aggiungono intendendo del mezzo) è 0 non è: perchè del mezzo non si dice che è o non è. Per  quel che segue: «Ille quì ponit medium inter contradictionem, non dicit quod  necesse sit dicere de ente esse vel non esse, neque quod necesse sit de non ente:  S. Tom. ($ 720).    O quel terzo (il mezzo) è negativo (né uomo  né cavallo), e il divenire non  ha luogo perchè ci vuole un termine positivo e una realtà comune ai due termini  tra cui avviene (il «non buono , ad es., se diviene, passa in un termine positivo,  e questo, d'altronde, non può essere, poniamo, il « bello ); ovvero è positivo (e bianco  e nero), e il divenire non avviene neppure in questo caso, perchè il termine negativo è indispensabile e la realtà da realizzare non può esser quella già realizzata  (nell'esempio, considera il grigio come già, insieme, bianco e nero, attualmente).    L'attività logica (della Su&vora) porta all'intuizione della verità (propria  del vote).    Posta al $ 2.I1 giudizio è sintesi di nozioni, rapporto (affermativo o negativo) tra soggetto e predicato. rebbe al di là (') dell'essere e del non-essere, per cui dovrebbe esserci anche un mutamento diverso  da quello  che consiste nel nascere e perire.   In quinto luogo, quel medio dovrebbe esserci anche per  quei generi di cose, in cui la negazione importa immediatamente il contrario (*): nei numeri, ad es., dovrebbe esserci un numero che non fosse nè dispari nè non-dispari.  È impossibile: basta la definizione a vederlo (‘).   In sesto luogo, si andrebbe, in tal modo, all’ infinito: le  cose sarebbero non soltanto accresciute di metà, ma più ancora, perchè si potrà sempre daccapo negare quel terzo, e  costituire tra l’affermazione e la negazione sempre qualcosa  di nuovo, di natura diversa (°).   In fine, quando uno, richiesto se una cosa è bianca, risponde di no, che altro ha egli negato se non l’essere? E la  negazione di esso è il non-essere (°).   Questa opinione è sorta in alcuni per la stessa via di  altre non meno strane: non riuscendo a cavarsi fuori da argomentazioni eristiche, si arrendono e acconsentono che sia  vero quel che se n’è conchiuso. Questi, dunque, parlano per        mao. Gli altri interpretano come un «per. Tenterei di differenziare un  po’ di più questo argomento dai precedenti. Nota, per la 2 parte del paragrafo  (che passa dalla considerazione logica a quella reale), che il discorso è pur sempre  intorno al mondo del divenire, dove soltanto ha luogo l’antitesi di essere e nonessere e dei contradittorii.    Intendi: un mutamento sosta:ziale diverso. Chè è in quello che ha luogo  più propriamente l’antitesi essere-non essere.    In questi contrari mancano intermedi, e come non c’è processo di generazione, così l'affermazione di uno importa immediatamente l’esclusione dell’altro.  È un caso di contrarietà in rerum natura equivalente alla contraddizione logica  (l’unica differenza è che alla negazione non-dispari corrisponde la realtà positiva  del pari).    La definizione divisoria del pumero in pari e dispari.   (5) Più semplice l’interpretazione di Alessandro, così schematizzata dal Ross:  Se tra A e non-A c'è B [che sarebbe un terzo modo di essere di A, nè affermato  nè negato soltanto, e però accresciuto di una metà), ci sarà anche C tra B e  non-B, e D tra Ce non-C, e così di seguito.   (6) « Argomento cavato dalla natura del discorso. Il sì e il no esprimono il  primo un'affermazione e non insieme una negazione, e il secondo una negazione  e non insieme un’affermazione. E l’affernazione e la negazione non indicano se  non che o sia © non sia quella tal cosa di cui si parla: Bonghi (p. 201).  motivi di questo genere; altri, perchè vogliono che si dia  ragione di tutto. Con tutti costoro bisogna cominciar dalla  definizione, e la definizione vien fuori obbligandoli a dar un  significato a quel che dicono: il concetto, di cui la parola  è segno, diventa definizione (').   La sentenza di Eraclito, che tutto è e non è, par che autorizzi a far vera ogni cosa; quella di Anassagora, invece, a  porre un mezzo della contradizione, sì che ogni cosa sarebbe  falsa; chè, quando tutto è mescolato, il miscuglio non è nè  buono nè non-buono, onde non se ne può dir nulla di vero.    CapiTtoLO VIII.    Ciò determinato, è facile vedere che ciò che si dice delle  cose in generale non si può ridurre ad affermazioni di una  sola specie, così come fanno alcuni, i quali o van dicendo  che niente è vero (niente impedisce, secondo essi, che tutto  stia come il rapporto della diagonale al lato) (?); ovvero van  dicendo che tutto è vero. Son discorsi, questi, in fondo,  uguali a quello di Eraclito: poichè, chi asserisce che tutto  è vero e tutto è falso(*), asserisce anche ciascuna di queste     (Per questo paragrafo e s.). Non riuscendo a vedere l’errore dei ragionamenti  eristici, aleuni ne accettano le conchiusioni, e tolgon valore, così, al principio di  non contraddizione, e a quello connesso «del terzo escluso. Altri muovono da ragionamenti non eristici. In entrambi i casì, si cominci con esigere un significato  determinato di ciascun termine, Questo fu raccomandato già (4, 5 ss.) per la  difesa del principio di non-contraddizione, e ora vien raccomandato anche per  la difesa del principio del terzo escluso, perchè, in effetto, chi, come il supposto  seguace di Anassagora, pone quel terzo (che non è nè l’una nè l’altra parte  della contradittoria), fa che delle cose non si possa mai dir nulla di determinato: cfr. 4, 25.    Lett.: «l’essere il diametro commensurabile. Ossia: ogni cosa è in sè  contradittoria (come chi dicesse: « diametro commensurabile ).    Intendo: chi asserisce che si può dire che tutto è vero e tutto falso îndifferentemente (se, secondo Eraclito, tutto è e non è), costui vien a dire che son  giuste anche le due enunciazioni separatamente prese: che tutto è vero (tanto  l’essere quanto il non-essere), o tutto falso. Comunemente vien inteso, invece, che  «chi dice che tutto è vero e tutto falso insieme, dice anche le due cose separa- cose separatamente, sì che, se la prima asserzione è insostenibile, insostenibili sono anche queste separate. Ed è evidente 3  anche che sono contradittorie quelle che non possono esser  vere insieme. E neppure possono entrambe esser false: quantunque questo secondo caso, per le ragioni dette, possa sembrare meno improbabile (‘).   Con tutti coloro che fan discorsi di questa specie bisogna 4  comportarsi come s’è consigliato anche addietro (?): non esigere che dicano se una cosa è, o non è, ma che diano un  significato a quel che dicono: di modo che dalla definizione  si possa passare alla discussione, quando siasi stabilito quel  che significhi il falso o il vero. Se enunciar il vero non è 5  altro che negare ciò ch’è falso(?), è impossibile che tutto  sia falso, poichè è necessario che una delle due parti della  contradizione sia vera. Poi, se ogni cosa si deve o affermare 6  o negare, non si può essere nel falso in entrambi i casi,  perchè una sola delle due parti della contradizione è falsa.   A questi e simili ragionamenti succede, poi, quel che 7  tutti sanno: essi si distruggono da se stessi. Chi dice, infatti,  che tutto è vero, ta vero anche il ragionamento contrario  al suo, e però dichiara non vero il suo (tale, infatti, lo dichiara l’avversario). E chi dice che tutto è falso, si dichiara  nel falso da sè (‘). Che se si ammettono eccezioni, e il primo 8    tamente , Il che, evidentemente, è falso. Così, per quel che segue, che sarebbe  da tradurre: «se sono impossibili prese separatamente, anche la loro unione è  impossibile. Alessandro (397) dà entrambe le interpretazioni.    Se le contradittorie sono semplicemente contratie (ossia, se si considera  la negazione positivamente). Le «ragioni dette  potrebber'essere, in questo caso,  quelle del 8 3 del capitolo precedente, in cui si accenna alla possibilità che uno  intenda la contraddizione nel senso della contrarietà. Alessandro, invece, ricorre  alle dottrine di Eraclito e di Anassagora, le quali favoriscono piuttosto l'opinione  che non si possa affermar nulla di vero, come anche A. dice alla fine del capitolo  precedente (la dottrina eraclitea è stata, nel paragrafo precedente, avvicinata a  quella anassagorea).    Cfr. 4, 5. Quel che significhi il falso o il vero: nel Singolo caso. Cfr. cap.  prec., 9.   (8) Il testo è guasto: ho seguito la correzione proposta dal Ross (el 8è unttèv  diio tò &Ainttès pévat fi (5) drogpdvar yeidée totv).    Così anche in Teeteto. dice che soltanto quello dell'avversario non è vero, e il secondo che soltanto il suo non è falso,  allora, essi si troveranno a postulare sempre altri ragionamenti, veri e falsi,  a sostegno di quanto affermano: poichè vero sarà riconoscere  per vero il ragionamento che è vero, e così si andrà all'infinito (‘).   Evidentemente, il vero non lo dicono nè quei che affermano che tutto sta fermo, nè quei che affermano che tutto  si muove (?). Se tutto stesse fermo, vero e falso sarebbero  eternamente gli stessi, invece si vede bene come tutto muta  quaggiù. Colui che parla, lui stesso un tempo non era, e un  tempo non sarà. Ma se tutto si muove, non ci sarà nulla di  vero, e però tutto sarà falso: noi abbiamo mostrato che  questo non è ammissibile. Inoltre, il mutare presuppone  l'essere, poichè il mutamento è da qualcosa a qualcosa. E  neppure si può dire di ogni cosa che talora soltanto, non    x     Nel 1° caso: È falso che tutte le affermazioni sono vere.  È falso ch'è  falso che tutte le affermazioni sono vere, ecc.; nel 2° caso: È vero che tutte le  affermazioni sono false.  È vero che ò vero che tutte le affermazioni sono false, ecc.  Nel 1° caso son tutte affermazioni false che, chi sostiene che tutto è vero, deve  attribuire al contradittore; nel 2° tutte affermazioni vere che, chi sostiene la tesi  che tutte le affermazioni sono fulse, deve riconoscere come proprie. Così vero e  falso, presi uno fuori dell’altro, trapassano immediatamente l’uno nell’altro: chi  dice cho tutte le affermazioni sono vere, è costretto a riconoscerne infinite false;  chi dice che tutte sono false, deve riconoscerne infinite vere. Vero e falso, invece,  sono uniti, per A., nella sintesi contradittoria, dove, soltanto, l'uno dà senso  all’altro.   Si può notare in questa concezione la tendenza già a dialettizzare il pensiero  in sè e per sè. L’astrattismo platonizzante e le asigenze discorsive prendono,  tuttavia, il sopravvento: vero e falso si escludono senza mediarsì, in fine; e il  principio di non contraddizione resta un presupposto (l'assioma supremo), una  pregiudiziale, puramente negativa, della pensabilità del reale in generale (la  prima condizione logica del pensiero empirico). Anche il principio del mezzo  escluso, anzichè fondare il valore assoluto della sintesi contradittoria per l'attività pensante (ch'è îl medio concreto in cul l’antitesi si risolve senza residuo),  vien aggiunto semplicemente come corollario: chi lo nega, nega il principio di  non contraddizione, e cade, infine, così come chi nega questo, nell'inileterminato.  Il pensiero empirico, infatti, per la determinatezza del reale vuole l’immediatezza della distinzione e opposizione del vero al falso.    Ricorda che quiete e moto già al $ 15 del cap. 2 furono citati come una  contrarietà riducibile a quella dell’uno 6 del molteplice, dell’essere e del non-essere. eternamente, sia in quiete o in movimento. C’è qualcosa  che sempre muove ciò ch’è mosso, e il primo motore, esso,  è immobile (').     «Posset aliquis credere quod, quia non omnia moventur nec omnia quiescunt, quod ideo omnia quandoque moventur et quandoque quiescunt: S. Tom.  (748). Invece, il cielo (delle stelle fisse) muove sempre, mosso esso stesso, e Dio  muove questo sempre, immobile in se stesso. Un pensiero analogo trovammo nel  cap. 5, 5 è 16-17. La questione qui accennata è discussa in Plys. Dicesi principio (') di una cosa quello da cui si può cominciare il movimento: della linea, per es., e della via c’è  un principio da questa parte, e un altro dalla parte opposta.  Ovvero, quello da cui una cosa riesce meglio: per es., nello  studio si deve cominciare talvolta, non dal principio primo  di una cosa, ma da quello che s'impara più facilmente. Ovvero, la parte di una cosa da cui questa ha origine: per es.,  la chiglia di una nave, le fondamenta di una casa; negli  animali, alcuni credono che tale parte sia il cuore (?), altri  il cervello, altri qualcos'altro. Ovvero, ciò che dà origine a  una cosa senza farne parte, e da cui primieramente potò aver     ’Aexî: se ne dànno i significati principali (1-6), nel comune modo di parlare. È difficile metter un ordine rigoroso in questi qui enumerati, e far corrispondere n essi esattamente quanto riassumendo enumera e distingue nel $ 8.  Nè c’è rapporto qui con la discussione fatta nel lib. I intorno all’àgyf in senso  metafisico e con la distinzione delle quattro specie di esso: benchè di queste sia  facile trovar l'equivalente anche nell’enumerazione presente (2, causa finale; 3,  c. materiale-formalo; 4, c. efficiente; 5, c. efficiente-finale; 6, c. formale). C'è, in  più, la distinzione tra l’esser il principio intrinseco o estrinseco alla cosa (così  nel $ 8: natura ed elementi son principii intrinseci; pensiero e deliberazione,  estrinseci). Qui, dunque, è. si potrebbe tradurre con «cominciamento , « inizio   o «punto di partenza , « fondamento  , «causa  od «occasione  ; principii sono anche i «primati» della città (5); anche oggi si parla di principii nel  senso di «rudimenti » , o di «principii logici »(6); e via dicendo.    Il cuore è la parte principale per A., come per Empedocle e Democrito;  il cervello, per Alemeone, Ippone, Platone. nizio il movimento o mutamento: per es., il figlio dal padre  e dalla madre, la contesa da un’ingiuria ('). Ovvero ciò dalla  cui deliberazione dipende se qualcosa si muove o si muta:  per es., i magistrati nelle città, gli oligarchi, i re, i tiranni;  e principii diconsi in questo senso anche le arti, specialmente  quelle che sovrastano alle altre (*). Inoltre, ciò da cui primieramente una cosa è fatta conoscibile, anch’esso dicesi suo  principio: per es., ciò che vien premesso nelle dimostrazioni (*).   In altrettanti modi si parla di cause, poichè tutte le cause  son principii (*).   Ciò ch’è, dunque, comune a tutti i principii è di esser  ciò da cui primieramente una cosa è, o diviene, o è conosciuta; e di essi alcuni sono insiti nella cosa, altri esterni.  Son principii, quindi, la natura, gli elementi, il pensiero, la  deliberazione, la sostanza e il fine (*): poichè per molte cose  ciò ch’è buono e bello è principio insieme di conoscenza e  di movimento. Causa dicesi, in un senso, ciò di cui una cosa è fatta:  per es., il bronzo di una statua, l’argento di una coppa, e     La contesa da un'ingiuria: son parole prese da un verso di Epicarmo,  come risulta da De Gen. An., I. 18. 7242, 29.    Le arti qui chiamate « architettoniche » sono soprattutto quelle che mirano  alla pratica: così in Ethica Nic., I. 1. 1094 a, 14, Ma anche la filosofia è considerata  così, in rispetto alle altre scienze, in Afet., I. 2, 5 e 12.    al irmodéoev sono certamente anche «le premesse » (Bonitz, Waitz, ece.),  come appare dal passo che vien poco dopo in b, 20 (2, 8). Ma non mi sembrano  da escludere qui i principii (propri e comuni) delle dimostrazioni.    Cfr. IV. 2, 5 (come per erte e uno). Principio e causa sono spesso sinonimi in A., che unisce anche î due concetti (specialmente per la scienza dei  « principii e cause prime »). Qui principio nel senso del $ 1 non si potrebbe considerare come cause; ma neppure tutte le cause son principii in senso metafîsico.  Causa accenna meramente a un rapporto tra due fatti, laddove «principium ordinem quemdam importat » (S. Tom., 761), e accenna piuttosto alla ragion d'essere  di tutta la serie delle cause.   (5) La sostanza e il fine: la frase raccoglie oscuramente le quattro specie di  causalità.   (6) Questo capitolo ripete quasi letteralmente il 8° del libro II della Phys.,        2 i loro generi (‘); in un altro, la specie o esemplare (?), cioè  il concetto della pura essenza, ed i suoi generi (nell’ottava,  per es., il rapporto di due a uno, e in generale il numero),   3 così come le parti di esso concetto. Inoltre, ciò da cui ha  principio immediatamente il mutamento o il suo contrario:  per es., il deliberare è causa dell’agire; il padre, del figlio;  e in generale, chi fa è causa del fatto, ciò che produce un  mutamento, di ciò che muta.   d Causa dicesi anche rispetto al fine, ossia ciò per cui si fa  qualcosa: per es., si passeggia per la salute. Diciamo: perchè passeggia? per acquistar salute; e riteniamo, così rispondendo, di aver enunciato la causa. Ma così anche per le cose  intermedie tra ciò che muove e il fine: per es., per la salute  il dimagrare, il purgarsi, le medicine o i ferri del medico:  le quali cose sono tutte per il fine, e differiscono tra loro in  quanto alcune sono strumenti, altre sono azioni.   5 Si può dire che questi son tutti i sensi in cui si parla di  cause; e poichè i sensi son diversi, ne segue che di una  stessa cosa ci son cause molteplici, non accidentalmente (?):  per es., di una statua lo scultore e il bronzo son cause non  per altro rispetto che in quanto è statua: sebbene non nello  stesso modo, ma l’uno come materia, l’altro come principio  del movimento.   6 E ci sono cause reciproche: così, il lavorare è causa di  buona salute, la buona salute del lavorare: ma non nello    dal quale sembra esser stato preso (o posto qui da A. stesso ?). È degno di nota  che l’ordine, col quale vengono enumerate le quattro specie di causalità, non è  sempre lo stesso in A., ma varia con la natura della ricerca. Nel lib. I, cap. 3°  della Met. vedemmo enumerata per prima ìa causa formale, poi la materiale, poi  quella motrice e finale. Quì, ossia nella Fisica, è invertito l'ordine delle prime  due. In De Gen. An. (I. 1. 715 a, 4) precedono la finale e la formale. Negli Ana/. Post.  (II. 11. 94 a, 20) comincia dalla formale, e per causa materiale, subito dopo, dà  quel che nella logica ne tiene il luogo, le premesse di un sillogismo (queste,  infatti, son citate qui, al $ 8, tra gli esempi di causa materiale). In De Somm.,  (2. 465 b, 16) son prima la finale e la motrice.    I loro generi: v.$ 9 88.    Esemplare: termine platonico, adoperato qui, con allusione all’arte, per  der rilievo a quello di specie, 0 forma, nel senso della pura essenza.    Bon cause proprie: cfr. S 10.    1018 db    140° METAFISICA y  stesso modo, perchè l’una è come fine, l’altra come principio  del movimento.   Inoltre, una stessa cosa è causa, talvolta, dei contrari:  ciò che, presente, è causa di certa cosa, talvolta l’accagioniamo, assente, del contrario: per es., del capovolgimento  della nave incolpiamo l’assenza del nocchiero, la cui presenza era causa di sicurezza: entrambe, la presenza e la  privazione, sono cause rispetto al movimento.   Tutte le cause ora menzionate riguardano i quattro significati più evidenti. Le lettere dell’alfabeto, la materia delle  cose artificiali, il fuoco, la terra e gli altri elementi dei corpi,  le parti del tutto, le premesse della conchiusione, son cause  in quanto sono ciò da cui risulta costituita una cosa; ma  alcune come sostrato (per es., le parti), altre come pura essenza (l’intero (‘'), la sintesi e la specie). Il seme, il medico,  il consigliere, in generale ciò che produce qualche effetto,  son tutte cause nel senso che da esse ha principio il mutamento o la quiete. Altre sono cause in quanto sono il bene  e il fine delle altre cose, poichè, ciò per cui queste sono,  vuol esser l’ottimo e il loro fine. E non si faccia differenza  qui tra il bene reale e quello apparente (?).   Tali e tante, dunque, son le specie delle cause; e anche  i loro modi(*), per quanto numerosi, si riducono a pochi  capi. Parlandosi, infatti, delle cause in molti modi, anche  di quelle d’una stessa specie, alcune son tali in grado primario, altre secondariamente: causa della salute, ad es., è     «Non la somma delle parti, ma ciò che s'aggiunge a queste: l’interezza  e perfezione » (Aless. 351, 27). Così, per la sintesî. E però ciò da cui risulta costituita una cosa è da intendere, non semplicemente come «ciò di cui una cosa è  fatta » ($ 1), ma nel senso del sinolo. Materia e forma son due principiì immanenti in ogni caso alla natura di una cosa (diversamente dalla causa efficiente  e finale).    Il bene reale e quello apparente muovono ugualmente: «non è necessario  che una cosa sia realmente buona e piacevole perchò si desideri, ma basta che  paia » (Top., VI. 8. 146b, 36). ui    Per ciascuna specie di causalità A. distingue vari modi, dei quali alcuni  sono cause più immediatamente, altri meno. il medico, e anche il pratico (‘); e dell’ottava è causa il rapporto di due a uno, e anche il numero; e così sempre ciò  che comprende ciascun particolare.   Ci sono, inoltre, cause accidentali (?), e generi di. esse:  per es., lo scultore è causa della statua in un senso; in un  altro, la causa è Policleto, perchè lo scultore, per avventura,  è Policleto; e così dicasi dei generi comprendenti l’accidente:  per es., causa della statua è l’uomo, o, più in generale, l’animale, perchè Policleto è uomo, e l’uomo è animale. Inoltre,  degli accidenti, alcuni son cause più remote, altre più vicine:  come se uno dicesse che causa dellu statua è, non soltanto  Policleto o l’uomo, ma l’esser bianco o musico.   E tutte, poi, o che tali siano propriamente, o per accidente,  si dicono cause o perchè hanno la potenza di agire, o perchè  agiscono: per es., della casa che si costruisce la causa è chi  sa costruire, ovvero colui che la costruisce.   Similmente per gli effetti delle cause: ad es., si dirà che  una cosa è causa di questa statua qui, o di una statua, o di  un’immagine in generale, e di questo bronzo qui, o del bronzo  o materia in generale (*); e nello stesso modo per le cause  accidentali. E queste si potranno anche unire a quelle proprie,  dicendo, adesempio, non Policleto, nè lo scultore, ma Policleto lo scultore.   E tuttavia tutti questi modi si riducono a sei di numero,  e di ognuno si parla in due sensi. Cause sono o quanto al     Il pratico: 6 teyviuns (termine più generale).  Ciascun particolare  (xaî'éxaota): qui «individuo» e «particolare» (e così i concetti opposti corrispondenti di universale e generico) non sono distinti: cfr. I. 1, 9, nota.    Le precedenti son cause proprie. Della statua la causa propria è lo scultore, non Policleto in quanto è semplicemente un individuo umano: tanto meno  l’uomo, e tanto meno ancora l'esser bianco (ch'è un attributo di Pol. in quanto  meramente uomo). Per quest’« accidentalità » generica di uomo rispetto all’ individuo, cfr. $ 8 del I. 1, ora cit., e nota, Noto qui che ho tradotto letteralmente  sempre povorxés con musico, per comodità di espressione: è noto che il termine  greco vuol indicare anche «chi è educato nelle arti e nelle scienze», l'uomo  «colto », «istruito », ecc.    Il bronzo è causa (materiale), « ma qui può esser preso, non come causa,  ma come effetto: ci può essere una causa metallica che produce il bronzo »  (Aless. 353, 17). O, come suggerisce il Ross, chi lo prepara per lo scultore.    1014 a    142 METAFISICA    particolare, o al genere di esso; ovvero quanto all’accidente,  o al genere dell’accidente; ed entrambi i modi o vengono  congiunti insieme, o si considerano separatamente. E tutte,  poi, o son riguardate in atto, o in potenza('). Con questa  differenza: che le cause in atto e quelle particolari sono e  vengon meno insieme alle cose di cui son cause: per es.,  questo medico curante insieme a costui che sta risanando,  questo costruttore (?) insieme alla casa che si sta costruendo;  invece, non è sempre così per le cause in potenza, perchè  insieme con la casa non perisce il costruttore.    CaPITOLO III.    Elemento dicesi quel primo (*) di cui risulta composta una  cosa, e la cui specie non è riducibile ad altra: come, ad  es., gli elementi della voce, dei quali risulta composta la voce,  e in cui questa si risolve alla fine; sì che essi a lor volta        Parrebbe che le sei classi dovessero essere: proprie 0 accidentali, particolari o generali, attuali 0 potenziali. Ma, poichè A, considera le particolari equivalenti alle proprie, si ha in 9-11: proprie e i loro generi, accidentali e i loro  generi, attuali e potenziali. Qui ha luogo un altro spostamento: 1) particolari  (== proprie), e 2) generalità di esse; 3) accidentali, e 4) generalità di esse; 5) particolari prese insieme con gli accidenti (lo scultore Policleto), e 6) generali prese  insieme (l’uomo pratico). Aggiungendo il criterio dell'attualità o potenzialità a  tutte sei, diventerebbero 12. Ma: a) l'unione dei primi quattro modi non è data  come necessaria; b) l'attualità non può spettare alle generalità, e in effetto A.  parla qui di cause particolari. Si che, in conchiusione, il criterio più chiaro  della classificazione è quel primo.    Sott. «che sta costruendo». Nell’esempio bisognerebbe, propriamente,  considerare l’effetto nel processo del diyenire: se no, non c'è bisogno che l’individuo risanato muoia o la casa costruita rovini, per che îl medico e il costruttore restino come potenze (di altri effetti). (Ric., a proposito di ‘quest'ultimo,  l'istanza del tessitore e dell'abito nel Fedone).    Nel greco è aggiunto «insito» (8vurdgyovtosìi, che indica il carattere  distintivo di elemento (principii e cause possono non esser insiti). Perciò in XII.  4. 1070b, 22 si chiamano elementi la specie, la privazione e la materia. Cfr. nota  a lib. I. 8, 10. Un altro carattere è dato dall'essere specificamente indivisibile,  sì che la materia si trova negli elementi già in parte attuata e determinata:  così nei c. d. corpi semplici (divisibili quantitativamente, non qualitativamente:  una sillaba, invece, si divide in lettere qualitativamente diverse). non possono più risolversi in altri di specie diversa dalla  loro, ma, quand’anche vengano divisi, danno luogo a parti  della stessa specie, così come dividendo l’acqua si ha acqua  (non così per la sillaba). Similmente, coloro che parlano degli  elementi dei corpi, intendono ciò in cui si risolvono i corpi  alla fine, e che non è riducibile più ad altro di specie differente: e, o ne ammettano uno solo o più, questi essi chiamano elementi. Parimenti dicasi degli elementi delle figure  geometriche (') e delle dimostrazioni in generale: le dimostrazioni prime ed implicite in molte altre, quelle appunto  si chiamano elementi delle dimostrazioni: di tal futta sono i  primi sillogismi (*) risultanti di tre termini, di cui uno è il  medio. °   Di qui viene che per metafora si chiami elemento ciò che,  essendo uno e piccolo, può servire a molte cose, sì che anche  ciò ch’è piccolo, semplice e indivisibile si chiama elemento.  E di qui viene che si considerano come elementi le cose più  universali, perchè ciascuna di esse, essendo una e semplice,  si trova in molte cose, o in tutte o nel maggior numero (*):  donde, anche, l’unità e il punto sembrano ad alcuni che sian  principii. Ora, poichè i così detti generi sono universali e  indivisibili (chè di essi non si dà definizione), alcuni chiamano  elementi i generi, e più questi che le differenze, perchè il genere è più universale: infatti, dove c’è la differenza, il genere  non manca mai, ma non sempre dove c’è il genere, c’è anche  la differenza.   Tutti questi significati hanno questo in comune: che elemento di ogni cosa è quel primo che la costituisce.     O «proposizioni », « teoremi », « dimostrazioni », ecc,: efr. III. 3, 2.    Forse «sillogismo» qui vale ragionamento in generale, e «primi sillogismi» son le figure del sillogismo propriamente detto. Per il Ross sono «i sillogiemi primari (opposti ai soriti), aventi soltanto tre termini e un unico medio ».    Questi sono universali che hanno ancora qualche contenuto; quelli son  generi sommi, indefinibili (mediante il genere e la differenza specifica): tali volevan essere l'Uno e l'Ente dei Pitagorici e dei Platonici (cfr. III. 3).  Natura (') si dice, in un senso, la genesi delle cose che  hanno un lor crescimento (come se uno pronunziasse lungo  l’u di quos).   In up altro, ciò ch’è primitivo in una cosa, e da cui questa  si svolge (?).   In un altro, ciò che dà il primo movimento a ognuna  delle cose naturali, ed è immanente ad esse in quanto sono  quel che sono (°).   E diconsi avere un lor crescimento quante cose aumentano  di qualcos’altro per un contatto sì che le parti siano unite,  o aderenti, come negli embrioni, organicamente (*). Tale  unione differisce dal contatto, perchè in questo basta che le  parti si tocchino, mentre in quella c’ è qualcosa d’uno e identico tra l’una e l’altra parte, che le fa crescere insieme, invece che toccarsi semplicemente, e ne fa una cosa sola in  rispetto alla continuità e quantità, ancorchè non qualitativamente (5).     L'argomento è trattato, similmente in Phkys., II, 1. A. vuol cavare l’etimologia di quo da puo, che nella maggior parte dei tempi ha lv lungo. È  dubbio che quos avesse in origine questo significato di yévsau, oltre quello che  anche noi intendiamo per « natura» di una cosa.    Forse, come pensa il Bonitz, il seme.    Non estrinseco, dunque, nè appartenente alla cosa per altra considerazione che l’esser suo proprio (non così, per es., se uno cade),    (Difficile a tradursi il cuprepuxévar e il mooorepuxévar = aver una natura  in comune, 0 una natura in rapporto con altra, intendendo di esseri viventi). Il  contatto non basta: chò questo può essere, come in un mucchio «di pietre, un  aumento materiale, non un queota: (un crescere nel senso di svolgimento). Le  parti debbono formare un'unità organica; o, se si tratta di due cose diverse  il feto, per es., nel seno della madre), esser unite vitalmente tra loro.   (5) Sembra riferirsi alla diversità delle parti di un organismo (se non anche  all’altro caso accennato, della simbiosi vera e propria).  Un altro punto un po’  oscuro è quel «qualcos'altro » in principio del paragrafo, che par accennare al  nutrimento: per questo non basta il contatto, certamente; ina il discorso che  segue non sembra più a proposito, perchè, più che la trasformazione e l’'assorbimento del ‘cibo, riguarda, evidentemente, le parti di uno stesso organismo o  l'unione di due organismi (dove, poi, il processo di nutrizione, in quanto differisce dal semplice contatto, è lo stesso). Inoltre, natura dicesi ciò da cui originariamente son costituite o generate alcune cose naturali, quand’esso sia informe  e immutabile nella potenza che gli è propria: così il bronzo  dicesi natura di una statua o degli utensili di bronzo, il legno  di quelli di legno, e via dicendo: chè da essi vien prodotto  ciascuno di questi oggetti, in cui resta intatta la materia  prima ('). E nello stesso modo alcuni chiamano natura gli  elementi delle cose naturali, chi dicendola fuoco, chi terra,  chi aria, chi acqua, chi qualcos'altro simile, chi più d’una  di queste cose, chi tutte insieme.   Inoltre, natura vien chiamata, in altro senso, la sostanza (*)  degli esseri naturali, per es., da coloro che dicono la natura  esser la composizione originaria delle cose, ovvero come  Empedocle dice:    Niente, di ciò che è, ha una natura,  ma soltanto la mescolanza e separazione delle cose mescolate,  e natura è il nome dato a esse dagli uomini.    Perciò, anche, delle cose che sono o si generano per natura,  quand’anche sia presente ciò da cui naturalmente deriva il  loro essere o generarsi, diciamo che non anc ora hanno la loro  natura, finchè non posseggono la specie e la forma.     (AMa 1. 27, con la volgata, ho omesso il pù: «alcune cose [non] naturali»). Resta intatta la materia prima, nel senso che il bronzo resta bronzo,  anche se con una forma che prima non aveva (onde, in certo modo, era informe).  A. con l’esempio di cose artificiali vuol dar un’idea della materia in quanto  volgarmente è considerata reale indipendentemente dalla forma: ch’è l’idea da  cui mossero i Fisiologi, studiati nel lib, I. « Dispositiones formae non salvantur  in generatione; una, enim, forma introducitur altera abiecta. Et propter hoc  formae videbantur esse quibusdam accidentia, et sola materia substantia et natura, ut dicitur in 2° Physicorum » (S. Tom., 817). A. distinguerà, poi, tra materia  prima (qui non è in questo senso) e materia seconda.    Sostanza, qui, è l'essere sostanziale, intimo, delle cose, riguardato dapprima come un cornposto originario, non quello attuale e immediato: già accennante, così, secondo A., al concetto di essenza. Cfr. per Anassagora il lib. I. 8,  10-14. Per Empedocle, cfr. Diels, fr. 8, dove il passo è riferito integralmente.  A. interpreta la puoars di questi versi empedoclei come « natura permanente ». Altri,  più comunemente, pensano che E. voglia dire che non c'è, in senso assoluto, generazione o morte di nulla, ma solo mescolarsi e separarsi dei quattro elementi. Per natura, dunque, ogni cosa risulta di queste due, materia e forma: per es., gli esseri viventi e le loro parti. E natura è tanto la materia originaria (e questa di due maniere:  o quella ch’è tale in rispetto a una cosa particolare, o in  generale: per es., delle opere in bronzo è materia originaria (')  rispetto a esse il bronzo, ma in generale è forse l’acqua, se  tutto quel che si può liquefare è acqua), quanto la specie e  la sostanza, che è il fine della generazione. E di qui, per  estensione di significato, si dà il nome di natura ad ogni  sostanza in generale, perchè anche la natura è una specie  di sostanza (?).   Segue dalle cose dette (*) che natura, nel suo senso primario e proprio, è la sostanza di quegli esseri che hanno in  Se stessi, in quanto tali, il principio del movimento: poichè  la materia si dice natura per la capacità di ricevere questo  principio, e così il generarsi e il crescere perchè son movimenti che partono di lì. E natura è in questo senso il principio del movimento degli esseri naturali immanente a essi’  in qualche modo; o in potenza, o attualmente.    CapiToLO V.    Necessario dicesi quello senza del quale, come concausa (‘),  non si può vivere: ad es., il respirare e il cibo sono una cosa  necessaria per l’animale: non se ne può far senza.     Materia originaria (se@tn), in senso generale, qui, è quella del genere  ultimo (primo) di più cose.  Tutto quel che si può fondere o Hanerare è acqua,  si dice anche nel Timeo, 58 d,    Quella ch'è unita alla materia, nel processo del divenire: di qui l’estensione del termine natura alla sostanza in generale (anche a quelle che son fuori  di quel processo e, come le sostanze puramente intelligibili, prive di materia).    Riassume e conchiude con l’approfondimento del 3° significato, ch'è il  fondamentale.  Alessandro (960, 11): « In potenza, come l’anima nel seme; in atto,  quando sia divenuto già un animale: la forma immanente nella materia (tè Evudoy  elbos) è per tutti gli esseri naturali il principio di quel movimento ch'è la generazione ».    cuvattuov: noi diremmo «condizione » (necessaria, non sufficiente). È una  necessità designata altrove come « ipotetica » (Phys., II. 9. 199 b, 34): tale è anche,  per A., la realtà della materia rispetto alla forma. E quello senza del quale non può esserci o prodursi il  bene, nè si può respingere o evitare il male: il bere la medicina, ad es., per risanare, e il navigare ad Egina per esigere  il danaro (').   3 Inoltre, ciò ch'è effetto di violenza e la violenza (?): cioè,  quello che impedisce o contrasta l'inclinazione e il proposito.  Di fatto, ciò ch’è per violenza si dice necessario, e perciò  anche doloroso, come anche Eveno dice: « Poichè ogni cosa  necessaria è molesta di sua natura». E la violenza è una  specie di necessità, come anche Sofocle dice: « Ma la violenza  mi fa necessariamente far ciò ». E la necessità sembra cosa  contro cui non val la persuasione, e giustamente, chè essa  è contraria al movimento che si fa secondo un proposito  ragionato.   4 Inoltre, ciò che non può essere altrimenti diciamo neces ‘ sario che sia così. Anzi, da questo significato del « necessario» derivano in certo modo tutti gli altri: poichè allora   si dice che uno è forzato a fare o patire di necessità, quando 1016 b  non può seguire la sua inclinazione perchè gli è fatta violenza: chè quella è una necessità per la quale non si può  altro. E dicasi lo stesso per le concause del vivere e del bene:  quando non sia possibile nè il bene, nè il vivere ed esistere  senza alcune di. esse, queste sono necessarie, e la ragione di   ciò è, appunto, una specie di necessità.   5 Aggiungi, tra le cose necessarie, la dimostrazione, perchè,  se qualcosa è stato dimostrato assolutamente, non può esser  altrimenti; e causa di ciò son le premesse, dalle quali si fa  il sillogismo, se son tali che non possano esser altrimenti.   6 Delle cose alcune hanno del lor esser necessarie una causa  altra da esse; altre, no: anzi, esse son causa per cui altre     Può darsi che accenni, come il Christ suppone, a un fatto ricordato in  una lettera di Platone (13*). V. Ross.    Per la fila v. Età. Nic., lib. III. 1, dove il concetto è approfondito: « forzato  (Plavov: l’effetto della violenza) è ciò il cui principio è di fuori, e tale che, chi opera  o chi sopporta, in nulla vi conferisca » (Cfr. DANTE, Par., IV, 73). E per la xgoalgeo, cap. 26 8: l'impulso, nell'azione, dev’esser guidato dalla ragione che delibera sul da farsi: donde il proponimento.  Eveno: sofista e poeta, di Paro, ric.  più volte da Piatone.  Sofocle: v. Elettra. sono necessarie. Laonde necessario, nel senso primo e proprio, è il semplice, perchè questo non può essere in più modi,  sì che non può esser ora in un modo ora in un altro: chè  sarebbe, allora, già in molti modi ('). Se ci sono, dunque,  esseri eterni e immobili (?), nulla c’è per essi di forzato e  contro natura. Uno si dice sia per accidente, sia per se stesso (*).   Per accidente, come « Corisco e musico», e « Corisco musico » : poichè è lo stesso dire « Corisco e musico » e « Corisco  musico». Ovvero: « musico e giusto »; 0: « Corisco musico e  Corisco giusto ». Di tutte queste cose, infatti, l’uno si dice  per accidente: «giusto e musico » perchè accidenti d’una  sola sostanza, « musico e Corisco» perchè il primo è un accidente del secondo. Similmente, in certo modo, anche « Corisco  musico » unito a « Corisco » fa una cosa sola, perchè in questo  discorso c’è una parte ch'è accidente dell’altra: ossia « musico» di « Corisco ». E così dicasi di « Corisco musico » unito  a «Corisco giusto », perchè entrambi hanno una parte ch’ è  accidente d’una stessa altra (*).     Nota qui (come altrove, 6pesso) l'improvviso passaggio dal pensiero {dove  solo ha un senso la necessità) alle cose. L'impossibilità (la negazione) del contrario diventa semplicità dell'essere (l’essere in un modo solo), propria di ciò ch'è  eterno (non ora in un modo, ora in un altro). Ma, poi, tra queste cose rientrano,  come qui,tà gta, i principii delle dimostrazioni, e le pure essenze indivisibili.    Se a immobili si sostituisce immutabili, tra questi esseri (o cose) eterni  ci sono anche i cieli, oltre Dio e le Intelligenze motrici. Anche in VI. 2. 1026 b,  28 la fila vien messa da parte (riguarda, infatti, l’ Etica) e la necessità posta in  opposizione all'accidente.    L'uno è qui considerato nelle cose, e insieme come predicato delle cose  ossia riguarda la questione: quando è che le cose (in sè e nel discorso) hanno  unità, o accidentale (1-3), o essenziale (4-12). La distinzione deriva dal considerarle unite o dalla parte degli accidenti, o dell'essenza.  Poi, si farà questione  dlel concetto in sè e per sè (19-15).    Il giudizio qui è coneiderato analiticamente, anzi verbalisticamente, come  accoppiamento di due termini: a) di una sostanza con un accidente; b) di due  accidenti d’una stessa sostanza, sottintesa; c) di questa sostanza con i due accidenti separatamente considerati; d) di questa sostanza unita all’accidente con  la sostanza senz'altro. Il caso fondamentale è il primo. Ugualmente se l’accidente si predichi del genere o di  qualche nome universale (‘): si dica, poniamo, che «uomo >  e «uomo musico » è lo stesso: infatti, o si dice così perchè  «musico » è accidente dell’« uomo », ch’è un’unica sostanza;  ovvero, perchè entrambi sono accidenti di qualche individuo,  poniamo, di Corisco (salvo che non gli appartengono entrambi  allo stesso modo, ma l'uno, senza dubbio, come genere e nella  sostanza; l’altro, come proprietà o affezione della sostanza).  Questi sono, dunque, i modi in cui l’uno si dice delle cose  per accidente.   Invece, di quelle di cui si dice per se stesse, alcune si  dicon così perchè sono continue: poniamo, a un fascio dà  continuità la corda, ai pezzi di legno la colla; e una linea,  se, ancorchè spezzata, sia continua, si dice ch’è una; e così,  anche, ciascuna parte dell’organismo, una gamba o un braccio.  A queste stesse, tuttavia, l’uno si applica meglio se sono continue naturalmente che se son tali artificialmente.   Continuo, poi, si dice ciò di cui per se stesso il movimento  è unico (?), e non può esser diverso; ed è unico il movimento  di ciò in cui esso è indivisibile, e indivisibile nel tempo.  E continuo per sè è ciò che non è uno per contatto soltanto:  che se tu ponessi dei legni l’uno accosto all’altro, non diresti  che facciano nè un legno solo, nè un sol corpo, nè un solo  continuo di altra specie.   Ciò che, comunque, è continuo, si dice uno anche se abbia  una piegatura: meglio, tuttavia, se non l’ha: la tibia o il femore, per es.; più della gamba, perchè il movimento della     Il termine che fa da soggetto nel giudizio può essere, non un individuo  (come nel par. prec.), ma un genere, o un universale (questo può anche non essere  un genere reale, ma un mero xowvév, come l'uno e l'essere, o un termine negativo,  o di rapporto: cfr. nota a I. 9, 30; VII. 2, 1)  Salvo che, ecc.: dei due accidenti uno è essenziale: cfr. nota a I. 1, 8.  Proprietà e affezione (Eku e xhdog):  cfr. nota a I. 5,8.    Cfr. Phys.,V.3-4,in cui si parla più ampiamente del continuo e dell’unità  del movimento. Il passaggio tra i due concetti (che alcuni a torto rimproverano  ad A, di unire insieme) è dato dalla concezione della natura, dianzi definita come  «la sostanza degli esseri che hanno in sè il principio del movimento », anzîi come  «il principio del movimento immanente a essi. gamba può non esser uno. E la retta è più una di quella  piegata: anzi quella piegata e che fa angolo, la diciamo e  non la diciamo una, perchè il movimento delle sue parti può  essere, ma anche non essere, simultaneo; laddove quello della  retta è sempre simultaneo, e nessuna parte di essa, che abbia  grandezza (‘), sta ferma mentre un’altra si muove, come avviene in' quella piegata.   Inoltre, si dice uno, in altro senso, ciò di cui il sostrato  non ha differenze specifiche. E non l’ha in quelle cose la cui  specie sia indivisibile alla sensazione. Tale sostrato è o quello  che si presenta per primo, o l’ultimo rispetto allo stato finale:  poichè e si dice uno il vino e una l’acqua in quanto indivisibili nella specie; e si dice uno di tutti i liquidi, come dell’olio, del vino, e di ogni cosa che possa liquefarsi, perchè il  sostrato ultimo di essi è lo stesso, essendo essi tutti acqua  o aria.   E l’unità si dice anche per quelle cose di cui unico è il  genere pur differenziato dalle opposte differenze: e tutte queste  si dice che sono una cosa sola, perchè unico è il genere che  fa da sostrato alle differenze (per es., cavallo, uomo, cane  hanno qualcosa d’uno, perchè tutti sono animali), e quasi  allo stesso modo come una è la materia (*). Talora, dunque,  l’uno si dice così di queste cose; tal’altra, quando sono le  specie infime del loro genere, si dice che sono una stessa  cosa rispetto al genere superiore: al genere, cioè, ch’è più  su del loro: così l’isoscele e l’equilatero sono la stessa e     La linea retta può roteare soltanto intorno a un punto, che resti immo bile; della spezzata, uscendo dal piano, anche una parte vera e propria (estesa)  può restar ferma.   V. par. prec.  Le linee 29-30 hanno un testo incerto, molto tormentato.  E da escludere che A. non conoscesse le regole elementari della logica ch'egli  ha insegnata alla scuola (alcuni commentatori moderni perdono, talora, questo  criterio elementare). Un senso corretto, dato il testo com'è, sembra questo: quando  si tratta delle specie infime (o generi prossimi all’individuo: cfr. III, 3, 5), la loro  unità (identità) vien riposta, nel comune modo di parlare, talora nel genere immediatamente superiore (uomo e cavallo hanno in comune l’animalità), talora in  quello ch'è più su (uomo, cavallo, cane, ecc. son tutti ugualmente esseri viventi):  così, dell'isoscele e dello scaleno diciamo che sono ugualmente figure, anzichò  triangoli.  unica figura, perchè triangoli ambedue, ma non gli stessi in  quanto triangoli.   Inoltre, uno si dice tutto ciò di cui il concetto che n’esprime  la pura essenza sia indivisibile rispetto (') a un altro esprimente del pari la pura essenza d’una cosa (chè per se stesso  ogni concetto è divisibile). Così, appunto, una cosa che aumenta o decresce è una, perchè uno è il suo concetto: come  uno è il concetto della specie per le superfici.   In generale, uno è soprattutto ciò la cui intellezione è  indivisibile, e la cui pura essenza si apprende con un atto  che non può esser separato nè quanto al tempo, nè quanto  al luogo, nè quanto al discorso (°): tali, soprattutto, sono  le sostanze. Ma, universalmente parlando, diconsi esser una  sola le cose che non ammettono divisione, in quanto non  l’ammettono: poniamo, uno è l’uomo, per le cose che non  ammettono divisione in quanto a uomo; uno l’animale, se non  l’ammettono in quanto ad animale; una la grandezza, se in  quanto a grandezza.   Dunque, la maggior parte delle cose si dicono une perchè  producono o hanno o patiscono o riguardano qualcos'altro  ch’è uno (*). Ma tali in senso primario diconsi quelle di cui        Il reds della |. 33 è generalmente inteso come « da »: si tratta, allora, di  due nozioni che o sono identiche perchè si riferiscono alla stessa cosa, o sono  specie dello stesso genere (quest’ultimo caso ripeterebbe quello «del par. prec.).  Credo giusta anche la mia interpretazione: diciamo uno un concetto (sebbene in  sè divisibile) per distinguerlo da un altro: e però, sia che la cosa aumenti o diminuisca, sia che il concetto ammetta diversità intrinseche (come le varie specie  di superfici), diciamo sempre ch'è lo stesso,    L'atto del voùg unifica il molteplice nell'unità della sostanza, la quale  è, così, indivisibile per il luogo (individui diversi), per il tempo (in cui differisce  uno stesso individuo); indefinibile, nel senso dell’analisi logico-discorsiva.  Se  alla I. 4 si conserva il ydg (ch’io ho sostituito col 8é del cod. E), allora il pensiero vien unito più strettamente al precedente, dove, infatti, io ho usato il singolare  invece del plurale per non indebolire il germe speculativo profondo ch'è in esso.  Ma qui si vede bene che A. guarda, oltre che alla cosa in sè, alle cose nella loro  molteplicità: due o più cose, per quanto diverse per altri rispetti, possono coincidere in un concetto specifico o generico, o per la figura. Se anche la 2» parte del par.  si volesse intendere nel senso della 1°, della cosa in sè, allora grandezza potrebbe  accennare, anzichè alla figura, al continuo: conforme alla distinzione nel par. seg.    « Plurima sunt, quae dicuntur unum, ex eo quod faciunt unum: sicut plures  homines dicuntur unum, ex hoc quod trahunt navem. Et etiam dicuntur aliquaà    1016 b    152 MBTAFISIOA    ‘una è la sostanza: e questa è una o per continuità, o per  specie, o per il concetto. Infatti, noi contiamo come più di  una le cose che o non sono continue, o di cui non è unica  la specie, o non è unico il concetto.   Inoltre, per un rispetto diciamo una ogni cosa che sia    continua per quantità, ma per un altro rispetto non la di  ciamo tale se non formi qualcosa d’intero: non abbia, cioè,  un’unica specie. Così, vedendo le parti di una calzatura,  comunque accozzate insieme, noi non diremmo che sono una  cosa sola, in ogni caso (se non sia per la continuità); sì bene  quando siano così disposte da essere una calzatura ed avere  giàuna qualche forma ('). Per ciò, anche, di tutte le linee  la più una è quella circolare, poichè intera e perfetta.   L'essenza dell’uno(*) è quella d’esser un principio del  numero. Poichè la prima misura è un principio: e ciò per  cui noi cominciamo a conoscere ciascun genere di cose,  quello è la misura prima di esso. L’uno è, dunque, principio del conoscibile per ogni genere di cose. Ma esso non  è lo stesso per tutti i generi: qui è il diesis(*), ll la vocale  o la consonante; e altra è l’unità per il peso, altra per il  movimento.    unum, ex eo quod unum patiuntur: sicut multi homines sunt unus populus, ex e0  quod ab uno rege reguntur. Quaedam vero dicuntur unum ex eo quod habent aliquid  unum, sicut multi possessores unius agri sunt unum in dominio eius. Quaedam  etiam dicuntur unum ex hoc quod sunt aliquid unum: sicut multi homines albi  dicuntur unum, quia quilibet eorum albus est» (S. Tom., 868).  Queste cose si  dicon une riferendosi 24 altro ch'è uno. Invece, la distinzione, che segue, riguarda  direttamente le cose per la continuità (4-6), per la specie (8), per il concetto logicamente considerato 0 nell'atto del vovs (9-10). Manca l'unità per la materia (7).  E il concetto è staccato dalla specie, con cui pure altre volte coincide (ma specie,  qui, equivale a genere reale, è però il concetto si avvicina più all’universale).    Nel concreto è, così, l’unità reale dei due punti di vista dell'unità: materiale (il continuo) e formale (il concetto).    Si passa alla pura essenza dell'uno: alla definizione del concetto puro  (diremmo noi). Cfr. lib. X. 1, 8 8 8., dove quanto segue, e gran parte di questo capitolo, è rielaborato con maggiore chiarezza.   (9) Il diesis è l'intervallo minimo in musica: cfr. X. 1, 11-12. Non si scordi  che, sebbene qui con qualche inconveniente, ho tradotto povés con unità, ch'è  per noi il termine aritmetico corrente. Il punto ha una @&éaw, si può localizzare. Ma in ogni caso l’uno è indivisibile o per la quantità o  per la specie. Ora, l’indivisibile nella quantità (e come quantità) si chiama unità, se è indivisibile in ogni verso e non    ha posto; ma se è indivisibile per ogni verso, e tuttavia ha.    un posto, si chiama punto; se divisibile in una sola dimensione, linea; se in due, superficie; se in tutte e tre, corpo  (quantitativamerite considerato). E all’inverso, ciò ch’è divisibile in due dimensioni, è superficie; in una sola, linea; ciò  che quantitativamente non è divisibile per nessun verso, punto  e unità: questa non ha posto, quello sì.   Inoltre, l’unità delle cose può essere o per il numero,  o per la specie, o per il genere, o per analogia: c’è unità  numerica dove la materia è unica, specifica quando unico è  il concetto, generica quando lo schema categorico è lo  stesso, analogica quando due cose stanno tra loro come  una cosa a un’altra. E i modi precedenti implicano sempre  quelli che vengon dopo: così, dove l’unità è numerica, è anche  specifica, ma dov’è specifica non sempre è numerica; e se è  specifica, è anche generica, ma, se è generica, non però è  anche specifica, sì analogica; ma se analogica, non è generica  sempre (').   È poi evidente che le cose si diranno molte in sensi Opposti a quelli dell’uno: o perchè non hanno continuità; o  perchè hanno una materia (sia la prima o l’ultima) che si  può dividere in varie specie; o perchè sono parecchi i concetti che ne esprimono la pura essenza (?).     Come bene osserva il Ross, questo paragrafo corrisponde ai $$ 7-10, così come  i precedenti 13-14 a 4-6. Prima, infatti, A. ha distinti quelli che si possono chiamare i vari gradi di concretezza dell'unità dal punto di vista quantitativo; qui  egli distingue i vari gradi di concretezza dell'unità dal punto di vista qualitativo.  L'unità numerica, infatti, è qui quella dell’ individuo del tutto determinato, il quale  implica in sè tutte le altre specie di unità. La più astratta di queste è l’analogica,  la quale non è sempre generica, perchè può essere tra generi diversi.  Lo schema  categorico: nota qui il termine categoria usato come equivalente a genere (le categorle, infatti, sono come i generi sommi dei predicati).    La distinzione è in corrispondenza è quella dell’unità essenziale delle  cose. Essere (') si dice di una cosa o per accidente, o in sè.    1    Per accidente (*): se diciamo, per es., che «il giusto è 2    musico », 0 che « l’uomo è musico», oche « îl musico è uomo »;  in senso simile a quello in cui si direbbe che il musico costruisce una casa, perchè a chi la costruisce accade d’esser  musico, o al musico di esser un costruttore. Dire, infatti,  », «l’intera acqua», salvo che per  traslato. E per il plurale di tutto (*), quando delle cose con- 6  siderate come unità si dice tutto, di esse si dice tutte considerandole come divise: « tutto questo numero », «tutte  queste unità ».    LI    CapitoLo XXVII.    Mutilato (*) non si dice in tutti i casi d’una cosa fornita 1  di quantità: dev'essere e divisibile e un intero. Infatti, non  diciamo d’aver mutilato il due, se gli togliamo una delle due  unità (la parte mutilata nom può esser mai uguale alla rimanente), nè diciamo così in generale per nessun numero.  Bisogna che la sostanza rimanga: se si tratta di una coppa,  dev’essere ancora coppa. Invece, il numero non è più lo  Stesso. E non hasta neppure che una cosa sia composta di  parti dissimili, poichè il numero può avere anch’esso parti  dissimili: il due e il tre, per es. (‘). Anzi, in generale, delle  cose per le quali la situazione delle parti è indifferente, come  per l’acqua o il fuoco, nessuna può esser mutilata: per esser  tali, bisogna che le parti abbiano una situazione sostanziale.  Inoltre, che sian continue: chè l’armonia consta, bensì, di  parti dissimili, le quali hanno una ior situazione, ma non  perciò può venir mutilata. E neppur tutte le cose intere di- 2 La figura in cera.    aévra. Qui l'unità è totalità come somma.   (9) xo4ofiév: il concetto, qui, è quello che noi opponiamo all’#Xov inteso  come «integrità », specialmente di un organismo.    Il due e il tre, nel cinque (== 2-|--3, oppure 3-+-2).    LS)    VI    LIBRO QUINTO 183    ventan mutilate col privarle di una qualunque parte. Bisogna  che questa parte non sia la principale per la sostanza (');  nè è indifferente chesi prenda di qua o di Jà: per es., se  la coppa ha un buco, non perciò si dice mutilata, ma se si  asporta il manico o un pezzetto dell’orlo. Nè si dice mutilato  un uomo se gli si levi un po’ di carne o la milza, ma un’estremità; e neppure una qualunque, bensì una che asportata per  intero non cresce più: perciò i calvi non si chiamano mutilati. Genere si dice, in un senso, se sia continua la generazione  di esseri aventi la stessa specie: diciamo, ad es., « finchè  duri il genere umano », per dire «finchè continui la generazione degli uomini». In un altro, è quello di una gente  venuta all'essere da un lor primo genitore: e così si parla  del genere degli Elleni e degli Ioni, perchè quelli vengono  dal progenitore Elleno, questi da Ione. E i discendenti prendon nome piuttosto dal genitore, che dalla materia (?): benchè  prendan nome anche dalla femmina, per es. quei di Pirra.  Genere, inoltre, è come il piano per le figure piane, il solido  per le solide: poichè ogni figura è un piano di questa specie,  un solido di questa specie. Genere è qui il sostrato delle differenze. Inoltre, genere è il primo elemento costitutivo del  concetto, che si enuncia nell’essenza (*), di cui chiamansi  differenze le qualità. Genere, dunque, è usato in tutti questi  sensi: per la generazione continua di esseri della stessa specie;  per il principio generatore di esseri somiglianti; in un senso  affine alla materia (‘): poichè ciò di cui son proprie la dif      Come la testa per un animale.    Dalla materia (cfr. VIII. 4, 4), la quale è fornita, nella generazione,  dalla femmina.    Nella definizione.    In un senso affine alla materia è il genere inteso come sostrato delle  qualità specifiche differenziali (reale e concettuale: solito passaggio dall'oggetto  al pensiero, e viceversa: di qui l’unificazione dei sensi dati in 3 e 4: ferenza e la qualità, è appunto quel sostrato che chiamiamo  materia.   Diverse di genere sidicono quelle cose di cui diverso è  il sostrato primo ('), e l'una non si risolve nell’altra, nè  tutte due nello stesso (la forma, ad es., e la materia sono  diverse per il genere); e quelle di cui si parla secondo una  diversa figura delle categorie dell’essere (le une significano  l'essenza delle cose, altre una qualità, altre come s’è distinto dianzi): chè neanche queste si risolvono le une nelle  altre, nè in qualcosa di unico. Il «falso » dicesi, in un modo, come cosa che è falsa (*);  e questo o perchè la cosa non risulta così composta, o perchè  è impossibile che si componga così: per es., se si dica che     Sostrato primo è quello immediato, se si pensa, ad cs., a ciò che può  liquefarsi (acqua), e a ciò che ha un sostrato solido (terra). Ma l’interpretazione  non è sicura.  Nello stesso: può esser inteso come «cosa» o come «concetto »:  nel 1° senso riguarda i! sostrato, e chiarisce quel che precede; nel 2° chiarisce  la parentesi, e quel che segue ‘i diversi significati, o concetti, dell'essere nelle  categorie).  S'è distinto dianzi: cap. 7, 4. ;    Per A., altrove, vero e falso son nel pensiero, non nelle cose; e il pensiero  è che unisce e divide (distingue) i concetti giudicando (affermando o negando la  convenienza del predicato al soggetto): cfr. VI. 4, 3-4: IX. 10, 1 s8.  L'ordine  de' pensieri in proposito sembra dover esser questo. A. parte da un realismo  ingenuo, ch'è anche un ingenuo idealismo: realtà e pensiero si condizionano  reciprocamente, identificandosi e distinguendosi insieme, come segue: ca) Si  comincia col porre il pensiero nelle cose, e si parla di cose vere e di cose  false. Una prima riflessione avverte che il vero e falso è nel pensiero, non nelle  cose, e distingue perciò il pensiero dalle cose. Queste, allora, al sicuro da quel  pensiero che può esser falso oltre che vero, restano con una loro realtà ch'è  insieme la loro verità (eterna e immutabile nella pura essenza, contingente per  quel che di questa si traduce nella realtà in movimento). b) Il pensiero è vero 0  falso secondo che riflette in sè la realtà, o meno, delle cose. Ma nna prima riflessione avverte che non sono le cose a determinare la verità o falsità del pensiero:  poichè tanto dell’essere quanto del non-essere si può pensare il vero e il falso  (IV. 7, 2). Vero e falso sono, allora, caratteri del pensiero in sè e per sè: vero è  il pensiero ch'è coerente con se stesso, falso il pensiero incoerente. Un cerchio è  cerchio, nel mio pensiero che lo definisce, in quanto lo distinguo dal triangolo:  confonder questo con quello è contraddire a quanto e’è definito.Ma, poichè il    \i    LIBRO QUINTO 185    la diagonale è commensurabile, o che tu stai seduto: di  queste due, l’una è sempre falsa, l’altra talvolta. Dette così,  queste cose non esistono. In altri casi, esistono bensi le cose,  ma di tal natura da apparire o quali non sono, o quali non  esistono: la prospettiva dipinta, ad es., e i sogni: cose, queste,  che hanno bensì una loro realtà, ma non quella di cui producono in noi l’immagine. Le cose, dunque, si dicono false,  in questo modo: o perchè non esistono, o perchè l’immagine  che producono è di cosa che non esiste. ‘  Un concetto falso è quello che, in quanto falso, è di cose  che non sono. Perchè ogni concetto è falso se riferito a cosa  diversa da quella di cui è vero: per es., il concetto del cerchio è falso del triangolo. In un senso, c’è un concetto unico  di ogni cosa, quello della pura essenza; in un altro i concetti  sono molti, poichè la cosa da sè e la cosa con un’affezione  è in certo modo la stessa cosa: per es., Socrate e Socrate  musico ('). Il concetto falso, assolutamente parlando, è concetto di nulla. Perciò era abbastanza sciocca l’opinione di  Antistene che di nulla si possa parlare salvo che col suo  proprio concetto, unico per un’unica cosa: donde seguiva  che non è possibile contraddire, e quasi neppure dir il falso.    pensiero è per se stesso coerenza e logicità, esso, in Sè e per sè, è sempre vero:  d’una verità eterna, immutabile, come quella della pura essenza (indivisibile), e  insieme discorsiva, per quel che di essa si traduce nel processo del conoscere  e del sapere (nella logica dei concetti). Questo è il rapporto tra il n0vs (sempre  vero) e la dianoia (vera o falsa): tra il concetto nella sun pura unità e intrinseca intelligibilità, e il concetto che si esplica nella molteplicità dei concetti  e delle opinioni. c) Il pensiero falso è un non-pensiero in rapporto a quel pensiero ch'è sempre vero. E tuttavia esso ha, e deve avere, una sua realtà, in  quel pensiero che in tanto può affermare il vero in quanto c'è il falso da negare.  Donde, allora, la realtà di questo pensiero-falso ? Donde questa decadenza del  pensiero nel falso? Pare che la soluzione debba trovarsi in qualcosa di estraneo  e tuttavia legato al pensiero: nella volontà dell’:como. Il Sofista rappresenta questo  difetto del pensiero ch'è anche un difetto morale (l'ambizione, il guadagno, ece.:  efr. «il tenore di vita» in IV. 2, 14).  La vicinanza al pensiero platonico è evidente: specialmente con le indagini del Teeteto e del Sofista.    La cosa nell’unità colta dal nous, e la cosa nella molteplicità delle sue  categorie (dianoia).  L'opinione di Antistene, con quell’unità-identità del concetto-nome, era ben lontana dalla dottrine su esposta di A.: essa rendeva impos‘ sibile la logica dianoetica, e riduceva quella noetica a mero nominalismo.    1025 a    186 METAFISICA    Invece, di ciascuna cosa si può parlare non soltanto col conceito di essa, ma anche con quello di altra: anche del tutto  falsamente, senza dubbio, ma anche in modo conforme a  verità: l’otto, poniamo, dico ch’è doppio perchè ho il concetto  del due.   Queste cose, dunque, si dicono false così. Falso, poi, si  dice un uomo che abbia abilità e predilezione per simili discorsi per nessun'altra ragione che per discorrere così; e chi  è capace di produrli in altri, a quel modo che diciamo false  anche le cose che producono in noi immagini false. Perciò  nell’ Ippia (') quel ragionamento, che vuol] provare come uno  stesso uomo è falso e vero, conduce fuori di strada: perchè  dà come falso chi ha la capacità di dir il falso, ch’è, poi,  colui che sa ed è sapiente; e aggiunge ch’è migliore chi è  cattivo volontariamente. Questa è la conseguenza di una falsa  induzione: chi zoppica volontariamente è migliore di chi  zoppica per forza: intendendo per zoppicare l’imitare lo zoppo;  ma se uno fosse zoppo volontariamente, egli sarebbe forse  peggiore, qui, come in cose riguardanti il costume.    CapitoLo XXX.    Accidente (?) significa ciò che appartiene a qualcosa e  può esser detto con verità, ma non necessariamente, nè per lo  più: come se uno scavando un fosso per una pianta trovasse  un tesoro. Questo, di trovare un tesoro, è davvero un accidente per chi scava un fosso: non è una cosa che consegua  necessariamente dall’altra o dopo l’altra, nè chi pianta un  albero trova per lo più un tesoro. E chi ha l’abilità di suonare può esser bianco, ma poichè ciò non avviene di necessità, nè per lo più, diciamo ch’è un accidente. Di maniera     Ippia minore, 365 ss. Platone erra, dunque: @) non distinguendo la potenza dall'atto di mentire; è) reputando migliore chi erra volontariamente. Per  quest'ultimo punto, cfr. Eth. Nic. che, poichè si danno tali appartenenze, e appartengono a  qualcosa, e alcune di esse solo in certi luoghi e tempi, sarà  un accidente ciò che appartiene, bensì, a qualcosa, ma non  perchè è questa tal cosa, ed è qui e ora('). Dell’accidente  non c’è nessuna causa determinata, ma è a caso, e questo  è indeterminato. È accaduto a qualcuno di arrivare ad Egina,  il quale non era partito per arrivare colà, ma cacciato dalla  tempesta o preso dai corsari. L’accidente avvenne, di certo,  e realmente, ma non per causa di se stesso, bensì in causa  di altro: perchè la tempesta fu causa che quegli arrivasse  dove non era diretto, cioè ad Egina.   Accidente, poi, dicesi anche in altro modo: di tutte quelle  proprietà, ad es., che sono di una cosa per se stessa considerata, ma non appartengono alla sua sostanza (*): per  esempio, appartiene al triangolo di avere gli angoli uguali a  due retti. Questi accidenti posson essere eterni; di quegli  altri, invece, nessuno: abbiam parlato di ciò altrove.     Ed è qui e ora: come l’appartenere a qualcosa non individua la sostanza  di questa tal cosa, così l’appartenere in certi luoghi e tempi non dà ragione dell'attualità di essa.    Alla sua sostanza, o definizione: per es., del triangolo: sebbene ne derivino. È compito della scienza, infatti, dimostrare, poi, le proprietà (accidentali, ma in entrambi i sensi: tà aédn xal tà xa” autà cvpfefinxéta) del proprio  oggetto di studio: cfr. Anal. Post., I. 1. 75b, 1.  Abbiam parlato di ciò altrove:  pare riferirsi ad Anal. Post. Quel che qui si cerca sono i principii e le cause degli  esseri: s'intende, in quanto sono. Poichè c’è pure una causa  della salute e del benessere, e anche le entità matematiche  hanno principii, elementi e cause: in generale, anzi, ogni  scienza di ragionamento, o che del ragionamento si serva  almeno in parte('), versa intorno alle cause e ai principii,  pur con più o meno di esattezza e semplicità (?). Ma tutte  queste scienze son circoscritte a un ente e genere particolare, e di esso soltanto trattano, nè fan nessuna parola di  ciò che è l’essere semplicemente: nè di ciò che è l’ente in  quanto tale, nè dell'essenza. Invece, le une dichiarando il  loro oggetto per mezzo del senso, e le altre (*) stabilendone  per mezzo di ipotesi la definizione, dimostrano, più o meno  debolmente, più o meno rigorosamente, le proprietà del genere preso in considerazione. È dunque evidente che da un     « Videtur A. ambitum scientiae latius extendere voluisse, ut ne eae quidem  doctrinae excludantur, quae ab usu et experientia magis quam a cognitione et  notione suspensae sint»: Bonitz (p. 280).    Esattezza e semplicità corrispondono al «rigorosamente » e « debolmente »  del paragrafo seguente. «Semplicità», qui, vale « mancanza di approfondimento e di  distinzione » (le cose così come si presentano immediatamente): cfr. I. 5, 22. Poco  dopo, « semplicemente » vale, invece, « assolutamente ».   (9) Le une... le altre: le fisiche e le matematiche.tal metodo induttivo (') non si può aver dimostrazione nè  della sostanza nè dell’essenza, ma per esse ha da esserci  un’altra specie di conoscenza che le chiarisca. Per la stessa  ragione non dicon nulla se il genere preso a trattare esiste  o non esiste: poichè appartiene alla stessa facoltà del pensiero il mettere in chiaro tanto l’essenza quanto l’esistenza (°).   Ma in quanto anche la scienza fisica (°) versa intorno a  un genere dell’essere (la sostanza ch’essa studia è quella  che ha in sè il principio del movimento e dell’inerzia), è  chiaro ch’essa non riguarda nè l’agire nè il produrre (‘).     La frase pare interpolata al Christ. Il riferimento par che sia Alle scienze  fisiche, come quelle che trattano della sostanza ed essenza reale, assumendola  nella materia sensibile. Di essa non posson dare dimostrazione, appunto perchè  agegunta per principio (dàuno dimostrazione delle qualità e proprietà dell’oggetto). Il Metafisico, neanche lui, dimostra nel senso della dimostrazione, che  parte da principii per arrivare a certe conchiusioni. Essa, infatti, è la scienza dei  principii stessi, 6 però anapodittica: non nel senso dogmatico, ma in quanto si  serve «di un'altra specie di conoscenza », che « chiarisce » speculativamente quei  principii riconducendoli ai principii primi, anzi al principio primo, ch’è l’essere  în quanto essere.   Principii primi sono le quattro cause, discusse nel lib. I; ovvero, materia e  forma, potenza e atto, che verranno studiati nei libri VII-IX, e ricondotti a quello  della forma, o dell’atto (in sè e per sè: all’atto puro, come principio trascendente,  nel lib. XII). Ovvero, le categorie e gli altri concetti fondamentali întorno all’essere, esposti nel lib. V., Principii primi sono anche, per il pensiero discorsivo,  gli assiomi, di cui il primo è quello di non-contraddizione, come si vide nel  lib, IV. Dal punto di vista gnoseologico, principii primi sono il singolare e gli  universali, e la loro fonte è il voùs (come principio anche dell’ato&mors: cfr. note  al. 1,409, 34)    Nell'’ordine della scienza empirica A. distingue la conoscenza dell'&, da  quella del &uéti, facendo poi coincidere con quest’ultima quella del tL èotw:  efr. Anal. Post., II. 1. 89Db, 24; 2. 90 a, 14 (e qui stesso al lib. I. 1, 11). Non si dia,  tuttavia, un senso troppo moderno alla distinzione (di un contrasto tra pensiero  ed esistenza reale delle cose): l’esistenza implica già l'essenza, come il singolare  l’universale, nell'atto della percezione (immediata); e l’essenza, se non vuol esser  un xowév, si traduce nell'esistenza (immediatamente): la pura 6ssenzea è sempre  un tébde tr. Nell’8v fi 6v, poi, essenza ed esistenza s’identificano (perchè la sua  universalità è anche necessità).    Anche di qui si vede l'interesse maggiore che A. ha per la fisica, più che  per la matematica: il confine, in fatti, tra alcune sue trattazioni di fisica e altre  di metafisica non è sempre chiaro.    L'agire... il produrre: v. la differenza in Eth. Nic., VI. 4; e nota a I.1,16.  In entrambi, tuttavia, il principio è in noi (per la produzione: o l'intelligenza,  il pensiero razionale, o questo unito a un certo abito o potenza naturale; per  l’azione è l’Seskw, che congiunta con la ragione si fa agoalpsois: cfr. Eth. Nic.,    LIBRO SESTO 191    Poichè il principio della produzione è in chi produce: o l’intelligenza, o l’arte, o altra potenza; il principio dell’azione  è in chi agisce, ed è il proponimento (potendosi tradurre in  azione soltanto ciò che ci si può proporre). Per cui, se ogni  ragionamento è fatto o per l’agire o per il produrre, ovvero  riguarda la pura speculazione, la Fisica sarà una scienza  speculativa, ma speculativa di un essere tale che ha la potenza di muoversi, e della sostanza tratta soltanto secondo  nozioni che valgono per lo più, non separata dalla materia (').,  Si badi di non ignorare il modo di essere della pura essenza  e del concetto, perchè, senza di ciò, è tempo perso ogni ricerca. Delle definizioni e delle essenze alcune sono come  quella di « camuso » (?), altre come quella di « curvo », i quali  differiscono in questo, che in camuso è compresa sempre la  materia (camuso diciamo un naso che ha una certa curva),  la curvità, invece, è compresa senza materia sensibile. Se,  quindi, tutti gli oggetti della fisica s'intendono similmente  a camuso (ad es., naso occhio fisionomia carne osso, animale  in somma; ovvero, foglia radice scorza, pianta in somma: tutte  cose in cui non si può prescindere dal movimento, anzi neppure  sono mai senza materia)  è già con ciò chiarito il modo in  cui il fisico deve ricercare e definire l’essenza delle cose; e  perchè sia ufficio suo lo speculare anche intorno a un genere di anima, a quello che non esiste senza la materia (*).   Che dunque la fisica sia una scienza speculativa, è evidente. Ma scienza speculativa è anche la matematica: se i       III. 3); laddove il principio del movimento studiato dalla fisica è nella sostanza  naturale delle cose.  Alle Il. 22 e 23 è opportuna la correzione proposta dal  Bonitz, attuata dal Ross, di rountov e rgaxtov invece di romtimov e reaxtiNbv.    Il «per lo più» è proprio delle cose fornite di materia, come si dirà fra  poco; e «ogni scienza è o di ciò ch'è sempre o di ciò ch'è per lo più» (2, 12).  Mapotengo, dunque, la mia interpretazione (Bonitz, seguendo Aless.: « tratta della  sostanza per lo più come forma piuttosto che come materia, solo che non come  forma che possa esistere separata dalla materia»; Ross: «tratta della sostanza  nel senso della forma per lo più unicamente come inseparabile dalla materia»).    Camuso: v. VII. 5.  Senza materia sensibile: i. e. con materia soltanto  intelligibile (6. vonti: qui, l'estensione pura).    Non esiste senza materia l’anima, salvo il vovs, che non ha nessun organo  corporeo (De An., suoi oggetti siano immobili ed abbiano esistenza separata,  non abbiamo tuttavia ancora chiarito ('). Per ora si può ammettere come chiaro questo, che alcune delle scienze matematiche considerano i loro oggetti in quanto immobili e separabili. Ma se qualcosa esiste di eterno immobile e separato,  non è dubbio che la conoscenza di esso appartiene a una  scienza speculativa, la quale non sarà certamente la fisica  (che riguarda soltanto alcune cose mobili), e neppure la matematica, ma una scienza superiore ad entrambe. Infatti la  fisica studia ciò che esiste separatamente , ma non è immobile; delle matematiche alcune studiano, invece, ciò che è  immobile, ma non separato in fine perchè esiste nella materia. Soltanto la scienza che è prima studia ciò che è separato e immobile. E se tutte le cause sono necessariamente  eterne (*), queste lo saranno soprattutto, perchè esse sono  causa di quelli tra gli enti divini che risplendono nel cielo.   Le scienze filosofico-speculative son dunque tre: la matematica, la fisica, la teologia (‘). Non è dubbio che, se il  divino esiste, esso si trova in una natura quale s’è detta  dianzi, e la scienza onorevolissima deve esser questa che ha     V.libri XIII e XIV, e per quel che segue, quanto alla matematica, XIII. 2-4.  Le matematiche pure studiano oggetti immobili: ricorda in III. 2, 18, dove tra  le scienze matematiche vengon citate l'astronomia, l'ottica e l’armonica (che son  più vicine alla fisica); e per la distinzione e gerarchia delle varie scienze matematiche, v. IV. 2, 7 (la metafisica sta alla fisica come la matematica pura a  quella applicata).    La fisica studia ciò che esiste separatamente, odolar, delle quali mostra  (dimostra) le qualità e proprietà (queste, invece, non esistono separatamente: i. @.,  non hanno una propria esistenza). Alla |. 14 i codici dànno aybguota (e allora:  la fisica studia «ciò che non esiste separato », i. e. la forma nella materia, ece.);  la correzione, in ywguotd, proposta dallo Schwegler e accettata dal Christ, dù  maggior simmetria al rapporto tra fisica matematica e teologia.  Non si scordi  che yxwguotév è una forma comune a due concetti per noi molto diversi: il separabile e il separato.    Intendi, le cause prime, i principii in generale, reali o ideali: queste (Dio  e le Intelligenze motrici) sono cause reali, e però eterne a muggior diritto ancora dei cieli (che son cause seconde) pur eterni.    Su le ragioni del nome (già in Platone, Rep., II, 379 a) e su la superiorità  della filosofia, cfr. anche I. 2. Se il divino esiste: il tono è, ovviamente, tutt'altro che dubitativo.    LIBRO SESTO 193    l’oggetto più onorevole. E come le scienze speculative son  da preferire alle altre scienze, così questa tra le speculative.   Qualcuno potrebbe domandare se la « filosofia prima» è  universale, ovvero se versa intorno a un genere determinato  e a un’unica natura di esseri (‘).        Dicemmo (in nota a IV. 1, 1) che dell’essere in quanto essere, oggetto  della metafisica, si danno in A. due significati principali: l’uno in riguardo piuttosto alla realtà delle coso che sono oggetto del pensiéro, l’altro in riguardo  piuttosto al pensiero che le pensa.   Per il primo rispetto, studiare l'essere in quanto essere, è studiare i principii  e cause prime ci tutto ciò ch’esiste, e in primo luogo quell’ Essere primo ch'è  indipendente dalla natura e sottratto a ogni forma del divenire. Onde la metafisica vien qui definita @e0%40yuxf) (6 6, e nel passo corrispondente del lib. XI. 7, 7);  e già nel lib, I. 2, 20 vedemmo dare a questa scienza il titolo di «divina», nel  duplice senso, ch'è iù degna di Dio, e ch’è del divino nel mondo. Di qui,  anche, veniva accennata la superiorità di essa alle altre scienze e conobcenze in  generale, le quali non arrivano a porsi in quella purezza, dignità e autonomia,  ch’ è propria del sapere filosofico.   In questo capitolo viene introdotta per la prima volta una distinzione netta tra  le scienze poietiche come le arti, quelle pratiche come l'etica, e quelle che sono  puramente teoretiche. La distinzione, mentre eleva le matematiche e fisiche al  novero delle scienze teoretiche, determina la differenza tra esse e la metafisica  più chiaramente in riguardo al genero de' loro oggetti. Dio è separato, esiste  indipendentemente dalla quos; e così anche le Intelligenze motrici: il divino  (si vedrà nel lib, XII) forma come un'altra « natura» o « usia ». La fisica studia  esseri che hanno un'esistenza propria, ma non sottratti al movimento; la matematica studia esseri immobili, considerati separatamente, ma per astrazione, in  realtà non esistenti separatamente. Soltanto la teologia studia esseri separati e  immobili: e la perfezione di questi è ciò che dà la superiorità della metafisica su  le altre scienze teoretiche.   Una riflessione, non più teologica e oggettiva nel senso or detto, sul principio  primo di tutti i principii, ma conforme al secondo modo di considerare l'oggetto  della metafisica, mira piuttosto al lato formale delle cose. Dio è pura forma;  ma anche le cose sono in se stesse quel che sono per la forma pura, indipendentemente dalla materia a cui questa è unita nel sinolo. Questa non è «separata »,  ma è bene «separabile», nel senso che, pur non esistendo separatamente (contro'  il platonismo, a cui la precedente affermazione può condurre), tuttavia il suo  essere, in sè e per sè, non dipende dalla materia (è la pura essenza, o intelligi-.  bilità pura, delle cose). Qui, la differenza tra la metafisica e le altre scienze gi  presenta in altro aspetto. La fisica studia, bensì, anch'essa, ciò ch'è separabile  (la forma), ma non fuori della materia, onde le sue nozioni non hanno vera universalità, perchè la materia, com'è causa della divisione dei generi nelle cose,  così impedisce che l’universale si realizzi nella sua assolutezza. La matematica,  poi, studia bensì le cose da un punto di vista formale; ma questo è il risultato  di un'astrazione posteriore alla realtà delle cose (XIII. 3), mentre l'astrazione  del metafisico vuol cogliere il medtegov concreto di esse (XIII. 2, 12), il loro a  priori puro (VII. 1, 4; 3, 10; 17, 8-10; VIII. 3, 3-4).   Di qui, anche: soltanto la metafisica studia l’essere &xA@g ($$ 1-2). Le fisiche Anche nelle scienze matematiche, infatti, c’ è diversità:  la geometria e l’astronomia studiano oggetti di una particolare natura, e c’ è una scienza matematica universale comune  a tutte. Se, dunque, non ci fosse nessun’altra sostanza fuori  di quelle formate dalla natura, la fisica sarebbe la prima di  tutte le scienze. Ma se c’è una sostanza immobile, essa sarà  superiore alle altre, e la scienza di essa sarà la prima filosofia, la quale, essendo la prima, è universale, in questo  senso. Essa avrà il compito di speculare intorno all'essere  in quanto essere: la sua essenza, cioè, e le determinazioni  che, in quanto essere, gli appartengono.    matematiche non hanno quest'assolutezza, perchò non considerano le cose per la  pura ossenza, ma quel che sono per la conoscenza sensibile (le fisiche), o per In  quantità soltanto (le matematiche), della quale formano concetti e definizioni  che hanno soltanto tale esistenza ipotetica: in entrambi i casi non trattano di  quel ch’ò il principio primo dell'esistenza di tutto ciò che dè. In conchiusione, s01tanto l'oggetto della metafisica ha veramente i caratteri dell’universalità e necessità: chò le altre scienze son circoscritte a un genere particolare di cose  (IV. 1), e di esso studiano gli accitlenti qualitativi o quantitativi, con quell'esattezza e profondità, maggiore o minore, ch'è possibile secondo i vari genori di  cose e de’ loro accidenti: assoluta, non mai.   Il teologismo della prima concezione è d'ispirazione schiettamente platonica:  la seconda è orientata verso un concetto dell'essere analogo a quello del trascendentale moderno, e, comunque, criticamente definito. Una terza concezione risulta  dall’ interferenza delle prime due: il principio formale della seconda si abbassa  al realismo della prima, e nello stesso tempo il realismo «i questa scopre nel  fondo stesso delle cose un principio ideale come in quella (ch'è ancora uno  sviluppo dell’ultimo Platone). La realtà più vera e profonda delle cose non è  quella corporea, di cui trattano le scienze fisiche e matematiche (0 come i Presocratici considerarono la natura); ma è la forma che si realizza nell'universo  in una molteplicità e gradualità di forme, o pure essenze. E sarà dell'oggetto  della metafisica come di quello delle altre scienze, per es. delle matematiche:  esso avrà parti, ordinate gerarchicamente in ragione della purezza, maggiore o  minore, che ha la forma ne’ vari gradi del suo svolgimento attraverso le cose  (efr. anche IV. 2, 4 e 7). Così è anche delle parti dell'anima, il cui sviluppo va  da quella più legata al corpo sino a quel Nous, ch'è principio e fine dell'essere  nella sua pura immaterialità e perfetta intelligibilità.   In quest'ultimo paragrafo A. sembra avvertire le difficoltà di tale interferenza:  l'oggetto della metafisica differisce da quello delle altre scienze perchò di un  genere diverso? Come, allora, la metafisica è una scienza universale? E il principio formate è unico 0 molteplice? Glì esseri non hanno un'unica natura. Ma,  Be è molteplice, non rischia, l'essere in quanto essere, di ridursi a un xowévy, 2  una mera astrazione? Per la soluzione di queste difficoltà, v. nota a VII. 11, 11.    ro    DI  Dell’essere semplicemente detto si parla in molti sensi.  Di questi uno si disse (') che era quello di accidente, un  altro quello di vero (e di falso, per il non-essere). Oltre di  questi, ci sono le forme o figure dell’essere come categoria:  ciò che è una cosa, quale, quanto, dove, quando, e se altri  significati ci sono, dell’essere in. questo modo. Non basta:  l'essere si dice anche o in potenza o in atto.   Dicendosi, dunque, in molti sensi, cominciamo da quello  di accidente, per mostrare che di esso non ci può essere  scienza. Già un indizio di ciò si ha nel fatto che nessuna  scienza, nè pratica nè poietica nè teoretica, si cura di esso.  Chi fabbrica una casa, non fa insieme nulla di ciò che alla  casa può accadere poi: gli accidenti sono infiniti: nulla vieta  che la casa fatta sia piacevole agli uni, incomoda per altri,  ad altri invece sia utile, ed abbia, insomma, quelle differenze  che ha ogni cosa nel mondo: ma niente di tutto ciò riguarda  l’arte di fabbricare. Parimenti, neanche il geometra studia  simili accidenti delle figure, nè se un triangolo è diverso  dall'altro, pur che la somma degli angoli sia di due retti (?).  Ed è giusto che così avvenga, perchè l’accidente è poco più  che un nome soltanto. Per ciò Platone (*) in certo modo non  a torto assegnò alla Sofistica per oggetto il non-essere: chè  i discorsi dei Sofisti quasi sempre, si può dire, versano intorno all’accidente. Ad es.: se sia la stessa cosa o diversa        Cfr. V. 7.    Due interpretazioni sono state date: 1) quella di Alessandro (alla quale  si avvicina la mia): il geometra non cura se il triangolo da lui definito, come  quella tal figura geometrica che ha gli angoli uguali a due retti, è lo stesso di  un triangolo di legno, di pietra, ecc.; 2) quella avanzata dallo Schwegler e  difesa dal Ross: il geometra non cura questioni, come quelle che fanno i Sofisti,  per es., se dir triangolo e dir triangolo di cui la somma degli angoli è uguale a  due retti sia lo stesso, o no (il Sofista, infatti, se si risponde di sì, sostituisce alla  prima parola la dicitura seguente, e così sempre, all'infinito). Questa seconda è  più fedele alla lettera del testo, la prima è più conforme al pensiero svolto nel  paragrafo.    Sofista, l'esser musico e grammatico; se Corisco e Corisco musico  siano lo stesso o no; ovvero sostengono che, dato che tutto  ciò che è, ma non è eterno, divenne, se uno essendo musico  divenne grammatico, si può dir anche che essendo grammatico divenne musico ('); e tutti gli altri discorsi di questo  genere, dai quali si vede bene che l’accidente è qualcosa di  molto vicino al non-essere.   E anche da considerazioni di questo generè: che delle  cose che sono in altro senso c’è il processo del nascere e  ‘ perire (7), ma di quelle che sono per accidente non c’è. Tuttavia convien parlarne ancora, fin dove si può, per mostrare  qual*è la natura sua, e quale la sua causa. Forse chiariremo  con questo anche perchè di esso non c’è scienza.   Degli esseri ce ne sono di quelli che sono sempre a un  modo e di necessità (non intendo della necessità per violenza (*), ma di quella che consiste nel non poter essere  altrimenti), «altri non sono di necessità, nè sempre a un modo,  ma soltanto per lo più. Di qui il principio, di qui la causa  dell’esistenza dell’accidente (*). Noi, infatti, chiamiamo accidente ciò che non è nè sempre nè per lo più: per es., se  al tempo della canicola faccia un freddo invernale, noi di   Il primo sofisma vuol porre l'identità insieme alla diversità dei due termini (in quanto uno è, o no, l’una e l’altra cosa insieme). Col secondo si tenta  il processo all’infinito (come per il triangolo, in nota prec.). Col terzo, facendo  prima sostantivo l’uno dei due termini e l’altro aggettivo, e viceversa; poi, confrontando, si trova che uno era già primayciò che doveva diventare (il musico è  grammatico, perchè lo divenne: il grammatico ora è musico, e lo è perchè divenne tale. ecc.).    La generazione, come processo del nascere e perire, riguarda la sostanza  propriamente, e l’accidente solo in quanto sia considerato tutt'uno con la sostanza (non per sè soltanto: considerato per sè, esso è come ciò ch’è casuale, e  A. infatti, unisce qui i due sigpificati come già in V. 30, 1-3). Ricorda Eth. Nic,,  II. 1: suonando si diventa suonatori, esercitandosi nel leggere e scrivere si diventa  «grammatici ».    Cfr. V. 5.    Quel che manca al per lo più per esser sempre a un modo è quel SuAetppa,  come dice Alessandro (451, 13), ch'è il casuale. Ovvero si dica che il fortuito  sparisce a misura che si scoprono tracce di ragione nelle cose, onde all'uguaglianza (logica, in astratto) di tutti i casi possibili si sostituisce, nel mondo  dell’esperienza, la probabilità, maggiore o minore, del per lo più. ciamo sì che questo può accadere, ma non lo diciamo già  se fa un caldo soffocante: chè, questo, avviene sempre o per  lo più, quello no. E che un uomo sia bianco può ben accadere  (chè tale non è sempre, nè per lo più), ma non intendiamo  che sia animale per accidente. E può anche accadere che  un architetto guarisca qualcuno, per accidente: chè questo  non è affare di architetto, ma di medico; eppure una volta  accadde che l’architetto fosse medico. Così, un cuoco, sebbene  il fine dell’arte sua sia il piacere, potrebbe scoprire qualcosa  che giovasse alla salute, ma non in virtù della culinaria. Noi  diciamo allora: accadde; per indicare che, in quanto ci fu  chi la fece, la cosa è possibile, ma non che dipendesse  assolutamente da lui ('). Di tutte le altre cose si riesce a  trovare, di quando in quando, la potenza di produrle, ma  dell’accidente non c’è arte o potenza determinata, perchè  di ciò che è o avviene accidentalmente, anche la causa è accidentale. Poichè, dunque,non tutte le cose sono o divengono  di necessità e sempre allo stesso modo, ma la maggior parte  avviene per lo più, ecco la necessità dell’accidente: ad es.,  nè sempre, nè per lo più, chi è bianco è anche musico, ma,  siccome talora accade, sarà per accidente. Se l’accidente  non ci fosse (?), tutto al mondo avverrebbe necessariamente.   Sarà dunque causa dell’accidente la materia, la quale è  quella che può essere altrimenti da come è per lo più .   E di qua bisogna cominciare:  non c’è forse qualcosa  che non è nè sempre, nè per lo più? Ovvero, ciò è impossibile? C'è, quindi, qualcosa oltre quel che è sempre o per lo  più, ed è ciò che capita purchessia e per accidente. Si potrebbe anche chiedere: forse, ciò che è per lo più esiste,  ma non l’eterno? Ovvero, esistono anche alcuni esseri eterni?  Di ciò si vedrà in sèguito; ma sin d’ora è chiaro che del   In quanto cuoco.    Se l'accidente non ci fosse, il «per lo più» diventerebbe un «sempre»,  e tutto sarebbe necessario. Ma, poichè ciò non è, ecco la necessità (di ammettere  l’esistenza) dell'accidente: come vuol provare, contro chi lo neghi, con l’interrogazione al $ 10.    La materia è principio e causa di tutto ciò ch’è indeterminato.    1027 a    198 METAFISICA    l’accidente non c’è scienza (‘'). Ogni scienza è o di ciò che  è sempre, o di ciò che è per lo più (°). Se no, come si potrebbe impararla o insegnarla? Bisogna bene, per definire  qualcosa, poter dire ciò che è o sempre o per lo più: poniamo, che l’ idromele giova, per lo più, a chi è febbricitante.  Ciò che è contro questa regola, neppure si avrà bisogno di  dirlo: se una volta  poniamo, al tempo della luna nuova   quel medicamento non ha giovato: poichè, per dirla (*), anche quella eccezione dovrebbe valere o sempre o per lo più.  L’accidente, invece, è contro tutte le regole.   S'è detto, dunque, che cosa è l’accidente, e per qual  causa, e che di esso non può esserci scienza.    » CapiToLO III.    Che ci siano fatti, di cui i principii e le cause appaiono  e scompaiono, sebbene non si possa dire che nascono e periscono (‘), è evidente. Se così non fosse, dovendo esserci una  causa non accidentale del nascere e del perire, tutto avverrebbe di necessità. Se si chiedesse, infatti: Avverrà o non     Il pensiero procede in questi paragrafi un po’ a sbalzi. Posto che non tutto è  sempre o per lo più, si dimostra cho c’è l'accidente (10). D'altronde, se si conceda che c’è l’accidente ce il per lo più, come negare l’esistenza di ciò ch'è  eterno, ch'è il vero oggetto della scienza?  Si vedrà in. séguito: efr. XII, 6-8.    Che ci sia scienza del per lo più, conferma anche in And/. Pr., I. 13. 32 D,  18, e in Anal, Post., I. 30. 87 b, 20; benchè la vera e propria scienza sia dell’universale e necessario (Anal, Post., I. 1. 71b, 15, e spesso altrove).  Idromele:  bevanda di miele e latte.    L'eccezione, dicendola, acquista la stessa regola di ciò ch'è sempre 0  per lo più. Così ho tentato di sciogliere la difficoltà del passo, che letteralmente  suona: « poichè o sempre o per lo più anche #/ [il dire? o il fatto che avviene?)  al tempo della luna nuova », Altra interpretazione: Se una volta non giovò, poco  conta: sta il fatto che in generale conta, anche al tempo della luna nuova (così  Bonitz, che sopprime il té). Il Ross dà un senso affine al mio: l’accidente anch'esso, veduto più profondamente, ha la sua legge (in fondo esso è un difetto  della nostra conoscenza, ma nella realtà, veramente, nulla è accidentale). Il Ross  unisce all'articolo l’idea del fatto, io quella del dire (questa mi par più semplice,  data la modestia dell'esempio).    Non si può dire che nascono o periscono, nel senso, veduto dianzi, di un  processo, di un passare graduale (dalla potenza all’atto, o dall’attività all’abito). avverrà un tal fatto?  si risponderebbe: Sì, se ne avviene un  altro; se no, no. E quest’altro, poi, avverrà, se altro ancora  avviene. E così è chiaro che, sottraendo sempre del tempo  da un tempo limitato, si arriverà al momento attuale. Ad  esempio, costui, se esce di casa, morrà di malattia, o di  morte violenta; ed uscirà di casa, se avrà sete; e avra sete,  se altro gli avviene; e così si arriverà a ciò che avviene attualmente, ovvero a qualcosa che è avvenuto in passato. Poniamo: egli uscirà, se avrà sete; e avrà sete, se mangia di  salato: questo, o avviene o non avviene; e costui, quindi,  morrà, o non morrà, necessariamente. Il discorso è lo stesso  se, con un salto nel passato, si comincia da un fatto avvenuto, perchè questo esiste già in un fatto presente. Per cui  tutte le cose future avverranno di necessità. Ad esempio:  chi vive, dovrà morire, perchè è già avvenuto questo, che    3 elementi contrari si trovano nello stesso corpo (').  Ma se     Bonghi (p. 367): «Il ragionamento di A. è molto semplice. Ogni processo  di atti, legati in qualità di causa ed effetto gli uni con gli altri, è necessario:  perciò, se non ci fossero atti tali che compariscono 0 scompariscono, senza che  la ragione del loro comparire e scomparire sia in un atto precedente, non ci  sarebbero ettetti casuali, o altrimenti, non ci sarebbero effetti se non necessari.  Adunque, perchè ci siano effetti casuali, bisogna che le cause che gli producono,  siano, operino, vengano meno senza processo «i sorta: non si generino però nè  si corrompano  cose le quali richiedono una serie di atti legati fra loro e indirizzati alla generazione o alla corruzione,  ma sorgavo e cessino in un attimo  ed indipendentemente dagli atti precedenti, successivi e contemporanei, tra’ quali  s’intramette l'opera loro. Tutti gli esempi che cita, servono a mostrare appunto    ‘ che, finchè si sta in un processo, un atto ha ragione nell'altro, e non s'esce dal    giro del necessario. Bisogna spezzarlo, per avere un principio d’un atto non necessario: ora, questo è appunto il principio del casuale. Il primo esempio è d’un  fatto avvenire rispetto al presente: col quale dimostra che, se dal fatto avvenire  si potesse di mano in mano e via via passare agli atti che lo precedono fino 4  un atto o fatto attuale, quel fatto avvenire non sarà nò men certo nè men necessario dell’attuale. Col secondo esempio applica il primo al passato, mostrando  che, come s'è ammesso che dall’avvenire si arriva al presente, così da questo  si risalirebbe al passato con altrettanta certezza e necessità: di maniera che in  un primo fatto già stato ci sarebbe il principio d'un’intera catena necessaria di  fatti avvenire. Ora, come per esperienza si vede che questo non è vero, codesta  catena non esiste: e la è interrotta di tratto in tratto da atti, i quali determinano quello che ci ha «li ancora indeterminato in un fatto, e fanno che se ne  origini piuttosto una tale che una tal’altra serie di fatti successivi».   Questo è, infatti, il senso più giusto di questo e del paragrafo seguente.   Elementi contrari: caldo-freddo, secco-umido.    1027 b    200 METAFISICA    egli morrà di malattia o di morte violenta, questo ancora  non è prestabilito, finchè non avvenga quel fatto determinato ('). È dunque chiaro che qui si va sino a un certo  principio, e da questo non si può rimontare ad altro. Ora,  questo appunto sarà il principio che spiega come un fatto  avvenne in un modo piuttosto che in un altro, e della causa  del suo accadere non c’è altra causa. Quel che più importante resterebbe a indagare è di quale specie sia la causa iniziale, a cui l’analisi del contingente ci ha ricondotto: se,  cioè, essa sia del tipo della causa materiale, o di quella finale,  o di quella efficiente (?).     Finchò non avvenga quel fatto determinato, ch'è un cominciamento assoluto, non riducibile a una serie di atti precedenti.    La materia, ha detto dianzi, è causa dell'accidente. Qui sì aggiunge che  la causa dell’accidente può esser considerata anche come attività motrice (causa  efficiente), e però in qualche modo anche finale (non formale: la forma è principio di determinazione). Non decide altro (Alessandro e Asclepio notano giustamente che la decisione dovrebb'essere in favore della causa efficiente).   Da vedere F. ‘Tocco, Il concetto del caso în A. (in Giorn. napoletano di filos.  e lett., 1877, vol. V). Pare al T. che la materia non basti a spiegare l’accidente.  © in vero, nelle rivoluzioni celesti, ad es., l’accidente non ha luogo. Intesa come  principio assolutamente indeterminato, la forma dovrebbe dominarla. Ma A. passa,  în questo concetto, dal punto di vista meramente logico a quello empirico, in cui  la materia è soltanto relativamente indeterminata, anzi essa è causa del determinarsi della forma: per es., ne’ vari generi del reale. Di qui la dottrina degli  attributi propri di ogni genere diyose, essenziali se riguardano la sostanza nella  sua formalità, veramente accidentali se la riguardano per la materia.   A. tratta, poi, l’accidente anche come il caso (cfr. nota a 2, 6). Dontle, per lui,  il caso? In lui predomina il concetto della causalità di tipo logico. Cfr. L. Ropin,  Sur la conception aristotélicienne de la causalité (in Archiv f. Gesch. d. Philos.,  XXIII, 1910, pp. 1 8gg.). Meglio: come un determinismo logico-teleologico (platonicumente): èv yào ti) GAy tò dvayzatov, vò d’od Evexa tv tO X6y0 (Phys., II  9, in princ.; e v, per l'argomento i capitoli molto importanti 4-6 di questo libro),  Qui, tò avayxatov è il contrario di quel determinismo. Il Greco tende alla perfetta razionalità della natura, ma è costretto a riconoscere un fondo irrazionale  dappertutto in essa, analogo al fato per lo vicende umane. Anche in queste ha  luogo il caso, e si chiama fortuna (von): « La fortuna è la causa per accidente  di fatti suscettibili d'esser fini, quando questi riguardano la volontà » (Phys., II.  5. 197 a 5). Prescindendo dall’u)ltima clansola, la definizione vale per ogni avvenimento accidentale: casuale è un fatto che può rientrare nel determinismo  logico-teleologico, ma non vien prodotto secondo questo. Cfr. VII. 7, 5; XI. 8, 8-9,   D'altra parte, il suo empirismo lo porta a un concetto della causalità di tipo  materiale-efficiente, che esige la contingenza dei fatti, l'accadere come originalità del particolare. Perciò, dopo aver detto che l’accidente è poco più di un Si lasci ora da parte l’essere per accidente: ne abbiamo  discorso abbastanza. Quanto all’essere nel senso del vero e  al non-essere nel senso del falso, essi riguardano la connessione e la divisione delle nozioni, e l'unione di entrambi consiste nel rapporto delle parti della contradizione ('). Vero è  l’affermare ciò che è realmente unito, e negare ciò ch’ è realmente diviso; falso, invece, è affermare o negare la parte  contradittoria. Come poi avvenga che s’intenda unito o diviso, è un’altra questione: voglio dire, come avvenga che  nell’ intendere le nozioni non si seguono, unite o separate,  come in serie, ma formano un’unità. Vero e falso, infatti,  non esistono nelle cose (come se il bene fosse vero, il male  fosse senz’altro falso), ma nel pensiero: anzi, neppure in  questo, per quel che riguarda le unità semplici e le essenze (?).    nome, quasi un non-essere, si aftretta a difendere la necessità di ammetterlo.  (Non è nel carattere di questa filosofia addebitare il caso alla nostra ignoranza).  La natura, infatti, ha per A. una sua spontaneità (tò adtéparov), analoga all'6petwy  nelle azioni umanc. Di qui il cominciamento assoluto di certe serie di avvenimenti. Credo meglio rifarsi di qui, che dall’interferire di processi causali diversi,  como fa il Bonghi nel passo cit. (v. anche a p. 371). Come, infatti, A. accenna  anche al principio del 'cap. 3, ci sono in natura cause che appaiono e scompaiono senza processo, (Ricorda che neanche dei punti, piani, ecc., nò degli istanti  nel tempo, c'è generazione: III 5, 10-11; nè delle sensazioni, secondo il De sensu,  446 b, 4; o che ancbe le anime degli animali possono esistere o non esistere senza  processo di nascita-corruzione, come si dice in Phys., VIII. 6. 258 Db, 17; ma così  anche per l’esistenza delle forme o pure essenze in generale: v. VII. 8, 3 nota;  VIII. 5, 1).    Cfr. IV. 7, 1-2 e 4. Vero e falso riguardano entrambi l’essere e il nonessere; ma qui l’essere e il non-essere si prendono nel senso del vero e del falso  (dell'esser-vero e del non-esser-vero). A lor volta, vero e falso son presi come  affermazione e negazione nell’unità del giudizio disgiuntivo che pone la contraddizione, sì che, se una parte di essa è vera, l’altra è falsa, e viceversa (non si  di mezzo).    De interpr., 1. 16a. 12: « Nella composizione e nella divisione consiste il  falso e il vero. Invece, i nomi per se stessi e i verbi valgono la nozione senza  composizione e divisione: come dicendo l’uomo o il bianco, quando non vi si aggiunga altro: chè non è vero o falso in nessun modo. E prova ne è questo: che Tutto ciò, dunque, che intorno all'essere e al non-essere, 4  intesi come vero e falso, si può considerare, sarà da vedere  più innanzi ('). Poichè, consistendo la connessione o la divisione nel pensiero e non nelle cose, v’ha differenza tra  l'essere così pensato e l’essere fondamentale delle cose (?).  (Il pensiero infatti annoda o divide l’essenza, la qualità, la  quantità, o altro modo dell’essere). Mettiamo, dunque, da  parte l’essere nel senso di accidente e l’essere nel senso del  vero: la causa di quello è indeterminabile, e la causa di que 1028 a Sto è nella costituzione peculiare del pensiero, ed entrambi  riguardano l’essere nell’altro senso da quello che più importa,    i    anche l'ircocervo significa pur qualcosa, ma non punto nò vera nò falsa, se non  vi sì uggiunge che esiste o non esiste, o semplicemente o in un tempo ».   Le nozioni (vofpata), 0 concetti considerati soltanto nel pensiero, riguardano  una o l’altra catezoria dell'essere. Nel giudizio, il soggetto è il nome (il sostantivo), l'attributo affermato o negato è il predicato (il verbo). Anche l’esistenza  è una nozione che fa da prodicato (esiste). Ma, poi, A. considera l'è ancho come  copula semplicemente, che sta a indicare soltanto la composizione delle nozioni  fatta dal pensiero: «l'essere, per sè, non è niente: significa una qualche sintesi,  la quale non si può intendere souza i componenti» (De interpr., 3. 16 Db, 24). La  composizione (ouvdeois, 0 cvuurdioxi, connessione) può, infatti, aver luogo senza  che il discorso affermi o neghi, propriamente: « Tutti i discorsi sono significativi,  ma assertivi non tutti, sì quelli in cui ha luogo l’esser nel vero o nel falso. Non  in tutti ha luogo: la preghiera, ad es., è un discorso sì, ma non dice nè vero uè  falso. La loro considerazione è più propria della retorica e della poetica» (De iaterpr.,4.17 a, 1). L'asserzione (&népavors) si distingue, poi, in xetdpaas e àrdpaars,  affermazione e negazione. Essa riguarda l’attività del pansiero discorsivo (dfvora),  che può esser vero o falso; laddove l’atto del vovg (l’intendere, il voeîv pr. d.)  coglie (intuisce) sempre la verità, la pura essenza delle cose, la quale è anche  l'unità del loro essere, che il pensiero (discorsivo) distinguo e separa nelle varie  forine categoriche: « L’intelleziono degl’indivisibili è di cose riguardo alle quali  non c'è errore, Dove, invece, ha luogo il vero e il falso, c'è già una certa conposizione di nozioni. La falsità, infatti, nasca sempre nella composizione. Ma ciò  che fa l’unità di ciascuna cosa è l’intelletto » (De An., III. 6. 430 a, 26). E l'atto  del percepire è come quello dell’intendere: «Come il vedere è vero rispetto al  suo oggetto proprio (mentre il vedere se il bianco sia un uomo, o meno, non è  sempre vero), così pure accade per le cose senza materia [come le pure essenze)»  (ivi, 430 b, 28). Cfr. quanto citammo per l'atto del percepire a IV. 5, 19 68.    Cfr. IX. 10, dove la questione è ripresa più ampiamente.    [td] 6v tOv xvolog: l'essere in quanto essere, in sè e per sè, ch'è l’oggetto proprio della inetafisica. L’esser-vero e l’esser-falso riguarda, invece, la  logica (a questa, quindi, nou appartiene, propriamente, l’atto del voùsg, l’intellezione «dei principii, della pura essenza e dell’esistenza: cfr. dianzi 1, 2; 6 però  neanche «dei principii logici, come si disse in IV. 3). Cfr. su la questione della  verità nelle cose e nel pensiero quanto osservammo in nota. e però non mettono in chiaro quale sia la natura sua propria (‘). E però si lascino da parte.   Vogliamo ora considerare le cause e i principii dell’ essere  stesso in quanto essere. Ma già, quando trattammo di quanti  significati può avere ogni cosa che si dice, si notò che l’essere ha molti sensi (?).    =     Mi permetto di tradur così questo passo: Gupétega megl tò Aounòv yévos  TOoÙ Bvtos, xal oùx Em Bniovarv oloav (va [invece di otokv tiva) puo où bvtos.  Gli altri intendono: «Entrambi riguardano (o presuppongono, si fondano gu]  l’altro genere dell'essere [detto in proprio senso, i. e. secondo le categorie), e  non mettono in mostra nessuna natura che sia fuori dell'essere [propriamente  detto] ». MFxori: accanto, come un altro genere dell'essere, coordinato a quello  della sostanza. Manterrei all’ &&® il significato di «oggettivamente» voluto dal  Ross, ma come epesegetico qui,    L’accenno è al lib. V (cap. 7). Le ultime parole paiono aggiunte per collegare questo libro al seguente.    1    Lo Dell’essere, come accennammo dianzi (!) dove distinguemmo i vari significati di questo e di altri termini, si  parla in molti sensi: da una parte, significa l’essenza e un  «che determinato »; dall’altra, quale è, o quanto, e ciascuna  delle altre cose che così si predicano. Ma, sebbene se ne  parli in tanti modi, è chiaro che l’essere principale è l’essenza, come quella che significa la sostanza. Quando, infatti,     Lib. V. 7. Per la terminologia che segue, si ricordi che traduco generalmente il x gotiv con essenza, e così anche tòd-elvar col dativo interno (alcuni traducono con concetto: ch'è anche giusto; ma preferisco mantenere il tono oggettivo: rendo, invece, con concetto il A6yos, quando questo non esiga altro termine  più opportuno, come discorso, ragionamento, ecc.). E con pura essenza rendo il  ti fiv elvar (cfr. nota a I. 3,2). La distinzione dei due concetti non è sempre  facile: ma, per principio, la pura essenza indica, come vuole la frase aristotelica, un punto di vista del tutto universale, e puro, noi diremmo, da ogni riferimento empirico (sebbene, per A., esso esista, poi, soltanto in quanto è un téde  t., un «che determinato »). E per rispetto alla tradizione, ma anche per lasciar  al testo la sua precisa formulazione, seguitiamo a tradurre l’otola con sostanza:  realtà è termine troppo moderno e accenna a quella contrapposizione a «pensiero» che in A, c’è e non c’è; essenza, come altri traduce, è pur giusta, in  quanto l'oùcia è l'essenza reale, concreta, la forma realizzata nella materia (nel  sinolo): ma, appunto per dar rilievo a questa concretezza, preferiamo tener distinti i due termini.  Intanto non sfugga che, avendo A. determinato come  oggetto della metafisica l'essere în quanto essere (VI. 1, 1), la realtà in quanto  tale, il problema dell’odota veniva a porsi come fondamentale: chòù in essa si  accentrano tutti i principii d’intelligibilità del reale. Ed A. comincia col distinguere in essa ciò ch'è essenziale per la sua comprensione da ciò ch'è accidentale, mutevole e transitorio, ovvero è una determinazione meramente negativa.    206 METAFISICA    parliamo della qualità di una certa cosa, diciamo, ad esempio,  non ch’è di tre cubiti o un uomo, ma ch’è buona o cattiva;  quando, invece, parliamo dell’essenza, non diciamo ch'è  bianca o calda o di tre cubiti, ma che è uomo o dio.   Tutti gli altri esseri si dice che sono, solo in quanto, di  ciò ch’è in quel senso, alcuni sono quantità, altri qualità,  altri affezioni, altri qualche altra cosa simile. Poniamo che  uno faccia questione se il camminare, l’esser sano, lo star  seduto, e similmente qualunque altra cosa di tal fatta, sia  ciascuno un essere o un non-essere. Nessuno di essi esiste  per natura da solo, nè può esser separato dalla sostanza.  Se, dunque, quelli diciamo che sono, a maggior ragione sarà  un essere ciò che cammina, ciò che sta seduto, ciò ch’è sano.  Questi, infatti, ci si mostrano tanto più reali perchè c’è un  essere determinato che fa loro da sostrato: questo è la sostanza, e l’individuo, il quale per l’appunto si presenta in  tale categoria. Se così non fosse, nessuno direbbe: è buono,  è seduto. Ora è chiaro che soltanto in grazia di questa categoria (') esiste ciascuno degli altri esseri. Così che l’essere  primo, non questo o quel modo di essere, ma ciò che è semplicemente, sarà la sostanza.   Si dice in molti sensi che una cosa è prima, ma la sostanza è prima in tutti i sensi: pel concetto, per la conoscenza,  per il tempo (*). Nessuna categoria, infatti, tranne la sola  sostanza, ha senso separatamente dalle altre. Ed essa è prima  quanto al concetto, perchè non c’è concetto di cosa alcuna,  che non comprenda in sè necessariamente il concetto di     tavenv: si potrebbe riferire alla «sostanza» che vien prima di «categoria»; ma che A. consideri qui }a oùdia come categoria è chiaro anche da quel  che segue. È vero che più spesso A. parla di categorie in riferimento ai predicati della sostanza (la quale, perciò, ne è il soggetto). Ma in opposizione alla  cosa nella sua materialità anche la «sostanza» è categoria, come si dirà tra  poco (3, 7), ce il suo concetto coincide con quello di « essenza ».    Facendo corrispondere questa distinzione a quella di pura essenza, essenza, sostanza concreta, si può accogliere l'opinione di Alessandro (461, 1) che le  parole seguenti (Nessuna categoria... altre) riguardino la priorità nel tempo (la  sostanza non è mai senza attributi, ma esiste e e’ intende prima, indipendentemente da quelli che ha oggi o domani). sostanza. E quanto alla conoscenza, noi allora reputiamo di  sapere benissimo ciascuna cosa, quando conosciamo quel che  è: ad es., quel che è l’uomo, o il fuoco; molto meglio, per    lo meno, di quando sappiamo soltanto o quale è o quanta 0    dove: anzi, ognuna di queste stesse determinazioni noi la veniamo a sapere allorquando impariamo a conoscere che cosa  è che ha quella qualità o quantità (').   In fine, quel che si è cercato fino ad ora, e che ora e  sempre si cerca, e di cui si fa questione sempre, cioè che  cos’è l’essere, vale appunto questo: che cos’è la sostanza?  Qui, alcuni rispondono ch’essa è unica, altri che ce n’è più  d’una: ‘e di questi, alcuni vogliono che le sostanze siano in  numero finito, altri in numero intinito (?). Poniamoci dunque  anche noi a questo problema, ch’è il più importante, il primo,  l’unico si può dire: vediamo quel ch’è l’essere così inteso.    CapiroLo II    Pare (*) che il modo più evidente di esistere della sostanza sia quello dei corpi. E però si suol dire che sostanze  sono gli animali e le piante, e le loro parti; nonchè i corpi  fisici, quali il fuoco, l’acqua, la terra, e gli altri corpi di tal  fatta; e quelli che o sono parti di essi, ovvero da essi (presi  complessivamente o parzialmente) risultano, come l’universo  e le sue parti, gli astri, la luna, il sole.     Lett.: «che cos'è il quanto o il quale »; ossia, anche per queste determinazioni, la conoscenza è data dall'essenza. Ma per chiarezza ho preferito tradurre tò mooév e tò motév come equivalente a mooév e smorsv: così auche Aless.  (461, 23) li intende due linee prima (dove il testo ha le stesse forme, con l’articolo).  La differenza è, al solito, nello scambio de’ diue concetti, affini per A., di 80stanza ed essenza.    Nella questione della sostanza una o molteplice A. trova impegnate tutte  le scuole precedenti, da quella ionica all’eleate (una), dai Pitagorici ed Empedocle (molteplice finita) ad Anassagora ed atomisti (molteplice infinita).    Volgarmente. Qui si fa questione, dunque, non soltanto del numero, ma  anche della natura della sostanza, o delle sostanze. Da quella prima intuizione  volgare prende lc mosse la scuola ionica. Ma bisogna esaminare se queste sono le sole sostanze che  ci siano, 0 se ce ne sono anche altre (o sian tali soltanto  alcune di queste, o alcune, anche, delle altre) ('), ovvero se  di esse nessuna è sostanza, ma sostanze siano certe altre  d’altra natura. Ad alcuni (?), per es., pare che sostanze siano  i limiti determinanti ogni cosa corporea, come superficie,  linea, punto, unità: a maggior titolo, per lo meno, di ciò  ch'è corporeo e solido. Inoltre, c’è chi reputa che di sostanze  non ce ne sia nessuna fuori delle cose sensibili; e altri, invece, che ce ne siano parecchie , e a maggior titolo, come  quelle che sono eterne. Platone, ad es., fa delle specie e degli  enti matematici due sostanze, e pone come terza la sostanza  dei corpi sensibili. Speusippo, pur cominciando dall’unità,  pone un numero maggiore di sostanze, perchè ad ognuna di  esseassegna principii diversi: uno per i numeri, ad es., e  uno per le grandezze; inoltre, un principio per la sostanza  dell'anima: ed è così che viene ad aumentarne il numero.  Alcuni, a lor volta, dicono che le specie e i numeri hanno  la stessa natura, e che da essi dipendono le altre cose: linee  e superfici, sino alla sostanza del cielo e alle cose sensibili (*).     Con l'h prima del xaî (E e Ascl.) alla 1. 15, i casi son, dunque, questi: a) le  sostanze son quelle dette; d) quelle e altre; c) alcune di quelle: d) alcune di  quelle e anche alcune delle altre; e) altre.    I Pitagorici. Cfr. III. 5, 4. Seguono i Fisiologi in generale, poi Platone  e i Platonici.    Di genere. Altri intendono aàgiw per il numero: cfr. I. 9, 1; e XIII. 4, 4.    Per Platone, non si dimentichi ch’ egli, pur avvicinando le idee alla natura del numero, non le identificò mai con i numeri nel senso dei Pitagorici  (senza distinzione di sensibile e intelligibile), nè le trattò meramente come i matematici trattano i loro oggetti.  Dei Platonici si parla lungamente nei libri  XIII-XIV, ma non si fauno i nomi: sì che l'attribuzione delle particolari dottrine è mal sicura. Sembra che Speusippo tendesse con ulteriori distinzioni a disperdere l'unità iniziale e il rapporto sistematico dei principii (per il primo rispetto. cfr. XII. 7, 11, e XIV. 4.3 e 5, 1: per l'altro, la fine dello stesso XII: « costoro della sostanza dell'universo fanno un complesso di episodi e riescono a una  molteplicità di principii»). Secondo il Frank (cit. nel Ross), egli avrebbe distinto  dieci principii: l’unità assoluta , l'assoluta pluralità , il numero , la grandezza spaziale , i corpi sensibili (5), l'anima (6), la ragione (7), il desiderio (8), il  movimento (9), il bene (10). Speusippo è ricordato anche in Etk. .Vic., 4. 1096 b, 5.   Altri accentuarono, sembra, la tendenza opposta, dell’unificazione dei principii, non  soltanto contro Speusippo, ma più in là dello stesso Platone. Asclepio (379, 17) fa    IL    (bai    6    ni  Dobbiamo, dunque, trattenerci su queste opinioni per vedere se sono giuste, o no, e quali sostanze esistono: se ce  ne siano, o no, altre (') fuori di quelle sensibili; e, se ce ne  sono, come sono; e se esiste qualche sostanza separata, perchè  e come esiste, ovvero, se fuori di quelle sensibili non ce ne  sia nessuna. Ma, prima, diciamo in abbozzo della sostanza  quel che è. La sostanza vien intesa, se non in più, per lo meno in  quattro modi principali, che paiono costituire l’essere di ogni  cosa: come pura essenza, come universale, come genere, e  in fine come sostrato (?).    qui il nome di Senocrate, successore di Speusippo; e Teofrasto (fr. XII, 12) dice che  egli «abbraccia in certo modo tutte le cose dell'universo: così le sensibili come  le intelligibili, e quelle matematiche, e persino le divine ». Ad A. questa identificazione sembra la soluzione peggiore del problema lasciato in eredità dal  maestro: XIII. 8, 10.    Altre ce ne sono, per A., ma non separate in quanto forme delle sostanze  sensibili stesse.    L'universale, anzi, meglio, gli univ  ersali, astrattamente considerati, sono le  idee platoniche, le quali A. nega che siano sostanza (capp. 13-14): non così, naturalmente, quando l'universalità è carattere o valore dell’essenza. Del genere  non si parla più, e al principio del cap. 13 è del tutto dimenticato. In quanto  è un xotvév, esso equivale al xaté6Xiov, quando questo sia inteso come una generalità, e il genere, a sua volta, sia preso fuori del processo che lo realizza nelle   differenze. Così i quattro termini si riducono a tre, anzi, per la trattazione negativa dell’universale, a due: la pura essenza e il sostrato. Del sostrato si parla    .nel capitolo presente, e si dice ch'esso è materia (CAm), forma (puoogf, qui, poco    dopo esemplificato con tò oxMpua 175 ldéas, e però con significato più vicino alla  forma sensibile; ma equivalente, in fine, a eldoc, a Adyos fivev GAng, a ff xatà  tòv A6yov odola, e però anche a tò 1 Kv elvari, sinolo (tò 84 tobtov 0 BE èippolv,  tò ocvverinupévov, tò otvterov 25 elbous xal GAns). Molto frequenta è Uroxzipevov  nel primo e terzo significato, raro nel secondo (cfr. VIII. 1, 6) e da intendere  come equivalente, qui, al terzo, ch'è il significato più comune dell'oùota. Questa  è, infatti, la sostanza concreta, piena realtà del x6de , (in Cat., 5 distinta  come prima dalla sostanza seconda, ch'è la forma o specie). Di contro a essa  sta la pura essenza nella sua universalità, che vuol essere il suo principio intelligibile e insieme reale. Per l’intelligibilità, è chiaro; la difficoltà sorge per  la realtà, essendo necessaria la materia per la sua realizzazione come individuo.  Di qui l’aporia del materialismo in questo capitolo, risolta da A., per ora, soltanto negativamente, risolvendo la materia nel concetto dell’indeterminato, ©  però inferiore al sinolo in realtà, e tanto più alla forma ch'è, per l’intelligibilità, il principio del sinolo stesso. Il sostrato è ciò di cui si predica ogni altra cosa, ma 2  1029 1 esso non è predicato più di alcun’altra. Noi dobbiamo, quindi,  cominciare la nostra trattazione da esso, perchè la sostanza  par che sia, in primo luogo, il primo sostrato di ogni cosa.  E però per un lato esso è la materia, per un altro è la forma, 3  per ultimo il loro insieme. La materia è, per es., il bronzo;  la forma, la figura ideata; il loro insieme, l’intero, la statua.  Per conseguenza, se la forma è prima della materia e reale 4  a maggior titolo, anche l’insieme d’entrambe (') sarà prima  della materia per la stessa ragione.   Noi abbiamo dato, ora, un’idea di quel ch’è la sostanza, 5  dicendo ch’essa è ciò che non viene riferito ad altro come  a sostrato, anzi ad essa vien riferito tutto. Ma non bisogna  fermarsi qui: chè non basta. Non soltanto, questo, manca  ancora di chiarezza; ma la sostanza diventa, in questo modo,  la materia. Se, infatti, non è essa la sostanza di ogni cosa,  non è facile dire che altro questa sia: togliendo tutte le determinazioni (*), pare che non rimanga altro. Quelle determinazioni sono soltanto affezioni dei corpi, produzioni e potenze loro; e neppure lunghezza, larghezza e profondità sono  altro che certe determinazioni quantitative, e non sostanze.  Sostanza non è la quantità, ma, piuttosto, ciò a cui originariamente le determinazioni quantitative appartengono. Se  non che, tolta la lunghezza, la larghezza, e la profondità,  non si vede che resti nulla, tranne che si ammetta ch’è pur  qualcosa ciò che da quelle vien determinato. Sì che, a chi  consideri le cose in questo modo, deve necessariamente apparire la materia come la sola sostanza.     Se si legge voò (invece di 16), allora va tradotto: «anche dell’insieme  d' entrambe sarà prima la forma per la stessa ragione ». Ho preferito il vé perchò  la questione, in questo punto, mi pare sia quella della materia (l’usia nella sua  realtà), piuttosto che quella della forma (l’usia nella sua intelligibilità), benchè  anche questa sia giusta: come si vede dal $ 10.    Ricorda il procedimento cartesiano: togliendo tutte le determinazioni  empiriche (prima le qualitative, poi le quantitative) si dovrebbe arrivare al concetto puro di materia. Qui, naturalmente, si tratta della materia, non del suo  concetto, e A. non può far valere contro il materialismo altro che il suo principio dell'esistenza determinata. Chiamo materia quella che in sè non è una cosa determinata, nè una quantità, nè niun’altra delle determinazioni  dell'essere. Ci ha da essere, infatti, un qualcosa di cui ciascuna di esse si predica. E la sua guisa di essere sarà diversa da quella di ciascuna delle categorie: queste si predicano della sostanza; la sostanza, poi, della materia (').  Per cui il termine ultimo, per sè stante, in ogni cosa, non  è qualcosa di determinato, nè una quantità, nè altro; e neppure la negazione di queste determinazioni, poichè anche  la negazione non esprime dell'essere altro che l’accidente.  Così, quelli che ragionano da questo punto di vista, si trovano a conchiudere che sostanza è la materia. Eppure, ciò  è impossibile: perchè ognuno vede che sostanza convien che  sia, anzitutto, ciò che può esistere separatamente, ed è qualcosa di determinato. Parrebbe quindi che, a maggior diritto  della materia, debbano dirsi sostanza la specie, e quel che  dall’unione di materia e forma deriva.   Ma lasciamo da parte, per ora, quest’ultima, cioè la sostanza in quanto risulta di materia e forma insieme: che è  cosa posteriore e manifesta a tutti. Anche la materia, in  certo modo, non offre incertezze. Dobbiamo trattenerci su la  terza, su la specie (*°), perchè è essa che presenta le maggiori  difficoltà. Le altre categorie son determinazioni (secondarie o accidentali) della s0stanza, la sostanza esprime la determinazione (essenziale) della materia; invece,  a materia non si predica di nulla.  Tutto il passo mescola le ragioni dei materialisti con quelle di A., il quale non nega l'esistenza della materia, ma che  essa sia la sostanza. L’indeterminazione di essa non è mera negazione o privazione (l'una non ha realtà affatto; l'altra non per sè, ma in quanto è in altro:  e d’altra parte, se fosse privazione, la materia avrebbe già una determinazione,  o un'indeterminazione soltanto relativa al momento ulteriore del processo formale: cfr. VIII. 1, 6 e 6, 11; XL. 9, 2).   Come avvertimmo in nota a III 2,5 traduciamo eldog con specie quando non  è in opposizione diretta al termine materiale. Il Rolfes, seguendo S. Tom,, insiste molto (nel suo commento alla trad. cit.) nel distinguere in A. la forma in  quanto indissolubile dalla materia, a cui è unita, dalla forma sostanziale, che  può avere un'esistenza indipendente da essa. Negli Scolastici, infatti, è viva la  preoccupazione per le conseguenze dogmatiche. Questa preoccupazione manca  in A., assorto, qui, a polemizzare contro l'idealismo astratto del maestro, da una  parte, e contro il rozzo materialismo dall'altra. (Un’ esistenza in sè e per sè della E poichè tutti concordano in questo, che alcune di quelle 11  sensibili sono sostanze, noi dobbiamo cominciare la ricerca  1029 v in questo campo: chè è sempre utile passare per gradi a ciò  ch’è più conoscibile ('). La cultura, infatti, si acquista così: 12  attraverso le cose che sono meno conoscibili per natura si  procede verso quelle che sono per natura più conoscibili. E la  fatica è proprio in questo: come nel campo delle azioni si  deve far in modo che, partendo dal bene dell’ individuo,. il  bene generale (°) divenga il bene dell’individuo stesso; così,  qui, dalle cose che a ciascuno sono più facili a conoscere, si  deve andare a quelle che, conoscibili per natura, divengano  tali per lui stesso. Certo, quel che l'individuo conosce in principio è spesso proprio ciò che meno è conoscibile, e che ha  poco o nulla della realtà dell’essere. Pure, conviene prender  le mosse da quelle deboli conoscenze, le quali tuttavia costituiscono ciò ch’egli conosce; e sforzarsi, passando, come si  è detto, attraverso di esse, di fargli conoscere ciò ch’è conoscibile assolutamente.    pura forma è affermata, senz'altro, di Dio nel lib. XII; ma per l’individualità  di essa come anima umana è nota l'oscurità di A. e del pensiero greco in generale).   Qui si dice che la difficoltà maggiore non è intorno alla materia e al sinolo:  questo è chiaro che è prime, come si disse dianzi, della materia, e ha esistenza  per sè e individualità (è qualcosa di determinato); la difficoltà grande è intorno  al principio ideale-reale del sinolo. La specie ha esistenza e individualità in sè  e per sè? In termini moderni si direbbe che la questione passa dal punto di vista  empirico a quello trascendentale. Ma il senso di questo passaggio è limitato in  A. dai termini già accennati del suo pensiero.    Il testo (le prime due linee di 1029b appaiono al principio del cap. s0g.)  è stato riordinato dal Bonitz. Lo Jaeger (Arîst., pp. 204 e :s8.) per primo ha  avanzata l'importante ipotesi che questi libri VII-IX siano stati scritti dopo il  XII; e che perciò questo passo, sino alla fine del capitolo, sia un'aggiunta poSteriore per collegare questa trattazione, intorno alla sostanza sensibile, a quella  puramente intelligibile. Ma cfr. note a 11, 11; 16, 7.    tà &40g dyodd: il bene in sè, ciò ch'è bene assolutamente (così, invece,  ho tradotto, in fine al capitolo, l'84ws), sarebbe espressione molto platonica: il  plurale dissuade. Così anche in Eth. Nic., V. 2. 1129D, 5. Quando noi da principio distinguemmo in quanti modi Si  definisce la sostanza, vedemmo che uno di essi era quello  della pura essenza: di esso vogliamo ora trattare. E comiuciamo a dirne qualcosa dal punto di vista discorsivo: la pura  essenza è ciò che di una cosa si dice in se stessa considerata. Mi spiego: l’esser musico non è l’esser tuo, perchè  non per te stesso sei tu musico: quel che sei per te stesso,  dunque, quella è la tua essenza. Ma con questo non 8°è  detto tutto. Anche una superficie noi diciamo che per se  stessa considerata (') ha un colore, poniamo, bianco: ma non  così è l’in sè della pura essenza: poichè l’essere della superficie non è l’essere del color bianco. E neppur l’ essere suo  vien fuori dall'unione dei due termini, dicendo ch’è una  superficie bianca. Perchè? perchè c’ è già compreso. Bisogna,  perchè si abbia la definizione della pura essenza di una cosa,  che, chi la definisce, non ne includa la nozione nella defi-{  nizione. Ne verrebbe questo: che, se all’essenza della superficie appartenesse d’esser bianca, ed essa è la stessa ch’è  levigata, l’esser bianco e l’esser levigato sarebbero una sola  e medesima cosa (?).     Distinguendo l’«in se stesso» dal «per se stesso», dove il greco usa la  medesima espressione (xad’ aùrté: v. V. 18, 4-6, in cui pure si accenna a questa  distinzione), si dà un po' più di luce all’argomentazione. Non tutto ciò che una  cosa è per sè, ne costituisce per questo l’essenza. Noi sappiamo, infatti, che ci  sono accidenti essenziali, per es. l'uguaglianza degli angoli di nn triangolo a due  retti; ma l'essenza del triangolo, poi, è data puramente dalla sua definizione.  La cosa in sò è il presupposto d'ogni predicazione o qualificazione (la superficie  è bianca  superficie bianca).    Passo oscuro: ho seguito l’interpretazione di 8. Tom. (1314), perchè mi  eembra più intonata alla presente argomentazione (sebbene riconosca che il testo»  vien così un po’ forzato): A. direbbe che, se bianchezza e levigatezza, e così gli  altri attributi, siano pure essenziali, costituissero la pura essenza della superficie,  essi dovrebbero tutti identificarsi tra loro. Il passo va forse, come nota il Christ,  due rigbe prima (dopo «già compreso »).  Altri (e già Aless.) intendono: « Per  cui, Be poi si aggiungesse che l’esser proprio della superficie bianca consiste  nell’esser essa levigata, non si verrebbe ad altro che ad identificare l’essere del    214 METAFISICA    E poichè c’è pure una composizione (') della sostanza 6  con le altre categorie (un qualche sostrato ci vuole sempre  per ognuna: per la qualità, per la quantità, per il tempo, per  il luogo, per il movimento), è bene s’indaghi se per ognuno  di tali composti si possa far questione della pura essenza: cioè,  se anche di essi si dia una pura essenza: per es., dell’uomo  bianco, la pura essenza di uomo-bianco. A designare il com- 7  posto, diamogli un nome: per’ es., vestimento (°). In che consisterà, dunque, l’essenza del vestimento? Certamente, essa  non potrà esser nessuna di quelle cose che si dicono considerandole in se stesse (*).    bianco con l’essere del levigato»: si darebbe, cioè, l'essenza del bianco come  consistente nella levigatezza. Così, infatti, pare che la pensasse Democrito (De  Sensu, 4. 442 b, 11; De Gen. et Cor., I. 2. 316, 1).    La sostanza, in quanto sìnolo di materia e forma, è già un cuvdetov da so  stessa. La questione, ora, è: si può parlare di pura essenza quando il ovv@etov  è della sostanza con le altre categorie? La prima risposta è negativa: si può  parlare della pura essenza dell’« uomo », non dell’«uomo-bianco ». Ma, poi, si  concede (14 s8.) che in largo senso (logico-discorsivo) si può dire che c’è una  definizione, e però una pura essenza, anche di questi composti (quando se ne  spiega il significato).    Oggi diremmo: indichiamo con «x il composto. L'opportunità di ciò è  chiarita bene da S. Tom. (1317): «Et quia forte aliquis posset dicere quod albus  homo sunt duae res et non una, ideo subjungit quod hoc ipsum quod dico albus  homo, habeat unum nomen, quod causa exempli sit vestis. Tune enim, sicut hoc  nomen homo significat aliquid compositum, scilicet animal rationale, ita et vestis  significat aliquid compositum, scilicet hominem album ».    Intendo che la sintesi designata con «vestimeuto » non può esser scambiata con quella in cui consiste Ja sostanza, o pura essenza, in sò (nell'esempio,  l’uomo in quanto animale ragionevole, non in quanto uomo bianco). Segue (8)  l'obbiezione, la quale, badando più all'espressione discorsiva, porterebbe a conchiudere che definendo « vestimento » come «uomo-bianco » non si cade in nessuno dei due errori (ivi notati) peri quali una definizione si può dire mancante,  sì che in questo senso si deve ammettere che la cosa è considerata per se stessa  (benchè secondaria, qui, la distinzione tra l'in sé e il per sé, non si scordi che  nel testo c'è anche quest'ambiguità). All'obbiezione A. risponde (9), che, anche  ammessa buona la predetta definizione in quel senso (discorsivo), non per questo  si tratta di una pura essenza, propriamente, la quale dà sempre l’&ree di un téde  ti (Ja determinazione della natura costitutiva di un’individualità: di qui la s04  stituzione frequente, nel pensiero aristotelico, della «sostanza seconda », 0 specie, alla sostanza prima, o téde tr).   Altri intendono che l’obbiezione venga fatta qui (alla fine del $ 7), e che A.  risponda a essa nel 6 8. Il testo permette, sembra, tutte due le interpretazioni  (per il senso generale la differenza, in fine, è di poco conto). Si può obiettare che una cosa non è considerata per se  stessa in due casi: o per via di apposizione, o al contrario.  Nel primo caso, ciò che si vuol definire lo si aggiunge ad  altra cosa: per es., volendo definire che cos'è la bianchezza,  si dice che è un uomo bianco. Nell’altro caso, c'è un’altra  cosa aggiunta a ciò che si vuol definire: per es., se vestimento vuol dire uomo bianco, vestimento si definisce color    bianco. Certamente, chi è uomo bianco è un che di bianco, 1030 a    ma la bianchezza non è davvero la sua essenza.   Ma con questo si è detto che l’essere del vestimento sia la  determinazione di una pura essenza veramente? (') Non pare.  Solo ciò ch'è un «che determinato » è una pura essenza,  Quando, invece, una cosa si predica di un’altra (*), non abbiamo più un «che determinato »: l’uomo bianco, ad es., non  è la determinazione di un «alcunchè», una volta che tale  determinazione riguarda soltanto le sostanze. In conchiusione, la pura essenza ha luogo soltanto in quelle cose di cu}  il concetto è una definizione.   E definizione non c’è finchè si adoperano parole a signi!!  ficare una cosa invece del concetto: poichè, in tal caso, tutti  i discorsi sarebbero detinizioni, e si potrebbe adoperare una  parola sola invece di un qualsiasi discorso, sì che anche  l’Iliade sarebbe una definizione (*). Invece la definizione c’è  soltanto qualora sia di ciò ch’è primo: e questo ha luogo  soltanto dove non c’è bisogno, per ragionarne, di riferire  una cosa a un’altra.     Alla 1. 3: 8206; f) où.    « Uomo » e « bianco » son due concetti, che restan due anche se uniti nella  sintesi «uomo bianco »; « animale » e «ragionevole », invece, esplicano il concetto  unico di uomo (equivalente per A. al t6de tu).  Aless. (467, 7 88.) nota acutamente che il tne mira all'essenza nella sun unità, laddove la definizione esplica  le parti in cui quella è organizzata. Di qui la coincidenza e insieme la differenza  tra i concetti di essenza (che, in quanto sintesi empirica, o concreta, è sostanza;  © in quanto concetto può limitarsi a una designazione generica: altrimenti, equivale al tne), pura essenza, definizione. Ctr. TRENDELENBURG, Gesch. der Hategorienlehre, pp. 34 s8; BoxiTz, pp. 311 88.    I. e., della parola «Iliade ». Non si scordi che a concetto e discorso corrisponde lo stesso termine X6yos. Non potrà, quindi, la pura essenza trovarsi nelle specie  che non appartengano a un genere, anzi si troverà soltanto  in quelle che v’appartengono, perchè di quelle soltanto, evidentemente, si può parlare senza riferirle ad altro come partecipazione o affezione di esso, o come suo accidente (‘).  Delle altre, così come di ogni cosa, ben si può ragionare, o  con un semplice discorso o in modo più esatto, per dirne, poniamo, se ha un nome, che cosa questo significa, e che questo  conviene a quello. Ma non è questione, con ciò, della definizione e della pura essenza (°).   Ma forse anche per la definizione, come per l’essenza, è  bene osservare che si dice in molti modi. L’essenza, in un  primo modo, significa la sostanza e la determinazione di  qualcosa; e in altro modo, significa quale è, quanto è, e  ognuna delle altre cose che si predicano così. E in quella  guisa che l’«è» si trova in tutte le categorie, ma non ugualmente, perchè in una di esse ci sta in senso proprio, e nelle  altre per derivazione; così anche l’essenza, assolutamente,  appartiene alla sostanza, e al resto delle categorie soltanto  in certo modo. Noi potremmo, infatti, chiederci che cos’è  la qualità, facendo, così, anche della qualità un’essenza:  non tuttavia assolutamente, ma in quel modo come alcuni  del non-essere affermano, discorsivamente, che il non-essere  è: non assolutamente, ma in quanto è non-essere. Si dica  similmente della qualità.   Senza dubbio, è giusto che si badi anche come convien  parlare in ogni cosa, ma quel che più importa è come essa  è realmente. Oramai, dopo quel che s’è detto, dev’esser  chiaro che la pura essenza apparterrà primieramente e assolutamente alla sostanza; e poi anche alle altre categorie,     Genere-specie (yévovs elbn) dev’ essere un processo unitario di realizzazione  della pura essenza: la qual cosa non avviene se le specie son considerate platonpicamente come idee di cuî il genere dovrebbe partecipare (cfr. III 3, 7); ovvero, secondo la dialettica sofistica, si unisca la sostanza (ciò ch'è primo: tè  xQ6tov 6v) con una qualità o un accidente di essa.    Così il X6yos passa dal suo officio meramente semantico a quello apofantico (De interpr., 4. 17 a, 1), e da questo a quello più logico-metafisico. nello stesso modo dell’ essenza, non assolutamente, in quanto  è la pura essenza, ma in quanto è pura essenza della qualità, o della quantità, ecc. Poichè bisogna bene che uno ci  dica se in queste categorie l’essere ci sta soltanto per omonimia; ovvero se si tratta soltanto di aggiungere e togliere  (come quando si dice che anche l’ignoto fa parte del noto) (').  In verità, la risposta giusta è di negare sia la diversità, sia  l'identità del significato; e dire che la cosa sta come per  quel che diciamo « medicale », tiferendoci, sì, a qualcosa ch’ è    pur sempre una e medesima, ma non ha un unico e sempre 1030 b    lo stesso significato, senza che perciò si tratti di mera omonimia: diciamo «medicale» un corpo, un’operazione, uno  stramento, non per omonimia, nè per lo stesso rispetto, eppure ci riferiamo a una cosa stessa (*). (Qui non importa nulla  se uno preferisce un modo o l’altro di vedere). Quel ch'è evidente, è che la definizione e la pura essenza riguardano primieramente e assolutamente soltanto le sostanze, e che, s’ esse  valgono parimenti anche per le altre categorie, ciò non è  in vero e proprio senso. Posto questo, non è detto però che’  si abbia definizione di un oggetto tutte le volte che c’è un  discorso intorno a esso, ma soltanto se ci si esprime in certo  modo, cioè se si riguarda l'oggetto come uno: non per mera  continuità discorsiva (come sarebbe ]l’ Iliade) (*), o perchè si     Passo molto oscuro. Omonime son le cose che hanno lo stesso nome, ma  natura diversa (Callia, per es., e il suo ritratto); sinonime, quando la realtà o  il concetto è lo stesso (abito, per es., e vestito). Per A., qui, non si tratta nè di  mera omonimia, nò di sinonimia: poichè l'essere nella prima categoria e nelle  altre nè è identico, nè è del tutto diverso. Si tratta, invece, di aggiungere e togliere: i. e. (così parrebbe che voglia dire) qualificare con un « primieramente »  e un «secondariamente » l'essere nei due casi, si che di esso si dia un più e  un meno di realtà. Così anche il non-essere delle categorie secondarie diventa  un essere: come l'ignoto è, in quanto lo ei sa tale, anch’esso noto (questo sembra  dire ciò ch’è in parentesi).    V. per lo stesso concetto ed esempio, IV. 2, 1-2. Le parole che seguono  (messe da me in parentesi) paiono riferirsi alla distinzione tra il xaè° Ev e il rodc  Ev (Ross).    L'esempio (giù veduto dianzi) dell'Iliade, come di ciò ch'è soltanto ouvdeop® Ev, torna in VIII. 6, 2. Così in Anal. Post., II. 10. 93 b, 96: « Un discorso  può essere uno in due modi: o per collegamento, come l’Iliade; o perchè chiarisce un'unica cosa da un unico punto di vista, non per accidente », E così anche  in Poet., 20. 1457 a, 29.    218 METAFISICA    adoperano congiunzioni, ma in tutto il vero e proprio senso  del termine « unità ». Questa si dice come l’essere; e l’essere  significa un che determinato, o quanta, o quale è una cosa.  Per cui, anche, ben si può parlare e dare una definizione  di  assume altrettanti significati diversi: la soglia è tale perchè situata così, e l’esser  suo significa l’esser situata così; così come l’esser ghiaccio  vuol dire aver una certa densità. Ci sono cose di cui l’essere  potrà venir determinato anche con tutte queste differenze,  in quanto possono esser o mescolate, o combinate, o insieme  collegate, o condensate; ovvero esigono, per esser definite,  anche le altre differenze, come, ad es., una mano o un piede.  È bene, dunque, comprendere i generi delle differenze, una  volta che queste debbon essere i principii dell’esser delle  cose: queste, infatti, si distinguono per il più o per il meno,  per il denso e per il raro, e per altre qualità sì fatte: le  quali tutte, poi, sono o in eccesso o in difetto. Quando una  cosa differisce per figura, o per levigatezza o ruvidezza, tutte  queste differenze si riducono a quella del dritto e curvo.  E quando l’esser loro consiste nella mescolanza, il non essere  consisterà nella condizione opposta.   Risulta chiaro, dunque, che, se la sostanza è la causa  dell’essere di ciascuna cosa, bisognerà cercare in queste  differenze la cagione per cui ciascuna è quella che è. La  sostanza, a dir vero, non consiste in nessuna di queste differenze, neppure se accoppiate alla materia; tuttavia esse  costituiscono in ogni oggetto quel ch’è analogo alla sostanza ('). E come nelle sostanze quel che si predica della     Queste differenze riguardano la materia e l’accidentale più che la natura  intima delle cose, e però non ne dànno l’usia nel vero senso.  Ciò che tien le materia è l’atto stesso, così’ anche nelle definizioni delle  altre cose è ciò che meglio ne tien le veci. Per es., se si  debba definire la soglia, diremo ch’è legno o pietra situata in -certo modo: e la casa è mattoni e legni situati  così e così (se pure in certi casi non si accenna anche allo  scopo); e se si tratta del ghiaccio, diremo ch’è acqua solidificata o condensata in tal modo; e la melodia è una mescolanza così fatta di suoni acuti e gravi. E nello stesso  modo per gli altri casi.   Di qui si vede che l’atto è diverso e diverso il concetto,  quando la materia è diversa: chè in alcune cose ha luogo  composizione, in altre mescolanza, in altre qualche altra  delle differenze ricordate. Per cui, se uno, per definire quel  che sia una casa, dicesse che è pietre mattoni legname, direbbe quel che la casa è in potenza, perchè pietre mattoni  legname sono la materia; se invece dicesse ch’è uno spazio  chiuso per riparo delle cose e delle persone, o aggiungesse  altra cosa simigliante, direbbe quel ch’è l’atto della casa.  E se uno riunisse entrambe queste determinazioni, direbbe  la sostanza nel terzo significato, quella che risulta dall’atto  e dalla materia. Par chiaro, infatti, che il concetto che si  ottiene per mezzo delle differenze, è quello della forma e  dell’atto, quello invece degl’ingredienti della cosa riguarda  piuttosto la materia. Tali erano anche le definizioni che Archita (‘) approvava, poichè esse si riferivano al composto.  Per es.: che cos’è il tempo buono? La quiete in grande  estensione di aria: qui l’aria è materia, l’atto e la sostanza  è la quiete. Che cos'è la bonaccia? È l'uguaglianza della  superficie del mare: qui il sostrato, in quanto materia, è il  mare, e l’uguaglianza della superficie è l’atto e la forma.   Con le cose discorse resta così spiegato quel ch’è la    __&    veci dell'atto (della vera © propria forma), in queste cose considerate sensibilmente, sono le su dette differenze. Qui non si possono avere definizioni (delle  sostanze sensibili particolari non c'è dimostrazione, nò definizione: VII. 15, 2),  altro che in largo senso (VII. 4, 12-13).    Di Taranto, famoso pitagorico, coutemporaneo di Platone. (Alla 1. 18:  èvegysiav). sostanza sensibile e in qual modo sia: essa è tale come  materia, come forma e atto: in un terzo senso, come il loro  insieme.    CapiToLo III.    Ma si badi che talora non è chiaro se il nome della cosa  esprime la sostanza come composto, o l’atto e la forma sua:  per es., se casa significhi l'insieme, un riparo fatto di mattoni e pietre situate in un certo modo, ovvero semplicemente  un riparo, cioè l’atto e la forma della casa; e se linea significhi dualità in lunghezza, o semplicemente dualità ('); e  animale, anima in un corpo, o semplicemente anima. L'anima  è la sostanza e l’atto di un certo corpo, e chi dice animale  può riferirsi all’uno e all’altro significato, non perchè coincidano nel copcetto, ma in quanto entrambi riguardano la  stessa realtà. Ciò per qualche rispetto non è senza importanza, ma per la nostra questione su la sostanza sensibile  non ne ha alcuna, poichè la pura essenza consiste nella  forma e nell’atto. Anima, infatti, ed essenza dell'anima son  la stessa cosa, ma non così uomo ed essenza dell’uomo, salvo  che per anima non s’intenda l’uomo: chè, allora, in un senso,  l’uomo e la sua essenza coincidono; in un altro, no.   La sillaba non si mostra nell’esser suo se uno la cerca  nelle lettere e nella loro somma; e così la casa, se uno  guarda ai mattoni e alla loro somma. Ed è giusto che sia  così, perchè la somma o la mescolanza non deriva soltanto  dalle cose sommate o mescolate (°). Similmente, in tutti gli     Cfr. VII. 11, 5; e per l'identità (nel par. seg.) dell'anima e della sua essenza, VII. 10, 16, e 6, 14.  Ciò, si aggiunge, può avere qualche importanza,  Der es. per il fisico; non per noi (per il rispetto metafisico), ora: chò la forma è  il priocipio del sinolo ed equivalente a esso (in quanto, tuttavia, esso venga  considerato nell'unità attuale del téde n).    Cfr. VII. 17, $ s8s,: qui l’apriorità della: forma (ch’è, dunque, magà tà  Gtoyela, non in senso trascendente, ma affine al nostro trascendentale) viene  estesa alle forme sensibili. « Compositio et mixtio, quae sunt formalia principia,  non constituuntur ex his quae componuntur aut miscentur, sicut nec aliquod aliud  formale constituitur ex sua materia, sed e converso »: S. Tom: (1713).  altri casi. Ad es., se qualcosa è una soglia per la posizione,  non la posizione si spiega con la soglia, ma piuttosto questa  con quella. E l’uomo non è semplicemente l’essere vivente  più bipede, ma deve esserci qualcosa oltre di ciò, se ciò è  preso soltanto come materia: qualcosa che non è elemento  nè un derivato da un elemento, ma è sostanza, prescindendo  dalla quale non rimane se non la materia. Se, dunque, questo  «qualcosa » è la causa dell’esser suo e della sostanza, Si  dovrà indicare in esso la sostanza stessa (').   Ora, questa o è eterna, ovvero è corruttibile senza perciò  perire, e diviene senza che perciò si possa dir prodotta.  Noi abbiamo altrove mostrato e spiegato come la specie nessuno la produce o genera, ma quel che si fa è un qualcosa  di determinato, e quel che si genera è l’insieme. Se poi le  sostanze delle cose corruttibili siano separabili, non abbiamo  ancora chiarito, salvo che nei casi in cui è evidente ch’è impossibile, e son tutti quelli in cui non può esistere la sostanza  fuori dei particolari, ad es., una casa o una suppellettile (*).  Ma forse queste non sono da riguardare come sostanze, e  insieme a esse nessuna di quante altre cose non sono prodotte dalla natura: chè la natura, essa sola, si può chiamare  sostanza nelle cose corruttibili.   Perciò non è fuor di proposito la questione agitata dai  seguaci di Antistene e da altri rozzi come loro; i quali     Seguendo la volgata e l’interpretazione di Alessandro (553, 7) l'accento  polemico sarebbe, non contro il materialismo, ma contro l’idealismo astratto dei  Platonici, e si tradurrebbe così: «.,... ma è sostanza: quella sostanza, a cui si  riferiscono quanti prescindono dalla materia, Se, dunque, questo qualcosa è la  causa dell'essere, e questa è la sua sostanza, essi si riferiranno (col loro prescindere dalla materia) per l’appunto alla sostanza». Ma par evidente che non è  questo il senso del discorso qui. Meglio, piuttosto, mantenere, con la volgata,  anche l’oò dato da E (1. 14): « Se, dunque, questo qualcosa è la causa dell’esser  Suo, e questa è la sua sostanza, essi [prescindendo da essa) si troveranno a non  dire quel che è la sostanza stessa dell’uomo [la sua vera realtà)». Così anche  il Ross.    Cfr. VII. 8, e nota a 7,3. Per A., non ostante il suo frequente esemplificare con immagini prese dalla produzione dell’arte, vere e proprie sostanze sono  quelle naturali. L'uomo, infatti, può indurre forme accidentali soltanto, non essenziali in ciò che già esiste ed ha, quindi, una propria natura già. dicevano ch’è impossibile definire quel che una cosa è('),  perchè definire, per essi, è un tirare il discorso in lungo,  ma si può dire e insegnare soltanto qualche qualità della  cosa: dell’argento, ad es., non ciò che è, ma che è simigliante al piombo. C'è, allora, una sostanza; e di essa si dà  una definizione e un concetto: di quella cioè composta, sia  essa sensibile o intelligibile; ma non degli elementi da cui  essa risulta composta, una volta che il discorso definitorio    ‘significa che qualcosa conviene a qualche altra, delle quali    l'una dev’esser presa nel senso di materia, l’altra di forma.   Questo ci fa vedere anche che, se si vuol sostenere da  un certo punto di vista che le sostanze sono numeri, si dovrà  intendere come s’è detto, e non, come alcuni pretendono (?),  che sian collezioni di unità. Si dica pure che la definizione  è un numero, poichè infatti è divisibile e si risolve in elementi indivisibili (chè i concetti non sono infiniti): proprio  come il numero. E come il numero, se tu vi sottrai o aggiungi qualcuno degli elementi suoi  e sia pure il più  piccolo , non è più lo stesso numero, ma un altro; così, Se la sua essenza è semplice (v. VII. 10, 17), anche per A. è oggetto di  vénows, non di 6propdc. Ma qui il discorso va ripreso dal $ 4, come una prova  ‘che il principio di una cosa non è dato da una sonma di elementi. Benchè gli  Antistenici (per i quali, v. Teeteto, 201 e; e lib. V. 29, 2) intendessero ben altro  (la definizione è, per essi, una évopétov cvurioxi, che allunga in un A6y0g paxeés  quella parola unica che sola è propria della cosa: nota, per un confronto, il caso  aristotelico di una definizione meramente verbale, come di «Iliade »). Anzi, A. ne  trae argomento (nel par. seg.) per confermare la validità della definizione, la  quale non è somma (animale + bipede), ma rapporto formale di genere (materia)  a specie (forma). Ovvero, s’intenda la definizione nel senso di VII, 4, 13.    Platone e Platonici pitagorizzanti, identificando le idee con i numeri, e  considerandole insieme come usie e universali, davano anche del processo dofinitorio una ragione matematica. A. oppone alla concezione di un molteplice come  aggregato (e tale è l'idea in quanto usia composta di usie: cfr. n. a VII. 15, 6) la  sua concezione di un molteplice organico, e a quella dell’unità astratta (0 tale è  l’idea in quanto universale) la sua concezione dell'unità concreta. Questi paragrafi, duuque, sono strettamente legati a quanto precede e il capitolo non è,  come sembra (v. Ross, p. 231), una collezione di pensieri sconnessi (lo stesso $ 5,  che sembra interrompere la continuità del ragionamento, è suggerito da quanto  precede circa l'apriorità della forma, che per A. è legata alla questione della  sua eternità, o meno; e introduce il concetto dell’unità viva, naturale, della  sostanza). neppure la definizione e la pura essenza è più la stessa, se vi  togli o aggiungi qualcosa. E anche pel numero ci ha da esser  qualcosa che gli dà unità; ma quel ch’esso sia, per cui il  numero, se possiede unità, è uno, non trovano modo di dire.  Poichè o il numero non ha unità, ed è come un mucchio;  ovvero, se è uno, debbono dirci che cos’ è quel che del molteplice fa un’unità. E poichè la definizione similmente possiede unità, neppure di es sa sanno rendersi conto. Ed è naturale che avvenga così, perchè la ragione è la stessa: la  sostanza è una nello stesso senso, non, come intendono alcuni,  quasi fosse una specie di unità o di punto, ma perchè ciascuna è atto in atto compiuto e una natura determinata.  E come il numero non ammette un più e un meno nell’esser  suo, così neppure la sostanza in quanto forma; ma, se mai,  in quanto è unita alla materia (*).   Bastino queste considerazioni intorno alla generazione e  corruzione delle sostanze suddette, in qual senso è possibile  e in quale no, e intorno alla riduzione di esse al numero.    CariToLO IV.    Per quanto riguarda la sostanza materialmente considerata, non si deve trascurare che, se anche tutto viene da  uno stesso elemento primitivo o dagli stessi elementi primitivi, e una medesima materia serve da principio alla generazione delle cose; pure, c’è una materia propria di ciascuna  di esse. Per es., materia, immediatamente, della flemma sono  elementi dolci e grassi, della bile elementi amari o altri che  siano: anche se hanno la stessa origine. Per uno stesso oggetto ci possono esser più materie, quando una sia materia  dell’altra: poniamo, la filemma si può dire che vien tanto     La sostanza è esattamente (puntualmente, quasi matematicamente) quel  che è. Ci può esser un più o un meno nel suo essere, se mai, considerandola dal  lato materiale (in quanto, poniamo, non ha ancora realizzata pienamente ia sua  forma). dal grasso quanto dal dolce, se il grasso deriva dal dolce;  e si può anche dire che vien dalla bile, se si risolve questa  sino alla sua materia prima. Poichè una cosa si dice che  viene da un’altra in due sensi: o nel senso che l’una è uno  svolgimento dell'altra, o perchè segue all’altra risolta ne’ suoi  elementi ('). Può darsi poi, che la materia sia la stessa,  eppure, mercè la causa motrice, divenga cose diverse, per  es., il legno può diventare tanto un armadio che un letto.  Per alcune cose affatto diverse ci vuole di necessità una  materia diversa: ad es., un’ascia non si potrebbe fare di  legno, e non è questione qui della causa motrice, perchè  nessuno potrebbe fare un’ascia con lana o legno. Se, quindi,  c’è modo di fare uno stesso oggetto di materia diversa, è  chiaro che l’arte e il principio motore è lo stesso. Che se  così la materia come il motore son diversi, anche il prodotto  è diverso.   Quando si domandi quale è la causa di una cosa, potendo di causa parlarsi in molti sensi, bisogna enumerare  tutte quelle che possono far al caso. Per es.: qual’è la causa  dell’uomo in quanto materia? Certamente, il menstruo. Che  cosa fa da motore? Lo sperma, per l’appunto. Quale, da  forma? La pura essenza. Quale, da scopo? Il fine dell’uomo.  Si può dire che queste due ultime cause coincidano. Bisogna,  poi, delle cause addurre quelle più vicine, e se si chiede la  materia, non rimontare al fuoco e alla terra, ma a quella  ch’è propria.   Per le sostanze naturali, dunque, e soggette a generazione  è necessario procedere così, se si vuole procedere dirittamente,  dato che tali e tante sono le cause, e che noi dobbiamo conoscere le cose per le loro cause. Ma per le sostanze che,  sebbene naturali, sono eterne, la questione è diversa. Alcune  probabilmente, non hanno materia, o almeno non l’hanno  come quella ricordata, ma una materia mutabile soltanto  spazialmente. E neppure per quante cose avvengano naturalmente, ma non sono sostanze, non si può far questione di materia: in esse è la sostanza soggetta al fenomeno che  fa da sostrato. Poniamo che si cerchi la causa dell’eclissi.  Qual’è la materia? Non c’è la materia, ma c’è la luna  che subisce l’eclissi. Quale la causa motrice dell’eclissi, e  che sottrae la luce? La terra. Quanto allo scopo, non pare  che sia da parlarne('). La causa formale è il concetto, ma  esso resta oscuro, se non è accompagnato dalla causa.  Per es., che cos’è l’eclissi? Privazione di luce. Se si aggiunge che ciò avviene perchè la terra s’interpone nel mezzo  tra il sole e la luna, allora questo è un concetto accompa-  gnato dalla causa (?). Quanto al sonno, non è chiaro quale  sia il suo primo sostrato. Che altro  si può dire  se non  l’animale? Certo, ma da qual punto di vista considerato?  e qual è l’organo ch’è propriamente affetto? Il cuore, o un  altr’organo. Poi: da che cosa è prodotto? Anche: qual’è  l’affezione propria, non dell'organismo intero, ma di quell'organo? Si dirà ch’è una specie d’immobilità? Sì, ma per  quale affezione propria e primitiva di un organo ha luogo  quell’ immobilità?    CapPiTtoLO V.    Poichè alcune cose esistono senz’esser generate, o non  esistono senza che perciò siano perite, ad es., il punto (*)  (dato che si possa parlare della sua esistenza) e, in generale, le specie e le forme; e poichè non la bianchezza diviene, ma il legno bianco  se ogni cosa che si genera, si  genera da qualcosa e diviene qualcosa ; non basta, dunque,  che ci siano due contrari perchè si generino l’uno dall’altro:  un uomo nero diventa bianco, ma non si può dir nello stesso Il movimento del sole è, senza dubbio, Evexé tov, e così quello della luna;  ma i due, agendo insieme, possono produrre un risultato che non è Évexé tou»  (Ross, a q. l.): l'eclissi è, dunque, un esempio di quel taùrépatov, di cui si parlò  in VI. 2-4 e VII. 7.    Efficiente: che, in questi casi, si accompagna alla formale in sostituzione  della finale (Ilnddove, nelle cose che si generano secondo natura, la causa formale è insieme finale, $ 4, anzi efficiente-finale). modo che il nero diventi bianco. Aggiungi che non in ogni  cosa c’è materia, ma in quelle soltanto che si generano e  passano le une nelle altre: tutte quelle che ci sono o non  ci sono, senza quel passaggio, non hanno materia. Sorge  qui la questione: come si comporta la materia di ogni cosa  rispetto ai contrari? Per es., se il corpo ha in potenza la  salute, e alla salute è contraria la malattia, ha, dunque, in  potenza tutte due? E l’acqua è in potenza vino e aceto?  Ovvero essa è materia del primo secondo la sua natura e  per rispetto alla forma, e del secondo per privazione e per  una degenerazione contro natura? Si può domandare anche  perchè, sebbene l’aceto venga dal vino, il vino non è materia dell’aceto e aceto in potenza. E l’essere vivente, similmente, è forse un cadavere in potenza? Non pare: la degenerazione non è mai sostanziale; ma è la materia dell’essere  vivente quella che nella degenerazione è materia e potenza  del cadavere, così come l’acqua dell’aceto. L'una cosa, qui,  vien dall’altra nello stesso modo, che la notte dal giorno (!).  Quando il passaggio tra gli opposti è in questo modo, bisogna rimontare sino alla materia d’entrambi: per es.,  affinchè dal morto si generi il vivo, bisogna che quello ritorni prima alla materia, e da questa poi si avrà il vivo;  e l’aceto ridivenga acqua, per poi diventar così vino. Ripigliamo la questione sollevata intorno alla definizione  e al numero: qual’è la causa della loro unità? Poichè tutte  le volte che le cose hanno parti molteplici e il tutto non è     Cfr. XII. 4, 5: l'aria è la loro materia comune. Questa, dunque, può  avere un processo di evo!zimento (l’acqua diventa vino), o di degenerazione  (aceto); onde soltanto per accidens si può dire che il vino diventa aceto. Così il  vivo non è il morto in potenza (quasi che questo fosse l’atto di quella potenza:  l'atto è sempre una realtà superiore): scomparendo la forma, con la morte, resta  la materia, e questa è che si corrompe (e ridotta alla materia originaria può  riprendere di qui il processo ascensivo verso la vita). Ricorda, per la generazione  dei contrari, il Fedone come un mucchio, ma è qualcosa di totale oltre le sue parti,  dev’esserci qualcosa che sia la causa della loro unità (‘). Lo  vediamo anche nei corpi: talora è un’esterna adesione la causa  della loro unità, talora una coesione interna, o altra condizione del genere. La definizione è una serie di parole che  ha unità, non per un collegamento di parti similmente all’ Iliade, ma perchè di un’unica cosa. Che cos'è, per es., che  fa l’unità dell’uomo, e perchè è uno e non molti, animale e  bipede? Alcuni dicono, per l'appunto, che esiste un animale  in sè e un bipede in sè. E perchè, allora, l’uomo non  potrebb’essere quelle due cose, ed esser uomo per partecipazione, non del concetto di uomo e di un’unica essenza,  ma di due, animale e bipede? In breve: l’uomo non sarebbe,  così, una cosa sola, ma più: animale e bipede. È chiaro che  per questa via, abituale a quei che in tal modo definiscono  e parlano, non si riesce a dar conto e a sciogliere la questione. Se, invece, come noi dieemmo, l’una cosa è materia  e l’altra è forma, l’una è in potenza e l’altra in atto, quel  che si cercava non apparirà più dubbio (’). La difficoltà  sarebbe la stessa come se la definizione di « vestimento » (5)  fosse « bronzo sferico »: poichè quel nome sarebbe il segno  del concetto, e rimarrebbe quindi a sapere la causa per  cui la sfericità e il bronzo fanno una cosa sola. Ma la  difficoltà scompare, se si fa osservare che l’uno è materia e     Nota in questo concetto il deciso superamento dell’empirismo, come già  in VII. 17, 8 88.    Cfr. VII. 12. Ma in questo capitolo il pensiero è portato a un punto più chiaro  e decisivo per il concetto dell’atto che in questo libro accompagna o sostituisce  quello della forma. Qui il dualismo è superato: materia e forma non 8’ intendono,  e non esistono, l'uno fuori del rapporto all’altro (e così essenza ed esistenza,  individuo e universale): è la forma stessa che dà ragione del sinolo nel processo  di determinazione di questo dalla potenzialità all’attualità. Per il $ 1 osserva lo  Schwegler (che ha spesso acute considerazioni per il lato filosofico): « Ci sono  due specie di unità: quella dell'aggregato e quella organica. Nelle produzioni  organiche della natura, ad es., il tutto non è un prodotto, ma, invece, il prius e  la ragione del prodursi delle parti. Soltanto ciò che ha unità formale, ha una  ragione del suo esser uno; tuttavia anche i corpi inorganici, 6e fanno un insieme,  hanno un principio, esteriore, per la loro unità » {p. 151).    Cfr. VII. 4, 7: per accentuare, con l’unità del nome, l’unità della definizione.    ARISTOTELE, Metafisica, 18    Q74 METAFISICA    l’altra è forma. E qual’è la causa per cui l’essere potenziale 5  diviene attuale? Non ce ne può esser altra, nelle cose soggette al divenire, fuori di quella efficiente. Nè può esserci  causa diversa, per cui l’essere ch’era sfera in potenza è ora  sfera in atto, se non la pura essenza, ch'è la ragion d’essere  di ciascuno dei due. '  La materia poi può essere o sensibile o intelligibile (*). 6  E il concetto si compone sempre di una parte ch’è la materia e di una ch’è l’attualità sua: per es., cerchio è una  certa figura piana. Le cose, invece, che  come individua- 7  lità, qualità, quantità  non hanno materia nè sensibile nè  1046 b intelligibile, sono immediatamente ciascuna qualcosa che ha  unità e realtà per se stessa (?). Questa è anche la ragione 8  per cui nelle detinizioni non han luogo nè l’essere nè l’uno:  chè la pura essenza è immediatamente, per se stessa, qualcosa che ha essere e unità, onde nella definizione e nella  pura essenza non c’è bisogno di chiedere altra causa, fuori  di loro stesse, della loro unità e realtà: poichè ciascuna quel  certo essere e quell’unità determinata, che le competono, li     La distinzione, qui, ha altro senso che in VII. 10, 18 (dove riguarda le  cose). Nella definizione il genere è materia intelligibile. (Anche materia sensibile, se la definizione è, in più largo senso, del composto e della cosa sensibile: cfr. VII. 7, 12; VIII. 2, 6-7).    Tali sono le categorie. « Ch'esse non abbiano materia intelligibile, è chiaro:  materia intelligibile noi diciamo i generi, e delle categorie non c'è un genere,  chè sono esse i generi somml e non è possibile che ci sia una natura che li sorpassi in generalità. Ma neppure hanno materia sensibile, perchè questa è delle  cose composte e sensibili, non già delle cose semplici e intelligibili: ora, l’individualità e la quantità e le altre categorie sono realtà semplici e intelligibili »:  Alessandro (562, 32). Noi le diremmo concetti puri: efr. VII. 9, 8-9.  Per l'ente”  e l'uno, cfr. III. 4,31 ss. Il tne può esser inteso per le pure essenze in generale  (cfr. IX. 10,7; X. 1,4), 0 per quella delle categorie (così il Ross). Nel primo caso  l’immediatezza e molteplicità dovrebbero esser risolte ($ 5) nell'unità mediata  del pensiero definitorio, quando questo fosse considerato, non più in una logica  discorsivo-soggettiva, ma nell'attività del nous che in essa si esplica. Questo  punto è molto oscuro in A., per il quale il nous è il primo principio logico-gnoeeologico, e però principio e fine anche della verità del pensiero dianoetico; ma  l’atto della vénaws non perciò si risolve nel processo di esso: chè nell'uomo, come  fn Dio, esso è, por se stesso, immobile (e il suo proprio oggetto è semplice, senza  composizione). Cfr. IX. 10, 6-9; XII. 9,8. Nel secondo caso si dovrebbe intendere la definizione (delle categorie) in senso molto largo. ha immediatamente, per se stessa, e non come se li ricavasse  dall’ Ente e dall’Uno considerati come suoi generi, ovvero  come se questi esistessero separatamente oltre ciascuna di esse.   Intanto, questa difficoltà ha dato occasione ad alcuni di  parlare di partecipazione, senza che poi abbiano saputo dire  quale sia la causa della partecipazione, e in che consista questo  partecipare. Altri parlano di associazione psichica, e, per es.,  Licofrone (') dice che la scienza è un’associazione del sapere  con l’anima; e c’è chi dice che la vita è una composizione  o collegamento di anima e corpo. Ma, così, si può ripeter  sempre lo stesso discorso: e l’esser sano sarà un’associazione  o composizione o collegamento, che dir si voglia, dell'anima  con la salute; e il triangolo di bronzo sarà una composizione  di bronzo con triangolo, e il bianco una composizione di una  superficie con la bianchezza. La ragione per cui parlano così  è ch’essi cercano un concetto unificatore e insieme la differenza della potenza e dell’attualità. Ma, come noi abbiamo  esposto, la materia ultima e la forma sono una e medesima  cosa (°), l’una in potenza, l’altra in atto. Sarebbe come se  uno cercasse la causa dell’unità e dell’esser uno un oggetto:  chè uno è qualsiasi oggetto, e l’essere in potenza e l’essere  in atto sono in certo modo una cosa sola. Sicchè non c’è  qui altra causa dell’unità tranne quella motrice, che fa passare l’essere dalla potenza all’atto. Ciò, invece, ch'è immateriale, è sempre e assolutamente un’unità per se stesso (?).     Sofista seguace di Gorgia: cfr. Zeller, IS, 1323 (n. 3).    f toyxktn Gin xal # poegà taòrò xal Év (come gradi di un processo unico,  ma cfr. nota a IX. 8, 1). Questo non hanno inteso coloro (Platonici e altri) che,  dopo aver separate le due cose, cercano «un concetto unificatore ».    Qui par chiaro che (in contrasto con le cose soggette al divenire) si parla  del tne in generale, e delle specie esistenti come puro atto (di cui alla nota a  VII. 8, 3). Così vien conchiusa la polemica contro l’ Uno e l'Ente dei Platonici,  risolvendo l’astrattezza di questi principii nella determinatezza del tne (che ha  unità e realtà immediatamente per se stessa: $ 7), o del xéde x (in cui l'unità e  realtà del tne si media nel processo della potenza-atto: per quanto ricompaia  quì l'immediatezza del tne nell’identità dei due termini materia-forma, o si rimandi il principio unificatore della loro dualità a una causa motrice o efficiente,  $ 5, la quale può essere esteriore all’attualità del c68e t.: l’uomo che genera  l'uomo. o lo scultore che produce la statua).    LIBRO NONO    CapPiTOLO I.    1 Noi abbiam parlato dell'essere fondamentale, cioè della  sostanza, ch’è ciò a cui tutte le altre categorie dell’ essere  si riferiscono: chè in grazia del concetto di sostanza consideriamo come reale tutto il resto: la quantità, la qualità, e  quant'altro si predica di essa in questo modo: tutte implicano il concetto della sostanza, come dicemmo nei ragio 2 namenti precedenti. Ma, poichè dell’essere si parla, per un  rispetto, come qualcosa di determinato, o come quantità o  qualità; per un altro, come potenza e come atto finale, e  come il realizzarsi di questo ,  dobbiamo adesso passare   3 a dir della potenza e dell’atto finale. E cominceremo dalla  potenza nella sua principale e più propria significazione,  ancorchè non sia quella che più c’interessa qui (*): poichè 1046 a     Eoyov è tanto l’azione o funzione che realizza il fine (tò téAi0g), quanto la  cosa in cui questo si è realizzato. Più difficile ancora è tradurre èvreAéyera [forse,  da vò tvredèg Egov, 0 Evreiws Exov: Ross]: atto finale, sia nel senso che ha il fine  in 8è, e sia nel senso che esso è il fine a cui tutto il resto tende come alla propria perfezione. In questo secondo significato easo vuol essere atto puro, atto in  atto, onde ogni potenzialità sia risolta nell’attualità piena e perfetta del t6be tu  (che ha realizzato, così, il tne). Nel primo significato èvr. è, più generalmente,  l’attività (#véoyea) o principio efficiente del processo che porta la potenza  a risolversi nell’attualità, la materia nella forma o pura essenza del reale.  Cfr. nota a VII. 13, 1.    In Metafisica (chè il movimento è oggetto, più propriamente, della Fisica).  Alla l. 36: yenarpotamn (Ab, Aless.).    278 METAFISICA    potenza ed atto si estendono molto al di là delle cose considerate meramente in rapporto al movimento. Dopo di aver  accennato alla potenza in quella significazione, illustreremo,  nella determinazione: dei concetti riguardanti l'attualità,  anche gli altri suoi significati.   Altrove (‘') abbiamo spiegato già come le parole Potenza  e Potere si possono adoperare in molti sensi. Lasceremo qui  da parte tutti quelli in cui si parla di potenza per semplice  omonimia: chè alcune si chiamano potenze soltanto per una  certa somiglianza: ad es., in geometria possibile o impossibile dicesi quel che è o non è in certo modo.   Ma quelle che appartengono alla stessa specie, tutte hanno  carattere di principii, e vengono riferite ad un unico concetto  originario della potenza, ch’è quello di esser principio di  mutamento in altro o in sè in quanto altro. C'è, infatti, la  potenza di patire, che nel paziente stesso è il principio di  mutamento passivo per opera di altro o di sè in quanto altro;  così come c’è l’abito per cui una cosa non può patire peggioramento o distruzione da un principio di mutamento che  sia in altro o in sè in quanto altro. Tutte queste definizioni  contengono il concetto di potenza nel suo senso originario.  E potenze poi chiamansi medesimamente sia quelle del fare  o patire in generale, sia quelle del fare o patire in maniera  conveniente: sì che anche nel concetto di esse è immanente  in certo modo il concetto delle potenze dette dianzi. È dunque  evidente che la potenza del fare e quella del patire esistono,  per un rispetto, come una sola e medesima potenza, e per Vedi V.12 (e note per la traduzione dei termini). In generale, potenza è iu  primo luogo la facoltà o capacità di dar principio a un processo di mutamento  in altro, o in 8è in quanto altro (come se un medico curi se stesso: egli cura sè,  paziente, in quanto altro da sè, agente); o di ricevere questo processo. La potenza è, quindi, o attiva o passiva: quest'ultima è o di patire in generale, o di  ricevere un mutamento in meglio (o in peggio): potenza attiva e potenza passiva, quindi, possono esser ristrette al senso dell’agiro o patire bene (in modo  conveniente rispetto a un fine). Come nota il Bonitz (p. 379), questa distinzione  si complica con l'altro significato del Buvarév e dduivarov, di ciò ch'è « possibile »  o «impossibile ». Nè A. tiene abbastanza distinti questi due punti di vista: l'uno  reale; l’altro logico-reale, in assoluto, o in senso empirico (di ciò che può accadere, o no): ch'è un senso affine a quello dell’ èvSeyxbpevov. altro rispetto come cose diverse: poichè fornito di potenza è  un oggetto tanto se ha la capacità di patire esso stesso per  opera di altro, quanto se ha quella di far patire un altro  per opera sua. Per un rispetto, infatti, la potenza è in quel  che patisce, perchè esso patisce ciò che patisce, ed è altro  dall’agente, in quanto ha in sè un certo principio a essere  [e a non-essere], ed è là materia un tal principio: così, il  grasso è infiammabile, e ciò ch’è fragile si può far in pezzi,  e via dicendo similmente per gli altri casi. Per altro rispetto,  la potenza è nell’agente, per es. il caldo o l’arte di costruire  è l’uno nel calorifero, l’altra nel costruttore. Per cui, se in  un essere i due aspetti non sono distinti, non può patir nulla  da sè: esso è uno e identico con sè, e non diverso da sè.   La mancanza di potenza, poi, o impotenza, è la privazione ch'è il contrario di tale potenza: onde ogni potenza  si oppone a un’impotenza, dello stesso oggetto e per lo stesso  rapporto. Ma di privazione si parla in molti sensi ('): privazione c’è se l'oggetto non ha certe qualità, semplicemente;  o non le ha mentre naturalmente dovrebbe averle, o sempre,  o quando dovrebbe averle: e in quest’ultimo caso se ne manca  in un modo determinato, per es. perfettamente, o ne manca  in ogni modo. E in certi casi parliamo di privazione anche  per quelle cose a cui la violenza ha tolto ciò che avrebbe  naturalmente. Poichè principii siffatti trovansi e negli esseri inanimati  e in quelli animati, nell'anima e in quella parte di essa  provvista della ragione, è chiaro che anche delle potenze  alcune sono irrazionali, altre s'accompagnano alla ragione.  Tutte le arti e scienze poietiche sono potenze: principii,  cioè, di mutamento in altro o nell’agente in quanto altro.  Tutte quelle dotate di ragione sono, ognuna, potenza insieme di contrari; di quelle irrazionali ognuna è potenza di Così anche in un solo contrario: ad es., il caldo ha la potenza di scaldare  soltanto, mentre la scienza medica riguarda tanto la malattia  quanto la salute. E la ragione è che la scienza è concetto, e 3  uno stesso concetto fa vedere insieme il fatto e la sua privazione, ma non nella stessa misura, perchè, pur essendo il  concetto di entrambi, fa vedere piuttosto il lato positivo. Sì  che anche ognuna di dette scienze sarà, insieme, dei contrari: dell’uno, tuttavia, per se stessa, dell'altro non per se  stessa: poichè il concetto riguarda l’uno per se stesso, l’altro  in certo modo per accidente (‘). Esso fa vedere, infatti, il  contrario negativamente e per rimozione: chè il contrario  del fatto consiste nella privazione originaria, e questa si ottiene con la rimozione del contrario positivo. E poichè i con- 4  trari non possono esser insieme nello stesso oggetto, e la  scienza invece per la sua razionalità è una potenza quale  8’è detta; e poichè l’anima ha in sè il principio del movimento,  avviene che, mentre ciò ch’è salubre produce soltanto la salute, e il calorifero soltanto calore, e il frigorifero  soltanto freddo, l’uomo che sa produce amendue i contrari.  Poichè il concetto abbraccia ambedue, sebbene non nella 5  stessa maniera, e ha sede nell’anima, la quale, possedendo  in sè il principio del movimento, e unendo col pensiero i  contrari nello stesso oggetto, li può muovere (?) entrambi in  virtù del medesimo principio. Ecco perchè le potenze agenti  razionalmente, abbracciando i contrari con un unico principio, la ragione, operano contrariamente a quelle che della  ragione sono sfornite. Così come il non-essere è un essere per accidente, non in sè e per sè. Nel  pensiero, tuttavia, il rapporto è più profondo: i due concetti sono uniti; anzi uno  è la negazione (&rmégpaars), la rimozione (&ropopd) 0 privazione originaria (reotm,  radicale), dell'altro (del positivo): dal quale soltanto ricava il proprio significato.  C'è un accenno, rilevato dallo Schwegler (p. 160), al concetto della mediazione.  Infatti, il principio di entrambi è il medesimo ($ 5).    Produrre (i concetti contrari dell'oggetto, i. e. l’oggetto stesso della contrarietà). If principio del movimento è l’appetito, comune agli animali. Ma l'uomo  soltanto è potenza attiva capace di produrre effetti contrari, perchè presenti insieme nel guo pensiero, e questo solo fa dell'appetito una volontà consapevole  (Si può trovare, così, un accenno al libero arbitrio). L'animale non sa, ed è, per  ciò, come le cose, che non hanno possibilità di scelta. È evidente anche che alla potenza di operare o patire in  modo conveniente si accompagna sempre la potenza difoperare o patire semplicemente, laddove a questa non si accompagna sempre quella: per la ragione che, se si opera bene,   . necessariamente, anzitutto, si opera; ma non per il fatto di  operare, semplicemente, segue di necessità che anche si  operi bene. Ci sono alcuni, ad es. i Megarici, i quali dicono che il  potere c’è soltanto quando c’è l’azione, e che quando l’azione  non c’è, neppure c’è il potere: per cui, poniamo, se uno  non costruisce, non ha il potere di costruire, ma l’ha chi è  costruttore quando costruisce; e negli altri casi, similmente.  Non è difficile vedere in quali assurdità vanno a conchiu 2 dere. Poichè è chiaro che nessnno sarebbe più costruttore  se non costruisce, laddove esser costruttore è esser in grado  di costruire; e così dicasi per le altre arti. Se, dunque, è  impossibile che possegga tali arti chi non le ha una volta  imparate e apprese, ed è impossibile che uno non le possegga più se non le perde (o per dimenticanza, o per qualche 1047 a  malattia, o perchè è passato molto tempo: non certamente  perchè intanto sia andata distrutta l’arte: chè essa c'è  sempre): come il costruttore perderebbe l’arte quando cessa  di costruire, e come poi di nuovo l’acquisterebbe appena si   3 mette di nuovo a costruire? E dicasi lo stesso per le cose  inanimate: nè il freddo, nè il caldo, nè il dolce, nè in generale nessuna cosa sensibile esisterà più se noi non la sentiamo:  sì che ad essi accadrà di ripetere il ragionamento di Protagora. E neppure possederà la sensibilità chi noh si trovi     Lett.: l'oggetto (me&iypa) dell’arte, il concetto. Questo capitolo e il seguente si attaccano meglio al cap. I.    Cfr. IV. 5-6. Costoro, dunque, accentuano della dottrina protagorea il momento attualistico (nel senso puntualistico, dell'istante temporale). Per quanto  riguarda il concetto della possibilità, che costoro fan coincidere con quello della  realtà (dell'essere, riannodandosi, così, all'affermazione parmenidea, che esclude a sentire effettivamente, in atto. Se, quindi, cieco è chi, pur  fornito da natura della vista, non vede quando sarebbe in  condizione di vedere, accadrà che uno stesso, perdurando ad  essere, diventerà molte volte al giorno cieco e sordo. Inoltre,  se impotente (') si-deve dire ciò ch’è privato della potenza,  ciò che non è già in divenire sarà impotente a divenire, e  mentisce quindi chi afferma che ciò ch’è impotente a divenire  è o sarà: poichè questo appunto si vuol dire con «impotente ». Ma, allora, con questi ragionamenti si sopprimono  il movimento e il divenire: ciò che si trova in uno stato,  sempre starà in quello, e chi è seduto starà seduto sempre,  e chi si siede non potrà alzarsi più: poichè, chi non ha la potenza di alzarsi, è impotente ad alzarsi. Se, dunque, questi  son discorsi che non reggono, è manifesto che potenza e atto  non sono la stessa cosa, e poichè, invece, quei discorsi fanno  della potenza e dell’atto una sola cosa, bisogna dire ch’ essi  cercano di sopprimere una differenza che non è trascurabile.  Invece, noi diciamo che ben può darsi che qualcosa abbia  la potenza di essere, e intanto non sia, e abbia la potenza  di non essere, e intanto sia; e che la cosa sta similmente  per tutte le categorie, onde, ad es., chi ha la potenza di  camminare può anche non camminare, e chi ha ia potenza  di non camminare può anche camminare (?). Un essere ba  una certa potenza se non c’è nessuna impossibilità ch'egli    il nou-essere e il divenire), e intorno al significato della testimonianza di Diodoro Crono in proposito (sul quale v. Zeller, II4, 1, 269), v. MEIER, in Archiv f.  Gesch. da. Philos., XIII. 31, e le considerazioni del Ross (a q. l.). O «impossibile » (&8yvatov): qui sono conglobati i due significati, della  potenza reale e della possibilità logica; e la tesi vien presentata da A., così:  Se impotente (impossibile) è ciò che non può (non ha la potenza di) essere, di  questo non si può dire nè che è, nè che sarà: può essere soltanto ciò che attualmente è anche quello che sarà o non sarà.  Ciù che già non è in divenire, ciò  che non sta accadendo, attuandosi (yiyvépevov, meglio di yevépevov).    LI. 23-24: fadlterv e 6v, invece di fadltov e eivar (così anche il Ross).  Per accentuare di più il concetto di possibilità bisognerebbe tradur quel che  segue, così: « Possibile è una cosa se non c'è nessuna impossibilità (nessun assurdo) che abbia luogo l'atto di ciò di cui quella dicesi aver la potenza». Una  contaminazione dei due concetti è necessaria ad evitare l'apparenza, almeno  verbale, di un circolo vizioso. traduca in atto ciò di cui dicesi aver la potenza. Voglio dire,  ad es., che se uno ha la potenza di sedere e si trovi a dover  sedere, non c’è nessuna impossibilità, per lui, di passar all’atto. E similmente se si tratta d’esser mosso o di muovere,  di situarsi o di situare, di essere o divenire, di non essere  o non divenire.   La parola «attività», implicante un rapporto all’ entele‘chia o atto perfetto, sebbene estesa ad altri significati, trae  origine principalmente dalla considerazione dei movimenti,  poichè sembra che il movimento soprattutto sia attività. Ecco  perchè alle cose che non esistono nessuno attribuisce movimento, bensì alcuni altri predicati: si dice, per es., che  sono pensabili o desiderabili cose che non esistono; ma non  che siano in movimento: e questo perchè, altrimenti, cose  che attualmente non esistono dovrebbero già esser in atto. 1047 b  Ben è vero che, delle cose che non esistono, aleune hanno  la possibilità di esistere; ma non esistono, in quanto non  ancora è cominciato il processo finale che le realizza. Ora, se « fornito di potenza» è quel che s'è detto (in  quanto ne è una conseguenza) (*), è manifesto che non si  può esser nel vero dicendo: questo è possibile, ma non si  realizzerà mai: giacchè, in questo modo, ci sfuggirebbe che ci  son cose che non posson essere. Prendiamo un esempio: se  uno dicesse che la diagonale è possibile misurarla, ma non L'èvéeyera sembra, qui (6-9), distinta dalla xivnois, in quanto questa riguarda il principio di mutamento in altro (I, 5), quella, equivalendo all’evreréyera  (nel primo significato, di cui alla nota 1, 2), è attività che realizza se stessa (come  Sè o come altra? cfr. XII. 9, 5-6). Il pensabile non esiste fisicamente, e però non  gli si attribuisce movimento; pure può esistere nel processo di realizzazione dell'attività del pensiero, se questo si pone a pensarlo.    dvvatév è quando non c'è nessuna impossibilità ecc., come al $ 7 del capitolo precedente.  Costoro, attualizzando l’eusere parmenideo, sopprimono la  distinzione tra ciò che ha e ciò che non ha la potenza di realizzarsi (tra « possibile » e «impossibile »: tutto è possibile, anche se non avverrà mai). sarà misurata mai, perchè niente vieta che una cosa che  può essere o divenire, non sia ora nè in seguito,  costui    ragionerebbe come se non ci fossero casi d’impossibilità. Invece, da quel che s’è stabilito dianzi deriva di necessità  che, affinchè sia lecito anche solo supporre l’essere o il divenire di una cosa che non esiste ancora, ma è possibile,  bisogna ch’essa non racchiuda nulla d’impossibile. Ma nel  caso accennato si avrebbe qualcosa d’impossibile: chè la  diagonale e il lato non sonò commisurabili. Si badi che il  falso e l'impossibile non sono la stessa cosa: che tu stia in  piedi ora, è falso, ma non è impossibile (').   E chiaro è, insieme, che se, A essendo, è necessariamente 8, allora, se A è possibile, dev’ essere possibile anche  B: poichè, se questa possibilità non seguisse di necessità,  niente impedirebbe la possibilità ch’esso non sia neppure.  Poniamo, ora, che A sia possibile. Allora, una volta che 4  è possibile, se si pone che 4 sia realmente, nulla d’ impossibile dovrà risultarne. Allora, anche B dev’essere reale.  Invece, si voleva sostenere ch’è impossibile. Poniamo, allora, Vero e falso possono riguardare soltanto la logica discorsiva,  ma anche la verità o falsità reale: nel qual ultimo caso, l'impossibile, coincidendo col contradditorio, è anche il falso (cfr. V. 12, 8-9 e 29, 1). L'impossibile,  invece, qui, non è il contradditorio, semplicemente, ma «ciò che non ha la potenza  di realizzarsi ». Il ragionamento mira dunque ad affermare la necessità che la  potenza, 6e è reale, passi (o abbia l’effettiva capacità di passare) all’atto: si realizzi, cioè, quandochessia, poichè non presenta nessuna difficoltà, reale e logica,  interna. Così mi par da intendere anche quel che segue, in cui il rapporto tra  A e 8 non dovrebb'esser pensato come rapporto tra due realtà, ma come rapporto tra due concetti e momenti del processo (potenza e atto) della stessa realtà.  (In Anal. Pr., dove è lo stesso ragionamento, il rapporto è tra premessa e conseguenza nel sillogismo ipotetico). Non si scordi, infatti, che A. qui  polemizza contro l’affermazione megarica Buvatrdv pèv toòl, oùx Eorar dé: ch'è  inaccettabile, dice A., perchè, dato che A e B sian due concetti di cui l’uno richiama l’altro, non si può affermare la possibilità o realtà dell'uno senza affermare la possibilità o realtà dell'altro. Il passaggio dalla potenza all'atto è,  quindi, logicamente necessario, e ancho realmente, data la concezione deterministica universale di A., per il quale ogni processo, essendo in qualche modo  sempre già iniziato, deve pervenire al suo compimento; ma, poichò la questione  è qui realistica anche in senso empirico, il passaggio o compimento può non  esser determinato nel quando e nel come. Cfr. nota a VI. 3, 4 per il concetto  dell’accidente e del caso. che B sia impossibile. Se B è impossibile, impossibile necessariamente è anche A. Ma s'era posto che A fosse possibile: allora, anche B è possibile. Se, dunque, A, è possibile, anche B sarà possibile, dato che A e B siano in tale  relazione che la realtà dell’uno porti di necessità la realtà  dell'altro. Se, trovandosi A B in quella relazione, la possibilità di B non stesse a questo modo, allora neppure 4 B  avranno tra loro la relazione che s'era posta. Se, invece,  quando A è possibile, di necessità anche 2 è possibile, dato  che A sia reale, sarà necessariamente reale anche B: poichè,  che l’esser possibile di B consegua di necessità se l’essere  di A è possibile, vuol dire appunto questo: che, dato che  A sia possibile, quando e come è possibile, anche la possibilità di B e il quando e il come di essa son dati. Di tutte le potenze che possediamo, parte sono congenite,  come quelle dei sensi; parte si acquistano con l’abitudine,  come quella di suonar il flauto; ovvero con l’insegnamento,  come quella delle arti ('). Quelle che si acquistano con l’abitudine e col ragionamento, esigono di necessità un precedente esercizio dell’attività. Quelle invece che non s’acquistano così, e le potenze passive, di quel precedente esercizio  non han bisogno.   Una potenza è sempre una potenza determinata a qualcosa, e in certo tempo, e in certo modo, e con tutte le altre  condizioni che debbono far parte della definizione. E ci sono  esseri che han potenza di muovere secondo ragione, e di  cui le potenze s’accompagnano perciò alla ragione; altri  sono sprovvisti di ragione, e le loro potenze sono irrazionali.  Le prime necessariamente esistono in esseri animati, le se   Per es., l’arte del medico. Questo capitolo prosegue l’argomento del cap. 2.  E si richiama alla nota dottrina aristotelica dell'atto che precede l’'Egts tin cui  consiste la virtù: etica e dianoetica): v. Eth, Nic. conde possono esistere negli animati e in quelli inanimati.  Queste ultime potenze son sì fatte che, quando l’agente e il  paziente s’incontrano in modo conforme alla loro potenza, di  necessità l’uno agisce e l’altro patisce; per le potenze razionali, invece, tale necessità non c’è. Quelle, infatti, son tutte  tali che una di esse può produrre uno solo dei contrari;  queste, invece, entrambi; sì che, se tale necessità valesse  anche per loro, produrrebbero insieme i contrari: il che è  impossibile. Bisogna, allora, che sia qualch’altra cosa quel  che decide (‘). Voglio dire il desiderio o la scelta razionale: quello dei due contrari che l’animale ragionevole appetisce definitivamente, quello farà, quand’ egli si trovi conformemente alla sua potenza e in contatto con ciò che può  ricevere la sua azione. Per cui, necessariamente, l’essere  che ha potenza conforme a ragione, fa, quando lo desidera,  tutto ciò di cui ha la potenza, e nel modo che l’ha. Egli  ha, tuttavia, tale potenza se il paziente è presente e nelle  condizioni determinate: altrimenti, non potrà operare. Nò  c’è bisogno di aggiungere nella determinazione che niente  di fuori faccia impedimento: perchè ognuno ha la potenza  nel modo in cui questa è potenza effettivamente, e questa  non è potenza di operare in qualsiasi modo, ma in condizioni determinate; e in ciò è implicita anche l'esclusione  degl’ impedimenti esteriori, in quanto questi sopprimono alcune delle condizioni essenziali alla determinazione. E così  pure, se uno volesse o desiderasse far nello stesso tempo due  cose diverse o anche opposte, non potrà furle: poichè non  è così ch’egli ha la potenza di fare quelle cose, e non esiste  potenza di farle insieme; egli farà soltanto ciò di cui ha, e  come ha, la potenza. Un principio interno, non esterno: la volontà, ossia l'appetito illuminato  dalla ragione (principio delle virtù etiche), ovvero la ragione mossa dall'appetito  (principio delle virtà dianoetiche): per l’5peew e la xooalgeow v. Eth. Nic.Nota il riflesso della legge dei contrari nella potenza dell'agire  umano, e la determinazione storico-empirica dell'atto volontario, in cui l'antitesi  libertà-necessità è risolta nel senso del secondo termine.    un Dopo aver parlato della potenza considerata in rapporto  al movimento, passiamo a trattare dell’atto per determinare  quel ch’esso è, e i suoi caratteri. Con questo anche la potenza verrà chiarita, pur che si ponga mente alla distinzione  per cui noi diciamo dotato di potenza non soltanto ciò che  muove naturalmente altro o da altro è mosso, senplicemente  o in modo più determinato, ma anche in un significato diverso: che è quello pel quale abbiam condotta anche la ricerca su i precedenti significati.   L’atto è l’esistenza stessa dell’oggetto, non nel senso in  cui diciamo ch’è in potenza (noi diciamo ch’è in potenza,  ad es., un Ermete nel legno, o la metà di una linea nella  linea intera, in quanto si può cavarla da questa; e diciamo  che uno è un pensatore anche se non sta speculando, perchè  è in grado di speculare): intendiamo, invece, che sia in atto.  Ciò che vogliam dire diventa chiaro ricorrendo a casi particolari, induttivamente: non bisogna esigere definizione di  tutto, ma bisogna talora contentarsi d’intuire il significato  dei termini nel loro rapporto (‘). L’atto, dunque, sta alla potenza come il costruire al saper costruire, l’esser desto al  dormire, il guardare al tener chiusi gli occhi pur avendo la  vista, come l’oggetto cavato dalla materia ed elaborato compiutamente sta alla materia grezza e all'oggetto non ancora  finito. Con il primo dei membri di questa differenza intendiamo che venga determinato l'atto, con il secondo la po   tò dv&hoyov ovvogiv (ho svolto il concetto di proporzione; ma qui è compreso anche quello di analogia nel senso più comune). Per il pensiero, cfr. 8. Tom.  (1826): «Nam prima simplicia definiti non possunt, cum non sit in definitionibus  abire in infinitum: actus autem est de primis simplicibus, unde definiri non potest». Vedemmo già (VIII. 6, 7 n.) un equivalente in A. del moderno «concetto  puro ». In questo senso, anche, è anapodittica la filosofia prima (ma, poi, per lui  gi tratta di principi primi nel senso di ciò ch'è dato immediatamente all'origine  del conoseere: cfr. i passi di Anal. Post. cit. in nota a I. 9, 91). Pure, per la parte  di verità ch'è in tale intuizione, non è giustificata l'accusa ch'egli, per definire  certi concetti, ne adoperi altri che già li presuppongono.tenza. Ma non tutte le cose si dicono in atto nel medesimo 6  significato, salvo che non s’intenda analogicamente, come  quando si dice: questo sta in questo o a questo nello stesso  modo che quello sta in quello o a quello. Esse, invece, sono  in atto, parte, come il movimento in rapporto alia potenza;  parte, come la sostanza in rapporto a una certa materia (').  Per l’ infinito (*), tuttavia, e pel vuoto, e per tutte le cose 7  di questa specie, si parla di potenza e atto in significato diverso da quello, più usuale, di quando diciamo, ad es., che  uno guarda, o cammina, o che un oggetto è veduto. Queste  affermazioni possono talora corrispondere a una realtà vera  e propria: noi diciamo che una cosa si vede, o perchè è  veduta effettivamente, o perchè è in condizione d’esser veduta. L’infinito, invece, non è mai in potenza nel senso che  possa poi diventare in atto una realtà esistente per se stessa:  esso è infinito in potenza per il pensiero. Poichè dal fatto     Nel primo caso l'atto (attività) è definito dal rapporto tra due momenti  del procosso che realizza la forma (questo a questo: per es. il materiale grezzo  in rapporto alla costruzione della casa, o chi è seduto all'alzarsìî e camminare);  nel secondo, come attualità della forma determinata (questo in questo: la casa  esistente, Socrate che cammina). L’eévéoyera è qui distinta dalla x(vnaws, non nel  primo significato dell’EvreAéyewa (v. nota a 3, 9), ma nel secondo.    Il Ross (II, 252) riassume brevemente, dalla Phys. (III. 4-8), la dottrina  di A. su l’infinito. L’estensione è infinita, per A., soltanto nel senso della divisibilità: xatà dualgeswy, non xatà nedodeav (delle sue parti). Il numero, invece,  infinito (&irergov, indefinito) xatà snodateaw, nel senso della possibilità di pensarne sempre uno maggiore; non xetà Bdialgearv (chè dividendo si perviene  all'ultimo limite, all'unità). E la sua infinità non è reale fuori del suo processo.  Il tempo soltanto è infinito xatà Sualpeaw e x. rododeorv : infinitamente divisibile  e realmente infinito; ma la sua infinità è, come quella del numero, in continuo  divenire. Quanto al vuoto, similmente (P/ys., IV. 6-9): per quanto una materia  si pensi più rarefatta di un’altra, non esiste spazio senza qualche materia.   Si può aggiungere che, proprio per questo rapporto tra spazio e materia,.  A. concepisce l'estensione come finita; e che il tempo è per lui infinito nel senso  in cui è eterno il movimento (cfr. XII. 6, 2), ossia il divenire stesso. E che l'infinità del numero, così come quella dello spazio, è veduta nell’attività del peneiero che si esercita su l'oggetto, per sè, sempre finito. Così pel vuoto: solo col  pensiero si può vuotare lo spazio di ogni contenuto. Probabilmente A. polemizza  qui contro la dottrina democritea, oltre che contro i presupposti delle argomentazioni zenoniane e le conseguenti applicazioni della scuola megarica.  Un’esposizione della dottrina, tratta spec. dai libri di fisica, è in A. CovotTiI, Le teorie  dello spazio e del tempo nella filosofia greca fin aà A. (Pisa che non si trova mai la fine a dividere, si deduce che questo  è un atto che ha una realtà puramente potenziale, non che  l'infinito abbia una propria attuale esistenza (').   Delle azioni che hanno termine (*), nessuna ha valore di  fine, ma soltanto di mezzi al fine: per es., il termine del  dimagrare è la magrezza, e se quel che d imagra si riguarda  così, quando è in questo movimento che non ha raggiunto  ancora lo scopo per cui il movimento avviene, non si può  dire che ciò costituisca un’azione, o, per lo meno, un’azione  perfetta: perchè non è questo il fine. Ma quando nel movimento si trova il fine, allora esso è anche azione. Per es.,  l’atto del vedere è quello stesso di aver veduto, quello di  pensare e intendere è quello stesso dell’aver pensato e inteso; invece, quello di chi impara non è lo stesso di chi ha  imparato, nè quello di chi guarisce è lo stesso di chi è guarito. L’atto del ben vivere è quello stesso dell’aver vissuto  bene, e quello dell’esser felice è lo stesso in chi fu felice.  Altrimenti, bisognerebbe una volta arrivare al termine del  movimento, come quando si fa la cura di dimagrare. Qui,  invece, no: chè si seguita a vivere, sebbene si sia vissuto  f1) Non ostante l’incertezza (l’infinito, in quanto indefinito, ha pure una sua  esistenza), è chiaro ad A. che il concetto d'un infinito attuato è contraddittorio  (onde sì fa strada il sospetto che la vera infinità è soltanto del pensiero).  Cfr. XI. 10. Il Bonitz accusa A. perchè, mentre prima aveva definita la potenza,  contro i Megarici, come capacità di attuarsi, l'attribuisce qui, mira levitate, a  un oggetto che tale capacità non ha. Ma l’infinito non è un oggetto nel senso  delle cose, intorno alle quali verte la disputa precedente. E in ogni modo era da  notare con meraviglia anche il lato profondo, messo allo scoperto da A., in tale  contraddizione.    Il brano seguente, sebbene il pensiero dominante sia abbastanza trasparente, è nel testo tra i più guasti di tutta la Metafisica. Esso manca nel codice  parigino E (sec. X), nel commento di Alessandro e in quello di 8. Tommaso, e  nella traduzione del Bessarione. C'è nel codice laurenziano Ab (sec. XII). AccoGliendo alcune congetture del Bonitz (p. 397) sul testo, si può intendere cosi: il  dimagrare ha per fine la salute, non il fatto della magrezza a cui pon capo il  movimento del dimagrare; e se azione o attività è aver il fine ultimo in sè, 80ltanto l’atto che non si esaurisce in un termine o fine particolare, ma rimane  essenzialmente identico a sè attraverso i momenti del procéèsso, è perfetto, ed è  vera e propria attività formale: tale è l’atto del vedere, del pensare, del vivere,  della felicità. Così la perfezione dell’ &vreAéyera (nel secondo significato) abbassa  a x{wnow ogni altra forma di attività (anche quella dell’apprendere). già. Di questi processi, dunque, gli uni son da dire movi- 11  menti, gli altri attività; poichè ogni movimento è imperfetto:   il dimagrare, l’apprendere, il camminare, il costruire: i quali  sono, appunto, movimenti, e però incompiuti. Infatti non è 12  possibile che coincida il passeggiare con l’aver passeggiato,   il costruire con l’aver costruito, il divenire con l’esser divenuto, o il muoversi e l’essersi mosso, e il muovere e l’aver  mosso: chè son cose diverse. Invece, l’atto del vedere e  quello d’aver visto, del pensare e dell’aver pensato, coincidono. Ora, un processo di quest’ultima specie io lo chiamo  attività; l’altro, movimento.    CapiTtoLO VII.    Da queste e altre simili considerazioni crediamo chiarito 1  quel ch’è l’essere in atto e i suoi caratteri. Ora vogliamo  determinare quando ciascuna cosa è in potenza, e quando  non è: poichè non in qualsivoglia tempo è tale. Per es.,   1049 a la terra è in potenza già un uomo, o non ancora, ma piuttosto quando già è divenuta sperma? E forse neppur allora.  Avviene qui come per la salute: non ogni cosa può esser  guarita o dalla medicina o da sè spontaneamente, ma ci vuol  qualcosa che abbia tale potenza, e cioè abbia già la salute  in potenza. Per le cose che dipendono dal pensiero si può 2  definir la questione così: esse passano dall’essere in potenza  all’atto, quando siano volute e niente faccia impedimento  dal di fuori; e dall'altra parte, in chi ha da guarire, niente  faccia impedimento di quel ch’è in lui ('). Dicasi similmente 3  di ciò che deve diventare una casa: esso è una casa in po   Alessandro (583, 12): « Per es., il medico conduce il malato dalla potenza  alla salute, quando se lo sia proposto e non ci siano impedimenti esteriori: il  luogo, il tempo, ece.: così dunque si dovrà definire l’atto dell'agenterazionale;  quello del paziente, invece, dal non esserci impedimenti interiori: perchè un  malato guarisca, si richiede, infatti, che tutte le sue membra siano in condizione idonea a ricevere la salute ». tenza se niente faccia impedimento di quel ch'è in esso, sl  che alla materia che deve diventar casa, non ci sia nulla  da aggiungere, nè da togliere o mutare. E altrettanto dicasi  per tutte le altre cose di cui il principio generatore è fuori.  Per quelle, invece, di cui il principio generatore è in loro,  esse hanno tale potenza allorquando, nessun ostacolo intervenendo di fuori, si realizzeranno da sè. Lo sperma, ad es.,  non ancora ha tale potenza, abbisognando di passare in altro  e trasformarsi. Solo quando una cosa sia in grado di realizzarsi per un principio suo proprio, si può dire ch’è già in  potenza: lo sperma, invece, ha bisogno d’un altro principio ('): così come la terra non ancora è statua in potenza,  ma deve trasformarsi e divenir bronzo.   Come ognuno può notare, dell’oggetto non diciamo ch'è  questo (in cui è in potenza), ma ch’è fatto di questo: l’armadio, poniamo, non è legno, ma di legno; e il legno non  è terra, ma di terra; e la terra, a sua volta, se deriva da  altro, non è quest’altro, ma è fatta di quest'altro. E quest’altro è sempre, propriamente, la potenza di quel che vien  subito dopo: per cui, ad es., l'armadio non è terra, nè di  terra, ma di legno: chè questo è armadio in potenza, e questa  è propriamente la materia dell’armadio (dell’armadio in generale, il legno in generale; di questo armadio particolare,  questo legno particolare). Che se s'incontra qualcosa di primitivo, che non venga più denominato da altro come fatto  di esso, allora quello è la materia prima: se, per es., la terra  è di aria, e l’aria è di fuoco, e il fuoco non venisse denominato da altro, allora il fuoco sarebbe la materia prima (?).  Questa, poi, soltanto se diviene qualcosa di determinato, è  sostanza. Infatti, in questo differisce il sostrato o soggetto:     Il risultato dell'unione è, poi, propriamente, la materia come potenza concreta dell'essere umano (come principio già del processo generatore).    La quale ha, quindi, sempre qualche determinazione: soltanto in rapporto  a ciò che diventerà (poniamo, l’aria), è materia priva di forma. Ho seguito nel    testo l'emendamento proposto dal Christ (conforme ad Aless., 589, 24). Per secondo ch'è, o no, un «che determinato » (‘). Il sostrato 8    delle affezioni è, ad es., un uomo, un corpo, un’anima; e affezioni sono l’ esser musico o bianco. E quando la musica diviene  nell’uomo, noi non diciamo che egli è la musica, ma musico,  così come non diciamo ch'egli è la bianchezza, ma bianco,  non è la passeggiata o il movimento, ma passeggia o si  muove: così come dianzi dicevamo di un oggetto ch’esso è  fatto di questo o quello. In tutti i casi di questo genere il  sostrato ultimo è la sostanza. In quelli, invece, in cui non  sì tratta di un’affezione, ma quel che vien predicato è una  forma e alcunchè determinato, allora l’ultimo sostrato è la  materia o sostanza materialmente considerata. In ogni caso,  si conchiude che drittamente l’oggetto, che diciamo fatto così  o così, prende questa denominazione dalla materia e dalle  affezioni: perchè quella e queste sono indeterminate. Quando, dunque, si deve dire che un oggetto è in potenza, e quando no,  s’è detto.    CapirtoLo VIII.    Dopo quanto fu determinato dei vari significati in cui si  parla di priorità (*), risulta chiaro che l’atto è prima della,  potenza. È intendo non soltanto della potenza che fu da noi  definita come principio di mutamento in altro o in sè in  quanto altro; ma, in generale, di ogni principio di movimento     Alla 1. 28: xa@'ob (invece di xa#6Aov): proposto dall’Apelt, accolto dal  Ross. Il sostrato, o soggetto, o è un téde ti, sostanza ch'è il soggetto delle determinazioni secondarie; ovvero è la materia, di cuî si predica la determinazione  essenziale, la forma. Cfr. VII. 3, 7 e 13, 1. Il bianco, o la bianchezza, è un indeterminato, se non venga aggiunto  {(aggettivamente, come per la materia) a «uomo», o a «Socrate ».  Per quel che segue, cfr. De Caelo. La natura  è principio del movimento immanente alla cosa stessa; potenza, invece, è principio di movimentò in altro in quanto altro» (o in sè in quanto altro). Sarà,  dunque, immanente alla cosa in quanto sè? Ma, da un lato, l’alterità è necessaria  al movimento; dall’altro, come parlare di un sé della cosa? A. si limita a porre,  qui come altrove, entrambe le esigenze: la dualità dei termini, e l’unità del  processo (equivalente, per A., all'identità dei termini: cfr. anche 1, 7-10).  o d’inerzia. La natura, infatti, appartiene allo stesso genere  della potenza, come quella ch'è principio di movimento, sebbene non in altro, ma nella cosa in quanto è essa stessa.  Di ogni potenza, dunque, così intesa, l’atto è prima, e  pel concetto e per la sostanza; per il tempo, in un senso sì,  in un senso no.   Che sia prima quanto al concetto, è evidente, poichè fornito di potenza, nel senso originario del termine, è ciò che  ha la possibilità di passare all’atto: per es., chiamiamo costruttore chi ha la potenza di costruire, veggente chi è in  grado di vedere, e visibile ciò che si può vedere: così dicasi  per gli altri casi. Sì che necessariamente il concetto di atto  precede quello di potenza, e la conoscenza dell’uno quella  dell’altro.   Esso, poi, è prima quanto al tempo in questo senso: l’individuo attivo è prima di quello in potenza in quanto è lo  stesso per la specie; invece, considerato nella sua identità  numerica, è prima in potenza, e poi in atto. Mi spiego: di  quest'uomo qui ch’è già in atto, o di questo frumento o di  quest’occhio che vede, c’è prima, in tempo, la materia, il  seme, la facoltà visiva, i quali sono uomo, frumento, occhio  che vede, in potenza, non ancora in atto. Tuttavia li precedettero altri esseri in atto, dai quali essi furono generati.  Poichè sempre dall’ente in potenza si passa all’ente in atto  in virtù di un ente in atto: ad es., l’uomo vien dall'uomo,  il musico vien dal musico, Sempre deve precedere un motore, e questo è già in atto. Abbiamo già visto ne’ ragionamenti intorno alla sostanza  che ogni cosa che diviene,  diviene qualcosa, da qualcosa, e per opera di qualcosa ch'è  della stessa specie di essa.   Per cui si vede anche l’impossibilità che uno divenga  costruttore se non ha mai costruito nulla, o citaredo senza  aver mai suonato la cetra: poichè chi vuol imparare a suonar  la cetra, suonandola, impara a suonarla. E similmente per  ogni arte. Di qui prese nascimento l’argomentazione sofistica che non c’è bisogno di possedere la scienza per fare ciò di  cui questa tratta ('), perchè, finchè uno impara la scienza,  non la possiede. Se non che, come di ciò che diviene qualcosa già dev’essere divenuta, e in generale di ciò che si  muove qualcosa deve già essersi mossa (questo punto fu illu  1950 a strato nei libri intorno al movimento) (*); così, chi “apprende    una cosa, deve necessariamente conoscerla già in parte.  Anche per questa via, dunque, risulta chiaro che l’atto, pur  da questo lato, del processo generativo e del tempo, è prima  della potenza.   Ma anche in riguardo alla sostanza l’atto è prima della  potenza: prima di tutto, perchè quel che pel divenire è ultimo, per la forma sostanziale è prima: per es., l’adulto è  anteriore al fanciullo, e l’uomo allo sperma: l’uno ha già  realizzata la specie che l’altro non ha ancora. In secondo  luogo, ogni cosa che diviene muove verso un principio e  un fine: lo scopo di una cosa ha valore di principio, e il  divenire è per il fine: questo fine è l’atto, ed è in grazia  di esso che si pone la potenza: chè l’animale non vede a  fin d’aver la vista, ma ha la vista per vedere. Similmente,  anche l’arte del costruire c’è per il costruire, e l’abito speculativo per lo speculare: e non è già che gli uomini speculino per aver l’abito speculativo: salvo il caso di coloro     Lett.: «cho chi non possiede la scienza può far ciò di cui questa tratta »:  per es., sonare la cetra. Cfr. EthA. Nic., II. 1 e 3. La scienza è in atto nel maestro  (col quale, in certo modo, fa tutt'uno lo scolaro). Nota il solito avvicinamento  della produzione naturale a quella umana (consapevole).    Phys., VI. 6. Anche nell’individuo, dunque, se si guarda al processo in  sò dell’attività (superando il dualismo tra l'esterno e l’interno), l’atto precede  la potenza (questa è già attività). Chè, come il sapere vien dal sapere (cfr. I.  9, 94; Anal. Post., I. 1. 71 a, 1), così l’attività non può venir che dall’attività stessa.  Inavvertitamente A. sorpassa la distinzione posta al $ 4 tra l'individuo e la spocie  empiricamente intesi (termini da lui stesso riconosciuti astratti altrove) e il Ssignificato meramente cronologico del tempo (in cui l’argomentazione, come ognun  sa, non può esser conchiudente): questo gli si fa equivalente al divenire sostanziale dell'individuo come suo svolgimento interno (conforme al concetto di quo  al 6 1). Cfr. note a 6, 7 e VII. 1, 4.  Le considerazioni che seguono, riguardano l'atto come principio finale e formale del processo stesso di svolgimento,  secondo il canone fondamentale di A., onde ciò che in esso è posteriore spiega  quel che vien prima. che lo fanno per esercitarsi, dei quali si può dire ch’ essi  non speculino veramente, tranne che in certo senso, 0 che  di speculare non sentono ancora veramente il bisogno .  Inoltre, la materia è in potenza perchè può pervenire alla  forma; ma quando sia in atto, allora è già formata. E così dicasi delle altre cose, anche di quelle di cui il fine è il movimento (?): onde, in quel modo che gl’ insegnanti pensano d’aver  raggiunto lo scopo quando han potuto mostrare lo scolaro  in azione, così fa anche la natura. Se così non avvenisse, sarebbe il caso dell’ Ermete di Pausone: anche la scienza, come  quella statua, non si saprebbe se è fuori o dentro (*). Poichè l’azione è fine, e l’atto è azione: per cui il nome stesso  di atto  si dice in rapporto all’azione, ed esprime la tendenza alla realizzazione finale. In alcuni casi, poi, il fine  ultimo è nell’uso stesso della potenza, per es., della vista è  il vedere, e niun’altra opera si attende dalla vista fuori di  questa. In altri casi, si realizza qualcos’altro oltre l’atto:  per es., per l’arte del costruire c’è la casa oltre l'atto del  costruire. Tuttavia non si può dire che l’atto sia meno il  fine della potenza in questo caso, e più in quello (*): poichè  l’atto del costruire si esercita nell’oggetto che vien costruito,  e il suo processo si realizza insieme con la casa. In quelle     Queste parole «quomodo sint interpretanda, equidem me non intelligere  confiteor ». Bonitz (p. 403); anche per il Ross (II, 262) sono « excessively difficult ».  Mi sono avvicinato al Lasson. Stesso: com'è il caso dell’apprendere (in coi non c’è una materia che  attende di passare nella forma, come per la casa); o del vedere (in cui il fine  ultimo è l’uso stesso della potenza).    « Questo Pausone, statuario, fece un'immagine di Ermete in una certa  pietra, e chi guardava vedeva nella pietra Ermete; ma non era chiaro se fosso  fuori della pietra o dentro di essa»: Aless. Ma Pausone era un pittore  (avrà Aless. pensato a III. 6, 9; V. 7, 7, ecc?). Secondo il Ross, si trattava di  un'illusione pittorica,  Se è (soltanto) fuori (il sapere: come un’abilità verbale);  oppure: se è (soltanto) dentro (come mera potenza).    azione: Eeyov; atto: evéoyera; realizzazione finale: èvtedéyera. Nel secondo caso pare che i! fine della potenza non sia l’atto (il costruire), ma il fatto (la casa). Ma non è così, dico A.: «quia ipsa actio est in  facto, ut aedificatio in eo quod aedificatur. Et aedificatio simul fit et habet esse  cum domo »: $. Tom. (1863). Gli altri (meno bene) intendono: Nel primo caso  (del vedere) l’atto è fine; nel secondo (del costruire) è fine più della mera potenza. cose, quindi, in cui vien prodotto qualcos'altro oltre l’uso  della potenza, in esse l’atto si mostra in ciò che vien fatto:  per es., il costruire nel costruito, il tessere nel tessuto, e  similmente per altre cose; e, in generale, l’atto del movimento è in ciò che vien mosso. Quando, invece, non c’è  qualche altra opera oltre l’atto, questo è tutto nel soggetto  stesso dell’attività: per es., il vedere nel veggente, il pen  1650 b sare nel pensante, la vita nell'anima, e però anche la feli  cità: la quale, infatti, è una vita d’una certa specie. Conchiudendo, è evidente che la sostanza e la specie sono atto.  E, secondo lo stesso discorso, è evidente che, per la sostanza,  l’atto è anteriore alla potenza; per il tempo poi, come abbiam detto, si concepisce sempre un atto avanti l’altro, fino  a quello del Motore primo ed eterno.   Ma l’atto è primo anche in un più alto senso: perchè  l'eterno è, per la sostanza, prima di ciò ch'è corrattibile,  e nulla di ciò ch’è eterno è in potenza soltanto. La ragione  è questa: ogni potenza è potenza di entrambi insieme i contradittorii, in quanto  mentre il non poter essere non può  esistere come proprietà di nulla  ogni potenza reale, invece,  può anche non esser in atto. Quindi, ciò che ha la potenza  di essere può essere e anche non essere. Ma ciò che può  non essere può darsi che non sia, e ciò che può darsi che  non sia è corruttibile, o in senso assoluto, o per quel che  di esso dicesi che può non essere: relativamente al luogo,  ad es., o alla quantità, o alle qualità. Corruttibile, in senso  a ssoluto, è una cosa, se corruttibile è la sua sostanza. Ora,  niuna delle cose assolutamente incorruttibili è, in quel senso,  un essere in potenza, sebbene nulla impedisca che tale sia  per qualche rispetto ('): per una qualità, ad cs., o per il  luogo. Le cose incorruttibili, dunque, sono attuali. E neppure  le cose necessarie posson esser in potenza, e nondimeno esse  sono originariamente (*) esistenti: chè, se queste non esistes   Gris pBPagrév = p#. xatà ovolav (nascere e perire); in senso relativo  (xatà 0), ciò che muta di quantità, di qualità o di luogo. Ofr. VIII. 1, 8 (e nota).    ne@bta: è probabile che queste cose necessarie siano i principii primi in  senso logico e insieme réale. sero, nulla esisterebbe. E se c’è un movimento che sia eterno,  neppur esso è in potenza; e se esiste un essere eternamente    * mosso, non è possibile che sia mosso in potenza, salvo che non ci si riferisca a un punto di partenza o di arrivo ('):  chè per questa specie di movimento può bene ammettersi  che sia provvisto d’una materia. Per questa ragione è sempre  in attività il Sole, e gli Astri, e il Cielo tutto quanto, e non  c’è da temere che mai si fermino, come han paura i Fisici (*): chè il loro operare non li stanca. E non li stanca  perchè il loro movimento non riguarda, come quello delle  cose corruttibili, la possibilità dell’una o dell’altra parte della  contradizione (*), che renderebbe faticosa la continuità del  movimento. Causa di tal fatica negli esseri corruttibili è  l'essere materiale, e potenziale, non attuale, della sostanza.  Pure, anche le cose mutevoli, come la terra e il fuoco, si  sforzano d’imitare quelle incorruttibili: anch’esse, infatti,  hanno in sè e per sè il movimento (‘), onde sono in continua  attività. Ma le altre potenze, di cui s’è ragionato, son capaci di contradizione in quanto, quel che ha potenza di muover  così, può muovere anche non così: quelle, s'intende che agiscono secondo ragione. Le potenze irrazionali, invece, son  capaci di contradizione solo in quanto possono esser presenti  o assenti (°).     « Quia licet non sit in potentia ad moveri simpliciter, est tamen in potentia ad hoc vel ad illud ubi»: S. Tom. Per la materia meramente  tori, v. n. cit. dianzi a VIII. 1, 8.    Sembra alluda specialmente ad Empedocle: cfr. De Caelo. L'essere e il non-essere, tra i quali ha luogo il nascere-perire (mutamento    i sostanziale).     «Il movimento è una specie di vita in tutti gli esseri costituiti naturalmente » (Plys., VIII. 1.250 b, 14). Ein De Gen. et Corr., II. 10. 337 a, 2: « Anche le  altre cose, quante si mutano le une nelle altre, per es. i corpi semplici, imitano il  movimento di traslazione ;circolare ». Ovvero, si accenna alla continuità del movimento (spaziale) degli elementi in generale (Aless., 593, 12); 0 a quello in giù  della texra, in su del fuoco (v. Ross, a q. l.).   (5) Ciò ch'è salubre produce sempre e soltanto la salute, ma può esserci, e  anche non esserci (e in questo caso non produrla). Cfr. cap. 2,4 e 5, 4-5. La possibilità logica (contraddizione) e quella reale (contrarietà) si alternano in questo  paragrafo, come nel 21. Per entrambi i p. d. v. si distinguono queste altre po«onze dalle precedenti (eterne). Sia pure, dunque, che esistano certe nature o sostanze 28  del genere di quelle che sostengono coloro che dei concetti  fanno altrettante Idee; ma chi fa della scienza esisterà con   1061 » maggior ragione della scienza in sè, e ciò che si muove  molto più che l’idea del movimento: poichè questi esseri  sono a maggior titolo attività, e quelle idee, invece, sono  meramente loro potenze.   Che, dunque, l’atto è prima della potenza e di ogni prin- 29  cipio di mutamento, è manifesto.Che poi, in confronto alla potenza del bene l’atto sia mi- 1  gliore e più degno di onore, si vedrà da quanto segue. Tutto  ciò che noi diciamo esser in potenza, ha il potere di realizzare l’uno e l’altro contrario ugualmente: quel che diciamo,  ad es., poter esser sano, è lo stesso che può anche esser malato, ed ha la potenza delle due cose insieme: poichè la potenza di esser sano è la stessa di quella di esser malato,  così come quella di esser in riposo o in movimento, di costruire o di abbattere, di esser costruito o abbattuto. Ma  se il potere dei contrari si trova ad esser insieme, è impossibile, poi, che questi esistano insieme, ed è impossibile che  sì trovi insieme la loro attualità, per es., che uno sia sano  e malato insieme. Di qui vien la necessità che soltanto uno  dei contrari realizzi il bene, laddove la potenza è di entrambi  similmente, o di nessuno dei due. L’atto è, dunque, migliore. Che se si tratta del male, la compiutezza dell’atto 2  dovrà, necessariamente, esser peggiore della potenza: chè  questa è tanto al bene quanto al male, medesimamente (*).     L'atto, per sè, è perfezione, sempre, anche se di cose cattive: cfr. V.  16. 2. Qui, del resto, si parla di perfezione naturale, non morale. Cfr. l’&getà  quow in Eth. Nic., II. 6. 1106 a, 15: «Ogni virtù perfeziona il ben condursi di  ciò di cul è virtù e rende pregevole la sua operazione: per es., la virtù dell’occhio fa l'occhio valente e valente l'operazione sua; parimenti la virtù del È evidente, quindi, che il male non esiste fuori delle cose  quaggiù, poichè esso esiste, per natura, posteriormente alla  potenza. Ed anche questo è evidente: che ne’ principii primi  e negli esseri eterni non han luogo nè il male, nè mancamento, nè corruzione (anche la corruzione è una specie di  male).   Anche i teoremi geometrici si trovano per mezzo dell’attività, poichè si trovano facendo delle divisioni (‘). Se queste  fossero già eseguite, quelli sarebbero evidenti. Così, sono  soltanto in potenza. Ad es.: perchè gli angoli del triangolo  fan due retti? Si sa che gli angoli in ogni punto d’una linea  sono uguali a due retti: se, dunque, fosse già tirata la parallela a un lato (?), la cosa sarebbe chiara al primo colpo d’occhio. Perchè l’angolo nel semicerchio è sempre retto? Per  questo che, quando dei tre segmenti uguali, di cui due formano la base, si è elevato il terzo perpendicolare dal centro  al vertice, chi già sa che la somma degli angoli è di due  retti, vede subito chiaro (5).    cavallo fa il cavallo valente e buono al corso e a portare il cavaliere e a sostenere l’impeto dei nemici ». Non opportuno, quindi, il rilievo del Bonitz (p. 407):  «iudicium morale de bono et mali immisceri falso iis rebus, a quibus illud est  alienum ». Nò è erroneo il ragionamento che segue, come pensano il B. e il  Ross (II, 268), se si tien presente il passaggio, abituale in A., alla posizione 0ggettivistica, onde gli atti risultan graduati in corrispondenza delle cose stesse  e delle loro potenze (assolutamente buone, come quelle incorruttibili; capaci di  esser buone o cattive, o sempre cattive, come quelle corruttibili). E tà redypata  (ch'io ho tradotto: «le cose di quaggiù ») non oppongono le cose cattive in generale all'Idea del male (come Aless. e i moderni intendono): chè il discorso  varrebbe anche per l’Idea del Bene; ma le cose corruttibili alle incorruttibili.    Srargovvteg: ch'è operazione affine all'&varterv (benchè qui prevalga il  senso costruttivo), in cui consiste l’attività della è.&vora. V. passo di Erk. Nie.,  citata in nota a VII. 7, 7. E ric. il metodo dieretico di Platone.    Dall'estremo della base, e prolungando questa (come nella nota dimostrazione di Euclide).    Vede subito chiaro che i due triangoli uguali, in cui è stato scomposto  quello inscritto nel semicerchio, sono rettangoli isosceli, sì che l’angolo intero  alla circonferenza risulta di due metà di un retto. A. sceglie il caso più evidente  (perchè gl’isosceli son qui rettangoli); ma, com'è noto, il metodo di dimostrazione è lo stesso anche per gli altri casi (congiungendo il centro del cerchio col  vertice del triangolo si ottengono pur sempre due isosceli, con due retti al centro,  e due coppie di angoli uguali).  Dei tre segmenti uguali due formano il diametro,  il terzo è il raggio perpendicolare alzato dal centro.    300 3 MBTAFISICA    In conchiusione, è manifesto, che ciò ch’è in potenza noi 6  veniamo a scoprirlo riportandolo (') all’atto. E la ragione di  ciò è che intendere è attualizzare. Onde dall’atto vien la  potenza. E perciò, anche, le cose le conosce chi le fa. L’atto  è posteriore alla potenza nel divenire soltanto dell’ individuo  numericamente considerato.    CapitoLO X (?).    Dell’ essere e non-essere si parla o riferendosi alle figure 1  1051 b delle categorie, ovvero alla distinzione di potenza e atto per  ogni cosa che in esse si predica, e pel suo contrario (*); 0,  anche, in quanto vero e falso nel lor più proprio significato.   In quest’ultimo senso l’essere è considerato nelle cose in 2  quanto può essere composto o diviso. Per la qual cosa è nel  vero colui che pensa esser diviso ciò ch’è diviso, e composto  ciò ch’è composto; è nel falso, invece, chi pensa altrimenti   di come le cose stanno. Ora, si chiede: Esiste o non esiste, 3 O portandolo? Il Ross preferisce ky6peva ad àvaysueva. Ma, comunque si  preferisca, il problema è lo stesso, e involge tutto il pensiero aristotelico in un  nodo che può, giustamente, sembrare insolubile. La verità del teorema, come  ogni verità, vien da noi «scoperta » in quanto già c’è. Ed è in atto, in sè, sebbene soltanto in potenza per noi in quanto la dobbiamo ancora scoprire; e la  scopriamo riconducendola 8a quell’atto in cui il nostro intenderla coincide con  l'esser suo stesso: si che la dualità, in questo punto, cessa, e noi possiamo anche  dire che l’abbiamo conosciuta perchò l'abbiamo prodotta (sa chi fa).  Intendere  è attualizzare: vénow  tveoyera (meglio, col Ross: Î vénars èvée.: altrimenti,  bisognerebbe forse intendere che l’atto dell'oggetto è un atto del vos stesso:  il che è troppo vero per esser asserito, così semplicemente, da A. qui).  Per  l'individuo numericamente considerato, v. capitolo precedente, 4.    È dubbio che questo capitolo sia stato scritto originariamente per esser posto  a questo punto. I richiami a V. 7, 4-7e a VI. 2, 1-3 e 4,4 non sono decisivi su ciò.  Cfr. JAEGER (Entst., 49; Arist.). Invero, il rapporto tra il pensiero discorsivo  e la verità reale, tra l'unità del ne e l'atto di apprenderlo, non è questione  estranea all'argomento dei libri VII (cfr. Sommario per capp. 4 e 10), VIII  (capp. 3 e 6), IX (4, 3 e capp. 8 e 9). Dianzi s'è pur trattato di quelle sostanze  semplici ed eterne delle quali si ripiglia qui a parlare. Ma è il tono che, soprattutto, non si accorda con quello. complessivo della ricerca precedente. Il non-essere di ogni cosa in ogni categoria.  Nel lor più proprio significato: il testo vuole forse « nel suo più proprio 8. », riferito all'essere. Ma cfr. VI.  4, 4; nè sarebbe conforme al modo di pensare di A., sembra.    LIBRO NONO 301    quel che noi intendiamo per vero o per falso? Bisogna bene  che sappiamo quel che diciamo.   Considera, infatti, che, non perchè noi ti reputiamo bianco,  tu sei bianco davvero; ma, all'incontro, perchè tu sei bianco,  pensiamo il vero noi che ti diciamo bianco. Orbene, l'essere  di alcune cose è sempre unito e non può mai venir diviso,  in altre invece è sempre diviso e non può mai congiungersi,  in altre infine può trovarsi ne’ due modi opposti (‘). Se, dunque, l’essere di una cosa consiste nella composizione sì da  formare un’unità, e il suo non-essere nella divisione sì da  formare una molteplicità, nelle cose che possono trovarsi in  entrambi i modi la medesima affermazione può esser vera  e falsa, potendo ben avvenire che una volta si sia nel vero,  e un’altra nel falso. Invece, nelle cose che non possono  esser altrimenti di quel che sono, non avviene che una volta  si sia nel vero e un’altra nel falso, ma si è sempre o nel  vero o nel falso.   Ma quando l’essere di una cosa è semplice (?), in che  consiste il suo essere o non essere, e come di essa si può  ‘dire il vero o il falso? Chè non è già componibile o scomponibile, sì che esista quando c’è la composizione e non  esista quando c’è la divisione (come è il caso del legno di  color bianco, o della diagonale che non è commepnsurabile).  Qui il vero e il falso non può aver luogo nello stesso modo  che nelle cose dette prima (*), e, come il vero, così anche     Es: il triangolo e l’uguaglianza della somma degli angoli a due retti;  la diagonale e la sua commensurabilità al lato del quadrato; Socrate e il suo  camminare. V. per quel che segue, note a V. 29 e VI. 4: in questo secondo venne  accentuata sul primo la soggettività della sintesi-dieresi, in cui consiste il giudizio affermativo o negativo, e il vero o falso; qui si ricerca, invece, con un  passo ulteriore sul secondo, la corrispondenza oggettiva a quel principio logicosoggettivo.    Si potrebbe intendere delle pure essenze in generale, in sè e per sè, 6  delle categorie (cfr. VIII. 6, 7-8), e dei principii primi nel senso gnoseologico; ma anche, e forse meglio, in senso esietenziale, degli esseri immateriali. Comprese (come l'esempio della diagonale dimostra) quelle che sono sempre    vere o false nel giudizio. Qui vero == intendere (e il suo oggetto); falso = non  intendere, ignorare.    1052 a    302 METAFISICA    l'essere non può avere qui lo stesso significato che là. In  queste cose è possibile la verità e l'errore soltanto nel senso  che coglierle (') è già enunciarne la verità (enunciare non è  lo stesso che affermare), non coglierle vuol dire ignorarle.  Sbagliarsi sull'essenza di una cosa non è possibile tranne  che per accidente, e così pure non ci si può sbagliare per  quelle sostanze che non sono composte, perchè sono tutte in  atto, e non in potenza: chè, altrimenti, si genererebbero e  perirebbero, laddove l’essere che è in sè e per sè, non ricevendo il suo essere da altro, non nasce e non muore. In  conchiusione, quando l’essere delle cose è ciò che è, in atto,  su esso non è possibile ingannarsi: si può soltanto intendere  o non intendere. Tuttavia, si può chiedere ciò che esse sono,  se l’essenza loro è tale, o no.   Per l’essere nel senso del vero e il non essere in quello  del falso, si ha, dunque, nell’un caso, il vero se c’è una  composizione, il falso se questa non c’è; nell’altro caso, se  il suo essere è il suo stesso esser vero, e se non è così, neppure è (*). Chè la verità sua consiste nell’intenderla, e il  falso o l’inganno non ha luogo. Ci può essere ignoranza, ma  non come una cecità, chè, allora, vorrebbe dire che uno non  ha addirittura la facoltà d’intendere.     &yeîv, toccare. Cfr. XII. 7. 1072 b, 21 ($ 7). È l’apprensione immediata del  vero e reale: così anche l'atto dell’alo&nors (cfr. IV. 5, 19). E cfr. anche De An.,  ITI. 6. 430 b, 26-30: dove pure si accenna alla pdow come distinta dalla xatapagws;  cfr. De interpr., 6. 17a, 25: « Affermare è enunciare qualcosa di qualcosa ». Infatti, nel paragrafo seguente, si concede di chiedere ciò che esse sono.  La distinzione dei termini (del discorso in generale e di quello che ha valore propriamente logico) non è mantenuta altrove.  Chi chiede, non sa nel senso che  non gi rende conto ancora, e però può sbagliare per accidente.    Passo molto tormentato dagl'interpreti. Mi sono ispirato a S. Tom. (1915):  «Alio vero modo in rebus simplicibus verum est, si id quod est vere eng, i. e.  quod est ipsum quod quid est, i. e. substantia rei simplex, sic est sicut intelligitur; si vero non est ita sicut intelligitur, non est verum (in intellectu)». Toglierei queste ultime parole. In A., inoltre, l'equivalenza della verità del pensiero all'essere dell’oggetto è posta più immediatamente, anzi sottintesa più che  espressa (di qui una causa dell'oscurità del passo, il quale, in sostanza, sembra  voler affermare che per gli esseri semplici, così come per la véno, esiste la  verità, non l’errore: vero e falso, riguardo a essi, equivale ad esistere o non  esistere). Anche in riguardo agli enti immobili, finchè uno li considera tali, non è possibile, evidentemente, cadere in errore  quanto al tempo. Mi spiego: a meno che uno non pensi  che la natura del triangolo possa mutare, non potrà pensare che una volta la somma de’ suoi angoli è uguale a due  retti, e un’altra no (altrimenti, la sua natura mauterebbe).  Invece, può darsi che nello stesso genere reputi che un oggetto sia in un modo e un altro in un altro: ad es., che dei  numeri pari nessuno sia primo, ovvero qualcuno sì e altri  no (‘). Ma quando si tratta di un unico oggetto, questo non  è mai possibile, perchè non si potrà già credere che sia ora  in un modo e ora in un altro; ma, riguardo a esso, si sarà  nella verità o nell’errore nel senso che esso rimane eternamente uguale.     Ovvero, che il due sia primo, gli altri no (giustamente, se dei pari; non  cosi, se dei numeri in generale). Se l’oggetto è unico, per es. un tal numero,  non il numero in generale, neppure tale errore è possibile: il giudizio nostro  (vero o falso) implica ch'esso è sempre così. Dell’errore intorno al numero parla  anche il Teeteto Che dell’Uno si parla in molti modi, si disse già (') discorrendo dei molteplici significati di alcuni termini. Ma, pur  dicendosi in vari modi, questi si riducono  per le cose che  si dicono une, non per accidente, ma primariamente e per  Se stesse  a quattro capitali.   Uno dicesi, infatti, il continuo, o in generale, o score  tutto quel ch’è tale per natura, e non per contatto o per  legame esteriore; e questo tanto più e più propriamente è  uno, se sia di cose il cui movimento è meno divisibile e  più semplice (?).   Inoltre, uno, e a maggior diritto, è l’intiero (?), e ciò che  ha qualche figura e forma: specialmente se qualcosa sia tale     V. lib. V. 6: qui si tralasciano i modi accidentali; e quelli essenziali  vengon divisi in quattro corrispondenti, nell’ insieme, a quelli del lib. V d’individuo e l’universale sono una distinzione dell'unità dell'atto anche colà affermata,  nel $ 10, ma qui posta a fondamento, oltre che per il pensiero, anche per le cose).   Invece, prende il priino posto qui la trattazione colà brevemente accennata (13-15)  del concetto dell’unità in sè e per sò.    Per il rapporto tra i due concetti, di continuità sostanziale e unità del  movimento, cfr. nota a V. 6, 5.    All'interezza si accennò anche in V. 6, 12: qui ha maggior rilievo, e determina l'unità del movimento non soltanto in rapporto al tempo, ma anche allo  spazio (tale è, si direbbe, l’atto vitale: f 82 toù èveoyera xs toriv: Eth. Niec.,  X. 4. 1175 a, 12, e cfr. ivi, cap. 4, per il piacere, che nell’atto è sempre intero  e perfetto, e in questo senso non è della specie di movimento che si produce  attraverso le varie parti dello spazio e del tempo). per natura, e non per forza (come quel ch'è unito con la  colla, con chiodi o corda), ma abbia in se stessa la causa  della sua continuità. E tale è in quanto il suo movimento  è unico e indivisibile nello spazio e nel tempo: così che è  evidente che, se una cosa ha per natura il principio più eccellente di quel movimento ch’è primo (voglio dire, dei movimenti spaziali, quello circolare) ('), essa è, tra le cose estese,  una per eccellenza.   Queste cose, dunque, sono une così, o per continuità o  per interezza. Altre, quando uno sia il concetto. Tali sono  quelle di cui unica è l’intellezione; e tali, quelle che s’intendono con un atto indivisibile. E questo è indivisibile se  sia di ciò ch’è indivisibile per la specie o pel numero. Indivisibile numericamente è l’individuu; per la specie, ciò  ch’è tale per la conoscenza e per il sapere: sì che primariamente uno sarà quel ch’è causa dell'unità delle sostanze (?).   Si dice, dunque, l’uno in tutti questi sensi: ciò ch’è continuo per natura, l’intero, l'individuo e l’universale. E l’uno  vale per tutte queste cose, in quanto nelle une è indivisibile   1058 b il movimento, nelle altre l’intellezinne o il concetto.   Ma si ponga mente di non prendere come la stessa questione questa: quali sono le cose alle quali si attribuisce  unità; e l’altra: qual’è l'essenza propria dell’uno e il suo  concetto. L’uno, infatti, si dice in tutti i modi accennati, e  ogni cosa, a cui convenga qualcuno di questi modi, è una.     Dei movimenti spaziali quello circolare è perfetto, per la semplicità (indivisibilità) e continuità: tale, quello eterno del cielo: come si dimostra nel  cap. 8 del lib. VIII della Fisica (nel cap. 7 si era dimostrata la superiorità del  puro movimento spaziale, in generale, alle altre forme di movimento proprie delle  cose che si generano e mutano di quantità e qualità: cfr. qui VIII. 1,8; IX. 8, 25;  XII. 6,2 7,4).  Cose estese: lett. grandezza (peyedog: ciò che è o ha grandezza).    El principio dell'unità nel sinolo (sostanza) è la forma, la pura essenza  nel pensiero discorsivo, l'atto in sè nella realtà in generate, e la sua attualità  nell'individualità concreta.  Nota lo scindersi dell’atto della vénows, nel brusco  passaggio alle cose, nelle due categorie supreme del pensiero discorsivo: l’ individuo e l’universale (anzi, in quelle della conoscenza in generale: il dato della  percezione e quello, il concetto, della divora... L'oscillazione tra questi punti di  vieta spiega anche il passaggio tra i termini di concetto, specie, universale, che  ora coincidono e ora non coincidono nel pensiero aristotelico. Ma l'essenza dell’uno si dirà, talora, secondo qualcuno di  essi; tal’alra, secondo altro che è anche più vicino al nome,  e contiene quelli in potenza (').   La cosa sta come per elemento o causa: altro è se uno  debba determinare a quali cose si attribuisce, altro se debba  dare la detinizione del nome. Poichè come elemento si può  addurre il fuoco (e certamente l’indefinito per se stesso, 0  altro di questa specie, può essere un elemento) , ma anche  non addurlo: chè non è la stessa cosa esser fuoco ed esser  elemento: il fuoco è elemento in quanto è una cosa particolare, esistente in natura; mentre il nome elemento significa che questo appartiene al fuoco perchè c’è qualcosa di  cui esso è la parte costitutiva e originaria. Così dicasi anche  della causa e dell’uno, e di tutti gli altri termini somiglianti.   Per ciò, anche, l’essenza dell’uno è di esser indivisibile,  come quello che è un determinato ed ha una propria esistenza separata per lo spazio o per la specie o per il pensiero; o, anche, di esser un intero indivisibile (*); ma, soprattutto, di essere la prima misura di ogni genere, e in  primo luogo del genere della quantità: chè di qui si estese  agli altri generi. Passo un po' oscuro. Meglio di tutti, mi sembra, S. Tom.: « Hoc  ipsum quod est unum, quandoque quidem accipitur secundum quod inest alicui  dietorum modorum, puta ut dicam quod unum secundum quod est continuum,  unum est. Et similiter de aliis. Quandoque autem hoc ipeum quod est unum,  attribuitur ei quod est magis propinquum naturae unius, sicut indivisibili, quod  tamen secundum se potestate continet praedictos modos: quia indivisibile secundum motum, et continuum et totum; indivisibile autem secundum rationem,  est singulare et universale ».,   Qui si parla, infatti, del concetto puro dell’uno, in sè e per sè, non in rapporto alle cose, sebbene si dica che possa esser concepito anche secondo i modi  in cui l’uno si predica delle cose (ossia come essenza di questi: così intendo il  dativo della 1. 6, non, come il Bonitz o il Ross, quale termine di appartenenza  predicativa).  Prù vicino al nome, ossia al concetto puro (nota l'oscillazione tra  il punto di vista logico puro e quello verbale), è il concetto di misura.    L'indefinito: l'&xergov di Anassimandro (non il fuoco, s'intende).    Un intero indivisibile: par raccogliere l’unità formale e materiale, distinta prima in indivisibilità per lo spazio, per la specie o per il pensiero, analogamente al $ 11 di lib. V. 6. Il concetto di misura, dunque, vuol essere un  principio conoscitivo per ogni genere di cose, sebbene si applichi più comunemente al genere della quantità. Poichè misura è quella per cui si conosce la quantità; e  la quantità, in quanto tale, si conosce o per mezzo del numero  o dell'uno: ma ogni numero si conosce per mezzo dell’uno.  Per cui ogni quantità, in quanto tale, si conosce con l’uno;  e ciò per cui primieramente le quantità son conosciute è l’uno  in sè e per sè. L'uno, dunque, è il principio del numero in  quanto numero. Di qui anche per gli altri casi dicesi mi.  sura ciò per cui primieramente conosciamo ciascuna cosa,  e misura di ogni cosa è l’uno per la lunghezza, per la larghezza, per la profondità, per il peso, per la velocità. (Peso  e velocità, potendo ciascuno avere due significati, si usano  in comune per i contrari: pesante dicesi ciò che ha un qualsiasi grado di gravità e ciò che ne ha in eccesso, e veloce  ciò che ba un qualsiasi grado di movimento e ciò che ne  ha in eccesso: poichè anche ciò ch’è lento ha una certa velocità, e ciò ch’è leggero una certa pesantezza).   In tutti questi, dunque, la misura principale è qualcosa  d’uno e senza parti: anche nelle linee si usa come indivisibile  quella d’un piede. In ogni caso, infatti, si cerca per misura  qualcosa d’uno e indivisibile, e questo è ciò ch’è semplice  o per qualità o per quantità. Ora, dove sembra non esserci  nulla da togliere o aggiungere, ivi la misura è esatta: perciò    1053 a quella del numero è la più esatta, perchè l’unità si pone    come indivisibile per ogni rispetto, e negli altri casi non si  fa che imitare questa specie di misura. Di uno stadio, infatti,  e di un talento, e di ciò che in generale è più grande, ci  sfugge se qualcosa vien aggiunta o tolta, più facilmente che  per una quantità minore. Laonde quella prima, a cui niente  di percepibile può esser aggiunto o tolto, quella tutti prendono per misura: per i liquidi come per i solidi, per il peso  come per la grandezza. E allora pensano di conoscere la  quantità di una cosa, quando la conoscono per mezzo di  quella misura.   E anche il movimento si misura con quello semplice e  ch'è più veloce: chè questo occupa un tempo minimo. Ond’è  che in astronomia questa è l’unità che serve di principio e  misura (poichè si suppone che il movimento del cielo sia uniforme e il più veloce, e in rapporto a questo si giudicano  gli altri). E in musica, il diesis, perchè è l'intervallo minimo; e nella parola, la lettera. E in tutti questi casi c’è,  così, un qualcosa di uno: non come se l’uno sia qualcosa di  comune (‘), ma come s'è spiegato.   Ma non in ogni caso la misura è una numericamente;  talora è più di una: i diesis, ad es., son due (non per l’orecchio, ma per il computo) (?); e i suoni articolati, con cui misuriamo le parole, son più di uno; e due misure hanno la    ‘diagonale e il lato, e tutte le grandezze.    Così, dunque, l’uno è la misura di tutte le cose, perchè  noi conosciamo ciò di cui si compone la sostanza dividendola o secondo la quantità o secondo la specie. L’uno è perciò  indivisibile, perchè in ogni cosa ciò ch’è primo è indivisibile.  Ma non nello stesso modo ogni uno è indivisibile: per es.,  il piede e l’unità, questa è indivisibile per ogni rispetto,  quello vuol esser tale rispetto alla sensazione, come 8’è  detto: chè ogni continuo è, senza dubbio, divisibile.   Sempre, poi, la misura è dello stesso genere: delle grandezze, una grandezza; e in particolare: della lunghezza una  lunghezza, della larghezza una larghezza, dei suoni articolati un suono articolato, del peso un peso, delle unità una  unità (così bisogna intendere qui: non che dei numeri la  misura sia un numero: si dovrebbe dir così, se il caso fosse  simile; ma che non sia simile si vede da questo, che si farebbe misura delle unità, non l’unità, ma le unità: chè il  numero è molte unità).   Anche la scienza e la sensazione diciamo che sono misura delle cose, per questo, che con esse conosciamo qualcosa: sebbene siano esse misurate, piuttosto che esse misu   Punta polemica contro l’Uno platonico.    Il Ross riferisce la distinzione di Aristosseno, scolaro di A., del diesis come  un quarto e come un terzo di tono.  I suoni articolati: vocali e consonanti.   Due misure hanno, ecc. Oscuro. Si può pensare alla incommensurabilità della  diagonale al lato, sì che esigano unità di misura diverse; ed alla necessità di    almeno due dati per la misura delle superfici, dei solidi, ecc. Ma il testo, questo,  non lo dice, rare. Accade a noi come se un altro ci misurasse e noi conoscessimo quanto siam grandi per aver egli applicato il  cubito su noi per tutta la nostra altezza. Protagora dice che  1023 b l’uomo è misura di tutte le cose, intendendo di chi sa e di  chi sente: e questi, perchè hanno l’uno la sensazione, l’altro  il sapere, che noi pur diciamo esser misure de’ loro oggetti.  Sembra voglia dire qualcosa di profondo: invece, non ne  dice nulla (').  Che, dunque, l’essenza dell’uno, se si deve definire il si- 16  gnificato del termine, consiste soprattutto nell’esser una de* terminata misura, e in primo luogo della quantità, in secondo  della qualità,  è manifesto. E tale sarà se sia indivisibile,  in un caso, per la quantità, nell’altro per la qualità; sì che  l’uno è indivisibile, o assolutamente, o in quauto uno. Già nella trattazione dei Problemi incontrammo la que- 1  stione, che qui convien riprendere, della natura sostanziale (?)  dell’uno: che cosa esso è, e come si deve di esso giudicare.  E cioè, come se l’unità stessa sia una determinata sostanza  (al modo dei Pitagorici prima, e di Platone poi); o se non  piuttosto abbia qualche natura a sostrato, e però si debba  parlare di esso più intelligibilmente, e piuttosto come i Fisiolugi, dei quali chi dice che l’uno è l’amicizia, chi Varia,  chi l’indefinito.     V. nel lib. IV la polemica contro il Protagorismo: là come qui, A. respiage  decisamente il soggettivismo della conoscenza (chi 8a, chi sente: per il significato  preciso di questo soggettivismo, v. nota al passo simibe in V. 15, 8). Sensazione e  sapere sono misure per quanto contengono di realtà e verità oggettiva. È realismo? (Cfr. Rolfes, a q. 1.: « A. è realista, non idealista. Egli si oppone a JIegel,  che fa il concetto misura e principio delle cose, ecc. »). Sì, ma in senso affine  all’idealismo del suo maestro.   (9) Lett. «la natura e la sostanza». Ma quos vale talvolla la sostanza in  generale (V. 4, 9), e odola è l'essere nella categoria principale.  Trattazione det  Problemi: lib. III, 4, 31-42. Per i Pitagorici e Platone: lib. I. 6, 9-10. I Fisiologi  ricordati sono Empedocle, Anassimene, Anassimandro.  Se nessuno degli universali può essere sostanza, come  8’è detto dove parlammo (!) della sostanza e dell’essere; €  se l’essere stesso non può essere sostanza nel senso di qualcosa che sia uno fuor del molteplice (chè esso è un termine  comune), ma è soltanto un predicato; è chiaro che neppure  l’unità è sostanza: l’essere e l’uno, infatti, sono di tutti i  predicati i più universali. Sì che neppure i generi sono determinate nature e sostanze separabili dalle altre cose; nè  l’unità può esser genere (?), per le stesse ragioni per le quali  non sono genere nè l’essere nè la sostanza.   Inoltre, bisogna che si applichi a tutte le categorie ugualmente. L’essere e l’uno hanno gli stessi vari significati: sì  che, come per le qualità l’uno è qualcosa di determinato e  d’una certa uatura, e così pure per le quantità,  è chiaro  che bisogna anche domandarsi per tutti i casi che cosa è  l’uno (così come che cosa è l’essere), e che non basta dire  che questa è la sua natura, di esser uno. Non è dubbio:  nei colori l’unità è un colore, poniamo il bianco, e però da  questo e dal nero si veggono generarsi gli altri (*): il nero  è privazione del bianco, così come della luce l’oscurità (questa  è la privazione della luce). Talchè, se le cose fossero colori,  esse formerebbero, sì, un molteplice , ma determinato, e  appunto, evidentemente, di colori; e l’unità sarebbe un uno  determinato: poniamo, il bianco. E similmente, se le cose  fossero note, ci sarebbe un numero, ma di diesis, e non sarebbe già numero la loro sostanza; e l’unità sarebbe qualcosa, di cui Ja sostanza sarebbe non di esser unità, ma diesis.  E similmente dei suoni articolati: le cose sarebbero tante  lettere, e l’uno sarebbe una lettera, una vocale. Se fossero  figure rettilinee, ci sarebbe una molteplicità di figure, e     Lib. VII. 13.  |  Cfr. lib. IIT. 3, 7: qui, genere è g. reale; invece, nella frase precedente,  î generi sono universali.    Alla 1. 30 ho accettato l’elca (invece di el) proposto dal Ross.    Lett. «un numero », come dopo. Ma ho tradotto cosi per chiarire l’equi  valenza dei termini qui. (Così come ho usato talora unità invece di uno, quando  questo equivale all'astratto). l'uno sarebbe il triangolo. E il discorso è lo stesso per gli  altri generi. In conchiusione, come, allorchè si tratta di affezioni (di qualità, di quantità, o di movimento) delle cose, c’è  un molteplice e un uno che è, in tutti i casi, un molteplice  determinato e un determinato uno, di cui la sostanza non è  quella di esser uno;  nello stesso modo, necessariamente,  dev’essere per le sostanze: perchè la questione è la stessa  per tutti i casi. Che, dunque, l’unità sia in ogni genere una  natura determinata, e che in niun caso la natura di una cosa  sia l’uno per se stesso, è manifesto: ma, come nei colori  l’unità da cercare è quella che è un colore, così anche nella  sostanza l’unità è quella ch’è sostanza.   Che, poi, l’uno significhi in certo modo (') la stessa cosa  che l’essere, è chiaro, in primo luogo, dal fatto che s’accompagna a esso per altrettante categorie, e non è compreso in  nessuna (non, poniamo, in quella dell’essenza, nè in quella  della qualità), ma ci sta così come l’essere; in secondo luogo,  perchè con « uno-uomo » non vien predicato nulla di diverso  che con « uomo », nello stesso modo che l’essere non è nulla  fuori dell'essenza, della qualità o della quantità; in fine,  perchè esser uno vale esser individuo.    CapitoLo III    L’uno e il molteplice si oppongono in molti modi, dei  quali uno è come quello dell’indivisibile al divisibile: molteplice si dice qualcosa s’è divisa o divisibile, una s’è indivisibile o non divisa. Ora, poichè l'opposizione è di quattro  specie, una delle quali si dice secondo privazione, qui  avremo quella di contrarietà, non quella di contraddizione  nè di termini relativi (*). E l’uno si denomina e si chiarisce     Chè l’unità può indicare, più propriamente, la misura, come s’è visto  dianzi.  « Uno-uomo »: cfr. IV. 2, bd.    Cfr. V. 10, 1. Intendi: una specie di opposizione è quella in cui si guarda  alla privazione: non a quella opposta all'EE, ma a quella propria della contra-dal suo contrario: dal divisibile, l’indivisibile; e la ragione  è che il molteplice e divisibile si percepisce meglio dell’ indivisibile: per cui il molteplice è prima dell’indivisibile nel  concetto, a cagione della percezione.   All’uno appartiene, come descrivemmo anche nella Distinzione dei contrari ("), lo stesso, il simile, l’uguale; al molteplice, il diverso, il dissimile, il disuguale. Lo stesso (?) si  dice in molti modi: in un modo si dice talora badando al  numero; in un altro, se la cosa è una e per il concetto e  per il numero: poniamo, tu sei una cosa sola con te stesso  e per la specie e per la materia; in fine, se il concetto che  riguarda la sostanza prima (?) sia unico: per es., le linee  rette uguali sono le stesse, e così i quadrilateri equivalenti  e con angoli uguali, benchè sian molti: chè in essi l’uguaglianza vale identità.  Simili son le cose se, non essendo  assolutamente le stesse, nè senza differenze per la sostanza  che fa loro da sostrato, siano pur le stesse per la specie:  per es., il quadrato maggiore è simile al minore, e le linee  rette disuguali sono simili: esse sono simili, non assolutamente le stesse. Altre cose sono simili, se, avendo la stessa  specie, ed essendo cose in cui si dà il più e il meno, non  abbiano in questo differenza. Altre cose, se hanno la stessa  affezione, che sia la medesima per la specie, per es. la bianchezza, ma in grado maggiore o minore, si dicono simili  perchè identica è la loro specie. Altre si dicon tali, se di  qualità che son le stesse ne hanno in numero maggiore che  di diverse, o assolutamente, o quelle più in vista: per es. lo    rietà (ch’è privazione totale). Par come manchi qualcosa nel testo.  Il termine  negativo, qui, è l’uno (nell’esperienza ci è dato il molteplice, non il meramente uno).    Vedi IV. 2, 6. All'uno appartiene lo stesso per la sostanza, il simile per la  qualità, l'uguale per la quantità.    Cfr. V. 9. L'identità per il numero Aless. (615, 23) l’intende come l’unità  accidentale; ma nota che poco dopo essa è fatta equivalente a quella per la  materia (i due concetti del sinolo): elBog dè Abyo tò ti fiv elva: éxdatov xal Thv aQOInY    odolav. Nota, tuttavia, che l'illustrazione del concetto è presa da realtà matematiche. stagno è simile all’argento per il bianco (‘), l’oro al fuoco  per il colore giallo-ardente. Per ciò è chiaro che anche il diverso e il dissimile si dicono in molti modi; e la diversità si oppone così all’ identità, che ogni cosa rispetto a ogni altra o è la stessa o è  diversa. Ma diverso è anche ciò di cui la materia e il concetto non è identico: tu, per es., e il tuo vicino siete diversi.  E la diversità, in terzo luogo, è come negli oggetti matematici (*). Diversità, dunque, e identità si dicono di ogni cosa  rispetto a ogni altra, purchè siano cose che hanno unità e  realtà: poichè il diverso non è il contradittorio dell’ identico,  onde non si dice delle cose non esistenti (delle quali la nonidentità pur si predica), ma delle cose esistenti tutte quante:  chè queste, avendo per natura unità ed esistenza, o sono  identiche o non identiche (*). Il diverso, dunque, e l’identico  si oppongono in questo modo.   Ma differenza e diversità non son lo stesso. Ciò ch'è diverso e ciò da cui è diverso non son di necessità diversi  per un rispetto determinato. Tutto, pur che sia reale, o è  diverso o identico. Ma quel ch’è differente da qualcosa, ne  differisce per qualche rispetto : quindi c’è necessaria   Alla 1. 23: fl Aeuxév, inv. di 7 xQvo@ (Ross). Per la somiglianza, cfr. V.  9, 6. La somiglianza, dunque, è o per la specie , o per il grado di questa , 0  perchè una qualità delle cose è la stessa, sebbene in grado diverso , o perchè di  qualità ne hanno un buon numero, o le più evidenti, in comune . Nel 1° caso,  la specie ha significato formale, ma non sostanziale (concreto), onde ]a differenza  resta puramente  quantitativa (la specie qui fa anche da qualità); nel 2°, è forma  sengibile, chiarita dal 3° caso: in questi © nel 4° si unisce un criterio quantitativo. Forse per questo A. non tratta, dopo, dell'uguale (di questo egli si è valso  anche per l’identico: cfr. $ 4‘. Gli opposti (dissimile e disuguale) vengono, quindi,  assorbiti dalla trattazione seguente intorno alla diversità, differenza e contrarietà.    Vedi $ 4. Qui la diversità, forse, è nella forma o concetto; nel caso precedente, nella materia: entrambi fan capo alla prima definizione (la quale vien  determinata nel paragrafo seguente per le cose esistenti sostanzialmente). Ho  tradotto con diverso o diversità sia l’Étegov, che l'&XX0; con lo stesso o identico  (o identità), tadté, e qualche volta anche l’Év (1. 22, dove l’altro Ev è, propriamente, l’unità). Per la diversità e la differenza (1 Biapoodi, cfr. V. 9, 4-5.    Ev e oòy Ev: ma questo bisogna pensarlo come privazione, 0 equivalente  all’Evegov: se, invece, si fa equivalente.al pù taòré della parentesi, si torna alla  negazione che vale per l'esistente e per il non-esistente.    vivi: prima tradotto «per qualche rispetto determinato ». La differenza di mente qualcosa d’identico per cui differiscono. Questo ch'è  identico, è o il genere o la specie. Noi vediamo, infatti, che  tutte le cose differiscono o per il genere o per la specie:  per il genere, quelle che non hanno una materia comune,  nè si generano le une dalle altre (*): così, quelle che figurano in una categoria diversa; per la specie, invece, quelle  che hanno il medesimo genere. E si chiama genere ciò che  di entrambe le cose differenti si dice, secondo la sostanza,  identicamente.   E i contrari son differenti: chè la contrarietà è una differenza determinata. Che questo, come ora s8’è esposto, stia  bene, è manifesto per induzione: poichè essi si mostrano,  tutti, differenti e identici, non soltanto diversi : ma alcuni  diversi per il genere; altri, essendo nella stessa serie della  categoria, son nello stesso genere e identici per questo.  Abbiamo altrove determinato quali cose sono per il genere  identiche o diverse.    genere può ammettere un’unità soltanto analogica: efr. V. 6, 15 (dove il genere  vien già identificato con la categoria: come nel paragrafo seguente). Prima, per  le forme dell’uno, è presupposto il molteplice; qui, il molteplice implica un  p. d. v. unitario (ma A. mette ciò poco o nulla in rilievo). Nota la mescolanza del p. d. v. realistico con quello logico. Di qui le difficoltà del passo, onde il Christ vorrebbe espunta la frase seguente, ch’egli, d’accordo col Bonitz, trova in contraddizione con l’altro accenno alle categorie nel  S 10. Il colore e il suono, ad es., son generi diversi, entrambi nella categoria  delia qualità, Il testo, tuttavia, dà ragione al Ross di sostenere che la serie categorica del $ 10 non accenna a una distinzione interna a ciascuna categoria,  ma coincide con l’accenno qui alle figure categoriche. « A. senza dubbio chiama  generi molte classi che non sono categorie, ma in senso stretto le categorie sono  i soli generi, perchè sono le sole classi che non sono specie» (Ross a q. l.).  Si può aggiungere che A., quando ha in vista l'essere concreto, lo pensa, insieme, come sinolo di materia e forma (dove il genere primo è la materia nella  sua maggiore indeterminazione), e come usia ch'è sostrato delle altre determinazioni (donde le categorie come summa genera, reali e logici insieme). Il testo è alquanto incerto: così, com'è nel Christ, meglio sottintendere  come soggetto tà èvavila (Ross), e fare del passo un preludio al capitolo seguente. Certo, il discorso si complica, qui, di entrambi i concetti, della diversità  e della differenza: il diversi in questo punto non ha lo stesso valore di quello    che segue (che comprende i contrari per coppie, non l’uno in rapporto all’altro).   Abbiamo altrove determinato: V. 28, 6. Poichè può darsi che le cose tra loro differenti differiscano 1  più o meno, ci ha da essere anche una differenza massima.  Questa io chiamo contrarietà: e che sia la massima differenza,  si vede per esperienza. Invero, tra le cose di genere differente non c’è passaggio, anzi si tengono lontane, sì che non  vengon mai a confronto. Ma quelle che differiscono per la  specie si generano da estremi che sono i contrari. Ora, la  differenza degli estremi è la maggiore che ci sia. E tale è  anche quella dei contrari. Ma ciò che in ciascun genere vi 2  è di maggiore, è perfetto: poichè maggiore di tutto è ciò  di cui niente è superiore, e perfetto è ciò fuori del quale non  è possibile trovar altro. La differenza perfetta possiede il  fine (‘), così come anche le altre cose si dicono perfette perchè  posseggono il fine: e fuori del fine non c’è nulla, poichè esso  in ogni cosa è l’ultimo termine e abbraccia tutto. Perciò non  c’è nulla fuori del termine finale, e ciò ch’è perfetto non  ha bisogno di nulla. Da questo è, dunque, chiaro che la contrarietà è una differenza perfetta. Ma, poichè i contrari si  dicono in molti sensi, la perfezione che a loro compete si  dirà, di conseguenza, negli stessi modi.   Così stando le cose, è manifesto che un contrario non può 3  avere più di un contrario: poichè del termine estremo non  se ne può dar uno più estremo, nè possono esserci più di  due estremi di una sola e unica distanza. E in generale, se  la contrarietà è una differenza, e la differenza è fra due  termini, così, dunque, sarà anche di quella ch’è differenza  perfetta.   E di necessità anche le altre definizioni dei contrari trar- 4  ranno di qui la loro verità. Poichè la differenza perfetta è  quella onde le cose differiscono di più: onde non è possi   Si tengano presenti i termini greci téievov e térog, e cfr. V. 16. Vedi anche  ivi, cap. 10, per l'opposizione in generale e per la contrarietà.  La fine di questo  paragrafo è chiarita dal 8 5. bile trovar nulla fuori di essa, sia che le cose differiscano  di genere, o di specie. Si è mostrato, infatti, che non è possibile una differenza in rapporto a cose che sian fuori del  genere, ma è tra quelle dello stesso genere che la differenza può esser massima, ed i termini che qui più differiscono sono contrari: chè differenza massima, in questi, è  quella perfetta. E dove ciò che può ricevere quei termini  è lo stesso, son contrari quelli che più differiscono: poichè  la materia per i contrari è la stessa, e così dicasi per le  cose che, cadendo sotto la stessa facoltà, differiscono di  più: poichè la scienza, se unica, è intorno a un unico genere,  dove la differenza perfetta è quella maggiore.   La principale contrarietà, poi, è tra abito e privazione:  non, tuttavia, ogni privazione (chè questa si dice in molti  modi), ma quella che sia perfetta. E le altre contrarietà si  diranno secondo questa: alcune perchè la posseggono, altre  perchè la producono o sono in grado di produrla, altre perchè  rappresentano un acquisto o una perdita di questi  o di  altri contrari. Che se opposizione è la contraddizione, la pri La differenza tra i generi o tra cose di genere diverso non è considerata  da A.come vera differenza, perchè manca il rapporto, identificato, da un p. d. v.  realistico-empirico, col passaggio, di cui al $ 1. Quando quel rapporto c'è, si ha  un p. d. v. logico (che vuole identità e ditterenza insieme). Ma, poi, questo 0 è  riguardato in una logica astratta (che sta tra quella del pensiero in sè e per  sè, e quella meramente discorsiva: i due terinini son racchiusi nella sintesi del  giudizio, ma il pensiero non si media ne'suoi termini, sì che questi restano uno  di fronte all'altro immediatamente), e si ha la contraddizione; ovvero il p. d. v.  logico vien concepito come coincidente con quel passaggio, e si ha la contrarietà. I contrari banno sempre una materia, si dice in XII. 10, 12: ossia, una  materia comune, ch'è il genere reale e logico, dentro il quale si muove il reale  e il pensiero che lo pensa. D'altra parte, poichè i limiti estremi, entro i quali  si vuol pensare ogni possibile mutazione, tendono a idealizzarsi sino al rapporto  assolutamente esclusivo (la privazione dev'essere totale, affinchè si abbia la differenza massima), la vera contrarietà diventa la contraddizione, pur che in questa  si  concepisca il termine negativo non nell'espressione astratta, ma nell’opposizione concreta (ch'è del pensiero a se stesso, non delle cose come pensa A.). La &ivauw qui è tanto potenza empirica (oggettiva), che razionale (s0gGettiva), come l’esempio della scienza chiarisce (salute e malattia, ad es., in  quanto dipendono dalla scienza medica).    Una stoffa possiede il bianco o il nero; l’arte medica o una medicina    produce, o può produrre, la salute o la malattia; il corpo puo perdere la salute  e riacquistarla; ecc.  vazione, la contrarietà e la relazione, e di queste la principale è la contraddizione, della quale non si dà. mezzo,  mentre si dà dei contrari,  è chiaro che contraddizione e  contrarietà non son la stessa cosa. La privazione è una contraddizione (') di certa natura: poichè ciò che soffre privazione, o in generale o in un certo modo, vien così determinato, secondo che o non abbia punto la capacità di una cosa,  o non abbia questa cosa pur essendo fatto da natura per averla.  Qui abbiamo già molti significati: secondo che altrove distinguemmo. Per cui la privazione è una contraddizione di  certa natura, o un’incapacità ch’è del tutto determinata,  ovvero è presa insieme a ciò che può riceverla. Perciò,  mentre della contraddizione non si dà mezzo, della privazione in qualche caso si dà: tutto, infatti, è o uguale o non  uguale; non tutto invece è uguale o disuguale, ma, se mai, ciò  vale soltanto per quel ch’è suscettibile dell’uguale. Che se  il divenire, dove c’è la materia, è tra i contrari, e avviene  o dalla forma e dal possesso della forma, o dalla privazione  determinata della forma o figura,  è chiaro che ogni contrarietà è una certa privazione; ma, invero, non ogni priva   Partendo dalla contraddizione, e realizzando il termine negativo nella  privazione in generale, questa si presenta come un caso della contraddizione, e  la contrarietà, a sua volta, come un caso della privazione (dove l'opposizione  steretica è la massima). Se partiamo, invece, dal mutamento reale, la contrarietà è una generalizzazione dell'opposizione steretica (atégeors ed Esc), e sta  tra questa e la contraddizione. Si risolve così la questione tra lo Zeller ‘che  voleva ridurre la privazione o alla contrarietà o alla contraddizione) e il Ross  (a q. 1.), che sostiene la subordinazione della privazione alla contraddizione, e  della contrarietà alla privazione. Ma A., preso nel testo, in verità, dà ragione  a tutti due; e come riconosce molti significati alla privazione, sì che c'è da  pensare che uno sia fondamentale (quello di contrarietà), così nel $ 5 ne riconosce molti per la contrarietà, sì che fa pensare che fondamentale sia l’opposizione steretica pura e semplice (senz’altra determinazione). L'incertezza nel  pensiero di A. si nota anche nella frase che segue, in cui la privazione vien  attribuita anche a ciò che «non ha affatto la capacità di qualcosa »: ch'è contro  il concetto fondamentale della steresi in quel che si distingue dalla negazione  astratta; e poco dopo è definita con analoga oscillazione, o per sò (« determinata  incapacità »), «o insieme a ciò che può riceverla». Per l'opposizione di relazione,  o correlazione (tà med x: ma A., in realtà, distingue i due concetti), v. 6, 5.  Secondo che altrove distinguemmo: V. 22. zione è una contrarietà: la ragione è che ciò ch'è passibile  di privazione può averla in molti modi, e soltanto quando  i termini del mutamento sono quelli estremi si ha la contrarietà. Lo si vede anche per esperienza. Ogni contrarietà  implica una privazione di uno dei due contrari, ma non  allo stesso modo sempre: la disuguaglianza è privazione dell'uguaglianza, la dissomiglianza della somiglianza, così come  il vizio della virtù. I casi sono differenti, secondo si è detto:  in uno, si bada semplicemente alla privazione, in un altro  al tempo o ad una parte, per es., a una certa età o alla  parte principale, oppure si tratta di una privazione totale.  Sì che in certi casi si da un mezzo (è possibile che un uomo  non sia nè buono nè cattivo), in altri non si dà (un numero  è necessariamente pari o dispari). Inoltre, alcuni contrari  hanno un sostrato determinato, altri no. È perciò manifesto  che sempre uno dei due si dice secondo privazione: basta  che questo sia manifesto per i generi fondamentali dei contrari, come l’uno e il molteplice: chè gli altri si riducono a  questi. Poichè a un contrario si oppone un solo contrario, si  potrebbe far questione come l’uno si opponga al molteplice,  e l’uguale al grande e al piccolo. La disgiuntiva noi l’adoperiamo sempre per esprimere un’antitesi: chiediamo, ad es.:  È bianco o nero? È bianco o non bianco? Non diciamo: È  uomo o bianco? Salvo che per un presupposto: come se si  chiedesse se venne Cleone o Socrate. Qui si ha un caso che  non ha carattere di necessità per nessun genere di cose.  Pure, anch'esso ha la stessa origine: poichè, non essendoci  che gli opposti che non possono trovarsi insieme, di tale  incompatibilità fa uso chi domanda quale dei due venne: chè,  se poteva darsi che venissero insieme, la domanda non  avrebbe avuto senso. Pure, anche in tal caso, si può similmente cadere nell’antitesi, in quella dell’uno e del molteplice,  chiedendo, ad es., se son venuti entrambi o uno solo. Se, dunque, negli opposti la domanda è sempre disgiun- 2  tiva; e poichè si può chiedere: È maggiore, minore, o uguale?:  di che natura è l’antitesi dell’uguale, a questi? Chè non è  contrario a uno solo, nè ad entrambi. Perchè, infatti, sarebbe  contrario al maggiore più che al minore? Aggiungi che  l’uguale è contrario al disuguale: per cui dei contrari esso  ne avrà più di uno. Che se il disuguale significa la stessa  cosa di quei due presi insieme, l’uguale si dovrebbe opporre  ad entrambi, e si finirà col dar ragione a quei che van dicendo che il disuguale è la diade ('). Ma, allora, uno solo  avrebbe due contrari: la qual cosa è impossibile. Poi, l’uguale  appare intermedio tra il grande e il piccolo; ma non si vede  come un contrario possa esser intermedio, nè, stando alla  definizione, è possibile: chè non sarebbe perfettamente contrario se fosse intermedio, anzi, se mai, c’è sempre un intermedio tra esso e l’altro termine.   Resta, allora, che l’opposizione sia o come negazione o 4  come privazione. Di uno solo dei due termini, non può essere. Perchè, infatti, si opporrebbe al grande piuttosto che  al piccolo? Sarà, dunque, una negazione privativa di entrambi (°). E per questo la disgiuniiva riguarda entrambi,  e non un termine solo, come farebbe chi chiedesse: È maggiore o uguale? oppure: È uguale o minore? Invece, i termini  son sempre tre.   Ma questa privazione non ha carattere di necessità: chè 5  non tutto è uguale ciò che non è nè maggiore nè minore;    YI Così i Platonici ricordati in XIV. 1, 3. Soltanto il nome sarebbe uno solo  (disuguale): in realtà i termini son due. Negazione (contradittoria), ch'è, come viene spiegato, doppia; ed esprimendo la possibilità reale di entrambe le contrarietà, è chiamata privativa, e  intermedia fra esse. Il termine doppiamente negativo è, qui, l’uguale; le due  contrarietà corrispondono alle due disgiuntive, nelle quali si determina la negazione, la quale è trattata come una realtà oggettiva, una potenza di contrari 0  un intermedio tra essi, La soluzione permette ad A. di mantenere cho a un cor»  trario si oppone un solo contrario ; di risolvere la diade dei Platonici nella  dualità espressa dalla parola « disuguale » ; trasferendo l’intermedietà nell'« uguale » non più come contrario, ma come negazione, di unificare, in certo  modo, in questa (quasi come un'attività di pensiero) le due disgiuntive .  Cfr. con quest'ultimo punto la discussione in IV. 7-8 intorno al terzo escluso. ma le cose soltanto che hanno natura di esser tali. L’uguale  è, appunto, ciò che non è nè grande nè piccolo, ma ha unatura di essere o grande o piccolo; e si oppone ad entrambi  come una negazione privativa: per cui è anche intermedia.  Anche ciò che non è nè buono nè cattivo si oppone a entrambi, ma non ha un nome, perchè ciascuno dei due si  dice in molti sensi (!), e non c’è una sola cosa che di essi  sia suscettibile. Non così, piuttosto, si può pensare di ciò  che non è nè bianco nè nero: pure, neanche qui si può dire  qualcosa di unico, sebbene i colori dei quali si enuncia privativamente tale negazione siano, in certo modo, limitati:  chè, necessariamente, o è grigio o è giallo, o altro di tal natura. Per cui non dirittamente obiettano coloro che stimano  il caso esser lo stesso per tutte le cose, sì che, come ciò che  non è nè buono nè cattivo sta in mezzo tra il buono e il  cattivo, della scarpa e della mano ci dovrebb’essere un intermedio che non è nè scarpa nè mano, e così ce ne dovrebb’essere uno per tutte le cose. Questa non è una conseguenza  necessaria: poichè in un caso è possibile una simultanea  negazione degli opposti in quanto è di cose di cui esiste un  intermedio e un intervallo naturalmente determinato; nell'altro caso, invece, non esiste questa differenza, perchè le 1086 b  cose delle quali si fa la negazione simultaneamente, son di  genere diverso, sì che non è identico il loro sostrato. Si può far questione, similmente, intorno all'uno e ai  molti: chè, se molti si oppone all’uno semplicemente, si  hanno alcune conseguenze assurde. L’uno sarebbe poco, 0  pochi: molti, infatti, si oppone a pochi. Poi, due sarebbe In ogni categoria: cfr. Eth. Nic., I. 4. 1096 a, 19. Non c'è un termine unico  che esprima (come l’« uguale ») le due negazioni. Neanche per il bianco-nero,  che pure son nella stessa categoria. Tanto meno quell’unico termine può esistere  in cose di genere diverso, tra le quali, mancando l’identità che accompagni la  differenza, non esiste passaggio. molti, una volta che doppio è multiplo e doppio dicesi considerando il due; per cui l’uno sarebbe poco. Infatti, in  rapporto a che il due è molti, se non all’uno, e però al  poco? Chè non c’è nulla che sia più poco. Inoltre: come 2  nella lunghezza il lungo e il corto, così nel molteplice è il  molto e il poco, e ciò ch’è molto è anche molti, e ciò ch'è  molti molto: sì che (se ne togli il caso di un continuo  che sia facile a limitare) il poco sarà una specie di molteplice, e tale quindi l’uno, se esso è anche poco: e che questo  sia, è necessario, se il due è molti.   Pure, se il molti dicesi anche in certo modo molto, una 3  differenza c’è: l’acqua, ad es., dicesi molta, non molti.  Molti, invece, dicesi per quante cose sono divisibili: in un  senso, se queste formino un molteplice che ecceda, o assolutamente o relativamente (e dicesi, similmente, poco se quel  molteplice sia in difetto); in un altro, vuol dir numero, e  in questo senso soltanto si oppone all’uno. Noi, infatti, diciamo «uno o molti», proprio come se si dicesse «uno  e uni», 0 «cosa bianca e cose bianche », e mettiamo in  rapporto le cose misurate con la misura, e parliamo del misurabile  così come del multiplo: poichè ogni numero è  molti in quanto risulta di uni ed è misurabile con l’uno,  e ne parliamo come di opposto all’uno(*), non al poco.  E così, quindi, anche il due è molti, non già nel senso che 4  sia un molteplice eccedente o relativamente o assolutamente,  ma nel senso ch’esso è il primo molti. Assolutamente inteso,  il due è pochi: chè esso è il primo molteplice che può     Il molto è, dunque, equivalente al molti: è, cioè, un molteplice. Se ne  tolga il caso di ciò ch'è «facile a limitare» (etoglotw), come i liquidi e tutto  ciò che prende dal limite (per es. del recipiente) la forma delia continuità:  l'acqua, ad es., non uvendo parti discrete, può esser un molto, non un molti.   Soppresso il punto (Ross).   Le conseguenze assurde derivavano, dunque, dall’opporre il molteplice all’uno senza distinzione di significato (semplicemente). V. Sommario, e conchiusione del capitolo,    Il due parrebbe, quindi, il principio del molteplice (come la dualità platonica), D'altronde, il principio di esso, nel senso di misura, è l’uno. La soluzione  sembra questa: in quanto l'uno e il molteplice sono contrari, come l’indivislbile esser in difetto (perciò, anche, andò fuori strada Anassagora  quando disse che « tutte le cose erano insieme, infinite e  per molteplicità e per piccolezza »: invece di ): il quale stabiliva quale fosse il numero di qualcosa (questo qui, ad es., dell’uomo; questo qui, del cavallo),  imitando con sassolini le forme degli esseri viventi, al  modo stesso di coloro che riducono i numeri alle figure, al  triangolo e al quadrato. Ovvero è perchè l’armonia è un  rapporto  di numeri, e così è anche l’uomo e ognuna delle  altre cose? Ma come, poi, le qualità, il bianco e il dolce e 9  il caldo, son numeri? Che, poi, i numeri non siano sostanze,  nè cause della forma, è evidente: è il rapporto ch’è la sostanza, il numero è materia (°). Per es., la sostanza della  carne o dell'osso è un numero in questo senso: che ci vogliono tre parti di fuoco e due di terra. E sempre il numero,    assorbito nel prodotto, sì che fuori non ne sia restato nulla a insidiare la vita  dell'altro; cfr. VI. 3, 2: «chi vive dovrà morire, perchè è già avvenuto questo,  che elementi contrari si trovano nello stesso corpo »): il numero, dunque, non è  eterno.   Le considerazioni che seguono, sino alla fine del libro, come nota il Bonitz,  « Pythagoreorum doctrinam praecipue tangunt et fortasse Platonicos quosdam  qui ad Pythagoreos proxime accedebant». Scolaro di Filolao, al principio del sec. IV: porta, come si vede, al comico la dottrina dei numeri come sostanza delle cose e la loro figurazione geometrica.  putàv, delle piante; ma è probabile, suggerisce il Ross, che qui sia usato  nel senso più antico e ampio di « essere vivente ».    È sostanza o rapporto? Se sostanza (essenza), come, allora, la qualità?  Se è rapporto, invece, non è sostanza (sostrato). Numero equivale qui a molteplicità di cose (soltanto il numero monadico,  1. e. aritmetico, è di unità astratte). Cfr., per gli esempi, I. 9, 18 e 10, 2. sia quale si voglia, è numero di certe cose: di particelle di  fuoco o di terra, ò è un numero di unità astratte. La s0stanza, invece, implica che c’è tanto di questo unito per la  mescolanza a tanto di quello: e questo non è già un numero,  ma rapporto numerico della mescolanza di cose corporee, o   10 d’altra specie. Il numero, dunque, sia quello in generale e  sia quello ch’è di unità astratte, non è causa delle cose nè  per il fare, nè come materia, nè come concetto e specie. Nè,  certamente, come causa finale ('). Si potrebbe anche far questione in che consiste la perfezione che alle cose deriverebbe dal numero, quando la loro  mescolanza è fatta secondo un rapporto numerico perfetto 0  secondo un numero dispari. Sta di fatto che non per questo  l’idromele è più salubre se acqua e miele siano mescolati in  modo da fare tre volte tre (*); anzi, se è acquoso senza nessun  determinato rapporto può giovare di più che se, per farlo. in   2 rapporto numerico, sia troppo forte. E si noti che i rapporti  delle parti di ciò che vien mescolato si esprimono con l’addizione del loro numero, non con i numeri soltanto: per es.,  «tre parti a due», non «tre volte due ». Poichè le cose che  vengono moltiplicate debbon essere dello stesso genere: per  cui, data una serie di fattori, 1. 2.3, essa dev’esser misurata dal primo termine: se è 4.5. 7, dal 4. Insomma, in tutti  i casì, dal termine ch’esprime lo stesso genere. Non può  essere, quindi, che il numero del fuoco sia 2. 5. 3. 7, e quello   3 dell’acqua 2.3(*). Che se il numero fosse una natura co- 1009 a     Nessuna, dunque, delle quattro specie di causa, Nota concetto e specie:  la causa formale come pensiero e insieme come forma reale.   (2) tels tela: si deve dire, invece, ammonisce A. dopo, «tre a tre », poichè si  tratta di un iniscuglio. In « tre volte tre », e nella moltiplicazione in generale, ch'è  un'addizione ripetuta dello stesso numero, questo dev' esser sempre dello stesso  genere.    Chè anche il fuoco sarebbe acqua. Penso che questo patagrafo prosegua ancora l'argomentazione ch'è alla fine del 8 9 del cap. prec. mune di tutte le cose, ne verrebbe, di necessità, che molte  cose sarebbero le stesse, e lo stesso numero sarebbe proprio  di questa cosa e di una cosa diversa. Ma è questa, allora,  la causa delle cose, ed è per questo che una cosa è quello  che è? O non è ciò molto oscuro? Poniamo: esiste un certo  numero per le traslazioni del sole, e così per quelle della  luna, e anche per la vita e l’età di ciascuno degli esseri  viventi. Che impedisce, allora, che alcuni di questi numeri  siano quadrati, altri cubici, alcuni uguali e altri doppi? Nulla;  anzi, di necessità, tutti (') si aggirano in questi rapporti, una  volta che la natura del numero è comune a tutte le cose, e  quelle che sono differenti possono cadere sotto lo stesso numero. Per cui, se ad alcune convenisse lo stesso numero,  quelle sarebbero identiche tra loro che avessero la stessa  forma del numero: il sole e la luna, ad es., sarebbero identici (?).   E perchè son cause questi numeri? Ci sono sette vocali,  sette corde o note musicali, sette son le Pleiadi; al settimo  anno, almeno alcuni animali (altri, no), perdono i denti;  sette, quei che pugnarono a Tebe. È, dunque, perchè quel  numero ha quella natura lì, che quelli si trovarono in sette,  o che le Pleiadi hanno sette stelle? O non piuttosto, per quelli,  perchè sette erano le porte della città, o per qualche altra  causa? E per le Pleiadi siam noi che così le contiamo, come  ne contiamo dodici per l’Orsa (altri ne contano di più).  Essi dicono anche che E Y Z sono consonanze, e poichè tre  sono in musica le consonanze, tre, dicono, sono queste doppie  consonanti. Non si dànno nessun pensiero che di questa specie  ce ne potrebbero esser mille: basta, poniamo, porre un segno  unico per I° P. Che se opponessero che ognuna di quelle è  doppia delle altre, e che nessun’altra consonante è così, la Non è chiaro se voglia dire: a) che tutti è numeri sono risolubili in rapporti o figure geometriche (8v tovtotce); b) che tutte le cose, per i Pitagorici, sono  risolubili in numeri. Ma, forse, son conglobati entrambi i pensieri (nota infatti,  alla fine del paragrafo, «la stessa forma del numero »: t. aùrà elbos do.)   (2) Alcunì citano XII. 8, dove il sole e la luna hanno lo stesso numero di  sfere o movimenti di traslazioni. O si riferisce qui alla figura? ragione, poi; è che tre sono i luoghi della bocca (‘) in cui  si producono le consonanti e a ciascuna vien congiunto  medesimamente il sigma: per questo sono tre sole, e non  perchè tre siano le consonanze musicali: in realtà, queste  sono più di tre, di quelle non ce ne possono esser di più.  Costoro somiglian proprio ai vecchi interpreti d’Omero, i quali  vedono le somiglianze piccole, e sfuggono a loro le grandi.  Ci sono alcuni che dicono ancora molte cose di questo genere: per es., che avendo le due corde di mezzo l’una nove  l’altra otto toni, il verso epico ha diciassette sillabe, uguale  al numero di quelle, e ch’esso si scandisce a destra (*) con  nove sillabe, a sinistra con otto. E dicono che l'intervallo  tra l’alfa e l’omega nelle lettere è uguale a quello tra la nota  più bassa e la più alta del flauto, e che il numero di quest'ultima è uguale alla totalità dell’armonia celeste (*). Si deve  notare che nessuno troverebbe difficoltà a spiegare in questo  modo le cose eterne e a scoprirne le concordanze: chè non  è difficile neanche per le cose corruttibili.   Le nature tanto lodate che sarebbero nei numeri, e quelle  a loro contrarie, e in generale le proprietà degli oggetti  matematici nel senso in cui ne parlano alcuni per farne cause  della natura, sembrano svanire agli occhi di coloro che considerano le cose così come noi facciamo (°): chè nessuna di  esse si può dir causa, in nessuno dei modi da noi determinati trattando dei principii. Certamente, come essi fan vedere, la perfezione appartiene a tali oggetti, manifestamente; e alla serie delle cose dov’ è la bellezza appartengono  il dispari, il retto, l’uguale, le potenze di certi numeri. Chè    (1) Donde la distinzione di gutturali, dentali, labiali.   (3) La prima parte; a sinistra, la seconda (Aless.).   (3) Secondo Aless., il 24 (12 segni dello zodiaco; 8 sfere, quella delle stelle  fisso e le sette dei pianeti; 4 elementi).   Le une benefiche, le altre malefiche. La mentalità critica allontana molto A. da’ suoi contemporanei.   (6) Lo Schwegler intende che questo sia detto ironicamente. Pensando alla  fine del $ 5 e al passo già citato di XIII. 3, 8, ho dato, invece, alla traduzione  il tono come se A. faccia qualche concessione alla dottrina combattuta così vivacemente. In ogni modo, egli afferma, in fine, che si tratta di mere analogie. le stagioni e un numero di certa specie vanno insieme; e  tutte le altre proprietà ch’essi raccolgono dai teoremi matematici, hanno questo valore. Perciò anche si rendono appa-  riscenti le coincidenze: poichè sono, sì, meramente proprietà  di ciascuno di essi, ma tutte si corrispondono tra loro, e  fanno una cosa sola dal punto di vista dell’analogia. Poichè  in ogni categoria dell’essere c’è l'analogia: come la linea  retta nella lunghezza, così è il piano nella superficie, e senza  dubbio il dispari nel numero, e il bianco nel colore.   Quanto ai numeri, in fine, che consistono nelle specie,  essi non sono la causa delle armonie e delle cose di questa  natura: poichè essi differiscono tra di loro, anche se uguali,  per ia specie, una volta che anche le unità son differenti (').  Sì che, almeno per queste ragioni, non c’è bisogno di porre  tali specie.   Queste, dunque, le conseguenze che si posson trarre,  e più ancora se ne potrebbero addurre. Il fatto stesso del  loro grande travaglio a spiegarne la genesi, e il non riuscire  in niun modo a dar coerenza all'insieme, è un indizio che  gli oggetti matematici non hanno esistenza separata, come  alcuni dicono, dalle cose sensibili, e che i primi principii  non son questi.    (1) I numeri ideali, essendo di unità di specie differente (e però &ovufàintay,  come si dice nel libro precedente), sono anch’ essi differenti di specie, anche se  uguali (se son triadi, ad es., comprese nello stesso numero nove). Non con essi,  dunque, ma con i numeri matematici, se mai, ci si può render ragione di cose, le  quali, come nell’armonia le unità e i rapporti di uno stesso tono, sono della stessa  specie. Armando Carlini. Carlini. Keywords: filosofia fascista, Bovio, Locke, senso, esperienza, il mito del realismo, la categoria dello spirito, animus e spiritus, filosofia italiana, storia della filosofia romana, l’ambasciata di Carneade a Roma, la antichissima sapienza degl’italici, la scuola di pitagora, sicilia e la magna grecia, geist, ghost, spirito, animo, spirito oggetivo, Bosanquet, testi di filosofia ad uso dei licei, aristotele, il principio logico, Cartesio, il problema di cartesio, senso ed esperienza, storia della filosofia, avvivamento alla filosofia, i grandi filosofi – mondatori – the great and the minor -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carlini” – The Swimming-Pool Library. Carlini.

 

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