Luigi Speranza -- Grice e Sciacca: all’isola --
la ragione conversazionale all’isola -- l’idea della libertà – fondamento della
coscienza etico-politica – la scuola di Messina -- filosofia siciliana --
filosofia italiana – Luigi Speranza (Messina). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Messina, Sicilia. Studia
a Palermo sotto RENDA. Insegna a Palermo. Volge il suo interesse verso il
criticismo, a cui dedica “La funzione della libertà nella formazione del
sistema kantiano” a cui fece seguito, “La libertà come fondamento della coscienza
etico-politica” (Palumbo, Palermo), che reproduce la memoria in appendice. Società
filosofica italiana Altri saggi: “Filosofi che si confessano” (Anna, Messina); “La
steresis nella filosofia dell'azione” (Accademia di Scienze, Lettere ed Arti,
Palermo); “Il concetto di tiranno, dagl’antichi italici a SALUTATI” (Manfredi, Palermo);
La visione della vita nell'Umanesimo di SALUTATI” (Palermo); “Politica e vita
spirituale” (Palumbo, Palermo); “Gli Dei in Protagora” (Palumbo); “Esistenza e
realtà” (Palumbo, Palermo); “Scetticismo” (Palumbo, Palermo); Ritorno alla
saggezza” (Palumbo, Palermo); “L'uomo senza Adamo” (Palumbo); “Sapere e
alienazione” (Palumbo, Palermo); “Il segno -- quel Segno” (Cappelli, Bologna); Reale
accademia di lettere scienze e arti", «La filosofia per cambiare il
mondo», La Repubblica. Bono, Rocca, M. K.
N., la tradizione del criticisimo, in Giovanni, Le avanguardie della filosofia
italiana, Angeli, Società Filosofica Italiana", Plebe, Giovanni. Sciacca
fu un filosofo italiano nato a Messina nel 1912 e morto a Palermo nel
1995, fu professore di storia della filosofia presso la facoltà di
lettere dell’Università di Palermo e presidente della Società Filosofica
Italiana. OPERE: Le opere di Sciacca sono: • La funzione
della libertà nella formazione del sistema kantiano (1945) • L’idea della
libertà. Fondamento della coscienza etico-politica (qui Sciacca, in
appendice riproduce la memoria del 1965). • Ritorno alla saggezza
(1971). • L’uomo senza Adamo (1976). • Sapere e alienazione
(1981) • Il segno, quel segno (1987). PENSIERO: Sciacca,
nella sua opera “L’idea della libertà. Fondamento della coscienza etico-
politica” tratta del rapporto esistente tra Scienza e Filosofia, privilegiando
la dimensione metafisica della filosofia contro la dimensione positiva
delle scienze esatte. Sciacca recupera il pensiero di Renda e
abbandona il pensiero di Cantoni, secondo la quale oltre la conoscenza
del mondo è importante il destino dell’uomo nell’aldilà e
nell’aldiquà. Nel 1963, egli nel suo saggio si chiede con Kant se la
metafisica sia possibile come scienza; la risposta è negativa, in quanto
la metafisica di per se, andando oltre la scienza tratta i problemi di
maggior rilievo per l’uomo. L’uomo usa la sua ragione per problematizzare
la sua esistenza nel mondo, proiettandola verso l’aldilà in una
dimensione etico-religiosa. La presenza di Kant, in Sciacca, la possiamo
ritrovare nelle sue opere successive, ovvero: Ritorno alla saggezza
(1971); L’uomo senza Adamo (1976); Sapere e alienazione (1981); Il segno,
quel segno (1987). Sciacca, sottolinea che, nella fase storica di
maggiore espansione della scienza e della tecnica, l’uomo ha più che mai
bisogno della filosofia, cioè l’uomo ha bisogno di tornare alla saggezza,
considerando che l’uomo dei tempi moderni è primo di saggezza, ovvero “un
uomo senza Adamo” che ha mistificato e mercificato la natura. Egli,
sottolinea che l’uomo non può ignorare l’enigma dell’aldilà, cioè non può
dimenticare l’ignoto oltre l’orizzonte della vita terrena. Per Sciacca,
il sapere che distoglie l’uomo dai ver problemi è un sapere allenante o
fuorviante, cioè: il mondo è un sistema di segni che vanno decifrati
aldilà dell’apparenza, ed è proprio per questo motivo che Sciacca
suggeriva di cercare l’essenza della metafisica, ovvero della filosofia.
Egli, afferma che la filosofia si è sempre limitata a chiedersi il perché delle
cose senza mai ritenere di poter dire l’ultima parola, la scienza invece
ha finito con il prevaricare ogni forma di sapere, nel momento in cui da
scienza pura e semplice, è diventata tecnica o peggio ancora
tecnologia. Proprio per ciò occorre scoprire e riscoprire una filosofia
“critica” che torni alla saggezza. Successivamente, Sciacca, nel
suo volume “L’uomo senza Adamo” si confronta con Marx; sembra strano che
uno spiritualista come Sciacca riesca a riscoprire attraverso una lettura
di carattere antropologico del giovane Marx e quella di carattere
economista del Marx maturo, evidenziando una forte esigenza di
metafisica. Sciacca, sottolinea l’esigenza di tornare all’origine, a Dio,
ovvero riscoprire la dimensione umana; qui, si ha un distacco dal
materialismo storico, dal marxismo- leninismo, che predicava la violenza
come strumento di lotta, al contrario del pensiero di Sciacca che a una
libertà raggiunta con la forza, preferiva una libertà raggiunta con la
pace, semmai con la forza della ragione. Il penultimo libro di Sciacca,
“Sapere e alienazione”, è composto da cinque saggi ciascuno dei quali
pone il problema di intendere il sapere come alienazione, infatti il
filosofo è convinto che ogni forma di sapere storico costituisce una forma
di alienazione. Sciacca nel primo saggio si interroga sulla
dicotomia tra vero e falso, ed il suo suggerimento è quello di scavare,
socraticamente, dentro se stessi, considerando che il vero e il bene sono
da ricercare sempre come problemi. In “Sapere e alienazione”,
nell’interiorità di Sciacca si accende una curiosità: quella di Nietzsche
che nel Saggio della Gaia Scienza, conferma che sono stati gli uomini ad
uccidere Dio, e secondo Sciacca, conferma anche che nello stesso tempo è
morto l’uomo stesso, sradicato dalla sua storia e dalla sua cultura.
Sciacca andava incontro Marx per superarlo e andava incontro a Nietzsche
per superarlo; in quegli anni, il filosofo, andava contro corrente.
Nel suo ultimo libro “Il segno, quel segno”, egli intende il mondo come un
insieme di segni, sottolineando che l’atto della conoscenza rappresenta
il primo segno dell’uomo, il segno iniziale e distintivo che lo rapporta
al mondo. Egli, suggerisce che conoscere non costituisce un atto semplice
cosi come può apparire a chi è accecato dalle apparenze, proprio per ciò
sostiene, come già detto, che si dovrebbe tornare all’essenza delle cose
e non soffermarsi all’apparenza delle cose. Tutti questi
interrogativi posti da Sciacca possono trovare una risposta in una sua
affermazione: “Forse, risalendo all’origine del nostro personale, ripetitivo
conoscere nei suoi atti spontanei e pur carichi di significative
responsabilità, l’essere di un mondo del quale sempre cerchiamo il volto
migliore potrà aiutarci a rispondere insieme alle domande dell’anima e a
quelle del sapere, scientifico e no”BIOGRAFIA: • Filosofo italiano;
PENSIERO: - Tratta del rapporto tra Scienza e Filosofia; - Privilegia la dimensione metafisica della
filosofia; preso roteare i il di mivesta di
Palermo; Presidente della Società Filosofica Italiana. GIUSEPPE
MARIA SCIACCA (1912-1995) OPERE: La funzione della libertà nella formazione del sistema
kantiano (1945) L'idea della libertà. Fondamento della
coscienza etico-politica (qui Sciacca, in appendice riproduce la memoria del
1965). Ritorno alla saggezza (1971). L'uomo senza Adamo (1976). Sapere e alienazione (1981) Il segno, quel segno (1987).Giuseppe Maria
Sciacca. Sciacca. Keywords: Grice, ‘Negation and Privation’, negation,
privation, negatio, privatio, the use of ~ to stand for both negatio and
privatio – privatio as mere negatio (~), plus implicatum -- steresis, l’idea
della libertà – fondamento della coscienza etico-politica -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Sciacca” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza –GRICE ITALO!; ossia, Grice e
Sciacca: FILOSOFIA SICILIANA, NON ITALIANA -- all’isola -- la ragione
conversazionale dell’anti-filosofia e contra-implicatura – filosofia fascista –
il ventennio fascista – la scuola di Giarre – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Giarre). Filosofo siciliano. Filosofo italiano.
Giarre, Catania, Sicilia. La filosofia non asciuga lacrime né dispensa sorrisi,
ma dice la sua parola sulla verità delle lacrime e dei sorrisi. Dopo gli studi
liceali classici si trasfere a Napoli, dove si laurea sotto ALIOTTA. Insegna a Napoli,
Pavia, e Genova. Fonda Il Giornale di Metafisica. Molto intenso e il suo
rapporto filosofico e di stima reciproca con il filosofo fascista GENTILE, un
sodalizio testimoniato dalla fitta corrispondenza tra i due filosofi, da cui
però ben presto S. si allontana, in particolare dal filone idealista, per
condurre la sua propria ricerca filosofica in modo più ampio, tanto da condurlo
a studiare per un certo periodo, grazie alle sue conoscenze pure in campo
teologico, sia la corrente del misticismo che quella dello spiritualismo. Accademia
di studi italo-tedeschi, Merano. Profondo conoscitore di SERBATI, promotore
della fondazione del centro di studi dedicato a Serbati a Stresa. Una delle
principali figure dello spiritualismo, a cui pervenne dopo i primi interessi
per l'attualismo ed i successivi, più impegnativi studi sullo spiritualismo,
anche interpretandolo in modo originale, delineando un particolare percorso di
continuità che, rifferendo alla metafisica classica, perviene a concepire
un'apertura del soggetto personale come creatur averso l'attualità assoluta
dell'essere nell’integralità. E ricordato principalmente attraverso Ottonello.
Saggi: “Agostino” (Morcelliana, Brescia); “L'Anima” (Morcelliana, Brescia); “Filosofia
morale” (Bocca, Torino); Atto ed essere (Bocca, Torino); Interpretazioni
rosminiane Marzorati, Milano); “Come si vince a Waterloo” (Marzorati, Milano);
“La filosofia e la scienza nel loro sviluppo storico. Per i licei” (Cremonese,
Roma); “Platone” (Marzorati, Milano); Filosofia e anti-filosofia (Marzorati,
Milano); Chiesa e civiltà (Marzorati,
Milano); Critica letteraria (Marzorati, Milano); L'oscuramento
dell'intelligenza (Marzorati, Milano); Studi sulla filosofia antica. Con
un'appendice sulla filosofia medioevale (Marzorati, Milano); Ontologia triadica
e trinitaria. Discorso metafisico-teologico Marzorati, Milano. L'Insegnamento
della filosofia: atti del Convegno di studi, Messina (Peloritana, Messina); Ontologia
triadica e trinitaria (Epos, Palermo); Atto ed essere (Epos, Palermo); Il magnifico
oggi (Epos, Palermo); In Spirito e Verità (Epos, Palermo); La clessidra (Epos,
Palermo); L'ora di Cristo (Epos, Palermo). Centro di Studi Filosofici di
Gallarate, Dizionario dei Filosofi, Firenze, G. C. Sansoni; Dizionario dei
Filosofi (Firenze, Sansoni); Schiavone, L'idealismo, Negri, “Dall'atto all'integralità”
(Forlì, Ethica); Pignologni, Genesi e
sviluppo del rosminianesimo, (Milano, Marzorati); Bologna, Quaderni del
Giornale di Metafisica, Stresa, Rivista Rosminiana, Incontrare S., Venezia,
Marsilio, Ottonello, “L'anticonformismo costruttivo” (Venezia, Marsilio); Shiavone,
L'idealismo, Collana di studi filosofici rosminiani, Domodossola; Milano,
Sodalitas, Ospitato su Bontadini e la metafisica. Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. S. Filosofia e Metafisica
MARZORATI MILANO FILOSOFIA E METAFISICA I due volumi di Filosofia e Metafisica raccolgono le pagine più impegnate e pro fonde che lo S.
ha scritto e segnano il passaggio dallo
Spiritualismo cristiano alla Filosofia
dell’integralità. In essi si possono leggere saggi di rilevante interesse
teoretico come quelli sul concetto di
metafisica e sull’ateismo, oltre
all’altro sull'esistenza di Dio, che ormai
si allinea tra 1 testi classici della filosofia contemporanea. Lo stile avvincente e chiaro, il vigore del
pensiero insieme profondo e cristallino, l’unità dell’ispirazione, il modo proprio dell’ Autore di rendere
attuali e vivi problemi di sempre,
fanno che quest'opera, sistematica senza
pesantezza, sta una lettura
appassionante e proficua. Zursarax $.
Tommaso visita S. Bonaventura. OPERE L'interiorità oggettiva, Come si vince a
Waterloo, Interpretazioni rosminiane, L'uomo, questo squilibrato , Atto ed
essere, La filosofia oggi, La filosofia morale di A. Rosmini, Morte ed
immortalità, La clessidra (Il mio itinerario a Cristo), In Spirito e Verità,
Dall’Attualismo allo Spiritualismo critico, Filosofia e Metafisica, Pascal, Dialogo
con Blondel, Così mi parlano le cose mute, Kierkegaard e il malessere
della cristianità, LA FILOSOFIA ITALIANA, Il tempo e la libertà, Il
momento estetico e il valore ontologico della fantasia, Platone, Studi sulla
filosofia antica, Chiesa cattolica e mondo moderno, Il pensiero italiano
nell'età del Risorgimento, Il pensiero occidentale nel suo sviluppo storico, Studi
sulla filosofia moderna, Le mense di Cristo. via Borromei. Ai miei allievi di
Genova e di Pavia. L’ illustrazione è opera del pittore fiorentino Primo Conti. La caravella dalle vele
crociate, che attraversa le Colonne d’
Ercole, simboleggia l'aspetto essenziale
della filosofia dello S.: non vi sono ostacoli per il pensiero umano, nè barriere
invalicabili, se esso cammina e procede
sorretto dalla fede nella verità di Cristo. I più impegnativi e sistematici
scritti raccolti în questo volume sono
il condensato dei due corsi universitari
di Filosofia teoretica, da me tenuti a Genova,
elaborazione di idee maturate
nell'ultimo corso professato nell'Università di Pavia. La lezione almeno per me
è la forma più efficace di comunicazione e di silenziosa collaborazione:
è sempre stato ben poco quel che ho
insegnato al confronto di quanto ho appreso
insegnando. Perciò ogni anno il debito verso i miei Scolari aumenta: il giorno in cui si stabilizzerà,
avrò esaurito la mia capacità d'imparare
insegnando e sarà giustizia e onestà che
scenda dalla cattedra. È dunque per un motivo intrinseco (e direi in segno di riconoscenza) che il
volume è dedicato ai mici Giovani di
Genova e Pavia. Ma ve n'è ancora un
altro: alcuni di Loro sono già docenti, studiosi e scrittori di filosofia. Per il saggio sull’Esistenza di
Dio, nella fase di elaborazione e in
quella di revisione, ho chiesto il loro
ausilio, datomi attraverso il dialogo e anche con precise obiezioni scritte, di cui ho tenuto conto. Di
ciò ringrazio i Proff. Antonelli,
Caracciolo, Crippa, Prini e Scotuzzi,
tutti già mici scolari del Portico pavese edoggi mici collaboratori
nella lieta fatica delle ore riscattate e affidate alla perennità dello spirito. Così, dopo i Problemi di filosofia, ormai
lontani, pubblico ancora una raccolta di saggi teoretici. Credo che
l’organicità del volume non abbisogna di essere giustificata: l’unità
dell’ispirazione (almeno questo è il mio avviso) trapela dalla prima all'ultima pagina; le
idee fondamentali che lo sostanziano,
sempre presenti, tornano con una inststenza martellante. Ma, come che sia di
ciò, resta il fatto che pubblico ancora
una raccolta di saggi teoretici, invece
di quella Filosofia dell’integralità, che prometto da alcuni anni e la cui pubblicazione non ritengo
prossima. Il senso di responsabilità mi
obbliga manzonianamente a pensarci
sopra, a meditare ancora su quella che considero la sistemazione
definitiva del mio pensiero, per minima che potrà essere la sua importanza. Ma, in mancanza diciamo pure di meglio,
anche le pagine qui raccolte forse significano qualcosa. Innanzitutto ho cercato di eliminare un
equivoco, a cui i miei precedenti
scritti potevano prestarsi: non dall’immanenza alla trascendenza, ma dalla
presenza in noi di qualcosa che ci orienta ed oltrep assa alla Trascendenza in
sè: da Dio come è presente alla nostra
mente a Dio in sè nella sua Realtà
assoluta e nel suo Mistero impenetrabile. La
prima posizione, per la sua equivocità, andava definitivamente chiarita
e, una volta chiarita, oltrepassata. Essa
può rappresentare un temporaneo stadio intermedio (forse un passaggio obbligato per chi proviene
dall’idealismo trascendentale) tra immanenza e trascendenza, non un punto d'arrivo definitivo, fondato criticamente e
sondato fino tin fondo. Ma l'abbandono
di ogni compromesso con l’idea lismo
trascendentale, in special modo con l’attualismo del Gentile, mi ha consentito di distinguere
nettamente le sue due forme
fondamentali: dell’Idealismo trascendentistico ed oggettivo e dell'idealismo immanente e
soggettivo, quest’ultimo negazione della verità del primo, sopruso che il
pensiero consuma contro la Verità che lo fonda e alimenta, per cui problemi, esigenze e principî
dell’Idealismo trascendentistico, trapiantati nel campo sterile dell'immanenza
assoluta, trovano la loro morte proprio nella soluzione immanentistica. Mi è
sembrato e mi sembra necessario
tenendo conto del processo di
nascita, crescita e dissoluzione del pensiero moderno riscattare problemi, esigenze e principi
dalla illusoria soluzione immanentistica per farli rivivere nella verità dell’Idealismo trascendentista, fatto
più ricco, maturo e critico dall'esperienza speculativa che va dal Cogito di Cartesio alle posizioni più recenti della
filosofia contemporanea. Si tratta, in breve, d’inserire l’idealismo
tradizio nale di essenziale ispirazione
platonico-agostiniana nel vivo della
problematica della speculazione moderna non per adattarlo ad essa che sarebbe ucciderlo ma quale elemento risolutore della sua dissoluzione e
soddisfacente le sue esigenze critiche.
Così, a nostro avviso, la metafisica
della verità , propria dell’Idealismo
oggettivo, risolve in sè le due opposte
metafisiche dell'essere e del
pensiero , conservando al pensiero e
all'essere tutta la loro validità e positività. Con ciò ritengo di rendere un buon servizio al
pensiero moderno e a quello
tradizionale; un buon servizio, quale si addice alla filosofia, di avanzamento nella via della
verità. Evidentemente le pagine qui raccolte non presumono di avere realizzato
questo programma, la cui attuazione è solo all’intzio; ma mi pare che in esse l'impostazione
vi sia, ed è pure qualcosa. Ancora su un altro punto desidero richiamare
l’attenzione di chi leggerà questo libro. Spesso i miei precedenti scritti sono stati accusati (dai tomisti) di
esigenzialismo: esigenza della
metafisica e della trascendenza, ma non
.ancora loro fondazione . Di
questa critica ho tenuto conto perchè ha
la sua parte di verità. Credo che ora non mi si
possa più muovere e chi v’insiste (0 v’insistesse) ripete senza efficacia un luogo comune, perchè mi pare di
avere abbandonato la posizione esigenziale ed essere passato alla fondazione
razionale della metafisica e della trascendenza, pur senza sacrificare (al contrario)
quell’apporto della vita spirituale nella sua integralità, della quale la
ragione è un elemento essenziale ma non il solo, in cui va sempre colta e da cui non va isolata. Mi sembra che così
il pensiero moderno sia invitato ad acquistare consapevolezza di una
conclusione che non può più ignorare: la trattazione più teoretica e critica impone, nella sua
razionalità autentica e concreta, la
verità insopprimibile della metafisica e della
trascendenza. In altri termini, chi scrive ha l ambizione di poter dimostrare che proprio la più rigorosa
istanza teoretica e la più intransigente
esigenza critica, se spinte fino in fondo
dalla logica che governa e guida la vita dello spirito, debbono necessariamente concludere alla
fondazione di una metafisica teistica,
la sola vera e perciò la sola autenticamente razionale e critica. Queste nostre
conclusioni, per altri motivi, valgono
anche contro quei pensatori contemporanei
cristiani o cattolici che credono di poter accettare con alcune correnti odierne la svalutazione e quasi la
inutilità (quando non la nocività) della
ragione e di salvare ugualmente la validità della ricerca filosofica facendo
della filosofia dell’ estgenza ,
del cuore , della fede , del
mistero , del sentimento ecc. e riducendo la metafisica alla
psicologia o ad una specie di
fenomenologia dell’esistenza. Le stesse
conclusioni valgono ancora contro altri studiosi cristiani 0 cattolici che credono basti contrapporre il
pensiero tradizionale a quello moderno e condannare questo per avere partita vinta e instaurare un nuovo clima
speculativo; oppure che, preoccupati della razionalità (innegabile) della filosofia, sacrificano alla ragione la
ricchezza della vita spirituale, finendo così per isterilire le capacità della
ragione stessa. A noi sembra invece che
la filosofia vada assunta in tutta la
sua pienezza, che è la stessa della vita dello spirito. Crediamo che queste
affermazioni siano sufficienti per
distinguerci dagli esigenzialisti e dai psicologisti (cioè da posizioni
di pensatori francesi ed italiani che hanno affinità innegabili con la nostra), come pure
definitivamente da. ogni forma di
immanentismo ed anche, infine, da un razionalismo che impoverisce la stessa
ragione con la pretesa di garantirne la
purezza e il primato. Le pagine di questo volume sono dunque impegnative: chi le ha scritte può chiedere pertanto che
chi legge, prima di accettarle o
respingerle, s'impegni a sua volta almeno su
quelle dei saggi della parte centrale, forse le più significative. Chi
le ha scritte si è compromesso e l’ha
fatto in modo di compromettere
chi le legge. Direi che le pagine
sull’Esistenza di Dio in certi punti siano quasi indiscrete: vogliono entrare con violenza. E ciò perchè
chi le ha pensate e scritte esige da chi legge una risposta. Nell’ordinare le
mie Opere complete pensavo di ristampare questo lavoro col
titolo L'esistenza di Dio e d’inserire i restanti scritti in qualche altro
volume della Collana. Ho dovuto
rinunziare al progetto: non si può sopprimere
un libro che ha ormai un suo posto nella filosofia contemporanea ed ha
suscitato appassionate, anche se non sempre
intelligenti, discussioni, che hanno dato corpo ad una letteratura
critica di mole considerevole, alla quale si sono aggiunte le traduzioni della parte centrale
in spagnolo (La existencia de Dios,
Tucumdn, Richardet), francese
(L’existence de Dicu, Paris, Aubier), Modern Catholic Thinkers, London,
Burns and Oates; ancora in spagnolo
degli altri capitoli (La filosofia y el concepto de la filosofia, Buenos Aires,
Troquel, 1955, 2° ediz., 1959) e dell’
Ateismo (Madrid, Miracle, 1954),
tradotto anche in inglese (Formville, Virginia). Ma questa seconda edizione non è una
ristampa della prima; infatti, il
contenuto è stato riordinato în altro modo:
il breve saggio su Il concetto cattolico di libertà di pensiero è il solo rimasto nell’Appendice; sono state
aggiunte pagine nuove e il saggio
su L'ateismo , oltre al seguito della discussione con F. Olgiati, sicchè il
libro ha dovuto essere diviso in due
volumi. L’opera, anche nella veste
attuale, non fa parte del corpus
della Filosofia dell’integralità
, ma segna il passaggio dallo spiritualismo cristiano a quest'ultima posizione, di cui, come è
noto, la prima formulazione è L'interiorità oggettiva. Essa, dunque, da un lato, presenta ancora
incertezze ed imprecisioni (1 concetti di persona, interiorità oggettiva,
eststenza, realtà ecc. non sono del tutto approfonditi, precisati, elaborati) e, dall'altro, conserva motivi non
criticamente ripensati della posizione precedente, di cui tuttavia è una
critica. La sua revisione profonda e lo sviluppo della sua tematica rinnovata
ed arricchita st trovano nei volumi posteriori;
pertanto, in questa nuova edizione, a meno di non scrivere un altro libro, non mi restava che conservare
la stesura di dodici anni fa,
limitandomi ad una revisione della forma e
ad un riordinamento delle pagine. Tuttavia, come ho detto, mi è stato possibile, servendomi di note che
risalgono al 1951, inserire nella terza
parte aggiunte e precisazioni senza alterare il contenuto dell’opera, che,
com'è, segna una tappa nello sviluppo
interno del mio pensiero. Genova. Griesalp (Svizzera). N.B. La terza edizione,
meno qualche ritocco nella forma,
riproduce la seconda, esauritasi in pochi mesi. Introduzione, Giornale di Metafisica , Filosofia, Humanitas, Come bisogna concepire la
filosofia?, Revue de Synthèse, Humanitas. Filosofia e vita spirituale, relaz.
letta al Congreso de Filosofia Suirez y
Balmes di Barcellona, Actas, Madrid,
Instituto Luis Vives de
Filosofia, e Humanitas, La
metafisica e i suoi problemi, Giornale
di Metafisica, e Philosophia, Universidad
Nacional de Cuyo, Mendoza. Discussione intorno al concetto di metafisica, Giorn. di Met., Cultura e trascendenza, testo francese, Études philosophiques , numero speciale,
1948; testo italiano, Humanitas: testo
spagnolo, Revista de Filosofia. Cultura
e metafisica, Humanitas ,Vi è una
filosofia della storia?, Procedings of
the tenth International Congress of Philosophy, North Holland, Amsterdam,
e Humanitas, Esistenza e consistenza, Giorn. di met., e Atti del Congresso di Filosofia , l’Esistenzialismo, Milano,
Castellani, L'ateismo, Dio nella ricerca umana, Ricciotti, Roma, Coletti; trad.
spagnola, Madrid, Miracle; trad. inglese, Formville (Virginia); L'esistenza
di Dio, Giorn. di Met. Il
concetto cattolico di libertà di pensiero, San Sebastiin, 1948, a cura del
Comitato delle Conversaciones
catélicas internacionales , e Humanitas. Ogni guerra, per la nazione che
l’ha combattuta, segna. sempre la fine
di qualcosa che era e il cominciamento di
qualcos'altro di nuovo. Quando poi una guerra ha proporzioni
gigantesche, scaturisce da situazioni di portata mondiale e si combatte in nome
di principii la cui sconfitta o vittoria
importa una nuova epoca del mondo, come quella che da qualche mese si è conclusa
('), essa segna la fine di ordini e di
sistemi politici, sociali ed economici, il crollo di ideali e di miti e nello stesso tempo
l’inizio di nuove forme di vita
nazionali ed internazionali, continentali ed intercontinentali. Anche la
filosofia, che è vita concreta dello spirito
(proprio per l’universalità e la necessità della verità non contingente
ma superstorica, che è suo oggetto), tutt'altro che estranea allo scorrere del tempo e alle nuove
esigenze che nascono al posto di altre
che declinano o sono sommerse, si trova
di fronte a nuovi compiti. Essa proprio
perchè sicura che i cangiamenti
esteriori sono spesso il segno di
profondi mutamenti spirituali ha
il dovere e il diritto di insediarsi,
pur senza fare della politica o dell’economia, alla base dei nuovi problemi politico-economico-sociali,
anche contro l’intelligenza di quanti
credono che essi siano solo una pura e
semplice questione di politica o di economia.
Perciò la filosofia è chiamata a rimettere sul tappeto della discussione e della lotta problemi e
soluzioni, ipotesi e principii, affinchè l’eterna verità infinita venga più
profondamente sondata e più chiaramente configurata in nuove e sempre parziali prospettive, anch'esse
incomplete come le precedenti, ma di
queste meno inadeguate e più comprensive. La storicità della filosofia è figlia
della Sofia, che storia non ha: la Sapienza è madre della storia e perciò
anche del filosofare. Non la ricerca o
il processo storico condizionano la verità, ma la Verità condiziona e fa che
esistano e la ricerca e il
processo. Una nuova rivista di
filosofia (?), nel momento in cui per
l’Italia e il mondo incomincia una nuova epoca, non ha bisogno di giustificare la propria ragion
d'essere; specialmente se si tien conto che, da noi, alcune tra le più accreditate riviste filosofiche o hanno già
da alcuni anni esaurito la loro funzione
e perciò rappresentano un modo di
filosofare ormai al tramonto, difendono posizioni quasi sorpassate, comunque esprimono quel che alla
filosofia e alla cultura in generale è già acquisito e come tale appartenente
alla storia; o hanno perduto i Direttori, che ad esse conferivano con la loro personalità, ben
definita e riconosciuta, indirizzo ed autorità. In questi lunghi ed atroci anni di guerra la
filosofia, come qualsiasi altra attività, è stata sospesa all’esito dell’immane
conflitto. Non ha sonnecchiato o dormito; ha atteso trepidante per i destini della vita dello
spirito, per l’esistenza stessa del diritto al pensiero, che è essenzialmente diritto alla libertà. Trepidante, ma
fiduciosa nella perennità della vita spirituale, per cui l’uomo è uomo;
perciò ha atteso pensosa e raccolta: non
ha disperato e dunque ha potuto
continuare a pensare. Ora la guerra è finita, ma ha lasciato impressi nei nostri occhi e nel
nostro spirito gli orrori della morte;
superstiti di uno sterminio senza
precedenti, siamo quasi increduli di ritrovarci. Però come Il Giornale di Metafisica (Torino, Società Editrice
Internazionale), presentato dalle pagine
qui ristampate. capita a quanti si ritrovano vivi dopo aver vissuto per
anni sotto l'incubo della morte e tra
tanti morti che assiepavano e rendevano
oscura e quasi invisibile la linea della vita, noi superstiti abbiamo gran desiderio, brama di
vivere. Ma, per vivere veramente da
uomini, è necessario che facciamo
violenza a noi stessi, che sottomettiamo ai valori spirituali gli
istinti vitali il cui scatenarsi per eccesso di irrazionale valutazione ha
portato l’umanità alla guerra di sterminio, all’ebrezza atroce e crudele del
sangue, l’ha degradata al livello zoologico. La rivolta oscura delle forze primitive ed elementari della vita animale
ancora oggi, malgrado tutto, sembra ribellarsi
al rispetto dei valori spirituali e alla disciplina di un ordine morale. Perciò
noi sosteniamo (e ad oltranza difenderemo questa nostra posizione) che il
desiderio di vivere e con esso il
genericissimo concetto di vita
venga qualificato come desiderio di
vivere nello e per lo spirito, quasi di spirito; che lo spettacolo
orrendo e disumano di un mondo sconvolto dalla
furia, dalla violenza e dall’odio sia al più presto cancellato dai nostri occhi e soprattutto dai nostri
cuori e dalle nostre menti. Innumerevoli, tra i superstiti, le persone
colpite, oltre che dalla guerra, dal
cozzo violento e a volte brutale delle
ideologie politiche. Ci sono i martoriati e i giustiziati di un partito e quelli del partito opposto; i
sopravvissuti covano nel loro cuore rancori, odii, propositi tenaci di
vendetta; sedimenti si accumulano nelle loro coscienze; la sete di sangue vendicatore repressa e non sanata
aumenta; potrà di nuovo! rompere gli argini e provocare nuove
guerre e nuovi sanguinosi e disordinati
sconvolgimenti. La corruzione dell’organismo sociale minaccia sempre
l’esistenza di una società. Ogni coscienza
che non sa oggi perdonare, che non lotta
contro i suoi impulsi immediati per scoprirsi ed affermarsi coscienza autentica, per vincere
il gelo della vendetta con il fuoco della carità, porta dentro di sé la paurosa
responsabilità di un’umanità futura peggiore di quella di ieri. Avviare le coscienze a trovar pace
nel perdono e conforto nel lavoro e nel
bene è uno dei compiti alla realizzazione del quale ogni forma di umana
attività deve contribuire e più delle altre la filosofia, che, come
abbiamo detto, è la vita stessa dello
spirito. Si tratta di ricostruire,
d’instaurare nelle anime il senso dei valori spirituali sulle rovine morali e religiose
(incommensurabilmente più gravi di
quelle materiali), che ideologie politiche e sociali prima, durante e con la guerra (*), si sono
satanicamente accanite a seminare a
piene mani. In questa santa battaglia di rimarginazione delle ferite
spirituali, ciascuno di noi, quale che
sia il suo grado di cultura istruzione capacità, quali che siano la sua professione e il suo
mestiere, i dolori e i lutti che porta
dentro di sè, ha il dovere di prendere e tenere il suo posto, di restarvi
fedele come umile combattente della
verità. Combattere per la verità è l’ufficio dell’uomo; farla trionfare a lui non compete. Ritrovare noi stessi; aver ragione del
nostro individualismo per affermare la nostra vera personalità che è, come tale, negazione degli egoismi individuali o
familiari, di classe o di nazione. La difesa e la garanzia della nostra
persona, prima di reclamarla come un
diritto, dobbiamo sentirla come un dovere e perciò come un atto morale; ma non
vi è moralità senza legge, senza una
norma universalmente valida. Ubbidire alla legge è costruirsi, affermarsi,
consistere come persona. Solo
l’adempimento del dovere conferisce il
diritto di avere dei diritti; il diritto all’esercizio del dovere e la
dedizione all'adempimento di esso sono la condizione necessaria e sicura di
qualsiasi altro diritto, che, senza
dovere, è il diritto della forza, negatore della persona, esaltatore
dell’individualismo titanico, che ogni diritto sommerge e ogni libertà conculca. Libertà della
persona significa libertà dall'egoismo
individuale e sociale dalle mille facce, o non E, purtroppo, bisogna dire anche
dopo la guerra. significa niente. Ricostruisce la società chi costruisce la
propria persona non solo per sè, ma per tutti. Gli egoismi dividono, la legge
unifica; la materia rende impenetrabili, lo spirito ci fa intimi gli uni agli
altri, è la via maestra della comunicazione nella verità; le passioni
accendono passioni ed accentuano le
distanze, la virtù tempera, contempera ed avvicina; l’interesse cristallizza le
menti e raffredda i cuori, l'amore
rinnova, alimenta e riscalda. Tanto sangue
versato per lo scatenarsi dell’odio, della distruzione e
dell'ingiustizia non può e non deve essere stato versato per perpetuare questi
flagelli, che tutti concordemente ed unanimamente diciamo di condannare e di
voler tenere lontani. Molti giovani oggi
tornano dai campi di battaglia o di
concentramento, dalla prigionia o dalle carceri, dai nascondigli e dalle
montagne. Quel che hanno visto soffrire e sofferto non lo sapremo mai: il
racconto delle sofferenze morali e fisiche ha poco senso per chi non ha
sofferto e visto soffrire, tanta è
l’intimità e la personalità del dolore, come
di tutti gli umani sentimenti. Quel che è passato per le loro menti nei giorni oscuri è loro patrimonio non
trasmissibile; è necessario però che
diventi capitale del loro spirito, ricchezza che produca nuova ricchezza. Lo
esigono loro stessi, se è vero che hanno
combattuto per un mondo migliore, se la
serietà, la pensosità e spesso la serenità dei loro volti sono il segno di serietà e serenità
interiori; lo esigiamo noi tutti che con
e per loro vogliamo contribuire alla rinascita
della vita spirituale e all’appagamento del bisogno di orientamento in
tutti profondo ed urgente; lo esigono soprattutto quanti (quanti!) non sono
tornati, quanti nella fossa hanno
seppellito con loro tesori di affetti e di dolori, sconosciuti ed
inconoscibili, inespressi ed inesprimibili per il mondo a cui non appartengono più, per la
terra che li copre, ma non li possiede. Chi ha sofferto per il male non si consola con altro male; chi è caduto non
vuole che la sua morte sia resa sterile
da altra morte. Il chicco di grano che cade sulla terra è lieto di sacrificarsi
nel suo germoglio; i morti di ieri esigono da noi e abbiamo il dovere di rispondere al loro appello che siano tanti semi di frumento e non di
zizzania, da cui dovrà germogliare l’umanità di domani, cioè dello spirito,
nostra realtà dignità grandezza, non della materia, che, da sola, è la nostra
animalità ed effettuale miseria; esigono cioè che, vittime dell’odio, della ferocia e della barbarie, loro, che più
di tutti avrebbero diritto a non perdonare (ammesso e non concesso che un simile diritto sia riconoscibile
all'uomo), siano i pionieri di un mondo
di pace e lavoro, di un’umanità che sappia
trasformare il bagno di sangue, a cui è stata costretta, in un lavacro di riscatto e purificazione. Tornano, dunque, i giovani seri, pensosi e
bisognosi di orientarsi; hanno sete di
giornali, riviste, letture, programmi, che, in verità, non si manca di offrir
loro, tanto è in tutti il bisogno di
fare e dare alcunchè. Che cosa noi
offriamo loro? Il pensiero, che è tutto il nostro noi migliore, il noi profondo. Li incitiamo a pensare, che
è filosofare, filosofando noi stessi.
Non presentiamo una filosofia bella e
fatta che serve a chi l’ha fatta e non a chi non la fa da sè, ma un modo di concepirla, un metodo di
filosofare, che valga come metodo di
vita e di condotta. Essi tornano non con
problemi astratti, ma, diciamo così, incarnati, fatti di carne ed ossa, sangue e nervi; non possiamo
dare in cambio formule confezionate in
serie, valide per tutti e perciò non
buone in concreto per nessuno. La filosofia, che esprime problemi ed
-esigenze nostre, ha il dovere di essere l’espressione dello spirito umano e
non di estraniarsi dall’uomo, che la fa
essere ed è la sorgente inestinguibile della sua vita perenne. Il pensiero, come la ragione, è
universale perchè leggi universali governano la sua attività; ma il pensiero e
la ragione non esistono come enti impersonali ed astratti, bensì come pensiero e ragione degli
uomini, di ogni singolo uomo. Il
panlogismo astratto ed impersonale è la negazione dell'umanità della ragione e
perciò è inumanità e negazione della filosofia, che l’umanità dell'uomo è chiamata ad esprimere. Chi filosofa veramente
impegna non la sola ragione, quasi
staccata dal resto di sè, ma tutto se
stesso; perciò la filosofia, a parte la religione, è il momento più ricco e fecondo della vita spirituale, la
vita stessa dello spirito. Da essa col concorso della religione, dove trova il suo completamento ci può venire una rigenerazione verace di tutto l’uomo e un rinnovamento
profondo della vita; da essa, che,
quando si scruta fino al midollo e si scopre come fondamentale verità e come
apertura al Dio rivelato e incarnato, non è più inutile somma di
esperienze e di fatti scientifici,
politici, sociali, economici ecc. ma
loro conversione qualitativa su un piano diverso e ben elevato; dunque,
è altresì atto di supremo coraggio, la filosofia. Filosofare è guardare in
faccia noi stessi e le cose per leggervi
dentro, l’occhio teso e fisso per non sbagliare, quel che noi significhiamo e le cose significano;
è cercare e trovare la significanza del
creato, il senso assoluto del suo
contingente esistere; perciò è concludere, senza chiudersi in una conclusione
definitiva, contro ogni aperta o mascherata inconcludenza del mondo, banale o
sublime che sia. Una filosofia così
concepita, che pone in prima linea la
validità della ragione e i diritti del pensiero; che ha come suo oggetto la verità che non nasce e non
muore; che, come vedremo, è filosofia
della trascendenza teologica razionalmente fondata; che propugna un integrale
realismo, che è assoluto spiritualismo,
da un lato non teme l’accusa di psicologismo, di riduzione del filosofare a
descrizione dei fenomeni psichici e fisici, ad analisi dei sentimenti o ad
intimismo soggettivista pre o afilosofico; dall’altro, accetta la problematica che scaturisce dalla vita
vissuta di ogni singolo e viene incontro
a quanti portano come problemi dolori, dubbi,
speranze. Dare anima e volto umano ai problemi ed alla verità, che
trascende gli uomini e le età perchè alla contingenza sovrasta, ed illuminare
la vita spirituale dei singoli con la
luce inestinguibile del vero; inverare il fatto, affinchè viva nell’eterna verità ed esistenziare il vero,
affinchè si faccia la nostra verità
umanissima: questa è la filosofia. Se
moltissimi hanno lottato e molti sofferto fino al sacrificio significa che,
anche nelle ore più oscure, l'umanità
non ha disperato che certi ideali superiori di vita avrebbero finito per vincere; ma non c’è speranza senza
fede; gli uomini, dunque, hanno avuto fede. Anche la filosofia è spe ranza, quella di trovare la verità che chi
filosofa cerca: chi cerca ha già
scoperto la vita spirituale. Non possiede
ancora il vero, ma ne è posseduto fin dall’atto che lo cerca: chi filosofa è chiamato dalla verità,
ne ha la vocazione; non la conosce ma cerca, ha già fede in essa e nei suoi disegni, anche nonostante tutto.
Anzi, proprio quando il meccanismo delle
passioni sembra invincibile, ci si
rifugia nell’ideale con fede profonda. L’utopia, ribellione meditata alla situazione effettuale e suo
superamento, prende la spinta dal
riconoscimento deciso e preciso che solo un
fattore ideale può dar forza e valore ad ogni forma di vita; è fede nella perenne validità del principio,
e questa fede è la molla del filosofare.
Non è credenza, preconcetto e dogmatica affermazione, ma certezza interiore,
che si sforza di comunicarsi attraverso
la ricerca per farsi scienza. Senza di
essa la filosofia non sarebbe mai nata: le menti ed i cuori degli uomini, inerti, si sarebbero
estinti nel dubbio, senza speranza. Ragionar molto, è vero; ma anche sentire
molto: un pensiero robusto e ferace è ad un tempo figlio della ragione e della fede. Proprio
perchè ricerca e insieme possesso iniziale della verità, la filosofia non è
scetticismo ed è vita rinnovatrice e promotrice di nuova vita; perchè non possesso pieno, non è dommatismo
ed intransigenza cieca, ed è amore del vero, aspirazione perenne, dinamismo
spirituale sollecitato e mosso dalla verità per la scoperta della verità
stessa, grido di eremita che trascina
popoli interi. Filosofare,
dunque, è nutrire sempre più di fede la filosofia, nutrirla d’interiore
certezza e di razionale fiducia nell’essere della Verità che è anche di
ciascuno di noi, il nostro immortale
Ideale. L'umanità sopravvissuta alla guerra, dopo tanti crolli di idoli e miti,
è innanzi tutto bisogno di fede, sete di
credere; perciò anche bisogno di filosofare, di cercare, aspirare. Così è,
specie quando circostanze straordinarie pongono di fronte a loro stessi uomini
e popoli, li rivelano nella loro interiorità profonda, in quel che è il
loro consistere, che si nasconde,
indomabile, al di sotto del loro
fenomenico esistere. È necessario che tanta ansia di ricerca e così vivo calore di fede siano bene
istradati, cioè siano autentico bisogno di filosofare e non vaga e sterile
aspirazione, inconcludente andirivieni,
pericolosa imboccatura di vicoli ciechi;
urge mettere a frutto la fede per non sciuparla o inaridirla nella sfiducia, a cui
segue l’indifferenza, morte dello
spirito. Metterla a frutto, affinchè non si disperda in lampeggiamenti
che abbacinano e stordiscono, nè si offuschi in
un’accensione accecante per il molto fumo, ma si componga. fiamma limpida e illuminante; affinchè non
sia disordinata crescenza, ma ricchezza
fondata su principî e da essi sorretta e
guidata in modo da scongiurare la confusione delle lingue, il cangiar nome alle cose, il chiamar le virtù
vizi e i vizi virtù, quel gran male con
cui Tucidide caratterizza la mutata e
corrotta società di Atene alla fine della guerra del Peloponneso. Poco p-iù di cento anni fa il Risorgimento
intellettuale e politico d’Italia fu
preparato e nutrito da una fede profonda e robusta, che non conobbe scoramenti
e disarmò le smentite; fede saldissima
nei destini della Patria divisa ed
oppressa, perchè innanzi tutto fede nei valori invincibili dello spirito, negli ideali più nobili di una
umanità migliore, nella realtà di una legge morale che sovrasta interessi ed
egoismi, nella santità e nelle bellezze autentiche della Chiesa di Roma, nella Verità rivelata
da Cristo, fonte d’ogni progresso e
d’ogni civiltà, in quanto sorgente e
legge di salute. Antonio Rosmini e il
Rosminianesimo (indichiamo con
questo nome il movimento dello spiritualismo italiano della prima metà
dell’Ottocento, che dal Roveretano ricevette l’impronta profonda) ebbero una
gran fede nella verità; perciò la
filosofia fiorì e gli italiani filosofarono. Noi oggi, come i nostri
progenitori di ieri, abbiamo una gran
fede nei destini dell’umanità, proprio perchè abbiamo una gran fede nei disegni
della Provvidenza, promotrice e fecondatrice del lavoro degli uomini, suoi
figli. L’anima di verità dello
spiritualismo italiano dello scorso
secolo non si è esaurita col risorgimento politico d’Italia: questioni di ordine pratico e non filosofico,
l’avvento del positivismo prima e
l’affermarsi del neohegelismo nel primo
quarto del secolo nostro dopo, ne hanno interrotto il processo, anche se
alcuni e positivisti e neohegeliani abbiano detto o creduto in buona fede di
continuarlo. Oggi è necessario liberare
lo spiritualismo da alcune interpretazioni, che riteniamo tendenziose ed
erronee e di promuovere nuove vedute di esso; riprendere il filo al punto
in cui fu rotto per riannodarlo ai fili
della nostra vita di uomini d’ oggi, non per ripetere o conservare, ma per continuare
e rinnovare: a scuola, alla vera scuola, s'impara, non si ripete. Imparare significa accrescersi ed
accrescere, rielaborare e ricreare, rivivere, che è tale quando si continua e si rinnova la vita degli altri nella e con la
nostra propria vita. La dipendenza
spirituale c'impegna dunque dentro i
limiti di un filosofare che è il loro vivente filosofare, in quanto è anche il nostro nuovo, personale,
attuale filosofare; ci impegna non per
quel che il passato ha di caduco ed è
passato con il suo tempo, ma per quel che di perennemente vivo vi è in ogni filosofare che è stato
veramente la passione di un’anima e, in
questo caso, per circa mezzo secolo, di quasi tutta una nazione. La tradizione
è indispensabile alla filosofia, come a
qualsiasi altra disciplina scienza istituzione popolo che abbiano una storia, ma dev'essere lievito,
non peso morto; tradizione rivissuta da
noi, in modo che diventi il nostro noi:
noi inseriti in essa ed essa in noi. Ab antiquo la filosofia è definita scienza
dell’essere, dell’universale; come scienza, deve essere pura da ogni elemento
soggettivo; come avente per oggetto l’essere, rispecchiare l’oggettività di
esso, al di sopra di ogni contingenza di
spazio e tempo: la verità nella sua oggettività è comune a tutti gli esseri
razionali e per tutti uguale in ogni
epoca e luogo. Dunque, la filosofia, che tale oggettività è chiamata ad indagare, deve spogliarsi degli
elementi soggettivi, elevarsi in un’atmosfera di serenità composta e severa;
far tacere tutti quei sentimenti che possono essere anche individualmente certi
o quelle soluzioni che si presentano anche belle edificanti confortatrici, ma
che non sono, gli uni e le altre, nè razionalmente formulabili nè
oggettivamente veri; ha l’obbligo di non mescolare i propri problemi e le
proprie soluzioni con le circostanze contingenti di un determinato momento storico e di non
fondarsi su di esse. C'è molto di vero
in questo modo millenario, gloriosissimo e nobilissimo di concepire la
filosofia e l’oggetto della sua
indagine. Se anche per noi la filosofia non fosse scienza dell’essere e la verità oggettiva e
realissima, anteriore ad ogni ricerca, Verità, anche se la filosofia non fosse
mai nata e l’uomo mai creato; se anche per noi non esistessero massimi problemi, non avrebbe
senso parlare di filosofia, di
metafisica. D'altra parte, per noi, l’oggettività della verità, che è prima
dopo e indipendentemente dal pensiero
che la cerca e conosce, non esclude affatto la
personalità del filosofare e della filosofia. È la verità, ma è l’uomo che la cerca; e non l’uomo in
astratto una astrat 34 Filosofia e
Metafisica ta verità, ma il
singolo, questo o quel filosofo, cerca le
verità, perchè sia la sug verità. Eliminare la personalità dalla ricerca
filosofica o prescinderne è eliminare l’uomo
o prescinderne, cioè essiccare la radice della filosofia. La pura oggettività ed universalità, che mettono
in parentesi il soggetto che cerca,
sente e pensa, non appartengono alla filosofia nè ad altra forma di umana
attività. Comnoscere la verità significa
sforzo di penetrazione, scoperta di quel
che è verità, non mero rispecchiamento o copiatura. Lo specchio
tersissimo è freddo ed inerte, indifferente all’immagine che riflette,
al suo riflettersi e al suo sparire;
copiare è lavoro meccanico, che tanto riesce meglio quanto più
l’amanuense si estrania da esso e pensa ad altro. Chi cerca, invece, non è indifferente alla
verità conoscere è possedere ; non pensa ad altro, ma al
contrario, non pensa più a nient'altro. Conoscere la verità è totale
partecipazione ad essa; eros profondo e fecondo, irresistibile, amor di possesso e d’appropriazione, di meità, direi,
della verità universale ed oggettiva. Che non è verità perchè mia, nè perchè la
scopro e conosco o nell’atto che la conosco; ma
nel momento che la cerco, la amo: amo cercarla e trovarla e quando la possiedo, la ho come mia verità,
come /a verità che è mia e mi costituisce. Una la verità contemporaneamente
presente nelle innumerevoli coscienze che furono, sono e saranno: universalissima e
personalissima al tempo stesso. Non si
tratta soltanto di quella soggettività che è
riconosciuta alla filosofia e alle altre scienze, compresa la matematica (il Poincaré, com’è noto,
distingue i matematici in due tendenze:
quelli che, guidati dalla logica, procedono
per lunghe analisi astratte; gli altri che, guidati dall’intuizione, per
sintesi intuitive e concrete), consistente nella diversità dei metodi, dei modi particolari di procedere
nella scoperta del vero e nella sua
sistemazione, ma di una soggettività più
profonda, che investe l’essenza stessa del filosofare. Si tratta,
infatti, d’intendere la filosofia come assoluta dedizione dell’uomo intero,
nell’atto che filosofa, alla verità, per cui
questa e nel momento della
ricerca e in quello della scoperta aderisce
interamente al soggetto filosofante, suona
per la sua mente e per il suo cuore con determinati, particolarissimi
accenti e vibrazioni, lo trasfigura, lo esalta, lo riempie di gioia, lo innova, come dice
Agostino. L'uomo apre un nuovo spiraglio
sull’infinita verità; e come il
prigioniero che nella segreta, a un certo punto, inaspettatamente, è rischiarato
dal sole chi vede saluta e sorride alla
luce, che è Za Luce, ma è la sua luce, perchè suo è il lavoro della ricerca, sua la gioia della
scoperta, sue le ansie e le esitazioni,
suoi i dubbi e le angosce, sua la prospettiva dalla quale si è posto per
cogliere un aspetto dell’infinito vero, oggetto del suo amore. La verità è
madre del filosofare, ma le vedute di e
su di essa son geniture dell’umana mente; prodiga nel darsi a chi l’ama, si
allegra d’esser figlia del suo figlio,
il pensiero, che certo, non la partorisce, ma, dalla verità fecondato,
partorisce; tale gestazione è appunto il
filosofare. E non vi è parto senza dolori e gioie; perciò il pensiero, che è fecondità fecondata
e fecondatrice, conosce il dubbio e la
speranza, il sorriso e il pianto. La verità
sorride e piange con l’uomo che pensa e pensando l’ama e cerca; assume essa, divina, volto anima
espressione umane. È l’umanità perenne
della filosofia, la personalità di cui
essa è gelosa. Perciò noi,
contrari ad ogni forma di soggettivismo, che
vanifica l’essenza stessa della filosofia, ne nega in partenza l'oggetto, non ci sentiamo di negare quanto
di personale vi è nella ricerca
filosofica, per la quale la verità si fa nostra
senza con ciò ridursi al nostro pensiero ed identificarsi con esso; contrari ad ogni forma d’individualismo
siamo per la personalità della
filosofia, in quanto nessuna forma d’impersonalismo riescirà mai ad eliminare
la persona, soggetto del filosofare; avversari di ogni riduzione della
filosofia a pura descrizione fenomenologica, che nemmeno sfiora il problema
ontologico e schierati per la centralità del problema dell’essere, ci opponiamo
ad una concezione puramente nozionale dell’essere stesso. Perciò ancora siamo
contrari ad ogni forma di svalutazione della ragione e dell’intelletto, alla
riduzione del conoscere alla pura intuizione
immediata, ma lo siamo anche ad ogni intellettualismo astratto e
geometrico razionalismo, che non tien conto dell’umanità del filosofare, dei
diritti del sentimento, delle ragioni
del cuore, di quanto vi è di intuitivo nell’umano sapere. Difensori della scientificità della
filosofia, non tolleriamo alcun tentativo di riduzione di essa ad una qualsiasi
scienza particolare, nè ad alcuna forma di scientismo che precluda l’apertura del filosofare
scientifico e razionale ad una verità
metarazionale e superscientifica. La
Scienza , onnipotente ed onniveggente divinità, che tutto risolve ed ogni mistero svela, è un idolo nefasto,
che annulla, con paurose confusioni e
gran danno, le differenze qualitative
tra le varie forme di attività spirituale e sovverte la stessa natura razionale dell’uomo nel momento stesso
che ne decreta la potenza illimitata ed infinita. Lo studio di un aspetto
particolare dell’esperienza, isolato dagli altri e non avente come suo scopo essenziale l’approfondimento
dello spirito nella sua interiorità e
nei suoi rapporti con il mondo esterno, è ancora una forma di cosiddetta
scientificità della filosofia che non possiamo accettare, in quanto tende a
limitare la ricerca al sensibile e alle sue leggi; e la filosofia è sintesi, non serie di soluzioni, ma soluzione
unica. La conoscenza sensibile e la scienza naturale o matematica, che pur possono rendere segnalati servigi alla
speculazione, non possono assorbire o
sostituire la filosofia, il cui compito principale è di far acquistare all'uomo
una sempre maggiore consapevolezza di sè
e della gravità metafisica della sua
destinazione, il senso della sua esistenza e della sua autonomia, di
dare al tempo, alla storia, il carattere di via all’eternità e non d’inabissare
lo spirito nel divenire temporale. Soltanto così l’uomo, a mano a mano che
sonda le sue profondità, si eleva con tutto se stesso all’Essere, sorgente
e principio dell’intelligibilità e del
mistero. Perciò noi, nello stesso tempo
che accettiamo il concetto della filosofia come
scienza razionale e indagine metafisica, secondo una tradizione che ha
secoli di autorità e testimonianze antichissime, e respingiamo le più recenti riduzioni di
essa a psicologia, a gnoseologia pura, a
metafisica del pensiero immanente, a
pura descrizione dell’esistenza, a mera problematicità, a metodologia
della storia, a vana fisicità, a logicismo, ecc., ci dichiariamo pronti ad accettare quanto di
vero e vitale ha il pensiero moderno e
contemporaneo, solleciti di non far
nostra qualsiasi posizione speculativa che pretenda di portarci indietro
di molti secoli verso forme di realismo e d’intellettualismo, che è doveroso e
proficuo rivedere nell’interesse stesso
della verità del realismo spalla a
spalla, in una lotta serrata ma sincera
e non ostile, con un pensiero che da
Cartesio in poi ha una tradizione e un'autorità che impongono rispetto e
meditazione profonda, scevra da preconcetti e prevenzioni, senza intolleranze
premeditate o dogmatismi precostituiti.
Piuttosto che ritornare a quanto ha di
sorpassato il passato, siamo decisi a muoverci incontro a quanto ha di meglio
il presente: radicati nella tradizione, vogliamo pensare oggi per il
futuro. Questa nostra maniera di
concepire la filosofia ci porta a
cogliere le sue ricerche e i suoi ritrovati nei due aspetti, apparentemente
opposti: il personale e il sociale. Non solo
l'intuizione è personale, ma lo è anche il concetto, che è, diciamo così, la elaborazione scientifica
dell’altra. La sua universalità è
veramente tale quando include la concretezza dell’intuizione: universalità,
difatti, non significa affatto
astrazione ed impersonalità; la verità concettuale è anche la mia verità espressa in un concetto
universalmente valido. Concetto
significa sintesi, e la sintesi è una veduta
che integra e coordina, non abolisce o nega, le frammentarie vedute
individuali. Non vi è pertanto verità sociale, valida per gli altri, che non
sia o non sia stata prima verità intima,
personalissima di un uomo. Nè cessa di esserlo
se è davvero verità e coglie ed esprime una nota od un accento dell’umano pensiero anche quando diventa sociale; anzi è tale
proprio perchè ciascuno di quelli, di tutti,
per cui è verità, la riconosce e rifà sua, intima personale verità. Altrimenti è formula morta,
informazione estrinseca, curiosità erudita,
non elemento di cultura, che è vita spirituale. La verità pubblica
è davvero tale quando, al tempo stesso, è verità privata , di ciascuno, quando ogni singolo la riconquista e possiede e vive come
assolutamente sua. L’universalità e l’assolutezza del vero è la presenza dello
stesso assoluto vero nelle molteplici coscienze
singole, che è poi un personale esser presente di ciascuna di esse all’istessa verità. Forse in
nessun’anima, come in quella del
pensatore solitario, è tanto presente l’umanità
di ogni tempo; forse niente è più sociale della solitudine pensosa ed
operosa; diciamo della solitudine, non dell’isolamento. L’identica assoluta Verità, ogni qualvolta è
riscoperta ed accettata da un’anima, le
dona e l’arricchisce. Solo così c’è
commercio d’idee, progresso, perchè soltanto così ciascuno di noi, ogni mente, è industria di idee;
altrimenti gli uomini commerciano e scambiano parole senza contenuto, formule
senza vita. Chi riceve senza dare è improduttivo. Sono le epoche, cosiddette di decadenza della
filosofia o afilosofiche, pigre ed inerti, che vivono di rendita e nulla
sanno mettere a profitto; in esse la
verità ha solo l’apparenza della
socialità, perchè le manca l’intima essenza, costituita dall'intimità e
dalla personalità del vero nella sua oggettività. Poco più di un anno dopo la
fine della guerra ’14-18, Gentile nel
Proemio premesso al primo
fascicolo del Giornale critico della
filosofia italiana così scriveva: oggi
noi vogliamo un idealismo storico o attuale,
uno spiritualismo antiplatonico e immanentista . Molti giovani, che la guerra avevano fatto e
vissuto, sfiduciati dell’ambiente filosofico e culturale del momento, si
orientarono verso la nuova rivista. Durò
poco; il Giornale continuò a
vivere, ma alcuni, giovani e anziani, cambiarono rotta e s’'indirizzarono altrove. L’idealismo storico
o attuale, antiplatonico e immanentista, non era la filosofia che rispondeva
alle loro esigenze; infatti, di tutte le filosofie che hanno reagito al
positivismo, è tra quelle che hanno fatto maggiori concessioni alle tendenze
naturalistico-empiristiche e più si è
adattata ad esse. Concepisce il mondo come realtà spirituale, ma, per il suo fondamentale
storicismo ed immanentismo, imprigiona, anzi impoverisce lo spirito nelle forme
e nei fatti empiricamente dati. Manca ad esso
quel carattere autenticamente metafisico e religioso, essenziale alla
filosofia, lo slancio di elevarsi, con un respiro veramente universale e non
mozzo, al di sopra di quella generica divinizzazione dell’umanità, a cui in
fondo si riduce quel suo concetto di Storia o Cultura o Civiltà, col quale identifica la totalità del reale. Altri indirizzi in Italia e fuori sono
contemporaneamente sorti ed hanno avuto fortuna; poi di nuovo la guerra ’39-45.
Poco meno di sei anni: tutto cambiato. Filosofie che fino alla vigilia dello scoppio del
conflitto e a qualche anno dopo erano
studiate ed appassionatamente discusse,
oggi sembrano lontane e, a volte, estranee a noi, come se da esse ci dividessero secoli. Morte? No: con
esse, compreso l’idealismo storicistico o attuale che sia, dobbiamo ancora fare
i conti, se vogliamo proprio dare un nuovo orientamento al filosofare.
Misurarsi con gli avversari, con tutto il
rispetto che meritano e che anche noi esigiamo da loro, è chiarire noi stessi, saggiare la loro e la
nostra consistenza. Diciamo subito,
sebbene il lettore abbia già capito, che il nostro spiritualismo è platonico,
come può esserlo uno spiritualismo che non intende ignorare il pensiero moderno
e contemporaneo nè da esso straniarsi;
ed è trascendentista. Dire per esteso come noi intendiamo il nostro
spiritualismo, in che senso lo
denominiamo platonico e trascendentista, qual’è
l'essenza del platonismo antico e cristiano, sarebbe anticipare in
questa introduzione molte tra le pagine di questo libro e quanti volumi formeranno la nostra
Filosofia dell’integralità. Come abbiamo scritto altrove: Noi... capovolgiamo il principio animatore di
buona parte del pensiero moderno e
contemporaneo: non conquistare la posizione immanentistica dell’attività
creatrice del soggetto, ma conquistare
ed anche questa è dura e aspra conquista
il senso, che è senso della trascendenza, di essere creati, il
calore spirituale di esser parte vivente
della creazione. Aver sempre presente alla propria coscienza di essere
creature, significa avvertire sempre la propria esistenza come dono, grazia di
esistere: il mondo, nella sua totalità, è un dono della grazia del Creatore. Appunto, per noi,
filosofare è pensare trascendendo il nostro
pensiero; è far della storia trascendendo la storia; è tensione dello spirito
verso una Realtà che è in lui senza
esser lui, che immane e trascende; è
aspirazione al possesso della Verità, che non ha storia e non è filosofia, ma che fa e la storia e la
filosofia . Platone? Sì, ma anche
Agostino, Pascal, Rosmini, Blondel. Platonismo, che è un aspetto perenne perchè
essenziale e invincibile della filosofia di ogni luogo e tempo, dello spirito
umano, che è filosofo , perchè è
aspirazione indomabile, eros inesausto
della verità. Perciò la filosofia è costituzionalmente decisa tendenza alla trascendenza. Oggi, come nel periodo immediatamente
anteriore alla guerra, vi è, specie
nella filosofia francese e italiana, non un
ritorno, ma una ripresa dell’agostinismo perenne; i problemi filosofici,
quello religioso e dei suoi rapporti con la filosofia, sono posti, trattati e
discussi nei termini della spiritualità agostiniana: questa oggi la nota
attuale (che non significa di moda) che riesce a farsi ascoltare. È anche
la nostra nota che non contrasta affatto
con la ricchissima spiritualità tomista, di cui è da tenere gran conto, in
quanto, aggiungiamo, è tutt’altro che
antiplatonica ed antiagostiniana. Agostinismo significa voler conoscere innanzi
tutto due cose: Dio e l’anima, la mia
anima che ama Dio e a Lui aspira.
Dunque, umanesimo o spiritualismo cristiano;
centralità del problema dell’anima umana di fronte a Dio che in lei parla e della consistenza
dell’uomo e delle cose; senso della
creazione, che si coglie come tale nell’aspirazione perenne al Creatore e,
dunque, senso profondo, interiore, della trascendenza. Dunque, ancora, pensiero
che si coglie nell’essere, non essere
che si coglie nel pensiero; perciò
metafisica dell’Essere. Ma non basta. Da una parte, la persona umana non è l’individuo, che è
ogni ente organico, o l’io empirico, e, dall'altra, il Dio del Cristianesimo
non è soltanto impersonale sostanza o mera essenza. E’ più che sostanza, più che essenza: è
Persona, Padre, Creatore, Provvidenza.
La teologia razionale, che tende a
scarnificare Dio, va animata e riscaldata dalla mistica, che è esperienza interiore e teologia rivelata.
Dio non è il residuo logico di un intellettualismo intollerante; non è Oggetto
puro, ma Soggetto assoluto e trascendente: tale è per la mistica che appunto ridona a Dio, come Dio
di Gesù, quella soggettività
che è Sua natura . Non si
tema l’immanenza, perchè, se non altro,
questa posizione ci mette al di là del dilemma, più artificioso che reale,
trascendenza-immanenza; nè l’esperienza mistica fa di Dio un elemento immanente della vita dell'anima, ma
Lo assume e ama come Voce interiore, Norma assoluta e Guida infallibile: Voce, Norma, Guida, Via
trascendenti, che spiritualmente ricreano la creatura. Dio ancora è
intelligenza che attua col pensiero gli
intelligibili, ma attuandoli li vuole
liberamente. Anche qui non si tema il volontarismo, per chè siamo al di
sopra del dilemma volontarismo-intellettualismo: la nostra posizione non è
meramente volontaristica e meno ancora
anti-intellettualistica. L'attività intellettuale che solo certe forme d’intuizionismo hanno
relegato nel formalismo e nell’astratta
schematizzazione, con una restrizione del termine intelletto tanto ingiusta
quanto incresciosa è anch'essa vita
intensissima e spirituale sentire, che
si collega con l’attività volontaria. Intelletto e volontà sono fatti per armonizzare nella distinzione
e reciprocamente integrarsi. La riflessa cautela critica dell'intelletto
non smorza, ma disciplina e rende più
efficaci gli slanci della volontà, come
la rigorosa obiettività metafisica non si disgiunge dal carattere personale
della ricerca filosofica. Poetico è l’intelletto, al pari della volontà.
Insufficiente il primo nella sua sfera
se non è integrato dall’altra, come è
insufficiente la volontà che pretende di fare a meno dell’intelletto; sufficiente è la completa e
concreta vita umana naturale
nell’integrazione reciproca dell’una e dell’altra forma di attività. Da ultimo,
il complesso dell’uomo ha il
suo compimento nella spiritualità soprannaturale, che non altera l’umana natura, ma la solleva ad un
più alto stato. Una metafisica così
intesa esaurisce il contenuto della
filosofia: è gnoseologia e morale, è scienza del mondo e dell’uomo singolo ed associato; è filosofia
che ha il profondo senso morale e
religioso di se stessa; perciò cristiana, alla
quale appunto il Cristianesimo dà la consapevolezza dei limiti della
conoscenza concettuale e nello stesso tempo, con la Rivelazione, la soluzione di quel che può
solo cercare e sondare, ma intorno a cui
non può e non potrà mai concludere. La filosofia è razionalità, se si
vuole, intransigente razionalità; ma è atto della ragione
autentica riconoscere i suoi propri limiti; atto che include perciò stesso il riconoscimento del mistero teologico, che
non è affatto, non occorre dirlo,
irrazionalità o arazionalità. La ragione, lume naturale, riconosce, con un atto
naturale, il lume soprannaturale: si apre alla Rivelazione; la filosofia, che è indagine razionale, è apertura
all’Essere, vocazione alla trascendenza,
che, per noi, è quella teologica. Se così
non fosse, se la filosofia non mettesse le ali allo spirito per innalzarlo, faticosamente, nel mondo che è
spirito e non materia, che è verità e
non illusione, da dove non dimentica o disprezza
il regno terreno, ma lo intende, conosce e valuta al lume della Verità che lo trascende per
indirizzarlo al suo fine, che è il
Creatore, la filosofia sarebbe ozio e concupiscenza dell’intelletto, non vita
spirituale, salute dell’anima. Fede e
ragione in stretta ed armonica collaborazione, senza che si armino i diritti dell’una contro
quelli dell’altra; Suona filosofia,
dunque, in umiltà di cuore, semplicità d’intelletto e rettitudine di volontà. Di qui scaturiscono conseguenze di vitale
importanza. Innanzi tutto la filosofia è
profonda consapevolezza dell’essenziale spiritualità dell’uomo nella sua
complessa ricchezza e dell’ordine del
mondo; nell’uno e nell’altro caso, assenso
alla verità di Dio, creatore dei due ordini, provvidenza o attività perennemente creatrice e
conservatrice. Consegue che la filosofia
è riconoscimento dell’essere del creato, di ogni creatura nel suo grado di essere; in questo
senso è avviamento all’integrità, che è appunto riconoscimento
di ogni ente nel suo grado di essere, per
quel che è e significa; è disposizione
(non diciamo realizzazione o compimento)
al ritorno alla creazione genuina, messa in linea per il riscatto totale
di essa. Pertanto filosofare è ricreazione interiore della verità, iniziazione
religiosa, contemplazione (theoria) che è concentramento della totalità del
creato in un punto del pensiero, da dove
più potente ed irresistibile si fa lo
slancio verso il Creatore; è infine e
per tutto ciò preghiera. Da ultimo consegue che essa è essenziale
moralità. Chi filosofa si mette in
cammino per incontrare la verità; dunque, nell’atto stesso, è chiamato a
spogliarsi di quanto ini 44
Filozialmente può essere di ostacolo al raggiungimento del suo scopo e a liberarsi, a mano a mano che la
ricerca procede, di quanto risulta falso
o inadeguato: con ciò stesso riconosce che non la ricerca produce il vero, ma
il vero la ricerca. Filosofare è pertanto itinerario di liberazione, di purificazione: lotta del vero contro il
falso, del bene contro il male; dunque, è
assolutamente moralità, che non è un
fatto, ma un dover essere. Nel nostro caso, è la possibilità di riescire
a vincere il falso con il vero, il male con
il bene, di riescire al possesso della verità, che è saggezza. E’ capace l’uomo (il pensiero, la filosofia)
di passare dalla possibilità di vittoria
sul male e sul falso, alla reale riescita?
Di trascendere la lotta vero-falso, bene-male? La lotta è la sua vita morale; la vittoria definitiva
ne è l’esito; poichè l’esito o cessazione
della lotta è al di là di essa, la
trascende. Ma trascendere la morale è trascendere il pensiero, cioè il
potere dell’uomo; dunque la realizzazione del
fine, per il cui conseguimento l’uomo lotta contro il male, non è nell’umano potere. La filosofia, intesa
come assoluta moralità, è la grande possibilità naturale di cui l’uomo dispone
per realizzare il suo fine supremo. Impegnate
tutte le sue forze e fattele fruttare al massimo, il pensiero si fa disponibile per accogliere dall’Alto,
se vengono, le energie della salvezza:
l’essenziale moralità della filosofia si
rivela come essenziale sua religiosità; dunque l’esito della vita morale (lotta del bene contro il male)
non può trovarsi se non nella religione.
In caso contrario, la morale come lotta eterna senza possibilità di
risoluzione, come perenne dialettica dei due termini in contrasto, si nega come
morale, in quanto si riduce ad un fatto,
al fatto della lotta, che non può non
essere altro e dev'essere quello che è.
E’ la nostra ancora una morale filosofica o razionale? Crediamo di sì ed aggiungiamo anche che è una
morale autonoma nella sua possibilità di
riescire, con la speranza che la riescita che la trascende non le manchi e venga a colmarla, a liberarla dalla lotta, ad
assorbire la morte in vittoria . La
salvezza come fine della moralità
investe nel suo punto cruciale il problema dei rapporti di filosofia e religione. Secondo la tradizione,
Pitagora, quasi indietreggiando umile di
fronte alla maestà della divina Sapienza, per primo si nomò non sapiente ma
filosofo: semplicemente amico della
Sapienza, veritatis amicus. La Sofia è scienza di Dio, la filosofia è scienza dell’uomo. Dio non è filosofo , dice Platone, perchè è il Sofo. Ancor prima di Pitagora e Platone, l’uomo
(da Adamo caduto, primo grido di dolore
e primo atto di pentimento per la verità
perduta) ebbe ad accorgersi che l’amore per la
Sapienza costa carissimo. Amare la verità è tendervi, che è sforzo perenne di ricerca, superamento di
limiti, penetrazione di zone di ombra,
vittoria sul dubbio; lo sforzo è dolore.
L’uomo partorisce mella Verità le verità: prima gesta con cautela e fatica; sorveglia perchè il parto
non sia aborto prematuro e il partorito germoglio rachitico e malaticcio;
poi fa forza per rompere l’involucro che
l’asconde e vorrebbe soffocarlo: non si
dà alla luce senza dolore. Ed è giusto:
non c’è luce di verità, per l’uomo, senza sacrificio e sofferenza, che
fanno pura la gioia del generare. Umanissima la
filosofia: è suggellata dalle note eterne del dolore in letizia; infatti è
testimonianza del vero. Ma non si
sopportano sacrifici nè si affrontano
martirii senza fede nella verità, nel
dono che farà di se stessa, essa, che è posseduta solo da chi è suo possesso.
Filosofo è chi ha fede nel ritrovamento del vero, chi usa il dubbio
positivamente, come pedana di lancio o strumento d’acquisto; non dispera, non
tentenna: crede, serve e muore. Socrate fu filosofo. Altro saggio d’antichissima saggezza,
Salomone, nell’Ecclesiaste, sottolinea il tormento di spirito, a cui
volontariamente si condanna il filosofo per amore del vero: vivere filosofando
(non primum e poi deinde, perchè non si
filosofa senza vivere, ma non si vive, in ispirito e verità, senza filosofare) è lotta perenne, fatta di
conquiste e perdite, di elevazioni e
cadute, di realtà ed illusioni deludenti, di
speranze e disinganni. Perchè? Perchè l’uomo, grandezza di pensiero e
miseria di peccato, è sempre alle prese
con l’errore, sempre in un’ansia di ricerca che fruga il visibile e
l’invisibile: ora cade al livello della carne che agogna delizie di piaceri,
ora si slancia alle cime serene e luminose della pura spiritualità;
contraddizione vivente di sapienza e stoltezza, di verità ed errore,
instancabile ed inquieto viandante, che sorsa a mille sorgenti ed ha
sempre più sete. Alla fine, spossato
umiliato confuso confessa la propria
impotenza e grida all’ausilio di una forza superiore alla sua; invoca il vero
che tanto ha cercato, affinchè scenda
sul suo cammino e gli venga incontro, mercede di tanto affanno. Deum time et mandata ejus observa;
hoc est enim omnis homo . Perchè
tanto peregrinare del viandante indomabile? Perchè egli, dice ancora il Saggio,
per la verità deve lottare con se
stesso, portare in linea il lume dell’intelletto, che aspira all’invisibile
immutabile vero, affinchè vinca il senso
cieco e corruttore, che vagola nell’errore e tenta, esperto d’inganni e raffinatezze, di sostituire al
vero le apparenze di esso. Così dirà
anche Platone, che fu filosofo. La saggezza
testamentaria s'incontra con quella greca nel cercare di definire
l’essenza della filosofia e del filosofare. Eed., XII, 5. Che cos'è in concreto
filosofia? È una scienza come le altre? È una scienza sui generis? Ha un suo
oggetto e quale? Filosofia non è
scienza come tutte le altre. Non lo è
innanzi tutto perchè, come ben notò Aristotele, si distingue dalle scienze empiriche: essa, infatti
(quando è vera filosofia e non tornaconto di falsi o mezzi-filosofi) non ha fini utilitari. In questo senso, filosofia,
la sapienza desiderata per se stessa e per amore del sapere , è scienza
inwtile: non serve a niente di estrinseco o di estraneo alla ricerca della
Verità in sè e per sè. Coloro che scherzando dicono che la filosofia è inutile
non si accorgono di tessere il
suo più bell’elogio: inutile, e perciò libera e liberatrice. E quando avvenimenti di eccezionale portata
scuotono gli uomini nel più profondo della loro profondità e tutto sembra irreale ed assurdo, il volgo, spregiatore del
filosofo, chiede a lui la parola che
illumina e salva e nella filosofia intravvede i calzari con cui l’umanità
cammina nel tempo per secoli e
secoli. Bellamente disinteressata, pura
contemplazione, spassionata ricerca della verità va fiera della sua sublime e
quasi divina inutilità. Il filosofo è
come il poeta: contempla e canta, adoprando princìpi e formulando giudizi; fa musica ,
secondo il comando che a Socrate carcerato dava in sogno la voce misteriosa (7). D'altro non si
preoccupa, dice ancora Aristotele, in
quanto ha il fine in se stesso .
Proprio perchè non è scienza empirica, essa è conoscenza di tutto il reale, dello spirito e delle
cose, non nella loro accidentalità, in
quel che hanno di empirico, bensì nei loro
princìpi e nelle loro cause. Ma ogni altra scienza particolare non cerca pur essa princìpi e cause e leggi?
Sì, ma nessuna. studia l’ente in
universale , bensì dopo averne rescisso Fedone, 60 e. qualche parte, di questa
studia gli accidenti ; solo la filosofia studia l’ente in quanto ente e le sue
proprietà essenziali (*). Scienza
dell’universale dunque e, come tale, distinta da ogni altra empirica. Secondo lo stesso Aristotele, non è la sola
che appartenga alle scienze dette
speculative (distinte dalle poetiche
e pratiche ): condivide questa
nobiltà con la fisica e la matematica. Ma non allo stesso titolo: occupa il posto più alto nella gerarchia; e i gradi
sono segnati dalla purezza dell’oggetto:
la fisica studia le forme, ma nella
materia; la matematica anch’essa le forme, ma astratte; solo la
filosofia le studia pure e concrete (‘). Prima di Aristotele, Platone aveva già
stabilito una gerarchia delle scienze
culminante nella filosofia o dialettica, la quale ha come oggetto le
Idee in sè e per sè, senza alcun commercio col sensibile (*). A parte la dottrina aristotelica delle forme
e la platonica delle Idee, proprie dei
due filosofi, resta fermo che la filosofia ha come oggetto non alcunchè di
empirico o sensibile, ma il meta-empirico
e il soprasensibile; che è scienza disinteressata, speculativa, il cui oggetto
è l’universale, ciò che è e non appare;
non è ricerca di una singola verità; non si rivolge ad un oggetto particolare,
ma a ciò che è, all’Essere. Non è
scienza come le altre la filosofia anche per un
motivo strettamente connesso a quanto già abbiamo veduto. Le scienze, certo, son forme dell’attività
dello spirito umano, ma nè una nè tutte insieme sono lo spirito. Che la scienza sia spirito e lo spirito scienza, è
solo un’erronea equazione di certo
positivismo o neopositivismo, che non
vide e non vede ancora che tra l’una e l’altra non v'è differenza di
quantità, ma di qualità. Nè la filosofia è una
serie o collezione di sintesi (i contributi o i risultati di ogni (3) Mer., IV, I, 1003. (4) Met., VI, I, 1025 B.3-1026 a. (5) Repubblica, 521 c-535 a. singola
scienza), perchè è sintesi originalissima, assoluta. Ecco perchè /4 scienza, in
fondo, è le scienze, mentre /z filosofia non è le filosofie Di qui ancora la particolarità delle
scienze. Ogni singola scienza conosce secondo un modo suo proprio (Pascal direbbe un suo espriò) un aspetto del reale;
la filosofia invece, che ha il suo
esprit inconfondibile, non s’indirizza ad un
aspetto, ma a tutto il reale. Lo conosce nella sua interezza? No, e qui
bisogna intendersi. Vi è la conoscenza
comune, che non è scientifica nè filosofica, quantunque sia il materiale sul quale lavorano e la
filosofia e la scienza; vi è la
conoscenza scientifica che conosce
secondo un suo metodo, suoi
concetti e regole un aspetto del
reale, astraendo dagli altri; vi è la
conoscenza filosofica che tende a conoscere il reale nella sua totalità, cioè
se lo pone intero come oggetto di
conoscenza, ma di esso coglie solo un
aspetto, meglio lo vede da un punto di vista, ne ha una veduta parziale. Per conseguenza le
scienze colgono parzialmente un aspetto
parziale del reale; la filosofia coglie parzialmente la totalità di esso.
Perciò quelle hanno un’astrattezza che
la filosofia non conosce, senza che ciò
obblighi a concludere che i loro concetti, privi di valore conoscitivo,
ne abbiano soltanto uno pratico ed economico.
Per povero che sia, un concetto è sempre una finestra sul mondo; per limitato che possa essere il
conoscere scientifico è sempre una veduta della realtà. Vi è inoltre un problema fondamentale, in cui scienza e
filosofia hanno sempre collaborato: il
problema stesso della scienza. Per un
altro verso le scienze sono astratte: sono conoscenza nel senso più angusto. Lo
scienziato applica un metodo di ricerca ad un determinato fenomeno; è guidato
solo dall’osservazione e dalla ragione;
il sentimento è escluso. La filosofia
no: è fondamentalmente razionalità concreta,
la razionalità che è l’uomo intero, totale, che è ragione, volontà, sentimento, cuore. Anche quando la
filosofia è puramente nozionale, formula scarnificata, resta sempre alla pura ragione filosofica una vita che è pur
presenza di umanità; anche la saggezza stoica o quella spinoziana sono profonde
aspirazioni umane. Non così la scienza che astrae dal sentimento, dall’umanità dell’uomo, anche
da ogni motivo finalistico; perciò la sua necessità è naturale, quasi
meccanica: in qualunque caso, anche se indeterministica, prescinde dalla
finalità del reale. La filosofia invece è sempre teleologica: non è scienza dei
fatti, ma dei valori; dunque la sua essenza è veramente spirituale. Perciò
ancora è libertà. Inoltre, la filosofia,
essenziale ricerca della verità
oggettiva, che è prima di essere conosciuta e tale resterebbe anche se
mai alcun soggetto pensante la conoscesse
o la cercasse, ha una sua indeclinabile soggettività: la verità universale ed oggettiva è anche la mia
verità, quella che, cercando ed amando, faccio mia. La scienza invece astrae
dal soggetto come tale per garantire
quella oggettività impersonale, propria della conoscenza scientifica. Di qui l’
incommensurabile ricchezza della filosofia, quella stessa dello spirito umano filosofante, cioè amante, con
tutte le sue forze e con tutto se stesso, la verità desiderata, alla quale si offre, dedica, sacrifica; quel senso
umanissimo proprio della pagina
filosofica, che spesso, sotto la veste frigida
e il gelo delle formule, ha una vita possente e un’anima intera, la vita
e l’anima, inconfondibili, del pensiero speculativo. Da ultimo, la filosofia è impegnativa. Il
filosofo che si accinge al terribile
compito di riflettere sulla conoscenza
comune, di sottoporla ad esame e a critica, di oggettivare la sua vita per esaminarla profondamente, non
più vissuta nella sua immediatezza, ma
posta come problema, il filosofo, dico, s’identifica con la sua filosofia, la
verità che è la sua vita. Ogni filosofo
è una formula, ma la sua non è
un’astrazione; è tutta la ricchezza, radicalmente, della sua esistenza; la formula è la croce, su cui si
crocifigge e dalla quale perennemente rinasce. Lo scienziato, invece, pone
un'ipotesi: questa può essere dimostrata falsa o vera, restare semplice ipotesi. Nei tre casi tranne che l’ipotesi non abbia una portata
metafisica e, in tal caso, o fa della
filosofia con esprit filosofico e non più scienza, o fa della filosofia con esprit scientifico e non
più scienza nè filosofia, ma
pseudo-scienza e pseudo-filosofia Ja sua
vita resta quello che è. Per il filosofo
non è così: che Dio esista o non esista,
che il bene sia una realtà o un'illusione,
che il mondo abbia un fine o sia il risultato di combinazioni
meccaniche, la verità dell’una o dell’altra di queste ipotesi, impegna la sua vita interamente,
importa vedere l’universo in un modo
radicalmente opposto ad un altro. Lo
scienziato che indaga non scommette se stesso; il filosofo sì, totalmente. Vi è
nella filosofia un’essenza di totalità metafisica e insieme religiosa che manca
alla scienza. Si è ancora sostenuto,
muovendo dalla pregiudiziale critica, che la filosofia non è la scienza, in
quanto questa ha dei presupposti che
accetta senza renderne conto. La filosofia
invece, se vuol essere tale, discute e deve discutere non solo i presupposti della scienza, ma ogni
presupposto, porre in questione se
stessa. Ma la pregiudiziale critica, come qualsiasi altra, è essa stessa un
presupposto: la si può discutere in base
ad un altro; e questo in base ad un altro ancora e così via. La stessa pregiudiziale critica,
affinchè abbia senso e possa essere
assunta come punto di partenza del
filosofare, presuppone l’oggetto della ricerca, la verità: la critica ha senso come giudizio sulla umana
conoscenza della verità, non come dubbio
che investa la realtà stessa del vero,
altrimenti essa vien meno al suo compito e
alla sua ragione d’essere, in quanto c’è critica del conoscere solo rispetto alla verità. Infatti, il
problema dei limiti della conoscenza
umana è tale rispetto alla verità ed è
problema della validità -del conoscere solo in quanto c’è verità. La posizione critica è
consapevolmente critica, solo in quanto col e nel suo porsi implica e riconosce
la positività del vero. Dunque anche la filosofia ha i suoi presupposti, quantunque sia meno dommatica
della scien Teorie nuove sostituiscono le vecchie, ma nessun matematico, per
esempio, pensa di far progressi nella sua scienza cominciando dal mettere tutto in dubbio,
anche che due e due fan quattro; e se
ciò mette in dubbio, non dubita del
numero. Anche lo stesso modo di condurre l’ indagine filosofica implica dei presupposti. Del
resto, non è solo un limite della
filosofia o della scienza; lo è del pensiero umano in generale, il quale non può rendere conto
di tutti i presupposti: gli possono apparire evidenti, ma non perciò sono
dimostrabili. Vi è un metodo scrive
Pascal quasi a principio del frammento
sull’Esprit géometrique più eccellente
di quello della geometria, consistente:
a) nel non usare alcun termine di cui non sia stato prima spiegato
nettamente il senso ; b) nel non affermare mai alcuna proposizione
che non sia stata dimostrata con verità
già conosciute; cioè, in breve, nel
definire tutti i termini e nel provare tutte le proposizioni . Bellissimo
metodo, ma assolutamente impossibile .
Di dimostrazione in dimostrazione si
arriva necessariamente a dei termini primitivi, che non si possono più definire e a principii così chiari che non se
ne trovano altri che lo siano di più per
provarli . Se la filosofia, come ogni
altra umana scienza, potesse spiegare tutti i presupposti senza presupporne alcuno, non sarebbe più
filosofia, ma Sofia, la Sapienza, di
fronte a cui si sgomentò Pitagora; nè
l’uomo sarebbe filosofo, ma Sofo; Sofo è solo Dio, che non è filosofo. Gli uomini non hanno la
capacità (ed è qui la ragion d’essere
della filosofia) di costruire una qualsiasi
scienza di ordine assolutamente perfetto. Dunque, la filosofia è scienza
sui generis, ma l’esser tale non
significa affatto che non vi siano altre scienze, come hanno cercato di
dimostrare alcuni indirizzi filosofici contemporanei cosiddetti idealisti.
Torna il conto soffermarvisi, anche se brevemente. Per il neohegelismo italiano, per esempio,
la filosofia è scienza speculativa, il
cui criterio logico, che è anche principio del reale, è il dialettismo
antinomico. Perciò: l’antinomia dialettica è il principio di tutta la realtà;
la filosofia ha come criterio logico lo stesso principio; dunque la filosofia, in quanto dialettica, è scienza
del reale. La logica aristotelica invece
(che lo Hegel e gli hegeliani chiamano
astratta per distinguerla dalla
nuova detta concreta ) assume come
princìpi logici della speculazione quelli d’identità e non-contraddizione; per
conseguenza muove da un criterio logico speculativo diverso da quello l’opposizione dialettica che è il principio del reale; dunque non può
conoscere il reale, di cui si lascia sfuggire l’essenza. Alla logica astratta, che procede per esclusione, bisogna
sostituire quella concreta, che fa suo il principio del dialettismo antinomico.
Così vi è corrispondenza perfetta tra il criterio logico della speculazione e il principio del reale;
anzi il principio 0 la legge del reale
(ciò che è reale) è lo stesso criterio logico
o legge del pensiero (ciò che è razionale). La filosofia, scienza speculativa, è l’espressione perfetta di
questa identità, la trasparenza dell’Idea.
Le altre scienze non sono scienza
in quanto assumono come principii
del reale leggi determinate e fisse, che escludono la contraddizione. Dunque
non hanno valore conoscitivo; astratte, si lasciano sfuggire la concretezza del
reale. Scienza è solo la filosofia che è
l’antinomia, la contraddizione, fattasi realtà; perciò è scienza diversa dalle
altre e, come tale, decreta la loro non-scientificità o empiricità, nel momento stesso che conferma la sua sola
legittimità scientifica. Che la realtà
presenti antinomie e contraddizioni, anche
sconcertanti, è vero; ma è proprio la contraddizione che provoca il
pensiero a vederci chiaro e a cogliere la radice, dove i termini opposti s'incontrano. La conoscenza,
filosofica o scientifica che sia, è soluzione di contraddizioni,
componimento di antitesi ad un livello
più profondo dell’antitesi stessa. Come dice il Rosmini, l’universo è un grande
e sacro libro aperto da Dio davanti agli
occhi dell’uomo e scritto tutto di
quesiti e difficoltà, proposte all’umana intelligenza perchè le risolva. Dio
col permettere che insorgano nella mente dell’uomo delle dubbiezze, o,
per dir meglio, delle difficoltà, ...
riscuote l’inerzia di lui e lo provoca alla riflessione ed alla investigazione del vero. La legge fissa
non è che soluzione, diciamo
così, dinamica della contraddizione, del dubbio e della difficoltà che han
provocato la mente a comporli. Dunque,
anche la legge scientifica, in questo senso,
è sintesi conoscitiva, come lo è il concetto filosofico, ferme restando le differenze da noi poste sopra tra
filosofia e scienza. Inoltre, se la
realtà, almeno come appare, è contraddizione,
ciò non significa affatto che l’essenza del reale sia l’antinomia.
Fermarsi ad essa è arrestarsi alla superficie o almeno sull’ultimo gradino
rifiutandosi di penetrare nella radice profonda del reale stesso, dove è il
componimento di tutte le antinomie; è
indietreggiare di fronte alla metafisica, che è
appunto la filosofia; essere ancora degli empirici; è fare della filosofia una scienza empirica (sia pure sui
generis) come le altre; è il residuato
positivistico che l’idealismo trascendentale non è mai riescito a sciogliere,
nonostante i suoi sforzi metafisici. Nè
il principio che sottostà all’antitesi è l’astratto, ma l’assolutamente concreto. Astratte son le
scienze non in quanto non riconoscono
l’antinomia, bensì in quanto non colgono (nè è questo il loro scopo) la
soluzione ultima, il concreto assoluto; ed una zona di astrattezza permane, in
questo senso, anche nella filosofia,
quantunque essa sia lo sforzo massimo
che l’umano pensiero possa fare verso il concreto assoluto, che è l’assoluto Essere e
l’assoluto Vero. Teodicea, n. 9. Ancora:
considerare l’antinomia come principio del reale e criterio logico di speculazione è accettare
il dato, la contraddizione, quell’immediato che pur l’idealismo
trascendentale, dallo Hegel in poi,
combatte e respinge in nome del pensiero che è mediazione. Ciò comprova che esso
è ancora al di qua della filosofia, che
è riflessione sul dato, la contraddizione, non accettazione di esso;
componimento dell’antinomico nell’identico essenziale, cioè conquista della
metafisicità del reale. Con ciò l’idealismo si preclude anche la strada d’indagare se la soluzione ultima che fonda
ed involge le altre e pur le trascende,
che chiude la serie delle antinomie al
di là della stessa conclusione metafisica pur non più bipolarizzata dalla e
nell’antitesi ma aderente alla identità dell’essere a se stesso sia possibile alla filosofia oppure trascenda
la sua capacità. Figlio del Kant, respinge proprio il senso profondo del criticismo; non arriva al limite
massimo della conoscenza filosofica,
dove il pensiero si arresta, e acconsentendo, si dispone a ricevere la verità
suprema; al punto in cui la filosofia
legittimamente e col suo assenso si apre alla religione. Perciò la filosofia,
così come è concepita dall’idealismo, fa sua, oltre che l’empiricità delle
scienze, l’immediatezza della conoscenza comune e l’astrattezza, propria
anch’essa della scienza, di voler ignorare o risolvere nel
logo razionale la religione, come se l’uomo non fosse un animale religioso e la religione suprema
verità non riducibile all’ordine di quella filosofica, senza che le
contraddica. Ma l’idealista (anche se
non hegeliano ortodosso) ribatte che la
nostra critica è ingiusta, in quanto accettare come criterio logico della
speculazione il dialettismo antinomico non
significa affatto fermarsi al dato immediato. L'immediato è l’antinomia, che la logica astratta esclude
in base ai princìpi d’identità e
non-contraddizione, lasciandosi sfuggire la concretezza del reale, che è
sintesi degli opposti; la mediazione,
cioè la riflessione filosofica, è la sintesi concreta degli opposti stessi, che, separati ogni cosa è identica a se stessa e non può
essere diversa da se stessa sono
l’astrattezza imputata alle scienze. Sì, ma la sintesi, rispondiamo, per
l’idealismo è sempre un termine posto e considerato dialetticamente, cioè come elemento dialettico rispetto ad una
nuova antitesi; dunque quel che è reale
non è la sintesi ma l’antinomia che si
sposta all’infinito, per cui l’ultimo termine è sempre una antinomia. Di fronte a ciò che sottostà ad
essa (e che è il vero principio del
reale, non più tesi rispetto a un’antitesi e
perciò non più dialettico) l’idealismo si arresta incerto e scornato: o
conclude che vi è una sintesi assoluta ed allora il principio del reale non è più l’antinomia, ma
questa sintesi suprema dove ogni
antinomia si risolve, e l’idealismo dialettico nega se stesso; o esclude che vi
sia questa sintesi e il principio del
reale ed il criterio logico è la contraddizione, cioè sempre il dato, anche se retrodatato
all’infinito. La mediazione è solo provvisoria ed apparente; la riflessione
sulla contraddizione, che è la
filosofia, resta sempre riflessione
sull’antinomia, che è il dato.
Per un altro verso ancora l’idealismo riduce la filosofia ad astrattezza. Identificato dialetticamente
il reale con il pensiero e questo con il
processo logico ( ciò che è reale è
razionale, ciò che è razionale è reale ), consegue che la filosofia è
panlogismo, cioè riduzione (o dissoluzione?) di ogni forma di attività spirituale e della realtà
tutta al puro conoscere razionale. Per conseguenza, la filosofia è costretta
ad astrarre da quanto nell’uomo non è
ragione o riducibile a questa, cioè a
far propria quell’astrazione che, come abbiamo
detto, va imputata alle scienze.
Da ultimo, l’idealismo trascendentale nei suoi epigoni che, in verità, l’hanno inteso su molti
punti a modo loro ha voluto essere
consequenziario. Spinto dal miraggio dell’assoluta immanenza, risolve l’essere
nel pensiero, il pensiero nel pensare in
atto reale non è l’oggetto del pensiero,
ma il pensiero conoscente l’oggetto l’attualità del pensiero nel mio pensiero, che non è il Pensiero ma,
d’altra parte, non è una realtà trascendente le singole persone pensanti, e
arriva alla conclusione che la filosofia non ha un oggetto e /a conoscenza è la mia conoscenza. In tal modo,
la filosofia, scienza sui generis,
conoscenza per eccellenza e la sola rigorosissima, si fa assoluta soggettività;
priva di un’oggettività propria,
svanisce come scienza, essa che si era posta come la sola. Lo storicismo,
infatti, conclude che la filosofia non
esiste ed è metodologia della storia: Un
forte avanzamento della cultura filosofica dovrebbe tendere a questo effetto:
che tutti gli studiosi delle cose umane [ Aristotele dice che la filosofia è scienza delle cose divine;
ma Aristotele non ha scritto di storia e
dunque ha fatto opera inutile e da nonfilosofo ] giuristi, economisti, moralisti,
letterati, ossia tutti gli studiosi di
cose storiche, diventino consapevoli e disciplinati filosofi; e il filosofo, in
generale, il purus philosophus, non
trovi più luogo tra le specificazioni professionali del sapere ; l’attualismo
afferma che è filosofia ogni forma di
attività spirituale (pedagogia, politica, arte, religione, ecc.), mentre un seguace di esso, almeno in
quell’epoca, sostiene che non c'è la
filosofia come scienza a sè, ma che è la scienza: la filosofia non è una particolare forma di
sapere (filosofia astrologica ), ma
l'universalità di ogni sapere, sicchè non
ha un campo autonomo d’indagine. Così l’idealismo contemporaneo, dalla
filosofia come scienza sui generis, autonoma
dalle altre, unica, conclude, in opposizione con le sue premesse, che
come scienza a sè non esiste, ma è immanente
ad ogni singola scienza. Torniamo all’antica definizione della
filosofia: amore della sapienza; dunque, ricerca ed aspirazione: la filosofia
è Eros; ed Eros è figlio della Povertà e
dell'Abbondanza; divino, perchè è aspirazione al Vero, non è Dio perchè non è
possesso della Verità. Platone va integrato con il Cristianesimo; l’amore è sì
aspirazione, ma è anche sovrabbondanza e perciò non è imperfezione, ma atto di
perfezione: il Dio greco, perfetto, non
ama; se amasse non sarebbe Dio, in
quanto aspirerebbe a qualcosa che non è; il Dio cristiano, perfettissimo, è essenzialmente Amore. La perfezione o l’essenza della filosofia è
la ricerca, lo sforzo di riflessione;
perciò non è la Sapienza divina: Dio è
la Veritas, la filosofia è il quaerere veritatem (?). Come tale ha sempre dei limiti: sottintesi,
concessioni, presupposti, ipotesi, ecc.,
che la riflessione non riesce mai ad esplicare
interamente; perciò non è verità totalmente dispiegata. La filosofia, che è sforzo, resta sempre
aspirazione al di là del limite; perciò
la sua essenza di ricerca ha come oggetto Dio,
l'assoluta Verità. Anche quando riflette su cose o problemi particolari, la filosofia è sforzo di
riflessione su Dio, sua meta agognata ed
irraggiungibile. Ciò non significa che sia solo
aspirazione; è anche produzione di verità; perciò è problema, ma non lo sarebbe se non fosse, come tale,
richiesta di soluzione. Il platonico Eros filosofo, infatti, partorisce nel
Bello, nel Bene, nell’Essere; i suoi
parti sono nella verità che il filosofo,
dubitando e cercando, trova, scopre dentro di sè: verità oggettiva innata. E anche qui Agostino
va oltre Platone: la verità abita în interiore homine, non come dato di cui si risveglia la memoria, ma come
presenza perenne, di cui la coscienza non si accorge quando è distratta, lontana dalla sua voce, che parla dentro ed è
presente anche quando non è ascoltata.
Che cosa stimola e guida la ricerca? La
Verità non conosciuta, ma per la quale l’uomo ha la vocazione; perciò la ricerca è almeno
iniziale possesso del vero, a cui
l’anima aspira. Che cosa sono i veri che la
mente trova? Perchè la voce della verità, pur interiore a noi più di quanto noi non lo siamo a noi stessi,
può non essere ascoltata? E quando lo
è? (7) S. Acostino, De vera religione.
I veri che la mente scopre sono le risposte che il filosofo dà alla verità, testimonianza del suo amore;
il loro insieme è il mondo ideale, il
regno dello spirito, il solo veramente
reale. L’unica infinita verità è conosciuta dall’uomo in alcuni dei suoi infiniti aspetti: l’uomo conosce
delle verità, non la Verità; possiede il
lume dell’intelligenza che, illuminandola,
fa la ragione giudice delle cose di esperienza. Ogni singolo vero è concreto vero, sintesi
dell’universalità dei principii e delle
determinazioni di esperienza. A chi obiettasse che i principii in sè sono astratti, rispondiamo
che è astratto e perciò irreale il puro
particolare (almeno dal punto di vista speculativo), mentre è concreto e perciò
reale il particolare illuminato dai principii, dove trova appunto la sua verità
e con essa la sua realtà: la rinunzia
della filosofia all’universalità è la
rinunzia della filosofia a se stessa, la sua autonegazione. Evidentemente la determinazione è limitazione
e perciò noi conosciamo i veri, ma non
la Verità nella sua pienezza, nè i veri
quali sono nella pienezza della Verità che è. Nè una sola determinazione, nè tutte insieme possono
esaurire l’infinita possibilità di
conoscere che è il pensiero umano; perciò niente può appagare l’uomo, nessuna cosa, nessun
vero, tranne la Verità in sè; dunque, è fatto per Dio, perchè solo Dio,
l’unum necessarium, può appagarlo. La
vocazione dell’uomo è la stessa vocazione della filosofia; non per nulla è uomo
per il pensiero. Il lume d’ intelligenza
e di ragione, universale e infinito, è
la sua possibilità di conoscere la Verità, ma senza che egli disponga della capacità di tradurla
in atto; l’immagine di quel che è l’assoluto Vero nella sua realtà. Per
questo il filosofare è ricerca e sforzo,
non la sapienza a cui aspira. D'altra
parte, partecipando l’uomo della verità, porta connaturata la molla che lo
spinge ad essa, conficcata la spina che
lo fa saltare per elevarsi fino a Dio, ma il salto, per altissimo che sia, è sempre infinitamente corto. È la
sua grandezza e la sua miseria; l’umana tristezza, la magnanima nobile angoscia
del filosofo e della filosofia, mestizia confortata 64 Filosofia e Metafisica dalla speranza che non può non nutrire
chi veramente ama il vero ed insita
nell’eroico sacrificio della ricerca indomabile. Perciò filosofare è moralità:
implica l’impegno iniziale che il filosofo assume di cercare ex veritate;
l’umiltà del soggetto pensante di fronte
alla verità che cerca, già ama e verso
la quale volge tutti i suoi sforzi. Una formula
filosofica, un concetto speculativo è opera della mente, che con esso esprime un valore assoluto; perciò è
risposta a Dio, sorgente di tutte le
verità, Verità creatrice dei veri, Libertà
creatrice di libertà. L’essenza di sforzo che è la filosofia è dunque decisione di diventar buoni, di amare
l’essere dovunque s’incontri secondo il suo grado: la legge della ricerca
filosofica è la stessa legge della morale.
Non ci par degna del titolo di
Sapienza quella cognizione che nulla opera sul cuore umano e che, quasi inutile peso, ingombra la
mente dell’uomo mortale senza accrescergli i beni, senza diminuirgli i mali e senza appagare o consolare almeno di
non menzognera speranza, i perpetui suoi
desideri (°). Se non è così, la filosofia non è più tale:
è la caduta del pensiero, di tutto
l’uomo. Perciò la filosofia è ascesi, iniziazione alla verità, come Platone
dimostra in più parti dei suoi dialoghi
e soprattutto in alcune pagine immortali e bellissime del Fedone. Ogni vero trovato è anche
acquisto di una virtù intellettuale o
pratica, norma regolatrice del nostro pensare e
del nostro agire. Nè alcun vero si può trovare se lo spirito non si è disposto a trovarlo, se non è
passato attraverso il difficile esercizio
della purificazione. Perciò la filosofia è
perfezionamento della natura umana: mortificazione, non compressione, delle sue debolezze. Non è
contro la natura umana secondo un malinteso misticismo ascetico o un arido moralismo di astratta ragione, ma
contro le sue miserie, affinchè sia autenticamente umana natura, e il
filosofo quel libero uomo, che
stupendamente Platone tratteggia nel
Teeteto: libero dalle passioni e dagli inganni sensibili e per (8) Rosmini, Teodicea, n. 4. ciò riscattato
all’autentica sensibilità; libero dalla passione della ragione, che pretende di essere il vero
e si ribella di esserne scolara e perciò
ricco di verace ragione e di profonda
umanità: un0 spirito razionale ragionevole e non un cervello razionale irragionevole. Gli è dunque
essenziale l’umiltà, radice e guida della filosofica ascesi: umiltà di sentirsi
creatura e di amare in sè il Creatore,
testimonianza dell’Essere e del Bene,
che cerca ed ama; di amare la propria esistenza
come dono e dunque come atto amoroso. L’umiltà, che è legge d’amore, rende morali l’intelletto e la
volontà ed efficace l'impegno di vincere le nostre passioni e debolezze; ci dà il senso del sacrificio purificatore a
cui siamo chiamati per ascendere o
filosofare. Pertanto è sacrificio che accresce
l’umanità dell’uomo, come la potatura del secco fa adorna e vigorosa la pianta. La filosofia è volontà di sacrificio: chi
filosofa è consapevole di esser vittima della Verità. Perciò è rinunzia a quanto ostacola l’amore e il possesso
interiore dell’unum necessarium; dolorosa rinunzia, a volte, e dunque ancora
umanissima. Provocatrice di essa, la filosofia è choc, scuotimento di tutto l’essere umano, frattura con quanto
non è essenziale al suo essere o è
d’impedimento al raggiungimento della verità. Il suo oggetto è Dio; Lo cerca,
vuol conoscerLo, possederLo. La filosofia è charitas naturale, che si esercita
col lume della ragione, datoci da Dio
come il solo che ci faccia desiderosi di Lui e sia condizione per conoscerLo.
La Grazia, infatti, è data soltanto alla natura intelligente: il lume
soprannaturale al lume naturale. Ma
l’uomo da solo, per filosofo che sia, sacerdote e supplice della verità, non
riesce ad esserne veramente vittima: le
miserie s’infiltrano sempre. Resta il tipo del saggio, non
dell’antico modello di condotta nella
sua superiore e superba .
imperturbabilità ma del
cristiano, coscienza vivente di dubbi e
fede, di amore e speranza, di sacrificio e carità, perennemente insoddisfatto e
perennemente in attesa di ricevere il dono che cerca. Egli non impersona nè la
sapienza nè una determinata scienza, ma
lo sforzo sublime verso la sapienza, l’appello perenne della creazione. Attesta
la realtà dell'Essere, i limiti del
pensiero, il gran benedetto e il gran
maledetto da Dio, il perduto dal peccato e il riscattato dalla verità, fatto per la verità e che pure è più
spesso sofisma e dubbio, negazione e
distruzione. Si sacrifica in una formula,
il filosofo, che può sembrare morta astrazione a chi ignora quanta vita (tutta la vita) si racchiuda in
essa. Sacrificio senza successo, che non
vanta possessi o dominii; silenzioso, perchè cripta che accoglie e conforta di
pace la nudità dell’anima; perciò autentico, che non rimpiange le caducità
perdute, non attende dagli uomini niente di male o di bene e conosce solo l’ansia per la verità sofferta.
E quando il Bene tanto desiderato
folgora la mente, il filosofo sa che non lo
potrà esprimere; è effabile soltanto lo sforzo di attingerlo, il sacrificio, l’essere sua vittima; la Sapienza
che si dona resta inedita per tutti,
tranne per colui a cui è donata. Vi è
nella filosofia un’interiorità profonda, insondabile, che non si esprime e non s’insegna; perciò non
s'impara come si fa ad essere filosofo
(non è un mestiere): non lo saprà mai chi non
lo esperimenta. 5. La filosofia come sforzo di ascesi
ed itinerario a Dio. Da quanto
abbiamo detto filosofia risulta essere: a) amore per la Verità o per Dio, essenza di sforzo;
possesso di veri parziali; ciascuno dei
quali è acquisto di bene morale; perciò
è purificazione ed ascesi, potenziamento non negazione dell’umanità dell’uomo;
è riconquistata chiarezza dell’autentico valore della creatura e della
creazione. La sua essenza è dunque
morale ed il suo fine è Dio. La filosofia ha
la stessa finalità della religione.
Non s’identifica con essa, ma ne ha bisogno: si ferma alla porta, bussa e chiede. Platone, forse
per primo, nel Fedone, vide esattamente il problema e ne fissò i termini.
Filosofia e religione, egli dice, hanno in comune il fine di liberare l’anima
dal sensibile e dalla schiavitù delle passioni,
ma mentre la religione si affida
ad una divina rivelazione , la filosofia
invece segue il raziocinio ed in esso persiste
ininterrottamente, attendendo alla contemplazione del vero, del divino, di ciò che non è soggetto alle
illusioni dei sensi, e da ciò trae il
suo vital nutrimento . Ebbe torto Epicuro di
eliminare dall’ideale della perfezione morale la via religiosa e di ridurre tutto a filosofia. Certo la via
della ricerca è la ragione, meglio il
pensiero che è l’uomo nella sua interezza, ma l’oggetto ultimo della ricerca
speculativa è la verità assoluta o Dio; dunque, l’umano pensiero non può mai perfettamente conoscere, da solo, l'oggetto
della sua aspirazione. La filosofia lo
guida fino alle porte di Dio; è sforzo di ascesi non assunzione alla verità. L'essere assunti
è un dono gratuito, che la verità fa di se stessa a chi l’ha interamente
amata; è la charitas soprannaturale che si
dona alla charitas naturale, al
filosofare. L’ultimo suo grado non è il possesso di Dio, ma l'apertura a Lui, come dice il Blondel.
Ascendere fino ad un certo grado è in
nostro potere; l'assunzione no; dunque la
ragione è il dono naturale necessario, ma non sufficiente avente lo scopo preciso (ma quanto
defettibile!) di spingerci alla
conoscenza ed al possesso della Verità.
La filosofia, liberatrice
dell’anima (secondo un’espressione
agostiniana) o ascesi, ha come suo fine supremo Dio, cioè la nostra salvezza; il realizzarlo non
dipende da essa: è Dio che salva; a lei
compete soffrire, combattere ed amare,
nutrire speranza, nutrirsi di fede. La soluzione assoluta del suo problema assoluto è nella religione
rivelata, nel gratuito folgorar della
grazia. È la grande verità di Agostino: la filosofia prepara alla salvezza
(moralità), non dà la salvezza
(religione). Il problema della morale è filosofico, la sua soluzione è
teologica: i due ordini sono immensurabili. La filosofia, autonoma come ricerca ritrovamento dei veri e conquista di virtù non lo è come soluzione finale, come salvezza, acquisto dell’unum
mecessarium, che costituisce la sua essenza di sforzo. Una filosofia
assolutamente autonoma è senza salvezza: amore senza speranza e senza fede; i saggi greci erano senza speranza , come dice San Paolo. E questo perchè, scrive
Pascal, la vraie nature de l’homme, son vrai bien, et la vraie vertu,
et la vraie religion, sont choses dont
la connaissance est inséparable . Significa che la religione neghi la ragione e
con essa annulli e snaturi la natura umana? Niente affatto. La fede eleva, non uccide; Grazia non destruit naturam sed
perficit et elevat cam, scrive San Tommaso. E nel Rosmini si legge: Che se
la ragione scorge l’uomo al limite della fede, essa a questa ancora il consegna, come a più certa guida e
a più sublime maestra. Macchè! La fede stessa lo riconduce poscia
alla ragione, che diviene maestra sicura
e guida infallibile quando dalla fede è
confortata e sorretta . Evitare i due eccessi : esclure la raison, n’admettre que la raison ,
in quanto si on soumet tout à la raison, notre religion
n’aura rien de mysterieux et de surnaturel; si on choque les principes de
la raison, notre religion sera absurde
et ridicule (Pascal). La
ragione si dona alla fede, perchè riabbia da essa quel che ha perduto e non ha più; e la fede è sempre
generosa genitrice d’intelligenza, via
di spirituale salute e di eterna beatitudine. Domanda quanto mai imbarazzante,
questa. Sì, concepire non è propriamente definire , ma ogni concezione
porta implicita una definizione .
Ora, è tutt'altro che facile, ancora
oggi, dire che è filosofia . Il
matematico sa da tempo che è matematica,
il biologo che è biologia; noi filosofi non siam così fortunati, se pure quella
è una fortuna: non sappiamo ancora che è
filosofia dico, non lo sappiamo in due
parole, alla spiccia, come due più due fan
quattro . Gli scienziati ridono dell’imbarazzo del filosofo, ma hanno
torto: la filosofia non può chiudersi in
una formula, in quanto il suo oggetto di ricerca e riflessione è
infinito, perchè nessuna formula può esaurirne,
comprenderne , la totalità. Perciò nessuna umana ricerca è tanto
perennis ed universale quanto quella filosofica. La filosofia come scienza del reale nella
sua totalità, evidentemente, è scienza sui generis; nell’ordine delle
scienze umane è la sola autonoma: il suo
rimando fondamentale e non accessorio, intrinseco e non
estrinseco è solo ad un sapere di ordine non più razionale e
naturale, ma super-ra Il Centre International de Synthèse di Parigi ha pubblicato nel fasc. di luglio-settembre 1947 (Tom. XXI, Nouvelle
Série) della Revue de Synthèse le risposte a questo tema generale proposto
alla discussione, alla quale fummo
gentilmente invitati a partecipare. Il testo italiano che qui si
ristampa contiene qualche pagina in più
di quello francese. zionale e soprannaturale. Nessun'altra scienza è
autonoma: la storia, per esempio, ad un
certo punto rimanda al problema del suo
significato, dello scopo ultimo delle vicende dei secoli, ecc.; le scienze naturali pongono
invincibilmente numerosi problemi (che è
il mondo? quale la sua origine? ha una finalità ? che sono tempo e spazio?) che
non compete ad esse risolvere. A questi
e ad altri interrogativi è chiamato a rispondere il filosofo e, se anche lo
storico o lo scienziato, non in quanto
tali, ma in quanto filosofi. In questo senso, si può dire che la filosofia è l’unità delle
singole scienze, scienza prima e ultima,
in confronto alle altre che sono seconde
o penultime. Per la sua stessa natura, la filosofia è ricerca della verità; se ricerca, non è la
verità, l’oggetto che la trascende e guida. D'altra parte, abbiamo detto che è scienza del reale nella sua totalità;
perciò dobbiamo dire del reale in quanto
verità. Ancora: la verità è di ordine
spirituale; dunque la filosofia è scienza dello spirito che cerca e nella ricerca è impegnato tutto
l’uomo la Verità totale o il Reale in
sè, che fonda e fa essere ogni altra verità o
reale finito; è il cammino dell’uomo, che dotato del lume d’intelligenza e ragione, cerca l’oggetto ad
esso adeguato, a cui perennemente tende,
senza che abbia ad osare di pretendervi. Ma è tempo che rispondiamo
direttamente a quel che il Centre ci ha
gentilmente domandato: fornire argomenti pro
o contro l'orientamento del pensiero del Cenzre stesso, il quale sostiene une certaine conception de la
philosophie dan ses rapports avec son
histoire et avec la science . Nessuno certo
vorrà negare questi rapporti, ma tutti credo sentiranno il bisogno di
precisarne i termini; infatti, è necessario sapere cosa s'intenda per storia della filosofia per
poter poi stabilire i rapporti tra essa
e la filosofia. Precisazione anche opportuna, se si pensa che, in Italia, per
esempio, l’idealismo neohegeliano ha identificato filosofia e storia della
filosofia al punto di risolvere l’una
nell’altra e tutte e due nella storia della
cultura, onde la filosofia ha finito per essere tutto 0, quel che è lo stesso, per non esser nulla, per non
avere più un oggetto proprio; se si
pensa che, il positivismo, di cui nel mio Paese
ormai non è facile trovar tracce a prima vista riconoscibili (tanto che qualche volta verrebbe voglia
d’inventarsi un positivista per averlo aperto e sincero avversario al posto di
altri che si chiamano impropriamente
idealisti e spiritualisti), ha concepito
la storia della filosofia come pura esposizione
oggettiva di sistemi e di fatti riguardanti la vita dei filosofi: ci ha dato compilazioni spesso
filologicamente pregevoli, ma aventi il torto di mettere da parte la
filosofia. Similmente, per stabilire i
rapporti tra filosofia e scienza è
altrettanto necessario sapere che cosa sono l’una e l’altra e quali i rispettivi campi di competenza, per
evitare che la filosofia non spinga il suo distacco dalla scienza fino al
punto da negare a quest’ultima la
qualifica di scienza ; 0, al contrario,
che la scienza non pretenda ridurre la filosofia a semplice registratrice dei
risultati scientifici; ad una particolare
scienza, come se la filosofia fosse una qualsiasi specialità;
all’insieme delle scienze, come se fosse l’insieme delle specialità; alla conoscenza della natura fisica, sulla
base dei contributi delle scienze
particolari, come se essa dovesse restringere la sua indagine alle percezioni e alle leggi
naturali, dimentica dello spirito e dei
suoi problemi, cioè di se stessa, che, come ricerca filosofica, è già scoperta della realtà
spirituale e, per sua intrinseca necessità, conseguente approfondimento
metafisico del suo destino. Detto ciò, credo che il nostro punto di
vista appaia già chiaramente molto
diverso da quello proposto dal Cenzre, il
quale, a quanto sembra, è per una concezione della filosofia come
synthèse des connaissances science plénière . Se sintesi e scienza plenaria qui significano
composizione o unione delle conoscenze in un tutto, non possiamo accettare questa concezione della filosofia,
la quale ha problemi propri, estranei alle altre scienze, ad ogni singola
come al loro insieme, anche se per i
suoi problemi possa ricevere lumi ma non
soluzioni dai ritrovati scientifici, che, nel loro complesso
il più completo e sviluppato non
esauriscono ‘e non esauriranno mai il
contenuto della ricerca filosofica, la
plénitude a cui essa aspira e per la realizzazione della quale tutto l’universo è insufficiente. A noi
italiani, il termine Science con la
maiuscola richiama il non lieto ricordo dei
tempi del positivismo, quando si divinizzava la scienza, la si profetizzava risolutrice di tutti i problemi,
anche morali e religiosi, con grave
danno per la serietà della scienza stessa,
fatta idolo da adorare, tanto che le cosidette réveries della metafisica
facevano bella figura al confronto con le nuove réveries.... scientifiche. La
Science, intesa come sapere assoluto e
totale, non è più tale, ma idolatria e superstizione, fanatismo della scienza. Il controllo della filosofia
fa sì ed essa è chiamata ad esercitarlo
anche sopra ogni vero filosofico pretendente a porsi come verità totale che ogni verità scientifica e la scienza in generale acquistino consapevolezza
dei loro limiti e rinunzino ad una
pretesa totalitarietà di sapere, che è solo arbitraria extrapolazione e
maggiorazione a volte aberrante di una
verità parziale assunta a spiegazione di tutto il reale. Duplice dommatismo: di estensione il sapere scientifico è esplicativo di ogni aspetto della realtà ; e di validità esso è assoluto. Il controllo critico della filosofia rileva
l’inconsistenza di tale dogmatismo e
svuota il funesto mito illuministico dell’infallibile scienza onnicomprensiva e
della coincidenza tra progresso scientifico, progresso culturale e
miglioramento spirituale dell'umanità. È ormai un fatto di esperienza che il
più basso livello di cultura e una
rudimentale coscienza morale e religiosa
possono coesistere con la tecnica più progredita: nessuna scoperta o invenzione scientifica ha
mai fatto progredire nello spirito un solo uomo e mai ne ha elevato di un solo
millimetro la statura morale; anzi la decadenza della cultura occidentale coincide con lo sviluppo
della scienza e della tecnica moderna e
il suo precipitare nel fondo dell’incultura con il loro vertiginoso
progredire. Conveniamo con il Centre
che, nella successione delle filosofie,
vi è une logique interne e che
dans le retour méme des
doctrines, un progrès s'est accompli . Ma, dire
che il ritorno di dottrine filosofiche segna un progresso oggi
come domani, si può essere, senza scandalo, platonici o aristotelici,
agostiniani o spinoziani, tomisti o hegeliani, mentre non si può essere più, per esempio, tolemaici
dopo Copernico, Galilei e Keplero significa affermare inconfutabilmente
che la filosofia è una scienza diversa
dalle altre, non riducibile ad alcuna di
esse o al loro insieme, con problemi, soluzioni e verità proprie, per cui non
può essere la science plénière nel senso di
somma (quanta meccanicità in
questa parola!) dello scibile. Si è che,
tra filosofia e scienza, prima di stabilire un rapporto quale che sia anzi affinchè esso possa essere fondatamente stabilito riteniamo sia necessario fissare una differenza non di quantità, ma di
qualità. La filosofia, infatti, è conversione qualitativa di esperienze e di
fatti quali che siano, trasposizione di
essi in un piano diverso, in un ordine
superiore. La filosofia come metafisica. Essenzialità della filosofia e inessenzialità delle scienze. Perciò noi non possiamo accettare, anzi siamo costretti
a rovesciarne i termini, la concezione
della filosofia proposta dal Centre e
cioè: que la synthèse des connaissances s’est
constituée, et se poursuivra, pour répondre aux questions que posaient les philosophies, depuis les
origines, pour substituer peu à peu le
positif à l'a priori, les vérités de la science aux imaginations ou aux réveries de la
métaphysique . Che è questa
sintesi delle conoscenze che si
propone rispondere alle questioni che pongono i filosofi depuis les origines ? Per
noi è proprio il contrario: sono le conoscenze particolari delle singole scienze che pongono domande ai
filosofi, affinché costoro da filosofi,
con metodo filosofico e con spirito speculativo
rispondano. Non è la scienza chiamata ad esercitare un controllo sulla
filosofia (e quando lo esercita, esso si
rivolge alle stravaganze pseudofilosofiche o
ai sofismi che non sono filosofia), ma la filosofia sulla scienza, i cui principii sottopone a critica. Secondo
le parole sopra riferite, sembrerebbe che il compito della scienza, nei
confronti della filosofia, sia quello di dimostrare quanto siano immaginari i filosofemi escogitati dai
filosofi e fantastiche le loro costruzioni metafisiche, gli uni e le altre
da sostituire con verità scientifiche . A parte tutto, è
facile ribattere che le imaginations
e le réveries della scienza, come comprova la sua storia, non hanno niente
da invidiare a quelle di alcuni filosofi: vi sono le rèveries de la métaphysique
e le réveries de la science ; ma come si
avrebbe torto a dire che tutta la scienza sia fantasticheria, così si ha torto ad identificare la
metafisica con la stravaganza, quasi si trattasse di una manifestazione
patologica della mente umana. Difendere
la metafisica, per noi, è difendere l’essenza stessa della filosofia: se la
metafisica fosse fantasticheria,
fantasticheria sarebbe anche la filosofia; ma
si può affermare dogmaticamente che le metafisiche e la ‘metafisica siano senz'altro fantasticherie?
Se così, è fantasticheria la filosofia che, dalle origini ad oggi, è stata
sempre metafisica; fantasiosa la ragione umana che pone, come suo bisogno fondamentale essenziale e
naturale, l’esigenza insopprimibile di
un sapere metafisico. Mi faccio forte dell’autorità dello stesso Kant che,
nella Prefazione alla prima edizione della Critica della Ragion
pura rileva come i sedicenti indifferenti per la metafisica finiscono per
cadere sempre in affermazioni metafisiche ; e ne traggo la conseguenza legittima ed evidente:
essenzialità della filosofia e inessenzialità delle scienze. Il sapere scientifico
è informativo; la scienza soddisfa una curiosità intellettuale; il sapere filosofico è formativo e terribilmente
impegnativo: risponde ad un bisogno
totale dell’uomo totale. Si può non
essere scienziati, non si può non esser filosofi: alla filo sofia non ci si può sottrarre. L'avventura
della scienza si può correre e non
correre; l’avventura della filosofia è
obbligatoria per ogni uomo che non voglia sopprimere la richiesta essenziale della sua umanità
profonda. L’uomo è naturalmente compromesso
a percorrere l’itinerario della
filosofia, cioè, a dialogare con la verità, a collocarsi nel momento
essenziale della ricerca essenziale. Di qui la serietà dell’indagine speculativa, l’intransigenza
del filosofo. La filosofia è molesta
a chi filosofa e soprattutto a quanti
si adagiano nelle consuetudini e negli ordini costituiti; perciò rischia
sempre la cicuta, mentre la scienza in ogni epoca è circondata di rispetto e protezione. Ancora: che significa
substituer peu à peu le positif à
1° priori ? Che s'intende per positivo
e per a priori? Positivi sono i
fatti, dicevano i positivisti; noi, meglio, che reali sono quae facta
sunt, ma tra le cose quae facta sunt vi
è anche l’uomo, il pensiero, lo spirito, il quale è positivo , ma è l’a priori di ogni fatto; infatti, non vi è
fatto , almeno nel senso filosofico, che non sia anche coscienza del fatto. Un fatto positivo,
diceva Pascal, sono anche Dio, la
Rivelazione e la Chiesa. Riconoscerebbe il positivismo questi fatti? A forza di sostituire il positivo a l’a priori, nel senso in cui i termini sono
usati dai positivisti, si finisce nel più piatto e scoraggiante empirismo, pericoloso all’esistenza stessa della scienza
e misconoscitore dei diritti dello
spirito. Non vi è fatto positivo senza esperienza nel senso più esteso della
parola, ma non vi è conoscenza intellettiva del positivo degli enti finiti che costituiscono il reale
cosmico senza un 4 priori; e il
reale finito, per ciò stesso, rimanda al
problema dei suoi principii costitutivi, cioè alla metafisica, che nessuna
verità scientifica potrà mai sostituire. Dunque, di positivo c’è solo la
metafisica, anche se, per sua buona sorte, non è positivistica. 4.
Ancora sulla distinzione fra filosofia e scienza. Per il Centre, il filosofo è un gran
peccatore contro la filosofia senza
essere un penitente. Infatti: Il explique le réel par l’imaginaire. Il explique le tout
par une partie du réel. Il fait
prédominer la tradition ou le sentiment sur la
raison. Il cerche l’originalité è tout prix. Par une forme personnelle, il rend la pensée floue ou
obscure. Il est poète, artiste,
métaphysicien, ou mage, au lieu d’étre le pur interprète des résultats acquis
par l’effort collectif des générations pensantes . Dato il modo come il Centre intende la filosofia, si può spiegare questa severa
requisitoria contro il povero filosofo;
dato il modo come la intendiamo noi sono
necessari chiarimenti e precisazioni.
Innanzi tutto, se è vero che ciascun filosofo o tutti insieme non sono
la filosofia (perisca il filosofo, ma viva la
filosofia), è anche vero che, storicamente, i filosofi e i loro sistemi lo sono; pertanto, i terribili
peccati dei filosofi sopra elencati,
sarebbero anche della filosofia. E allora, perchè ce ne occupiamo, se essa spiega il reale con
umagiazio, sacrifica la verità all’originalità ad ogni costo ecc.? Chi potrebbe
assolvere il filosofo e la filosofia? Forse la scienza, che non sarebbe soggetta a questi
traviamenti? E perchè, nonostante tutti
i trascorsi della filosofia, gli uomini non ne
hanno mai potuto fare a meno, mentre, come dice ancora Pascal, possono fare a meno di tutte le
scienze? Perchè quando l’uomo si trova
di fronte a se stesso e al problema
della sua consistenza, cioè quando veramente pensa in altezza e
profondità (metafisicamente, appunto) non chiede risposta alla matematica, all’astronomia o ad
altra scienza, ma alla filosofia? La
requisitoria di sopra è dunque da rivedere. Se il filosofo spiega il reale con l’immaginario è da riprendere subito; ma se s'intende per immaginario ogni principio a priori o metafisico, è da consigliare di
spiegare il reale contingente e particolare proprio con i principii necessari
ed universali. Se sottomette la ragione alla tradizione e al sentimento è da
ammonire che la filosofia è ricerca razionale;
ma anche quelli sono patrimonio spirituale dell’uomo al pari della ragione. Se è poeta ed artista non
è certo filosofo, ma non è poi sì gran
danno poichè anche arte e poesia, come
tali, son verità. Se metafisico, diciamo che è davvero filosofo; e quanto ad essere mago , credo che questa parola siastata messa
accanto all’altra di metafisico solo
per spirito polemico, senza che risponda ad una affermazione positiva
che si presti ad essere discussa. Se poi cerca
l'originalità ad ogni costo, invece che la verità, è da condannare
senz'altro, ma come un originale non come
un filosofo ; così pure se spiega
il tutto con una sola parte del reale,
facendo un'’illegittima maggiorazione d i un principio arziale; ma anche di ciò, come abbiamo detto,
è responsabile la scienza, per esempio, quando presume sostituirsi alla filosofia e risolvere problemi che non
le competono. Secondo il punto di vista
del Centre, affinchè il filosofo non
pecchi, bisogna che sia il puro interprete dei risultati acquisiti dallo sforzo collettivo delle
generazioni pensanti . In parole mie,
questa affermazione significa: perchè
il filosofo sia filosofo e non erri bisogna
che smetta di fare il filosofo . Una
delle due: o egli si limita a registrare i
risultati acquisiti (da chi? dalle scienze?) e non fa filosofia e
nemmeno storia della filosofia; o
interpreta i risultati acquisiti
nel senso che li ripensa, li fa propri per acquisire nuovi risultati, che
segnano un avanzamento della verità rispetto ai primi, e in tal caso è
filosofo, se i suoi risultati sono filosofici
e non puramente scientifici. Peccherei di indelicatezza dicendo che da un pezzo
in Italia una tale concezione della filosofia si considera pacificamente sorpassata,
se la mia conoscenza, credo sufficiente, della filosofia francese contemporanea
non mi autorizzasse a dire che anche in
Francia non pochi e non certo trascurabili pensatori sono del mio stesso
parere. Del resto, anche gli stessi
teorici della scienza, universalmente, fondano ormai i rapporti tra
scienza e filosofia sulla base di una diversa concezione di quest’ultima. In due punti il Cenzre insiste sulla
concezione della filosofia come sforzo
collettivo , come coopération à un grand
oeuvre collectif ; purtroppo, nemmeno questa volta posso trovarmi d’accordo. Se scienza e
filosofia s’identificassero, niente da dire; ma siccome sono due forme di
attività da tenere ben distinte (anche se non separate), ProprlO questo è uno dei punti di distinzione: la
scienza è opera sforzo collettivo, la
filosofia opera di sforzo personale. Mi
spiego: uno o più scienziati iniziano la loro ricerca dal punto in cui l’hanno lasciata i loro predecessori e
la spingono fino ad un certo grado per
lasciarla nelle mani di altri e così
via; nè i successori rimettono tutto in questione, ma accettano, come
acquisito, il risultato raggiunto dagli altri. L’ oggettività della verità
scientifica è impersonale e perciò la scienza
è sforzo collettivo, opera di collaborazione ed è bene che lo sia. Non così la verità filosofica: è
oggettiva, ma non impersonale; è impegno totale del filosofo, è la sua (personale)
verità oggettiva. Essa non può essere
accettata z0ut court da un altro
filosofo, ma ripresa e ripensata, fatta sua; e la decisione è opera del singolo, non di più uomini. Ciò
dimostra non il soggettivismo o il
relativismo della verità filosofica, ma
il maggiore interesse che essa ha per l’uomo rispetto a qualsiasi verità
scientifica; prova l’assoluta spiritualità della filosofia, il suo carattere
d’interiorità e, diciamolo pure, la sua
capacità creativa: se il poeta, il filosofo, lo scrittore non cominciano da capo, non usano le parole più
comuni come nuove di zecca, come se mai
nessuno prima le avesse usate, non c’è poesia, non arte, non filosofia: non c’è
opera di creazione. Ogni uomo non è la
sua scienza, ogni filosofo è la sua
filosofia, in quanto ogni scienza o tutte le scienze insieme non sono l’umanità o spiritualità
dell’uomo; la filosofia lo è, anche se
non può dare la soluzione totale: al
limite massimo si apre ad una verità che non è razionale ma superrazionale, non
di ordine umano, ma divino o
soprannaturale. Ciò chiarito,
consentiamo col Centre nel deplorare il soggettivismo radicale di certa
filosofia contemporanea che si perde in
puri stati d’animo, in forme morbose e decadenti di tormento e angoscia, specie di barocco
filosofico. Ma non tutto
l’esistenzialismo va condannato (per esempio, alcune forme di quello francese meritano la più
attenta considerazione) e, in qualunque caso, di esso va conservato il senso della persona umana, il richiamo
all'importanza della metafisica che sia tale e non pura descrizione
fenomenologica e, quando ce l’ha,
quell’anima religiosa che ha il merito di aver contribuito a recuperare alla ricerca
filosofica. Ma è tempo che concludiamo
senza più oltre abusare della ospitalità
che ci viene concessa. Lo facciamo come noi
possiamo farlo: 4) vi è stata una rivoluzione perenne nella filosofia dovuta a Platone: non le cose sono
reali, ma le Idee, e non le Idee
aspirano al grado di realtà delle cose,
ma queste al grado più alto di realtà delle Idee. Reale e positivo è lo spirito e la filosofia è
scienza dello spirito e lo spirito è
verità. 5) La scoperta platonica è stata inverata dal Cristianesimo che ai concetti di reale,
verità, persona, Dio ecc. ha dato ben
altro significato. c) La filosofia è solo
scienza che è sapere e saggezza; pertanto i réveils religieux e le
réveries mystiques , verso cui il Centre sembra tutt'altro che tenero, sono, i primi quanto
mai benefici anche per una maggiore consapevolezza e coscienza critica della filosofia e le seconde tutt'altro che
réveries. Da ultimo, diciamo che di
Scienza con la maiuscola non ne conosciamo nell’ordine umano: vi è solo quella
di Dio. L’uomo, dice Pascal, non è
capace di una scienza di ordine
assolutamente perfetto, anche se, direbbe il Blondel, vi aspira necessariamente
ed incoercibilmente, ma sempre inefficacemente. Certo, la scienza deve
affermare la sua verità, ma non sa vérité souveraine , perchè qualcosa la
sorpassa infinitamente: se è scienza naturale, la sorpassa quella
filosofica; se filosofia, la Scienza di
ordine extra e superfilosofico. Il filosofare implica due termini: la ricerca e
la verità, il soggetto cercante e
l'oggetto cercato. Un’analisi del concetto di filosofia s’identifica con quella
di questi due termini. Che è ricerca? Per definire questo termine è necessario
tener presente anche l’altro con cui è
in rapporto intrinseco e necessario; e
la verità, oggetto della ricerca, è assoluta. Chi la cerca non cerca una cosa qualsiasi, ma ciò che è
essenzialmente, assolutamente,
universalmente, necessariamente: chi cerca la
verità cerca l’essere o in una delle sue categorie, assoluta dentro i suoi limiti, o nella sua pienezza;
dunque cerca il tutto dell’oggetto; non
può non cercarlo che con il tutto del
soggetto, il tutto di sè. Ricerca nel senso più pieno, impegno di tutta la vita spirituale del cercante, che
è esso stesso impegnato nel cercato: come realtà spirituale, e per il grado di verità o di essere che è, egli non è fuori
ma dentro l'oggetto cercato, la verità.
Chi cerca, dunque, cerca con’ tutto se
stesso: con il corpo e con lo spirito, con i sensi e con la ragione, con l'intelligenza e con la
volontà. Io cerco il positivo assoluto
(l’essere-verità) con tutta la positività di
cui la mia natura umana è capace. Cercare la verità o filosofare è
perfecte quaerere: non una astrazione che opero
su di me, ma una concentrazione di tutto il mio essere nell’atto del
cercare. Verità è unità; cercarla è orientare verso lo stesso punto tutte le
capacità e le risorse del cercante, è
come raccogliere ed unificare tutti i suoi atti; dunque la filosofia come ricerca della verità è
movimento di convergenza integrale dell’uomo totale verso la verità
integrale. Movimento di coesione e
compattezza, genera la solidarietà di
tutte le forme della vita spirituale: quale che sia la verità che cerco (il
bello, il bene, il vero ecc.), come verità
presenta sempre gli stessi caratteri dell’immutabilità, universalità e
necessità; richiede pertanto lo stesso atteggiamento spirituale; e quantunque a
ciascuno di questi veri s'indirizzi una
forma particolare di attività la
sensibilità al bello, la volontà al
bene, l’intelligenza al vero ecc.
tutto lo spirito collabora alla
sua conquista e scoperta. La filosofia
come ricerca della verità è dunque la stessa vita spirituale, impegnata nella ricerca totale della verità
totale. Questa la filosofia 4 parte
subiecti; e a parte obsecti? Lo spirito
che cerca la verità, per ciò stesso: 4) è fatto
per la verità; 5) ma non è la verità, che è l’oggezto a cui è naturalmente indirizzato. Pertanto
l’espressione: lo spirito che cerca la
verità cerca se stesso non è affatto vera se
significa identità del soggetto e dell’oggetto; è vera nel senso che lo spirito trova ed attua tutto se stesso
nella verità: non è vera nel senso dell’
immanenza , bensì in quello dell’ interiorità . Ma ciò conferma l’oggettività,
la necessità e l’universalità del vero e
cioè sempre che esso non è lo spirito cercante, ma il suo oggetto, dallo
spirito distinto e indipendente. La verità è: l'essere è verità: realtà=verità.
Il reale in quanto reale è verità. Dunque
l’oggetto del pensiero è reale, ma non l’ente in senso generico, bensì
l’ente in quanto è suo oggetto e dunque
verità. Ma il reale come verità è il
reale come intelligibile, come ciò che è vero; dunque: realtà è verità; verità
è ciò che è intelligibile; l’intelligibile è l’oggetto del pensiero. È la
verità perenne dell’idealismo oggettivo: l’oggetto concepito in termini di
verità 0 realtà intelligibile. Il
soggetto non può essere concepito se non in termini di pensiero; il suo oggetto
non può essere pensato e conosciuto se
non in termini di verità; dunque, la
filosofia, a parte subiecti e a parte obiecti, si definisce come la scienza della vita spirituale. Ma a questo punto è necessario approfondire
ancora il rapporto pensiero-pensante
verità-pensata, gerarchico, di di ndenza. Se lo spirito tende ,
aspira alla verità, ne è attratto e dall’interno stimolato ad essa,
significa che il suo oggetto gli è
superiore; se è desiderio di verità non è essa,
che è eterna ed immutabile; dunque, lo spirito non eterno nè immutabile è l’aspirante al possesso del
divino, che gli è interiore come
riflesso della Verità in sè che lo trascende.
D'altra parte, se lo spirito la cerca vuol dire che è fatto per la verità; in questo senso e per questa sua
aspirazione è anch'esso qualcosa di
divino: divino eros della divina verità.
Da ciò consegue che non è il pensiero che pensandola la pone, ma è la verità che pone il pensiero;
dunque è prima ed indipendente da esso,
è anche quando non è pensata, anche se
nessun pensiero la pensasse. Infatti, era prima che le menti umane fossero; e le menti umane non
ci sarebbero state se la verità non le avesse create. Ma com'è possibile una verità non pensata,
se non c’è verità se non per un pensiero
che la pensa? Esatto, e da ciò consegue
che se la verità è eterna madre e non figlia
dei singoli veri che pensano le menti
umane essa è sempre stata, è
stata sempre pensata, ma solo il
Pensiero eterno ed immutabile può eternamente pensare l'eterna ed immutabile
verità; dunque vi è il Pensiero eterno
ed assoluto con cui s’identifica la Verità eterna ed assoluta; esiste la Mente
divina, il cui oggetto eterno ed immutabile è la verità, anzi è essa stessa la
Verità eterna ed immutabile, in quanto
in essa il pensiero e il suo oggetto
s’identificano; esiste Dio come verità eterna ed assoluta; Dio che è la Verità in sè, per essenza: l’Essere
è verità, Pensiero, Mente. La
Mente-Verità assoluta crea la verità è
feconda per se stessa menti o spiriti fatti per la verità, ma proprio
per questo le menti create non sono la
verità: Dio la Mente pensante, gli
spiriti le menti pensate alle quali per natura
è essenziale pensare la verità loro oggetto, cercarla e scoprirla. Nella
mente creata la verità non s’identifica con essa; dunque la verità come è data alla mente
creata non è la Verità come è in sè; è
come verità astratta della Verità, immagine reale di essa. Nel mio pensiero
leggo la verità, come nello specchio
vedo l’immagine che vi si riflette; immagine
non ombra, verità partecipata e perciò conosciuta da me in maniera diversa da come è conosciuta dalla
Mente divina; ma come verità è anch’essa assoluta. L'immagine è nello specchio; dunque la
verità data alla mente finita è in essa,
ma, a differenza dello specchio, la
mente ha coscienza del vero che intuisce come suo oggetto; perciò è nella verità che le è interiore e la
trascende. Non è la mente che giudica la
verità, ma è la verità che la fa capace
di giudizi veri, cioè necessari ed universali. La verità è sempre divina; umana
è la sua scoperta attraverso la ricerca;
umano è il leggere in essa. Ecco:
leggere nella verità, raccoglierla nella mente, fare che l’una sia presente all’altra; è anche un
raccogliersi di tutto l’uomo,
concentrarvisi, convergervi, unificarvisi. Ma raccogliere la verità e
raccogliersi in essa è acquistare coscienza di
noi in un duplice senso: 4) che siamo fatti per la verità; 5) che essa è in noi senza essere noi, pur essendo
la profondità di noi. Dunque leggere che
è filosofare: l’umano cercare e scoprire
è leggere dentro, inzus legere o intelligere. La filo sofia è l'intelligenza della verità, la mente
pensante vivente nella sua luce. La
mente non può pensare alcun oggetto se non in termini di verità, di ciò che è
intelligibile; dunque, quando penso
secondo intelligenza, penso sempre secondo la ve-. rità che è in me, e non è la Verità in sè:
non posso pensare me stesso nè pensare (conoscere) il mondo se non in
termini di verità. Il pensiero passa
sempre per la verità quale che sia
l'oggetto che vuol conoscere: lo coglie nella sua verità, che è la sua realtà. Ma allora pensando io penso Dio, sempre,
anche quando non Lo penso, anche quando
penso che non esiste; infatti, quando
penso e conosco un vero, penso e conosco quel che Dio mi ha dato, messo dentro, affinchè la mia
mente fosse mente, cioè capace di
pensare e conoscere. Dunque, io penso
perchè Dio esiste e non Dio esiste perchè Lo penso: non faccio essere la verità, ma essa fa che io
sia un essere pensante la verità, quella che a me è consentito pensare e conoscere, ma sempre tale che la sua presenza
mi obbliga 2 trascendermi, a riconoscere
che è più di me, non è da me; è dalla
Verità in sè o da Dio, da cui è stata estratta per essere donata alla mente creata,
intermediaria tra la creatura e il Creatore. La verità che è in me è la molla
che mi spinge a trascendermi e a
trascendere essa che pur mi trascende,
mi slancia verso il Padre di ogni verità e di ogni mente, rende insonne la mia ricerca. Se è così, la filosofia come ricerca della
verità è scienza di me che cerco la
Verità o l’Essere assoluto; scienza dell’io
e di Dio, degli spiriti e dello Spirito. Pertanto essa s’identifica con
la ricerca sulla vita spirituale finita e creata che, scoprendo in sè la presenza mediata della
Verità assoluta creante, si volge alla
ricerca essenziale e totale dell’Essere
infinito. Una banalità dire che il concetto di metafisica è il più complesso dei concetti speculativi, se il
semplicismo di alcuni pensatori moderni
e contemporanei non avesse disinvoltamente concluso che la metafisica è una
pseudoscienza filosofica, ormai invincibilmente demolita dall’imponente
escavazione critica che il pensiero, implacabile, ha perseguito da Cartesio ai nostri giorni. Chi fa questo
discorso, definitivo nelle sue conclusioni negative, oltre alla pretesa di
aver concluso un discorso infinito si
crede in possesso di una semplificazione estrema del concetto di metafisica e
di un approfondimento così totale di esso da poter affermare che metafisica non è, che è sogno opprimente o generoso di un particolare filosofare ormai
irreparabilmente tramontato. Se davvero i negatori della metafisica fossero
riesciti a concludere definitivamente il
loro discorso, bisognerebbe considerarli
metafisici così consumati da consumare senza
residui la metafisica stessa, da ridurla ad un concetto (o pseudoconcetto) di sì diafana semplicità da
far trasparire il suo vuoto e il suo
nulla: conosciuta e sondata profondamente è risultata nient’altro che una
tenace illusione prodotta dal dommatismo razionale. Altri pensatori, meno
imprudenti, si sono astenuti o hanno creduto di astenersi dalla metafisica: non posizione
antimetafisica, ma ametafisica, d’indifferenza o di agnosticismo. Ma gli uni e
gli altri si sono addossati la
responsabilità conseguenza invincibile
della loro posizione di considerare il
problema metafisico come non essenziale
e necessario e perciò accidentale e
contingente alla filosofia. Infatti, se
è possibile filosofia senza metafisica,
questa non risulta essenziale alla
prima: solo per accidente, contingentemente e quasi per una sua prolungata immaturità, la filosofia per
millenni ha considerato fondamentale e ad essa connaturato il problema metafisico. Libera ormai di questa pesante ed
inutile soprastruttura, ha finalmente scoperto, nella sua piena maturità critica
e problematica che il suo fondamento essenziale è
altrove. Evidentemente per gli anti e
gli a-metafisici non si tratta di
affermare che alla filosofia non è essenziale questa o quella soluzione del problema della metafisica, ma
di concludere che non le è essenziale la
metafisica tour court. Alla filosofia è
essenziale, per esempio, il problema politico o quello dell’arte o
dell’economia, che l’umanità non potrà non porsi fino a quando penserà, ma non le è affatto
essenziale il problema metafisico. L'uomo può non pensarvi affatto; anzi, da quando gli si è dimostrato che la
metafisica non è, non è scienza e non è
vera filosofia, di diritto e di fatto non ci
dovrebbe pensare più nè ora nè mai. Se ciò non avviene è perchè egli, oltre che di ragione, è dotato
di immaginazione ; per maturo che sia,
conserva sempre un grado irriducibile d’infantilismo o primitivismo; o perchè
non riesce mai a guarire dalla sua
tendenza ad astrarre. Ma proprio ciò
prova come la metafisica sia il prodotto di attività inferiori e come la sua storia si possa identificare con
quella degli errori dell’immaginazione e
del dommatismo della ragione astratta,
ridurre magari ad un capitolo della psicopatologia. In breve, si afferma: a) si può (si deve) porre e
risolvere il problema dell’arte o quello
della economia o qualsiasi altro, senza
che sia affatto necessario preoccuparsi della soluzione del problema di
quel che è il reale in quanto reale; 2) l’uomo
ha più interesse a sapere quale sia la forma politica più giusta o meno ingiusta o se l’arte sia
un'attività alogica o logica, anzichè
conoscere che cosa egli sia, donde venga,
che ci stia a fare nel mondo, dove vada. Questi sono i problemi
inessenziali e non necessari, senza dei quali, e meglio, si fa
sempre concretamente, seriamente e con mente sana
della vera filosofia, poniamo, intorno alla repubblica o alla monarchia,
all’utile o al piacere! Antimetafisici e
a-metafisici hanno sempre lamentato le aberrazioni della metafisica e si può dar loro ragione quando
si tratta, per esempio, di certe
metafisiche idealistiche o materialistiche,
ma credo che non sia stato deplorato abbastanza il dilettantismo vacuo
dell’antimetafisica moderna e contemporanea.
Infatti, solo per aberrazione o errore della mente (da alcuni amato e
vagheggiato con lunghi pensieri) si può negare che l’esigenza metafisica sia
naturale, essenziale e universale. Già Kant nella Prefazione alla prima
edizione della Critica della ragion pura
osserva che i sedicenti indifferenti
finiscono per cadere sempre in affermazioni metafisiche ; e il Gentile
il solo dei neohegeliani italiani contemporanei che abbia avuto mente di filosofo rileva (La riforma della dialettica hegeliana, Messina, 1923, II
edizione, 110) che c’è un momento
immancabile nello sviluppo ideale dello
spirito umano, che potrebbe dirsi il principio eterno della filosofia: quel momento in cui il contrasto
della morte con la vita, la differenza
tra il non essere e l’essere, spinge
l’uomo a proporsi il problema: Che è l’essere? . Questa domanda, che è la posizione più efficace del
problema metafisico, suona nei secoli, e
riassume tutta la storia del pensiero
umano (ici, 114). Perciò Aristotele,
che di essa ha dato la formulazione più
profonda e più semplice, pone a fondamento di tutte le scienze il problema che si aggira
intorno all’ente in quanto ente (#e9ì 705 4 + ”
ovtos dv). Il problema metafisico si presenta così essenziale al
pensiero (e perciò alla filosofia) da fare osservare da qualche studioso che, in fondo, tutti ammettono un
concetto del reale, anche coloro che
negano la metafisica e si dichiarano
antimetafisici: tutti consideriamo realtà, ha scritto recentemente Mons.
Olgiati in un articolo chiarificatore (Il concetto di metafisica, in Riv. di filos. neosc. , fasc. IV, 1945, p226) quel che è in qualche modo, cioè che
non è il puro nulla; e perciò tutti
concordiamo che qualcosa di reale c’è
(ivi, 228). Dunque, persino i
negatori della razionalità del reale,
come altresì i negatori della metafisica, fondano le loro dottrine, e le vivificano in ogni
momento di esse, su un loro concetto di
realtà (01, 232). Se ogni sistema ha un suo concetto della realtà in quanto
realtà e non può non averlo, sotto pena di venire escluso dal
mondo filosofico e se tale concetto lo
hanno tutti (chi dice, per esempio, che
la realtà è storia, concepisce la realtà come storia; chi tutto riduce a problematicità, definisce la
realtà come problematicità), ne risulta
che ogni filosofo ha una sua metafisica, non essendo quest’ultima null’altro se
non la scienza che studia la realtà în
quanto realtà. Se fosse vero quello che
scrive Mons. Olgiati e vorremmo che lo
fosse non si dovrebbe parlare, ormai da
tempo non breve, di una crisi della
metafisica in generale, nè di posizioni negatrici di essa, ma soltanto della
crisi della classica metafisica dell’essere
e del conseguente succedersi di altre
concezioni del reale in quanto reale, cioè di metafisiche diverse da quella e tra loro. A noi sembra
invece che nel pensiero moderno e
contemporaneo vi sia un vero e proprio
rifiuto e mépris della metafisica (non di questa o di quella) e chi nega
la metafisica sic et simpliciter e si dichiara
antimetafisico lo sia effettivamente e non che voglia dire soltanto: io nego la metafisica dell’essere o
quella del pensiero o altra che sia, ma
sono ugualmente metafisico, in quanto concepisco la realtà in un certo modo.
Chi, per esempio, dice che il reale è il
divenire storico o la pura
problematicità, nega che esiste un principio assoluto, che al di là del mondo fisico nel senso di
questo nostro mondo vi sia alcunchè, come pure nega che in questo mondo vi siano enti o sostanze che
soztostanno alla pura fenomenicità. Dal
punto di vista dell’Olgiati, invece, la
polemica antimetafisica, dal Kant e dallo Hegel in poi, sarebbe puramente apparente; in realtà si
tratterebbe di una serrata discussione
tra tante metafisiche, cioè tra tanti modi
diversi di concepire la realtà in quanto realtà. Al contrario, si tratta di posizioni (se siano da
considerare filosofiche o no è altro
discorso), le quali negano decisamente ogni principio assoluto, qualcosa al di
là del nostro mondo o al di qua o al di
sotto di quel che il divenire manifesta nel suo
divenire; ammesso pure che è, negano che sia conoscibile e dunque negano la possibilità di una
metafisica come scienza, cioè la validità di una risposta filosofica quale che
sia alla domanda di che cosa è il reale
in quanto reale. E questo è negare
senz'altro che vi è una metafisica e non un semplice contrasto su che cosa è
realtà per il fatto che si nega
l'oggetto del contrasto, cioè il reale quale che sia. Noi crediamo, dunque, che il problema vada
impostato in altro modo e precisamente:
4) la filosofia come pura problematicità o si risolve nella contraddizione in
termini di considerare il problema come soluzione la soluzione del problema è porre e chiarire il problema
stesso ; o, nel porre i problemi, porta
in sè invincibilmente l’esigenza e gli
elementi reali della soluzione, cioè delle risposte per cui i problemi han senso e trascendono lo stesso
problematizzare. D'altra parte, perchè risposta vi sia non illusoria, è necessario un principio assoluto, che la
ricerca può scoprire ma non creare; la
guida, trascendendola, anche come ricerca dello stesso principio assoluto. In
tal modo, la filosofia come problematicità rivela essa stessa, intrinsecamente,
l’esigenza metafisica (e non solo l’esigenza) del principio primo ed assoluto
del sapere. 5) Similmente la filosofia come
storicismo assoluto o divenire perenne, o si risolve nella contraddizione in termini di considerare
l’essere come divenire, oppure, nel momento stesso di porre il problema
del divenire, sporge all’essere che il
divenire fonda e trascende: fa scaturire
irresistibilmente l’esigenza di un principio (e
non solo l’esigenza perchè di esso ne rivela la presenza) del divenire stesso e della storia, che non è
storico nè diveniente. La filosofia del divenire, quale richiesta intrinseca
al suo stesso dinamismo, pone anch'essa
l’istanza metafisica. c) Da ultimo, le
filosofie immanentistiche in generale, pur
non potendosi dire tutte anti o ametafisiche, quando hanno perseguito e sviluppato fino in fondo il
principio o demone dell’immanenza, solo
arbitrariamente (e dunque non razionalmente) possono concludere per la sua
verità, in quanto qualunque sforzo, il
più impegnato e critico, di autosufficienza della natura e dell’uomo non è
sufficiente a vincere la consapevolezza
della nostra insufficienza e della contingenza
del nostro mondo. Solo un depauperamento dell’infinita ricchezza del
nostro spirito e una sua detonalizzazione
solo una concezione non razionale e non razionalmente giustificabile
dell’uomo, non umana, unilaterale e dunque
astratta ci possono convincere
della nostra autosufficienza ed
adeguazione alla natura, che, a questo prezzo, è la nostra degradazione al
finito senza aspirazione d’infinito, ad
un destino puramente terreno, cioè di nulla. È come se per dimostrare che gli uccelli non son fatti per
volare, tagliassimo loro le ali; ma anche in questo caso, l’impedimento
innaturale non spengerebbe in essi il desiderio istintivo del volo. L'esigenza della trascendenza, nell'uomo, è
indomabile; in lui sono tutti i dati
sufficienti e necessari per dimostrarne
l’esistenza. Non tener conto di ciò è mettere al posto del. l’uomo reale e concreto una sua figurazione
immaginaria o un’astrazione; infatti l’immanentismo assoluto è proprio
esso frutto della immaginazione e
dell’astrazione. In questo senso, conveniamo con mons. Olgiati che anche soprattutto
l’indagine intorno a che cos'è la realtà in quanto realtà è concreta
come ricerca del principio essenziale del reale, che non può farsi con procedimento
astrattivo, nè per enumerazione (229).
Da quanto abbiamo detto possiamo trarre una prima conclusione: non ogni
negazione della metafisica, anche la più
decisa, è sempre un’affermazione metafisica, secondo la tesi dell’Olgiati; ma qualsiasi posizione anti o
ametafisica porta in sè immanente,
intrinsecamente, l’esigenza indistruttibile
ed ineliminabile della metafisica; e se non vede gli elementi validi a soddisfarla, ciò prova che è anti o ametafisica
per difetto di approfondimento critico
della natura del pensiero e del reale.
Così non poche posizioni speculative ci si presentano, non come tante diverse
antimetafisiche pur metafisiche, bensì come tanti sforzi inani o inefficaci meglio
come un solo sforzo che muove da diversi punti di vista di abolire la metafisica, che rinasce,
invece, dalla sua stessa negazione,
invincibilmente. I tentativi antimetafisici ci risultano, dunque, essi stessi,
tante prove della ineliminabilità
dell'esigenza metafisica e del loro pieno fallimento. L’anti e l’ametafisica non possono e non potranno
mai escludere la possibilità della
metafisica, la quale è possibilità assoluta, il
risultato ultimo della filosofia la più rigorosamente critica. E ciò per il motivo a cui sopra abbiamo
accennato: quando dite all'uomo: tutto è
problema , risponde: sarà vero, ma io son fatto per la soluzione ; tutto è qui , confessa: ed in me è reale e naturale l’ aspirazione
all’al di là ; tutto l'universo è tuo ,
aggiunge: ed io sono più dell’universo e vi è troppa dignità in me per
potermene accontentare; anche se tutto l’universo fosse mio non basterebbe
perchè fossi me stesso e in me stesso
capissi fino in fondo ; tutto è relativo , obietta: ed io sento di esser fatto per
l’assoluto, % so di avere in me stesso
una presenza di assoluto ; tutto è divenire , protesta: la mia vocazione è
l’essere perchè l’essere è la mia
radice, il principio del mio pensare, il destino della mia esistenza . Il
discorso sul finito non si conchiude mai su se stesso, ma rompe e dilaga, come
la primavera matura, per mille porte e finestre, sull’infinito; persino il discorso sul Nulla sottintende sempre un
silenzioso e perciò interiore, appassionato e cocente discorso sull’Essere:
chi dice: nulla è di ciò che è , intende dire: solo l’eterno
è reale . L’assoluto nihilismo è una disperata ma potente apologia dell'Essere assoluto. Perciò noi,
piuttosto che considerare metafisiche anche le filosofie antimetafisiche,
preferiamo considerarle tali, negando, per ciò stesso, che siano nelle loro istanze antimetafisiche delle
filosofie, in quanto, dove manca
metafisica, manca filosofia, che è indagine sull’essenza della realtà in quanto
realtà, ricerca del principio assoluto,
risposta ai problemi che investono la nostra origine, il senso supremo e
autentico della nostra vita, il destino
della nostra esistenza. Questo discorso sottintende una equazione:
metafisica uguale trascendenza, perchè
tale è anche la filosofia. Se filosofare è cercare, l'oggetto della ricerca
trascende la ricerca stessa; se
filosofia è scoperta del principio assoluto, questo fonda e condiziona ogni filosofare e perciò
trascende il pensiero che indaga e desidera scoprire; se filosofare è
inappagamento del dato ed aspirazione a conoscere l’a/ di lè di esso, è già trascendenza implicita e aspirazione
esplicita ad una realtà da e per cui è
tutto ciò che è ('). Perciò alla meta
L. Boctioro (Che cos'è metafisica, in
Salesianum , genn.-marzo 1948)
trova questa mia definizione della metafisica inadeguata perchè si ferma soltanto sull’esigenza della trascendenza, la quale
costituisce certamente l'elemento risolutivo e il punto di arrivo di ogni
metafisica autentica, ma non è tutta la
metafisica . Esatto, purchè si tenga fermo che non vi è metafisica senza
tra fisica è intrinseca la distinzione fra la realtà assoluta-universale e una
relativa-particolare, di cui la prima è il fondamento. Di qui la distinzione
tra il sapere assoluto e un sapere
relativo, il primo condizionante ogni altro sapere, che da esso dipende. Parmenide per primo (
padre nostro lo chiama Platone), in
maniera chiara ed esplicita, distinse la
realtà assoluta dell’Essere uno da quella relativa degli enti molteplici, il mondo dell’Essere puro
dal nostro contaminato dal non-essere, questo condizionato dall’altro,
inferiore. La prima decisa affermazione del reale assoluto comporta, dunque,
il ridimensionamento del reale relativo, cioè è nata dalla constatazione della contingenza
e perciò della insufficienza di questo mondo e dunque dalla necessità del pensiero di trascendersi in un principio
assoluto, fondamento di ogni reale e di
ogni sapere. Parmenide è la prima rivelazione, in sede filosofica, del pensiero
a se stesso, l'esplicita consapevolezza
che la filosofia o il pensiero ha come suo
oggetto di naturale aspirazione un oggetto assoluto. Platone raccolse l’eredità della netta distinzione
tra fisico e
metafisico , tra il
sensibile e l’Idea o forma universale di ogni realtà particolare, tra le Idee che
essenzialmente sono ( 6vttws dvra )
sempre identiche a se stesse ( dei abtà x27
aòtà pévovta) e i sensibili che sempre divengono e mai non sono. Stabilì una gerarchia ancora più
decisa: il metafisico sovrasta il
fisico , come ciò che è assolutamente ciò che è relativamente e condizionatamente, come
l’eterno il temporale; e sulla base di
questa gerarchia fissò il fine dell’anima umana nella aspirazione
al reale in sè, nell’Eros per il
suo destino ultraterreno, nella contemplazione dell’eterno Essere. Aristotele
si propose di stabilire una relazione
ontologica tra i due mondi, ma co nservò il platonismo del principio assoluto della scienza universale
dell'ente in quan scendenza, se
metafisica significa ricerca di ciò che è
al di là della fisica . In questo
senso la trascendenza gon è solo punto
di arrivo , ma è anche implicita
inizialmente nel punto di partenza. to ente, fondamento di ogni particolare
sapere. Noi crediamo che questa
distinzione tra il relativo e l’assoluto trascendente sia essenziale ad ogni
costruzione filosofica avente un nucleo
metafisico per cui, e solo per esso, merita il nome di concezione filosofica del reale. Ecco
perchè, ad esempio, quasi a giudizio
unanime, le filosofie dette postaristoteliche
segnano la decadenza del pensiero classico: la dualità di fisico
e metafisico vi diventa
secondaria, la metafisica è fatta rientrare nella fisica e il principio è
identificato, in un monismo opaco, con
la realtà naturale. Le ali di Eros si
chiudono sull’afflitta anche se rassegnata saggezza di un mondo finito, accettato con l’indifferenza
che detta l’amor fati, ma senza la
serenità del convincimento persuaso. Per
lo stesso motivo facciamo cominciare col
terminismo di Occam la decadenza
della Scolastica. La carenza metafisica, in qualunque epoca del pensiero, si
presenta come il dissolvente della filosofia, quasi che il sopravvalutare
il sensibile e il bloccarsi
nell’esperienza siano i pesi mortificanti
la potenza del pensiero, per sua natura doviziosamente generoso di
metafisici slanci. Al contrario consideriamo Plotino come l’ultima grande affermazione della
Grecia immortale e i grandi pensatori
della Patristica e della Scolastica come i
rappresentanti genuini della filosofia cristiana. Le epoche veramente filosofiche sono quelle dei grandi
metafisici. Con ciò abbiamo segnato la
condanna, sia pure parziale, della
speculazione del nostro tempo.
Noi dunque riteniamo che vi sia un platonismo essenziale e perenne che è
l’anima stessa di ogni vera metafisica:
l'aspirazione al di lè del fisico (trans-physica), divino Eros, che è sete d’immortalità dell'anima nella
contemplazione beatificante dell’Essere
assoluto eterno; platonismo essenziale che importa distinzione e dualità di
mondi: questo e
l’altro in un rapporto di relativo e assoluto, di contingente e
necessario, di temporale ed eterno. Platonismo, che è nostro, se trasposto nei termini
agostiniani di una metafisica dell'esperienza interiore focalizzata nel dialogo
perenne dell’anima con Dio, di tutto l’uomo con la Verità che è; interiorità che non abolisce il mondo,
anzi, dal di dentro, lo riconquista
nella sua verità e realtà, che è l’atto creativo di Dio, di cui tutte le cose quae facta sunt
sono prova e testimonianza. Agostino, dunque, arricchito dalla tradizione del,
miglior francescanesimo, il cui genio filosofico resta S. Bonaventura. A noi sembra che l’istanza agostiniana, in
una discussione intorno al concetto di
metafisica coincidente con quello di
filosofia, specie nello stato attuale, sia particolarmente
significativa. La metafisica classica, platonica e aristotelica, è ancora
cosmologia e con l’idea cosmologica identifica, in fondo, l’idea teologica: il
Demiurgo e il Motore immobile sono i due
principii del cosmo fisico, il primo, Artefice divino, mediatore tra le Idee e la materia, l’altro,
Causa prima del movimento. È una
metafisica al servizio della natura fisica e
dell’uomo solo in quanto uno degli enti naturali; metafisica, dunque,
come scienza della natura, con cui Aristotele
identifica la realtà in quanto realtà: l’ al di là del mondo è
sempre un mondo e non lo Spirito creante. In esso manca il problema dell’uomo in quanto uomo, così
come lo si concepisce e lo si pone dal Cristianesimo in poi con quell’interesse quasi totalitario e quella sensibilità
acutissima con cui oggi è vissuto dal
mondo moderno e contemporaneo, al quale
nessuno, credo, vorrà negare il diritto di cominciare, come dice E. Le Roy, il discorso dall’uomo, che è
una delle realtà quae facta sunt.
Dall’uomo appunto ha cominciato Agostino
il suo discorso metafisico e si è accorto che, quale che sia il
problema, la soluzione si trova sempre nella Verità che è e nell’Essere che è
la Verità. Questo senso d’interiorità profondamente umana di ogni problema
filosofico non va perduto: in esso
riponiamo principalmente l’avvenire della metafisica. Anche la storia della filosofia crediamo che
su questo punto ci dia ragione. La
metafisica, come scienza prima della natura o ricerca dei principii primi del
mondo fisico, fino alla scoperta della
scienza moderna, non distingueva nettamente i due mondi; essa aveva ereditato
il carattere naturalistico della metafisica aristotelica, per la quale anche i
problemi di Dio (teologia razionale) e dell’immortalità dell’anima (psicologia
razionale) si pongono sul terreno della natura
fisica. Di qui gli inevitabili conflitti e i tentativi d’identificare la
visione scientifica con la visione metafisica
della realtà. La critica kantiana della metafisica è la critica della concezione scientifico-metafisica del
razionalismo da Cartesio al Wolff e
tende a distinguere la teoria della
scienza (Critica della ragion pura)
dalla teoria della morale (Critica della ragion pratica), dove è
legittimo porsi i problemi della metafisica. La reazione positivistica e
neokantiana, contro la metafisica dell’idealismo tedesco del primo Ottocento, è giustificata dagli arbitri di
quella filosofia della natura , cioè di una costruzione aprioristica
(e in questo senso metafisica) della scienza. La metafisica dell’esperienza
interiore, di tipo platonico-agostiniano, a noi sembra che non si presti a questi equivoci: per essa
il principio assoluto o verità assoluta è richiesto dal dinamismo stesso del pensiero; dall’escavazione dell’uomo
nell’uomo; dalla presenza implicita
della verità alla mente; dal conflitto della
vita morale che sta alla base di tutta la nostra vita spirituale e la cui soluzione rimanda razionalmente alla
trascendenza; dalla costituzione stessa
del pensiero che è capace di verità, in
quanto la verità, che lo fonda e trascende, è la sua vita interiore, senza di cui non sarebbe pensiero
e sarebbe morte. Contro queste istanze
metafisiche non c’è scienza o
critica che valgano, in quanto e
la scienza e la critica, le più sviluppate e intransigenti, ne riconoscono la
legittimità, che può essere solo
negata e perciò anche questa negazione
è pur essa conferma da un atto non razionale e dunque non scientifico, non critico e, in definitiva,
non filosofico. Si consideri ancora
che, da quando scienza e filosofia, fisica e metafisica, pur non ignorandosi, seguono
metodi propri e si pongono problemi diversi o almeno da punti di vista
differenti, per cui l’oggetto proprio dell’una è diverso da quello dell’altra, l’attenzione della
filosofia si è concentrata sull’uomo e
su quelle che sono le forme della sua attività. La storia, l’estetica, la politica, l’economia;
le scienze morali in generale,
considerate speculativamente, sono oggi i problemi vivi della filosofia. È vero che essi,
proprio perchè posti come problemi
filosofici, importano sempre una visione totale della realtà, ma il reale fisico, in quanto tale,
interessa subordinatamente al reale umano e nei limiti in cui contribuisce
alla soluzione dei problemi dell’uomo.
Le costruzioni metafisiche, nel senso di filosofia della natura, si debbono più
agli RASTA che ai filosofi veri e
propri. Di questa esigenza, che possiamo chiamare umanistica , una costruzione metafisica,
oggi, non può non tener conto. Non che
il mondo così detto fisico non debba interessarla, quasi fosse apparenza illusoria ed opaca materia, sorda
alla luce del pensiero; tutt'altro: la
metafisica non può non essere che la
scienza di che cosa è la realtà in quanto realtà. Vogliamo dire che l’uomo interessa all'uomo più di
ogni altra cosa e una presa di contatto
della metafisica con il reale-uomo riporta i suoi problemi a quella
interiorità, che è sempre stata
l'ispirazione fondamentale della ricerca speculativa, e rende la metafisica stessa aderente al
problema-uomo ai problemi del donde
vengo, chi sono e dove vado la cui
soluzione, in definitiva, sta alla base di quella del significato e del valore del mondo in generale. Da questo
punto di vista possiamo dare in parte
ragione al Carlini, il quale tenendo
presente una determinata concezione della metafisica, considera tutta la
metafisica scienza naturalistica che indaga intorno al principio del mondo,
quasi una continuazione della fisica, scienza dell’ essere contrapposto allo spirito .
Ma questa è una particolare metafisica e non /a metafisica, come sembra pensare il Carlini, in quanto vi
può essere (e vi è nella storia della filosofia) una metafisica
dell’esperienza interiore, dove
essere e
spirito non si contrappongono,
dove resta primo il concetto del cos'è il reale in quanto reale, ma dove il reale non è più
naturalisticamente inteso. In questa
metafisica, che è ancora scienza che non sta contenta al come, il problema del
propter quid importa l’impegno totale dell’uomo e la partecipazione sua e delle
cose ad un comune destino, per cui il
problema metafisico è innanzi tutto
problema dell’uomo in quanto uomo. L’intus legere (intelligere) che è la
filosofia o la metafisica non è solo un
leggere nell’inzus delle cose, ma è
innanzi tutto un leggere nel
nostro intus, in interiore homine; solo
quando questa pagina sarà decifrata e chiara, sarà possibile leggere, metafisicamente e non
scientificamente , anche il libro della natura, decifrarlo e chiarirlo. Possiamo, dunque, convenire anche
con lo Heidegger (senza accettare le conseguenze che egli ne trae) che la metafisica è sì questione sul senso dell’essere nel suo
insieme e in quanto tale , ma che l’ontologia è vincolata all’antropologia: l’uomo che indaga è egli
stesso oggetto primo della sua indagine,
il ricercatore è incluso nella sua
ricerca. Ogni domanda metafisica
racchiude la problematicità della metafisica nella sua totalità , ma nessuna domanda metafisica può porsi se non è
posto in questione come tale colui, che fa la domanda, se non diventa
dunque domanda egli stesso . (Was ist Metaphysik?, trad. it. Milano, Bocca, 1942, 55). Dunque, anche quei pensatori che, oggi, non
sono nè anti nè a-metafisici e ripongono
sul tappeto della più viva discussione
filosofica il problema della metafisica, pur accettando la posizione classica
del problema stesso, ne accentuano l’aspetto umano, spirituale, interioristico.
Non si tratta d’indulgere ad una moda,
come se quel che è stata verità una
volta non lo sia più, secondo la tesi di un relativismo storicistico negatore della verità e della
filosofia, ma di cogliere quelle esigenze profondamente spirituali, che
co-. stituiscono l’anima dell’indagine
metafisica e impediscono che essa si
presenti sotto l’aspetto (che è un aspetto) di scienza puramente naturalistica, anzichè sotto
l’altro, che le è più proprio ed
essenziale, di ricerca interiore dell’! di /à dello spirito umano, senza di cui non sarebbero nè
l’uomo nè le cose e lo spirito stesso
sarebbe materialità, passività e morte.
Perciò noi ci siamo principalmente preoccupati di cogliere la costante ed insopprimibile esigenza metafisica,
anche nei sistemi anti o ametafisici,
sia per provare la essenzialità ed
universalità del problema, costitutivo della stessa filosofia, sia per dimostrare, conseguentemente, come
nessuna negazione della metafisica possa negare se non altro la
possibilità della metafisica stessa,
essendo essa il primo iniziale che muove
ogni indagine speculativa e la sua realizzazione la speranza suprema e dunque il fine del
pensiero. Aderire alle istanze della
filosofia moderna e contemporanea ci sembra
una condizione indispensabile di ogni concreto filosofare; nel nostro caso, per porre concretamente e
criticamente il problema della
metafisica. Le critiche e le accuse, quando
non sono dettate da superficialità, incomprensione o sordità costituzionale per certi problemi, servono a
chiarire altri aspetti della questione e
consentono al metafisico di riporsi il
problema con maggiore consapevolezza, di vederlo in quella complessità di momenti, che impedisce una
visione parziale e non integrale di esso e perciò astratta o unilaterale. L’antimetafisica che quasi senza soste e a
volte con accanimento appassionato o passionale si è scatenata dal tempo
dell’illuminismo anglo-francese, risponde anch'essa ad un’esigenza del
pensiero. Essa impone, da un lato, la difesa ad oltranza della metafisica in
nome del diritto alla vita della filosofia e, dall’altro, il dovere, per il
metafisico, di riporsi il problema in modo
che l’istanza metafisica esca vittoriosa
dalle apparenti sconfitte, scaturisca dalle
stesse negazioni, chiarita nei suoi molteplici aspetti, sic 104 Filosofia e Metafisica chè la sua risposta, più ricca e
complessa, comprenda in sè le esigenze
che sembrava escludere e che, solo apparentemente, per un errore di
prospettiva, si erano poste contro la
metafisica, mentre, in realtà, la loro era opposizione ad una determinata soluzione del problema
metafisico, la quale trova in quelle
critiche non la negazione della sua verità,
ma lo stimolo per arricchirla in una più comprensiva. Quel che è stato una volta verità, verità sarà
sempre, ma è dell'essenza della verità la vita e lo sviluppo fecondo, il
crescere continuamente di e su se stessa, in modo da conquistarsi sempre più
come verità. Perciò noi accettiamo l’istanza
critica del divenire e dello sviluppo dello spirito, proprio per dimostrare come non vi è verità che muoia e
verità che nasca per morire ancora,
problema che si ponga per restare sempre
problema, esasperatamente tale, ma che vi è verità perenne che perennemente è
vera, oggi più comprensiva di ieri, perchè più matura e sviluppata. Ora è
evidente che le istanze antimetafisiche dell’empirismo inglese, la critica kantiana della metafisica del
razionalismo moderno, la metafisica cosiddetta del pensiero o della mente
dell’idealismo tedesco e del neohegelismo italiano, le molte metafisiche
contemporanee dell’intuizione, dell’azione, della volontà, della vita ecc.,
come pure le stesse negazioni radicali
di ogni metafisica non vanno considerate, tutte, nella loro sterile (agli effetti dell’avanzamento della
questione) polemica contro la classica metafisica dell’essere o della verità trascendente o dell’oggettivismo o
dell’intellettualismo, ma in
quell’aspetto fecondo di positività che esse hanno e cioè: nell’avere rilevato esigenze nuove, nuove
prospettive, di cui la metafisica, come
la scienza del che cos'è la realtà in quanto
realtà, oggi, deve tener conto, affinchè la risposta sia davvero
comprensiva, direi, assorbente, di tutte le diverse istanze, in quel che hanno di vero, e di esse
l’inveramento concreto. Di qui la nostra concordia discors (che crediamo sia
una forma di colla borazione feconda
nella comune battaglia contro le negazioni della metafisica) con la Neoscolastica dell’Università
Cattolica di Milano e, in special modo, Al principio di questo capitolo abbiamo
rilevato la complessità di sensi e problemi del termine metafisica,
difficilmente includibili in una veduta comprensiva ed armonizzante di tutti:
non di rado si dà la preferenza ad un senso
o ad un altro, ad uno o ad un altro problema. La metafisica è conoscenza
astratta, o la più concreta? è opera esclusiva della ragione e perciò pura
costruzione 4 priori? è scoperta delle regole fondamentali del pensiero e
perciò valide per ogni scienza sia
fisica che morale? E potremmo ancora
continuare. Ma ci sembra che tutti, metafisici e non metafisici, siano
d’accordo che essa, come la definì Aristotele, è Za con Mons. Olgiati. Nella sua prolusione al
corso di metafisica dal titolo Come si
pone oggi il problema della metafisica (in Riv. di filos. neosc. , n. 1, 1922) l° Olgiati, in fondo, riafferma che la
sola vera è quelia dell'essere nella
forma aristotelico-tomista, la quale, dunque resta come l’unica, intatta
ed intangibile. Il lungo discorso della filosofia moderna non la interessa
affatto, perchè questa, fenomenistica,
considera fenomeno il reale in quanto reale e non colpisce, in fondo, la
concezione del reale in quanto essere; dall’altro, la metafisica del vero
ontologico, di stampo platonico, è stata da essa superata. A noi sembra che, anche ammesso e non concesso che
tutto il pensiero da Cartesio in poi sia
fenomenistico, resta sempre la questione, per il problema della metafisica
posto oggi , di vederc quali istanze la
metafisica fenomenistica ponga contro (o
a differenza di) quella dell'essere e se questa non sia chiamata a tenerne conto se vuol parlare un linguaggio
significante per la filosofia moderna e
contemporanea. Tenerne conto non significa affatto rinunzia a quel che è la sua verità, ma dimostrazione della sua
fecondità e vita perenne nell’unico modo
in cui si può provare: che essa è capace di sviluppo, di dispiegarsi come verità comprensiva di esigenze diverse, di
essere sufficiente a risolverle ed aperta
a nuovi punti di vista che, arricchendola e quasi rivclandola sempre
meglio a se stessa, la confermano come
verità di ieri e di oggi e non soltanto di un
ieri , che oggi può non interamente soddisfare. Per quanto qui è detto (e soprattutto per
quanto si legge in molti punti di questo
volume) mi sembra assolutamente infondata l’obiezione mossa a me e agli altri collaboratori del Giornale di Metafisica , che nessuno di
noi si preoccupa del problema critico,
come se la metafisica non fosse mai stata
messa in discussione ( Rivista di
Filosofia , genn. 1948, p, 97). Precisamente il contrario: in tutti noi è
vivissima tale preoccupazione e il nostro è
un dialogo costante con il problema critico. Anzi, per quanto mi
riguarda, debbo dire che, se un qualche
interesse ha la mia posizione speculativa, è precisamente quello che cerca di dimostrare come, proprio
dalla stessa istanza critica, si arrivi
ad una soluzione positiva e razionale dei problemi della metafisica.
quosopia 736, la scienza dei principii primi. Così intesa ebbe l’ultima grande sistemazione scolastica
dal Wolff con la duplice divisione in
metafisica generale od ontologia
(scienza dei principii primi in generale e dell'essere in quanto essere) e metafisica speciale o scienza degli
esseri (scienza dell'anima psicologia razionale ; filosofia della
natura cosmologia razionale ; esistenza
di Dio e suoi attributi teologia
razionale e teodicea). In verità il problema primo è proprio l’ultimo in quanto la soluzione di
esso, in un senso o nell’altro,
condiziona quella degli altri problemi,
anche quando quello è posto e risolto alla fine: la teoria della conoscenza (problema del fondamento
critico del sapere), la teoria dell’essere, come pure il problema
dell’immortalità dell'anima, rimandano al problema dell’Assoluto, di Dio, principio primo di ogni conoscenza e
di ogni essere. Di fronte a questi
problemi quali sono le posizioni fondamentali della filosofia moderna e
contemporanea? Cartesio, da cui si fa
comunemente cominciare il pensiero moderno, nella Prefazione ai Principes, la
considera la racine dell’albero della scienza, avente però come
oggetto enti immateriali: la conoscenza di Dio e dell'anima per mezzo della
ragione naturale (Méditazions,
Epitre dédicatoire). La metafisica si distingue così dalla fisica, dalla
matematica ed anche dalla morale e si presenta come teologia e psicologia razionali. Cartesio, in fondo,
rivendica, anche se ancora non in
maniera netta e decisa, l'autonomia delle
scienze fisico-matematiche e quella della morale. Immateriali
gli oggetti della metafisica: dunque, non spaziali e non sensibili come dirà Malebranche
(Enzréziens, I): c'è, in fondo, in
Cartesio e di più in alcuni cartesiani un'istanza platonica. D'altra parte, la
certezza interiore del Cogito è criterio
assoluto di verità: realtà spirituale e realtà
naturale restano nettamente distinte e con la dualità sorge il problema del loro rapporto. Dunque,
ancora, platonismo. Pure sulla linea
platonico-agostiniana o neoplatonica è la soluzione del problema testè
indicato: la occasionalistica e la
spinoziana, l’una e l’altra però, a differenza di Cartesio, non escludenti
l’etica. Si consideri che il problema della
relazione tra le due res è imposto dall’ente-uomo dove si trova concretamente realizzata. Ormai la metafisica
non è più soltanto ontologia e poco si preoccupa del reale fisico o naturale
(il mondo, per Malebranche, è quasi superfluo ed è un’apparenza caduca per lo Spinoza), ma
soprattutto conoscenza ed etica, determinazione delle modalità del
conoscere e del volere. Il Leibniz
sistemò diverse istanze del razionalismo cartesiano e spinoziano e il Wolff
fece di quella metafisica la nota divisione scolastica. La crisi della metafisica razionalistica
comincia con la critica della
conoscenza con la gnoseologia nel senso moderno del termine dell’empirismo inglese. Il bersaglio è preciso: il principio assoluto del sapere
così come il razionalismo lo andava sistemando. La risposta è radicale: ogni realtà oggettiva o assoluta, che la
metafisica presuppone, se non si risolve (dissolve) nell’esperienza sensibile,
è un inconoscibile o una credenza.
Leibniz cerca di correre ai ripari: alla
critica lockiana dell’innatismo contrappone il concetto di virtualità, al
nominalismo la distinzione tra verità di
ragione e verità di fatto; ma egli deve all’istanza critica dell’empirismo, se non altro, lo stimolo a
costruire una metafisica monadistica. Infatti, ogni forma di empirismo è sempre rivendicazione del concreto
individuale, degli enti particolari;
inoltre, come tale, implica sul terreno gnoseologico la risoluzione di ogni
realtà oggettiva nella percezione soggettiva. La realtà si pluralizza in
infinite sostanze, in points métaphysiques, in points de substance. Ciò accade
non solo per Leibniz, che al posto dell’unica sostanza dello Spinoza, mette un universo di monadi,
ma anche per Berkeley, per il quale
l’universo è costituito di sostanze percepienti. Si consideri che il Berkeley
assolve, dentro l’empirismo, la stessa posizione critica assolta dal Leibniz
contro di esso, in nome degli stessi interessi: la realtà degli spiriti e di Dio. Il sostanzialismo spiritualistico
del Berkeley s’intende meglio come critica dell’empirismo e in rapporto al monadismo spiritualistico del Leibniz. Contro
l’uno e l’altro, colpendo alla radice il principio del razionalismo (il cogito), Hume nega che vi sia una sostanza
pensante metafisicamente concepita come sostanza in sè sussistente. Così l’oggetto della metafisica, come mondo
naturale e spirituale, come essenza dell’essere e come principio assoluto
del conoscere, si dissolve, attraverso
un processo che va dal Cogito di
Cartesio alla percezione dello Hume: la realtà,
tutta la realtà, è soltanto l’attività presente e momentanea del percepire o dell’apparire. Quasi contemporaneamente gli ideologi
francesi del secolo XVIII ( l’àge barbare de la philosophie , come scrive il Lachelier) intendono il termine metafisica
nel suo signifi cato deteriore di
inutile logomachia, di vano ed oscuro filosofare ( le roman de la nature come la definisce Voltaire nell’articolo ironico Métaphysique
che si legge nel suo Dictionnaire
philosophique). Ignoranti com’erano del Medioevo, coinvolgono nella stessa
condanna la grande metafisica della
Scolastica e le sottigliezze fatue della decadenza della Scolastica stessa e del tardivo aristotelismo
averroista, continuando la polemica anti-aristotelica ed antiscolastica che è
in special modo propria dei
filosofi-scienziati del secolo XVII e
alla quale erano rimasti tutt'altro che estranei sia il materialista Hobbes che
Cartesio e Spinoza. All’antica metafisica
teologica ed astratta
contrappongono la loro, intesa, in
opposizione alla fisica (e qui sono cartesiani) come scienza dello spirito, delle idee e della loro
origine. Così
il Condillac considera
(nell’Inzroduction dell’Essai sur l'origine des connaissences humaines) bonne
métaphysique la sua teoria dell’origine delle idee e dei principi della
conoscenza umana; e il Destutt de Tracy
distingue l’ancienne métaphysique
théologique dalla moderne métaphysique philosophique ou
l’idéologie . Metafisica, in
breve, è conoscenza dei principii generali di un'arte (un poeta o un musico,
che vogliono rendersi conto dei
principii della loro arte, ne fanno la metafisica) e di una particolare scienza
o di quanto non è oggetto dei sensi
esterni come le operazioni e facoltà
dello spirito , quali le sensazioni, la memoria, la volontà, ecc. D’Alembert, nel celebre Discours
préliminaire de l’Encyclopedie, poteva scrivere che Locke créa la métaphysique
. Così la definizione cartesiana di metafisica (scienza degli oggetti immateriali) e l’opposizione di
essa alla fisica, la critica lockiana
del concetto di sostanza e la posizione
critica del problema della conoscenza, la negazione humiana della realtà della sostanza estesa e
pensante, l’identificazione del concetto di
natura con quello di materia,
il senso della concretezza del
particolare e della positività della
ricerca scientifica, confermano sempre più la netta distinzione della
realtà in due aspetti: quello naturale o fisico, oggetto della scienza, sistemato nella
concezione meccanicistica e deterministica e l’altro umano o spirituale , 0ggetto della filosofia vera e
propria, intesa come analisi delle
facoltà e dei fenomeni psichici, teoria della conoscenza, morale,
psicologia. Con tale analisi viene identificata la metafisica, la quale non si distingue dalla gnoseologia
o dall’ ideologia , intesa come ricerca sulle facoltà della natura umana
, limitata all’indagine dell’origine delle idee, dell’oggetto e dei limiti del
conoscere. È superfluo avvertire che la
soluzione del problema gnoseologico condiziona quella della possibilità della scienza della natura
o meglio della scienza in generale; ma
conta notare come l’oggetto della
metafisica sia ormai esclusivamente l’uomo nell’insieme delle sue facoltà (sensoriali, intellettive e
volitive) e come il problema metafisico si ponga non nei termini di che cosa è
il reale in quanto reale, ma in quelli
di che cosa è l’incondizionato che tutto condiziona. Kant, quando la lettura
dello Hume lo pose di fronte a questo
problema, sospese la metafisica razionalistica leibniziano-wolffiana e si
chiese: è possibile una metafisica come scienza? Non vi ha dubbio che Kant, nel
porsi questa domanda intorno al problema
che restò centrale in tutti i suoi interessi di pensatore, si proponesse
sinceramente di ricostruire l’edificio
della metafisica sulla base dell’esigenza critica , che gli aveva fatto sospendere la
costruzione dogmatica del razionalismo. Così il suo primo problema
no-n è quello di una teoria della conoscenza, ma della critica del
conoscere in generale per accertare i mezzi di cui la ragione dispone
per costruire la metafisica. L'indagine critica
lo porta a concludere, nella prima Critica, che vi sono due aspetti della questione da tener distinti: 4)
vi è un problema della metafisica come filosofia dei fondamenti primi
della conoscenza che s’identifica con la stessa critica, cioè
con la fondazione assoluta dei mezzi del
conoscere e non con quello della
metafisica nel senso tradizionale, per la fondazione della quale quei fondamenti dovrebbero essere
strumenti; 5) vi è un altro problema
della metafisica come comprensiva di tutta la conoscenza, vera o apparente, che
appartiene alla Ragione pura e
costituisce, non una scienza nel senso
della prima, ma una scienza dei
limiti della ragione umana . Non tener distinti questi due aspetti del problema
ed applicare le forme del conoscere
valide per la conoscenza del sensibile
agli oggetti in sè, è mettersi sulla via dell’errore e dei paralogismi creando
un sapere illusorio che si avvolge nelle
insolubili antinomie della dialettica. A_ questo punto, alla domanda, che cosa è il reale in quanto reale , Kant dà una duplice risposta: 4) come reale
fenomenico è il contenuto
della sintesi 4 priori, di cui le intuizioni dello spazio e del tempo e le categorie
dell'intelletto sono le forme trascendentali, valide solo per quel
contenuto e come principii necessari
universali e assoluti per costruire la
scienza matematica e fisica. Con questa risposta Kant vuole risolvere il problema della metafisica
intesa come scienza dei principi primi del sapere, dentro i limiti di un sapere come conoscenza del sensibile e del
fenomenico; e con ciò conclude il
problema del valore del pensiero e dell’analisi
della conoscenza umana posto da Cartesio e Locke e lasciato in eredità a tutto il razionalismo e a tutto
l’empirismo moderno. 3) Come reale
assoluto o cosa in sè è il
contenuto di una forma che non
può essere alcuna di quelle
dell’intuizione e dell’intelletto, valide solo per il fenomenico (non ci
sembra, dunque, che si possa sostenere che,
per Kant, la realtà sia soltanto fenomeno), ma di un’altra forma valida
per un sapere o per una scienza che non
è la matematica e la fisica. Tale scienza è appunto la morale, di cui i problemi della wolffiana
metafisica speciale o degli esseri sono
i postulati indispensabili. Kant,
dunque, non dice che non è possibile una metafisica come scienza in
generale, ma solo come scienza nel senso di
quella della natura fisico-fenomenica e ciò vale come Prolegomeni
necessari di ogni futura metafisica che si presenti come scienza
senza escludere, anzi includendo, che è possibile una metafisica sul
terreno della morale. Ma egli, legato al concetto di trascendentalità delle
forme a priori come pure funzioni o
condizioni del conoscere e preoccupato di
fondare una morale autonoma, non potè dare tale metafisica, ma solo
indicare gli oggetti di essa come pure esigenze e postulati. Tuttavia, crediamo
non vi sia dubbio che sia questa
l’istanza del Kant, il quale, infatti, non potè mai scrivere nonostante vi si sia provato esistono frammenti di questi tentativi una metafisica della natura, per il
motivo che questa era già stata risolta
nella stessa critica, mentre potè
scrivere la Fondazione della metafisica dei costumi e la Metafisica dei costumi. Di lui resta
l'insegnamento, da mettere a profitto sulla linea della metafisica classica
(non intendiamo con questo termine solo le metafisiche di tipo aristotelico),
che la metafisica è una scienza indipendente dalle altre, le cui
Idee rivelano la loro efficacia,
ineliminabile ed insostituibile, n ella costituzione del mondo morale o,
come noi diciamo più comprensivamente ed
esattamente, della vita spirituale
; Idee
che la ragione pura , nel senso
kantiano, pensa (noumeniche), stabilendo con ciò stesso una distinzione tra il
regno dello spirito e quello della natura, alla
cui conoscenza l'intelletto è legato. Kant in questo senso ha riportato la metafisica al suo oggetto
proprio e ha fatto dei suoi problemi le
questioni essenziali e fondamentali dell’uomo. Egli approfondisce (critica ) il
senso cartesiano della metafisica
considerandola un modo speciale di pensare: i suoi oggetti sono
immateriali e perciò le eventuali conoscenze, che di essi la ragione può avere,
devono essere assolutamente 4 priori senza
ricorso ai dati della esperienza nè alle
intuizioni spazio-temporali. Tali oggetti così intesi sono
pensati , ma non conosciuti secondo le categorie della scienza che è solo scienza (critica della
metafisica razionalistica), ma ciò non impedisce che possano, debbano
essere pensati e conosciuti come
condizioni indispensabili ed assolute della scienza dei costumi (f). L’idealismo trascendentale post-kantiano
accolse l’istanza critica quasi
esclusivamente nel senso della metafisica
come scienza dei fondamenti primi
della conoscenza e considerò principio assoluto il concetto dell’attività
creatrice dello spirito. Di qui una duplice interpretazione di Kant e un
duplice sviluppo: @) la metafisica s’identifica senz'altro con la dottrina della scienza; 5) le forme 4
priori non sono soltanto funzioni con
cui il soggetto costruisce l’esperienza:
il soggetto crea, con la sua attività,
forme e contenuto. Così la metafisica
s’identifica con il sapere e il soggetto
funzionale di Kant si trasforma
nel Soggetto come entità metafisica e teologica: l’Ich denke diventa Ichheit.
Duplice arbitrio, anche dal punto di vista kantiano. E’ qui e non nei pensatori anteriori, soprattutto
in alcuni razio (3) Altre considerazioni
critiche sul problema della metafisica in Kant si trovano soprattutto nella Parte III di
quest'opera. nalisti un senso della
metafisica opposto a quello di Aristotele: non la scienza dell’ente in quanto
ente, ma la scienza della scienza in
quanto scienza. Questo non è più Kant, ma
una forma di kantismo che riporta
il problema della metafisica alla
posizione prekantiana, quale si riscontra nell’empirismo inglese e in alcuni
ideologi francesi del secolo XVIII. A
noi sembra che l’idealismo empirico sia il padre dell’idealismo trascendentale tramite un’interpretazione non-kantiana di Kant: l’esse est percipi è trasformato nell’esse est percipere, dove il percipere è
l’assoluto spirito che pone se stesso e
il non-io. La posizione kantiana di uno
spostamento della metafisica dalla fisica al mondo morale è di nuovo perduta e la metafisica ritorna ad
essere filosofia della natura ,
cosmologia, di cui il principio creatore
è l’Io, un Io perduto nel mondo, che si fa natura senza mai più potersi riconquistare nella sua
interiorità spirituale. Il naturalismo neoplatonico (Hegel) e il
riscoperto Spinoza ritornano nella formula del Deus sive natura,
dove Dio è il trascendentale e la natura
la sua posizione, con la quale l’Io
creante s’identifica (immanentismo). Così l’idealismo riporta lametafisica sul terreno della scienza della
natura e costruisce una nuova
metafisica dogmatica nel senso kantiano come quella del razionalismo, con la differenza
che in esso l’essere è risolto completamente nel pensiero creatore. Di qui l'opposizione della metafisica del pensiero
alla metafisica dell’essere , di una filosofia della verità
che è tutta nel suo processo storico o
filosofia dello spirito dove però lo
spirito non si coglie mai come tale, ma
sempre nella sua mediazione con il non-io, cioè nel suo farsi natura,
esteriorizzarsi, non essere se
stesso alla dogmatica
filosofia della verità immobile.
Il soggetto non è più problema, ma principio assoluto che tutto spiega: resta
estraneo alla ricerca metafisica, che
così gli si fa estrinseca, materiale .
La realtà prima e ultima è il pensiero,
che si fa tutto senza essere mai propriamente se stesso, che nega ogni
antecedente ontologico senza riescire a
conquistare la sua autentica soggettività.
Compiuto con il Fichte il
salto dall’Io funzionale all’Io
entità metafisica, l’idealismo trascendentale elimina la distinzione kantiana di fenomeno e cosa in
sè, di mondo della natura e di mondo
morale, annullando con ciò stesso i
termini in cui Kant aveva posto il problema della metafisica: cade la
distinzione tra scienza dell’assoluto e conoscenza del fenomenico e la
metafisica viene identificata con la
stessa teoria critica del conoscere. Razionale e reale si adeguano: la Ragione ha la capacità di
penetrare tutto il reale, in quanto il
reale è lo stesso dispiegarsi della Ragione.
La metafisica della natura s’identifica con quella del pensiero, dato
che il principio del dialettismo antinomico è il fondamento assoluto dell’una e dell’altro.
Ogni aspetto del reale non è che un
momento del processo dialettico: i dati
dell’esperienza sono risolti nel divenire dello spirito e questo è nella concretezza delle sue
determinazioni. Costruzione
aprioristica e fantastica della natura, dissoluzione della realtà e degli enti
nel processo dialettico della Ragione e
di questa nelle sue transeunti determinazioni, dommatismo e teologismo
deteriori determinarono la decadenza
della metafisica del pensiero e provocarono
una compatta reazione ad essa. Lo Schopenhauer fa sua la distinzione kantiana di fisica e
metafisica, di fenomeno e cosa in sè;
Kierkegaard, in nome dei diritti della fede e
della religione, rivendica il concetto di esistenza o di
singolarità e alla dialettica del
passaggio contrappone quella del salto ,
alla ragione l° assurdo
della fede; Feuerbach e Marx
rivalutano il concreto, il particolare o
finito e fanno scendere l’idea hegeliana nel mondo dei fatti; il Neokantismo lancia il grido di Keine
Metaphystk mehr contro la metafisica
intesa nel suo senso deteriore e affianca
la posizione positivistica, imbaldanzita dai successi delle scienze
sperimentali. Comte considera
abstrait l’ état métaphysique ,
ormai definitivamente superato al pari di quello teologico (naturalmente poi egli fa, per suo
conto, della metafisica concependo la filosofia come sistema delle scienze
e della pseudo-teologia), mentre Sully
Prudhomme (Que sais-je?, 51) scrive: Il
n'y a de métaphysique dans l’ètre que
l’inconcevable. La métaphysique commence où la
clarté finit . Quando l’idealismo hegeliano ai principi del secolo rinasce in Italia, la metafisica del
pensiero viene rigettata da un epigono
formatosi nell’ambiente positivistico e
negli studi marxisti e accettata dal Gentile, attraverso una riforma
della dialettica dello Hegel (mediatore lo Spaventa), come metafisica
dell’atto del pensiero pensante, antitetica a quella oggettivistica
dell’essere. In tutta questa reazione
violenta contro la metafisica, escluso
il Gentile, è necessario notare che: 1) si reagisce contro la metafisica di
tipo hegeliano, identificata con la metafisica senz'altro solo arbitrariamente la condanna è stata estesa alla metafisica come tale; 2) si
rivendica, da un lato, la realtà, il
senso e il valore dell’esistente o singolo contro la
ragione speculativa e di fronte
all’assurdo e allo scandalo della fede religiosa (esistenzialismo
teologico e trascendente) o come valore in se stesso, il cui avvenire è
nell'umanità (esistenzialismo laico o immanente); 3) e, dall’altro, il concetto
di scienza nel senso moderno, costruita
con metodo sperimentale e non aprioristicamente. Purtroppo l’identificazione della metafisica con quella
di tipo idealistico; il prevalere degli interessi pratico-scientifici;
l’estensione arbitraria di metodi e
leggi valevoli per il mondo fisico anche alla spiegazione del mondo dello
spirito; il convincimento derivante da un’interpretazione unilaterale della
Critica che, dopo Kant, non era più possibile
e nemmeno serio! tentare di
ricostruire una metafisica; il perdurare del
senso dispregiativo ormai tradizionale dato a questa parola nel secolo
XVII e più ancora nel XVIII contribuirono
a far decretare una condanna della metafisica, che apparentemente quanta superficialità anche in pensatori di
non mediocre levatura! è potuta sembrare
definitiva. Quasi inesistente, d’altra parte, l’influenza della filosofia
rosminiana fuori d’Italia e pure da noi
limitata, scarsa di sviluppi speculativi, prima ostacolata per motivi
politico-teologici e poi arrestata dal prevalere del positivismo o interpretata
kantianamente, idealisticamente e immanentisticamente sia dal primo (Spaventa)
che dal secondo (Gentile) hegelismo. Eppure
il Rosmini, antikantiano nel giro dei problemi di Kant, rappresenta
ancor oggi e non solo in Italia la più vigorosa riscossa della metafisica
tradizionale, non ripetuta, ma ripensata
a contatto del pensiero moderno. La sua filosofia aspetta ancora di entrare nel vivo del
pensiero mondiale. Com'è noto la
reazione idealistica contro il positivismo,
altra età barbara della filosofia, fu suscitata dal bisogno di rivendicare i valori spirituali e di
restituire la filosofia ai suoi problemi
e alla sua autonomia. La metafisica si giovò di
questa riscossa, ma non si ebbe un ripensamento sistematico di quella classica, sia di tipo platonico che
aristotelico. Per il Bergson metafisica è un modo
speciale di conoscere e cioè il
mezzo de posséder une réalité absolument
au lieu de la connaître relativement, de
se placer en elle au lieu d’adopter des points de vue sur elle, d’en avoir
l’intuition au lieu d’en faire
l’analyse, enfin de la saisir en dehors de toute expression, traduction ou
représentation symbolique (Introduction
è la métaphysique, in Revue de métaph.
et de mor. , I, 1903). In breve, per il Bergson a parte che egli attribuisce questa capacità all’intuizione
che contrappone al pensiero discorsivo la metafisica è conoscenza assoluta, ultima. Egli riconosce che il suo oggetto è
l’essenza interna degli esseri e non le loro manifestazioni sensibili; che è penetrazione 4/ di là della fisica (per lui
delle immobili leggi delle scienze) nell’intimo della creatività individuale
degli esseri, non dell’essere. Da parte sua il La-. chelier (Vocabulaire technique et critique de
la philos., IV ediz., vol. I, 456)
si augura che la metafisica possa ridiventare la science de l’étre, dans le
double sens d’existence en général et de
totalité des existences , ma alla
nouvelle condition che la chiave di questa scienza sia
cercata dans la logique interne de la pensée precisando
che Dio e il nostro possibile destino
fuori di questo mondo non sono oggetti di scienza, ma di fede. Il Gentile
(ocit., p123), nei primi anni del nostro
secolo, può scrivere 2a oggi i vecchi
nemici di essa [ della metafisica ] cercano di scusare e di attenuare le loro critiche di una
volta... Oggi lo storico della filosofia
può parlare della metafisica classica, ossia della filosofia vera e propria di tutti i tempi,
con la certezza di toccare una corda che
risuoni nell’animo dei suoi ascoltatori . E anche per lui metafisica è spingersi al di là del fenomeno e fissare l’occhio nel reale. Vi è
in questi ed in altri pensatori un’istanza comune: la metafisica si giustifica come
rivendicazione di quei valori spirituali
(conoscitivi, morali ed anche religiosi) che nessuna scienza sperimentale può mai cogliere. Si
tratta di una rivalutazione dei valori umani (tipica della Wertmetaphysik del Windelband e del Rickert) sul terreno
stesso dell’umanità e della storia, @/
di Îè delle schematizzazioni della scienza
naturalistica. Di qui la netta distinzione tra scienza e metafisica: la
prima non può condurre alla seconda e questa,
come scrive il Liard (La science positive et la métaphysique, III, c. VII),
ne peut fournir à la science un point de
départ et des principes régulateurs . Après les phénomènes, nous voulons connaître l’absolu;
après les conditions nous demandons la
raison de l’existence. La métaphysique
serait la détermination de cet absolu, la découverte de cette raison
(ivi, Avant propos). Dunque volontà
e perciò esigenza di conoscere
l’assoluto; domanda, e perciò ancora
esigenza, della ragione dell’esistenza. L’idealismo aveva risposto dopo
Kant, ma interpretandolo , a queste
esigenze con la nuova metafisica del
pensiero, sul terreno dell’immanenza assoluta, ma senza appagare quella volontà
di assoluto nè soddisfare quella
domanda di ragione
dell’esistenza. Siamo arrivati, ci
sembra, al punto cruciale, in seno al
siero moderno e contemporaneo del problema della metafisica. Si
riconosce l’insopprimibilità per l’uomo e dunque per il pensiero dei suoi problemi; per
conseguenza che bisogna rispondere, che
non si può non rispondere: rispondere è una
necessità interna del pensiero, direbbe Lachelier. Ora l’immanentismo, sotto qualunque forma si
presenti, è davvero una (/a) risposta a queste esigenze di assoluto
e di ragione dell’esistenza, o non piuttosto
l’assolutizzazione della ragione o del
pensiero e la negazione di ogni ragione
dell’esistenza? Nell’ assoluto pensiero
immanente e perciò circoscritto
alla natura c'è una contraddizione nei termini: il pensiero pone,
intrinsecamente, l'esigenza dell’assoluto e esso stesso si pone assoluto. O
l’esigenza non c’è e il pensiero è
l’assoluto; o l’esigenza c’è, interna al pensiero e pungolo che lo spinge ad oltrepassarsi, e
il pensiero non è l’assoluto, ma
fondamentale, invincibile, universale esigenza dell’assoluto; ed è qui, e non
nel pensiero, la ragione dell’esistenza. Questo ci sembra il primo
risultato positivo del travaglio della
speculazione da Cartesio ai nosti giorni: il riconoscimento razionale e dunque critico della critica più rigorosa
ed intransigente che l'assoluto
oltrepassa il pensiero di cui è pure il fondamento e il fine, la sua ragione prima ed ultima, la ragione
dell’esistenza come tale. L’immanentismo
non è una risposta alla metafisica, ma l’assunzione a principio assoluto di un
elemento (il pensiero umano) che è invece richiesta di assoluto e che, solo in
quanto tale, pone il problema di una
metafisica come sforzo, dice James,
unusually obstinate di pensare
chiaro e conseguentemente , soprattutto
consistently , come bisogno di una
Durchbildung energica del nostro Lebdenskreis (Eucken). Dunque, il travaglio del pensiero moderno
c’insegna, contro le sue premesse ma in armonia con le sue ultime
conclusioni, che non vi è metafisica
autentica dove non vi è trascendenza
(l’al di lè). Per conseguenza: 4) tutti i tentativi odierni di immanenza e super-immanenza contrastano con
le conclusioni stesse di quel pensiero moderno o critico a cui si richiamano e perciò sono essi delle
sopravvivenze; 5) il problema dell’assoluto come fondamento del sapere e del
volere si pone innanzi tutto, anche se non esclusivamente, come problema della ragione dell’esistenza
umana, valida non per l’umanità in
generale, bensì per ogni singolo uomo,
cioè come problema dell’altro, ma dell’aliro dell’uomo e non dell’ altro mondo, come problema dell’a/ di
lè dell’uomo (e perciò anche come suo
destino) e non in un senso soltanto
naturalistico dell’al di lì del mondo fisico. Se non vi è una metafisica cristiana, vi è un modo cristiano
d’intendere la metafisica; il
Cristianesimo non è una cosmologia, ma innanzi tutto, civitas hominis, qui,
Civitas Dei, al di là .. Questo modo d’intendere la metafisica non è
soltanto nostro ma predominante da quando la più recente filosofia
contemporanea si è posto il problema con insistenza e in termini espliciti; da quando metafisica ed ontologia
non sono più solo ricordate
come mere parole cadute in disuso ed archiviate. Un ritorno della
metafisica non solo come esigenza ma
come dimostrazione della trascendenza, ricerca di un assoluto come principio
dell’esistenza è la posizione più vitale
di una parte del pensiero odierno, che non segna un salto indietro nel
processo della filosofia, ma è la continuazione del pensiero moderno, le cui conclusioni autorizzano
la più profonda revisione delle sue premesse. Noi diciamo dunque che la vera conquista del pensiero moderno, non è
il principio della creatività
dello spirito e conseguentemente dell’immanenza, ma la riconquista,
attraverso il processo critico, della
sua creaturalità e perciò della
trascendenza, riscoperta nel suo autentico significato spirituale datole dal
pensiero cristiano, che venne ad arricchire ed anche a trasformare quello
cosmologico e naturalistico, proprio della metafisica greca. 4.
Gli esseri e l’Essere. L’ Atto creatore. La creaturalità il sentirsi creature è l’atto primordiale della coscienza: nel
momento stesso che avverto anche confusamente di essere, avverto che non sono
da me, che sono esistente , cioè da
altri; avverto, dunque, attraverso i limiti del mio essere, che un
(/") essere non limitato, mi ha fatto esistere . La
presenza di me a me stesso importa
la presenza mediata analogica in me dell’Essere, senza
della quale non avvertirei il mio limite (e dunque l’Essere da cui sono) e
nemmeno saprei di essere. Io-sodi-essere (cogito ergo sum) in quanto la
presenza dell’essere in me, l’idea
dell’essere, rende possibile che lo sappia; cioè fa che io sia un essere pensante. Penso
perchè mi è data l’idea dell’essere (non
che il pensiero la ricavi per astrazione o per
altro, o la crei), per la quale esso è conoscenza e innanzi tutto coscienza di sè: non il pensiero fonda
l’essere, ma l’essere fonda me pensante, donandosi come idea o oggetto. Io sono innato a me stesso nel senso che
l’idea dell’essere per cui il pensiero
pensa e ad esso è data è quella per cui
acquisto coscienza del mio essere che è dall’Essere: penso perchè
sono stato pensato ; e siccome non mi è dato l’essere assoluto se così fosse, me lo sarei dato io
stesso in quanto è dell’assoluto essere
principio di se stesso con quella del mio essere, ho coscienza del
limite e perciò dell’Essere da cui sono io, essenza spirituale incarnata in un
corpo, esistente concretamente, questa essenza qui. Il pensiero che è
tale per la presenza della verità
avverte una duplice presenza di essere: dell’essere (il mio)
contingente, che, come tale, è
dall’Essere necessario che trascende il mio essere come l’assoluto il
relativo, e il pensiero come il reale il possibile. L'atto del pensare importa una duplice ontologia:
realtà degli esseri e realtà dell'Essere, come importa l’intuito fondamentale
della verità, fondante il pensare. Vi è dunque l’essere come idea, gli esseri come esistenti, finiti
e relativi, l’Essere come esistente
infinito e assoluto: il principio primo del
sapere; gli oggetti reali conoscibili tramite l’esperienza sensibile, il Soggetto realissimo, fine di
ogni conoscenza, ma, come tale,
aspirazione infinita mai appagata nell’ordine
umano e naturale. Ma aspirazione ben fondata, in quanto l’Essere realissimo non è una possibilità,
una pura Idea della ragione o un dover
essere, ma è, esiste, come attestano il
mio esistere e il mio pensare. Infatti, il mio esistere da la mia creaturalità importa l’esistenza del 44 cui io sono, cioè dell'Essere realissimo assoluto; come il
mio pensare, che è tale per la presenza
della verità che non è la Verità in sè,
importa l’esistenza dell’Essere-Verità, che la mia mente 207 costruisce; da Lui anzi è stata fatta lume di
intelligenza per mezzo dell’ astrazione
originaria coincidente con l’atto creativo. D'altra parte, l’essere io come gli
altri esseri, una essenza
esistenziata questa qui importa che sono un essere singolo, persona; dunque l’Essere che
mi ha creato mi ha fatto e mi fa
esistere non può essere un gd, un essere impersonale, ma è anch’Egli Ego,
Persona, l’Altro assoluto, la Persona
assoluta da cui sono. Nel momento stesso
che mi so come singolarità, avverto in me la presenza della Singolarità assoluta da cui sono: sapermi è
riconoscere che Dio è; sapermi è,
dunque, cogliere la mia realtà ontologica e con essa la sua radice; è ancora,
come atto di riconoscimento , un sapere
che è supremo atto morale. Sapermi da è
volermi per: conosco che esisto da Dio e voglio esistere per Lui: essere da e
per l’Essere. Perciò l'oggetto del mio
pensare è infinito come infinita è la presenza della verità in me, che nessun
essere creato adegua; del pari infinito
è l’oggetto del mio volere (amare) come infinita è la sua forma, che nessun essere voluto compie e
appaga. Se in ogni mio atto di pensiero
e in ogni volizione io non so che Dio
122 Filosofia e Metafisica
esiste come Esistente supremo e assoluto, creatore di ogni esistenza, e non lo riconosco o lo amo nè
desidero conoscerlo anche quando conosco e desidero altro, non so, disconosco e dunque igroro. Perduto il senso creaturale,
ho perduto il senso di me stesso e di
ogni realtà: è la caduta del mio essere
nel nulla; è l’essermi fatto estrinseco a me stesso e perciò al mio pensiero,
per cui la presenza di Dio resta muta
nell’assenza di me a me stesso. In
questa metafisica di necessità appena
accennata il concetto fondamentale è
quello di creazione, non presupposto ma razionalmente dimostrato: ogni cosa che
esiste e non ha in se stessa il
principio del suo esistere, rimanda al
principio che l’ha prodotta; siccome le cose create sono esseri viventi e pensanti secondo un ordine
loro intrinseco, il Principio primo non
può che essere l’Intelligenza suprema, la quale
siccome ha voluto creare è
anche suprema Volontà; dunque,
Intelligenza che è Persona. Il concetto
di Ens realissimum non basta per una metafisica
che vuol tener conto della teologia cristiana. La creazione è dunque l’atto primo assoluto fondante la
esistenza degli esseri, l’atto supremo
dell’esistere degli esistenti.
Aristotele ha definito la metafisica ocopia zowtn, la scienza dell’év n 6v, dell’ente in quanto
ente, cioè la scienza degli elementi e
delle condizioni dell’esistenza in generale
(ogni essere è potenza ed atto; è determinato ad esistere dalla causa efficiente e dalla causa finale), ma
l’Essere o Dio è la condizione suprema
dell’esistenza di tutti gli altri (*). Per
Aristotele ancora reali sono gli individui, cioè le essenze Anzi, per
Aristotele, l'oggetto della metafisica è soltanto l’ente divino e perciò la praocopia rpéòrn s’identifica con
la puiocopla deodoyix. Ma si tratta come ha dimostrato lo Jaeger di due fasi del suo pensiero. S. Tommaso
intende la metafisica (transpàysica) in senso cristiano (Dio primo motore, fine ultimo, principio e giudice della
morale; immortalità dell’anima individuale, ecc.) per cui l'oggetto di essa è
identico a quello della teologia (differiscono nel modo di conoscere). Di qui
la definizione di S. Tommaso: aliqua
scientia adquisita est circa res divinas scilicet scientia metaphysica
(S. T., II, 2, IX, 2 ob. 2).
concretamente esistenzi: una data cosa è ( 7: È) ed è questo ( Tè dì ), quale, quanto ecc. L'essere
è ogni cosa, ma appunto è qualche cosa
avente una certa natura, qualità, quantità, ecc. Accettiamo la definizione che
il reale individuo è una essenza esistente, cioè avente certi caratteri; ma,
come sappiamo, per Aristotele, non vi è scienza
del reale individuale, in quanto la scienza è dell’universale. La razionalità è dell’essenza
desistenzializzata e non dell'essenza esistenziata, per cui alla scienza o
conoscenza di tipo aristotelico
l’esistente è indifferente: suo oggetto sono
le pure forme intelligibili. La scienza non può dirmi chi sono; mi dice qual’è la mia essenza, che è
mia e di altri, ma io non sono pura
essenza, bensì essenza mia, singola,
concretamente esistente. La scienza aristotelica trova nel singolo il suo limite esistenziale,
lascia aperto il problema dell’intelligibilità del reale individuale. In fondo,
la metafisica di Aristotele, dei due
principi del reale forma e materia
guarda più alla prima che alla seconda, all’essenza pura anzichè
all’essenza che esiste, meglio, alle singole essenze che esistono; ma a me,
essere esistente, importa la mia essenza esistente. Pertanto, il problema
della metafisica come scienza degli
esseri, cioè di chi e che cosa è
l’esistente in quanto tale, ci sembra quello del supremo atto di esistere, del principio primo dell’esistenza
individuale, cioè l’atto di
creazione. Io sono
un’essenza-esistente: lio sozo il fatto
che esisto pone il problema del mio
esistere, pone me stesso come problema.
Se sono da Qualcuno, Egli mi 44 pensato;
se mi ha pensato, sono da una sua idea; dunque il Qualcuno è Intelligenza; se mi ha fatto esistere, mi
ha voluto, dunque è Volontà che ha voluto che io esistessi e mi vuole e mi ama ancora per il fatto che continuo ad
esistere. Jo sono un'idea di Dio, voluta
da Dio; tutti gli esseri sono idee di
Dio, volute da Dio: pensate e volute una per
una, singolarmente. Il mondo è un’Idea pensata e voluta da Dio. Il reale
in quanto reale è verità (ens e: verum
convertuntur, in un senso qui differentissimo da quello dello Hegel), secondo l’immortale scoperta di
Platone, che abbiamo fatto nostra attraverso la trasposizione di Agostino e il ripensamento del Rosmini. Idea (verità)
qui significa singolarità: Dio crea i
singoli come singoli e ciascuno di essi
conosce e vuole come singolo. Le idee divine non sono i nostri concetti
astratti, ma atti creatori, viventi; feconde, factivae rerum. La conoscenza
discorsiva 0 per concetti non esprime
questa singolarità, ma solo un elemento dell’esistenza concreta, la quale è espressa da quelle forme
superiori di conoscenza, che pur la
includono, come per esempio l’atto morale, in cui la relazione è da persona a
persona, da esistente ad esistente; che
è tale solo per la presenza del supremo
atto di esistere, per cui il singolo è singolo e riconosce l’altro come
altro. Questa consapevolezza non dà
però il possesso dell’atto supremo
dell’esistente, trascendente ogni esistere; ne attesta solo l’esistenza e accende nella creatura il
desiderio del possesso: la conoscenza dell’atto supremo di ogni esistente è
il limite assoluto della metafisica. Qui
la filosofia si ferma e si apre alla
religione, come quella che ha scoperto l’uomo
all'uomo, gli ha rivelato la radice del suo essere, il significato del suo vivere, la finalità del
suo pensare e del suo volere. Questa
filosofia è metafisica sic et simpliciter, che non contrasta, come crede lo
Scheler, con la religione, ma ne è la
preparazione razionale. È vero, come
dice Heidegger, che il limite del mio esistere, dato dal fatto che l’esistente non trova in sè ma sopra di
sè l’atto del suo esistere, scopre le
mie possibilità, il mio destino, ma non
nel senso della finitezza
inesorabile e della nullità
(Nichtheit), in cui tutto il mondo resta sprofondato (herabgesunken), bensì nell’altro della. mia
possibilità suprema di poter essere tutto il mio essere nella suprema apertura
all’Essere. L’In-der-Welt-scin è essere-nel-mondo, ma per essere-per-Dio.
Proprio la finitezza implica il riferimento
all'infinito: non chiude ma apre
l’orizzonte. Non dal nulla nasce
l’essere, ma dall’Essere nasce il mio essere, per cui il problema dell’essere concreto gettato nel mondo , non pone quello del
nulla, ma l’altro dell’Essere assoluto. Freiheit zum Tode: Sein zum Tode,
certamente; ma in quanto la morte,
direbbe Platone, è passaggio all’evidenza di quell’ordine (il vero) ontologico,
che, qui, l’uomo non può mai cogliere
con le sue sole forze. Realtà è verità:
io sono una verità di Dio e perciò sono qualcuno che è e non nulla. Dio è
l’Essere Verità creante, Logos, e ha
fatto che io fossi, pensandomi e volendomi; Verità illuminante e perciò ha
voluto darmi il lume della intelligenza
e della ragione, affinchè di Lui leggessi l’orma in tutte le cose e soprattutto
ne ascoltassi la presenza in me, Lo
volessi sempre senza mai interamente possederLo. Non posso strappare il mio
essere dalla sua radice, staccarlo dalla
sorgente; dunque sono attratto irresistibilmente 4/ di lè: ogni uomo è per
natura metafisico. La verità, dice Agostino (De vera relig., XXX I, n. 66), è
quella quae ostendit quod est: per quel
che io sono, sono vero. La verità
assoluta è l’Assoluto Essere, verità creatrice a cui le cose sono simili: in quantum similia... in
tantum sunt (tvî). Io ho dell’essere o
del vero, non sozo l’essere o il vero, ma
appunto perchè ho e non sono, sono per l’Essere o il Vero. Il possesso della verità non è il mio stato
attuale, ma la mia finalità ultima, che
l’intelligenza e la ragione mi indicano,
ma che non bastano per farmela conseguire. Nello stato attuale debbo cercare o amare perfecte quaerere ciò a
cui tendo, ed oltrepassarmi. In un lunghissimo articolo di più che 60
pagine, I! concetto di Metafisica e lo Spiritualismo cristiano, pubblicato nella
Rivista di filosofia nescolastica, Olgiati, traendo lo spunto dal
fascicolo (IV-V, 1947), che questa
Rivista ha dedicato alla metafisica, oltre
che da altre pubblicazioni sullo stesso argomento, prende in esame quell’indirizzo di pensiero ormai noto
in Italia e all’Estero sotto il nome, del quale sono responsabile, di Spiritualismo cristiano . Naturalmente terrò presenti in questa
risposta solo le obiezioni che mi
riguardano direttamente e di esse in special modo quelle che toccano
l’essenziale. Debbo ancora dire che,
alcune di esse hanno già avuto risposta, spero
chiaritiva, in molte pagine raccolte in questo volume. Ciò mi obbliga a non dilungarmi oltre il
necessario, sia perchè i punti della discussione si possono precisare e
chiarire brevemente, sia per non
ripetermi. Premesso qualche rilievo,
accennerò ad alcune questioni marginali; m’intratterrò da ultimo su quattro punti essenziali. Monsignor Olgiati riconosce onestamente che
la posizione metafisica che io difendo e sostengo rappresenta un
così largo e diffuso indirizzo di idee
che, se dovesse valere Concetto
di Metafisica 127 il criterio della
maggioranza, Aristotele e S. Tommaso
non raccoglierebbero oggi se non
pochi voti ; e aggiunge: Fortunatamente
nel campo nostro non contano le adesioni, ma
le ragioni (18). Mi permetto
domandare a Mons. Olgiati: e che
pensiamo delle ragioni senza adesioni? fino a che punto valgono? la verità è sterile o è feconda? le
adesioni, guantunque da sole non costituiscano la verità di un principio, non
sono indicative della sua presa e della sua forza? Si aggiunga che queste adesioni non mancano
da oggi, ma ormai da secoli. Quanto nel
pensiero moderno, dall’Umanesimo in poi, ancora continua efficacemente il
pensiero tradizionale ed ha avuto
influsso nel corso della civiltà, è
platonico-agostiniano: così Ficino ed il neoplatonismo fiorentino,
Cusano e Campanella, Malebranche e Pascal, Vico
e Rosmini, Gratry e Blondel ecc. ecc. Si faccia eccezione di Suarez e di Balmes ed oggi di qualche
studioso di primo piano e mi si dica quale
è stata ed è l’influenza feconda e
fecondatrice del tomismo negli ultimi sette secoli del pensiero occidentale. Ho detto del tomismo,
non di S. Tommaso, che è operante anche nella tradizione, diciamo così,
agostiniana, come Agostino è profondamente operante nel pensiero del Santo di Aquino, secondo che
hanno dimostrato gli spiritualisti cristiani e non pochi eminenti tomisti.
Sarei quasi tentato di dire che il tomismo, almeno storicamente, sia in buona parte responsabile
della poca efficacia di Tommaso. Ecco
perchè io non metterei così insieme,
quasi due fratelli siamesi, Aristotele e l’Aquinate se non altro per non compromettere
quest’ultimo addossandogli indiscriminatamente alcune responsabilità non sue.
Ed ora qualche accenno a questioni marginali.
a) Mons. Olgiati nel suo articolo ritiene indispensabile innanzi tutto richiamare il concetto di
metafisica sia come è inteso da Zui
secondo i principî della filosofia classica ,
sia come è inteso da me (4). E il mio, che si appoggia a Platone ed Agostino senza affatto
trascurare Aristotele e S. Tommaso, non
è inteso secondo i principî della filosofia classica? o i principî della
filosofia classica sono quelli di Aristotele,
soli soli, senza che si possa mutare una virgola, monopolio della Neoscolastica
di Milano? Secondo Olgiati, io (e il Blondel) non ho il concetto del concetto ; ma come avrei potuto
formulare lo stesso tema: Che cosa è metafisica (cioè qual'è il concetto della metafisica),
se questo ben dell’intelletto mi fosse
mancato? Il concetto del concetto non è mai mancato a nessun uomo al mondo, anche prima che Socrate
scoprisse il concetto: si tratta solo di
intenderlo in maniera astratta o
concreta. Nè io nè Blondel neghiamo il valore della ragione o dell’intelletto, senza di cui l’uomo
cesserebbe di essere uomo, la filosofia
filosofia e il pensiero pensiero. E ciò ho
detto e ridetto in ogni circostanza, perchè questo ritornello mi è stato cantato altre volte; altrettante è
stato da me detto e ripetuto che dalla
ragione non si può prescindere e che il
problema primo è quello della verità senza di cui non c’è neppure carità. Credo superfluo insistere
su questo punto, non senza però cogliere
l’occasione di dire che è mio desiderio che venga tenuta distinta la mia
posizione, quale che sia, da quella del
Blondel. Che io abbia simpatia per il pensatore francese è vero; che il Blondel
abbia contribuito a formarmi
intellettualmente e da me sia stato difeso a viso aperto da fraintendimenti ed
accuse infondate, è anche vero; ma che
io l’accetti in pieno e sia blondeliano è assolutamente gratuito. Perciò non
comprendo come l’Olgiati possa scrivere
che rispetto al Blondel io sia ancora nel
periodo del primo entusiasmo
(61). Niente affatto: non
primo perchè l’influenza diretta
ed evidente del Blondel c'è già nelle
Linee di uno spiritualismo critico di tredici
anni or sono (1936); nè
entusiasmo (ma che Mons. Olgiati
pensasse al suo per Aristotele?) perchè non ho entusiasmo per nessuno, ma solo
per la Verità e dunque per ogni
pensatore, quale che sia, per quel tanto di verità che contiene. Ed è per quel tanto di verità in
essa contenuta che ho difeso la
filosofia blondeliana in più di una circostanza ed ho polemizzato contro quanti
Blondel hanno spesso criticato senza
neppure leggerlo. La verità va rispet
tata dovunque s’incontri per il fatto che è verità. E credo che Mons. Olgiati avrebbe fatto meglio a mettere
in vista quel poco di verità che
contiene lo Spiritualismo cristiano degli
altri e mio, quel minimum comune, fondamento per intenderci anche
attraverso la discussione e i dissensi. I casi sono due: o lo Spiritualismo cristiano ha una sua
verità ed è bene partire da questo
consenso fondamentale; o non ne ha alcuna
ed allora è inutile discuterlo.
c) In un punto del suo articolo (38) l’Olgiati scrive che io posso replicargli che non afferra
la mia idea precisa colui che mi
muove simili critiche . Sono costretto a dirgli, dopo aver letto attentamente il suo articolo,
che egli ha proprio ragione: le sue critiche mi sembrano provare che non abbia afferrato la mia idea precisa. E lo
dimostrerò replicando sui punti essenziali, oggetto di questo nostro dibattito.
Il primo punto di dissenso, pur non così radicale come crede l’Olgiati, concerne i concetti di
filosofia e metafisica. Per Mons.
Olgiati, vi è una metafisica iniziale presente in ogni filosofia, quale che sia: non c’è
filosofo che possa filosofare senza
avere, sia pure implicitamente, una sua concezione del reale, cioè senza avere
risposto alla domanda metafisica di che
cosa è la realtà in quanto realtà; ma chi
ha una concezione del reale quale che sia, ha una sua metafisica; dunque
non c’è filosofo o filosofia anche quei
filosofi e quelle filosofie che si dicono antimetafisiche che non nutra nel suo seno una metafisica,
altrimenti non potrebbe mai aspirare ad una spiegazione filosofica
della realtà. Questo il punto di vista di Mons. Olgiati, il quale certamente si
meraviglierà che io dica di essere d’accordo con lui, cioè: è vero, non c'è filosofia che sia
tale, la quale non sia metafisica, come
vado ripetendo da anni, dal Programma metafisico, redatto assieme all’Aliotta,
della Rivista Logos del 1937, alla
Necessità di una coscienza metafisica, articolo pubblicato nello stesso Logos e riprodotto e discusso in quell'epoca
da una decina di riviste. E allora,
dov'è il dissenso? Ecco: per me oggi è diffusa,
e purtroppo anche accreditata, la pretesa che si possa fare filosofia abolendo la metafisica, cioè
esimendosi dal rispondere alla domanda considerata inutile o inesistente, di
che cosa è la realtà in quanto realtà.
L’Olgiati è pronto a ribattere: ma questa non è filosofia . Appunto: è
proprio quello che ho detto anch'io
nell’articolo che si discute come
altrove, e qui ripeto. È proprio qui la crisi della metafisica o della filosofia: non nell’avere anche
inconsapevolmente una quale che sia
concezione della realtà in quanto realtà,
ma nel rinunziare consapevolmente a questo problema e pretendere di fare ugualmente filosofia e di
spacciare per vera quella che abolisce o
ignora il problema metafisico. La crisi
di una disciplina è manifesta quando si nega il suo oggetto proprio e ad essa essenziale perchè
di essa costitutivo e si continua a dire che, anche così negata nella sua essenza,
è ancora viva come quella disciplina. Nel caso nostro si dice che è filosofia la non filosofia , cioè il suo
contrario; è come dire che è falso il
vero ed è vero il falso. Quando nego che
queste filosofie hanno una metafisica, contro l’Olgiati che dal suo punto di vista sostiene
il contrario, e con ciò che siano
filosofie, voglio chiarire un equivoco dannosissimo e richiamare l’attenzione
di questi cosiddetti filosofi sul punto che sta a cuore all’Olgiati e a
me: prescindete pure dalla metafisica ma
non parlate più di filosofia in quanto questa cumincia con la domanda
metafisica; voi dovete ancora incominciare a filosofare, anche se vi
chiamate filosofi o anche se la gente
ignara e volgare vi considera tali .
Vorrei che Mons. Olgiati fosse d’accordo su questi punti
e non può non esserlo perchè l’accordo c’è: una pura descrizione fenomenologica o empiricamente
psicologista è metafisica o filosofia?
No di certo, perchè non pone nè
sottintende il problema metafisico; eppure quante di queste descrizioni oggi si dicono filosofie e
passano per tali? Una pura ricerca
metodologica, scientifica o storicista, è metafisica? I metodologi non dicono
che il reale, in quanto reale, è il
fatto storico o altro, ma in altro modo e cioè:
noi ci interessiamo solo del
fatto, del fenomeno, dell’evento senza
preoccuparci cosa sia il reale, o se vi sia un reale o no; ed aggiungono che questa è filosofia. Io dico
di no, che non lo è, appunto perchè
manca di una metafisica e non si pone il
problema metafisico. Evidentemente la filosofia incomincia (e perciò non è scienza, nè storia, nè
economia, nè altro, quantunque questi
problemi possano debbano essere
posti filosoficamente come problemi del valore e del senso ultimo
metafisico della scienza, della
storia ecc.), quando non ci si ferma al
fatto e alla descrizione di esso, ma si va
al di là, se ne cerca metafisicamente la intelligibilità profonda, la
sua verità nella verità. Riassumendo:
Mons. Olgiati vuole mettere i cosiddetti
anti o ametafisici con le spalle al muro, così: se fate della filosofia, non potete sfuggire alla domanda
metafisica di che cosa è il reale in
quanto reale, perchè tale domanda è essenziale ad ogni filosofare; pertanto,
quando negate la metafisica, siete in contraddizione con voi stessi, perchè la
filosofia, ogni filosofia, ne contiene una ineliminabile; io invece voglio dimostrare loro che chiamano filosofia
quella che non è tale. E su questo punto
mi pare di aver ragione: a chi abolisce
il problema metafisico e la domanda di che cosa è la realtà in quanto realtà, non si può dire
che sia in con traddizione, ma gli si deve dire: quella che voi chiamate filosofia non è filosofia, perchè chi fa a
meno della metafisica fa a meno della filosofia; voi spacciate per genuina una merce falsa. Che siano in contraddizione
glielo concedono subito all’Olgiati, soddisfattissimi di esserlo. Crede infatti l’Olgiati che i filosofi dell’assurdo e del nulla temano di essere in contraddizione, loro che
ormai hanno paura dell’essere e della
verità? Gli dicono che appunto la loro è
una metafisica della contraddizione e del nulla e 1’Olgiati dovrà acconsentire
che anche questa è una metafisica, cioè
che è metafisica la negazione dei due elementi essenziali di ogni metafisica:
l’essere e la razionalità. L’Olgiati si
meraviglia come non riesca a capacitarmi che
filosofia senza metafisica è un
assurdo (6); mi consenta che io mi meravigli come egli non si accorga che
sono perfettamente d’accordo con lui. Ma io aggiungo che oggi si pretende di
fare filosofia senza metafisica ed ho voluto dimostrare che tante
cosiddette filosofie odierne, più che contradditorie ed assurde
perchè si dicono antimetafisiche mentre una metafisica ce l’hanno, non sono
filosofie affatto perchè di fatto
rinunziano ad averne una. Aggiungevo però:
pur privi di una metafisica, come posizioni di un pensiero quale che sia, portano in loro immanente, intrinsecamente, l'esigenza indistruttibile ed ineliminabile
della metafisica . E questo perchè si
può sospendere la risposta alla domanda
metafisica, ma, ovunque vi sia un pensiero e un uomo che pensi, non si può sopprimere la sua esigenza.
Mi pare che la mia critica sia più
efficace: negare ad ogni filosofia che
rinunzia al problema metafisico l’usurpato diritto di considerarsi tale
e d’altra parte costringerla a riconoscere nello stesso tempo che pure ad essa, come ad ogni
posizione di pensiero, è intrinseca
l’esigenza metafisica, che si può misconoscere solo per difetto di
approfondimento critico. Ma si è che
Mons. Olgiati non vuol sentir parlare di
esigenza , quasi questa parola
sia una sgrammaticatura insopportabile
dalla correttezza dei linguaggio filosofico. Olgiati è rimasto quasi
scandalizzato qualche tomista, com’egli
informa, di occhi evidentemente molto delicati,
si è meravigliato come io abbia potuto prendere simili abbagli della mia affermazione che metafisica è uguale trascendenza ; d’altra
parte, io accetto la definizione aristotelica della metafisica come scienza di che cosa è la realtà in quanto realtà . Il mio critico obietta:
tra le due tesi c'è contraddizione (30);
poi si avvede che, almeno per me,
contraddizione così grossolana non c’è e si sforza di intendere meglio il mio punto di vista. Io
non vedo, se mi si fa dire quello che
dico, dove sia mai la contraddizione. L'equazione da me affermata e chiarita di
metafisica e trascendenza non può essere
intesa alla maniera dell’Olgiati e cioè:
bisognerebbe concludere che la metafisica non è
la scienza dell’ente in quanto ente, perchè non ogni ente è il Trascendente (30). E’ evidente; ma con simili
interpretazioni la discussione non farà mai un passo apprezzabile. La mia
affermazione significa solo questo: se metafisica è scienza di che cosa è la
realtà in quanto realtà essa porta
implicito il problema del fondamento primo incondizionato del reale, e dunque è
implicitamente trascendenza, in quanto il fondamento del reale non può
essere immanente al reale stesso e della
sua stessa natura perchè, in tal caso,
sarebbe ancora un elemento del reale e non il
fondamento primo di esso. Le soluzioni immanentistiche pertanto sono apparentemente metafisiche, in
questo senso: se il fondamento primo del
reale, che è anche la sua finalità
ultima, è immanente e della sua stessa natura, noi ancora ci poniamo il problema della fisica
e non quello della metafisica ,
che significa transphysica, cioè scienza dell’al di là della fisica e dunque trascendente il reale
dell’ordine naturale. Con ciò volevo dimostrare che le filosofie immanentistiche,
appunto perchè tali, quando si pongono il problema metafisico, in realtà non pongono questo
problema, ma, essendo immanentistiche, ripongono come problema metafisico
ancora quello fisico , risolvendo così
(cioè dissolvendo, negando) la metafisica nella gnoseologia, nella scienza.
Detto ciò, è chiaro che non bisogna ridurre tutta la metafisica alla trascendenza, nè
confondere il concetto di filosofia
con quello di metafisica , ma è
anche evidente che non c’è metafisica vera che non concluda razionalmente alla
trascendenza del Principio primo della realtà,
nè c’è filosofia ove manchi metafisica, che è la sua essenzialità, in
quanto condiziona ogni altro problema filosofico. Che poi la mia trascendenza
(32) me la concedono tutti (da
Spinoza a Hegel, ad altri), non ci credo affatto, o meglio me la concederebbero se essa fosse
come la intende il mio critico, con un
fraintendimento che mi ha sorpreso.
Mons. Olgiati mi ammonisce che
per avere una trascendenza compatibile con uno spiritualismo
cristiano... occorre che tale principio
assoluto sia essenzialmente diverso dal
dato e dalla totalità del dato stesso
(32). E chi ha mai detto
diversamente? Nel passo che egli cita, infatti, parlo di oggetto della ricerca che trascende la
ricerca stessa e se la trascende non
dipende da essa ed è di altra natura; di
un principio assoluto che fonda e condiziona il mio ed ogni filosofare e perciò trascende il pensiero e
se lo trascende è di natura diversa dal
pensiero e dalla totalità di tutto l’ordine naturale ed umano. Ed è questa la
trascendenza che mi concederebbero
Spinoza, Hegel e chi so io? Si è che
l’Olgiati interpreta tutto il mio passo immanentisticamente. Un momento: non mi ha poco prima, se non
ricordo male, rimproverato che
metafisica per me è uguale a trascendenza?
Dunque, secondo il mio illustre contradditore, io dico che metafisica è trascendenza e poi riduco la
trascendenza alla immanenza. Prego Mons.
Olgiati di non muovermi obiezioni tra loro contraddittorie. Chiariti questi punti
essenziali, posso risparmiarmi di rispondere alle altre intorno allo
stesso argomento, che ne sono la
conseguenza. A conclusione di questa
parte del suo articolo l’Olgiati mi fa
due domande perentorie: 1) E’ vero o non
è vero che ogni pensatore ha di fatto e
non può non avere un concetto di realtà,
il quale influenza ogni concetto del sistema?
(35). Mi pare di aver risposto sopra abbastanza chiaramente e di aver dimostrato come vi
siano delle cosiddette filosofie che di fatto aboliscono il problema della
metafisica. 2) E’ vero o non è vero che il problema della trascendenza non è il prius, ma si collega al
problema del concetto di realtà in
quanto realtà? (36). Ho risposto già anche a questa domanda, chiarendo in che
senso per me metafisica sia uguale a
trascendenza. Non è questione di prius
nè di posterius, ma di insidenza del concetto di trascendenza nella stessa domanda metafisica.
Se metafisica è, in fin dei conti,
ricerca del principio primo del reale,
cioè del suo fondamento primo ed ultimo, in questo senso la metafisica è implicitamente ricerca del
principio trascendente del reale stesso, in quanto l’immanenza del
principio fa di questo un elemento o la
totalità degli elementi del reale
naturale e come tale non più transfisico. In questo senso, le soluzioni immanentistiche del problema
essenziale della metafisica, cioè del principio primo, sono metafisiche solo
apparentemente, in quanto, se il principio non è transfisico, se non trascende, non è ancora il cercato
principio primo del reale, ma il reale
stesso posto come principio di sè a se
stesso. Soluzione erronea e dunque apparente, perchè l’errore non è
reale ed è reale solo la verità. E la verità
della metafisica è la trascendenza, senza che ciò significhi che tutti i
problemi della metafisica stessa si riducano a quello della trascendenza,
quantunque resti vero e dimostrato che
il problema del principio primo li subordini
tutti. Quanto all’altro
avvertimento di Mons. Olgiati che l’esigenza non basta perchè non è dimostrativa
(evidentemente) ed è necessaria la
dimostrazione razionale dell’esistenza di
Dio, mi dispenso dal rispondere: proprio quando egli scriveva queste sue
critiche, avevo già redatto il mio studio
sull’Esistenza di Dio, pubblicato poi nel Giornale di metafisica . Se l’Olgiati avesse
tenuto presente, oltre all’articolo sulla metafisica, altri miei lavori, credo
che le sue obiezioni avrebbero avuto
un’altra impostazione e parecchie di
esse le avrebbe risparmiate a lui e a me. Più gravi fraintendimenti son
costretto a lamentare a proposito delle
obiezioni che Mons. Olgiati muove al concetto di interiorità, considerato in
rapporto alla metafisica. Egli parla di esigenza
dell’interiorità (p4, 36 e passim);
dell’interiorità come aspirazione
, anelito ecc. (34);
ma l’interiorità è molto di più e di diverso: è presenza e vita della verità in me. Evidentemente io parlo di metafisica dell’esperienza interiore
nel senso agostiniano dei termini; e dunque qui non si tratta di origine psicologica della
ricerca filosofica nè di cose simili,
bensì di una metafisica che muove dal dato
reale più ricco ed eminente nell’ordine della natura, che è la vita spirituale; ed è proprio dall’analisi
del dato reale-uomo (o dati reali sono
solo le cose? forse l’esperienza interiore
non è altrettanto esperienza e più valida di quella esteriore ?) che scaturiscono la trascendenza e la
dimostrazione dell’esistenza di Dio in termini di assoluto rigore razionale. La
metafisica è scienza della realtà in quanto realtà; tra gli enti reali c'è l’uomo che è spirito e lo spirito è
realtà; dunque perchè non posso prendere
le mosse dall’uomo inteso come realtà
spirituale e dallo spirito come interiorità nel senso agostiniano?
L’Olgiati non vede come possa conciliare la tesi metafisica uguale trascendenza con l’altra di
una metafisica interiore (ossia di una metafisica uguale immanenza). Sfido che non lo vede se mi scrive che
interiorità è uguale ad immanenza; ma
che colpa ho io se lui non vede? Proprio
l’opposto, infatti: l’immanenza è la negazione dell’interiorità, la quale, intesa correttamente, importa la
trascendenza non fondata su dati
puramente psicologici, ma sul dato reale che
è lo spirito; non sui sassi e le zucche, per usare i termini adoperati da Mons. Olgiati. Al quale pongo
una domanda precisa: l’interiorità di
Agostino è trascendenza o è immanenza? Se è trascendenza, la mia è trascendenza
e la sua obiezione non riguarda il mio
modo di concepire l’interiorità; se invece per lui è immanenza, ebbene, con
tutto il rispetto che ho per la sua
autorità, resto con Agostino, sicuro di non rischiare l’immanenza e lascio a
Mons. Olgiati la responsabilità delle
sue gravi affermazioni. La verità è che
l’Olgiati tiene presente l’interiorità così come è intesa dal pensiero moderno e contemporaneo.
Infatti, a pag. 43 egli scrive: la metafisica classica, ben lungi dallo
svalorizzare l’interiorità o dal trascurarne le esigenze, è la sola che salva l’una e può appagare le altre mentre,
sotto le apparenze mendaci dell’interiorità, la filosofia moderna e
contemporanea è orientata verso l’esteriorizzazione . D'accordo: la filosofia moderna, che ha creduto di
approfondire l’interiorità riducendola all’immanenza, ha negato l’interiorità autentica, la ha esteriorizzata. E non è
stato e non è ancora oggi proprio questo
il mio sforzo, quello di recuperare, contro la mendace interiorità del pensiero
moderno, la verace interiorità
agostiniana? Proprio su questo punto ho manifestato il mio aperto dissenso con
l'illustre amico Carlini, a proposito di
una discussione intorno al Vico tra lui e il professor F. Amerio ( Giornale di
metafisica nn. 5-6, 1948). Sono costretto a riportare alcuni passi che
mi sembrano la più soddisfacente
risposta a quanto mi obietta Mons. Olgiati:
Vi è qui un problema storico e uno teoretico, distinti evidentemente, ma non separati e separabili:
1) tutto il pen 138 Filosofia e
Metafisica siero
medioevale-scolastico è irretito nella metafisica greca (aristotelica) e nel carattere cosmologico di
quest’ultima? Evidentemente no, e il Carlini, maestro di storia della
filosofia, lo sa meglio di noi; nello
stesso S. Tommaso vi è più di Agostino
che di Aristotele, più di metafisica cristiana che greca, più senso d’interiorità di quanto non
sembri a prima vista... 2) Aggiungo
ancora ed il Carlini si scandalizzerà che il pensiero moderno, pur combattendo la
Scolastica, ha ereditato dalla
Scolastica proprio l’aspetto di essa più lontano da quell’interiorità che tanto
sta a cuore al Carlini e a me, cioè il
suo cosmologismo... 3) Non abbiamo osservato
tante volte il Carlini ed io (egli prima di me) anche al Gentile che la
trascendentalità idealistica è condannata all’esteriorità, a disperdersi nel
mondo, a negarsi come interiorità? che lo storicismo idealista è, in ultima
analisi, positivismo ed anche empirismo, dove quel che non si salva è proprio l’interiorità dello spirito ?... È
qui il punto della questione: l’idealismo immanentista ha decapitato
l’interiorità cristiana; ne ha accettato
il lato, diciamo così, immanentistico, ma l’ha privata della trascendenza che
le è essenziale, del trascende et te
ipsum, che è il suo principio e il suo fine
e senza di cui cessa di essere interiorità autentica e si perde nella scientificità, nella storicità, cioè
nell’empiria. Su questo punto noi non possiamo non essere che critici
intransigenti del pensiero moderno proprio per recuperare quell’interiorità che
esso ha finito per perdere (S., Il
pensiero moderno, Brescia, La Scuola, 1949, pag. 108). Mi permetta ancora
l’Olgiati di rimandarlo anche al vol. I del mio
S. Agostino (Brescia, Morcelliana) per risparmiargli la fatica di
continuare a portare vasi a Samo. E
giacchè siamo su questo tema, desidero pregarlo di non rimproverare più, almeno chi scrive, che lo
Spiritualismo cristiano si ferma alla pura esigenza. Gli concedo subito
che questa obiezione (parlo sempre
soltanto di me), fino a qualche anno fa, mi poteva essere mossa; oggi non più.
Se la mia personale posizione, quale che sia la sua minima importanza, ha un significato nella filosofia
contemporanea e soprattutto dentro lo
Spiritualismo cristiano e le correnti ad esso affini, è precisamente quella di aver tentato di
oltrepassare la posizione esigenziale: i miei ultimi scritti credo che non
lascino più dubbi a questo proposito.
Desidererei che Mons. Olgiati o altri ne
tenessero conto. L'ultimo argomento
dall’Olgiati discusso riguarda il
progresso a proposito del concetto stesso di metafisica. A questo proposito possiamo essere brevi. In
tutto il mio studio, come ha rilevato lo
stesso Olgiati, ho tenuto fermo il
concetto aristotelico, che è anche platonico, della metafisica come scienza della realtà in quanto realtà:
questo il concetto di metafisica e non
c’è progresso. Aristotele risponde: la realtà
in quanto realtà è l’ente; ma resta da precisare che è l’ente. Su questo punto l’Olgiati concede (58) che è
certo che nella storia della metafisica
classica S. Agostino e S. Tommaso non sono puramente e semplicemente ripetitori
di Aristotele, ma lo hanno fatto progredire, ed in qual modo! Chi non sa che è tollerabile parlare di S.
Agostino, come del Platone cristiano, e di S. Tommaso, come dell’Aristotele
cristiano, solo a patto di riconoscere nei due nostri pensatori uno spirito essenzialmente diverso e non
paragonabile a quello dei due pensatori
greci? Potrebbe quindi sembrare che la
storia deponga a gran voce contro di me. Anche perchè, prescindendo da ciò che
io penso a proposito della interiorità cristiana in metafisica e delle tesi di
Armando Carlini, è indubitato che dai principî della metafisica greca i grandi filosofi cristiani hanno saputo far
sgorgare conseguenze, che erano implicite in quei principî, ma che Atene non vi aveva intuito. Il problema del male e
il concetto filosofico di creazione, nel Santo d’Ippona e nell’Aquinate,
segnano sviluppi e progressi d’indole metafisica... . Dunque per la riduzione del concetto di realtà al
concetto di ente progresso c’è stato e
ci potrà essere ancora, senza che ciò faccia che non sia verità quello che di
verità si è scoperto. È evidente che
questo non significa progresso del concetto
di metafisica, di cui non c’è progresso, come non ce n'è, per esempio, del principio di contraddizione.
Mi pare però che subito dopo l’Olgiati
confonda i due problemi del concetto di metafisica senza progresso, una volta scoperto e
della metafisica aristotelica, quando scrive: come non progredisce la
definizione di triangolo o di circolo, quando
un matematico scopre un nuovo teorema a proposito dell’uno o dell’altro, pur essendo tale teorema
contenuto nel concetto di quelle due figure geometriche, così non si può
parlare di progresso nel concetto di metafisica, quando, ad esempio, si vede
che il concetto di ente in quanto ente, nel caso di un rapporto di non identità tra essenza ed
essere, conduce mediante un ragionamento
ad ammettere la creazione... (58). Che
il concetto di creazione non importi progresso.
nel puro concetto della metafisica è vero; ma qui si tratta di sapere se non ne ha importato nella
concezione metafisica aristotelica. È
stata tale rivoluzione il concetto di creazione, che non si vede affatto come possa reggere
l’esempio del triangolo o del circolo.
Teniamo distinti i due problemi ed il
progresso della metafisica da Aristotele a quella di Agostino e Tommaso è
innegabile ed immenso. Olgiati a pag. 43 scrive: lo S.... ha raccomandato di
non compromettere la realtà spirituale per
amore di una sopravvivenza pagana, per esempio aristotelica, della
filosofia come cosmologia, ossia per amore di una metafisica pagana ed il Carlini aderisce toto
corde a tale preoccupazione. Ma che
importa se la scienza dell’ente in
quanto ente è dovuta ad un pagano? Essa nonè nè pagana nè cristiana; è umana. Che la sua scoperta
sia dovuta ad un pagano nulla toglie al
suo valore, il quale non ha nessun rapporto col paganesimo. A noi sembra che
non è lecito qualificare come
naturalistica la metafisica aristotelica. Non
ci interessa l’4rimus di Aristotele che certamente non era quello di un santo medievale come lo era
quello di S. Tommaso . Tutto quello che non sembra preoccupare ed interessare
Mons. Olgiati a noi preoccupa ed interessa moltissimo. Precisiamo il nostro
punto di vista: quando il Carlini ed io parliamo di metafisica pagana e qualifichiamo come
naturalistica quella di
Aristotele, intendiamo dire che, dopo il
Cristianesimo, quella concezione metafisica
non diciamo il concetto di metafisica
va integrata: si tratta non di
abbandonarla, ma di completarla, come ha fatto S. Tommaso. Evidentemente in questo
completamento i termini assumono un
significato che, senza tradire quello che dà ad
essi Aristotele, lo oltrepassano. (Anche il Gilson è di questa opinione). Per esempio: di fronte al concetto
di creazione, che è il problema
esistenziale per eccellenza, l’aristotelismo può restare aristotelismo nella lettera e nello
spirito? Altro esempio: il Dio di Aristotele è fine totale come lo è il Dio
creatore del Cristianesimo? Non mi obietti Mons. Olgiati che qui entriamo nelle verità rivelate e usciamo
dal campo strettamente filosofico; gli
rispondo subito (e credo di essere
tomista) che fede e filosofia, senza confondersi, non possono restare estranee l’una all’altra, almeno per
uno spiritualismo che ci tiene a
qualificarsi cristiano. Il Dio creatore
per amore, insegnato dalla fede, è una
verità recuperabile dalla ragione; ed una volta recuperata porta una rivoluzione metafisica, che è
appunto quella apportata prima da Agostino nella metafisica dei cosidetti Platonici
e poi da S. Tommaso in quella di Aristotele. Ecco perchè il Carlini ed
io chiamiamo cosmologica e naturalistica
la metafisica greca di Aristotele come di Platone, e teologica e
spiritualistica quella di Agostino e Tommaso (quali che siano poi le differenze tra i due
pensatori) ed ogni altra che voglia
essere metafisica sì, ma anche cristiana. Aggiungo e certamente Mons. Olgiati
lo sa meglio di me che molti tomisti oggi sono orientati a mettere in luce
l’originalità di S. Tommaso rispetto ad Aristotele,
a rilevare più gli approfondimenti e gli avanzamenti anzichè le identità. La
Neoscolastica italiana ci tiene proprio tanto a restare ferma ad un S. Tommaso abbarbicato tutto allo
Stagirita e ad addossare al gran Santo le responsabilità della filosofia
aristotelica; a restare in un
isolamento anche rispetto a tutte le
altre correnti di pensiero
cristiano-cattolico, tomista o no
che comincia a diventare molto
(troppo) significativo ? Parrebbe di sì,
se Mons. Olgiati, con una espressione che mi ha turbato, arriva a dire che neppure gli stessi nobilissimi compiti
dell’apostolato (63) smuoveranno la
Neoscolastica che egli rappresenta. E a
che cosa la Neoscolastica non vuole
rinunziare? Ecco: al primato
della Luce che è Vita, ma che è Vita
appunto perchè è Verità e Luce. Certo; ma
questa Luce, che è Vita perchè la Vita è Verità e Luce non è più Aristotele; e se Aristotele leggesse
queste parole o le intenderebbe a modo
suo, paganamente e naturalisticamente, o
vi capirebbe poco o nulla. Il pagano cerca Dio solo nella natura (naturalismo); il cristiano lo cerca e
lo trova nella intimità dell'anima
(spiritualismo cristiano), nell’interiorità
dello spirito, senza che ciò significhi abolire la natura, il concetto, la ragione. Nello spirito la
cerca anche S. Tommaso, che è cristiano prima di essere aristotelico. Concludo con il Gilson: S. Tommaso on l’a beaucoup commenté, mais fort peu suivi. La seule
manière de le suivre vraiment serait de
refaire son oeuvre telle que lui-mème la
ferait aujourd’hui à partir de mémes principes et d’aller plus loin que lui dans le méme sens et sur la voie
mème qu'il a Jadis ouverte (Essence et existence, Paris, Vrin, 1948,
pagine 321-322). Non è questo un
compito molto più proficuo che ripetere
S. Tommaso invece di farlo avanzare e difendere lo spirito cosmologistico e
naturalistico della metafisica e del Dio aristotelico? O mandiamo tutti a
scuola, Gilson e il Blondel, tomisti come De Finance e tanti altri, la Neoscolastica di Lovanio e gli spiritualisti
cristiani italiani, tutti a scuola: da
chi? Evidentemente alla scuola dei grandi
pensatori classici e cristiani, di Platone e Aristotele, di Agostino e
Tommaso ecc., cioè li consigliamo a restare nella scuola dove già sono stati e nella quale
desiderano rimanere. Nel fasc. IV, 1949, della
Rivista di filosofia neoscolastica
(p401-443), Mons. Olgiati replica alle risposte del Carlini e mia. Lo ringrazio della
considerazione in cui ha voluto tenere
le mie pagine e di quanto scrive in questa
sua replica, alla quale rispondo brevemente, evitando ogni accento polemico e limitandomi ad alcuni
chiarimenti e precisazioni. Riconosco
subito, che Mons. Olgiati fa delle concessioni: E quanto, dal punto di vista storico, si
dice che l’amimus di Aristotele era
volto al mondo, all’empiria, alla realtà sperimentale, dalla quale assurgeva,
come a spiegazione finalistica, all’Atto puro, da lui riguardato in rapporto
col mondo, non c'è se non da sottoscrivere. In questo, sia Carlini, come lo S., hanno perfettamente ragione. E aggiunge che questo, più che Aristotele
filosofo, è lo scienziato, quello
che anche quando... parla del mondo intelligibile, lo fa, volto sempre al mondo
sensibile, all’esperienza, ossia, come io direi, con preoccupazioni
empiriche (iv:). Resta da vedere fino a
che punto l’Aristotele scienziato influenzi Aristotele filosofo
e lo condizioni; se il filosofo,
almeno un filosofo che oggi si dice
cristiano , non debba proprio
fare all’inverso, cioè: anche quando parla
del sensibile farlo con l’occhio volto sempre all’intelligibile e cioè, direi io, con preoccupazioni non
empiriche ; così come fa Platone, che
pure non è cristiano, anche se l’Acri ha
voluto farne il pagano profeta di Cristo. Olgiati pensa che Aristotele,
partendo dal sensibile, ci ha invitato a
riguardar quella realtà sensibile o sperimentata, ma solo in quanto realtà.
Ossia contro tutti coloro Hume e Kant
compresi che avrebbero dichiarato l'impossibilità di superare con i nostri
concetti l’esperienza, Aristotele ci ha
insegnato mediante la sua
metafisica concetti e leggi, che,
quanto alla loro origine, hanno le radici
nell'esperienza, ma quanto al loro valore si verificano, e non possono non verificarsi in ogni realtà ed
in ogni momento di qualsiasi realtà, anche non sperimentata, nè da noi sperimentabile (407). Dubito che, se tutti i concetti e le leggi hanno, quanto alla loro origine,
le radici nella esperienza, possano poi
verificarsi, quanto al valore, in ogni
realtà anche non sperimentata, nè da noi sperimentabile; credo che Hume e Kant, se tutzi i concetti e
le leggi hanno aristotelicamente le
radici nell’esperienza, avrebbero qualcosa da dire proprio intorno alla possibilità
di oltrepassare coi nostri concetti
l’esperienza stessa; tranne che non si dimostri che tutta la critica della
conoscenza e il concetto critico di
esperienza da Cartesio e Locke ai nostri giorni
stiano a provare soltanto che il pensiero moderno di quella metafisica ha capito niente o pochissimo; che
è come dire che quattro-cinque secoli di
filosofia, su un problema fondamentalissimo, non contano affatto. Credo,
invece, che, a questo proposito, vadano
poste due precise domande: 1) quell’
origine (l’esperienza sensibile) rende
davvero possibile che, in quanto al
valore , concetti e leggi si verifichino universalmente, anche in una
realtà insperimentata ed
insperimentabile, oppure proprio qualche principio, che non ha radice nell’esperienza sensibile,
rende proprio esso possibile la formulazione dei concetti e ne garantisce il valore? 2) La posizione aristotelica, al
cui insegnamento Mons. Olgiati ci incita, non è forse almeno in parte responsabile di quella critica della
metafisica, a cui il pensiero moderno è stato gradualmente portato? In altri
termini, è da chiedersi se il pensiero moderno non sia un aristotelismo
critico, cioè un giudizio su Aristotele o un approfondimento spinto fino alla
negazione della possibilità di una
metafisica come scienza, se aristotelicamente impostata. Oppure ancora così: il razionalismo e
l’empirismo moderni come il criticismo kantiano concludono col sospendere
la metafisica, in quanto si allontanano da Aristotele e l’intendono male
o non l’intendono affatto, oppure in quanto
ereditano proprio la mentalità scientifica del
filosofo Aristotele e sue preoccupazioni empiristiche che, quanto sembra, non lo abbandonano mai, anche
quando costr uisce la sua metafisica
come scienza dei principi primi del mondo fisico, che si continua in quello
celeste e culmina nel Motore Immobile?
L’Olgiati riconosce ancora che il Carlini ed io abbiamo ragione (è verissimo ) di sostenere che S.
Tommaso non è Aristotele, perchè c'è di
mezzo il Cristianesimo e l’utilizzazione
di S. Agostino. Son lieto di rilevare quest'altro punto di accordo con il mio
illustre contraddittore (stiamo infatti discutendo da circa un anno), il quale
così continua: La creazione implicava
per lui [S. Tommaso] l’impossibilità di ripetere a riguardo delle forme la
parola citata dagli Analitici
res ita est et non potest aliter se habere: no, avrebbero potuto essere diverse, se Dio,
Libertà assoluta, le avesse create
diverse (407). Mi domando se il concetto
di creazione implichi soltanto questo o una vera e propria rivoluzione metafisica; ma basta solo
quel Dio
Libertà assoluta . Ora, se le cose stanno come anche l’O. riconosce, che resta della costruzione metafisica aristotelica? Il concetto di
metafisica, scienza della realtà in quanto
realtà? Ma concesso che Aristotele ha detto cos'è metafisica, resta da vedere se quella che egli costruisce
sia vera e fino a che punto, se identica
a quella di S. Tommaso e definitiva. Non mi pare che l’O. stesso sostenga
questa tesi, in quanto ammette tra la
metafisica aristotelica e quella tomista differenze profonde. E questo non è
progresso? Perchè allora mi ribatte
quando parlo, e non in senso storicistico, di progresso in metafisica? L’O.
precisa ancora: L’animus di S. Tommaso
non è più indirizzato verso l’empiria; meglio, studia anche la realtà fisica,
ma con ben altra preoccupazione che non
Aristotele, e cioè con un orientamento metafisico. Se l’animus di S. Tommaso
non è più indirizzato verso l’empiria,
si ammette che lo sia quello di
Aristotele; se studia la realtà fisica con ben altra preoccupazione di quella dello Stagirita e cioè con un orientamento metafisico ,
significa ancora, proprio secondo l’O.,
che Aristotele la studia con un orientamento che n0n è metafisico, ma,
come sosteniamo il Carlini ed io, cosmologico e
naturalistico, cioè scientifico. Dunque, siamo d’accordo, e son grato a Mons. Olgiati delle differenze che
egli segna tra Aristotele e S. Tommaso, le quali confermano autorevolmente
il mio punto di vista. Ma tre righe più
sotto si legge: Fedele ad Aristotele,
egli [S. Tommaso] non perde mai il contatto con la realtà: nella realtà sta il
suo punto di partenza, la via da lui
percorsa e il punto d’arrivo . Quale realtà?
quella empirica? ed è essa punto di partenza e punto di arrivo anche per S. Tommaso? Ma allora che
vuol dire che l’animus del grande
Dottore non è più indirizzato verso
l’empirico e che egli studia la realtà fisica con orientamento metafisico? Francamente su questo punto
vorrei vederci chiaro e perciò
semplifico la questione: i concetti di
creazione , della realtà come verità, di
spirito , di libertà , ecc. così come sono intesi dal Cristianesimo
e utilizzati da Sant'Agostino, una volta
introdotti da S. Tommaso nella
costruzione metafisica di Aristotele, la lasciano sostanzialmente
intatta sì o no? Se tali concetti sono operanti nella metafisica tomista, come in quella di ogni
pensatore cristiano, non v'è dubbio che essa non è quella aristotelica e non lo è sostanzialmente; altrimenti
bisogna ammettere l’O. sembra
contrario che il Cristianesimo e
l'utilizzazione di Agostino siano puramente accidentali e la metafisica di S .Tommaso sostanzialmente
identica a quella di Aristotele. Qui non
si fa questione del concetto o della
definizione aristotelica della metafisica, ma della metafisica di Aristotele; infatti, non basta dire che il
concetto di metafisica è identico nei due pensatori, nè che vi è accordo circa il concetto della realtà in quanto
ente. È da questo punto che comincia la
questione: che è realtà? che è ente? Ora
i concetti di realtà e di ente che elabora Aristotele sono quelli di S. Tommaso, cioè, la costruzione
metafisica dei due pensatori è identica
o no? i concetti di analogia, potenza,
atto, Motore immobile o Dio sono identici nelle due metafisiche o no? Se
l’O. risponde di sì mi permetta di domandargli dove e in che modo S. Tommaso
utilizza S. Agostino e il Cristianesimo e quale il gran passo che ha fatto rispetto allo Stagirita. Se risponde di no
deve concedermi che, pur sulla base del
concetto aristotelico di metafisica, la
metafisica cristiana di Agostino e Tommaso è ben altra e diversissima cosa da quella aristotelica, e
che, come sostengo, è
naturalistico-cosmologica e come tale (non se ne scandalizzi) panteistica.
Pertanto, potenza ed atto, Motore immobile ecc. in S. Tommaso hanno ben altro
senso, sono pregnanti di un arimus che non ha niente a che vedere con quello della metafisica dello scienziato Aristotele.
Ma pare che l’O. voglia limitarsi al puro concetto di metafisica. In tal caso, però, si ferma alla
definizione generale senza entrare a considerare una costruzione
metafisica concreta, cioè una concezione
del reale e dell’ente ed è costretto a
limitarsi a ripetere (all'infinito?) che il concetto aristotelico-tomista è della metafisica come
scienza della realtà in quanto realtà. E
poi? L’O. mi obietta: Carlini è logico perchè mi respinge tale concezione
del reale. Invece il Prof. S. dice di
ammetterla e poi mi ostracizza come
naturalistica la metafisica costruita su quelle
fondamenta (423). Credo di essere logico
anch'io non come il diavolo
dantesco, spero : accettata quella definizione della realtà in quanto ente,
resta da costruire la metafisica ed io
ostracizzo come naturalistica quella aristotelica; altro è accettare la definizione della metafisica,
altro, mi pare, è (o sbaglio?) accettare
una determinata costruzione metafisica.
Non accetto quella aristotelica e
desidererei sapere se S. Tommaso
l’accetta così com'è appunto perchè
naturalistica e perciò lontana da una
metafisica che tenga conto del Cristianesimo ed utilizzi Agostino. Alle domande
da me poste non trovo una sola risposta
precisa in tutto l’articolo di Mons.
Olgiati. Infatti, rispondendo al Carlini, egli dice che S. Tommaso, qualsiasi questione affrontasse... la
prospettava metafisicamente ; e così esemplifica: discusse il problema della libertà umana, ma non fu ad
un argomento psicologico (l’attestazione della coscienza), nè all’argomento
morale (l'impossibilità di un'attività etica qualora non fossimo autodeterminatori) che egli si
rivolge, quanto alla prova metafisica,
sviluppata unicamente in funzione del
concetto di ente. Discusse il problema di Dio: m a non fu al consenso dei popoli e della storia, non
alle aspirazioni dell’animo nostro, alle esigenze proclamate dalla morale
od alla vita che egli si indirizzò per
le sue vie, bensì ad un ente constatato
ed alle leggi dell’ente. Persino la teologia di
S. Tommaso da che mai è caratterizzata, se non dall’elaborazione del
dato dogmatico in funzione della metafisica
dell’ente? (409). Mi permetto
osservare: ha ragione S. Tommaso di
rivolgersi a prove metafisiche, ma, se mette
da parte l’argomento psicologico, quello morale, le esigenze della vita ecc. ha torto, perchè anche questi
sono argomenti che hanno il loro peso, e
la convergenza degli argomenti è un argomento
probativo; ha ancora torto perchè questi argomenti, se approfonditi, hanno
anch'essi una portata metafisica; anche la vita psicologica e morale sono
esperienza (lo è la spiritualità nella
sua totalità ed integralità) e vi è metafisica dell’esperienza interiore, dalla
quale, a mio avviso, devono passare quelle
vie che dimostrano l’esistenza di
Dio. Inoltre, concesso che S. Tommaso
abbia elaborato tutti i problemi in funzione del concetto di ente e della
metafisica dell'ente, resta da precisare se la sua concezione metafisica
sia quella di Aristotele; ammesso che lo
sia, da spiegare come egli abbia fatto a
trarre fuori da essa un concetto di libertà , delle prove dell’ esistenza di Dio e persino una teologia
che traducono tutta la profondità e l'originalità di significato che questi termini hanno nel
Cristianesimo. Questo punto non lo vedo
chiaro e desidererei precisazioni ben
fondate. Ancora una domanda: Mons.
Olgiati a più riprese, nell’articolo che discutiamo e in quello precedente, dice
che S. Tommaso non rinnega ma completa
Agostino; che non si può comprendere il
significato della parola essenza, che pure è indispensabile per dichiarare
cos'è l’ente, se non si esulta
prima dinanzi alla bellezza
fulgente del concetto agostiniano della
realtà come verttas; aggiunge che S.
Tommaso non ripete Aristotele; che utilizza il Cristianesimo (per es. il
concetto di creazione ecc.) ed Agostino.
Desidererei che egli mi dicesse non così, in generale, ma concretamente
come S. Tommaso completa, senza rinnegarlo,
S. Agostino nelle tesi fondamentali della sua metafisica; se accetta il concetto agostiniano della realtà
come veritas interiore j che cosa
accetta della metafisica di Aristotele e dove la modifica profondamente, cioè
in quali tesi non è aristotelico; se la sua metafisica, con la introduzione di
concetti cristiani ed agostiniani,
mancanti in Aristotele, si possa
chiamare ancora aristotelica non nell’esteriore ma nel suo spirito profondo. Credo che un chiarimento
preciso su questi punti sarebbe molto utile, soprattutto a me; e lo dico sinceramente. Il lettore forse non si sarà ancora accorto
che fino ad ora non ho risposto, tranne
che in un punto, alla parte dell’articolo dell'O. che mi riguarda direttamente,
bensì all’altra diretta al Carlini; ma i punti toccati interessano anche me e perciò ho creduto opportuno
occuparmene. D'altra parte, il modo
d’intendere e di valutare la metafisica di Aristotele come la questione dei
suoi rapporti con quella di S. Tommaso
sono i punti in cui il Carlini ed io
concordiamo quasi del tutto, se si eccettua qualche giudizio carliniano
sull’Aquinate; per il resto, Carlini ed io,
in alcuni punti fondamentali, dissentiamo profondamente, come lo stesso Olgiati ha qua e là rilevato e
come si può vedere dalla stessa risposta
del Carlini all’Olgiati, dove il mio
illustre amico ne ha anche per me. Ma è bene che io qui mi limiti a rispondere solo a Mons.
Olgiati, altrimenti si finisce davvero
per confondere le lingue; e poi, contro
due non ce l’ha fatta nemmeno Ercole! All’amico Carlini risponderò a
parte nel fascicolo successivo di questa Rivista (‘): i dissensi in famiglia e credo che siano forti è bene che
ce li discutiamo tra noi con il garbo e la serenità che si conviene tra
amici e che del resto, malgrado qualche espressione vivace da ambo le parti, sono stati
conservati anche nel dibattito con Mons. Olgiati. Che il dissenso con il Carlini sia rilevante
appare subito da queste mie affermazioni
categoriche: ritengo, anche dopo la
critica del pensiero moderno e anzi proprio spingendo la critica al massimo delle sue possibilità,
1) che si possa fondare una metafisica,
con cui identifico la filosofia nel
senso più comprensivo e preciso del termine; 2) che questa metafisica sia quella della verità (dunque
punto di partenza è l’uomo nella sua
integralità), di cui Agostino è il maestro,
ma non il solo nè tanto meno il definitivo; 3) che sono nella linea della metafisica classica. Non esssermi
stato riconosciuto ciò dall’Olgiati è la
cosa lo dico con tutta sincerità che
più di ogni altra mi è dispiaciuta e mi ha fatto protestare {non
gridare , come dice l’O.) di essere stato frainteso; ma torniamo alla discussione vera e
propria. La risposta è stata data
indirettamente in altra occasione. Olgiati dubita che io abbia avuto tra mano (
se il prof. S. prenderà tra le mani 421)
il volume che l’Università Cattolica
pubblicò nel ’31 in occasione del
centenario agostiniano. Lo rassicuro subito: nel mio S. Agostino (volume
I), da poco pubblicato, lo cito una ventina di
volte; cito anche, quasi sempre concordando, i pregevoli scritti agostiniani del Masnovo. Dunque, a mia volta,
prego io l’Olgiati di prendere tra le
mani questo mio volume e di leggerlo con
un po’ di attenzione. Mi piace aggiungere che nel Convegno di Gallarate del ’46, come
presentatore del tema Agostinismo e
tomismo sostenni, tenendo presente il
Masnovo, la tesi della concordanza o almeno della non antiteticità dei due grandi pensatori ( Atti del II
Convegno dei filosofi cristiani di
Gallarate , Milano, 1947). Ma lasciamo questo
punto secondario anche per evitare di continuare a consigliarci, l’O. a
me ed io a lui, la lettura di libri che conosciamo benissimo. Olgiati si mostra
ancora preoccupato della mia affermazione: l’ontologia è vincolata
all’antropologia , in quanto crede che
essa apra le porte al relativismo; e aggiunge: È il valore di assolutezza della
verità tesi primale di S. Tommaso, di S. Agostino che ci sta a cuore (pag. 423). A me invece, secondo l’O.,
starebbe a cuore il soggettivismo e il
relativismo della verità; a me che da quasi
quindici anni combatto l’uno e l’altro; distinguo e ciò
fa arrabbiare persino il mio amico Carlini tra
idealismo spurio (soggettivo) ed idealismo autentico (oggettivo)
e contrappongo energicamente alla tesi della verità come
sviluppo l’altra della verità
come scoperta , ecc. Ma tant'è, a me
starebbe a cuore non il valore oggettivo della
verità, ma un assurdo Cristianesimo colorito di relativismo. Se così
fosse non avrei capito niente di
Platone, Agostino, Pascal, Rosmini e sarei ancor testa e piedi nel soggettivismo idealista.
Evidentemente le parole l’ontologia è
vincolata all’antropologia vanno intese
diversamente da come le intende l’O. che, chissà perchè, quando mi fa l’onore di discutermi, interpreta le
mie espressioni in senso idealistico e
mi fa dire l’opposto di quello che dico. Ecco,
infatti, come intende quell’affermazione: Il nostro sapere sarebbe fatalmente relazivo al soggetto; noi
non potremmo conoscere se non ciò che
appare all'uomo in quanto uomo; ossia il
relativismo si imporrebbe e non vi sarebbe nessuna verità di valore assoluto (423). Questo è inventare e non criticare, per il gusto di far passare tutti
da fenomenisti , tranne Mons. O., unico interprete di S.
Tommaso aristotelico. Io dico
perfettamente l’opposto: il valore oggettivo della conoscenza umana non è dato
dal soggetto ma dall’oggetto, cioè dalla
verità che è presente (inzeriore) alla mente e perciò è sempre verità di un
soggetto pensante, senza che ciò
significhi che è ad esso relativa. Ma il soggetto pensante è l’uomo; dunque egli è il soggetto del
filosofare, avente come oggetto la verità per il cui lume oggettivo è pensante:
non è il pensiero che fa essere (pone)
la verità, ma è la verità che fa che il
pensiero pensi. Ora, posto l’uomo come soggetto
della verità, che lo fonda come pensante, e lo oltrepassa, 1) non vedo dove stia il relativismo, in
quanto 2) la mia espressione l’ontologia è vincolata all’antropologia significa precisamente: l’ontologia è
vincolata all'uomo in quanto soggetto di una verità oggettivamente valida, di
cui ha profonda interiore esperienza. Se
noi siamo chiusi nell'antropologia, siamo e resteremo incatenati nella
esperienza (425). Desidero (posso sperare di riescirvi?) tranquillizzare l’Olgiati
che #07 restiamo chiusi nel carcere dell'antropologia perchè è presente alla
mente dell’uomo la verità che lo spinge a trascendersi fino a quando non
abbia trovato pace nella Verità, che è
Dio; che mon siamo e 207 resteremo
incatenati nell’esperienza appunto perchè quella interiore è esperienza della
verità oggettiva. Ho i miei dubbi che
questi pericoli li corra Aristotele con quelle sue preoccupazioni
empiriche e con quel suo star sempre
volto al mondo sensibile, all’esperienza , dove concetti e leggi... hanno le radici ; e con Aristotele Mons. Olgiati.
Noi diciamo, invece, che il pensiero umano ha le sue radici nella verità
che gli è interiore (esperienza, dunque, ma non la sensibile, almeno in questo caso) e che tale verità ha
il suo Principio ultimo, la Radice assoluta, in Dio. Perciò, non è vero, come dice l’O., che io protesti di essere nello spirito dell’aristotelismo e del tomismo, se per
tomismo s’intende l’aristoteliimo di Aristotele; al contrario, non vi tengo
affatto ad essere nello spirito
dell’aristotelismo, e rifiuto il Motore immobile di Aristotele, se lo si
vuol far passare per il Dio creatore
cristiano. Desidererei sapere se anche S. Tommaso, per l’O., sia proprio
nello spirito dell’aristotelismo e se il suo Dio sia il Motore immobile
aristotelico. Di passaggio rilevo
un’altra espressione: Tuttavia dire spiritualità è dire, almeno almeno,
potenzialità della concettualizzazione
(427); ma la spiritualità, nel senso pregnante e profondo, è una verità
cristiana, ignota al pensiero greco. E l’attività dello spirito è solo
potenzialità della concettualizzazione?
Per Aristotele sì, ma per la filosofia
cristiana? E poi l’O. si dispiace quando me la piglio con una scienza puramente nozionale e di astratti
ed esangui rapporti o balletti logici.
Se si identifica la spiritualità con la
concettualizzazione o con quella che Platone chiama la È:zvorx, sono costretto
a mantenere il mio punto di vista e a
contrapporvi una spiritualità più ricca e concreta, la vénets, che del resto
non nega affatto il valore del concetto
ed è sempre molto meno della spiritualità cristiana. Non credo che sia necessario insistere nel
chiarire l’altra mia espressione metafisica uguale trascendenza dopo
quanto ho detto in proposito nelle pagine precedenti; nè mi sembra che quanto ora aggiunge l’O. mi
costringa a ritornare sull’argomento. È vero, egli mi osserva che la mia posizione non è sufficiente per arrivare alla
trascendenza, come non lo è quella dello
Hegel, che resta nell’immanentismo. Debbo anche questa volta ripetere che io
sono ben lontano dalla posizione
idealistica, in cui l’O. mi vuol
cacciare a qualunque costo. Passando
ad altro argomento, non credo che io abbia
confuso (addirittura!)
immanenza con immanentismo (436), ma ho semplicemente usato il termine
immanenza nel senso di immanentismo, come spesso fanno anche gli immanentisti. Perciò escludo che
interiorità sia uguale ad immanenza e
preferisco, appunto per evitare
confusione , parlare di
presenza od interiorità della verità, anzichè di immanenza, termine
ormai compromesso. Che sia così, lo
dimostra proprio il fatto, ricordato dall’Olgiati, che per avere parlato
di méthode d’immanence i
filosofi dell’azione, quelli non modernisti, si son visti accusare di
immanentismo e si son tirate addosso una sequela di obiezioni e polemiche non
di rado ingiuste e infondate. Mons. Olgiati osserva ancora: se metafisica
significa scienza della realtà in quanto
realtà, la realtà interiore io non la
posso, in un primo momento, riguardare in quanto interiore, ma solo in quanto realtà ed allora
avrà i concetti e le leggi valide per
ogni qualsiasi realtà e non solo per la
realtà interiore. A questa difficoltà il prof. S. non ha risposto
(437). La risposta, invece, è data da un buon numero di miei scritti e la dà indirettamente
lo stesso O. a 438: E quando il
pensatore d’Ippona mi dice che la realtà
è veritas ontologica, è raggio che m’invita a conoscere il Sole, mi dà un concetto che vale per ogni
realtà, anche per quella che Platone
disprezzava come fenomenica, anche per la realtà della natura . Da ultimo l’O.
torna ancora sulla questione del
progresso in metafisica ; e, in
fondo, nega che da S. Tommaso in poi ve ne sia stato. Queste le sue parole: E questo atteggiamento
doveroso ci mostra, sì, in ogni sistema
ed in ogni indirizzo una conquista nuova, la quale però mon segna
necessariamente un progresso in
metafisica, ma può realizzare progressi in altri campi, sia della filosofia come della
scienza, come della storia (439). In tutti i campi, sì, si può parlare
di progresso, tranne che in metafisica, la quale si è fermata là, a san Tommaso, tutta compiuta. Non che la
metafisica escluda come tale il
progresso, perchè l’O. lo ammette fino a san
Tommaso, il quale implica e supera le conquiste platoniche ed
agostiniane (424); dopo non più. E
perchè? Perchè mai, se delle conquiste,
come quelle precedenti a S. Tommaso,
hanno potuto essere implicate e superate, a
detta dell’O., nella metafisica tomista, le conquiste di questa non
possono poi essere ulteriormente implicate e superate? Così quella verità
metafisica resta là senza progresso,
come 2+2=4. Philosophia perennis, appunto, come dicono i tomisti, mentre
noi diciamo che di perenne vi è solo il
filosofare come progressiva e sempre perenne scoperta della verità
inesauribile. Perciò noi ripetiamo all’O.
che non facciamo la glorificazione e l’esaltazione di nessuno, nè di Platone, nè di Agostino, Pascal,
Rosmini, Blondel, ma solo li
consideriamo, pur con le loro differenze (e chi
potrebbe negarle?) uniti in un animus di filosofare affine al nostro e che non è l’arimus o lo spirito
del filosofare aristotelico per il
motivo semplicissimo che è quello cristiano. Io mi sono occupato di questi
pensatori e battuto affinchè siano ben
intesi e non fraintesi, senza omettere di
rilevare quelle che a me sono sembrate e sembrano le loro manchevolezze e insufficienze o punti oscuri
da chiarire. Certo il concetto
agostiniano di veritas non è quello blondeliano di vita, ma credo che i due
concetti non si escludano: non v'è vita spirituale che non sia vita della e
nella verità oggettiva e non si penetra la verità oggettiva, che è fonte di vita spirituale, se non vivendola.
E se l’O. dice che non è così, mi scusi,
ma mi vengono subito in mente la scienza
puramente nozionale e i balletti logici
, a costo di sentirmi ripetere che mi manca il concetto del concetto. Sotto il
titolo A conclusione d’una polemica ( Riv.
di Filos. neosc. , IV, 1950, p356-364), Mons. Olgiati ha risposto alla mia ultima nota, concludendo la
discussione (tale per me è stata e non
una polemica) che s'è svolta tra lui da
una parte e Carlini e me dall’altra, pur essendo la posizione carliniana molto distante dalla
mia. Anche da me con queste poche righe
la discussione è considerata conclusa.
La risposta dell’Olgiati non risponde affatto alla mia precedente, ma ripete cose che egli aveva già
detto ed io controbattuto. Gli avevo
posto domande precise sui rapporti tra Aristotele e San Tommaso e le loro
costruzioni metafisiche, come su quelli
tra Agostino e Tommaso. Mons. Olgiati
ripete ancora che la costruzione metafisica completa è certo diversa in
Aristotele e in San Tommaso , ma non mi
dice se, poste queste diversità, per me profonde, quella tomista si possa dire, e fino a che
punto, aristotelica; ripete che il
tomismo completa la definizione platonico-agostiniana del reale, ma non mi dice
se con questo completamento siano conservate le tesi essenzialissime per cui
l’agostinismo è tale da S. Agostino a S. Bonaventura e a Rosmini; e potrei
continuare. In compenso, oltre a
volermi insegnare alcune cose di cui,
per la verità, ho discusso in alcuni mici libri proprio alla maniera dell’Olgiati anche, se non con
la sua competenza coincidenza di idee
che l’O. non sembra gradire dichiara di
aver trovato nella mia risposta la chiave
per spiegare le difficoltà che
c’'impediscono d’intenderci sul concetto
di realtà. Ed eccola, questa chiave: io nasconderei sotto il mio agostinismo un concetto di realtà che non è nella linea della metafisica classica, bensì in
quella dell'innatismo razionalista
(361); e per due fittissime pagine continua a svolgere questa sua interpretazione-chiave
per concludere opponendo la concezione
della r'eritas agostiniana alla mia, che
riduce la realtà in quanto realtà al contenuto dell’idea e va a finire difilato nel fenomenismo razionalista (363). Lo dicevo io che, volente o nolente,
sarei dovuto andare nel fenomenismo , le malebolge
a cui l’O. condanna tutti quelli
che non la pensano come lui. In quali
miei scritti di questi ultimi anni l’Olgiati abbia letto queste cose, lo ignoro; il passo che
riferisce dalla mia precedente risposta
va inteso all’opposto da come egli lo
intende. Non confuto la sorprendente interpretazione, come non confuterei un critico che dicesse
che io sono spenceriano, marxista o che
so io; d’altra parte, dovrei riesporre
quanto ho già scritto, tra l’altro, nel mio primo volume su S. Agostino e in Filosofia e
metafisica (*), cosa superflua. Bisogna
riconoscere che Mons. Olgiati presenta
la sua interpretazione in forma molto dubitativa: posso
sbagliarmi... e sono pronto a riconoscere eventualmente, il mio errore, del quale 4 priori
se fosse tale, chiedo scusa
all’egregio amico (361). Mi permetto
dirgli che si è proprio sbagliato e
sinceramente non riesco a comprendere
come abbia potuto interpretare il mio concetto di realtà, classicamente
agostiniano, nella linea dell’innatismo razionalista, da me ripetutamente confutato,
e credo in modo che dovrebbe riscuotere
anche l’approvazione dell’Olgiati.
Concludo questa discussione con una battuta scherzosa, come si conviene tra amici, anche quando non
s'intendono: trà darsi che, come scrive
l’Olgiati, vi sia qualcuno che voglia
fare delle nuove scoperte nella conoscenza dell’Africa svolgendo indagini in America; temo però, da
parte mia, che egli legga alla rovescia
quanto vado scrivendo, comin
Quest'opera era stata pubblicata nel lasso di tempo tra le due
ultime battute della discussione. ciando
dall’ultima sillaba dell’ultima pagina, come raccontano facesse Pico della
Mirandola nel ripetere un testo per dar
prova della sua memoria. Solo così egli può scoprire in me non so quale innatismo o
fenomenismo razionalista e farmi
esplorare l’Africa in America. Il problema della cultura e del rispetto delle
culture, oggi, si presenta piuttosto
come problema della crisi ,
profonda, della prima e di quella,
minacciosa, del rispetto delle culture. A nostro avviso, questa duplice crisi
(le culture in crisi sono sempre
intolleranti ed intransigenti: la crisi è un po’ decadenza e il pericolo del crollo rende
spesso dommatici), è la conseguenza di
un’altra ben più profonda, di portata
metafisica, della crisi della trascendenza. In altri termini, la crisi di una cultura è l’aspetto
appariscente ed in questo senso superficiale di quella dei suoi radicali fondamenti metafisici, che spesso si perdono di vista e
non si considerano. Per esempio, quella della cultura greca espressa dalla sofistica
fu indubbiamente la crisi della metafisica cosidetta presocratica e
specialmente delle due sue più alte posizioni, di Parmenide ed Eraclito;
l’altra, rappresentata dalle filosofie
dette postaristoteliche, fu crisi della metafisica platonica ed aristotelica.
La crisi del pensiero moderno, nel suo
ormai secolare sviluppo attraverso molteplici crisi dentro la crisi, lo è della metafisica cristiana
patristico-scolastica. Se ben si
osserva, le tre forme di crisi che abbiamo addotto ad esempio, pur nelle loro notevolissime
differenze e diversità, hanno un carattere comune che sorprende. Infatti,
sia la sofistica come le filosofie
postaristoteliche e quelle dal Rinascimento in poi malgrado, com'è noto, non manchino
metafisiche della trascendenza, in questo senso dette antimoderne , reazionarie, conservatrici o
tradizionali sono posizioni filosofiche d’immanenza,
preoccupate di giustificare la realtà
fisica e quella umana, come anche il loro valore e significato, immanentisticamente, cioè da e
con se stesse, senza ricorso ad una
Realtà trascendente di ordine super fisico e super-umano. Trascendenza
significa dualità, immanenza, monismo: la prima fonda questa realtà gli
uomini e il mondo in cui vivono
su di un’ altra che
trascende questo mondo; la seconda fonda
questo nostro mondo su se stesso, cioè afferma che la realtà
umana e naturale si origina, si regge
secondo sue leggi immanenti, e si
giustifica da sè ed in se stessa. La posizione dell’immanenza, anche se si presenta
come metafisica, a nostro avviso, è sempre una posizione antimetafisica,
oppure, se lo si preferisce, trova il
suo sviluppo coerente ed ultimo nella negazione della metafisica, la quale,
infatti, importa, affinchè sia tale e
non pseudo-metafisica, una concezione dualistica della realtà: questa (fisica) e un’ altra che la trascende e la
fonda. Metafisica significa trans-physica, scienza dell’2/ di là, che, come tale, trascende quel
che è di qua ; di un lassù
44/ quale il quaggiù dipende e nel quale ha il suo fondamento, il suo significato e il
suo fine. Naturalmente noi, oggi (lo accenniamo di passaggio), dopo il
Cristianesimo e lo stesso svolgimento del pensiero moderno, non possiamo più concepire questo al di là
in senso puramente o prevalentemente naturalistico o cosmologico,
ma lo pensiamo come l’assoluta Realtà
spirituale, da cui la nostra dipende, come l’
Al di là interiore e
trascendente. Al contrario, per le
filosofie immanentistiche e come
tali non-metafisiche perchè non-dualistiche quella realtà che è l’uomo si fonda su se stessa, è fine a se
stessa: l’unica umana è la realtà
storica, la cui espressione più alta ed assoluta è stata, a volta a volta, identificata con
l’attività morale (moralismo) o l’artistica (estetismo), con la filosofia
(panfilosofismo) o con l’attività politica (politicismo), con quella economica
(materialismo storico), con la storia nel suo complesso (storicismo) o con le
varie culture (culturalismo); in
qualunque caso con un valore puramente umano, mondano, terrestre, laico, areligioso, finito e
relativo, che in tal modo è stato
assolutizzato. Mondanismo e areligiosità sono appunto i caratteri della cultura
moderna e contemporanea in
generale, che pertanto, per quel che sopra è stato detto, si presenta come antimetafisica ed
antidualista e perciò antitrascendentista. In questi caratteri va cercata, per
noi, la causa profonda della crisi della
cultura del nostro come di tutti i
tempi, che perciò è crisi della metafisica e della trascendenza teologica; in
una parola, crisi di fondamento, di un
fondamento assoluto del pensiero, in quanto il pensiero umano, limitato e
relativo per sua natura anche se
assoluto nei suoi limiti, non può essere fondamento di se stesso, non può autofondarsi, perchè non può
autoautenticarsi: la sua autenticazione è nel pensiero, nella Verità assoluta, che lo fonda, gli è interiore, ma,
come fondante e assoluta, lo
trascende. Una delle conseguenze più
deprecabili, perchè dannosissima dell’immanentismo della filosofia e della
cultura moderna è l’incomprensione e perciò la mancanza di rispetto tra le varie culture. Negata la Verità
assoluta e trascendente dico una verità
oggettiva che misuri il pensiero e non
ne è misurata, produca il pensiero e non ne è prodotta, indipendente ed
anteriore e non da esso creata attraverso la ricerca € fatta la verità di un prodotto e non una
scoperta della ricerca stessa, un risultato storico e perciò contingente, non è
più possibile evitare il soggettivismo
della verità. Inconsistente la
distinzione tra io empirico » ed
Io trascendentale » : l’Io
trascendentale è sempre il pensiero dell’ordine naturale ed umano (storico) e perciò mutevole e finito e,
come tale, insufficiente a fondare se stesso: considerarlo ingiustificatamente
fondamento di se stesso, autosufficiente, è privarlo del suo fondamento
assoluto: il soggettivismo e il relativismo risultano ugualmente inevitabili.
L’aforisma protagoreo ( l’uomo è la misura di tutte le cose ») inteso,
empiricamente, nel senso dell’uomo singolo e particolare, o idealisticamente, nel senso dell’umanità in
universale, non perde il suo essenziale
soggettivismo, perchè è sempre l’assolutizzazione fittizia ed arbitraria di un
relativo. Di qui il carattere
prevalentemente soggettivo delle dottrine, la pretesa di ciascuna d’identificarsi con la verità
assoluta, il porsi di ogni punto di
vista, non come una prospettiva parziale, ma
come l’adeguazione della verità totale. Noi non diciamo che i valori relativi e i punti di vista
parziali non abbiano alcun valore, ma
diciamo che, solo arbitrariamente e per irrazionale estrapolazione, possono
essere identificati ciascuno con il
valore o con la verità assoluta. In tal caso il rispetto che si deve a ciascun valore si trasforma,
una volta che lo si assolutizza in
fanatismo intollerante. Impossibili, per conseguenza, la cooperazione delle
culture e il loro rispetto reciproco come l’avvicinamento, perchè manca il
fondamento comune di una verità
oggettiva, la sola che possa rendere
possibile, pur nella diversità dei vari punti di vista, l’incontro di esse, il loro interpretarsi e penetrarsi
vicendevolmente, il loro cooperare
fruttuosamente in vista dell’unica verità. Si
è venuta a creare una miriade di culture, ciascuna stato a
sè , sovrana, che perseguita l’altra, e la esclude. Ciascun pensatore
identifica la verità con se stesso, si fa egli stesso la verità e da questa condizione di pontefice massimo lancia scomuniche contro l’ eretico che la pensa diversamente. Così siamo diventati tutti pontefici e tutti
eretici nello stesso tempo: dommatismo
assoluto e insieme assoluto scetticismo.
Quando si nega l’esistenza di una verità assoluta e non è tale se non è trascendente il nostro
pensiero non c'è più possibilità
d’intendersi perchè manca un punto di
riferimento assoluto da noi indipendente anche se a noi interiore, e non vi è più rispetto e
tolleranza. È una questione di umiltà: sentirci non i creatori della verità,
ma gli umili servitori di essa, legati
dal comune amore per la verità, fatto di
rispetto e obbedienza. Solo in questo amore
comune, unico stimolante ed unico fine, le culture possono trovare il loro punto d'incontro, la loro
compenetrazione, come tanti punti di
vista sollecitati dalla stessa aspirazione,
tendente all’identico scopo. Vi è al fondo un atto di moralità radicale,
metafisico anch’esso, ma non vi è moralità
autentica dell’uomo (e dunque anche della cultura che è mondo umano) senza trascendenza teologica,
senza metafisica nel senso di sopra precisato e chiarito. Oltre che di umiltà, è anche questione di onestà,
chiarezza filosofica: riconoscere che i
valori metafisici e la metafisica come tale
non possono essere frammenti di esperienza umana per se stessi non assoluti, elevati al grado
dell’assoluto e con esso identificabili.
In questo senso, pur conservando la profonda
umanità della filosofia e della verità, è necessario correggere ogni forma di pseudo-metafisica
antropomorfica e chiamare le cose con il
loro nome: relativo quel che è relativo, e asso
luto quel che è assoluto. Non vi
è dubbio che cultura è la capacità dell’uomo
alla libera attività: dove manca questa libertà non vi è cultura; decade
o isterilisce. Essa è il frutto della libertà spirituale: la schiavitù, come
negazione della libertà, trova la sua
condanna nella sua incultura . Perciò,
in questo senso, è vero che il progresso
della cultura è progresso morale, in
quanto la libertà spirituale sta a fondamento dell’uno e dell’altro; ma
è anche vero che, sulla base dell’immanenza,
non vi è libertà e dunque non più
moralità e cultura in quanto si limita, usandogli violenza, il fine
dell’uomo all’angusto spazio terreno e al breve tempo storico (tutto lo spazio è sempre angusto e tutto il tempo è
sempre breve), snaturando le sue
aspirazioni fondamentali, reali, naturali
e sempre attuali; e in quanto si viene a negare il fondamento stesso della libertà, che è autentica nel
riconoscimento dei suoi limiti (della trascendenza che la fonda e garantisce)
e non nell’illimitatezza indefinibile
dell’arbitrio, in cui tutto diventa
lecito, perchè manca il limite della trascendenza, come avviene in ogni filosofia
immanentista. Di qui possiamo trarre
due ordini di considerazioni: Non vi è cultura (perchè decade in forme
decadentistiche, bizantine ed infeconde) se tutto è limitato al tempo e alla storia
immanentismo e umanesimo assoluti e come
tali astratti -; se un misticismo eccessivo e perciò nihilista cancella il tempo e nega la storia
(apocalitticismo). In altri termini, non
vi è cultura dove tutto è tempo (negazione dell'eterno o di Dio) o dove si nega
il tempo negazione della storia e dei valori umani. Per conseguenza,
la condizione della cultura risulta
essere ancora la concezione dualistica
di questo mondo e dell’ altro , del mondo
dell’uomo e del Regno di Dio. Dove e
ogni qualvolta si rompe questo
equilibrio, vien meno la condizione che rende possibile la cultura e le sue forme. La cultura moderna ha
cercato di abolire l’ultratemporale (il
metastorico) ed ha segnato con ciò la
decadenza della cultura occidentale, diventata culturalismo soggettivo, caotico
e ormai infecondo. Per un motivo opposto
non vi è stata e non vi è una cultura russa: non vi è stata per la duplice tendenza apocalittica
e nihilista (prima prevalentemente
religiosa ed oggi assolutamente atea), che
porta fatalmente a cancellare la storia e il tempo. Chi è assorbito nel problema finale del mondo,
storico o metastorico che sia, vede nella cultura un ostacolo e non una
zia attraverso cui si conquista il fine
ultraterreno, si purifica e si riscatta
l’attività mondana dello spirito. La Russia, in
questo senso, quella religiosa di Dostoewskij o quella atea di Stalin, è l’anti-Europa, l’anti-Occidente;
nell’uno e nell’altro caso un misticismo
apocalittico, che nega il mondo umano.
L’Occidente moderno pecca dell’eccesso opposto: si dimostra soddisfatto della sola cultura, risolve
l’essenza della vita spirituale nella storia: la cultura è la salvezza. Oggi
quest’appagamento mondano -immanentista è entrato in crisi e perciò l'Occidente è malcontento, isterico,
decadente, sofistico. Gli è rimasto un simbolismo della cultura, senza una vera cultura reale, ontologica, metafisica.
Ciò è in certo senso l’autocondanna
dell’immanentismo, anima del mondo moderno, e l’indizio dell’ansia di escire
dalla zona mediocre di una cultura che si è sganciata
dall’eterno (da Dio) per tuffarsi tutta
nella storia, cioè per ricadere pesantemente su
se stessa, afflosciandosi e dissolvendosi, senza possibilità di slanci metafisici. L’Occidente moderno ha
voluto risolvere l’eterno nel tempo,
l’essere nel divenire, la trascendenza
nell’immanenza, il metastorico nella storicità; J’Oriente russo, anticulturalistico, ha preteso negare il
tempo, la storia, l’uomo in una eternità
astratta, in un misticismo religioso
antiumano, sia esso di una religiosità teologica o atea. Il dualismo ontologico è distrutto: assoluto
umanesimo è negazione di Dio e perciò anche dell’uomo; assoluto teologismo è negazione dell’uomo e perciò anche di Dio:
due forme di monismo opposte ma
approdanti allo stesso risultato.
Entrambe sono atee e inumane.
L'altra considerazione, non meno rilevante della prima, riguarda la struttura radicale di
quella che comunemente si chiama civiltà occidentale ; radicale perchè sta proprio alla radice, alle sue
origini greco-cristiane. La concezione
greca della vita, quella della migliore ed autentica grecità, è dualistica: vi
è una realtà fisica ed una realtà
metafisica che trascende la prima,
questo mondo e l’ altro. Platone e il platonismo sono
l’espressione più alta e significativa
del mondo classico. Dualistica è anche la
concezione giuridica di Roma antica: il cittadino e lo Stato, senza che l’uno neghi l’altro ed entrambi
reali nel loro intrinseco rapporto. Dualistica è ancora la concezione
cristiana: il creato e il Creatore, il mondo e Dio, il mondo dell’uomo e il
Regno di Dio, questa vita e l’ altra , anzi questa vita per l’altra, l’uomo per Dio.
Concezione dualistica, non solo, ma anche gerarchica: il quaggiù guidato, orientato, subordinato al lassù : due realtà,
l'una dipendente dall’altra. Ciò spiega perchè la Rivelazione cristiana, pur nella sua assoluta originalità rispetto
alla concezione greca e romana della
vita, abbia visto, in un primo tempo,
nel pensiero greco il suo precedente e la sua base naturale e, in un secondo tempo, abbia potuto
realizzare la grandiosa trasposizione in termini di filosofia cristiana prima
del platonismo (Agostino) e poi
dell’aristotelismo (S. Tommaso); così
pure ha potuto accogliere nel suo seno il meglio della concezione giuridica di Roma. Il fondamento
dualistico, comune alla verità razionale e alla Verità rivelata, rese possibile l’incontro e la loro continuità.
Grecità, Romanità e Cristianesimo sono i
tre elementi costitutivi della civiltà
occidentale (europea); dunque la struttura autentica, la fisionomia
essenziale di essa è dualistica. L'esigenza immanentistica non le è propria,
anche se non completamente estranea.
Essa è tipica della civiltà germanica, che non è propriamente una forma
di civiltà occidentale: la Germania non
è mai stata profondamente penetrata, fino a farsene la struttura della
sua civiltà, dallo spirito della grecità, nè da quello della romanità e del Cristianesimo; infatti,
è la terra del monismo e del panteismo:
monistiche e panteistiche la sua
filosofia, la sua mistica, la sua letteratura. L’immanentismo, caratteristico del pensiero moderno e
contemporaneo, è penetrato anche nella civiltà occidentale, fortemente influenzata
dalla cultura tedesca, ne ha alterato la struttura, l’ha corrotta e messa in crisi; ha sostituito alla
trascendenza l’immanenza, al dualismo il monismo, ha gradualmente abolito Dio: Dio è morto , conclude Nietzsche, e
l’abbiamo ucciso noi . In un primo tempo
lo ha surrogato con l’uomo, capovolgendo
i termini del dogma cristologico: non Dio
Uomo, ma l’Uomo-Dio: ha assolutizzato la ragione (Hegel) o uno dei tanti valori umani: l’arte, la
morale, l'economia, la politica ecc.; in
un secondo tempo, ai nostri giorni, peduta la fiducia nell’assolutezza dei
valori umani (com’era inevitabile una
volta negata la concezione metafisica dualistica) senza riacquistare la
certezza dell’esistenza dell’Assoluto trascendente, ha perduto ogni fiducia ed
ha concluso che non esistono valori, dato che non vi è di essi un fondamento assoluto nè divino nè umano.
Fatalmente l’immanentismo, perduto Dio, doveva perdere anche il concetto dell’uomo come persona (il nazismo o altre
forme politiche simili). I due elementi
fondamentali della civiltà occidentale
risultano negati e così con essi la civiltà che avevano prodotto e
fecondato . Di derivazione germanica,
immanentista e non della genuina civiltà occidentale è il bolscevismo russo. Il cosiddetto
marxismo o materialismo dialettico o storico, importato in Russia, ha subìto
una notevole trasformazione a contatto
con l’incultura di quel Paese, cioè con l’opinione negativa che gli scrittori
più qualificati avevano sempre avuto della
cultura, come di qualcosa di mediocre, di un
ostacolo alla realizzazione dell’ultramondanismo e alla aspettazione del
fine assoluto. Il misticismo russo, con il bolscevismo, da religioso si è fatto
ateo, il fine assoluto dal cielo si è
spostato in terra, ma la sua tendenza apocalittica e nihilista è rimasta intatta. In un certo
senso il bolscevismo è la coerenza spietata e brutale dell’immanentismo: è l’immanentismo fino in fondo. Se non vi è un
al di là e se vi è solo un quaggiù , se non c’èdualità e trascendenza,
l’assolutamente assoluto è il quaggiù ,
tanto assoluto da costituire il fine ultimo, di fronte al quale ogni cultura (in prima linea quella occidentale,
dualistica e perciò nemica), ogni forma
di vita diversa da quella della nuova
Dico di passaggio che una cultura, la quale esprime una concezione immanentistica della vita, è condannata,
proprio perchè manca della trascendenza, ad identificarsi con la politicità
nel senso più vasto del termine e
dunque a materializzarsi e a sboccare nella violenza, che è la negazione
della libertà e perciò della cultura.
apocalisse comunista, ogni uomo ed ogni valore devono essere sacrificati, annullati. Così il nihilismo
religioso russo, l’ incultura e l’
antistoria , che negava il mondo rispetto al
fine (Dio), oggi, sotto l’influenza dell’immanentismo (della sua antitesi), si è fatto immanentista,
restando sempre nihilismo a carattere mistico; assolutizza il mondo al punto
da negarlo come mondo, da proiettarlo in
un fine assoluto che è come un mondo al
di là di quello storico e di questo
negatore, nega la cultura da cui è nato nella sua nuova forma di
incultura . L'immanentismo germanico aveva concluso Dio è morto , prima che con il Nietzsche con
lo Hegel, il cui Dio è il Gost im
Werden, il Dio che si fa, e Marx deriva da Hegel; se Dio è morto , argomenta il bolscevismo,
anche l’uomo è morto , è nulla rispetto
al suo fine, l’Uomo assoluto di domani,
l’uomo del millenarismo ateo. Ci sembra
ormai evidente che l’immanentismo, germanico e russo (pur così diversi: l’uno
nega Dio per il mondo e l’altro lo
stesso mondo per un mondo nuovo di un domani assoluto), per il fatto che è
immanentismo, è la minaccia più grave, la morte, della civiltà occidentale, la
cui radicale struttura, come abbiamo
detto, è la dualità, la trascendenza, la metafisica nel senso vero del termine.
Naturalmente la crisi ci ha pure insegnato qualcosa: che la trascendenza è una verità interiore e non di
ordine esterno e naturalistico
(l’interiorità della verità è quanto va conservato dell’immanentismo, ma
l’interiorità non è immanenza) e che,
d’altra parte, essa non va mondanizzata o annacquata in un umanesimo troppo umano o in un
culturalismo che è adorazione della
cultura; ed è quel che ha di positivo 1° incultura russa. Non dobbiamo respingere questi
insegnamenti, ma farli nostri e trasferirli nel lavoro di recupero della civiltà occidentale, la quale può
superare la crisi e salvarsi soltanto
con la restaurazione di quella metafisica
dualistica o della trascendenza (e la fedeltà ad essa) che costituisce
la sua essenza primale. O tale restaurazione e fedeltà saranno il piano Marshall , ben più importante di
quello economico, della cultura
occidentale, o anche per noi,
inevitabilmente, Dio morirà e l’uomo sarà per sempre seppellito. Sarà
allora possibile realizzare il più olimpico rispetto delle culture per il
semplice motivo che nel mondo non vi
sarà più cultura. Avrei dovuto pur dire qualcosa sulla cultura anglosassone, ma
il discorso sarebbe stato
necessariamente troppo lungo e forse più
scandaloso di quello che qui ho fatto.La frase, cultura e
metafisica, può sembrare curioso; e certo,
di primo acchito, non si vede un nesso preciso tra cultura
€ metafisica . Avvertiamo subito
che qui il termine metafisica è usato nel suo significato più pieno e
precisamente di ricerca del principio primo e del fine ultimo di ciò che è in quanto è. Per conseguenza, tutto
quanto è nell'ordine umano e naturale involge il problema metafisico, in quanto implica quello del suo principio e
della sua finalità, dove risiede il suo significato assoluto. Ci sembra, ‘dunque, manifesto che, in questo senso, vi
sia un problema metafisico della
cultura, come di ogni altra forma di attività dello spirito umano. Vi è per l’uomo un problema massimo che
tutti gli altri condiziona, orienta ed
unifica: quello che è l’uomo a se
stesso, il problema di sè che l’uomo pone a se ste sso: della sua destinazione, del senso totale, integrale
ed assoluto della sua esistenza. Questo
problema, sottostante anche se im:
plicitamente ed inconsapevolmente ad ogni ricerca, costituisce l’umanità
profonda di tutto ciò che è umano, l’umanità essenziale della scienza e
dell’arte, della attività conoscitiva
come di quella morale ecc.; dunque anche della
cultura. La sua presenza conferisce ad ogni atto umano un valore di immortalità: ne fa un momento, con
gli altri concorrente e solidale, del
processo di conquista che l’uomo fa di
se stesso nella realizzazione della sua finalità trascendente il processo
stesso. In questo senso tutto ciò che è, è
vero ed è valido di una verità e di una validità sua, ma che sporge e tende verso il Valore e la Verità
che sono il suo fondamento e il suo
fine, e dunque il suo significato ultimo o
metafisico. Il tempo è riscattato nel suo andare all’eterno e, col tempo, ogni opera e pensiero dell’uomo.
E la cultura è opera dell’uomo; ma egli
non ne intende il significato profondo
fino a quando non la giudica per il contributo
che essa porta alla soluzione del problema della sua verità di uomo, che è presente nella stessa cultura,
perchè dove vi è pensiero ed opera di
uomini vi è quel problema, così connaturale ed essenziale allo spirito
umano. Una cultura fine a se
stessa la cultura per la cultura non è più tale, ma culturalismo:
superstizione e mondana idolatria, mito e non realtà; è i! fazto, non il valore della cultura, che, se si limita al valore o
al fine di se stessa, si assolutizza e
con ciò stesso si nega nella sua validità essenziale. Opera dell’uomo, la
cultura porta, ad essa immanente, il
problema metafisico dell’uomo stesso. Cioè: è l’uomo principio e fine di se
stesso? Rispondere affermativamente (immanentismo) è assolutizzare l’uomo,
divinizzarlo; è negarlo, dire quello che
non è; è definire il suo non-essere e negare il
suo essere. Rispondere, invece, che l’uomo è causa di tutto ciò che pensa e fa e che, in ciò che pensa e
fa, attua come suo fine, tutto l’uomo
che è, ma che non è principio primo e
incondizionato di ciò che pensa e fa (del suo essere) e che, realizzando tutto l’uomo che è, attua
un fine che non è fine a se stesso, ma
la condizione affinchè possa realizzare
la sua finalità suprema trascendente l’ordine del tempo, è dire la verità metafisica dell’uomo, cioè
rispondere adeguatamente al problema non solo dell’essere o della verità
umana, ma anche a quello dell’Essere o
della Verità che è fondamento e finalità trascendente del suo essere e della
sua verità. Assolutizzare l’uomo, fare di lui il principio e il fine della sua intelligibilità metafisica, è
sopprimere il problema metafisico e con esso ridurre, contro l’ordine del
pensiero e della natura umana in generale
e dunque con un atto irrazionale il problema del suo destino e del significato
assoluto della sua vita al problema del suo destino contingente e della sua
significanza storica. Ma così non si risolve il problema-uomo, ma si immagina
il mito-uomo e in questa miticità ogni
pensiero ed opera sua son mito. Mito
anche la cultura, funesto, in quanto assolutizzata e posta finalità di
sè a se stessa, pura temporalità, ogni forma di cultura si pone autonoma
incondizionata assoluta e nega le altre:
la collaborazione delle culture si risolve nel conflitto e nell’incomprensione
tra le varie culture. La superstizione della cultura, principio e fine a se
stessa ed assoluta come l’uomo che ne è
l’artefice, porta inevitabilmente al
fanatismo e con ciò all’urto tra le culture, all’incomunicabilità: cessa
il colloquio. Questa conseguenza è
fatale: negare la realtà trascendente del Principio assoluto fondante l’uomo ed
ogni ente e dell’uomo e di ogni ente
finalità suprema cioè il problema primo
e ultimo della metafisica, connaturale alla
realtà umana è negare l’uomo ed
ogni cosa e perciò ogni pensiero ed
opera sua; è degradare dall’ordine della ragione a quello della irrazionalità passionale;
negare l’origine divina dell’uomo e la sua finalità soprannaturale e con
ciò stesso fare della realtà spirituale
una cosa tra le cose, fuori del suo
ordine, contro il suo ordine, contro ogni ordine. L’uomo divinizzato è feticcio; ed è
primitivismo raffinato e sottile direi sofisticato ogni forma d’immanentismo; è rinnovata barbarie di fanatici ed idolatri
ogni forma di cultura, per raffinata e
scaltrita, che di quell’immanentismo è
espressione. L’uomo rinunzia a conoscere se stesso, a sapere la verità del suo
esistere, del suo pensare e volere, e la
cultura si fa l’espressione di questa colpevole inconsapevolezza. Da quanto abbiamo detto risulta chiaro che,
dal nostro punto di vista, non basta dire che cosa è cultura è
ancora problema di conoscenza ma
è necessario, definitone il concetto, indagare sulla sua verità profonda, cioè dire qual’è il suo senso ultimo, il
fondamento e il fine assoluto; ed è
questo il problema metafisico della cultura.
Ma è evidente che la soluzione di questo problema può essere data ed è data dalla soluzione del
problema-uomo: risolto il problema del
principio e del fine dell’uomo è
implicitamente risolto l’altro del principio e del fine di tutto ciò che è umano, conformemente,
univocamente, alla soluzione del primo
problema. Per conseguenza, il senso o la
verità di tutto ciò che è umano è identico al senso o alla verità dell’ uomo; e se l’uomo ha il
suo senso o la sua verità nel Principio
che lo fonda, lo fa essere, orienta e
stimola e in esso pure il suo fine assoluto, consegue che ogni cosa dell’uomo ha senso e verità in quel
Principio e in quel Fine. Il Vico su questo punto vide esattissimo: la
verità della storia (del mondo umano)
trascende la storia. Vi è un duplice problema che investe lo stesso oggetto
d’indagine: dell’accertamento del fatto
o dell’avvenimento e dell’inveramento di esso: accertare è constatare e
documentare; inverare è spiegarne il significato, scire per causas. Ora
l’uomo è causa della storia e perciò di
essa ha scienza, ma non è principio di
sè a se stesso; dunque, come egli trova il senso (la verità) di sè al di là di se stesso, nel
Principio assoluto o Dio che lo crea
uomo, così la storia, che è la sua opera o
il suo farsi uomo, ha il suo senso ultimo (la sua verità) al di là di essa, al di là del tempo e di ogni
tempo, nell’ordine eterno che la fonda e
la guida ed essa imperfettamente riproduce affinchè l’uomo, attraverso la
storia stessa ma oltre la storia,
realizzi il suo destino, da cui tutto trae senso, superstorico ed
extratemporale. In questa metafisicità immanente in ogni pensiero ed opera umana, che è la
metafisicità immanente e naturale
dell’uomo nella pienezza della sua realtà spirituale, è anche il senso profondo
della cultura. Perciò noi nel segnare i
limiti del culturalismo (la cultura fine
a se stessa ed essa stessa il tutto) e nel denunziare la sua insignificanza sostanziale sono i limiti di un umanesimo che fa della
cultura, dell’uomo e della sua opera in
generale l’assoluto dell’uomo stesso, tutta la sua realtà e finalità
richiamiamo l’attenzione sulla presenza del problema metafisico al
problema della cultura (quel problema è presente all'uomo in quanto tale e in
ogni forma della sua attività) e concludiamo
che non è possibile porre il problema
della cultura e del suo significato senza porre
l’altro del significato dell’uomo in tutta la sua realtà, che è, abbiamo visto, il problema metafisico nel
senso che noi diamo a questa parola,
cioè della intelligibilità suprema della realtà umana e dunque anche della
cultura, che è opera dell’uomo. Della
nostra cultura attuale, nel suo ultimo libro (L'uomo e la cultura, Firenze, La Nuova Italia , 1947), Huizinga scrive:
più ricca e possente che non mai, ma le manca un genuino stile, le manca una fede unitaria, le
manca l’intima fiducia della sua propria
durevolezza, le manca la misura della
sua verità, le manca, infine, l’armonia, la dignità e la divina quiete . Vi è del vero e in duplice senso in
questo giudizio: 4) è vero che la nostra cultura è ricca, ricchissima di motivi, interessante anche nei
suoi aspetti più sconcertanti, nelle sue
contraddizioni, nella sua consapevolezza critica esasperata, nel suo stesso
scetticismo; interessante soprattutto
perchè ricca di esperienza di vita, per cui
nelle sue manifestazioni
migliori non è pura esperienza
culturalistica, ma vita vissuta che si esprime in forme culturali; 5) ma è altrettanto vero che le manca una
norma interiore, costitutiva della sua
struttura, quasi la sua interna e salda
armatura. Dell’esistenza priva di un senso assoluto e di una finalità suprema e perciò dispersa, frammentaria e come
sparpagliata la cultura ripete il
frammentarismo e l’insignificanza, la mancanza di fede e della misura della
sua verità. Privata la vita della sua
norma, cioè del suo essere e del suo
consistere, anche la cultura è privata di consistenza, mancante della norma che la orienta ed
unifica, la fa convergente verso un fine, la cui realizzazione è la sua
verità, che, misurandola, le dà
significato e scopo, appunto perchè essa
può commisurarsi fiduciosa alla verità che le è presente, ma che in essa non si
esaurisce. Quando la vita esprime la sua verità, il suo essere, la verità e
l’essere che la radicano nella Verità e nell’Essere, anche la cultura è
espressione essenziale e sostanziosa, unitaria e vera, della verità e dell’essere della vita; anche essa si
sostanzia della stessa intelligibilità metafisica che chiarifica il destino
dell’uomo e il senso della storia. Il Medioevo espresse meravigliosamente
questo ideale di vita e di cultura: consapevolezza,
in un’armonica ed inscindibile simbiosi di ragione e fede, del destino
dell’uomo come fiduciosa realizzazione
di una finalità trascendente, come
convergenza e solidarietà in Dio di tutte le energie della vita nel loro dinamismo integrale. Il migliore
Rinascimento, senza negare questa concezione cristiana dell’esistenza, espresse
il suo ideale di cultura nella serena ed
armoniosa operosità umana tesa a
realizzare unitariamente i valori della bellezza, della dignità della persona, della scienza
come conquista del mondo, per cui quel
di divino che l’uomo e la natura
esprimono è come riflesso, guida, richiamo e testimonianza della loro origine da Dio e della loro
finalità in Lui. Il pensiero moderno, sviluppando fermenti ed elementi
impliciti nello stesso Rinascimento, ha
rotto questa armonia e del mondo umano e naturale ha fatto tutta la realtà,
avente in se stessa il suo principio e
il suo fine e perciò autosufficiente :
fondamento di sè a se stessa; orgogliosa fede nelle possibilità
dell’uomo, artefice incondizionato del proprio destino e del suo mondo. Per circa tre secoli la
cultura occidentale ha vissuto di questa fede, perdendo gradatamente il
senso della trascendenza e la coscienza
religiosa per conquistare quello della
immanenza e su di esso costruire, al posto della religione il cui oggetto è Dio, la
superstizione dell’uomo assoluto principio e fine di se stesso. Così l’uomo è
stato adeguato alla realtà naturale e chiuso nella finitezza dell’esperienza:
costretto a porsi esso stesso, come ragione o pensiero, principio e fine metafisico del reale, ha
finito per perdere il vero concetto di
metafisica e rinunziare alla metafisica stessa.
La fede superba ed orgogliosa nelle sue possibilità, attraverso un
processo di autocritica, si è gradualmente sfaldata; in tal modo egli è rimasto privo di una fede e di
un destino trascendente, privo di una fede e di un destino immanente. La perdita della metafisica si è conclusa
fatalmente nella perdita della realtà e della verità dell’uomo e, per
conseguenza, nella perdita della fede e
della serietà della cultura. Invano si
è cercato trovare la verità dell’uomo e delia
cultura in uno dei valori mondani arbitrariamente assolutizzato
(nell’arte, nella scienza, nella storia ecc.); invano il materialismo storico ultima e legittima conseguenza
dell'immanentismo cerca di trovare
l’unità e la verità dell’uomo e della cultura nel valore
economico-politico-sociale. Quella che
oggi si chiama la crisi dell’uomo e della cultura è la conseguenza del fallimento delle
precedenti forme culturali a carattere immanentistico: non è in crisi una
forma culturale immanentista, questa o
quella, ma è in crisi l’immanentismo come tale. Perciò qualunque forma
culturale immanentista, espressione della fede orgogliosa e superstiziosa nei poteri dell’uomo, è essa stessa
espressione della crisi e non di essa
risolutrice; è ancora, anche se del presente,
espressione di una cultura del passato, che la crisi del presente, che è
la sua crisi, nel suo travaglio si sforza di oltrepassare perchè rivelatasi
fallace. Similmente l’uomo e la cultura
non possono rinvenire la loro verità nel mito funesto . ed esclusivista del nazionalismo, dissolvente
dei concetti stessi di uomo e cultura e fatalmente avviato all’urto delle
culture nazionaliste, cioè alla guerra.
La Kultur tedesca dell’immediato passato e la cultura sovietica dell’oscuro
presente ci sono di ammaestramento e di
ammonimento. Una conclusione scende
legittima ed inoppugnabile dalle nostre
premesse ed argomentazioni: l’uomo non è il creatore della sua verità nè
l’artefice del suo destino; la verità e
il destino dell’uomo trascendono il mondo umano e naturale, traggono origine e
realizzano il loro fine al di là e al di
sopra di esso. Solo in Dio l’uomo autentica la verità della sua vita; solo nella trascendenza
teologica rinviene l’intelligibilità
metafisica del suo essere: qui la sua unità,
la verità della verità che egli è. Solo esprimendo questa realtà umana la cultura può ritrovare unità e fede,
verità e consistenza, cioè la sua norma e il suo significato. Eliot ha scritto che una cultura presuppone
una religione ed è vera se è vera la
religione su cui si fonda. Ora non vi è
religione senza Dio: le religioni del progresso, della scienza, dell’umanità, della libertà, del
collettivismo ecc., adorano un Dio che
non è tale e perciò son forme di idolatria: il mondo moderno è idolatra, di
religioni false e dunque di false forme
di cultura. Religione è fede nell’Essere trascendente e creatore, principio e
fine di ogni cosa esistente. Non solo
per l'Occidente, ma per ogni uomo che ne
viene a contatto, questa religione e questa fede non possono non essere che la
religione e la fede cristiane, perchè il
Cristianesimo è l’unica religione vera; dunque solo una cultura cristiana è vera. E se la cultura
occidentale ha ancora una sua verità e, tra tanti segni di sbandamento e disintegrazione, riesce ad avere una sua
certa unità e a valere più di altre
forme culturali, lo si deve al fatto innegabile che, pur tra tanto laicismo, è
sempre una cultura cristiana. Ancora
oggi i popoli dell’Occidente respirano e vivono in un’atmosfera cristiana,
anche se viziata e corrotta. Nessuno
potrebbe parlare di persona , libertà ,
amore e carità se il Cristianesimo non avesse insegnato questi concetti e se ancora oggi, pur tra
tanti travisamenti, non fossero presenti
alla coscienza occidentale. A questo
punto ci sembra che si presenti un dilemma
perentorio: o la cultura esprime la verità dell’uomo, quella da noi
sopra indicata: il senso assoluto o la intellegibilità metafisica del suo
essere, ed ha la sua verità; o ne è
l’espressione sofisticata e allora, espressione di una falsificazione
della natura umana, è altrettanto falsa. Ma una cultura che esprime la verità dell’uomo è sempre
conforme alla verità cristiana, in
quanto la verità dell’uomo è in Dio e nel Dio
del Cristianesimo. La cultura è sempre l’espressione più alta della civilità e non c'è civiltà più
alta di quella cristiana: quanto non è
cristiano, dopo il Cristianesimo, è incivile.
Come segno di una civiltà non esteriore la cultura ha una funzione altissima e dinamica: informare dei
suoi valori il mondo che necessariamente
è fuori di essa; è questa la sua
finalità sociale. Una cultura sociale in senso diverso, nel senso del collettivismo marxista, è la
cultura dell’incultura, senza
senso. L'espressione filosofia della storia e naturalmente anche il problema è recente: che io sappia, per primo, la usò il Voltaire e, successivamente, lo
Herder la introdusse in Germania. Ha dunque appena due secoli di vita; e di vita molto contrastata. Non è senza significato che si sia
cominciato a pensare ad una filosofia
della storia nell’età dell’Illuminismo,
considerata comunemente come l’età dell’anti-storia; forse proprio perchè antistorico, per primo
l’Illuminismo pensò ad una filosofia
della storia. Il secolo dei lumi aveva
un suo programma da realizzare: il regno dell’uomo sulla terra, da instaurare con la sola ragione,
autonoma, assoluta, cioè indipendente da qualsiasi principio superrazionale,
trascendente l’ordine della natura umana e fisica. Come la scienza si era costituita autonoma, così
ogni altra forma di attività (il
diritto, la morale, la politica, ecc.) e ogni
altro settore dello scibile dovevano costituirsi separati dalla religione e, in generale, da ogni teologia,
il cui contenuto non si risolvesse
perfettamente nell’ambito dell’umana ragione. Si pensò dunque a una filosofia
della storia , cioè a una spiegazione
puramente razionale del cosmo umano, a
una sistemazione di esso sulla base di un certo
numero di princìpi razionali direttivi ed esplicativi. Non aveva forse l’ oscurantismo medioevale accettato la concezione
agostiniana della storia, secondo le grandi e maestose linee del De civitate
Dei? Ebbene, questa di Agostino e del
pensiero cristiano posteriore non è
filosofia , ma teologia della storia, cioè la storia del mondo
umano interpretata e spiegata sui dati
della Rivelazione, per cui la storia
terrena trova la sua spiegazione e il
suo significato non in se stessa, ma nella storia sacra e nell’ordine soprannaturale.
Anche la storia bisognava separare dalla
religione; dunque non la storia spiegata teologicamente (super-razionalmente), ma filosoficamente,
dentro l’ordine della ragione. Ma si
possono ricondurre i fenomeni storici ad
un piccolo numero di princìpi direttivi essenziali ed irriducibili? Si può costruire il sistema della storia? Lo Illuminismo non sembra che sia stato di
questa opinione e: o condannò la storia
mondo oscuro ed irrazionale delle
passioni, o non oltrepassò la concezione di essa come ordine cronologico
(d’Alembert). Non così in Germania dove,
a cominciare dallo Herder, fin dagli albori del romanticismo, la
filosofia della storia ebbe ben altra
fortuna ed elaborazione. Nacquero in
quel periodo le sue sorelle, le
molte filosofie : della
religione, del diritto, dell’arte ed
ultima, col d’Ampère, delle scienze. È evidente che proprio la nascita di tante filosofie
segna l’agonia e poi la morte,
anche se apparente e transitoria, della filosofia . Se la storia, la religione, il diritto, l’arte, le
scienze, ecc. hanno ciascuna una sua
filosofia, che resta alla filosofia come suo
oggetto proprio e problema irriducibile? Il sorgere di tutte ueste filosofie è l’effetto e insieme la
causa della crisi della filosofia,
della sua dissoluzione. Evidentemente per
filosofia cominciava ad intendersi qualcosa di ben diverso da prima.
Infatti basta porsi il problema di una filosofia della storia
per ritenere almeno possibile una scienza del particolare, del singolo,
del contingente. Tale possibilità è
esclusa dalla filosofia classica, greca e cristiana; perciò il pensiero
antico e quello cristiano non si posero mai il problema di una filosofia della
storia, quantunque il Cristianesimo abbia posto in prima linea proprio il
problema della storia. Evidentemente
grecità e Cristianesimo hanno un concetto di filosofia ed un concetto di storia
tali da escludere che vi possa essere
filosofia che sia filosofia della storia e storia che possa essere tutta esplicata con e in un
sistema di principi, di leggi, di categorie. Per Aristotele, infatti, la
filosofia è sapere razionale o scienza
(Mez. I, 1; 993 b, 21) avente per
oggetto l’universale e per strumento la ragione; la storia è invece ammasso di documenti, pura raccolta
generale di fatti da distinguere dal
lavoro di spiegazione o di sistemazione e dai trattati teoretici. Phslosophia individua dimittit , dice F.
Bacone (De dignitate et de aug. sc.; II,
I, 4) e come tale essa si oppone alla storia che proprie
individuorum est, quae circumscribuntur loco et tempore (ivi, II, 1, 2). La storia è conoscenza
dell’individuale ed ha come strumento
essenziale la memoria; la filosofia lo è dell’universale ed ha come strumento
specifico la ragione; dunque la filosofia si oppone alla storia; una filosofia della storia è una contraddizione nei termini, in
quanto si assegna alla filosofia un
oggetto che non le è proprio, è l’opposto
(l’individuale) del suo (l’universale), e si applica il suo strumento
(la ragione) ad un oggetto per il quale è adatto un altro (la memoria). La filosofia, continua
Bacone (:24, II, I, 4), neque
impressiones primas individuorum, sed noziones ab illis abstractas,
complectitur ; la storia invece è
proprio conoscenza delle impressiones
primas individuorum . Dunque il dato storico e il dato teorico, storia e teoria, si oppongono: la prima ha per oggetto
i dati di fatto nella loro singolarità,
particolarità e contingenza; l’altra le relazioni costanti e generali, su cui
si applica la ragione. Sono possibili relazioni costanti e generali nei
fatti storici? È possibile una scienza
della storia? Alcuni moderni hanno
parlato e parlano ancora di filosofia della storia, ma evidentemente intendono
storia e filosofia in maniera, come
dicono, moderna . Il pensiero moderno, a differenza di quello
greco e medioevale, manifesta uno spiccato e prevalente interesse per il particolare, il concreto: per il concreto
fisico e il concreto umano; perciò le
scienze naturali e la storia sono una sua
conquista; perciò la politica, l’estetica e l’economia, scienze mondane, hanno avuto nel pensiero moderno un
immenso sviluppo e sono state
scientificamente sistemate assieme ‘alla
cosiddetta psicologia sperimentale. L'oggetto del pensiero moderno è stato ed è ancor oggi
prevalentemente questo mondo ,
questa terra ed i loro fatti
concreti; non per nulla con Occam
incomincia quella che si chiama la decadenza della Scolastica. È evidente che
la filosofia, gradualmente, doveva essere portata o costretta a porsi come
suoi problemi quelli del concreto, cioè
dei fatti di questo mondo, naturali ed
umani. E solo dei fatti; dunque non più ricerca
dell’4/ di lè, ma interpretazione del quaggià. Di qui, dapprima, la
rivolta contro la metafisica tradizionale e poi contro la metafisica senz’altro; la sostituzione
della metafisica dell’essere
con la metafisica del
pensiero o della mente; di qui la metafisica del pensiero intesa come
costruzione delle scienze della natura
(positivismo). In tal modo, da un lato,
la filosofia è venuta ad identificarsi con le singole scienze umane o naturali, e, dall’altro, il
concetto di storia, il cui oggetto è il
concreto o il particolare per eccellenza, ha
assunto un’importanza quasi assoluta. Di conseguenza la filosofia ha cessato di essere una scienza
autonoma e si è trasformata in
metodologia: o delle scienze (positivismo)
o dell’attività spirituale umana (idealismo) o della storia senz'altro (storicismo); ha cessato di essere
filosofia dal giorno che la sedusse il
demone dell’immanentismo e volle farsi
mondana, antiplatonica, scienza di quaggiù: tradì se stessa e si snaturò. Ma anche così, per limitarci al nostro
problema, è possibile una filosofia della storia? Non propriamente il Vico ma lo Hegel credette di sì, di poter dare una
spiegazione razionale totale della
storia e dello spirito umano nei momenti del suo divenire: per lo Hegel, la
ragione può spiegare (e spiega), sistemare (e sistema) tutto il reale fisico
ed umano, la storia senz’altro, senza
residui. Ma la storia è storia
dell’Idea, storia dell’Assoluto: è l’autorivelazione di esso, che, attraverso il processo dialettico,
chiude il circolo su se stesso. Da questa storia resta fuori, al principio
e alla fine del processo, proprio... la
storia! La Ragione hegeliana, il Dio immanente creatore, si sostituisce alla
creatura e la nega come tale: la pone e
la nega, la risolve (dissolve) in sè: il
concreto, il singolo, il particolare, nel dialettismo antinomico hegeliano, è il non-reale, il
non-razionale, il nonvero, lo strumento caduco di cui l’Idea si serve e che
la stessa Idea sopprime. La storia è la
storia dell’Idea, non degli uomini
singoli e delle cose; quella di Hegel è una filosofia della storia che nega proprio la storia. Ecco
perchè il positivismo che, nonostante tutto ebbe vivo il senso della storia,
è stato anti-hegeliano; e un
contemporaneo epigono italiano dello
Hegel, rimasto, in fondo, positivista anche lui, ha negato che vi sia una
filosofia della storia ed ha identificato con la storia la filosofia. In tal
modo, il positivismo e uesta forma di
storicismo empiristico hanno costruito o
una filosofia della storia senza
filosofia (il positivismo) © una storia
che dice di identificarsi con la filosofia solo perchè ha ridotto questa a
metodologia dell’altra, cioè perchè in
partenza la nega come filosofia. Già lo Schopenhauer aveva negato che vi possa
essere filosofia della storia (!). La storia è una conoscenza senza essere una
scienza, in quanto in nessun modo essa conosce il particolare per mezzo
dell’universale, ma deve attingere immediatamente il fatto individuale, e, per
così dire, è condannata a strisciare sul terreno dell'esperienza... Se la
storia non ha propriamente per oggetto
che il particolare, il fatto individuale e lo ritiene la sola realtà,
essa è tutto l'opposto e l’antitesi
della filosofia, che considera Je cose dal punto di vista più generale ed ha per oggetto specifico quei
princìpi, sempre identici attraverso
tutti i casi particolari (Die
Welt als Wille und Vorst., vol. II, ca37). Dunque, proprio il fallito tentativo
del pensiero moderno di costruire una
filosofia o scienza della storia (cioè il tentativo di spiegare tutto l’uomo
senza Dio) dimostra come una filosofia
della storia in questo senso sia impossibile e fa attuale, esso, antiteologico, la concezione
della storia di Agostino e della
filosofia cristiana; attuale, ma dopo la concezione che della storia ha avuto
il pensiero moderno, la quale non va
negata ma assunta come problema della filosofia, come il problema dell’uomo,
del suo significato e del suo
destino. Posto ciò, esiste il problema
della storia (del singolo, dell’uomo concreto) nel pensiero aristotelico e
nell’aristotelismo? Non sembra. Se l’oggetto della storia è il
particolare, il concreto, il contingente
non risolvibile, come tale, nelle leggi
che pur lo governano; se i fatti umani sono contingenti in se stessi, cioè di
una contingenza obiettiva, assoluta; e se, d’altra parte, l’oggetto della
filosofia è l’universale, della storia non c’è filosofia, non c’è scienza. Non
c’è nemmeno problema da questo punto di
vista, in quanto non si può porre il
problema di quali siano le leggi razionali,
universali e necessarie di ciò che non è spiegabile con tali leggi, perchè ad esse non ubbidisce. Infatti,
per Aristotele, come per Platone e per
il pensiero greco in generale, della
storia non c’è scienza e non c’è neppure problema speculatuvo: è il
mondo del sensibile, del passionale, dell’arazionale. Il singolo come singolo ed il fatto umano
nella sua concretezza non sono oggetto di scienza razionale o di filosofia; il singolo è inoggettivabile. Perciò nella
concezione greca la storia non ha
progresso nè svolgimento: è circolo, eterno
ritorno insignificante. È razionale il mondo delle essenze, non quello degli individui. Gli uomini
tendono a Dio, ma restano sempre fuori
di Lui, come Egli è estraneo a loro ed
alle loro vicende: non sanno perchè vanno e dove vanno; son mossi dal cieco destino, dal fato, dalla
ananche, e precipitano nella notte inesplorabile della morte. Il Cristianesimo
gettò luce su questa concezione della vita, serena per la saggezza della
disperazione e attaccata alla gioia di vivere per lo sconsolato convincimento che la vita e la
morte non hanno in loro nulla che veramente
persuada, con il concetto di creazione che spiega appunto le origini da Dio
della storia e dell’uomo. E pur essendo
il concetto di creazione anche una
verità di ragione, esso entrò nel mondo con la
Parola soprarazionale. Per la
filosofia nasce a questo punto un problema fondamentale: se oggetto della
ragione sono le essenze universali
desistenzializzate e non quelle incarnate che sono i singoli uomini (quell’essenza singola che è ogni
singolo), l’uomo e la sua vicenda la sua origine, la sua vita, il suo dolore,
il suo bene e il suo male, la sua
morte restano fuori della filosofia,
sono il limite della ragione. Accettare questa conclusione sarebbe cancellare
la storia e gli uomini, come, in fondo, li cancella il pensiero greco ed ogni
filosofia della pura ragione nozionale,
sia il razionalismo di tipo plotiniano o
spinoziano, sia quello di tipo hegeliano. Pertanto, una filosofia che
considera razionali solo le essenze universali si trova di fronte, imponente, ineliminabile ed
inesorabile, il problema della storia,
cioè il problema dell’uomo. Può la
filosofia risolverlo? Lo ha
tentato con la filosofia della storia, ma, come abbiamo visto, il tentativo è
naufragato: ha soppresso la filosofia (positivismo) o ha soppresso la storia
(Hegel) nel momento stesso che tentava di ridurla a razionalità; pertanto l’uomo o la storia nella sua integralità non
può essere spiegato dalla sola filosofia. Ma fino a che punto può essa spiegarlo ?
Indubbiamente vi è nella storia una relativa razionalità e precisamente quella che deriva dalle leggi
eterne della matura umana e dalle
connessioni causali derivanti dal contatto di questa con l’ambiente che la
circonda. Ma, tale razionalità, ben
lungi dal rendere interamente razionale la storia, si lascia ancora sfuggire
proprio quel singolare concreto che
esige spiegazione. La storia è veramente comprensibile e persuasivamente
spiegata solo quando spiega, in maniera
non contraddicente la ragione e le esigenze fondamentali e sempre attuali dello
spirito umano, il significato ed il
destino di ogni singolo uomo e, con esso, quello dell’umanità globale del
passato, del presente e del futuro.
Quale dialettica governa il mondo? Quale il piano della storia? Hegel rispose: è l’autorivelazione
dell’Assoluto. Ma ciò non spiega la
storia, bensì afferma che essa è strumento dell’Idea e con ciò le nega ogni
significato e realtà; con ciò si
cancellano, senza risolverli, il problema del male, del dolore, della morte ecc. La filosofia della storia non
può dunque pretendere di spiegare il piano della storia stessa. Ogni tentativo in questo senso è una pretesa
infondata della ragione iperbolica:
giustamente A. Franchi (Ultima critica,
p190) chiama la filosofia della storia
vanità della vanità . Ma il suo
fallimento non lo è della filosofia; anzi è il
recupero della sua autenticità. La filosofia si incontra con il problema dell’uomo, del singolare
concreto: il problema le nasce dal di
dentro e le è essenziale. Ma, come abbiamo
accennato, non lo è ad una filosofia delle pure essenze, che identifica la razionalità con la ragione di
tipo aristotelico, puramente
intellettualistica e nozionale. Per una ragione delle essenze, dell’eidezica, il singolare, la
storia, l’uomo in carne ed ossa,
l’esistente, sono indifferenti. Essa si chiude nelle essenze e chiude in parentesi il concreto. Ma
questa ragione non è tutta la ragione,
che non è tutto il pensiero vivente,
l’uomo pensante, realtà spirituale, spirito che è insieme ed inscindibilmente essere sentire conoscere
volere. Per lo spirito concreto la storia è la sua storia; il significato e il
destino della storia sono il suo significato e destino. Il problema scaturisce
dal suo dinamismo interiore, gli è intero:
è il problema della sua stessa interiorità. Il problema speculativo
della verità manifesta la sua solidarietà con quellò pratico del destino umano;
nasce il problema ultimo della loro
unità. Può la filosofia risolverlo? No: può solo avviarne la soluzione
integrale, che è quella della storia integrale, cioè può cercare a quali
condizioni è possibile quella unità. È
il problema dell’adazzamento del nostro essere concreto alla sua finalità
interiore e trascendente, che è l’Essere.
Tale adattamento è atto razionale della ragione vivente e concreta, con cui ricorosce (e dunque è
anche atto volontario) che la dinamica del pensiero è orientata all’Essere che la trascende e che la soluzione del
problema della vita e del destino
dell’uomo o della storia trascende l’ordine razionale umano e naturale; dunque
l’atto con cui la ragione riconosce che
il piano della storia è divino, è atto razionale e perciò razionale è il passaggio dalla filosofia
alla teologia della storia. A questo punto si rivela chiara
ed evidente alla ragione la convenienza della Rivelazione: il significato della
storia è nella Parola rivelata ed incarnata, in
Cristo. È la soluzione di Agostino, la cui teologia della storia,
punteggiata dai momenti della creazione, del peccato originale, dell’Incarnazione, della
Redenzione attraverso la Croce, del
dolore come conseguenza del peccato, del gran
Sabato nella fine dei tempi, resta e resterà sempre, nelle sue linee maestre, la verità perenne sul
problema della storia. E, se verità, sempre attuale; più che mai oggi dopo che il pensiero moderno ci ha educati
all’interiorità della ricerca e della
verità. Ma deve essere una interiorità autentica: quella che attesta
e non che pone Dio. Nella
trascendenza teologica è il senso della storia e dell’uomo: Beau de voir par les yeux de la foi
l’histoire d’Hérode, de César... Qu'il est beau de voir,
par les yeux de la foi, Darius et Cyrus,
Alexandre, les Romains, Pompée et Hérode agir,
sans le savoir, pour la gloire de l’Évangile! (Pascal).
Il primo dei due termini è antico quanto la filosofia: occupa un posto primissimo tra i termini
tecnici, già approfondito e direi scavato in mille guise, codificato. Il
secondo non è tecnico, non ha una
tradizione speculativa, manca nei
dizionari filosofici più accreditati; forse perchè pone, in sede filosofica, un problema la cui soluzione
totale e unica spetta alla religione. Il
primo ha un antico e glorioso passato, ma
di esso l’altro è la perenne attualità proiettata nel futuro; infatti, per noi, il problema dell’esistenza
trova autentico chiarimento e soluzione
ultima ad esso interiore ed
essenziale nel determinare quale sia
la consistenza dell’ esistenza stessa.
I termini esistere , esistenza, esistente, esi
stenziale hanno una risonanza
infinita. Che cosa, infatti, non
appartiene all’esistenza? Berdiaeff dice che tutte le filosofie sono state
esistenziali: o hanno trattato dell’esistenza
o speculato su di essa, ma proprio questa constatazione, che del resto va presa entro certi limiti, impone
il problema non della riduzione di tutta
la storia del pensiero all’esistenzialismo o quello di una interpretazione unilaterale
di essa, bensì l’altro, meno grossolano
in quanto sa distinguere, del perchè
solo da circa un trentennio vi sia una filosofia detta esistenzialista o almeno che si dichiara esplicitamente tale.
Ciò significa che il problema dell’esistenza, antico quanto il pensiero, cioè quanto l’uomo, si
presenta con una sua peculiarità in quel
che oggi si chiama l’esistenzialismo. Si
tratta evidentemente di una più consapevole esperienza filo sofica del concetto di esistente, di una
filosofia quasi galvanizzata totalmente da questo problema, posto in
termini nuovi; in breve, di un
particolar modo di concepire l’esistenza. Il movimento in questione non si
caratterizza come filosofia
dell’esistenza, ma come quella determinata concezione di esso, che si chiama
appunto esistenzialismo.
L’esistenzialismo è una posizione di pensiero; ogni posizione di
pensiero, direbbe Camus, è una rivolta; ogni rivolta è decisione dichiarata di dire di no a
qualcosa o a qualcuno. Ma è anche dire
di sì: il 20 a qualcosa o a qualcuno importa
il sì a qualcos'altro: la negazione di un valore che non si riconosce più tale è l’affermazione di un
altro, considerato valore. A che
l’esistenzialismo dice di no? Alla Conoscenza
onniconoscente, alla Ragione onnicomprensiva di quanto (che è tutto) la ragione speculativa può
conoscere e comprendere, chiudere nell’orizzonte della pura razionalità. E quel che resta fuori? Il conoscere oggettivo e la
ragione speculativa o lo negano, o non se ne curano. Comincia
l’assedio alla fortezza della razionalità pura; l’esistenza concreta preme contro i bastioni della filosofia
speculativa; preme ed attacca, pone
istanze, formula domande, mette in questione
tutto il formidabile e massiccio castello, pietra per pietra. L'’esistente che dice di no ed interroga si
pronuncia sulla Conoscenza o Ragione. I
termini del rapporto filosofia speculativa-esistente sono capovolti: non si
tratta più di sapere che cosa la Ragione
pensi dell’esistenza, ma che cosa l’esistenza della Ragione; anzi, giacchè
l’esistenza è ancora un termine
astratto, che cosa l’esistente hic ez nunc pensi della filosofia speculativa. Non più la ragione
rende problematico l’esistente, ma
l’esistente problematica la Ragione; quel che
per quest’ultima era un non-problema
l'esistente, l’accidentale che non importa all'essenza
intelligibile è ora posto come il
problema assoluto, che la filosofia speculativa è costretta a riconoscere come proprio limite.
Essa perciò è chiamata non a risolvere
un problema per essa insolubile perchè
non razionale, ma a chiarirlo sempre più come problema, ad esasperarlo quasi
scavandone la radicale problematicità insormontabile; e con ciò, in pari tempo,
la ragione si fa essa stessa problematica di fronte alla irriducibilità o non
razionalità dell’esistente. In questo porre l’esistente come interrogante la
Ragione e come colui che dice quel che
ne pensa, credo risieda la caratteristica fondamentale di ogni vera filosofia
esistenzialistica, ammesso che sia
possibile una tale filosofia nel senso che, come pura filosofia, possa
risolvere integralmente il problema, quel complesso di problemi che è
l'esistente. Ens dicitur multipliciter,
scrive S. Tommaso sulla scorta di
Aristotele. Vedere l’esperienza molteplice sotto l’aspetto il più universale significa considerarla
sotto la categoria dell’ente, il quale non è solo l’ens rationis, ma
precisamente il quid, essenziale ed
ineliminabile, per cui il reale è reale e
senza di cui il reale non è reale. Ente è id cui competit esse e l’esse compete solo all'Ente in sè, ma
ad ogni ente del mondo dell’esperienza,
ad ogni reale, al reale hic es nunc, che
l'Ente fa esistere, pone con una sua essenza.
Fa esistere , pone; dunque all’esse compete anche l’esistere: l’esse è essenza ed esistenza. Ma
è proprio l’esperienza molteplice che sembra smentire l’essere dell’esse o dell’ente: ogni ente diviene, trapassa da uno
stato ad un altro, in una successione di
stati diversi, per cui questo ente
diviene non questo ente. L'esperienza, ha osservato Aristotele, e prima
di lui Platone e Parmenide, come divenire da questo a non questo, è esperienza
di contrari. Ma non per ciò è
contraddittoria: proprio la presenza dei contrari nell’esperienza è
testimonianza della identità dell’ente a se
stesso, in quanto non vi potrebbe essere movimento da questo ente a non questo ente senza l’unità e la
permanenza dell’ente, cioè se l’ente non restasse identico a se stesso. È
questo ente che è contrario al ron
questo ente, ma l’ente, sia del questo
che non questo, è sempre lo stesso identico ente. Se l’ente potesse divenire il non-ente, ogni
ente diverrebbe la negazione di se
stesso e non vi sarebbero più nè enti nè questo ente che diviene non questo
ente. Se tra ente e non-ente vi fosse
rapporto dialettico (nel senso di una dialetticità che investe la stessa essenza dell’ente per cui
l’antitesi s’irradica nella sua
essenzialità) non vi sarebbe più possibilità di stabilire i termini di una
qualsiasi antitesi; infatti è possibile
un'esperienza di contrari e un rapporto dialettico tra questo ente e non questo ente in quanto permane
l’ente, sempre identico a se stesso, che
da questo diviene non questo. In altri
termini, il principio di identità, piuttosto che negare il divenire dell’esperienza molteplice, è quello
che ne giustifica e ne spiega il
dinamismo, facendo che i contrari siano momenti dell’ente, senza che la
contraddizione infirmi l’ente in se
stesso, cioè quella sua positività essenziale e permanente, la quale sola rende
possibile il divenire e nello stesso.
tempo fa che esso sia incontraddittorio, non negativo. Ciò che diviene, mentre diviene, è lo stesso ente
uno e ciò che diviene dell'ente uno è quel che può diventare o disparire ( cupBeBnxés), senza distruzione del soggetto
( xwpic tic 70ò broxerpevov 0I0PÀg
). Non sempre noi facciamo un uso
preciso dei termini esistenza ed esistente , anzi tendiamo spesso ad
identificarli; ma è fondamentale tenerli distinti. L'esistenza come tale non è oggetto di esperienza sensibile:
proprietà comune a tutti gli esseri, è una nozione astratta. L'esistenza non esiste; esistono gli esistenti, cioè
quanti esseri hanno l'esistenza a tutti comune dal loro atto di esistere o
atto per il quale un essere è, atto
assolutamente primitivo e fondamentale, come scrive il Gilson (Les limites
existentielles de la philosophie), a cui
tutto va rapportato e condizionato, non
solo ciò che un essere è o fa, ma anche tutta la conoscenza che possiamo averne. L'atto di esistere fa
che ogni essere sia e, per il fatto che
è, sia conosciuto; non è una proprietà
dell’essere, ma tutte le trascende in quanto tutte le condiziona.
L'essere è ciò che è significa che l’essere esiste per il suo atto di esistere, dove l’esistere non
è una delle tante sue proprietà, ma la
dimensione immensurabile per cui l’essere che è, è ciò che è. La definizione
dell’essere così formulata implica due elementi logicamente distinguibili, ma metafisicamente indissolubili. Vi è una
ontologia e vi è un’eidetica
dell’essere: per l’ontologia l’essere è ciò #1 quale è , ciò che, per il suo atto esistenziale,
esiste; per la eidetica l’essere non è
ciò il quale è, ma oggetto da conoscere,
cioè nella eidetica l’essere è considerato come quello di cui è da dire che cosa è, di cui va definita
l’essenza. Ora, per tale definizione, la
riflessione filosofica prescinde dall’atto
esistenziale e considera la nozione dell’essere in quanto essere e delle
sue proprietà in quanto essere. L'esistenza o la non esistenza di un essere o dell’essere in
generale lascia indifferente la
eidetica, in quanto l’essere concettuale, a prescindere che l’essere esista o
no, è solo la sua essenzialità. L'essere
è considerato nella sua possibilità pura di cui l’esistenza non è una necessità
intrinseca, ma come un complementum, superfluo per definirla, anzi ostacolo
alla sua trasparente intelligibilità.
La filosofia non è forse filosofia prima o metafisica, scienza dell’essere in quanto essere? Certamente, ma dell’essere dell’ontologia e
non solo di quello dell’eidetica. Ora
l’essere in senso ontologico è l’essere che è, che esiste in virtù del suo atto
esistenziale, l’essere reale (non l’essere possibile), il cui fondamento
assolutò l’atto dell’esistere; precisamente l’oggetto della metafisica l’essere reale, l’essenza esistenzializzata,
il cui esserci c'è per l’atto di
esistere fondante assolutamente l’essere. Ma c’è scienza dell’esistere come tale? Non c’è di
esso scienza eidetica, in quanto l’atto per cui un ente è o esiste non è
oggetto concettuale; l’esistente in
questo senso è inoggettivabile. L’essere in senso ontologico è soggetto
(oggetto è il concetto o la forma o
l’essenza), il quale non si oggettiva, se oggetti vato cessa di essere soggetto; come soggetto,
è eideticamente inassimilabile. D'altra parte, il ciò che è o ente, è ciò #1 guale è come un che cosa che è: l’esistere non è l’insignificante esistenza di nulla, ma il
significante esistere di qualcosa,
l’esistenziarsi di un’essenza; perciò il problema dell’esistere non va posto come problema
della pura esistenza, ma dell’esistenza
di un quid. Dunque ciò il quale è , è ed
esiste come qualcosa che fruisce dell’esistere: non vi è esistente che non sia
l’esistere o l’esistenziarsi di una essenza.
L’essere in senso ontologico è l’essere che è esistente ed è l'oggetto della metafisica. L’esse, nel suo
senso più pieno, è sintesi di essenza ed
esistenza, è l’essenza concretamente
attualizzata, l’essenza che è wn essere. L’esistente finito è particolare e contingente, ma con una sua
essenziale struttura, senza della quale sarebbe impossibile ogni riduzione cidetica, la quale ne coglie l’essenza
desistenzializzata e fa che il reale sia
concettualizzabile. In questo senso l’eidetica è la verità del reale, quella che lo definisce
nella sua essenza, lo raccoglie nel suo ordine, lo fa oggetto di ragione e
dunque di conoscenza filosofica. La definizione aristotelica della metafisica come scienza dell'ente in quanto
ente dove scienza significa intelligibilità dell’ente
stesso o definizione della sua essenza
desistenzializzata può, su questo
punto, concordare con l’altra platonica
della metafisica come scienza dell'ente
in quanto verità, cioè di quel che può essere ed è oggetto dell’intelletto. Ma nè la definizione
di Aristotele nè quella di Platone
esauriscono il problema della metafisica, in quanto l’oggetto di essa non è
l’essenza, ma l’essenza-esistente, non il concetto oggettivabile, ma il
soggetto come soggetto, cioè come
essenza esistente, inoggettivabile in quanto esistente, includente l’atto di
esistere, fondamento assoluto di ogni essere reale. Evidentemente la posizione
di Aristotele va integrata e sorpassata: è vero che lo Stagirita sembra
interessarsi, a differenza di Platone, di ciò che esiste, ma in realtà la sua metafisica si comporta
come se il problema dell’esistenza di ciò che esiste non si abbia a porre. Naturalista, Aristotele parte dal concreto;
metafisico, sembra dimenticarsi della
pluralità degli individui viventi e divenienti e rifugiarsi nell’essenza
immutabile, una ed identica a se stessa.
Ma vi è in questa posizione essenzialista una verità che non va perduta, comune a Platone e ad
Aristotele: una inclinazione naturale
spinge il pensiero a ciò che è puro e
semplice, al di sopra della molteplicità e della mutabilità delle cose, al distacco dall’accidentale
diveniente, condizione per cogliere ed
intendere ciò che ogni ente è. L'esigenza è
platonica ed è aristotelica, ma in Platone ha un senso speculativo che
manca o almeno è diverso in Aristotele: intendere ciò che una cosa è, coglierne
l’essenza, è penetrare la sua intimità,
la verità definitiva che l’esistenza manifesta.
Se poi questo linguaggio platonico lo traduciamo in quello del platonismo cristiano di Agostino, in cui
la intimità si traduce nei termini della
interiorità e la verità in quelli del
vero come forza operante, attiva e creatrice e ancora unificante, il
concetto di essenza si arricchisce di un significato dinamico e, come verità, si traduce nei
termini della spiritualità. L’essere concreto è determinazione esistenziale
della sua unità vivente nella sua unità
reale. Ma a questo punto si può
domandare: il problema della metafisica
è l’esistente hic et nunc, il contingente e non il necessario, l’accidentale e non l’essenziale?
Chi formula questa domanda dimentica che l’atto di esistere fonda ogni essere reale e che l’esistente non è solo
contingenza ed accidente, ma è l’esistere di una essenza. Il reale mi si
presenta come insieme di soggetti, cioè
di essenze universali determinate in esistenze particolari. L'oggetto della
metafisica è l’esistente nella pienezza
dei suoi elementi, di cui l’essenza è
intelligibile; dunque, una metafisica che, per intenderci, possiamo chiamare esistenziale, non può non
porsi questo problema, in quanto il
problema dell’eidetica o dell’essenza
porta immanente, costitutivo ed essenziale, l’altro dell’atto di esistere, per il quale è tutto ciò che è.
Questo discorso, condotto con un uso di
termini che riteniamo tecnico, è tuttavia bisognoso di ulteriori
precisazioni. Esistere è manifestarsi,
esserci, ma è presenza di qualche cosa,
di una srruttura, di un ordine. Con l’esistere l’essenza entra nel mondo, si
consolida, per dir così, in un hic et nunc, i
cui mutamenti sono non nell’essenza, ma dell’essenza. Perciò, se è vero che l'esistente o il soggettivo è
l’ incarnazione di un'essenza, è anche
vero che fo non sono il mio corpo, in
quanto esso ritiene l'essenza, ma non la esaurisce. Dunque io che esisto, mi manifesto, per il corpo,
sono più del mio corpo, più del mio
esistere, perchè sono essenza che esiste. In questo senso l’esistente, non
l’esistenza, che è una notazione
universale, si distingue dall’essenza, che è concettuale e non sensibile e a
cui si unisce qualcosa che la determina. L’essenza senza esistenza è
universale, l'esistente è particolare; l'essenza è quod quid est, l’esistenza è
quo quid est: il nunc diveniente non ci
sarebbe senza il nunc permanente, che, a
sua volta, pur essendo in sè quel che è, è reale per l’atto di esistere. Ciò prova, non solo che il divenire
postula l’essere, ma che il divenire
stesso ha un suo essere formale per cui
è-essere-diveniente. Dunque: l’esistente è un essere determinato, ma,
perchè vi sia la determinazione, è necessaria l’essenza da determinare e perchè
l’essenza non sia puro possibile, è necessaria la determinazione esistenziale.
Ciò non dovrebbe dimenticare nessuna
filosofia che si dice esistenzialista od esistenziale (due cose molto diverse)
la quale, quando si pone l’esistente come problema e lo contrappone alla
pura essenza, dovrebbe ricordarsi del
nunc permanente che sottostà al r4nc diveniente e porsi dunque sempre come
ontologia e non come pura descrittiva degli elementi esistenziali, quasi che
l’esistente sia pura particolarità senza universalità. Una filosofia del solo
esistente, cioè del solo aspetto
particolare dell’ente, non ha senso, non è filosofia (sarà descrizione
empirica o fenomenistica o anche fenomenologica) e non è nemmeno riflessione sull’esistente
reale in quanto astrae dall’essenza per
cui l’esistente è. In questo senso fa
dell’esistente un’astrazione.
L'espressione di Heidegger che l’essenza della realtà umana consiste
nella sua esistenza (das Wesen des Daseins ltegt in seiner Existenz), intesa nel senso che
l’esistenza è priva di essenza, non ha
senso; e non lo ha perchè non si capisce
più che cosa esista: l’esistenza senza essenza vanisce, è una pura
possibilità , un’astrazione. Il suo manifestarsi è il manifestarsi del suo nulla e, come tale, un
niente di manifestazione e dunque anche un niente di esistenza. Gli
esistenzialisti dicono che è pura libertà e temporalità, intesa la prima come
l’atto della pura costituzione dell’essere dell’esistenza. La libertà, in tal
modo, non appartiene all’esistente, lo
costituisce : è della libertà dare la propria natura a se stessa e con ciò farsi essenza. Dunque,
precede l’essenza: noi stessi
costituiamo il nostro essere, siamo come ci affermiamo. Qui c'è un'equazione: l’esistenza come pura
possibilità è pura libertà; ma la
libertà come pura possibilità è libertà di niente perchè è il nulla di libertà.
Concediamo che sia e che siamo come noi
stessi ci affermiamo. Ebbene, che significa io
sono come mi affermo, mi do un’essenza ? che sono io
a farmi uomo, liberamente? che potrei anche non farmi uomo? Parole senza senso. Se mi potessi
liberamente fare uomo, non mi farei uomo
per il semplice fatto che sarei Dio! E
neppure Dio, dato che posso anche farmi
liberamente non-uomo; e Dio non
può fare che un uomo non sia uomo, appunto perchè è libertà autentica e non
l’Assurdo. Esistenza e libertà, come sono concepite dall’esistenzialismo, sono
esistenza assurda e libertà assurda. Inoltre, se noi
siamo come ci affermiamo
significa che l’esistenza come
possibilità o libertà dà a se stessa le sue specificazioni, cioè la sua essenza, qui essenza
evidentemente vuol dire altro da
quel che è il senso tecnico del termine e cioè: l’esistenza ora si dà una determinazione, ora un’altra
essendo infinita possibilità. In tal
modo, l’essenza è essa il particolare, la determinazione, e l’esistenza,
possibilità infinita, l’universale: si
sono cambiate le carte in tavola e si crede di aver vinto la partita. Ma ogni determinazione è
contingente; come tale non è essenza;
per conseguenza l’esistenza, anche determinandosi, non si essenzializza e
dunque resta vuota; si nega sempre come
esistenza, non esiste perchè non è. E che sia
così appare chiaro dall’altra equazione esistenzialista di esistenza e
temporalità: il divenire temporale s’identifica con l’esistenza, che non è altro che il suo
processo temporale; dunque l’essenza dell’esistenza è la temporalità, che è
come dire: l'essenza dell’esistenza e la
sua contingenza, cioè il suo stesso
esistere! Fenomenismo assoluto e inconcludente. E così torniamo sempre
allo stesso punto dell’esistenza che non è, che è il nulla di essere. Giustamente osserva il Maritain
nel suo Court traité de l’existence et
de l’existant: se voi supprimez
l’essence, ou ce que pose l’esse, vous supprimez du méme coup l’existence ou l’esse, ces deux
notions sont corrélatives et inséparables, et un tel existentialisme se
dévore lui-méme. Esasperare l’antinomia
di essenza ed esistenza, al punto da rendere l’una esclusiva dell’altra, è
ste Nella stessa pagina il Maritain
distingue tra esistenzialismo autentico
, che
affirme la primauté de l’existence, mais comme impliquant et
sauvant les essences ou natures, et
comme manifestant une supréme victoire de l’intelligence et de
l’intelligibilité ; ed esistenzialiimo apocrifo , quello di oggi, il quale affirme la primauté de l'existence, mais
comme détruisant ou supprimant les
essences ou natures, et comme manifestant une supréme défaite de l’intelligence et de l’intelligibilité . Un’ontologia completa, osserva il Girson rilizzarle
entrambe senza risolvere niente. L’esistenza di Kierkegaard, a volte, è
l’astrazione di un’astrazione. A
chiarire meglio questo punto soccorre la considerazione dei termini nel loro rapporto e distinti nel
loro uso metafisico e logico. L'essenza
(0dcia ) è ciò per cui un essere è quello che
è. Metafisicamente è ciò che forma il fondo dell’essere; logicamente o
concettualmente è l’insieme delle determinazioni che definiscono un oggetto di
pensiero (Ar., Met.). Ci sembra evidente che il significato metafisico non esclude l’esistenzialità dell’essenza, tanto
è vero che essa, così intesa, da alcuni
pensatori è posta nell’universale, da
altri nell’individuale. Infatti, l’essenza come ciò che è il fondo dell’essere, per ciò stesso, non è
tutto l’essere sia perchè esclude gli
accidenti, sia e questo è più
importante perchè l’essere metafisico
importa l’atto di esistere, è l’essere che è. In questo senso l’essere è il
fatto di essere o esistenza: esiste altrimenti non potrebbe esistere un solo
momento per l’essere, ma è un fatto
di essere in quanto è atto di esistere .
Evidentemente l’ente finito riceve tutto
quello che ha di reale e di vero dell’Ens
reale, dell'Essere perfetto ed infinito, il solo la cui essenza implica necessariamente l’esistenza: Ens ex
cujus essentia sequitur existentia,
secondo la definizione che il Leibniz ha
dato di Dio. (Perciò, a rigor di termini, solo l’Ens reglissimum è
l’Ente concreto, essendo gli altri esseri
astratti da Lui e postulanti il
principio che li fa essere, per cui di
ogni altro ente si può dire: ens ex cujus existentia sequitur essentia). In breve, non vi è essere reale
che non sia esistente: esistente da sè, Dio, l’Ens realissimum, o esistente
da altro, gli esseri finiti; ma nell’uno
e nell’altro caso l’essere e (L'étre
et l’essence, Paris, Vrin, 1948, 234) non può concepire l'esistenza come tale, nè eliminarla. Une philosophie qui ne renonce pas au titre de sagesse
devrait occuper à la fois ces deux plans, celui de l’abstraction, et celui
. de la réalité (ivi). l’esistenza
sono il fatto di essere, dove essere ed esistere non si oppongono. A definir l’esistenza non basta
la sua astualità, ma è necessaria la permanenza, in quanto nel passaggio, come
abbiamo detto, da questo ente a nonquesto ente permane l’essenza. Perciò essere-esistenza,
come il fatto di essere, non solo si oppongono all’essenza (come il fatto di
essere alla natura dell'essere), ma anche
(nota il Vocabulaire del Lalande alla voce Existence) al nulla, come l’affermazione alla negazione.
Infatti, se affermo che un essere è, non posso nello stesso tempo affermare che
non è. È, come sappiamo, l’identità, scaturiente dagli stessi contrari dell’esperienza. Da quanto abbiamo detto si conclude: 4)
l'esistente non è il mero particolare,
ma è l’essere determinato e, come tale,
reale, in quanto l’atto di esistere lo fa reale; 4) come essere determinato è universale esistente e dunque
permanente nelle sue mutazioni; c) come
ente che è, importa l’esistenza, in sè e
da sè (Dio), da altro (enti finiti); 4) l’ente così concepito (essere esistente
o essenza determinata) è l’oggetto della
metafisica, la quale, da un lato lo intende come essenza o concetto (eidetica), non più come esistente
bensì come essenza desistenzializzata e, dall’altro, risale dall’ente che
è all'atto di esistere, fondamento
assoluto di ogni essere reale; e) di
fronte a questo problema, la metafisica non cerca più di definire il reale, di coglierne l’essenza
o il concetto, per cui il reale è
giudicato, compito assolto dall’eidetica, ma
si sforza di cogliere il reale che è insieme nunc permanente e nunc
diveniente, essere esistenziale; f) in quest’ultimo punto la metafisica si pone
il problema supremo dell’atto
dell’esistere, il problema della
consistenza dell’esistenza ed è metafisica
esistenziale, cioè che non si appaga più
della razionalità della pura forma, ma, senza prescindere da essa, si sforza di cogliere l’essere come
reale, di rispondere non più alle esigenze della sola ragione, ma a quelle dell’esistenza concreta, alle istanze
che l’essere esistente in quanto essere
e in quanto esistente pone come
universalità determinata o come particolare esistere di un'essenza universale; cioè pone come
soggetto integrale, completo. Può
rispondere la metafisica a questo problema?
Cosa importa l’inoggettivabilità irriducibile del soggetto? Col problema dell’esistenza, così impostato,
in che rapporto sta quello che oggi si
chiama l’esistenzialismo ? Contro quale concezione dell’esistenza o filosofia esso
protesta? Cerchiamo prima di rispondere
a queste ultime domande. L'’esistenzialismo
quali che siano le sue forme
è una filosofia dell’esistenza o
meglio dell’esistente e vuol essere una
metafisica esistenziale, cioè si pone come problema non l’essere in quanto essenza od oggetto, ma in
quanto soggetto, singolarità e soggettività; per contro non è una filosofia
della pura forma, dell’essenza desistenzializzata, oggettiva e concettuale.
Esso dunque, contrappone la filosofia
detta esistenziale a quella detta speculativa
o essenzialista come contrapposizione dell’essenza
all’esistente, dell’oggetto al soggetto, dell’universale astratto al singolare
concreto. In questa contrapposizione chiede alla filosofia speculativa o
concettuale di dare una risposta se
può alle
istanze del soggetto, al grido del singolo, come oggi si dice per drammatizzare il problema e colorirlo con
il linguaggio della poesia. Perciò
l’esistenzialismo è la rivolta contro la
filosofia dell’essenza, del concetto trasparente, della ragione cristallina che ordina e sistema forme,
contro l’eidetica e qualsiasi aspetto della realtà spirituale che si presenti
nei termini della razionalità pura, conclusa, definitiva e definiti vamente definiente. È contro la scienza che, pur definendosi
conoscenza del fatto concreto,
prescinde, come pura conoscenza scientifica,
dall’esistenza di un mondo esteriore, tanto che si può avere una
descrizione scientifica della natura, senza che mai si ponga, dice Eddington, la questione di
attribuire all’universo fisico quella
proprietà misteriosa che si chiama
esistenza ; d’altra parte, si
costruiscono ontologie, senza che il concetto
di esistenza vi abbia importanza alcuna. Sembra che corrisponda ad una
esigenza naturale e spontanea della ragione
assimilare le essenze e classificarle, eliminare l’esistenza, ostacolo
alla concettualizzazione del reale. Da Parmenide in poi, ogni filosofia è come se abbia avuto
sempre inizio dalla paura dell’esistenza
e riposto la saggezza nella liberazione
da essa: riposare nella pura essenza, in un cielo immobile di forme assolute nella dimenticanza totale
dell’esistenza inintelligibile. La
filosofia è nata come svalutazione dell’esistente molteplice contingente e
rifugio nella contemplazione dell'essere
in sè. L’esistente è il non-essere; l’esistente, per la ragione, non è. In questo senso, la
filosofia si è preoccupata più della felicità della ragione che di quella
dell’uomo pretendendo, nello stesso
tempo, di far coincidere perfettamente la felicità di quest’ultimo con quella
della prima. Ma, intelligibile o no (ed
è qui una delle ragioni dell’esistenzialismo) l’ineliminabile problema
dell’esistenza s’impone in ogni forma di attività spirituale, scientifica od
artistica, filosofica o religiosa; soprattutto s'impone per la meta-. fisica, in quanto s'inserisce profondamente
nella sua stessa struttura. La
metafisica come eidetica non può non seguire
l'inclinazione naturale della ragione di stabilire, in base al principio di contraddizione, rapporti tra le
essenze e le loro. proprietà; non può
non desistenzializzare l’essere, renderlo
esistenzialmente neutro al punto che sia indifferente al suo concetto l’esistere o il non esistere, tanto
da definirlo come ciò che è identico a
se stesso. Ma d’altra parte non può non
tener conto degli esistenti, della relazione tra un esistente e un altro, non più trasparente, come nel caso
delle essenze, in quanto, nelle
questioni di fatto, è possibile il contrario.
senza che implichi contraddizione, a differenza che nelle relazioni tra
le idee, .che il solo principio di contraddizione basta a giustificare; e soprattutto non tener
conto del problema fondamentale dell’esistere per cui l’esistente è tale. Tra l’essere come pura essenza e l’essere
esistenziale non solo sembra stabilirsi
un’opposizione, ma addirittura instaurarsi
un conflitto: l’uno diventa la negazione dell’altro. È l’astrattezza di
una metafisica come pura eidetica, o di una filosofia che riduce l’essere alla
sola esistenza. Infatti nel primo caso,
la metafisica non può definire nemmeno
l’essere come essere. Platone avvertì chiaramente la difficoltà nella teorica dei Generi supremi
del Sofista (come nel Parmenide aveva
avvertito le aporie del rapporto tra
l’év e i ro), dove rileva che il Medesimo (taòdtov) è anche il Diverso
(èresov ) in quanto, proprio perchè è il
medesimo , è diverso da ogni altra cosa. D'altra parte, come osserva ancora acutamente il Gilson,
l’étre ne peut se réduire à l’identique
sans se dévolouer lui méme en tant
qu’étre, car è partir du moment où cette réduction s’opère, il dépend du mèéme comme de sa condition, et,
par conséquent, il s’y subordonne comme la conséquence au principe . L'essere non è più la nozione prima, ma come
principio intelligibile si subordina ad un altro anteriore che intelligibile
non è. Plotino, infatti, colloca l’Uno al di là dell’essere (come Platone vi
aveva posto il Bene), al di sopra di
ogni razionalità, trascendente ogni forma di conoscenza; in tal modo l’essere soffre esso stesso della
inconcettualizzabilità dell’esistenza. Sono i limiti esistenziali che
l’esistenzialismo pone alla filosofia della pura essenza o dell’essere identico a se stesso. Tali limiti, fin dalle origini,
l’esistenzialismo fece valere contro la
Ragione hegeliana, contro la dialettica dei tre
stomaci , come dice Kierkegaard. Non che lo Hegel abbia trascurato di interessarsi dell’esistenza;
anzi il Dasein è per lui un momento
ideale della dialettica, la quarta categoria
della logica dopo l'essere, il non-essere e il divenire; ma per
Kierkegaard è proprio nell’onnivora dialettica il peccato d’origine della hegeliana filosofia
speculativa. Niente, per lo Hegel, è al
di sopra o al di fuori della Ragione universale, la quale adegua interamente e
perfettamente il reale. La conoscenza è
la Ragione, che è il Sapere, il frutto dell’albero della conoscenza del bene e
del male (come scrive lo stesso Hegel
nei Vorlesungen tiber die Geschichte der
Philosophie), il principio generale di ogni filosofia. La legge della hegeliana Ragione è quella del
serpente, che provocò la caduta di
Adamo: tutta la sua realtà è la storia. La ragione non è fatta per servire l’uomo, ma per
assoggettarlo, come la Storia non è
fatta per l’uomo, ma l’uomo per la Storia.
Anche nei contemporanei epigoni dello storicismo questo concetto negatore della persona è stato
gelosamente conservato, anzi
umanisticamente perfezionato. Lo
Hegel parla spesso di esistenza (Dascin)
ed anche di esistente (Seiende), proprio
negli stessi termini in cui oggi, per esempio, ne parla Heidegger, cioè di un essere finito, gettato,
abbandonato, ma gli nega qualunque
diritto in sede filosofica: la filosofia
dell’Idea, come tale, non riconosce il
finito come essere vero . I
lamenti e le grida dell’io sono sterili pianti sentimentali, di cui l’Io non
può tener conto se non come del
negativo, di fronte a cui lo Spirito non indietreggia, anzi vi s’installa dentro, in quanto conquista la sua
verità proprio nell’assoluta negatività,
la sua vita inserendosi dentro la
irrealità della morte. Lo Spirito
che si colloca nel negativo, come si
legge nelle prime pagine della Phénomenologie des Geistes
trasforma il nulla in essere . È precisamente contro questo potere magico
(Zauderkraft) di risolvere violentemente
e dunque di dissolverlo
l’esistente-negativo nello Spirito-Positivo
che si ribella la filosofia esistenziale.
Essa protesta che non vi è risoluzione dell’esistente nel Positivo
assoluto, che l’esistente ha il diritto d’interrogare la filosofia speculativa e di gridarle in faccia
le sue sofferenze; che non vi sono passaggi
dialettici, ma salti scandalizzanti la ragione. L’infelicità e il
dolore dei personaggi della tragedia greca non sono intelligibili , come dice
lo Hegel, in quanto la necessità di ciò
che loro accade appare come la razionalità assoluta, ma, contro e al di sopra
di ogni razionalità, permangono
infelicità e dolore incomprensibili per
la ragione, per essa non veri , ma non
perciò non reali . Di qui la rivolta di Kierkegaard, la
rivolta dell’ angoscia contro la ragione speculativa , il mo
dell’esistente contro il sì assorbente
dell’Idea. L’esistente mette in discussione la filosofia e cita in giudizio
l’onnicomprensiva conoscenza razionale,
affinchè si rassegni ad ascoltare che
cosa pensi di essa, per dirle che si rifiuta d’ immaginarsi felice come richiede la Ragione universale; che
non intende, imaginandosi tale, di
diventare un mito; che si appella,
malgrado la ragione, all’Assurdo. Obiezione fondamentale questa dell’esistente:
la ragione non si trova sulla stessa
linea della realtà, costruisce un uomo che non è l’uomo, per cui la categoria
del pensare risulta diversa da quella
del vivere. Per la ragione è un mito l’esistente finito ed implorante; per il singolo è un mito la
ragione universale e soddisfatta. È un
mito la Ragione l’Idea o l’Essenza o è un mito l’esistenza, il mondo delle cose
e degli uomini? Una risposta che
riconoscesse la miticità di uno di questi
due mondi non sarebbe tale, ma la catastrofe definitiva, un decreto oscuro e silenzioso di morte. In questo conflitto tra filosofia
speculativa ed esistenziale, che abbiamo colto all’origine (quantunque esso
non nasca con la polemica anti-hegeliana
di Kierkegaard, ma abbia natali più
vetusti e non meno nobili, almeno nella polemica Abelardo-S. Bernardo dei dialettici e degli antidialettici e poi in quella Pascal-Descartes e, sotto
certi aspetti, nelle altre
Illuminismo-Rousseau, Kant-Hamann e
Jacobi, ecc.) la filosofia esistenziale pone delle istanze che meritano la migliore attenzione, anche perchè
esse servono a riportare in primo piano
quella metafisica che sembrava morta e sepolta e lo sembra ancora oggi ad
alcuni superficiali pseudo-filosofi italiani e anglo-americani; a ridare
dignità filosofica e senso teologico a quella trascendenza che l'immanentismo aveva creduto di aver
definitivamente dissolto; a chiarire, su basi rinnovate, i rapporti tra
filosofia e religione e a cercare nella
morale che è pratica ed è teoria, azione e pensiero la soluzione dei problemi della
metafisica stessa. Perciò noi che
abbiamo criticato, a volte anche aspramente e continueremo a criticare certi
atteggiamenti sterili, di maniera,
pseudo-filosofici e decadentisti di cui abbonda la letteratura esistenzialista, siamo pronti a
riconoscere l’importanza che ha l’esistenzialismo come momento della
filosofia contemporanea; ma prima di
accennare al nostro punto di vista sul
tema del nostro discorso, riteniamo necessario precisare alcuni punti dentro
l’esistenzialismo stesso. Innanzi tutto
esso deve decidersi se vuole essere una filosofia dell’esistente o una
filosofia dell’esistenza. Il Berdiaeff,
nelle Cinque meditazioni, ha già osservato che, a differenza della kierkegaardiana, quelle di Heidegger e
di Jaspers sono filosofie della o sull'esistenza; la Bespaloff (Cheminements et
Carrefours) lamenta che la fenomenologia esistenziale sous la responsabilité d’un Gabriel Marcel,
d’un Heidegger, d’un Jaspers, opère insidieusement une manoeuvre ui lui rend la terre ferme: l’existant
s’efface et cède la place à l’Existence
; più recentemente il Fondane (Le lundi existentiel et le dimanche de
l’histoire) afferma che una filosofia dell’ Esistenza non è e non sarà mai una
filosofia esistenziale, car c’est précisément è l’existant seul qu'il appartient de faire connaître son point
de vue; à lui de decider ce qui est
negatif et ce qui est positif... . La distinzione è esatta e fondamentale: una
filosofia dell’Esistenza non è una filosofia esistenziale, in quanto
l’esistenza è ancora un astratto, una
nozione concettuale; una filosofia
esistenziale non può non essere che filosofia dell’esistente. Resta a vedere fino a che punto essa sia
possibile, in quanto filosofia; se quella che la Bespaloff giudica una manovra
insidiosa della fenomenologia esistenziale di Marcel, Heidegger e
Jaspers, non sia invece una necessità intrinseca alla filosofia, che, in quanto tale, è bisognosa
della terre ferme . Resta confermato,
per ora, che una filosofia esistenziale non può essere che filosofia
dell’esistente, ma permane ancora aperto il problema se non sia costretta ad
oltrepassare se stessa. Già come
ausilio alla risposta ci soccorre la seguente considerazione. Filosofia
dell’esistente, colto soltanto nella sua
finitudine, sofferenza e contraddittorietà? Ma l’esistente così concepito è ancora il negativo, il nulla? È
il niente che pone il positivo? In tal caso, si è negata la
positività dell'esistente; e del 24//a non vi è problema nè soluzione. La stessa obiezione che si può muovere allo
Hegel il NonEssere come Non-Essere non
può costituire termine di antitesi (se ne accorse Platone nel Sofista, dove
stabilì la zoweviz tra l’Essere e il
Non-Essere) si può ritorcere contro l’esistenzialismo: dell’esistente come
negativo non c’è discorso, per il fatto
che è negativo. Di qui la necessità di
tener fermo quanto abbiamo chiarito precedentemente: l’esistere è
l’esistenzialità di un’essenza: dalla ontologia non si può prescindere, altrimenti si prescinde...
dall’esistente stesso! Di qui l’altra necessità di non poter fare a meno
della filosofia speculativa, anche se
questa non può bastare. Kierkegaard alla dialettica hegeliana, la quale conclude
al non
riconoscimento del finito come essere vero , oppone l’angoscia e dice
che essa precede la logica, il particolare l’universale, l’esistente
l’Esistenza. Ma a chi si appella l’angoscia
se la ragion vien dopo o non viene mai o è venuta prima e non ha saputo rispondere? A chi grida?
L’esistente interroga la ragione e dice quel che pensa di essa: benissimo; ma con che cosa l’esistente interroga la
ragione e dice quel che ne pensa, se
non... con la ragione? Dunque è la ragione
che interroga se stessa intorno al problema dell’esistente. Scartata la
ragione, la filosofia non è più tenuta a rispondere ed è inutile quanto
ingiusto protestare contro di essa. Non
la ragione deve. pronunziarsi sull’esistente, ma l’esistente sulla ragione,
dicono gli esistenzialisti. Per dire che
cosa? Che la ragione non deve sopprimere l’esistente, non assoggettarlo, non imporgli d’ imaginarsi felice ? Queste giuste richieste possono significare solo due
cose: @) porre un limite alla ragione;
5) svalutare fino alla negazione la ragione stessa. Nel primo caso, non c’è da
porre un limite alla ragione, in quanto è
essa stessa che riconosce il suo limite esistenziale e tale atto di
riconoscimento è sempre razionale. Dunque, non si tratta di una presa di
posizione contro la ragione, ma di una
posizione della ragione di fronte all’
esistente, di un suo atto di sufficienza (positivo e razionale) non autosufficiente. Non
reazione dell’ esistente alla ragione, ma presa di posizione originale
dell’esistente, che è ancora presa di posizione della ragione di fronte ad un problema che non le contraddice e
reclama risposta. Nel secondo caso, così
frequente in quelle forme di esistenzialismo esasperatamente irrazionalista,
pronunziato il giudizio il più negativo sulla ragione, che resta da fare
all’esistente? Non ha più nemmeno la soddisfazione di disperarsi, perchè niente
ha più senso. Si pone come problema
eterno eternamente insolubile, che ne accumula altri infiniti, tutti del pari eterni ed insolubili; la
problematicità assoluta adegua così
l’umano sapere. Ma il senso della filosofia ha
perduto ogni senso: all’inizio non è più il problema (ammesso e non
concesso che all’inizio non sia la verità, oscura quanto si voglia, per cui è vero, come dice
Agostino, che ogni uomo cerca quel che
sa) e alla fine la soluzione, ma il
problema è all’inizio e alla fine, alla fine più chiarito come problema, per cui il compito della
ricerca è quello di concludere ad un problema che, nella conclusione, è più problema, più problematico di quanto non
lo fosse in principio. Ma questo è dare
il problema per soluzione, confondere le lingue, anche se a volte con una
perspicacia c un impegno degni di
miglior causa. Così l’ultima parola
della filosofia sarebbe la problematicità per la problematicità, che, ad
esser chiari anche se non perspicaci, significa
l’inconcludenza per l’inconcludenza. Chestov, il misologo per eccellenza, non risparmia alcuna critica
rimprovero condanna alla iniqua logica ,
alla pigra e vile ragione, a
quanti si sottomettono alla sua
ontosa schiavitù . Ma, a questo
punto, la ragione e la logica possono tranquillamente obiettare: se come voi
dite (Exercitia spiritualia) quel che
più importa si ritrova al di là del limite del comprensibile e
dell’esplicabile, vale a dire al di là dei limiti di ciò che può essere comunicato con la
parola, perchè ci rimproverate? Quel che
voi cercate non ci appartiene; ci
rivolgete una domanda che dovreste indirizzare ad altri. Potete farlo, ma solo in quanto la vile
ragione e la iniqua logica vi autorizzano a ciò ; ma l’esistenzialismo
irrazionalista respinge proprio questa autorizzazione. Non gli resta che il fideismo assoluto, una posizione
che non è filosofica nè religiosa; o l’assoluto scetticismo, non come posizione
speculativa, ma come puro stato psicologico, tanto angosciante quanto sterile. Oppure, accettata
la frattura fra il momento morale e
quello teoretico, concludere che la
logica non è essenziale alla filosofia, che deve attraversarla ; che la filosofia è edificante
e non vi sono di valide che le filosofie edificanti; ma edificano solo
le filosofie edificate sulla e con la
ragione, anche se non soltanto su e con
essa. Kierkegaard dice che l’angoscia rivela
il nulla dell’esistente; dunque non lo rivela, tranne che l’esistente non
s’identifichi col nulla e allora non c’è problema: l'angoscia che rivela il nulla rivela anche il nulla di
questo nulla. Interrogata, non potrebbe dare altra risposta; interrogante,
non ha senso che interroghi sulla
negatività dell’esistente: solo
l'esistente come positivo reclama spiegazione. Quando l’angoscia svela
il nulla dell’esistente, che la ragione dissimula (l’imaginarsi felice ) non
pone un problema o un limite alla
ragione, ma... dà ragione alla ragione di disinteressarsi di lui. Il niente
esistenziale se si pone come niente
dell’esistente è la soppressione più rigorosa del singolo che mai ha neppur tentato alcuna filosofia
speculativa. Non allora il nulla dell'esistente, ma il nulla wmell’esistente,
la félure, direbbe Le Senne; ma il nulla
mell’esistente implica la sua positività, allo stesso modo che il male,
come negatività o privazione, è concepibile
rispetto a qualcosa che è. Positivo è
l’essere, guesto essere, il cui
nulla la privazione di un grado
più pieno di realtà; dunque l’esistente è, è un essere, il cui non-essere o
nulla è la mancanza di quel che non ha. Evidentemente la sua insufficienza gli
pone il problema (di qui l’ irrequietezza
e l’ inquietudine ) della sua sufficienza, la sua incompiutezza
l’esigenza naturale essenziale ed universale della sua compiutezza. Questa
negatività ha un senso in quanto è l’aspirazione di una positività al suo
compimento, ad un più di essere del suo
stesso essere non ad essere un altro
essere ricerca della consistenza
dell’esistente. Non si vede perchè
quest’ultimo, che tale esigenza ha avvertito più o meno chiaramente da quando la filosofia è
filosofia, debba sciogliersi in lacrime, affliggersi in interminabili ed angoscianti lai, piuttosto che riflettere seriamente su
se stesso secondo le buone regole del
pensiero e della ricerca speculativa: oggi
certo esistenzialismo è diventato una specie di nevrastenia filosofica. O forse si vede, ma per motivi
che contraddicono all’esistenzialismo
stesso: perchè posto l’esistente come negativo o votato al destino del nulla,
implicitamente l’esistenzialismo accetta la posizione hegeliana del non
riconoscimento del finito come essere vero; e perchè la filosofia, in un’epoca come la nostra di spiriti decadenti,
ha amato compromettersi con un linguaggio pseudo-poetico, già per se stesso compromesso e forse ormai di maniera.
Ciò non nega, anzi conferma, il merito dell’esistenzialismo di avere richiamato
l’attenzione sul problema dell’esistente, interno ed essenziale alla ricerca
filosofica. L’idealismo, se, da un lato dissolve il singolo nell’onnivoro
Scggetto trascendentale o nella Storia,
dall’altro, pone il soggetto stesso come
principio di spiegazione e non come problema,
ma con ciò sopprime ab initio il problema dell'esistente. Alla radice, l’idealismo è una evasione dal
limite esistenziale; perciò è anche un’evasione dall’interiorità: il soggetto è
sempre cacciato fuori di sè, all’esterno (la trascendentalità idealistica è
essenzialmente mediazione); perciò
l’idealismo è immanenza. Dato per risolto il problema dell’esistente,
posto il soggetto come principio di spiegazione e non come esso stesso problema, mostro
direbbe Pascal, tutto è risolto e
pacificamente spiegato. Il limite della ragione
è soppresso alla radice: tutto è incluso nella trasparenza della Idea e nel cerchio magico della dialettica
infallibile. Non c’è motivo che il
soggetto si trascenda: risolto il problema che
l’uomo è a se stesso, che bisogno c'è di Dio? (Resta ancora la natura, ma l’uomo interessa infinitamente
più all’uomo). Dio è Ragione, Dio è il
Progresso, Dio è la Scienza, Dio è la
Storia, ecc. Ponete, invece, il soggetto, il singolo, l’esistente, l’uomo,
l’insufficiente, inquieto e irrequieto uomo
come problema e la trascendenza scoppia fuori come la farfalla dalla
crisalide. L’esistenzialismo, contro una tradizione filosofica imponente e agguerrita, l’ha posto;
e la trascendenza è stata richiamata dall’esilio. Ma esso non ha dimenticato di
essere, malgrado tutto, figlio dell’idealismo trascendentale e di Nietzsche ed
ha finito almeno una parte di esso,
quella meno direttamente figlia di Agostino, Pascal, Kierkegaard, Dostojewski, con il laicizzare
la trascendenza, col porla come un
limite immanente posto dal soggetto stesso,
non accorgendosi che così dà per risolto il problema del soggetto, dell’esistente, e ricade nella
stessa posizione dell’hegelismo. Recentemente il Camus (Remarque sur la révolte) ha distinto la sua trascendenza
orizzontale da quella
verticale o di Dio, che egli
esclude; vedremo tra non molto come un
esistenzialismo che si rifiuti di aprirsi
alla trascendenza teologica non abbia significato. Nella rivolta contro
la Ragione, ammesso per un momento e non
concesso che sia necessaria questa ribellione, c'è indubbia Bisogna tener presente che Îla protesta
kierkegaardiana in nome dell'esistente o del singolo contro la Ragione
universale dello Hegel, non restò, fin
d'allora, isolata. Contro l’Idea hegeliana, la concreta realtà della natura
(gli uomini e le cose, gli esistenti
particolari) è rivendicata dal Feuerbach e dal
Marx. Le istanze kierkegaardiane, mosse da esigenze etico-religiose,
sono la protesta della trascendenza nei riguardi dell’immanenza; quelle del
Feuerbach e del Marx, mosse da bisogni
di ordine naturalistico-economico, in nome di un umanesimo depotenziato a felicità terrena,
sono la protesta del contingente per un
immanentismo più integrale e aderente alla realtà storica dei fatti. Le
due forme principali di
esistenzialismo teologico e laico che oggi si riscontrano nella filosofia contemporanea si ritrovano
alle origini della polemica antihegeliana,
o più esattamente di hegeliani che sviluppano alcuni aspetti dello
hegelismo in opposizione ad altri. Hanno
in comune l’istanza della rivalutazione dell’esistente o del particolare; si
dividono sulla questione del fine da assegnargli, cioè sul problema della consistenza. Ciò importa
fin dalle origini un rapporto equivoco
tra marxismo ed esistenzialismo, oggi diventato abbastanza palese. La
questione è complessa e non è qui il
luogo di trattarla adeguatamente; ma è opportuno, anche nei limiti del nostro tema, qualche
chiarimento. Porre il problema
dell’esistente è porre il problema della trascendenza: il soggetto posto di fronte a se stesso come un
problema da spiegare, rimanda ad altro,
pone l’esigenza dell’altro. Di fronte a questo problema l’esistenzialismo ha assunto due posizioni fondamentali: 4)
l’altro è Dio, è l’Altro, l'assoluto Altro
(trascendenza teologica): 5) /’altro è il trascendente, che non è il Dio
della religione, ma il limite
dell’esistente, posto dall’esistente stesso, dalla sua finitudine (trascendenza
esistenziale). Per il marxismo l’altro dall’esistente è l’altro uomo: l'uomo si sacrifica all'uomo. L'uomo,
per Feuerbach, è fine a se stesso e il
suo fine è la propria felicità; ma l’io può realizzare il suo fine in
quanto ha un #, un d/tro con cui entra
in rapporto acquistando coscienza della propria umanità: l’io è tanto più se
stesso quanto più partecipa, nel rapporto con
l'altro, dell'umanità che è presente in lui. Anche per il Marx l'altro
dall’io è l’altro uomo: l’uomo è
l'avvenire dell’uomo, come ha scritto un poeta marxista francese contemporaneo. La solidarietà dei
lavoratori è l'umanità di Marx: ogni
lavoratore è tanto più se stesso quanto più aderisce, si assimila alla classe , alla
massa dei compagni . Il
rovesciamento della prassi , con la conseguente eliminazione del
capitale privato e l'avvento dello Stato socialista, renderà reale quella condizione di felicità collettiva nella quale l’uomo è tutto per l’uomo. La
struttura economica, la sola che meriti questo nome, creerà (si tratta, per Marx, come è noto, non di intendere il
processo storico, ma di cambiarlo con la
rivoluzione : la filosofia non deve più limitarsi ad interpretare il mondo ;
ora si tratta di cambiarlo ) la nuova società non più afflitta dalle
mente la consapevolezza di una totalità, di un Assoluto nella cui aspirazione l’esistente consiste , in cui
si riassume, si ricapitola in una
presenza totale. Di fronte a questa consapevolezza :/ resto è un niente, che
l’esistente può, si sente di
sacrificare; ma c’è il sacrificio del resto, solo in quanto bb ® . c'è il Tutto che chiama. Bisogna
vedere le cose alla luce della morte,
come dice Platone; ma la morte non è la notte
sovrastrutture della morale e della religione borghesi. Nella prima posizione esistenzialista c'è una trascendenza
autentica; nella seconda una pseudo-trascendenza; nella posizione marxista
l’immanenza assoluta. La prima e l’ultima
sono, da questo aspetto, incommensurabili; la seconda c la terza
differiscono in quanto l’una si rifiuta
di ridurre tutti i valori a quello economico e s’illude di poter salvare ancora i valori morali e una
certa vaga religiosità. Nel loro rapporto vi è un duplice equivoco: 4) da parte
del marxismo quello di credere di poter
risolvere il problema dell'esistente (e gli infiniti problemi che pone
l’esistente-uomo in quanto tale) solo con la
giustizia sociale identificata
con la struttura economica, senza tener
conto dell’infinita ricchezza delle esigenze dello spirito, per soddisfare una sola delle quali
ogni uomo, se veramente posto di fronte
a se stesso, sarebbe disposto ad accettare la più pesante schiavitù economica;
è) da parte dell'esistenzialismo laico l’altro d’illudersi di avere rotto
il cerchio della dialettica hegeliana
conservando la pregiudiziale immanentista e di
salvare quei valori che il marxismo rigetta accettando la stessa
pregiudiziale. Indubbiamente il marxismo
è più coerente: se c’è immanenza, sia radicale; liberiamo
l’uomo da ogni norma che lo trascende e soprattutto da Dio. E’ evidente che l’esistenzialismo della
trascendenza non teologica lo è a metà:
porta in prima linea il problema dell'esistente e poi si rifiuta di
seguire il filo della ricerca fino al
punto a cui mette capo, cioè alla trascendenza teologica. Permane però il pericolo di approdare. Di ciò
si sono già accorti i marxisti integrali
e denunziano (vedi la costante polemica nella rivista comunista francese La
Pensèc) l'equivoco di un esistenzialismo marxista: l’esistenzialismo,
anche se si proclama ateo, è sempre un
forma di misticismo: gli appelli della ‘persona
umana fanno pensare, quasi istintivamente, ad un qualunque Dio che li
possa ricevere; dunque esso non può
essere marxista, in quanto non guarisce, anzi le alimenta, le
superstizioni religiose, le
evasioni illudenti dal terreno mondo
degli uomini. Il marxismo, invece, è il vero umanesimo , anzi è il solo che sia tale, perchè il solo che punta
sull’esistente, lo completa nella legge umana del lavoro e l’appaga nella felicità
terrena. Ma è proprio qui che si rivela
l’equivoco di un marxismo come filosofia
dell'esistente. E' esistente l’uomo depauperato delle cosiddette
sovrastrutture e ridotto alla sola
struttura economica? E, a parte questa detonalizzazione (immiserimento) della
persona umana, l’esistente così concepito costituisce un problema? Perchè
l’uomo diventi problema insieme di
problemi fino al punto da mettere la ragione in stato d’accusa e di
gridare in faccia alla logica che egli
ha dei problemi che essa da sola è inetta a risolvere, deve porre delle
istanze che lo oltrepassano che oltrepassano l’uomo in generale che, dunque, si pongono al di là e al di sopra della società,
della storia, dell'economia, della
terra. Se i problemi del soggetto avessero potuto essere risolti
nell’ambito del’ soggetto stesso o della
classe, non sarebbe mai sorto un problema dell'esistente oscura senza fondo
solo in quanto la illumina la speranza
dell’ immortalità e la gloria in Dio. Il sacrificio del resto
per l’ Eterno è il disincanto dal contingente molteplice, la garanzia
assoluta dalle illusioni deludenti. Nella
negazione del resto è implicata l’affermazione di un Valore assoluto, la trascendenza al soggetto,
quella verticale , la sola per cui
trascendo la piccola grande storia della
x così com’è posto
dall’esistenzialismo contemporaneo e come è stato sempre posto nei suoi remoti o prossimi antecedenti
storici. L’economismo e l’immanentismo
marxista sopprimono alla radice il problema della persona e la persona
come problema; tutto vi è risolto come
nella dialettica dello Hegel.
Sopprimono la persona senz'altro. E qui è necessaria un’altra
considerazione. L’esistenzialismo si
proclama filosofia dell'esistente, ma lo coglie nella sua negatività, in quel
che ha di non-essere, quando non lo identifica addirittura col nulla; esso strappa l’esistente alle fauci
della dialettica della Ragione universale
per porlo di fronte al suo nulla, mutolo nell’angoscia di un peso enorme
di problemi. In questo senso,
l’esistenzialiimo è la filosofia del non-esistente, in quanto l'esistente è positività, sostanza; è
la filosofia del fallimento dell’uomo.
Il mondo moderno, così impregnato di umanesimo laico e cristiano, non si
rassegnerà mai a questa svalutazione della persona, alla sconfitta dell’uomo e
in partenza vi si oppone. Da questo
punto di vista l’esistenzialismo è
anti-moderno , anche se dopo tante esaltazioni della mondanità e della
vita esso sia stato buon correttivo,
quasi il conficcarsi nelle nostre floride carni del dente avvelenato dell’ironia; il ripiegamento sul
momento della riflessione sia pure
smorzata da un permanente stato
poetico . Il marxismo, da parte sua, filosofia dell'uomo per l’uomo,
dell’uomo che si colma sulla terra, spinto dalla logica inesorabile del materialismo
dialettico, conclude all’annullamento della
persona nella opacità compatta e spessa della massa
e nell’onnipresenza dello Stato.
Conserva la più rigorosa mondanità , ma
proprio perchè rigorosa, dimezzata dell’altra metà, da quella che sporge fuori
e al di sopra di questo mondo. Due
filosofie dell’esistente che concludono alla sua nientificazione, che colgono l’esistente nella sua negatività,
nell’involucro esterno e vuoto perchè
mancante del pieno della
consistenza . Contemporaneo ,
invece, il Cristianesimo, non contraddice alle esigenze fondamentali dello
spirito: positività questa vita,
positivo l’esistente tanto che si salva nell'altra vita. E' la sola mondanità
significante. Vi è nell’esistenzialismo un aristotelismo alla rovescia:
quel che conta è l’esistente, l’individuo,
ma l'esistente non è reale, è il negativo. E’ un agostinismo antiagostiniano: l’uomo è finito,
misero, infelice, ma senza speranza: non si redime, accetta il suo destino.
Aristotelismo antiaristotelico e platonismo antiplatonico il marxismo: reale è
l'individuo, ma è reale nella compattezza della massa, quale dente della
macchina statale o del Partito. La cordizione presente dell’uomo è proiettata
in quel che sarà, la sua felicità è in un
futuro immancabile, ma questo futuro e questa felicità non sono in un
dltro mondo. Conobbe ed insegnò la
verità S. Francesco nella lode di tutte le creature, beni positivi in quanto
creature dell'Amore divino e assetate d’amore per il Creatore. L'alternativa immanentistica, o
Dio o io, o c'è Dio e io sono nulla o
non c’è Dio ed io sono tutto, si compone nell’altra: io sono perchè Dio è; io sono innovatore perchè in Lui m’innovo.
mia anima, tutta la storia. Dopo tanta orgia di immanenza, dopo tante norme esteriori ed esteriorizzanti
e perciò sterilizzanti della vita spirituale, dopo tanti universali mondani dell’economia e dell’arte, della storia e
della politica la trascendenza e la solitudine esistenzialista sono state, se non altro, un energico richiamo e
un salutare risveglio. Ma niente più di questo, in quanto l’uomo non è soltanto singolarità, ma anche universalità
di essenza, di ragione, di verità. Prima di essere singolo è uomo e non è singolo se non è uomo. La sua verità è anche
verità degli altri, deve esserlo: è la
sua responsabilità suprema; e la verità
è ricchezza e la ricchezza del signore è generosa ed umile: accetta i doni e li ricambia. Nella
verità, che è mia perchè di altri, gli
uomini realizzano l’unica consistente ed
indissolubile solidarietà. L'affermazione di un valore non è mai individuale: chi si sacrifica per esso,
si sacrifica per l'umanità intera.
Nell’essenza della singolarità e di essa
costitutive vi sono una universalità ed una solidarietà metafisiche. Al
punto in cui abbiamo condotto il nostro discorso, una prima conclusione appare evidente: non si
tratta di negare la filosofia o è anche razionalità o non è ma di
vedere come essa possa e debba giustificare l’ esistente, se e come possa avviare il problema alla sua
adeguata soluzione. Anticipiamo quella che sarà la conclusione di que ste pagine: il punto di partenza della
filosofia non può essere che la ricerca razionale ed è esigenza naturale
della ragione e dunque dell’uomo
cogliere la razionalità del reale; e la
razionalità filosofica, il conoscere, è il concetto, l’universale. Basta all’uomo
la razionalità? Meglio: esaurisce essa
la problematica filosofica? No, tranne che per un razionalismo
assorbente, astrattizzante, cieco di un occhio. Pascal. lo obiettò a Cartesio
(se a torto o a ragione qui non importa stabilire): il cuore ha delle ragioni,
che la ragione non conosce ; l’ultimo atto della ragione è di riconoscere che molte cose la oltrepassano . Non ho
accostati a caso i due frammenti, ma in
quanto l’uno non può stare senza
l’altro: la ragione non conosce le ragioni del cuore, ma conosce ( riconosce ) che ci sono e la
oltrepassano. Il problema delle ragioni del cuore è posto dunque dalla
stessa ragione, è razionale come
problema, anche se la soluzione è
super-razionale, e, come tale, non irrazionale, non contraddicente la
ragione. Le pascaliane ragioni del cuore prima
che pascaliane, agostiniane, e dopo rosminiane e oggi blondeliane sono le ragioni dell’esistente, del singolo,
del soggetto hic et nunc. Esse sorgono, dunque, indomabili senza che il conoscere razionale possa pienamente
rispondere, ma senza poter fare a meno
di esso e sulla base di questo stesso
conoscere; irrompono assetate di risposta, quando ogni insegnamento è
finito, ma sempre dalle pagine del libro aperto
della ragione. Il problema dell’esistente nel suo significato integrale e nel suo destino assoluto si pone
al limite della filosofia e come suo
limite, ma non contro la filosofia; si
pone e con sè pone la filosofia come
apertura alla religione. Vi è
allora una filosofia esistenziale ? Sì, come
problema dell’esistente ed avviamento alla soluzione di esso; no, come soluzione integrale, totalitaria e
unitaria: filosofia esistenziale, ma il
cui fondamento, iniziale e finale, è teologico, perchè teologica è la soluzione
assoluta del problema dell’esistente.
Nato dalla ricerca filosofica, sulla guida di essa e del sapere speculativo, illuminato
dall’intelligenza e dalla ragione, per
cui l’uomo è uomo, esso non può sommergermi
nella disperazione e nell’angoscia infeconde ed incomprensibili, bensì
m’immerge nell’interiorità di me stesso, nel
senso autentico della mia esistenza; al di sopra di me stesso, scopre la mia consistenza. Nato dalle viscere
più profonde della ragione e
dell’intelligenza non mi getta a morire nel nulla, ma mi raccoglie
integralmente nella realtà della mia
vita. Pascal all’abisso preferì la Chiesa. Cerchiamo ora di approfondire queste anticipate, ma non
inaspettate conclusioni. Io ho quel che
sono: l'avere adegua la mia esistenza e
l’essere la mia consistenza. Non posso avere senza essere, non posso essere soggetto senza avere; e 4 chi ha
sarà dato. Significa che ho bisogno di altri, che un altro mi dia; che il
mio essere è fatto da e per l’Essere,
che la mia positività limitata, che in questo limite o mancanza è negatività,
tende alla Positività assoluta. È in
ciascuno di noi una realtà essenziale; di essa abbiamo coscienza, che è la
nostra autocoscienza. Consapevolezza di consistere, oltre che di esistere, coscienza che siamo una realtà distinta dai
nostri atti, che la persona non è
soltanto le sue azioni o le sue cognizioni.
L’agostiniano e tomistico intelligimus nos intelligere non prova soltanto che il realismo dei due
pensatori è tutt'altro che ingenuo, ma
che intelligiamo il nostro stesso
inzelligere; lo penetriamo così profondamente al punto da comprendere che il
nostro comprendere (conoscere) non comprende ( non conclude ) tutta
l’essenzialità del roi e sfocia
nell’interiore sapere; che il Sapere assoluto ci origina, ci guida, ci conclude e sempre ci oltrepassa.
L’autocoscienza è censapevolezza del
limite, ma come consapevolezza è già al
di là di esso. Il problema di Dio è di diritto quello dell’ultimo fine: la
scienza è tendenzialmente sapienza: intenzionalmente il problema dell’universo
è considerato sempre in vista del
problema della vita. Smarrire il senso del fine è votarsi al non-senso della fine, è rinunziare
alla consistenza per consegnare l’ esistenza alla morte. Sed ego conabar ad te et
repellebar ab te, ut saperem mortem. Tendere
a Dio è sapere la vita, per Agostino; essere allontanati da Lui o allontanarsene è sapere la morte. Ut
saperem mortem, affinchè conoscessi la
morte, perdessi la mia consistenza, facessi esperienza del nulla del mio
esistere una volta privato del mio consistere, che è durare perenne, durare,
senza riposo o stanchezza, nel tendere
all’Essere per cui esisto e sono; è la
libertà della mia vocazione essenziale; il mio volere totale, il senso assoluto
del mio. contingente esistere. L’esistente esiste el tempo, ma non è del tempo:
re-siste al giorno che passa e alla
notte che copre le cose del giorno (oppone
il suo consistere); per-siste, a causa del suo consistere e perchè il suo stare è garantito e sorretto da un
fine; per cui la temporancità si conserva nella temporalità e il tempo volge
alla eternità intemporale. L’esistente è
persistente ed è persona questa e non
un’altra perchè persiste; e persiste
in quanto consiste. Il mutamento di
questo ente in non
questo ente è il manifestarsi di
un ente, la temporaneità di una sostanza
che dura nella temporalità, la contradditorietà
che è possibile per la identità non contraddittoria dell’essere permanente. Il durare dell’esistente implica,
dunque, successione, sviluppo. L’esistente non è perfetto ma perfettibile,
dunque è incompleto in ogni stato o grado della sua attuazione. La sua incompiutezza pone il
problema del suo compimento e nello
stesso tempo attesta l’Incondizionato
(omne quod movetur ab alio movetur, secondo la formula che è comune ad Agostino e a Tommaso).
L’esistente è in ogni momento la sua
consistenza, ma in ogni momento, n07 è
mai tutta la sua consistenza: la sua è un’aspirazione infinita, perchè è
un’aspirazione totale. Interiorità di sè a sè,
come tale, .è interiorità di qualche cos'altro, dell'Altro, perenne
sforzo d’interiorizzazione, di conquista di sè nell’Altro. La soggettività
profonda non è un dato, ma il realizzarsi di se stessa, la conquista di sè
nell’abbandono a Dio. La povertà del
soggetto, infinitamente arricchentesi ed infinitamente povera, è la sua
ricchezza autentica. L'atto di esistere è inoggettivabile; al di là
dell’essere, è tuttavia nella linea
dell’essere ed omogeneo con esso. L'’esistere, infatti, è l’atto proprio di ciò che è; è la radice dell’essere. Le nom méme d’essenzia que dérive de l’esse, traduit le fait que l’essence
constitue le point d’effleurement, sur le plan de l’étre objectif et
concevable, de l’acte premier en vertu
duquel ce qui est, est, ou existe . Così ancora il Gilson da noi seguito su questo
punto, che ha posto bene in luce i
limiti esistenziali della filosofia, facendo, tra l’altro, notare come le
nozioni di causa finale ed anche di
causa efficiente si rendono indispensabili allorchè si pongono i problemi di esistenza. Infatti,
in un certo senso, il punto di vista
della finalità resta esteriore all’ordine della
chiarificazione razionale dell’essenza, ma è, d’altra parte, il solo che spieghi il senso di un essere e
di ogni essere. Similmente nella causalità efficiente, la natura della
causa spiega l’essenza del suo effetto,
ma non la sua esistenza. Il pensiero
analitico non può non spiegare da questo esistente l’apparizione di un altro
esistente: se l’effetto fosse identico
alla causa, non se ne distinguerebbe e non sarebbe. Dalla causa all’effetto vi è sempre una
specie di creazione ex nihilo, dove qualcosa sembra sorgere
spontaneamente dal nulla . Problemi
interni al pensiero filosofico; problemi
ineliminabili ed improrogabili in quanto investono le questioni della
provenienza (donde viene) e della destinazione
(dove va) dell’uomo. È
necessario che, a questo punto, la filosofia entri in conflitto con l’esistente che le pone dei
problemi non rientranti nell’ordine della pura conoscenza scientifica o
razionale? Il conflitto c’è stato tante volte: la filosofia ha negato l’esistente e i suoi diritti; o l’esistente
ha giudicato in blocco la filosofia come
non degna di un’ora di fatica . Conflitto che, in verità, non ha ragione di
essere e porta in sè gli elementi per
essere composto. Infatti, nè l’esistente
può fare a meno della filosofia, nè la ragione
speculativa può sopprimere l’esistente, in quanto il soggetto indomabile sbuca sempre fuori anche dal più
fitto tessuto di sillogismi e dalla più rigorosa ed indifferente analisi
di essenze concettuali. La filosofia non
può comportarsi come se l’esistente non
esistesse per i problemi interni che esso
le pone e per gli ostacoli che incontra nell’esplicazione della nozione pura dell’essere. D'altra parte,
l’esistente, se non può vivere con la
sola filosofia, non può del pari vivere senza
di essa. Le istanze che egli pone alla ragione e gli appelli che le indirizza sono, in fondo, le istanze
che la ragione pone a se stessa. Dunque,
vani ed ingiustificati i rimproveri rivolti ad una ragione, la quale riconosce
i suoi limiti esistenziali. È la ragione stessa che guida l’ esistente, che al
punto limite lo convince a mettersi
assieme in cammino per un’altra via, non contraddicente la ragione, ma che la
oltrepassa e segue metodi che non sono
più quelli della pura ricerca razionale.
Al punto in cui dovrebbe sorgere il conflitto tra la ragione e l’esistente, la buona ragione e
l'esistente che non rinuncia al lume che
lo costituisce, si uniscono nell’apertura
alla religione. La problematica dell’esistente è, in definitiva, una problematica religiosa; una fenomenologia
esistenzialista è, costitutivamente, di
carattere religioso. Pertanto, a nostro
avviso, un esistenzialismo, che rigetta in partenza la risposta religiosa che il Cristianesimo dà del
problema dell’esistenza, è senza senso,
estremamente bisognoso di chiarirsi ulteriormente a se stesso. Si tenga presente che ogni qual
volta la filosofia speculativa ha
cercato o preteso di dare da sola una risposta all'esistente e ai suoi
problemi, ha concluso, inesorabile, per la
loro soppressione. I tipi di saggezza platonico, anche se fino ad un certo punto, epicureo, stoico,
neoplatonico, spinoziano ecc., concludono tutti che è saggezza la
liberazione dall'esistenza: è saggio chi ascende , dalla zona dell’esistere,
all'ordine chiaro, terso e tranquillo della ragione. Risponde invece
diversamente una filosofia della persona la
quale non può essere che cristiana: non sopprimendo questi problemi, ma autenticandoli. Essere non è solo l’essenza, anche se il
termine è spesso usato per indicare l’essenza; essere è essenza ed esistenza.Identificare
l’essere con la sola esistenza esclusiva dell’essenza, o con la sola essenza
esclusiva dell’esistenza, è negarlo. Una
filosofia puramente essenzialista deve concludere che l'essenza non esiste e dunque negare il reale
(è la conclusione di un platonismo spinto agli estremi, alla quale non sfugge, malgrado tutto, Aristotele); allo
stesso modo una filosofia puramente
esistenzialista, ridotta l’esistenza ad una
possibilità vuota, deve concludere con la negazione dell’esistenza
stessa. L’originalità del reale o dell'essere è precisamente nella unione di
essenza ed esistenza: non il puro concetto nè il puro esistere sono
l’equivalente del reale. L’esistenzialismo ha fatto ben comprendere
l’insufficienza del puro essenzialismo, ma, l'insufficienza dello stesso
esistenzialismo ci ha fatto ancor più
avvertiti che non si può prescindere dall’essenza: essenza ed esistenza
costituiscono la struttura del reale.
L'esistenza è l’attualità dell’essenza (il possibile), che pertanto va ricavata dall’esse; di qui il
primato dell’esistenza non sull’essere,
ma sull'essenza zmell’essere.
Evidentemente qui sorge un altro problema: l’eidetica, scienza del concetto o dell’essenza, come
tale, riconosce che, al di là
dell’essenza, vi è l’atto di esistere inconcettualizzabile. Per conseguenza,
per cogliere il reale, non si può
partire dalla pura ragione; è necessario muovere dall’uomo, che è già cogliere il reale immediatamente,
cogliere me reale nell’atto di
acquistarne coscienza. L’autocoscienza in
questo senso è giudizio esistenziale immediato, l’atto sintetico che
coglie unitariamente la dualità interna della
struttura del reale. Ma ecco dal dato reale, che è il mio essere, nascere un altro problema: quello
dell’esistere del mio essere. Qui il
problema dell’atto di esistere (actus essendi)
si pone come richiesta di sapere se io sono il principio di esso, cioè come problema del suo fondamento
assoluto. Se fossi il principio del mio
esistere, sarei il creatore del mio
essere e l’atto di esistere del mio essere s’identificherebbe con l’Atto
assoluto dell’esistere che fa essere ogni ente che è: la mia essenza sarebbe identica alla mia
esistenza. Ma io non sono il creatore di
me stesso; dunque l’atto autocosciente con cui colgo immediatamente il mio
essere nella sua struttura di esistenza
ed essenza, pone il problema del
principio del mio essere stesso: è il problema assoluto della metafisica, il problema teologico o
dell’esistenza di Dio, il supremo
Esistente. Il principio della Creazione è indispensabile all’ontologia, che
dall’interno è orientata verso la
teologia. Su questo punto la metafisica non essenzialista di S. Tommaso sopravanza infinitamente quella
essenzialista di Aristotele. Bisogna
pertanto distinguere il problema degli
esseri già costituiti (come sono) dal problema della loro origine primale o della loro costituzione
stessa, che è il problema dell’esistenza
di Dio o del principio assoluto del
reale, della sua suprema intelligibilità metafisica. Dio l’Ipsum esse subsistens, creando, fa che
l’esistenza sia nell'essenza. La metafisica di Aristotele ignorò questo
problema; la metafisica cristiana, in questo senso, è una rivoluzione
rispetto a quella aristotelica. Questo punto è fondamentale: per una
metafisica dell’essenza, il problema dell’esistenza del reale non si pone; non
ha senso porlo; e perciò non ha senso
porre neppure il problema dell’esistenza di Dio. L’ontologismo, a rigor di
termini, non lo pone: vedere le idee in
Dio rende superfluo il mondo reale.
Questa posizione si può spingere a conclusioni che, in fondo, le si oppongono ma da essa derivano:
l’esistenza non è perfezione e non aggiunge niente all’essenza; dunque,
non solo dall’essenza di Dio non si può
ricavare l’esistenza, ma Dio basta
soltanto pensarlo. È la posizione kantiana dell’agnosticismo metafisico e della
pura noumenicità della Cosa in sè
(l’ontologismo critico del Carabellese è la formulazione rigorosa di essa).
L’esistenzialismo immanentista, figlio
dell’idealismo trascendentale, ha eliminato il problema metafisico dell’Atto supremo di esistere ed
ha considerato l’esistenza come pura possibilità o libertà; così l’ha privata
anche dell’essenza. La conclusione è inevitabile; l’esistenza resta sospesa a
se stessa, senza fondamento, vuota nel
vuoto, insignificante nulla. Tali affermazioni assurde confermano che il problema del reale va posto
come problema del reale autentico che è essenza ed esistenza, il quale pone,
per la spiegazione metafisica, il principio del suo esistere, cioè il problema teologico. E la soluzione teologica del problema
dell'esistente la filosofia se la trova interna e ad essa essenziale.
Metafisica per definizione per sua natura la filosofia non può essere che scienza dell’essere o della verità, nel
senso più estensivo ed universale del termine. Ma, come abbiamo già accennato
col Gilson, ogni essenza è l’essenza di un atto, dell’atto dell’esistere;
d’altra parte, è evidente che, senza l’essenza, l’esistenza mancherebbe della
sua razionalità; dunque, in una
ontologia esistenziale l’essenza è il supremo intelligibile, il possibile che è per l’atto dell’esistere.
(Un esame della dottrina del Rosmini della insessione delle forme dell’essere
sarebbe quanto mai chiaritivo delle esigenze di una ontologia esistenziale). Ma gli esistenzialisti, ad
eccezione di Gabriel Marcel, non sembra
vogliano saperne di ontologia, quantunque facciano molto uso del termine; si fermano
al di qua dell’essere, alla descrizione
dell’esistenza e si rifiutano di
obbiettivare l’essere, come se ciò compromettesse la sua esistenzialità. Non comprendiamo perchè mai
l’esistenzialismo debba rifiutare un’ontologia esistenziale, la quale riconosce
il primato dell’esistere e, per un'esigenza interna della filosofia e perchè l’esistere stesso
possa avere un significato comprensibile sia pure come problema, accetta
l’essenza come costitutiva dell’esistenza. Un esistenzialismo che rigetta questa conclusione conserva ancora
una nozione negativa dell’esistente e
distrugge in partenza il problema che lo giustifica come posizione di pensiero.
L'atto di. esistere non può essere
considerato fuori dell’ordine dell’essenza che lo determina; d'altra parte di
un’ontologia esistenziale, di un universo di atti di esistere, la sola
filosofia è insufficiente a risolvere tutti i problemi esistenziali che
essa ne. Una filosofia che reclama
questa pretesa è la pseudo-filosofia della ragione non autentica, e tale in
quanto si arroga compiti che la
sorpassano; è la filosofia del razionalismo
assoluto, della religione della ragione, cioè una pseudo-religione.
L’esistente nella sua originarietà resta il problema interno della filosofia,
quello che la apre alla trascendenza; un
universo di atti di esistere è già, come tale, dipendente dal supremo Esistente. L’esistere, come abbiamo
visto, importa sempre un qualcosa di
nuovo, una creazione ex mnihilo, il cui
esserci è l’evidenza sensibile del
Creatore. Filosofia e religione, come
scrive il Masnovo (La filosofia verso la
religione), non hanno lo stesso oggetto gnoseologico, ma lo stesso termine reale di conoscenza l’Essere unico, sorgente di tutte le cose il cui svolgimento è diverso nella ragione
e nell’atto di fede, senza che l’una
contraddica all’altro. Il Cristianesimo rivelò l’esistente a se stesso, la
persona alla persona. I concetti dell’uomo
figlio di Dio, creatura; della dignità
non-abdicabile ed insopprimibile del singolo;
del conflitto morale tra il bene e il male, al cui esito è legata la perdizione o la salvezza; della libertà e
del peccato, diedero un senso
dell’esistenza che se il pensiero greco
aveva in parte preparato giungeva del tutto nuovo. La vita come dramma interiore, attrice di una lotta
morale impegnativa di tutta la persona, è scoperta del Cristianesimo; nessuna concezione incentra la riflessione
filosofica sull’esistente e i problemi esistenziali quanto quella
cristiana. Tutta la filosofia
agostiniana punta diritta sull’esistente e
i suoi problemi: pochi pensatori hanno problematizzato come Agostino
l’esistente e vissuto con tanta intensità il dramma interiore dell’uomo. Se in
S. Tommaso il senso della interiorità è men vivo, il dramma della persona è
vissuto altrettanto intensamente e la sua soluzione non è diversa. Il Rosmini, approfondendo il pensiero dei due
grandi, ha scoperto nella forma morale
dell’essere il punto di unione
dell’essere possibile indeterminato con l’essere reale determinato; la morale rosminiana è una
soluzione da tener presente dei problemi
dell’ontologia esistenziale, la cui conclusione è ancora quella di Agostino e
Tommaso. Oggi la concezione dell’uomo
come dramma, del soggetto come problema da spiegare e non come principio di
spiegazione, è tornata alla ribalta
della discussione filosofica; al dramma
si è cercato di togliere ogni carattere teologico e si è tentato
risolverlo nell’ambito dell’ordine umano: l’uomo pone il suo problema e lo risolve da sè; ogni
altra soluzione è fittizia ed illusoria.
È la conclusione di ogni forma d’immanentismo, il dogma della filosofia
marxista. L’uomo il suo problema lo
risolve da sè: non c’è posto per il superfluo,
l'inutile della trascendenza. L’uomo deve sacrificarsi all’uomo
(individuo, famiglia, società, Stato): è contrario alla sua natura sacrificarsi a qualcosa che non sia
umano, che lo trascenda. L’immanentismo,
di qualsiasi specie o sottospecie, si
rivolta a Dio, gli dice di no. Dunque dice di no a Qualcuno: altrimenti a chi
direbbe di no e a chi si ribellerebbe?
Ribellarsi è ribellarsi a Qualcuno. L’atto di ribellione di una parte cospicua del pensiero moderno, la sua
alta protesta contro Dio, è un’affermazione di Dio. I Titani che si ribellarono
a Giove, nell’atto stesso, riconobbero la esistenza di Giove, tanto da tentarne l’offesa e da
sperimentare la potenza della sua ira. Il titanismo moderno non è stato da
meno, ma siccome si è rivoltato al Dio
di Cristo, ha sperimentato l’infinità
del suo Amore. La rivolta contro la metafisica,
portata alle sue ultime conseguenze critiche e corretta dalle deviazioni acritiche, non può non risolversi
che in una consapevolezza invincibile dell’esistenza di Dio, la quale è insita
al dramma interiore che è l’uomo, l’esistente che, al vertice del conoscere razionale, pone ancora
il suo problema, quello della sua destinazione. Con esso è tutto il conoscere
razionale che chiede la sua autenticazione in un sapere che trascende la ragione senza
contrastarle. L’esistente scopre la sua consistenza: l’esistenza degli esseri
rimanda all’Essere, la radice di ogni essere, perchè radicato nell’Essere. Vi è in tutti gli esseri una
contingenza iniziale , come dice il Blondel, che li accompagna nel loro processo evolutivo e costitutivo. Cercare la
loro consistenza in quel che hanno di
fatto in un dato momento è cercarla
per mai trovarla nel loro aspetto esterno e non nel loro
ordine interno, nella zorma interna che
li trascende, la quale costituisce la
vivente e secreta armatura degli esseri in cerca della loro vera e completa realizzazione (L'’Etre et les étres). L'essere-persona è
capace di autosufficienza, di realizzazione completa e totale? Può erigersi ad
Assoluto come singolo o come
collettività? L’esistente è tale per l’Esistente; conoscente e capace di
conoscere, al limite del suo conoscere, pone se stesso come problema; ed è questo l’atto ultimo
della ragione, contenente tutti i dati per la soluzione del problema
dell’esistenza dell’Esistente assoluto. All’estremo di tutte le sue possibilità, al massimo della soddisfazione
dei suoi bisogni, è ancora bisogno,
grida, come dice Hello, io ho bisogno .
Ha quel che è, ma non è tutto e dunque non ha tutto. Scopre al limite di
ogni possibile ricerca, con la convalida e la
garanzia di tutto il suo conoscere e sapere, di avere un fine che lo trascende, di tendere ad un
perfezionamento che lo oltrepassa. Il ne
varietur della religione costituisce la pedana
di lancio nella possibilità della fede; non nell’ignoto, perchè la fede
religiosa non è cieca, nè è un’avventura da anima romantica. Senza essere una passione inutile
, come lo definisce banalmente Sartre,
l’uomo è amore per l’Esistente, l'Altro incommensurabile. Ogni progetto di
essere per sè è perpetuo progetto di fondarsi
da sè ed è perpetuo fal 226 Filosofia e
Metafisica limento di esso, perchè è progetto contro la consistenza dell’uomo, congiura che egli ordisce ai danni
di se stesso, della sua vocazione
naturale, essenziale ed universale. La
tendenza all’Altro è invincibile ed è tendenza a Dio. L’esistere nel
mondo non è il fine, ma la prova: Dio è il fine
di ogni soggetto. La consistenza della persona è nel rapporto con
l’Essere assoluto. Aspirazione a Dio con tutti noi stessi è consapevolezza, con tutti noi
stessi, di essere incapaci da soli di attingerLo; la nostra generosità
autentica, coraggiosa ed
insaziabile , come la chiama il Blondel, che
l’iniziativa di Dio, nella sua infinita carità e bontà, vorrà premiare. Ma dipende da noi farci simili al
cristallo, secondo la magnifica
espressione di Caterina Mansfield, affinchè la
luce di Cristo brilli attraverso di noi.
Dio si conosce meglio ignorandolo , secondo la formula della teologia
mistica fatta propria da S. Tommaso, ma inconosciuto nella sua essenza, è da noi conosciuto come e in
quanto incognito. La consistenza degli
esseri ci è dunque risultata risiedere, seguendo il dinamismo interno del
pensiero e senza rinunziare o condannare
il conoscere razionale, nel loro rapporto con Dio, al limite dei limiti, in un
fine senza fine. L'ultima parola della
ragione è la prima della religione: l'estremo
appello dell’esistente-consistente non va rivolto alla ragione, ma, sul fondamento della ragione, a
Dio. Dunque, a rigor di termini, non vi
è una filosofia esistenzialista , nel
senso di una filosofia della pura esistenza, ma una filosofia, come tale
razionale, che pone il problema dell’esistente a faccia a faccia con la
soluzione teistica, che apre alla fede
religiosa; una filosofia, che, perchè tale, è metafisica. L’esistente,
nell’atto stesso d’interrogare la ragione e
problematizzarla, riceve da essa l’indicazione della via da seguire. Non c’è materia per drammatizzare o
vilipenderla; c'è il più saldo
fondamento per sperare con il suo assenso.
L'esistenzialismo è ingiusto verso la ragione per due motivi: 4) perchè
essa indica la strada per la soluzione del problema dell’esistente; 4) perchè
una volta che esso pone la ragione
stessa come problema, dato che la filosofia è per sua natura imprescindibile razionalità,
invano si arrovella a mettere insieme
una filosofia esistenziale. (Ecco perchè
gli esistenzialisti son capaci di profonde e sottili analisi psicologiche
moralisti , ma non di indagini filosofiche vere e proprie).
L’esistenzialismo è la crisi della
filosofia. Le sue richieste deve rivolgerle altrove, all’Altro, che è il Qui, che la ragione stessa riconosce
al suo limite; l'istanza esistenziale
ritorna sempre come istanza religiosa.
L’interrogazione dell’esistente è quella che la ragione fa a se stessa di fronte al problema
esistenziale, il suo convergere in Dio; dunque ancora filosofia con soluzione
teistica. La inoggettivabilità dell’atto di esistere, se non rende estranea la ragione al problema
dell’esistente, la fa convinta
dell’impossibilità di risolverlo, senza che ciò contrasti con la natura della ragione stessa.
L’esistente inesistente nell’ordine del conoscere razionale, ma
esistente come problema-limite della
ragione, inesiste come soluzione nell’ordine teologico, in
quanto la spiegazione e la autenticazione di ogni atto di esistere è nel
supremo Esistente. La ragione non spiega
tutto l’esistente, ma gli spiega come e
dove spiegarsi: è sempre la luce dell’esistente, la sua intelligenza,
che l’avvia alla chiarezza totale, a Dio. Cervello ed umanità, l’uomo: è suprema saggezza
mettere il cervello al servizio della
nostra umanità la più profonda ed essenziale. Amore in una breve nota
pubblicata nella rivista Sapienza (n. 1, 1948, 132), a proposito di queste
pagine, mi osserva che, senza riescirvi,
io mi sforzo di completare la
Metafisica degli antichi Scolastici con... un po’ di esistenzialismo, cioè con il problema
posto dagli esistenzialisti, non con la
soluzione che essi danno . E aggiunge:
Egli crede che il problema dell’esistenza com’è posto e risolto da
Aristotele e da S. Tommaso sia di natura totalmente astratta e resti nel puro
campo dell’astrazione, della essenza o concetto
dell’ente come ente, formando così una eidetica, una metafisica cioè
delle pure essenze . Francamente non
riesco a spiegarmi come D'Amore, pur sempre
attento e, verso di me, benevolo lettore, abbia potuto farmi questi
rilievi. Sarebbe da parte mia uno sforzo
davvero inintelligente quello di e completare
la metafisica degli antichi Scolastici con... un po’ di esistenzialismo
, in quanto questo problema non avrebbe senso e perchè la metafisica della
migliore scolastica per me pone il problema dell’esistenza in termini più veri
e speculativamente più vigorosi che non l’esistenzialismo. La mia posizione è
chiara: l’essere non è riducibile nè
alla pura essenza nè alla pura esistenza, in quanto la sua struttura è duplice. Inoltre io non dico
affatto che quella di S. Tommaso è una
metafisica delle pure essenze; anzi proprio il contrario: è una
metafisica dell’esistenza; e su questo
punto ho insistito nel distinguere la metafisica aristotelica da quella
tomista; o forse D'Amore vuole identificare S. Tommaso con Aristotele, a tutto svantaggio del primo? I
due volumi di Filosofia e Metafisica raccolgono le pagine più impegnate e
profonde che lo S. ha scritto tra il 1945 e il 1950 e segnano il passaggio
dallo Spiritualismo cristiano alla Filosofia dell’integralità. In essi si
possono leggere saggi di rilevante interesse teoretico come quelli sul concetto
di metafisica e sull’ateismo, oltre all’altro sull’esistenza di Dio, che ormai
si allinea tra i testi classici della filosofia contemporanea. Lo stile
avvincente e chiaro, il vigore del pensiero insieme profondo e cristallino, l’unità
dell’ispirazione, il modo proprio dell’ Autore di rendere attuali e vivi
problemi di sempre, fanno che quest'opera, sistematica senza pesantezza, sta
una lettura appassionante e proficua. Zursaran S. Tommaso visita S.
Bonaventura. OPERE COMPLETE L'interiorità oggettiva, Come si vince a Waterloo,
Interpretazioni rosminiane, L'uomo, questo squilibrato Atto ed essere, La filosofia oggi, La filosofia morale di A.
Rosmini, Morte ed immortalità, II edizione, riveduta, pag. 383, L. 3500. La
clessidra (Il mio itinerario a Cristo), In Spirito e Verità, Dall Attualismo allo
Spiritualismo critico, Filosofia e Metafisica, Pascal, Dialogo con Blondel, Così mi parlano le cose
mute, Kierkegaard e il malessere della cristianità, La filosofia italiana, Il tempo e la libertà.
Il momento estetico e il valore ontologico della fantasia, Platone, Studi sulla
filosofia antica, II edizione. Chiesa cattolica e mondo moderno, II edizione.
Il pensiero italiano nell'età del Risorgimento, II edizione. 27-28. Il pensiero
occidentale nel suo sviluppo storico. 29. Studi sulla filosofia moderna, INI
edizione. 30. Le mense di Cristo. MARZORATI MILANO via Borromei. L' illustrazione è opera del
pittore fiorentino Primo Conti. La caravella dalle vele crociate, che
attraversa le Colonne d’ Ercole, simboleggia l’aspetto essenziale della
filosofia dello S.: non vi sono ostacoli per il pensiero umano, nè barriere
invalicabili, se esso cammina e procede sorretto dalla fede nella verità di
Cristo. Una mattina, il re Gerone domandò a Simonide che gli dicesse chi fosse
Dio; Simonide gli chiese un giorno di tempo per pensarci sopra; l'indomani, a
corto di una risposta soddisfacente, gliene chiese due, poi quattro e così di
seguito. Alle meraviglie del re per il moltiplicarsi continuo dei giorni,
Simonide rispose che più ci pensava, più il problema gli sembrava oscuro. Le
pagine che seguono si propongono di vagliare le risposte di quanti, a
differenza di Simonide, affermano in vario modo che Dio non è, cioè vogliono
essere un breve esame storico-critico delle forme più significative di ateismo,
un’analisi e valutazione delle dottrine che implicitamente o apertamente si
dicono atee ( #Seos= senza Dio). Problema difficile e complesso, non solo per
le sfumature che presenta, ma anche perchè quanti son atei spesso negano di
esserlo o, ammettendolo, parlano di un’altra cosa (!). Avevo sentito dire molte
cose di lui già in passato, e fra (I) Per esempio, il Comre (Système de polit.
pos., t. I, 48) scrive che l’ateismo è una cosa rara ; il Renouvier (Derniers
Entrétiens, Paris, 102) che il n’y a que très peu d’athées ; lo stesso Le
DantEc non si considera ateo (L’Athfisme, Paris, 1906, 56) e aggiunge che la
gran maggioranza degli uomini est imbue
de l’idée de Dieu (19); da parte sua il
Blondel afferma che l’ateismo è une
thèse verbale, une interprétation ou, mieux, une finction notionnelle, mais non
une position réelle ni une attitude naturelle: on peut dire qu'il y a ou des
anti-théistes ou des idolàtres, à defaut de croyants du vrai Dieu, il n’y a pas
d’athées; car, pour nier Dieu, on est forcé de passer d’abord par l’affir8
Filosofia e Metafisica l’altro che era ateo: è un uomo realmente molto
istruito, e mi rallegrai di poter parlare con un vero scienziato. Oltre a ciò,
è un uomo di educazione rara, sicchè parlava con me proprio come a persona del
tutto uguale a lui per cultura e intelligenza. Non crede in Dio; tuttavia una
cosa mi colpì: che in tutto quel tempo avesse l’aria di parlare di tutt'altra
cosa, e appunto mi colpì perchè anche in precedenza, per quanti miscredenti
avessi incontrato e per quanti libri del genere avessi letto, mi era sempre
sembrato che parlassero e scrivessero cose del tutto diverse, sebbene in
apparenza fosse il contrario. Allora glielo dissi, ma, si vede, non in modo
chiaro, oppure non seppi esprimermi, perchè non capì nulla... Senti, Parfén,
poco fa tu mi hai fatto una domanda, eccoti la mia risposta: l’essenza del
sentimento religioso sfugge a qualsiasi colpa o delitto, a qualsiasi ateismo;
c’è in esso qualcosa di inafferrabile e ci sarà eternamente, c’è in esso
qualcosa su cui sorvoleranno sempre gli atei, che parleranno eternamente di tutt’altra
cosa . Così il principe Myskin nell’Idiozz di Dostoevskij} non senza una
sottile ironia verso il vero scienziato
molto istruito e dall’ educazione
rara , il quale crede di negare Dio e parla
di tutt’altra cosa : la sua
cultura e intelligenza
hanno come limite l'ignoranza di ciò che negano; conosce tante cose ma
non la sola necessaria per essere veramente sapiente. Nè si tratta
dell’ignoranza dell’ateismo volgare: vi sono atei che filano le prove classiche
dell’esistenza di Dio meglio di tanti credenti; le ripetono anche a se stessi,
e non se ne convincono. Evidentemente, oltre che ad insufmation au moins implicite, mais
inéluctable d’un ’’super-immanent’’ (La querelle de l'athéisme, Séance du 24
mars 1928 de la Société frangaise de
Philosophie , nel vol. di BrunscHvice, La vraie et la fausse conversion, Paris,
Presses Universitaires de France, 1951, p212-213). Anche S. Agostino
scrive: Si tale. hoc hominum genus est,
non multos parturimus; quantum videtur occurrere cogitationibus nostris, perpauci
sunt, et difficile est ut incurramus in hominem qui dicat ir corde suo, non est
Deus... (Enarr. in Psalm. 52, 2). E aggiunge: Dio è così naturalmente presente al cuore
dell’uomo che solo i corrotti e i perduti nel vizio possono negarlo (Enarr. in Psalm. 13; In Joan. Evang. tr.
106, c. 17, n. 4). L'ateismo 9 ficienza della volontà e al profitto o al piacere di non convincersene, intervengono
errori o fuorviamenti intellettuali, di cui il principale è appunto che,
parlando di Dio e negandolo, parlano di un’altra cosa. Similmente, come abbiamo
accennato, altri protestano di non essere atei; tuttavia, lo sono, in quanto Lo
concepiscono in maniera inadeguata o contrastante la sua essenza. Nessuno, in fondo, è ateo se non a parole ;
al contrario, secondo Bayle, è possibile una
società di atei; ai nostri giorni si parla di ateismo di massa e non più di una élite
(ateismo individuale o di setta) e alcuni stati e governi si proclamano ufficialmente
atei e areligiosi; non manca chi ha creduto di dimostrare, come il Rensi
nella sua superficiale Apologia dell’ateismo, che è razionale negare l’esistenza di Dio, anche se l’ha
fatto con una passione da credente senza
Dio , spiegabile solo con un sotterraneo e invincibile sentimento religioso.
Problema dunque complesso, soprattutto se considerato nel pensiero moderno e
contemporaneo, che va trattato con un interesse pari alla sua importanza, anche
se, come vedremo, l’ateismo, sotto qualsiasi forma si presenti, non è razionale
perchè intrinsecamente contraddittorio ed è una violenza dell’uomo alla sua
stessa natura (?). 2. Abuso del termine
ateismo . E’ necessario distinguere ateismo in senso assoluto e in senso
relativo: nel primo caso si nega Dio in qualsiasi modo lo si concepisce; nel
secondo si giudicano atee alcune parti Ciò è confermato anche dai
cosiddetti fatti tanto importanti per gli empirici, i
materialisti e gli evoluzionisti; infatti, le forme più primitive di religione
sono monoteiste e il politeismo, il feticismo, ecc. sono forme derivate di
corruzione o degenerazione. D'altra parte, l’ateismo in quanto tale non è
originario: come momento negativo, presuppone quello positivo, l’affermazione
di Dio, cioè nasce dal fatto che l’uomo è per essenza religioso: c’è l’ateo
perchè c'è il credente, il positivo ,
che può stare senza il negativo , che,
invece, non è senza l’altro. 10 Filosofia e Metafisica colari maniere di
concepire la divinità, o si dissente su particolari questioni di culto e di
carattere religioso-teologico. Per esempio, per i pagani sono atei i cristiani
e per i cristiani i pagani; per i protestanti i cattolici e per i cattolici i
protestanti, ecc. Samuel Parker, protestante del XVII secolo, s'affanna a
provare (*) che tutti gli scolastici sono stati assolutamente atei; da parte
sua, il gesuita Hardouin, nel libro Azhei detecti (4), accusa di ateismo
Descartes, Arnauld, Pascal, Malebranche, ecc. In altri termini, per ciascuna
religione positiva sono atee tutte le altre concezioni di Dio da essa disformi.
Per conseguenza, secondo alcuni, la definizione del termine ateismo
è puramente verbale, in quanto il contenuto del concetto di ateo varia
secondo le diverse concezioni di Dio e del suo modo di esistere (°). A_ volte
basta dissentire dalle opinioni dominanti o ufficiali di una determinata epoca,
per grossolane ed empie che siano, per essere accusati di ateismo e condannati.
Celebri, in questo senso, nell’antichità, il processo e la condanna di Socrate;
notissimo il racconto dell’Euzifrone platonico dove l’ateo di fronte alla
religione ufficiale è Socrate, sostenitore di una concezione della divinità più
conforme al suo concetto, e credente l’indovino Eutifrone, che attribuisce agli
dèi ogni specie di malefatta e se li rappresenta in maniera empia e volgare in
conformità con le credenze popolari ufficialmente accettate (9). Qui vi è un
abuso della parola ateo dettato quasi sempre da conformismo opportunistico o da
una politica di tornaconto, e un’errata impostazione del problema. L’abu(3) Cfr.
Disputationes de Deo et Providentia divina, Londra, 1678, dis2, ca2. (4) Opera
varia, Amsterdam, 1719. (5) Vocabulaire technique et critique de la philos., IV
ediz., Paris, 1938, vol. I, 73.
(6) In questi casi, l’ ateo è il vero
credente, colui che protesta contro le concezioni volgari o superstiziose e le
pratiche sconvenienti, si mette contro
l'opinione comune (il paradossale ), che offende Dio e il suo
culto. L'’ateismo (3 so, già molte volte rilevato e criticato da scrittori di
varia tendenza ("), si può riassumere, per quanto riguarda la pratica
religiosa, in questi termini: è ateo chi non è rigidamente conformista al culto
ufficiale di un paese in una determinata epoca. Ma qui non si tratta più di un
problema teoretico o speculativo, ma di una questione di prassi, tipica, per
esempio, della Grecia antica, il cui politeismo, privo di dogmi e di una vera e
propria teologia, era quasi soltanto culto controllato dallo Stato. Roma, cue
per mancanza di autentico spirito religioso e opportunismo politico era
tollerante con tutti i culti, li reprimeva sotto l’accusa di ateismo, quando
contrastavano con le direttive politiche e l'autorità statale. In questi casi
non c’è ateismo teoretico in quanto non si nega l’esistenza di Dio, nè pratico
perchè non si vive come se Dio non esistesse; si fa questione intorno alla
prassi religiosa e per motivi ad essa estranei. Così i pagani chiamavano atei
gli Ebrei (*) ed anche i cristiani perchè si rifiutavano di praticare il loro
culto; con l’editto imperiale del 380, invece, furono definite atee tutte le
religioni non cristiane (sacrilegium = &3ed7ns). Altra la questione
riguardante il diverso modo di concepire Dio: se si tratta di controversie
dogmatiche si può parlare solo di non ortodossia (per esempio, i protestanti si
possono dire eterodossi, ma non atei); se della concezione di Dio in generale,
bisogna distinguere: a) non sono atee le concezioni primitive e rudimentali in
quanto manca la coscienza critica e dunque il problema stesso dell’ateismo; b)
lo sono, invece, quelle che negano Dio, o chiamano con questo nome un ente che
non lo è (la Natura, il Cosmo, ecc.). Ma nei due casi si tratta sempre di insipienza ; infatti, 1r51piens pronunzia la parola e pensa ad altro non è solo chi nega Dio, ma anche colui che
Lo concepisce in modo soi (7) Cfr., per esempio, Vottatre, Dict. philos.,
Paris, Flammarion, s. a., voce Athée,
Athéisme , p35 e ss.; Franck, Dict. des sciences philos., sub. V. (8) Jos.
Frav., Contra Apion., II, 16. 12 Filosofia e Metafisica stanzialmente
sconveniente alla sua essenza. Anzi quest’ultima forma di ateismo, non soltanto
Lo offende, ma ostacola la conoscenza del Dio vero: rispetto ad essa l’
ateo ha la funzione benefica, anche se
negativa, di demolire gli dèi falsi e
bugiardi . 4 Non tengono conto di queste necessarie distinzioni quanti
concludono che il termine ateo non ha alcun significato teoretico definitivo o
definibile, ma solo un eglore storico da determinare caso per caso secondo i
diversi culti e le particolari rappresentazioni di Dio. Così non solo si nega
ogni forma di ateismo tutto si
ridurrebbe a reciproche accuse tra sistemi teologici e culti diversi, a
chiamare atee forme di religione rudimentali o meno progredite ma che teismo ed ateismo, in quanto temi di
polemiche religiose, siano problemi appartenenti alle discussioni filosofiche;
in altri termini, si nega che l’esistenza di Dio sia un problema teoretico e lo
si relega tra le controversie intorno al culto. Affermazione insostenibile,
storicamente e teoreticamente, la quale non distingue il problema del domma e
del culto da quello filosofico vero e proprio. Infatti, dal punto di vista
storico è facile constatare che, in ogni epoca, tutti i grandi sistemi
speculativi hanno affrontato come questione filosofica e da un punto di vista
teoretico il problema dell’esistenza e della concezione di Dio; anzi non c’è
stata e non c’è filosofia che non si sia posto il problema, così intrinseco
alla stessa ricerca da definirsi, secondo la risposta affermativa o negativa,
teistica, agnostica, atea, ecc. Possibile che una questione la quale ha
occupato la mente degli uomini in tutti i luoghi e tempi ed è stata sempre
intrinseca alla ricerca razionale, non abbia in sè alcun senso filosofico, al
punto da far dire che il termine
ateismo non ha un significato
teoretico definitivo, è privo di un suo contenuto e appartiene solo alle
controversie sul culto o tende decisamente a ridurvisi? L'ateismo 13 Dal punto
di vista teoretico, come giustamente osserva il Lachelier (9), ce qui varie est
moins le contenu philosophique dell'idea
di ateismo que l’emploi plus ou moins malveillant che si fa del termine contro una particolare
dottrina o una determinata persona. Altro è il contenuto filosofico pressochè
invariabile, altro l’uso pratico del termine; dunque, il senso storico o
pratico variabile va distinto da quello teoretico immutabile. Chi nega che i
termini ateismo e teismo
abbiano un senso speculativo e pretende con ciò di negar loro diritto di
cittadinanza nelle ricerche e nelle discussioni filosofiche per affidarli
soltanto alle controversie religiose, muove da una posizione di pensiero, da un
presupposto che ha già concluso per suo conto che il tema dell’esistenza di Dio
è del tutto estraneo alla filosofia o alla ricerca razionale e perciò non
costituisce un problema speculativo; dunque, da un sistema costruito in modo da
non far posto all'idea di Dio e, in questo senso, da una filosofia atea. Per
conseguenza, la sua affermazione che il termine ateismo non ha un contenuto
teoretico definibile ma solo un valore storico e pratico, è presupposta, senza
essere dimostrata, nella sua iniziale posizione filosofica che, in partenza e
aprioristicamente, esclude dal campo dell'indagine razionale il problema
teologico, per relegarlo in quello delle questioni religiose, solo in quanto il
sistema non ne tollera la presenza: ci
troviamo di fronte ad uno scoperto e filosoficamente intollerabile :dolum
theazri. Chi dice in partenza, confondendo l’uso pratico del termine ateismo
con il suo contenuto, che quello dell’esistenza o non esistenza di Dio non è un
problema filosofico ha già deciso; per lui, la ragione, come ragione
filosofica, è atea o almeno agnostica. Ma questa affermazione è una soluzione
del problema in questione, non un’argomentazione valida per dimostrare che
quello teologico non ha un significato teoretico; (9) Vocabulaire ccc., cit.,
72. 14 Filosofia e Metafisica anzi per il fatto che dà già una soluzione, vera
o falsa che sia, prova con ciò stesso che il problema appartiene all’indagine
filosofica e non soltanto alle controversie religiose. Dunque esso va riportato
in sede speculativa come quello che, non solo appartiene alla ricerca
razionale, ma è il problema primo della metafisica e perciò intrinseco ed
essenziale alla filosofia come tale. Ma daccapo: quando l’ateo dice Dio non esiste , quale Dio nega? Pensa
veramente a Dio? Ne nega l’esistenza senz’altro, o nega quella di un Dio
immaginato in una determinata maniera? Si è teisti soltanto se si ammette
l’esistenza di Dio concepito nell'unica maniera vera e atei quando, pur non
negandolo senz’altro, se ne concepisce uno in un modo diverso dall’unico per
cui ci si possa dire teisti, in quanto il solo concepirlo diversamente ne
implica la negazione? Problemi, questi ed altri, da tener presenti in una
valutazione filosofica dell’ateismo, ma tutti riducibili a quello di una
ragione atea ; dunque, ai fini della validità dell’ateismo stesso la domanda
decisiva è una sola: è razionale una ragione atea? L'’ateismo pratico non è
autonomo e originario ma dipendente e derivato: ogni sua forma ne presuppone
una di ateismo teoretico: la volontà atea, sia pure implicitamente, è
conseguenza della ragione atea. Perciò la sua validità dipende da quella
dell’ateismo teoretico, la cui confutazione implica inappellabilmente l’altra
dell’ateismo pratico. Vi è un ateismo, scrive Bossuet,
caché dans tous les coeurs, qui se répand dans toutes les actions: on
compte Dieu pour rien ('). È l’attitudine di quanti vivono e organizzano
la propria vita come se Dio non esistesse; e non se ne preoccupano
(”). Non ne negano in modo esplicito l’esistenza; vivono e agiscono
senza tenerne conto, cioè negano che Dio, esista o no, possa avere una
qualsiasi efficacia valida sulla nostra condotta e aiutarci nella soluzione dei
problemi che c’interessano. Alla base di questo comportamento sottostà una
tacita convinzione: niente nel mondo cambie Pensées détachées, II. E’ più una questione di indifferenza che
d’ignoranza; a volte di pigrizia, d’insensibilità, di ottusità spirituale;
infatti, di Dio sentono parlare e ne parlano, ma vivono egualmente come se non
esistesse. Non si tratta soltanto di essere sopraffatti dalle passioni terrene
o dall’urgenza della vita il lasciarsene
sopraffare indica già che è debolissimo il richiamo dei valori religiosi nè dall’influenza dell'ambiente o
dell'educazione: il fatto che se ne lasciano assimilare è prova che mancano di
una vera esigenza religiosa ed implica una accettazione che è sempre, almeno
implicitamente, frutto di una sia pure elementare riflessione e di un atto
volontario sia esso di mera acquiescenza. 16 Filosofia e Metafisica rebbe in
bene o in male anche se Dio non esistesse; la vita, la morte e tutto il corso
dell’umana esistenza non muterebbero di segno: dunque che vale ammetterlo o
preoccuparsi di risolvere il problema della sua esistenza? Ma chi ragiona in questo
modo, di quale Dio non si preoccupa sapere se esista o no ed agisce, in privato
ed in pubblico, come se non esistesse? Di un Dio la cui esistenza non avrebbe
alcuna efficacia sulla nostra condotta e il senso della vita; che è dire di un
Dio che non è tale, anzi che è meno dell’uomo, il quale in un certo modo riesce
ad influire sulle sue azioni e a dare una risposta a certi problemi. È evidente
che tale ateismo pratico è la conseguenza di uno teoretico, cioè del concepire
Dio come non Dio, che è negarne l’esistenza; dunque, affinchè esso possa
giustificarsi deve prima provare la validità razionale della negazione
teoretica su cui si fonda e da cui deriva. Vi è una forma di ateismo pratico
più radicale ed oggi di moda: la vita non ha senso, è assurda; dunque Dio non
esiste; ma chi dice che la vita non ha senso per ciò stesso presuppone che Dio
non esiste. Infatti, è contraddittorio negare ogni senso alla vita e nello
stesso tempo ammettere che Dio esiste in
tal caso si pensa ancora all'esistenza di un Dio che non è tale ; come non si
può ammettere l’esistenza del vero Dio senza dare alla vita un senso preciso e
assoluto. La negazione non è una conseguenza del fatto che la vita non ha
senso, ma la premessa teoretica da cui scaturisce l’ateismo pratico. Chi nega
un senso alla vita non deduce da questa affermazione l’inesistenza di Dio; al
contrario, dice che la vita non ha senso proprio perchè in cuor suo Lo ha già
negato. Dio non esiste è la premessa, anche se taciuta od omessa,
dell’altra proposizione la vita non ha senso, dalla quale non consegue la
negazione di Dio; quando la si pronuncia si è già negato Dio, anzi la si
formula solo in quanto si è negato. L'ateismo 17 L’ateismo pratico, anche in
questo caso, è conseguenza di quello teoretico; dunque non è valido fino a
quando non si sarà razionalmente dimostrata la validità di quest’ultimo. Del
resto, è nota la critica di Sartre all’ ateismo assurdista del Camus: l’assurdismo elevato a sistema si
autonega, in quanto è sistema ben ordinato del disordine, una specie di
razionalizzazione dell’assurdo perfettamente sistemato; piuttosto che negare
l’Assoluto lo implica senza spiegarlo. Ma questa critica vale anche contro
l’ateismo del Sartre. Se il male e i cattivi sono premiati a che giova credere
nell’esistenza degli dèi e adorarli? Si potrebbe credervi se attraverso il
trionfo del giusto si manifestasse la loro giustizia; ma nelle cose del mondo
avviene proprio il contrario. Questa forma di ateismo pratico, presente in
tutti i tempi (*) e presso tutte le società, può così riassumersi: se
l'ingiustizia fosse punita e il male vinto, non si potrebbe non credere
nell’esistenza degli dèi o di un Dio; invece, l’ingiustizia è premiata e il
bene sconfitto, dunque non esiste la divinità, o almeno tutto sta a provare il
contrario; ammesso che esista, è impotente o malvagia. Questa forma di ateismo
pratico è la semplificazione empirica di un problema metafisico di grande
portata e precisamente di quello del male e della sua origine: Si Deus est,
unde malum? La presenza del male nel mondo è una delle cause principali
dell’ateismo, come ci attesta la dolorosa esperienza del nostro e di tutti i
tempi. La stessa missione di Cristo è stata interpretata in questo senso: il
Getsemani, la cattura, il processo, il supplizio e la morte starebbero a
testimoniare come il giusto soccomba e il bene sia sempre sconfitto dal male
trionfante. (3) Se si onorano le azioni cattive ed ingiuste, a che adorare gli
dèi tl del pe xopesetv ? (SorocLe, Edipo re, 895); se l'ingiustizia
è più potente della giustizia non si può credere agli dèi (EuriPIpE, Elettra,
583). La stessa tesi è sostenuta dai sofisti (PLatonE, Repubblica, soprattutto
i libri I e IM). 18 Filosofia e Metafisica Ma in che senso si dice che il male
vince ed è premiato e, dunque, Dio non esiste? Evidentemente nel senso che in
questo mondo, su questa terra, il bene non è vittorioso ed è perseguitato. In
altri termini, si esige che la giustizia divina si avveri in questa vita, qui
si puniscano i cattivi e si premiino i buoni, qui si compia il destino
dell’uomo; che questa vita non sia prova, ma compimento pieno dell’esistenza
nell’episodio mondano, con cui viene in tal modo ad identificarsi tutta. Ma ciò
implica la negazione di un’altra vita, dove si attua la piena giustizia divina,
e la identificazione di tutto l’essere con la realtà mondana; cioè presuppone
la negazione teoretica di Dio e di un Regno divino, del resto superflui una
volta che nel mondo può trionfare la perfetta giustizia e l’uomo avere felicità
eterna. Infatti, se si ammette che Dio esiste come Provvidenza e giustizia
assoluta, è contraddittorio affermare che il male trionfa sempre ed è premiato;
bisogna dire invece che, anche quel che sembra male è a fin di bene e la
giustizia, anche se sconfitta e punita in questa vita, sarà vittoriosa e
premiata nell’altra; cioè, che la vera si attua in un altro mondo. Il fatto che
il male trionfa sulla terra e il giusto vi è perseguitato e punito non
autorizza la conclusione negativa dell’esistenza di Dio, anzi è uno degli
aspetti della vicenda storica dell’uomo che acutizza il problema, fa riflettere
sul significato dell’esistenza e stimola al convincimento positivo. Pertanto,
la vera forma del ragionamento ateo non è: vi è il male vittorioso nel mondo e
il bene sconfitto, dunque Dio non esiste , ma quest'altra: Dio non esiste e non vi è una giustizia
divina ultramondana, dunque il male è definitivamente vittorioso nel mondo e il
bene sconfitto . L’ateismo pratico presuppone sempre quello teoretico. Il
problema: si Deus est, unde malum?, per chi in partenza non ha negato Dio, si
pone in questi termini: ammesso Dio,
come si spiega il male?; per chi Lo ha già negato, in questi alL'ateismo 19
tri: se nel mondo c’è il male trionfante, Dio non esiste . La conclusione solo
in apparenza è tale; in realtà è la premessa:
Dio non esiste, dunque nel mondo c’è il male, e vi trionfa . Infatti, se
si nega un regno ultramondano ed ultraumano, il male è invincibile ed
impossibile una giustizia perfetta; ma proprio perchè già... si è negato Dio!
Da ultimo, negare Dio perchè nel mondo il male ha successo e il bene è
perseguitato, è dare eccessiva importanza al giudizio degli uomini e attribuire
valore assoluto a quel che il mondo può darci, altrimenti non si potrebbe
concludere a quella negazione, contraddittoria con la relatività dell'umano
giudizio e dei riconoscimenti che crediamo spettarci; ma sopravvalutare la
giustizia e l’ingiustizia terrene e i beni che possono dispensare o interdire,
è già negare Dio. Basta convincersi che, meno le essenzialissime, le cose hanno
solo l’importanza che attribuiamo loro, per non disperare di fronte al male
premiato o al bene perseguitato e per rimettere ogni giudizio, con l’anima in
pace, alla giustizia divina. Invece, la forma di ateismo pratico che stiamo discutendo
importa la negazione radicale del cristiano Regnum Dei, della verità delle
parole di Cristo: Il mio Regno non è di
questo mondo . Conseguenza pratica di una posizione teoretica immanentistica non vi è un al di là trascendente, l’unica
realtà è questo mondo afferma che v'è
solo il regnum hominis, dove si attua il cosiddetto Regnum Dei. Ma è un
umanesimo ateo disincantato ; non crede
nella potenza dell’uomo che da solo si costruisce il suo regno di felicità e
dalla negazione teoretica di Dio conclude all’invincibilità del male e al suo
trionfo tra gli uomini. Ciò prova indirettamente come, negato Dio, perdano ogni
validità anche i valori morali, tutti relativi alle situazioni contingenti, e
non abbia più senso nemmeno essere onesti per sentirsi in pace con la
coscienza. Su questa radicale negazione della concezione cristiana. 20
Filosofia Metafisica dell’esistenza si fonda l’interpretazione, sopra
accennata, della vita di Cristo come esempio della sconfitta del bene e della
vittoria del male. Se la si accetta per vera, se Cristo sta a provare che il
male è assolutamente invincibile e il bene soccombente e crocifisso, non si
sfugge a questa conclusione: Cristo sta a dirci che Dio non esiste, che non è
Suo Figlio, nè è venuto a testimoniare del Padre; abbandonato perseguitato
crocifisso, è la prova che non vi è alcuna giustizia, nè Dio, convalida
l’ateismo; Egli stesso, in fondo al cuore, nonostante le cose che ha detto del
Padre, è stato un ateo tristissimo e sconsolato! Tali le conseguenze assurde di
questo ateismo pratico che possiamo chiamare anche dell’insuccesso: il bene è
sempre in perdita, il male sempre in vincita, dunque Dio non esiste. Ma,
daccapo, proprio perchè si è negata l’esistenza di Dio si conclude che il male
vince e il bene perde; altrimenti, se quella negazione non fosse presupposta,
dall’insuccesso mondano e contingente del bene si ricaverebbe quest'altra
conclusione: quando il bene si purifica attraverso la rinunzia, la sofferenza e
la sconfitta terrena, quando sfida il martirio, si assicura la vittoria, vince
con e nel sacrificio di chi gli si sacrifica, gli rende testimonianza. Invece,
il male, apparentemente vittorioso, perde terribilmente nel momento che uccide
il giusto, perchè vince come male, perchè costretto a commettere ingiustizia: è
sconfitto proprio per il suo successo. La punizione della legge ingiusta, come
dice Gandhi, sta nell’obbligarla ad essere applicata al giusto, nelle sue
ingiustizie e nelle sue vittime (*). Bruto che, dopo la sconfitta di Filippi,
giudica la virtù un nome vano e si
uccide, non aveva mai creduto nella verità di essa e ne aveva sempre misurato
il valore e il significato dall’eventuale insuccesso o successo, anzi dal suo
personale. (4) Per un approfondimento di questi temi cfr. il nostro volume Come
si vince a Waterloo, Milano, Marzorati, 3* ediz., 1962, Il* delle Opere complete . L'ateismo 21 Vi è in
quest’ateismo pratico anche un fondo di superbia satanica: la pretesa che
l’uomo faccia trionfare il bene e la giustizia con la sua opera, come se fosse egli
il creatore e il garante dei valori. Noi
facciamo sempre come se avessimo il compito di far trionfare la verità, mentre
abbiamo solamente quello di combattere per essa (Pascal). Similmente il nostro
dovere è di essere giusti al servizio della giustizia: combattere per essa,
senza pretendere di farla trionfare, perchè non ci spetta. Chi si arroga
quest’ultimo compito è già ateo: affida a sè il trionfo del bene, non ce la fa,
e conclude che se il bene perde e il male vince, non c'è bene in questo mondo e
dunque... Dio non esiste. Un dunque apparente perchè non è tale, ma la premessa
dell’assurda pretesa di far trionfare il bene, di misurarne la vittoria o la
sconfitta dal suo terreno successo o insuccesso, di pretendere che l’ordine
divino si attui nel mondo e si identifichi con quello umano, anzi sia lo stesso
nostro ordine. Da ultimo, non vogliamo tacere di una forma molto diffusa di
ateismo pratico, quello di quanti dicono di credere in Dio e ne negano
l’esistenza in ogni loro azione, cioè agiscono come se non Gli credessero, o
non esistesse. Affermano di credere in Dio ma adorano il mondo, il potere, il
denaro; immersi nelle cose, la loro credenza religiosa è solo una specie di
polizza di assicurazione, pagata con il tributo del culto esteriore, sicuri,
con questo supplemento di comodità, di star bene in questa vita e meglio
nell’altra. È l’ateismo pratico della Messa della domenica e del segno della
Croce, magari, per non sciupare quel frammento di tempo, pensando a qualche buon affare . Anche in questo caso, l’ateismo
pratico presuppone quello teoretico, in quanto la fede
di questi cosiddetti credenti non è una dimensione interiore e manca di
ogni fondamento razionale; è pura consuetudine alimentata dal timore del non si sa mai . Vi è l’angoscia bruciante e
tormentata dei buoni atei; vi è l’ateismo sostanziale dei cattivi
credenti. 22 Filosofia e Metafisica 2.
Inconsistenza dell’ateismo pratico. Come abbiamo detto, l’ateismo
pratico non prova la negazione di Dio, ma la presuppone: apparentemente dal
momento pratico trae la conseguenza teoretica che Dio non esistes in realtà
quest’ultima è presupposta. Per esempio: nel mondo vince il male e perde il
bene, dunque Dio non esiste, ma la prima proposizione è essa la conseguenza e
non la premessa della negazione dell’esistenza di Dio; il dolore e il male sono
inspiegabili, dunque non c’è un Dio, ma sono inspiegabili appunto perchè Dio si
è negato. Leopardi esorta gli uomini a prendersi per mano per meglio sopportare
il peso della vita di cui nessuno si cura; ma gli uomini sentono la vita come
un peso assurdo solo se si presuppone che nessuno si cura di loro, cioè se si è
già atei. Vana illusione il conforto della solidarietà nel comune dolore: una
comunità di disperati non può dare speranza ad un solo uomo! È evidente il
sofisma dell’ateismo pratico: da una valutazione negativa del mondo conclude
che Dio non esiste, ma la prima proposizione è essa la conseguenza della
seconda. La conclusione (Dio non esiste) dalla premessa (se il mondo è fatto
così) è in realtà la premessa di cui l’altra è la conseguenza. D’altra parte,
come abbiamo accennato, se il male potesse essere sconfitto definitivamente in
questo mondo e l’uomo realizzarvi la felicità perfetta, sarebbero inutili Dio e
una superiore giustizia divina: il conflitto tra il male e il bene sarebbe
risolto in questa vita e l’esito immanente della lotta, tutto in potere
dell’uomo, renderebbe superfluo quello al di là di essa e dipendente da un
intervento, che s'inserisce nella lotta dell’uomo, ma non gli appartiene. Da
questo punto di vista, all'opposto di come argomenta l’ateismo pratico, proprio
gli insuccessi del bene e l’incertezza dell’esito definitivo del conflitto,
sempre sospeso tra il bene e il male, fanno evidente la convenienza razionale
di una Giustizia L'ateismo 23 divina trascendente e di una Provvidenza
regolatrice della vita di ogni singolo e dell’ordine universale. L’ateismo
pratico, inoltre, arriva a conclusioni opposte, ora ottimiste, ora pessimiste:
dalla negazione dell’esistenza di Dio e di una giustizia superiore conclude,
come alcune odierne forme di esistenzialismo, che nel mondo vince il male e la
vita è miseria, assurdo, nulla; d’altro lato, dalle stesse negazioni, che,
proprio liberandosi da quelle
superstizioni , l’uomo realizza in terra la giustizia e la felicità
perfette. Questo mito alimentò l’età dell’Illuminismo: abbattere il vecchio
edificio, demolire le illusorie speranze di una esistenza ultraterrena e
ricostruire una società nuova, fiduciosa nelle sue sole forze razionali, che,
immancabilmente, per mezzo dell’onnipotente scienza, conquisterà per ogni uomo
la più perfetta felicità; il mitico cristiano Regno di Dio si attuerà su questa
terra in un futuro immancabile, di cui artefice è e sarà soltanto l’uomo (5).
Il mito illuministico si è ripresentato, con il marxismo, sotto altra forma e
la spinta di nuovi problemi, come mito della futura società omogenea , instauratrice del nuovo
uomo marxista e del nuovo
umanesimo senza Dio. È facile che tale ottimi(5) Il d’HotsacH fa consistere
la felicità nell’ateismo; il BavLE ne fa quasi la glorificazione: vi sono atei
più virtuosi dei cristiani, capaci di macchiarsi dei più turpi vizi; una
società di atei, non solo è concepibile, ma sarebbe superiore ad una cristiana;
anche l’ateismo ha avuto i suoi eroi ed i suoi martiri. L'Ottocento, a sua
volta, crea il mito dell’ateo, modello di onestà, saldezza e coerenza morale,
quasi una prova apologetica della verità dell’ateismo. Essere atei e
onestissimi diventò una specie di srob, una patente, oltre che di alte virtù
civili e ciò fino ad un certo punto è
vero , anche di grande nobile coraggio morale, quello di sfidare il nulla della
morte e di sapersi reggere, torre che non crolla, sulle sole leggi immanenti
della coscienza; e ciò non manca del ridicolo che accompagna ogni bravura,
oltre che di un buon grado di infantile superbia ed ingenuità, quella di chi
crede che, negato Dio, vi possa essere un'assoluta legge morale. Ottimistico
ateismo borghese che il pessimistico ateismo antiborghese
del ’900 ha distrutto con spietata coerenza, anche se è riescito a
mettere al suo posto soltanto il nulla. Ma già nell’antichità Epicuro ritiene
indispensabile alla tranquillità e felicità del saggio il liberarsi dalla
credenza nell’immortalità dell’anima, dalle preoccupazioni dell’oltretomba e di
una Provvidenza divina. Non nega l’esistenza degli dèi; li relega tra gli
intermundi, modelli ideali di quella saggezza a cui l’uomo deve tendere. 24
Filosofia e Metafisica smo, una volta affidato all’uomo il compito di
realizzare quello che non gli compete e di fronte all’impossibilità di tradurre
in atto le sue disumane aspirazioni, ritorni alla posizione
dell’ateismo pratico pessimista. E° il destino di tutte le concezioni edoniste
(9), le quali assolutizzano il relativo
il piacere o l’utile economico,
che, come tale, può essere assoluto solo per un’arbitraria ed
ingiustificata estrapolazione e per un depauperamento al minimo delle finalità
dell’uomo. Com'è noto, l’edonismo della Scuola cirenaica in alcuni suoi seguaci
sbocca in un sostanziale pessimismo; così in Egesia, detto il persuaditor di morte (merarddvatoc). Alla stessa dialettica
ubbidiscono alcune teorie del
piacere e del dolore
del secolo XVIII. L’ateismo teoretico, presupposto da quello pratico, è
un giudizio negativo, diretto o indiretto, sull’esistenza di Dio; dunque
dovrebbe essere la conclusione di un processo razionale da certe premesse.
Possiamo distinguere: a) ateismo dommatico o negazione pura e semplice
dell’esistenza di Dio; b) ateismo scettico-agnostico, provvisorio o definitivo,
il quale nega all’uomo la capacità di concepire Dio e di provarne comunque
l’esistenza: ogni qualvolta ci si pone il problema dell’esistenza di Dio, dice
Bayle, ci si imbatte in mille difficoltà insolubili, come la realtà del male e
del dolore, per cui, quando si crede di averlo risolto, non si è risolto niente
(!); c) ateismo critico o confutazione delle possibili prove razionali
dell’esistenza di Dio la posizione di
Kant nella Critica della Ragione pura
che tuttavia non è negata (ateismo attenuato), anzi la si ammette per
esigenze morali: forma di fideismo, non religioso, ma come atto di fede
razionale; d) concezioni improprie di Dio o dottrine come il deismo, il
panteismo, il materialismo, che, pur non negandone l’esistenza, sono
considerate atee per il modo come Lo concepiscono. Certo, se come sostengono
alcuni non può dirsi ateo chi ammette una realtà assoluta comunque concepita,
non Réponse aux questions d'un
provincial, 1706, t. III, caLXXIV. 26 Filosofia e Metafisica vi è forse
pensatore che lo sia; ma, in tal caso, il concetto di Dio risulta puramente
verbale, cioè mancante di un contenuto proprio e avente quello che ogni
filosofia gli attribuisce. D'altra parte, l’ Assoluto come è concepito da
alcuni filosofi non sempre è veramente tale, nè basta il termine per
qualificare l’idea di Dio. Si può dire che è Dio la Materia o l'Energia cosmica
intese come principio assoluto? l’hegeliano Assoluto che si fa , o un Dio limitato? Inoltre, la
nozione di Dio, come quella che non appartiene solo al pensiero filosofico ma
anche e soprattutto alla coscienza religiosa, deve soddisfare le esigenze della
ragione e della fede. e) Ateismo come negazione dell’altenazione religiosa o
liberazione definitiva dall’idea di Dio e riconquista dei diritti e dei poteri
integrali dell’uomo. 2. L'’ateismo
assoluto o dommatico. L’ateismo assoluto, negazione vera e propria dell’esistenza
di Dio, ha scarsissimo interesse storico e nessun valore teoretico. I filosofi
atei in tal senso sono pochissimi (7), anzi l’ateismo, in questa accezione, è
combattuto... proprio dagli atei, come quello che è una mera credenza: credo
ferma Nella Grecia antica sono considerati atei sotto questo aspetto alcuni
sofisti; Crizia, per esempio (frammento del dramma satiresco Sisyphos, SExT.,
Emir. IX, 54, in Diets, Fragm. der Vorsokratiker, Il, fr. 25, 319 della IV
ediz.) sostiene che gli dèi sono una pura invenzione. Atei, oltre a Teodoro,
Epicuro e Crizia, già ricordati, sono detti per tradizione Diogene di
Apollonia, Diagora di Melo, Evemero, secondo il quale gli dèi non sono che
antichi re o potenti, cioè uomini divinizzati. Nei tempi moderni, più che veri
e propri teorici dell’ateismo, vi sono agnostici e scettici; oppure dommatici
negatori di Dio che non si son mai posto speculativamente il problema; o ancora
sostenitori di dottrine materialistiche che lo sopprimono fin dall’inizio,
muovendo da un ateismo preconcetto. Ai nostri giorni non mancano ritorni alla
forma dommatica di rifiuto radicale dell'idea di Dio, la cui esistenza è
ritenuta impensabile , impossibile : non si criticano le prove, si
passa oltre, come di un problema che non ha senso logico nè interesse. Questo
ateismo si può riportare a quello psicologico di tipo dommatico (per esempio,
di Le Dantec): insensibilità per il problema e inconcepibilità dell'idea di
Dio. Più che di una teoria filosofica si tratta di una situazione psicologica;
perciò di un caso da trattare in altra
sede e non di un problema da discutere filosoficamente. L'ateismo 27 mente che
Dio non esiste . Di fronte ad una simile affermazione dommatica e fideistica
non c’è che da scrollare le spalle fino a quando non venga trasformata
in problema, in un interrogativo su cui portare la discussione. Le si può
contrapporre, senza che l’ateo abbia il diritto di protestare, quella del
teista dommatico: La mia impossibilità di provare che non c’è Dio, mi svela la
sua esistenza (La Bruyère). Per Voltaire questo ateismo è una forma di
dommatismo quasi sempre fatale alla virtù
al pari del fanatismo (*). In questo senso, ha a suo modo un'anima
religiosa, quella propria dell’ateo che vive intensamente il suo problema
religioso, antitesi dell’ indifferente , che appartiene ad altra forma di
ateismo. Bayle fu prima protestante, poi cattolico, di nuovo protestante e
difensore dell’ateismo: il problema religioso lo interessò sempre
profondamente. Come dice il Rensi, che dell’ateismo ha scritto l’apologia,
c'è maggiore affinità di spirito fra un
religioso fervente e un ateo il quale viva appassionatamente la sua negazione o
rassegnata o disperata, che non tra il primo e un credente per consuetudine...
(‘); lo stesso autore si considera ateo per religione : ...solo l’ateismo è
puro e pio, solo l’ateismo è la grande vera religione (*), quella del Nulla, atteggiamento mistico
che si spinge fino alla negazione di Dio. Come tale, a parte quanto vi può
essere di positivo in un’anima sinceramente tormentata, non è una posizione
filosofica da discutere, ma uno stato d’animo irrazionale ed angoscioso, il
quale, più che essere confutato, va
smontato come ogni passione , dimostrando razionalmente vera la
tesi teistica, che è riportare l’ateo allo stato di ragione. Si noti che egli
non dimo(3) Dictionnaire philosophique, Paris, Flammarion, s. a., 45. Rensi,
Apologia dell’ateismo, 98. (5) Ivi, 101. (6) Anche nell’India moderna (prima
metà del sec. XIX) abbiamo un esempio di ateismo assoluto, quello di BakHravar,
autore del Sunisar ( Essenza del vuoto ), dove è esposta la dottrina del vuoto (sinyavada) o del Nulla. 28 Filosofia e
Metafisica stra che Dio non esiste, ha fede soltanto nel suo ateismo A gr: ì
puro, che è una specie di idolatria par choc en retour. Intatti, chi crede nel
proprio ateismo finisce sempre per adorare e temere qualche altra cosa, una
forza della natura o la materia, un ente occulto o un valore umano divinizzato,
lo stesso male (?). Ciò prova indirettamente che nell’uomo il sentimento
religioso può deviare ma non si può estirpare e come, più che sull'esistenza di
Dio, vi sia questione sul modo di pensare tale esistenza e Dio stesso senza
contraddizione, cioè in maniera idonea e non sconveniente. C'è una forma di
ateismo assoluto non nuova, ma oggi di moda a causa della fortuna di un certo
esistenzialismo che offende anche il più elementare buon senso; vi abbiamo
accennato, ma l’aspetto che qui consideriamo si distingue sottilmente
dall’ateismo assurdista del Camus. Il mondo è assurdo; se si potesse provare
che Dio esiste, avrebbe un senso; ma Dio è indimostrabile; dunque il mondo è
assurdo. Ateismo dommatico: muove dal presupposto che il mondo è assurdo e
pretende contraddittoriamente che solo l’esistenza di Dio potrebbe dargli un
senso; senza badare che quel presupposto implica, comporta e presuppone la sua
negazione. Infatti, un mondo assurdo ne esclude l’esistenza, perchè è
contraddittorio ammettere Dio come suo autore, a meno di non concepirLo come
l’Assurdo, che è parlare non di Lui ma di un’altra cosa, cioè avere una concezione
assurda di (7) In questo senso, la superstizione è la vendetta della religione:
gli atei, i più spregiudicati, sono superstiziosissimi. Ritengono Dio una
fantasticheria da donnicciuole, la dommatica un prodotto dell’immaginazione fabulatrice » di menti bambine e immature, ma
credono fino a torcersi le budella dalla paura che il gatto nero che attraversa
la strada fa romper loro l’osso del collo. Nella coscienza primitiva la
religione si manifesta in forme elementari o popolari e perciò anche superstiziose;
nell’ateo, invece, che della religione nega il contenuto, resta la
superstizione pura e semplice: l’ateo è un primitivo addottrinato. Nel primo
caso la religione assume forme elementari adeguate alla coscienza primitiva
(ciascuno crede, in buona fede, come può secondo il suo sviluppo mentale), nel
secondo l’indomabile sentimento religioso, conculcato dall’ateismo, trova il
surrogato nella pura superstizione. In tal modo l’ateo, per la fede cieca nel
suo ateismo, calunnia la grandezza e la dignità dell’uomo, che sono anche le
sue. L’ateismo 29 Dio e, come tale, atea. Inoltre, se il mondo è assurdo, come
si può concepire la stessa possibilità di provare Dio? Anche essa bisogna dirla
assurda; la stessa eventuale prova lo sarebbe. Ma evidentemente chi dice che,
se si potesse provare l’esistenza di Dio, il mondo non sarebbe assurdo, ammette
almeno ipoteticamente che questa ipotesi non è assurda, altrimenti non la
porrebbe neppure; dunque nega, con ciò stesso, che il mondo è assurdo. Ma
tant'è, l’esistenzialista ateo si fa un idolo del suo mondo senza senso, vi si
crogiola dentro, felicemente confortato di tanta disperata infelicità; si perde
nell’idolatria di un feticcio concettuale, l’Assurdo. 3. L’'agnosticismo. Nel pensiero moderno, specie
con il positivismo e attraverso le interpretazioni empiristiche e positiviste
di Kant, l’agnosticismo, parola usata per la prima volta da Huxley nel 1869 e
di cui l’inglese Leslie Stephen nel 1876 pubblicò l’apologia (An Agnostic’
Apology) (*) è una delle forme più diffuse di ateismo. Huxley coniò il termine
in opposizione a gnosi: non saper
nulla intorno ad un argomento e trovarsi
di fronte ad un problema insolubile. Più esplicitamente lo Stephen: la
conoscenza umana ha dei limiti e quando si occupa di argomenti che sono al di
là di essi costruisce un sapere fantastico; la teologia è al di là dei limiti
dell’umana conoscenza; dunque è un tessuto di chimere. Ma è necessario
precisare quali sono questi limiti per
un positivista sono diversi da quelli segnati da un idealista e i limiti di
entrambi differenti da quelli di uno scettico ; se la negazione o
l’affermazione dell’esistenza di Dio cade dentro o al di fuori di essi; che
cosa s'intende con la parola teologia ,
dato che ve n’è una naturale o razionale e un’altra rivelata o dommatica. Lo
Stephen non sembra (8) Ma l’agnosticismo è antico; notissimo un frammento di
Protagora: quanto agli dèi, ignoro se
sono o se non sono e quale aspetto abbiano
(Dros., IX, 51). 30 Filosofia e Metafisica fare queste distinzioni e
perciò confonde ordine religioso ed ordine filosofico. Nessun filosofo teista
ha contestato i limiti della conoscenza umana in materia di teologia e quasi
tutti concordano nell’affermare che l’uomo non ha cognizione diretta della
essenza di Dio; ma il problema che qui si discute non è quello dell’essenza,
bensì l’altro della Sua esistenza che non è solo di fede ma anche di ragione.
L’agnostico esclude che tale problema sia razionalmente solubile perchè muove
da un suo modo di concepire i limiti della conoscenza; dunque la sua
conclusione agnostica è un idolum theatri inerente al suo sistema: il problema
dell’esistenza di Dio non è insolubile in se stesso e in qualunque caso, ma lo
è solo rispetto alla sua teoria della conoscenza, cioè è una questione interna
della sua filosofia. Perciò è arbitrario dalla proposizione, la conoscenza umana ha dei limiti , dedurre
la conseguenza, dunque non sappiamo se
Dio esiste , in quanto: 1) si limita la conoscenza umana al di qua dei suoi
stessi limiti, cioè alla pura esperienza dei fatti o dei fenomeni sensibili; 2)
si fa dell’esistenza di Dio un problema di pura fede; 3) si nega la possibilità
di una conoscenza diversa da quella dei fatti e perciò di un sapere poetico,
morale, ecc.; della metafisica in quanto tale e, con ciò stesso, di un sapere
filosofico. L’agnosticismo in questo senso è la negazione della stessa
filosofia che, depauperata e depotenziata, è ridotta alla pura conoscenza
scientifica o dei fatti fisici, o alla pura conoscenza storica o dei fatti
umani. Quantunque l’agnosticismo non sia ateismo (Locke, Hamilton, Mansel,
ecc., fondatori di quello moderno, non si possono dire atei), molti che si
dicono agnostici lo sono, come Hume, d’Holbach e altri; d’altra parte, è facile
da esso passare all’ateismo per affinità tra le due attitudini.
L'affermazione, al di là dei dati della
nostra esperienza non sappiamo nulla , può trasformarsi facilmente, anche se
L’ateismo 3 si dice cosa molta diversa, nell’altra; al di là dei fatti della nostra esperienza
ron esiste nulla ("). In tal caso
l’agnosticismo diventa ateismo dommatico e contraddice se stesso, in quanto,
negando Dio, oltrepassa quei limiti che segna alla conoscenza umana e si spinge
ad un’affermazione ripugnante alla sua natura. L’agnostico, dalla pretesa impossibilità
di dimostrare l’esistenza di Dio, non può concludere, senza contraddirsi, alla
sua negazione esplicita ('°). D'altra parte, egli non può, proprio perchè
agnostico, controbattere le critiche di quanti pretendono dimostrare la
contraddittorietà dell’esistenza di Dio in se stessa e ?n rapporto con la
concezione che se ne ha; per esempio, non può opporre nulla a chi sostiene
(Strauss) che se Dio è infinito non può essere personale, perchè infinità e
personalità si contraddicono; a chi afferma (Stuart Mill) che se fosse
onnipotente e buono non dovrebbe esistere il male; a chi dice (Vacherot) che i
due concetti di infinità e perfezione escludono l’esistenza, la quale non si
addice a Dio, che è solo (9) E. Navitce, Philosophies négatives, Paris, 1900,
85. (10) Di ciò, in verità, l’agnosticismo ha piena coscienza: quello che hanno
scritto coloro che credono di aver dimostrato l'esistenza di Dio, scrive HuxLFy
(Essay, London, 1898, t. I, 245) sarebbe il peggio, se non fosse sorpassato
dalle assurdità ancora più grandi dei filosofi che cercano di provafe che Dio
non esiste . La filosofia positiva niente nega © niente afferma, perchè negare
o affermare è oltrepassare il dato; perciò essa respinge l’ateismo, in quanto
l’ateo n'est point un esprit
véritablement émancipé; c'est encore, à sa manière, un théologien; il a son
explication sur l’essence des choses...
(E. Littré, Paroles de philosophie positive, p31-32). L’agnosticismo ha
la sua formulazione chiara e rigida nell’inglese H. L., per il quale Dio non è
assolutamente concepibile come assoluto e infinito, in quanto l’ Assoluto non
può essere concepito né come cosciente, né come incosciente, né come complesso
né come semplice; non può essere definito né per mezzo di differenze, né per
mezzo della loro assenza; non può essere identificato con l’universo, né può
essere distinto (The Limits of rel.
Thougt, 30). Ma tutto ciò riguarda l’essenza e non l’esistenza di Dio; infatti,
il Mansel aggiunge, per influenza del Reid e del Kant, che la costituzione
stessa del nostro spirito ci costringe a credere nell'esistenza dell’ Essere
assoluto e che tale credenza, oltre che sulla nostra natura, si fonda sulla
rivelazione. Il Mansel dall’inconoscibilità dell'essenza ricava quella dell'esistenza,
confondendo due problemi diversi; il suo agnosticismo, spinto a questo punto, è
scetticismo della ragione e fideismo puro; in definitiva, ateismo. 32 Filosofia
e Metafisica un’Idea ("!); tesi quest’ultima sviluppata e approfondita ai
nostri giorni dal Carabellese, che identifica Dio con l’Oggetto puro della
coscienza e taccia di ateismo coloro che lo considerano esistente. Di fronte a
questi sofismi o ad usi errati del termine esistenza attribuito a Dio
l’agnostico è disarmato ed il suo agnosticismo a mal partito. Se egli, pur razionalmente
agnostico, ha fede nell’esistenza di Dio viene a trovarsi nell’insostenibile
condizione di credere nell’Essere di cui non può dimostrare che l’esistenza non
implica contraddizione: come fa a credere ancora stando in questo dubbio, quasi
contro la ragione, o almeno senza che questa porti il più piccolo aiuto alla
sua fede? Se non crede, il problema dell’esistenza di Dio e Dio stesso gli
diventano indifferenti e tacitamente opera dentro di sè il salto dogmatico dal non so nulla
al non esiste nulla al di là dei dati dell’esperienza,
spingendosi a un tacito ateismo teoretico e a un manifesto ateismo pratico.
Sono possibili anche un agnosticismo teoretico (non so se Dio esiste) e un
ateismo pratico (mi comporto come se non esistesse); o un (11) Il perfetto non
esiste ; questa la tesi del VacHEROT nell’opera La métaphysique et la science
(Paris, 1858), dove non si trova più il monismo evolutivo di derivazione
hegeliana sostenuto nell’Histoire critique de l'École d’ Alexandrie del 46:
l'evoluzione di Dio nel mondo è progrès.
continu de l’étre infime dà l'étre par excellence, de la matière è l’esprit
pur, à l’intelligence (t. III, 328). Ne La métaphysique et la
science egli mette la teologia di fronte a un aut-aut perentorio: 0 un Dieu parfait , 0 un Dieu réel. Le Dieu parfait n’est qu’un idéal; mais c'est
encore, comme tel, le plus digne objet de la théologie: car, qui dit idéal, dit
la plus haute et la plus pure vérité. Quant à Dieu réel, il vit, il se
développe dans l’immensité de l'espace et dans l’éternité du temps; il nous
apparaît sous la variété infinie des formes qui le manifestent: c'est le
Cosmos (t. II, 544). Successivamente (Nouveau spiritualisme, Paris,
1884) ammette un solo Dio reale, Essere universale e necessario, Causa prima e
Fine ultimo del mondo, ma appunto perchè reale, non perfetto, in quanto
perfezione e realtà implicano contraddizione: l’idea dell’Essere perfetto è
solo un'idea, la più alta della mente umana. Ma il Vacherot non è mai riescito
a dimostrare la contraddittorietà tra perfezione ed esistenza, mentre è facile
provare che proprio questa presunta contraddittorietà contraddice alla ragione.
Infatti, egli cerca di dimostrare la sua tesi fondandosi sul fatto di
esperienza che tutta la realtà conosciuta è imperfetta; ma come potrebbe essere
diversamente quando identifica toute
réalité o tutto ciò che esiste con
il phénomène qui passe ? Dà una
definizione empirica dell’esistenza in ogni ac<ezione e poi trova che è
incompatibile con la perfezione di Dio! L'ateismo 33 agnosticismo teoretico e,
diciamo così, un teismo pratico: non so se Dio esiste, ma vivo come se
esistesse. Quest'ultimo è il caso di chi ha fede nell’esistenza di Dio e agisce
in conseguenza; o anche di chi non ha fede in alcun Dio, ma in alcuni valori
morali, a cui uniforma la sua condotta, affermati oggettivamente validi
(rigorismo morale dogmatico e ateo), o rigorosamente rispettati pur nel
convincimento che la loro validità oggettiva è indimostrabile (scetticismo con
rigorosa eticità laica) (12). Vi è un agnosticismo (Hamilton, Mansel) che, non
solo crede nell’esistenza di Dio, ma accetta anche la Rivelazione, alla quale
però dà soltanto un valore prammatistico o regolativo, come alcuni modernisti,
per esempio il Le Roy. L’agnostico non sa niente di Dio e nulla può dire di
Lui; d’altra parte legge che Dio
vuole che si creda che è Padre
onnipotente, Provvidenza onnisciente ecc., e crede tutto ciò. Evidente
contraddizione: l’agnostico dice di non sapere niente di Dio e nello stesso
tempo ammette che è volontà , cioè
persona; quando afferma Dio vuole che... non è più agnostico tranne che non
ammetta anche questo per pura fede. Ma perchè crede a queste proposizioni e non
ad altre che magari affermano l’opposto? Se niente la ragione può dire di Dio,
il contenuto di qualsiasi formula teologica gli dovrebbe essere indifferente;
se invece crede in una proposizione piuttosto che in un’altra, significa che
una delle due la trova più conveniente; ma così oltrepassa l’agnosticismo, in
quanto ammette un fondamento razionale della fede. Più coerente Kant (La
religione dentro i limiti della sola ragione) che non accetta la rivelazione e
dà delle sue formule un’interpretazione puramente morale. L’agnostico, che
afferma di non sapere niente di Dio se
esiste, o se non esiste e nello stesso
tempo Gli crede per fede, riduce la fede stessa ad un puro stato d’animo e (12)
Aporro Levi, Sceptica, Firenze, La Nuova Italia, 2* ediz., 1959. 34 Filosofia e
Metafisica la religione ad un sentimento soggettivo di vaga religiosità. Ma non
c’è fede senza un contenuto oggettivo; la mera religiosità può riempirsi
indifferentemente di qualsiasi contenuto, di Giove o di Cristo. L’agnostico, se
non vuol contraddirsi, deve mettere tutte le religioni sullo stesso piano:
negata ogni convenienza razionale in base alla quale credere ad una piuttosto
che a un’altra, non gli resta che il fatto soggettivo del credere. D'altra
parte, non può tener ferma neanche questa posizione ed è costretto a
contraddirsi. Infatti, implicitamente e contraddittoriamente ammette di sapere
chi è colui della cui esistenza non sa, cioè ha, comunque, un'idea di Dio; ma
se ne ha l’idea, sia pure negativamente, sa qualcosa di Lui in contraddizione
con il suo agnosticismo. Anzi, stranamente, non è più agnostico circa il
problema del che cosa è Dio (quid sit) e continua ad esserlo circa
l’altro del se è (an sit). In altri termini, è costretto a ragionare così: Se potessi dimostrare che Dio esiste, saprei.
razionalmente che esiste l’Essere perfettissimo, ecc. , cioè ad ammettere che
ha l’idea di Dio e, nello stesso tempo, a dire che non sa niente di Lui e della
sua esistenza! Il solo pensarLo è già non essere agnostici; una volta pensato
(l’agnostico teista lo pensa come l’Essere perfettissimo; cristiano, nei
termini della Rivelazione), la questione non è se sia impossibile o
contraddittorio ammettere l’esistenza di Dio, ma se sia contraddittorio
pensarLo senza ammetterLo esistente, cioè se il fatto che Lo si pensa non sia
già prova della sua esistenza per necessità razionale. A questo punto e prima
di proseguire è opportuno precisare le tesi fondamentali dell’agnosticismo: 1)
impossibile provare l’esistenza o la non-esistenza di Dio, in quanto la
conoscenza umana è limitata ai fenomeni di esperienza; 2) a fortiori nulla si
può dire intorno alla Sua natura intrinseca; 3) dunque i problemi
dell’esistenza e natura di Dio, dato che Egli non è un fatto fisico nè un
personaggio stoL'ateismo 35 rico, non sono oggetto della scienza e della
storia, che si occupano solo di questi fatti e delle loro leggi; 4) Dio non ha
un posto nel sapere umano in generale ed è oggetto della pura fede, il cui
contenuto ha solo una validità pratica o regolativa. Ma escludere Dio dalla
scienza e dalla storia, da ogni attività umana, significa pretendere che l’uomo
possa attuare se stesso, il suo sapere e la sua vita morale, facendo a meno di
Lui, anzi senza mai pensarci e sentire il bisogno di ricorrere a questa ipotesi
, sicuro di realizzare il suo ordine fino al compimento perfetto. Ma così
l’agnosticismo contraddice se stesso e precisamente la sua tesi fondamentale
che la nostra conoscenza in ogni forma e grado ha dei limiti. Una delle due: o
ha questi limiti e perciò stesso, insufficiente ad appagare l’uomo e le
esigenze intrinseche al suo ordine, rimanda ad una Intelligenza assoluta della
quale non può fare a meno; o non li ha ed è autosufficiente, tanto da
estraneare Dio dalla scienza e dalla condotta umana, e resta contraddetta la
posizione dell’agnosticismo. Pertanto, muovendo dalla tesi agnostica, si può
arrivare alla conclusione opposta: proprio perchè la conoscenza umana ha dei
limiti, pone il problema della Verità assoluta, di Dio. Infatti, se fosse
perfetta, Dio sarebbe superfluo; nè quei limiti impediscono di provare la Sua
esistenza, in quanto non sono affatto segnati dall’esperienza sensoriale come
l’agnosticismo pretende. D’altra parte, se per Dio non c’è posto nell’umano
conoscere e fare, l’agnosticismo è ateismo in partenza, in quanto il tentativo
di costruire una scienza senza Dio Lo esclude fin dall’inizio: ateismo
dommatico anche se mascherato. Più coerenti coloro che, come il Croce e il
Brunschvicg, escluso Dio dalla natura e dalla storia, concludono che il suo è
un pseudo-problema e la religione frutto dell’ immaginazione , anche se il loro
ateismo iniziale è solo presupposto e non dimostrato. 3% Filosofia e Metafisica
In fondo, l’agnostico esclude Dio perchè il principio su cui fonda il sapere
non gli consente di ammetterLo se non come qualcosa di estraneo ad esso, come
l’Ente che è solo oggetto di fede e di cui è possibile avere soltanto una
qualche rappresentazione simbolica. Ma c’è conoscenza solo dei fenomeni e delle
loro leggi? Può identificarsi con essa tutto il sapere, anche quello
filosofico? La fisica o altra scienza naturale hanno come oggetto i fenomeni e
le loro leggi, ma ciò non significa che ogni altra forma di conoscenza morale, artistica, filosofica debba ridursi a questo modello, secondo
l’affermazione arbitraria del positivismo e dello scientismo. L’agnosticismo
metafisico e religioso è una conseguenza del metodo e del sistema scientista:
la scienza positiva, che ha come suoi oggetti i fenomeni naturali e le loro
leggi, è l’unica conoscenza di cui l’uomo è capace; Dio non è qualcosa di cui
si possa avere esperienza positiva; dunque niente si può dire di Lui, nè che è
nè che non è, nè che cosa è. Ma è arbitrario ridurre ogni forma di sapere alla
conoscenza dei fenomeni di esperienza sensoriale, almeno fino a quando non si
sarà dimostrata la verità del sistema. Ancora una volta ci troviamo di fronte
ad un idolum theatri: il sistema non consente che si ponga il problema di Dio,
dunque non si può porre. Sì, in quel sistema e relativamente ad esso; no, in un
altro che riconosce i diritti e l’autonomia della ricerca filosofica e si
rifiuta di identificare l’essere con i fenomeni di esperienza sensoriale.
L’agnostico, in questo caso positivista
nel duplice senso di positivismo scientista o dei fatti fisici e di
positivismo storicista o dei fatti umani
non riconosce i limiti del sistema; vittima del suo amor per esso, che
non gli consente di dimostrare o negare l’esistenza di Dio ed averne una
qualsiasi concezione non puramente simbolica o immaginaria, conclude che la sua
esistenza è indimostrabile e Dio l’assolutamente inconoscibile. Ma chi ha
dimostrato l’assoluta verità del sistema? Ammettiamo che qual-. L’ateismo 37
cuno l’abbia fatto; bene: in tal caso, non c’è più agnosticismo! Nonostante le
sue proteste, l’agnosticismo positivista
senza o con il neo è ateismo vero e proprio, almeno in pratica.
Dall’ ignorare se Dio esiste ricava la
norma: agisci come se non esistesse .
Dio è inconoscibile e inverificabile
scientificamente ; alla sua idea non corrisponde alcuna realtà
oggettiva; nei rapporti con l’ambiente naturale e sociale non ha alcuna
importanza porsene il problema, perchè il suo accantonamento non arreca impedimento alcuno all’
organizzazione della nostra vita nel
mondo anzi la facilita per la quale valgono solo strumenti
e tecniche , non interessa neppure se vere (altro problema questo della
verità da mettere da parte), purchè più valide rispetto ad altre, più
efficacemente operative e idonee ad una vita sempre più tecnicamente
organizzata, socialmente progredita e comoda; dunque organizza e regola la tua
vita intellettuale e morale, privata e pubblica, come se Dio non esistesse,
senza pensarvi. In breve: ometti l’idea di Dio . Per Comte, l’idea di Umanità
col tempo eliminerà
irrevocabilmente quella di Dio:
per altri tale eliminazione sarà operata dalla Scienza e dal Progresso, dalla
futura società comunista ecc.; naturalmente, sempre e in ogni caso,
con gran vantaggio degli uomini, che conseguiranno la vera felicità sulla
terra. Ma quello teologico non è problema di felicità terrena; Dio non è
chiamato a soddisfare bisogni materiali, ma ad appagare profonde esigenze
spirituali; il suo problema si pone al di là di ogni possibile soddisfazione di
tutti i possibili bisogni terreni. Per accantonarne il pensiero o soffocarlo si
è costretti a sostenere che non ha importanza sapere se vi è una verità che dà
senso alla vita dell’uomo e merita di essere servita, ma che interessa
conoscere soltanto strumenti che hanno efficacia pratica per problemi solo
mondani, economici, sociali, politici, ecc.; che la logica vale nella 38 Filosofia
e Metafisica misura in cui è una tecnica, tante
tecniche capaci di organizzare
fenomeni psicologici, sociali, giuridici, senza preoccuparsi se vi è un’anima
personale, una verità comune accomunante, un diritto perenne, ecc. D'altra
parte, si afferma che tutto ciò non cambia niente, è un’acquisizione della
nostra maturità intellettuale, è semplicemente trascrivere in termini antropologici
e scientifici i miti di Dio e di una beatitudine celeste.
Dunque, da un lato, più che abolire l’idea di Dio, la si sostituisce con altri
valori e, dall’altro, questi ultimi sono intesi in modo da soddisfare la umana
esigenza religiosa. Ma con ciò si riconosce l’insopprimibilità di quest’ultima
e si creano idoli e miti, si fa della pseudo-teologia. Così questo agnosticismo,
intransigente verso Dio e apostolo di un totale ateismo pratico, si presenta
come idolatria e mitologia dell'Umanità, della Scienza, del Progresso,
della Società sempre migliore con questa o quella democrazia ; alla teologia sostituisce un
deteriore teologismo laicista. A questo punto non è più serio discuterlo.
Persino Bayle, il formulatore del
paradoxe , così lo chiama Voltaire ('*), che può esistere una società di
atei, crede con Plutarco che è meglio non avere alcuna opinione di Dio che averne
una cattiva ed errata (!*); infatti, non c’è peggiore religione
di quella che divinizza valori mondani per fini terreni, in quanto si
risolve sempre in una diabolica e rovinosa divinizzazione dell’umano o
dell’infraumano e scatena il fanatismo. 4.
Il fideismo come forma di agnosticismo. Non vi sono prove razionali od
oggettive dell’esistenza di Dio, ma Gli si crede solo per fede; questo il
fideismo, forma di agnosticismo non laico ma religioso. Tipico del (13) VoLtAIRE, ocit.,
39. (14) Barie, Pensées diverses écrites è un docteur de la Sorbonne è
l’occasion de la cométe qui part au mois de décembre 1670, Rotterdam, 1721, $
118 della. Continuation. L'ateismo
39 protestantesimo, è anch’esso molto diffuso, conseguenza di più di un secolo
di agnosticismo filosofico e del convincimento che non è possibile una
metafisica come scienza razionale. Il fideista crede nel Dio di cui la ragione
non può dimostrare l’esistenza, del quale, anzi, può essere anche la negazione;
in quest’ultimo caso continua a credere contro, nonostante la ragione dica il
contrario! Fideismo disperato, fede a qualunque costo: credo nell’esistenza di
Dio, malgrado la ragione sia atea; irrazionale ed assurdo come quello di molte
pagine di Unamuno e di Chestov: pascalianesimo barocco e antipascaliano,
razionalmente infondato almeno quanto l’ateismo dove rischia di sboccare,
perchè è molto difficile conservare la fede senza o contro la ragione e, se la
si perde, dato che la credenza di Dio poggia solo su di essa, non soltanto si
cessa di essere cristiani, ma si diventa senz'altro atei. Il fideista confonde
due questioni che vanno tenute ben distinte: le ragioni o le prove razionali
dell’esistenza di Dio e la fede propriamente detta, cioè l’adesione
intellettuale e libera al contenuto della Rivelazione. Egli riduce tutto alla
fede e nega a tal punto la capacità della ragione (quando addirittura non
gliela contrappone quale nemica, come per esempio il Chestov) da non poter dare
alla prima alcun fondamento razionale; in questo senso è un ateo credente
contro tutto e se stesso. Ridurre tutto alla fede è contrario alla sua stessa
essenza, come non è razionale ridurre tutto alla ragione: fideismo assoluto e
assoluto razionalismo sono antitetici, ma hanno in comune la ragione atea, che
è contraddittoria. Religione e filosofia devono temere ugualmente
l’assolutizzazione della ragione e la sua totale svalutazione, l’una e l’altra
negazione della natura dell’uomo e dei suoi poteri conoscitivi: l’ordine della
fede è assicurato solo se l’ordine della
ragione è conservato (9). Il fideismo si
dibatte in (15) L. OLLé LarrunE, Ce qu'on va chercher è Rome, Paris 1895, 30.
40 Filosofia e Metafisica una contraddizione teoretica, e anche vitale: è
ateismo teoretico e teismo pratico; come dire, l’uomo diviso in due. Vi è
ancora un fideismo non propriamente di carattere religioso (non fa
dell’esistenza di Dio un atto di fede), non laico, nè riducibile senz’altro
all’agnosticismo. Esso si fonda su una specie di senso interiore di Dio, tanto
forte, universale e naturale da costituire una prova della sua esistenza,
superiore, secondo i suoi sostenitori, a quelle razionali, che sono pressochè
superflue esercitazioni logiche; per questo
senso l’uomo è chiamato
irresistibilmente a Dio. Io sento che
Dio c’è, e non sento affatto che non c’è. Tanto mi basta; ogni ragionamento è
superfluo. Concludo che Dio esiste. Questa conclusione è inscritta nella mia
natura (!9). Così lo formula il La
Bruyère, secondo il quale Dio è una presenza, un’evidenza: ...l’esistenza di Dio l’ho approfondita; non
posso essere ateo, e perciò sono ricondotto e trascinato nella mia religione,
irrecusabilmente (!?). Tesi
d’ispirazione agostiniano-pascaliana, ma non di Agostino e neppure di Pascal,
in quanto nel primo vi è questo e molto di più, come di più, anche se meno di
quanto è in Agostino, è in Pascal. Certo, questo senso interiore di Dio è
estremamente indicativo e attesta una disposizione ontologica, e non puramente
psicologica, dell’uomo verso l’Essere supremo; ma da solo non è dimostrativo, nè
rende superflua la prova razionale, anzi la esige proprio per la sua forza. In
altri termini, non basta il senso interiore di Dio per provarne oggettivamente
l’esistenza, in quanto da solo resta un dato soggettivo; è necessario
approfondire la natura dell’uomo per vedere se esso s’inscrive in un elemento
oggettivo anch'esso interiore, fondamento, radice e origine di quel sentimento.
In tal caso, l’esistenza di Dio è provata oggettivamente, non dal senso di Dio
stesso, ma da quell’ele(16) Moralisti francesi, Milano, 1943, 67. Questa forma
di fideismo ha avuto le sue espressioni più significative nel pensiero
filosofico-religioso francese. (17) Ivi, 69. L’ateismo 4} mento oggettivo che
lo spiega e giustifica, il quale, a sua volta, non è un puro dato nozionale, ma
un’Idea, direi, vitalizzata, vissuta nell’interiorità di quel senso interiore,
da essa illuminato. Perciò, han torto il razionalismo, che, per una esagerata
nociva ingiustificata esigenza di salvare la forza della ragione, prescinde
dall’interiormente vissuto, e l’interiorismo che, forte del senso interno, vuol
fare a meno della forza del ragionamento. Invece, è autenticamente agostiniana,
perfettamente rispondente a quella del Rosmini e, dentro certi limiti e con
alcune riserve, all’altra di Pascal, la posizione che esistenzia l’Idea nella
concretezza della vita spirituale e illumina questa nella luce dell’Idea. Ma,
anche presa da sola, la tesi dell’esistenza di Dio come evidenza dal senso
interiore non può dirsi atea, tranne che non degeneri nell’ontologismo o nel
panteismo. Invece, pur non potendo essere ridotta all’agnosticismo laico 0 ateo
per certe sfumature a cui non vogliamo rinunziare, è più pericolosa l’altra
tesi, propria di Kant, che ammette l’esistenza di Dio, razionalmente
indimostrabile, per pure esigenze della volontà: la ragione teoretica è
agnostica;. tuttavia, per esigenze morali, bisogna agire come se Dio esistesse;
la ragione pratica crede per fede razionale. In altri termini: l’esistenza di
Dio è un atto soggettivo» della volontà rispondente alle sue esigenze profonde,
ma non è una verità oggettivamente »
valida. Questa posizione kantiana, ancora largamente diffusa, è stata estesa
anche ai valori morali; ma così l’agnosticismo, oltre che la metafisica, mette
in pericolo anche i valori spirituali (19). 5.
Il deismo. Un deista è un uomo
che non ha avuto ancora il tempodi diventare ateo ». Così il De Bonald, e fino
ad un certo (18) Per una più ampia ed approfondita discussione della posizione
kantiana, come di altre in queste pagine appena accennate, cfr. la Parte Terza,
Sezione II di quest'opera. 42 Filosofia e Metafisica punto ha ragione, perchè
il deista, in fondo, è un ateo che non vuol dirsi tale. D'origine italiana, il
deismo, dopo essere passato in Francia, si trapiantò in Inghilterra, dove trovò
il clima che gli si addiceva (!9), per poi essere accolto di nuovo in suolo
trancese e celebrare il suo trionfo nel secolo XVIII. Si può chiamare deista,
attraverso le forme molteplici che il deismo presenta nella storia del pensiero,
la dottrina che nega ogni religione positiva e rivelata e fa di Dio un puro
ente di ragione, quasi sempre identificato con l’Ordine della natura o con la
Natura stessa (in questo caso non si distingue dal panteismo), con il Principio
o la Causa che regge e governa il mondo. In tal senso, si possono dire deisti
nell’antichità Aristotele e Plotino, nei tempi moderni Spinoza, ai nostri
giorni il Martinetti, oltre a quelli veri e propri come E. Herbert di Chirbury,
Toland, Voltaire, Rousseau, lo stesso Kant, ecc. Nel secolo che fu il suo, il
deismo è la manifestazione più significativa, anche se non la più audace, dello
spirito antireligioso e dell’esaltazione della libera e onnipotente ragione;
infatti, polemizza contro ogni religione positiva (cattolica, protestante,
ebraica), contro ogni forma di culto, il dogma e il soprannaturale. E’ chiamato
anche religione naturale », ma in più sensi: in quanto 2) ammette solo quelle
verità che si possono attingere e dimostrare con la sola ragione (esistenza di
Dio, immortalità dell'anima, ecc.); 5) ha il culto della natura, madre benigna,
dove tutto è bene ed accade secondo la legge del bene che viene ad
identificarsi con Dio; c) è una religione spontanea, istintiva, senza
costrizioni e comandamenti. Religione, in un certo senso, facile, a cui la
ragione aderisce senza sforzo, senza un superiore atto di fede, culti speciali,
mortificazioni e digiuni, anzi compiaciuta di vedervi confermata la (19)
Hazarp, La crisi della coscienza europea, Torino. propria onnipotenza; rassicurante,
in quanto fa che Dio, pur così vicino alla natura, intervenga il meno possibile
nel corso delle cose naturali e umane; serenatrice delle coscienze, liberatrice
dall’ inquietudine del peccato, dall’ attesa della grazia, dall’incertezza
della salvezza, da un giudizio divino. In breve, la religione deistica è la
negazione del Cristianesimo: di Dio Padre, della caduta dell’uomo,
dell’Incarnazione, del riscatto. Religione di un Dio lontano, che interviene
raramente, fa comodo alla ragione, a cui serve per meglio assicurare la libertà
e la potenza senza esserle mai d’impaccio o di limite. Il deismo è la negazione
del Dio della fede: attenua Dio, ma non lo nega», come osserva il Bayle; la differenza tra gli atei e deisti è quasi
nulla » (?9). Esso s'inserisce in quel processo di autonomia dalla religione di
ogni forma di attività umana, caratteristico dei secoli XVII e XVIII, allo
scopo di liberare l’uomo dalla soggezione della Verità rivelata e della Chiesa.
La scienza con Galilei e Newton, la politica con Machiavelli, il diritto con il
giusnaturalismo, la filosofia e la morale con il razionalismo, l’empirismo e
Kant, si costituiscono separate dalla religione, tenuta lontana da ogni forma
di attività umana, che si pone autonoma, opera soltanto dell’uomo. Così si
viene a negare la religione, meglio se ne costruisce una ...senza religione,
soltanto umana, razionale, naturale, che non menoma l’autonomia dell’uomo, anzi
la conferma e completa: liberare la religione dalla religione, che comporta o
la sua negazione, o la sua affermazione... contraddittoria (7). (20) Hazarp,
ocit., p274; 275. (21) Molti elementi, di cui è necessario tener conto,
concorsero al nascere e al fiorire del deismo, a definirne il contenuto: ) la
già detta tendenza di emancipare l’uomo da ogni religione positiva e dalla
Chiesa; 4) la reazione al giansenismo che assoggettava, fino a negarla, la
volontà umana, colpita dal peccato e decaduta, alla grazia soprannaturale,
imponeva un rigorismo esagerato e la rinunzia al mondo, una concezione cupa della
vita: c) il desiderio di far cessare le lotte religiose, che avevano
insanguinato l’Europa, eliminando quanto (il loro contenuto religioso) poteva
dividere ed armare l'una contro l’altra le varie confessioni, donde il farsi
strada del nuovo concetto di tolleranza
e la polemica contro il fanatismo (il
VoLtarrE, ocit., 45, lo considera più funesto dell’ateismo); d) motivi
politici, cioè, lo sforzo del potere laico di ridurre al mi44 Filosofia e
Metafisica Da un punto di vista teoretico il deismo si rifà alla concezione che
della Natura e della Legge universale ebbero la scienza e la filosofia dei
secoli XVII e XVIII: Dio Causa, Dio-Legge dell’ Universo, che governa e regge,
DioOrdine della Natura sostituiscono il Dio cristiano rivelato, Padre, Creatore,
Amore. La natura sostituisce anche Cristo; è la
mediatrice che, con la sua bontà, le sue provvidenze e il suo ordine
perfetto, rivela Dio agli uomini; ma siccome Dio è la Natura eterna, questa si
autorivela attraverso l’uomo, quello del razionalismo moderno e
dell’Illuminismo, scienziato-filosofo, che di essa scopre le leggi, l’ordine e
le provvidenze, rapisce i segreti affinchè l’umanità sia felice in un regno di
felicità, tutto costruito esclusivamente dagli uomini. Così il deismo si
trasforma in panteismo cosmico (divinizzazione della Natura), che, in ultima
analisi, è divinizzazione dell’uomo, rivelatore dell’ordine e delle leggi che
governano la Natura stessa, della quale, d’altra parte, conoscendola,
s’impossessa per farla servire al suo fine supremo: la costruzione del Regnum
hominis, luogo dell’unica sua felicità perfetta. Una religione senza misteri
per un'esistenza senza enigmi: questo il deismo. Una religione, dunque, che non
è nimo l’ingerenza della Chiesa, limitatrice dell'autorità assoluta del
Principe. Non è, del resto, questa la prima volta nè l’ultima che l’attività
politica della Chiesa. come stato è motivo concorrente di scismi, eresie ed
anche di ateismo. Vanno aggiunti anche elementi occasionali come i viaggi, che,
facendo conoscere nuovi costumi e tradizioni, mettono in dubbio l’universalità
di alcune credenze e generano scetticismo: tutto è relativo ai luoghi, ai
tempi, ai climi. Si immaginano terre fantastiche per dimostrare che il
Cristianesimo è assurdo; si esaltano: repubbliche senza preti e chiese; si
tenta persino di provare con il calcolo che la resurrezione della carne è
impossibile, ecc. Così si dubita di tutto, meno di quel che si vede e si può
sperimentare; l’empirismo del Locke è il sistema adatto. alla bisogna (cfr. Hazarp,
ocit., p1} e sgg.; 21 e sgg.). Gli empiristi e i materialisti francesi, non
solo rigettano il teismo cristiano, ma anche la religione naturale del deismo
inglese: i sensi bastano all’umano. sapere; non è conoscibile nè importa
conoscere tutto ciò che oltrepassa i dati dell'esperienza sensoriale ( affinchè
io creda nell’esistenza di Dio, lasciatemi toccarlo!dice Diderot); l'elemento
primario del reale è la materia e la coscienza uno. secondario da essa
derivato; materia e senso; dunque, solo la scienza ci può. far conoscere la
natura e i suoi fenomeni. L'ateismo 45 tale, ma è filosofia atea al servizio di
una vita facile, arbitra di sè, desiderosa di non indagarsi a fondo, di non
porsi problemi tormentosi e metafisici, di non avere eccessive preoccupazioni
religiose, di essere felice in questo mondo. Il deismo, in fondo, è più ateo
dell’ateismo dichiarato: lo ateo nega Dio, ma ne ha fame, il deista Lo ammette
per identificarLo con l’ordine della natura e in definitiva con il sapere
umano; l’ateo Lo nega e vede ovunque oscurità, mistero, dolore e male
inspiegabili, il deista per ogni dove vede chiarezza ed evidenza razionali,
felicità e bene; l’ateo è infelice e, nonostante tutto, religioso, il deista è
un contento diabolico, che si crede in possesso di Dio e della sapienza divina:
quel che può sembrare un mistero, per lui, è soltanto una difficoltà
provvisoria, che il progresso irresistibile della scienza supererà. Deisti ante
litteram furono i libertini », sempre
pronti ad assimilare posizioni filosofiche anticristiane, e a divulgarle:
spiriti superficiali, ribelli, epicurei, fatti per diluire le filosofie, per
gettarsi a capofitto nelle novità, tranquillamente scettici e calcolatamente
edonisti, privi di senso metafisico, pronti a non prendere in considerazione i
problemi difficili, ostici per la loro cultura da raffinati. Diventati deisti,
si chiamano per eccellenza gli esprits forts (?), ma non cessano di essere
superficiali, anche se alimentati ed incoraggiati dall’ ateismo », di ben altra
tempra, dello Spinoza (*). Il Settecento deista e razionale è ingenuamente convinto che
ilpassato sia un cumulo di assurdità e compito del nuovo secolo dei lumi quello
di scoprirne gli errori »; (22) Bavyce
Pensées sur la Cométe, cit., par. CXXXIX. (23) Esempio vistoso della fatuità di
pensiero di alcuni tra i più rinomati deisti è John Toland, sul quale cfr. le
belle pagine che gli ha dedicato l’Hazarp nell’ocit., p154-159; la
superficialità vacua di Herbert di Chirbury è stata egregiamente dimostrata da
M. M. Rosst nella monumentale opera in tre voll.: La vita, le opere e i tempi
di E. Herbert di Chirbury, Firenze, Sansoni, 1947. Ci sembrano opportune e da
meditare le parole che DostoevsKiy mette in bocca al vecchio Karamàzov: sappi, imbecille, che noi tutti qui è solo
per frivolezza che non crediamo, perchè ce ne manca il tempo... (I fratelli
Karamdzov, Milano, Corticelli, 1944, 147). 46 Filosofia e Metafisica errore
principe da denunziare e abolire la religione cristiana e il suo Dio, sostegno
della tirannide e strumento di oppressione dei popoli, superstizione che ha impedito allo uomo di
conoscere e mettere in opera le sue immense possibilità per il progresso
individuale e sociale. Deisti e liberi
pensatori non si domandano mai perchè per secoli e secoli gli uomini abbiano
creduto e la filosofia si sia sforzata di attingere una verità razionale non
disforme da quella religiosa: per loro tutto ciò è pregiudizio e superstizione.
Orgogliosi, i razionali disprezzano i
religionari(i due termini sono del Bayle), come il sapiente l’ignorante
testardo ed incorreggibile (**). Loro sanno tutto: che non vi è rivelazione e
non ve n’è bisogno; che nessuna fede religiosa è veritiera e necessaria; che
Dio è lo stesso ordine della natura conoscibile pienamente dalla ragione, che in
certo qual modo lo fa essere. In una parola, hanno scoperto la verità totale,
costruito la scienza perfetta, dispensatrice agli uomini di felicità e
liberatrice da ogni oscurità ed errore, dalle imposture dei frati. Così negano
Dio senza nemmeno porsene seriamente il problema, e divinizzano l’uomo: seguendo la ragione scrive uno dei razionali noi dipendiamo
soltanto da noi stessi e diventiamo così in qualche modo degli dèi(?); con la
ragione e l’esperienza si scopre il
meccanismo della natura e ci s’impossessa d’ogni segreto e mistero,
dell’essenza stessa di Dio (?). Questi liberi pensatori », incapaci di essere
uomini che pensano in altezza e in profondità, si credono dèi. (24) Il Votare
(0cit., 45), che pur riconosce alla religione positiva un valore sociale, la
considera adatta per i bambini: un catéchiste annonce Dieu aux enfants, et
Newton le démonstre aux sages ». (25) Giusert, Histoire de Caléjava ... (1700),
p 57 (cit. da Hazarp, ocit., 161). (26) Una pagina del Maritain (I/ significato
dell’ateismo contemporanco, Brescia, Morcelliana, 1950, p26-27) ben chiarisce
il concetto di Dio del deismo, molto affine al panteismo: Supponete ora una nozione puramente naturale
di Dio, che conoscendo l’esistenza dell'Essere supremo, misconoscesse al tempo
stesso ciò che S. Paolo chiamava la sua gloria, negasse l'abisso di libertà
signi. L’ateismo 47 Il deismo, frutto di un atteggiamento mentale spietatamente
spregiudicato e scettico tanto da mettere in dubbio tutta la tradizione e
qualsiasi autorità, è il trionfo del più acritico dommatismo razionale, della
superficialità sistematica, della più ingenua fiducia nei poteri della
conoscenza umana e nelle possibilità assolute della scienza. Età barbara della filosofia », l’ Illuminismo
non ebbe in generale sensibilità per i problemi religiosi e per la filosofia
intesa come indagine profonda della vita spirituale. Contro ragione, afferma
l’assolutezza della ragione, molto facile a difendere una volta che tutto il
sapere è limitato a quello scientifico e i problemi essenziali messi da parte;
formula un concetto mitico della libertà
e si crea la superstizione della scienza (?’). Oggi, l’umanità sta vivendo in
un’epoca di Nec-illuficato dalla sua trascendenza e incatenasse Lui stesso al
mondo da Lui creato; supponete una nozione puramente razionale e buffa
di Dio, che sia chiusa al soprannaturale e che renda impossibili i
misteri nascosti nell'amore di Dio, nella sua libertà e nella sua vita incomunicabile.
Avremmo allora il falso Dio dei filosofi, il Giove di tutti i falsi dèi.
Immaginate un Dio che sia legato alordine della natura e che non sia che una
suprema garanzia e giustificazione di questo ordine, un Dio che sia
responsabile di questo mondo senza poter redimerlo, e la cui inflessibile
volontà, che nessuna preghiera può raggiungere, si compiaccia e dia la sua
cosacrazione a tutto il male come a tutto il bene del mondo, a tutte le
furfanterie e crudeltà come a tutte le generosità che operano nella natura, un
Dio che benedica l’iniquità, la schiavitù e la miseria e che sacrifichi l'uomo
al cosmo, un Dio che delle lacrime dei fanciulli e dell’agonia degli innocenti
faccia un coefficiente senza alcun compenso delle necessità sacre dei cieli
eterni o dell'evoluzione. Un tale Dio sarebbe, sì, 1’ Essere supremo, ma cambiato
in idolo, il Dio matwralista della natura, il Giove di questo mondo, il grande
Dio degli idolatri, dei potenti sui loro seggi, dei ricchi nella loro gloria
terrestre, del successo senza legge. Tale, mi pare, è stato il Dio della nostra
filosofia razionalista moderna, il Dio forse di Leibniz e di Spinoza,
sicuramente il Dio di Hegel ». (27) Il deismo, strettamente legato alla
massoneria per il suo atteggiamento anticlericale, antichiesastico e
individualista, assume come suoi dogmi indiscutibili il principio del libero
pensiero e la fede nella ragione, emancipata dai legami della tradizione e da
ogni autorità non liberamente riconosciuta, regola assoluta della vita (ateismo
pratico). Siccome la libertà di ciascuno e di tutti va rispettata e, d'altra
parte, le ragioni individuali sono
spesso discordi, la verità di un punto di vista va stabilita ed accettata
secondo il parere della maggioranza. Democrazia e sacra libertà della coscienza governata
dall’intelligenza, che è sacrilegio
anche limitare, culto della ragione
umana che s’inchina solo a se stessa, questa 48 Filosofia e Metafisica minismo
pretenzioso e dilagante, superficiale e saccente, più grossolano di quello
settecentesco; neo-positivismo di diverse tendenze, marxismo ortodosso e
eretico, neo-empirismo e pragmatismo di vario colore, neo-materialismo, tutti
si rifanno ai temi e soprattutto all’4r5ms dell’ Illuminismo, ne rinnovano la
barbarie filosofica in un mondo che va verso la
civilizzazione assoluta dell’uomo senza
umanità e, dunque, senza cultura
». La forma di ateismo più dotta, filosofica e fino ad un certo punto più
critica è il panteismo, dottrina antica e moderna, quantunque l’introduzione e
lo la nuova religione capace di rigenerare l’umanità per il razionalismo del Settecento e poi per il
laicismo posteriore dell’epoca del positivismo. La ragione è Dio, la libertà
dell’uomo un assioma; è obbligatoria
(l’uomo ha il dovere di essere libero), com'è obbligatorio il culto della
ragione che non s’inchina a dogmi o a principî 4 priori, religiosi o filosofici,
anche se essa stessa ne riconosce la convenienza o la verità: salvare il
postulato dell’assoluta libertà dell’assoluta ragione (e dire che i positivisti
erano quasi tutti deterministi!) anche contro la ragione e l'evidenza. Per il laicismo
massonico-positivista, di origini deiste e illuministe, le bien inestimable da custodire, conquistato
dall'uomo contro i pregiudizi e attraverso sofferenze e lotte, c'est cette idée qu'il n'y a pas de vérité
sacrée, c'est à dire interdite è la pleine investigation de l’homme, c’est que
ce qu'il a de plus grand dans le monde c'est la liberté souveraine de
l'esprit... c'est que toute vérité que nous vient pas de nous est un
mensonge... ». Anche se si facesse visibile,
si Dieu lui méme se dressait devant les multitudes sous une forme
palpable, le premier devoir de l'homme serait de refuser l’obéissance et de le
considérer comme l’égal avec qui l’on discute, non comme le maître que l'on
subit ». (J. Jaurès, Discours è la Chambre des Députés, 11 févr. 1895, cit. in Diction.
Apologétique de la foi Cathol., Paris, 1924, IV ediz., vol. II, coll. 1781-1782). La letteratura e i discorsi del
tempo sul culto della libertà e sulla religione della ragione abbondano di
simili sciocche doutades di una ingenuità acritica e afilosofica veramente
scoraggiante. Il laicismo dimostra spesso rispetto per Dio, ma non per l’
Essere assoluto trascendente creatore, bensì per l’idea che l’uomo se ne fa:
essa merita rispetto come tutto quanto appartiene all'uomo, il quale, ospitando
Dio nel santuario della coscienza, ne rende rispettabile il nome. La nuova
religione laica è la religione
dell’irreligione », secondo una felice espressione del Guyau. Forme di laicismo
positivista sono il cosiddetto monismo
umanitario », a cui abbiamo accennato a proposito della religion de l’humanité del Comte (e anche del
Saint-Simon, del Fourier, del Proudhon, ecc.), che dovrebbe sostituire
l'adorazione del Dio personale; e il
monismo sociologico del Durkheim. L'’ateismo 49 uso del termine siano
relativamente recenti. Non è facile distinguere il panteismo dal monismo;
tuttavia, nei limiti del nostro argomento, li trattiamo distintamente. Il
panteismo filosofico ha due aspetti fondamentali: @) riduzione di Dio al mondo,
il solo reale: Dio è l’unità di ciò che esiste, la somma delle parti; £) del
mondo a Dio, del quale il primo è un insieme di manifestazioni o di emanazioni
senza realtà permanente, mancanti di una loro sostanza distinta da quella
divina. Nel primo caso, si nega Dio nel mondo, nel secondo il mondo in Dio. Il
primo possiamo chiamarlo cosmismo, che è quasi sempre materialismo; il secondo
acosmismo, che può essere intellettualista (Spinoza), dialettico (Hegel), ecc.;
il primo può identificarsi con il monismo, il secondo con il panteismo vero e
proprio, che, sostanzialmente, tende sempre al monismo. L’uno e l’altro
rispondono ad un'esigenza fondamentale: ridurre tutti gli esseri all'identità
assoluta non solo logica ma anche ontologica; oppure: riportare la molteplicità
degli enti alla unità ontologica, per cui Dio e il mondo non sono due realtà di
diversa natura, ma una sola: l’essere del mondo è identico all’essere di Dio.
Così l’esigenza legittima di unificare il molteplice riportandolo a un unico
principio, spinta oltre il limite della constatazione dell’ordine delle cose,
per cui la molteplicità forma un cosmo», conclude all’unità sostanziale delle
cose stesse e del loro principio, senza più distinguere tra identità e
analogia. Per il panteismo che riconduce Dio alla natura, la realtà è
l’universo sensibile con cui Dio stesso s’identifica; anche se è detto spirito,
lo è come spirito del mondo, energia vitale o animata e perciò sempre di natura
materiale. Tale panteismo, che nega Dio come essere spirituale e. chiama (28)
Come ha notato l’Eucken, il Toland usò per primo (1705) la parola Panteist; il
Fay introdusse (1709) l’altra Panzeism. Si noti che i termini panteismo », monismo (coniato dal Wolff), agnosticismo appartengono tutti al
vocabolario filosofico moderno. 50 Filosofia e Metafisica Dio lo stesso universo,
s’identifica con il monismo naturalista o materialista ed è senz’altro ateismo;
infatti, dire che Dio è l’universo materiale è negare che esista e continuare
ad usare un termine che non ha più alcun senso; è chiamare una realtà con un
nome che ne significa un’altra. Nell’antichità è monismo materialista il
panteismo stoico (?°) e nei tempi moderni, sotto l’influsso della teoria
dell’evoluzione, quello biologico del Moleschott, Huxley, Biichner e, più
fansioso di tutti, di Haeckel ecc.; monismo naturalista si può chiamare quello
di alcuni positivisti, quali Du Bois Reymond, Spencer, Ardigò ecc. Per il
panteismo cosmico, che identifica Dio con il mondo ed è il vero monismo
assolutamente ateo, l’unica realtà è la natura o universo, per se stesso esistente
e avente in sè la ragione ultima di tutto, di ogni suo grado come di ogni ente
particolare: non vi è l’Essere da cui deriva o procede il mondo, ma vi è il
Mondo, l’Essere unico che si pone, si svolge e si spiega da, in e per se
stesso; si fa Dio, è esso stesso Dio. Ma è evidente che il termine qui non
significa nulla: Dio non c’è, c'è solo il mondo; in definitiva, la materia o
qualcosa di materiale, originario e dotato di energia vitale, che evolve da se
stesso e per leggi proprie. Ateismo puro che ha la pretesa di essere
scientifico e, in realtà, non ha alcun fondamento scientifico e tanto meno
filosofico. Infatti, presupposto un principio eterno e necessario, da cui per
evoluzione tutte le cose derivano, consegue: 4) vi è una certa distinzione tra
le cose e il loro principio unico, ma solo fenomenica e non di sostanza; 5) la
sostanza o natura delle cose è una ed identica; c) la spiegazione ultima
del(29) Il cosmo è composto di materia, finita e piena, penetrata dalla
Ragione, di natura ignea, forza immanente, Dio, che è insieme l’ordine che
tiene unite le parti e la loro somma. Per Zenone, l’universo ha due principi: uno passivo, la
sostanza informe, la materia; l’altro attivo, la mente di Dio. Quest'ultimo
penetra nella materia, produce i quattro elementi ed è artefice di tutte le
cose (1 frammenti degli stoici antichi, a cura di N. Festa, vol. 1, Zenone,
Bari, Laterza, 1932, 80). i L'ateismo 51 l’esistenza, del significato del
processo e della diversità delle cose è nelle cose stesse, cioè nel loro principio
e nelle leggi che governano l’evoluzione; 4) dunque, per Dio non c’è posto e
non vi è traccia di divino nel mondo: l’Essere è ontologicamente uno e si
svolge per evoluzione progressiva. Ma che cos'è quest’Essere uno originario
necessario? Un embrione informe del mondo, una specie di materia-madre che i
monisti chiamano in vari modi: omogeneo(Spencer), indistinto (Ardigò), sostanza
primitiva(Haeckel); ma si tratta di nomi, di ipotesi non accertate e non
accertabili, di parole che vorrebbero sostituire Dio. Il monismo materialista,
come quello dello Haeckel, è una contaminazione grossolana di materialismo
evoluzionista e di spinozismo. Anche l’esperienza è contro l’ipotesi monista:
la nostra coscienza ci attesta direttamente che almeno le sostanze intelligenti
sono fondamentalmente irriducibili; dunque, il pluralismo degli enti non è solo
fenomenico, ma sostanziale. Con ciò ci testimonia: 4) che l’ipotesi dell’unità
ontologica dell’essere non ha fondamento obiettivo e dunque non vi è una realtà
primitiva materiale da cui tutto procede per evoluzione; 5) che, rivelatasi
inesistente tale realtà primitiva, resta aperta la possibilità di provare
razionalmente che il mondo è stato creato da un Essere assoluto, il cui essere
è di altra natura da quello delle cose da Lui create; c) che, per conseguenza,
non c'è un’unica realtà, ma due di diversa natura, la creata dipendente dalla
creante: l’essere di Dio e quello del mondo. Ma l’esistenza di Dio e la
creazione, a differenza dell’ipotesi monista, si possono provare razionalmente;
dunque, giacchè è vera la dottrina contraria, il monismo risulta un'ipotesi
falsa, nata da un passaggio erroneo: dall’esigenza legittima di ridurre la
molteplicità delle cose all'unità concettuale dell’idea, passa illegittimamente
all’unità 52 Filosofia e Metafisica ontologica dell’essere reale (*°). D'altra
parte, il materialismo o il naturalismo evoluzionista non possono e non
potranno mai spiegarci come dalla materia primitiva, la si nomini come si
voglia, nasca lo spirito ed entri nel mondo il pensiero: mistero inspiegabile.
Dire che derivano per evoluzione dalla materia o che sono suoi epifenomeni
(Marx) è non dir niente, è presentare la difficoltà insoluta... come soluzione!
Non per nulla il panteismo vero e proprio si presenta meno grossolanamente
acritico del monismo materialista, ateo per affermazione dommatica e, nello
stesso tempo, incapace di dare al suo ateismo un fondamento scientifico e una
spiegazione razionale. Dopo il tanto rumore della seconda metà del secolo XIX e
dei primi anni del nostro e la diffusione attraverso la stampa divulgativa e
pseudoscientifica, è considerato definitivamente morto anche da scienziati e
filosofi che non hanno preoccupazioni religiose. Morto come istanza filosofica,
è diffuso in forma rinnovata e aggiornata tra le masse attraverso il comunismo,
non perchè abbia una benchè minima forza speculativa, ma in quanto son vivi i
problemi di ordine economico-sociale ai quali viene agganciato. In altri
termini, è soltanto l’aspetto sociale del marxismo che conferisce forza ed
attualità alle sue grossolane teorie
filosofiche ». Da ultimo, l’espressione
tutto è Dio non ha più senso quando si ammette, come nel caso del
monismo materialista e naturalista, soltanto l’esistenza di esseri fisici o di
un essere materiale embrionale, indistinto, omogeneo che sia. Il panteismo, per
il significato essenziale del termine, importa sì l’Essere uno, ma lo
concepisce come Spirito o Ragione, anche se privo di coscienza ed impersonale,
tanto è vero che fa del pensiero e della coscienza la rivelazione dell’ Essere
a se stesso. D'altra parte, l’Assoluto di cui parla il panteista, pur non
essendo il vero Dio, suscita ammirazione ed amo(30) Cfr. Dict. apol. de la foi
cathol. cit., vol. IMI, p918-922. L'ateismo 53 re, sia anche solo intellettuale
»; dà l’ebrezza del divino immanente (Spinoza). Tutto ciò manca nel monismo
materialista o naturalista, dove Dio è una pura espressione verbale: tutto è Dio viene ad identificarsi, perdendo
il suo sostanziale significato, con l’espressione tutto è materia (5). b) Vi è una forma
antichissima di panteismo ricorrente e presente in tutte le epoche e presso
tutte le genti. Alludiamo a quel panteismo prefilosofico, primitivo, proprio di
popoli agli inizi della speculazione, o di nature poetiche e mistiche
abbandonate al fascino dell’immediato, alla suggestione delle forze della
natura senza mediazione razionale, riflessione concettuale ed elaborazione
critica. La Grecia prefilosofica è in questo senso panteista: le forze cosmiche
sono divinizzate, fatte oggetto di culto; nel politeismo già evoluto di
Eschilo, Sofocle, Pin (31) Si noti che nel materialismo dialettico (incontro
dell’evoluzionismo e del dialettismo hegeliano) i concetti di monismo e
panteismo subiscono una trasformazione profonda al punto che non vi sono
reperibili. Infatti, il materialismo dialettico nega che vi sia comunque
un'essenza di uomo o di altro, un ordine immutabile, una materia nel senso tradizionale: tutto è il
risultato di situazioni storiche, rispondenti ad un grado del divenire; tutto
nel futuro potrà essere diverso, perchè non vi sono sostanze. Ora è esigenza
del panteismo l'unificazione del molteplice, suoi presupposti l’ordine cosmico
e, in comune con il monismo, l’unità sostanziale degli enti. Pertanto,
rigettato il concetto di ente e quelli di sostanzialità ed ordine,
l’evoluzionismo dialettico e materialista non può dirsi nè monista nè
panteista, anzi del monismo e del panteismo è come la critica; in questo senso,
è l’esito ultimo dell’uno e dell’altro. Per meglio far risaltare come nel
monismo materialista, negati Dio e ogni realtà spirituale, la vita perda ogni
significato che non sia quello biologico o economico, tutti i valori umani
siano negati e l’esistenza diventi assurda, riportiamo l’efficace descrizione
che F. Acri (Della relazione tra anima e corpo) fa dei funerali del filosofo Spencer. Ecco: io dico quel che ho letto. Morto lui,
il suo corpo è portato, su un carro, in un luogo tra campi solitari, al
settentrione di Londra, lì dove era un nuovo forno crematorio; ed era un
mattino di dicembre, e tra gli umidi vapori splendeva il sole. Su quel carro
non erano fiori, ma neanche alcun panno nero: e quelle duecento persone
ch’erano lì ad aspettarlo non erano vestite a nero, e neanche ghirlanda alcuna
avevano in mano. Venuto il carro, quelle si levano su in piedi riverenti e
silenziose; e la cassa è deposta in una sala terrena, di contro a una porta. E
uno fra loro leva la mano in segno di voler parlare; e parlò, e disse della
vita di lui, delle opere di lui, insomma del passato di lui; del futuro di lui
nè affermò nè negò nulla. Finito ch’ebbe, la cassa è sospinta contro la docile
porta, giù per un’aperta di muro, entro il luogo del fuoco; e la porta sovra di
lui si chiuse ». 54 Filosofia e Metafisica daro, ecc., la distinzione tra le
varie divinità, identificate con le forze naturali, si affievolisce; la
molteplicità è gerarchizzata e unificata in un Dio supremo (Zeus testa del mondo »). L’orfismo, con i suoi
culti, le sue credenze nell’oltretomba e nella metempsicosi, è anch’esso una
forma di panteismo primitivo e tende a cancellare, riducendola ad apparenza, la
individualità sostanziale della persona umana; l’invasato dalla divinità,
attraverso l’ispirazione ed il rito, si sente così posseduto dal Dio da immedesimarsi
con lui. Le forze vitali e le loro manifestazioni, gli elementi della natura
diventano, per l'immaginazione robusta e per la ragione ancora debole e
fanciulla, potenti divinità, buone o cattive, da propiziarsi con riti, culti,
preghiere, sacrifici. L'unità ontologica del tutto, vissuta immediatamente e
con sentimento spontaneo, è ancora nella fase dell’intuizione poetica o
dell'abbandono mistico; il senso profondo della natura e della immedesimazione
con le sue forze è ebrezza del divino, sentimento vitale di comunione dell’uomo
con la divinità e della divinità con l’uomo. Questa forma di panteismo, che non
è pensiero riflesso ma esperienza immediata, trova le sue espressioni più
spontanee e turgide nel primitivismo di popoli non ancora intellettualmente
evoluti, o in quello di forti temperamenti mistici e poetici, che hanno
esuberante il senso della natura e il culto della vita. I mistici tedeschi non
cattolici, Goethe e quasi tutta la poesia del romanticismo germanico, alcuni
scrittori contemporanei, soprattutto modernissimi, vibrano di potenti accenti
panteistici, si sentono come immersi nella natura divinizzata. È quello che
possiamo chiamare panteismo estetico: culto della gran madre Natura », che è bellaanche quando
è orrida », Dio vivente di tutta la potenza delle sue forze attive, ora
paurosamente terrifico (la tempesta, il terremoto, ecc.), ora maestosamente
rasserenatore in una pace solenne, infinita, immobile (il cielo stellato,
l'orizzonte immenso e limpido . L'ateismo 55 da una vetta alpina ecc.). Ma
questo panteismo, appunto perchè prefilosofico e quasi inconsapevole o
solamente poetico, non può essere oggetto del nostro discorso. Il panteismo che
riconduce la natura a Dio non parte dal mondo, ma dall’Essere uno e necessario,
che chiama Dio, Infinito, Assoluto, Io; ma, in ogni caso, lo concepisce come
Pensiero o Spirito, da cui deduce il mondo per emanazione (Plotino), per
deduzione necessaria e razionale (Spinoza), per posizione (Fichte), per
movimento dialettico (Hegel), ecc. In tutte queste teorie, il mondo è
identificato con Dio, per cui realmente esiste solo Dio, di cui il mondo stesso
è una manifestazione. Virtualmente la sua realtà è negata; meglio, dovrebbe
esserlo, se il panteista non avvertisse tale difficoltà e le contraddizioni
insite nel sistema. Questa ed altre forme di panteismo hanno in comune due tesi
che è opportuno indicare: 4) riduzione della molteplicità degli esseri
all’unità ontologica di un unico ed identico Essere, per cui l’essere del
mondo, emanante o procedente da Dio, è lo stesso essere di Dio; 2) che è
dunque incatenato al mondo, il solo
possibile, che da lui emana eternamente e necessariamente e a lui torna per
identificarvisi, come le gocce d’acqua che, lasciate temporaneamente sulla
spiaggia dal flusso dell’onda, vengono riassorbite nella successiva (3°). Il
mondo s’identifica con Dio, da cui emana o procede; dunque l’essere del mondo è
lo stesso di quello divino; d’al(32) Nota ed espressiva l’immagine dell’albero:
fusto, rami, foglie tutto trae vita dallo stesso seme e dalla stessa linfa, che
si rinnova identica a se stessa nell’unità della sostanza dal seme ai frutti.
Essa è frequente nelle Enneadi ed ha avuto fortuna nella poesia romantica di
Schlegel, Schiller, Novalis, ecc.:
S'immagini la vita di un albero, grandissimo; trascorre in esso,
rimanendo il suo principio, immobile, senza disperdersi per l’albero, poichè
risiede nelle radici (Ern., I,8, 10). 56 Filosofia e Metafisica tra parte, il
panteismo non nega che il mondo è anche materia o qualcosa che, non essendo
spirito, non è della stessa natura spirituale di Dio; consegue che, se si
mantiene il principio della identità del mondo con Dio, bisogna affermare
l’identità dei contrari, che logicamente è non affermare nulla. È la difficoltà
in cui sembra incorrere il panteismo dello Spinoza: l’estensione (materia) e il
pensiero (spirito) sono due degli attributi dell’ rica Sostanza o Dio o Natura;
se la dualità è anche in Dio non c’è l’unica realtà eterna (la Sostanza), ma
due, irriducibili all’unità della Sostanza stessa; se questa è una, materia e
spirito vi s'identificano e si afferma l’identità dei contrari, cioè si nega la
realtà dell’uno e dell’altro. Lo Spinoza e altri panteisti (Bruno, Fichte,
Hegel, ecc.; Plotino identifica la materia con il non-essere », cioè con la zona oscura dove si
spenge l’emanazione dell’Uno), consapevoli della difficoltà, distinguono tra
natura emanata o posta (razura naturata) e la Sostanza o Io o Spirito emanante
o ponente (natura naturans). Ma daccapo: 4) o Dio e il mondo sono realmente
distinti, due realtà, due nature, e non c’è panteismo; 2) o il mondo non si
distingue realmente da Dio e, in tal caso, c’è panteismo, ma la difficoltà
sopra notata ne fa una dottrina contraddittoria. In altri termini, o la
distinzione Dio-mondo è reale (analogia dell’essere) e bisogna abbandonare la
dottrina dell'Essere unico in cui esiste tutto ciò che esiste; o la distinzione
non è reale (univocità dell’essere) e allora: o si conclude che il mondo è pura
apparenza; o, se gli si vuol concedere un certo grado di realtà concessione necessaria in ogni sistema
panteista affinchè sia reale lo stesso Assoluto o Dio , dato che esso non è
solo spirito, bisogna identificare il suo carattere materiale con quello spirituale
di Dio, cioè due contrari, identificazione che, oltre al resto, riesce
ugualmente L’ateismo 57 alla negazione della realtà del mondo (*). Ma cerchiamo
di approfondire meglio l’argomento (#). Posta la tesi fondamentale: l’urità
dell’idea dell’essere imrta la unicità dell’Essere stesso, consegue che il
molteplice (gli enti particolari e finiti) o è l’Essere, o non è; dunque, solo
apparentemente, nella sua fenomenicità, si distingue dall’Essere; in realtà è
lo stesso Essere e non è come distinto da esso. Parmenide per primo dà una
soluzione netta ed estrema del problema: l’Essere è, il Non-essere [il
molteplice ] non è »; Platone, nel Parmenide, mette in evidenza le insolubili
aporie cui va incontro una dottrina dell’Uno che nega i Molti, come quelle
della tesi opposta dei Molti che negano l’Uno; da parte sua, contro la tesi
panteista, ammette la realtà degli enti finiti che hanno dell’Essere senza
essere l’Essere. Negare la realtà del finito è affermare senza dimostrarla
l’unicità ontologica dell’essere; al contrario si dimostra, contro il
panteismo, che tra l’Essere e il Non-essere è possibile la realtà di enti
molteplici particolari e contingenti, che come enti sono e come finiti non sono
l’Essere, senza perciò essere il Non-essere e senza (33) Tipico il panteismo
dello Spinoza. L'unica sostanza
Dio-Natura consta di infiniti
attributi, ciascuno dei quali esprime la sua essenza eterna ed infinita. Come
la Sostanza non esiste che nei suoi attributi, così questi (pensiero ed
estensione sono i due che noi conosciamo) non esistono che nei loro modi
infiniti; perciò Dio esiste solo nelle cose come loro essenza universale e le
cose sono in lui come modi della sua essenza. Dio è natura maturans in quanto
essenza universale del mondo; natura naturata in quanto totalità delle cose, in
cui la sua essenza si realizza; dunque non è diverso dai suoi effetti ed esiste
solo in essi. Questo il panteismo nella sua forma più tipica: non creazione del
mondo, ma sua derivazione necessaria dall’essenza divina. La dipendenza del
mondo da Dio non è di causa efficiente ad effetto, ma di seguenza o di
conseguenza; il mondo segue da Dio allo stesso modo che dalla definizione del
triangolo segue che la somma degli angoli è uguale a due reti. In breve, il
rapporto causale è concepito dallo Spinoza come rapporto logico-matematico di
principio e di conseguenza. Nulla può essere diverso da quello che è: non c’è
posto per il caso nè per la libertà. Conoscere questa universale necessità è la
beatitudine suprema dell'anima (amor Dei intellectualis). Questa e altre tesi
panteiste sono esaminate con fine acutezza da A. VaLENSIN nel Dict. apol. de la
foi cathol., vol. III, p1332 c ss., che in qualche punto teniamo presente. 55
Filosofia e Metafisica che la loro molteplicità ontologica neghi l’unità dell’idea
dell’essere. Dio non si può concepire senza il mondo, dicono ancora i
panteisti, in quanto sarebbe incosciente: coscienza, infatti, è alterità, il
distinguersi da qualcosa che è e le si oppone; dunque il mondo è necessario a
Dio, il quale si fa, diviene, si rivela a se stesso, prende coscienza di sè
attraverso di esso. Questa tesi, tipica dell’idealismo trascendentale tedesco,
trasforma il panteismo in ateismo. Un Dio che si fa (il Got im Werden dello
Hegel) non è Dio, non è Spirito infinito, che è Atto puro; qui si nega Dio e si
chiama col suo nome un’altra cosa. Infatti, quando il panteista afferma che Dio
senza il mondo sarebbe incosciente perchè la coscienza per cogliersi ha bisogno
dell’altro da sè, non parla di Dio Coscienza assoluta, ma della coscienza
finita dell’uomo, che non è puro spirito come Dio, il quale, come tale, è
sempre Coscienza in atto e perciò non necessita dell’altro. Similmente Egli è
spirito perfetto senza bisogno di diventarlo, di farsi: se si facesse, sarebbe
sempre spirito in fieri e perciò mai perfetto. Un Dio che diviene non è mai Dio
in nessun momento del suo divenire e dunque non esisterà come Dio; perciò è
come dire che non è. È la conclusione a cui arriva Nietzsche nel notissimo
passo della Gaia Scienza: Dov'è Dio?
Voglio dirvelo! L’abbiamo ucciso, voi ed io... Dio è morto! Dio resterà morto!
E noi l’abbiamo ucciso... ». Da ultimo, non si parla di Dio ma di altro quando
si argomenta che, se è infinito, non può essere che impersonale: chi dice
persona dice limite e finitezza, ma Dio è infinito e senza limiti; dunque Dio è
impersonale. Osserviamo che la conclusione non dimostra la sua impersonalità;
semplicemente Lo nega, in quanto un Dio impersonale è un’astrazione (la Natura,
l’Umanità ecc.). D'altra parte, la premessa è esatta se s'intende la persona
finita, ma il conL'’ateismo 59 cetto di persona umana non è l’unico possibile :
Dio è persona in maniera diversa da come lo siamo noi, ma lo è in modo analogo
al nostro (#). Si noti che in quest’ultima sua tesi il panteismo considera
l’infinità di Dio in un senso che Gli si addice veramente; infatti, concependo
la persona solo secondo quella umana limitata, esclude che Egli possa esserlo.
Ma qui nasce un dilemma: o Dio è infinito senza alcuna limitazione, e cadono le
due prime tesi panteiste del Dio che si fa e a cui è necessario il mondo per
acquistare coscienza di sè, in quanto un simile Dio non è perfetto e infinito
in atto ma limitato nel divenire altro e nell’autorivelarsi a se stesso; o Dio
non è infinito e perfetto in atto e allora, se tale, anche secondo l’uso
ristretto che il panteismo fa del termine, si può dire persona, e cade la tesi
panteista della sua impersonalità. Ma perchè vi sia panteismo non in
contraddizione con se stesso e dunque sostenibile razionalmente, è necessario
mantenere e giustificare tutte e tre le tesi. Impossibile: o Dio è l’Infinito
in atto e non Gli è necessario il farsi nel mondo e il mondo stesso, e con ciò
vien meno l’essenza metafisica del panteismo (il mondo è Dio e Gli è
necessario); o non è l’Infinito in atto e allora, anche nell’accezione
panteista, si può concepirLo esistente come persona, e vien meno l’altra tesi
essenziale al panteismo della sua impersonalità. In qualunque forma, il
panteismo presenta invincibili contraddizioni interne; come tale, è
razionalmente insostenibile (*). (35) Invece, così ragionano quanti negano a
Dio la personalità: voi chiamate personalità e coscienza ciò che avete imparato
a conoscere in voi stessi con questi nomi; ma sapete anche che non vi è
personalità e coscienza senza limitazione e finitudine; perciò attribuendo a
Dio quei predicati, fate di lui un essere finito, uguale a voi e non avete
pensato a Dio, ma moltiplicato voi stessi nel pensiero. Questo ragionamento del
Fichte, il quale riduce il teismo ad antropomorfismo, critica un modo di
chiamare Dio personale diverso da quello del testa; perciò non interessa il
vero teismo e non ha alcuna validità contro di esso. (36) Osserviamo ancora
che, anche ad accettarla per un momento, la tesi panteista che il mondo è
necessario a Dio, risulta contraddittoria in se stessa. Se il mondo è
necessario a Dio, bisogna pure che abbia una sua realtà: se è pura 60 Filosofia
e Metafisica 7. L’umanesimo ateo. Con
l’umanesimo assoluto o ateo, proprio di quelle filosofie che si dicono atee
perchè umaniste, entriamo nel vivo dell’ateismo contemporaneo nelle sue
molteplici forme di derivazione materialista, illuminista e idealista,
soprattutto hegeliana. Secondo i suoi teorici, la religione (e perciò l’idea di
Dio) aliena l’uomo in un Essere assoluto e trascendente, gli ta perdere il
possesso di ciò che gli appartiene, gli impone un Altro; un maestro che gli
insegna, o un rivale che gli contende. Di qui l’antitesi teismo-umanesimo: Dio
è la negazione dei diritti dell’uomo, che, adorando un Ente Supremo, frutto
della sua immaginazione condizionata da situazioni storiche, aliena in lui quel
che invece gli appartiene. Pertanto un umanesimo integrale ed autentico è
possibile solo se l'uomo cessa dall’alienazione religiosa e riconquista i suoi
diritti e poteri, cioè se attraverso l’evoluzione storica elimina il momento
religioso della rinunzia a ciò che gli spetta e attribuisce a Dio. Questa forma
di ateismo non è una novità del marxismo; apparenza, è assurdo dire che Dio
esiste per un’apparenza, anzi dire che esiste; infatti, se il mondo è
apparenza, siccome Gli è necessario per esistere, anche Dio è apparenza!
Dunque, il panteista deve concedere al mondo una sua realtà, non diversa però
da quella di Dio, altrimenti vien meno il principio dell’unicità dell'essere e
con esso l'essenza del panteismo; ma se a Dio è necessaria per csistere la
realtà del mondo e questa è della sua stessa natura, consegue che per esistere
Gli è necessario... Dio stesso! Sì, può obiettare il panteista, gli è necessaria
la sua realtà non più in sè, ma fuori di sè, nel suo farsi per acquistare
coscienza di sè. Benissimo; ma allora Dio in sè non è coscienza; se non è
coscienza, non è soggetto; se non è soggetto, è oggetto, materia ». Come nasce la coscienza? Si
riproduce dentro il panteismo la difficoltà insormontabile del monismo
materialista. Non conta che ci soffermiamo su quel misto di panteismo, deismo,
emanazionismo che è la cosiddetta teosofia, che non è filosofia nè teologia nè
scienza, per la quale sembra abbiano un debole le signore; i due autori più
noti, infatti, sono due donne, la Blavatsky e Annie Besant. Le loro tesi sono
quelle già da noi confutate: 4) Dio è impersonale (un Dio personale è
antropomorfico); in realtà, per la Blavatsky, Dio è onnipotente, onnisciente,
ecc. (The Key to Theosophy, London, 1893, 44), ma solo Dio sa, se è tale, come
può dirsi impersonale; 5) Dio è tutto e
tutto è Dio », scrive la Besant (WAy I became a theosophist, London, 1891, 18)
confondendo le due forme di panteismo, che noi, meno frettolosi, abbiamo
distinto e discusso separatamente, i L'ateismo 61 già matura nell’Illuminismo,
rappresenta solo una fase di quel processo di divinizzazione dell’umano,
proprio del pensiero moderno: l’uomo può fare da sè quello che, attraverso
l’alienazione religiosa, crede possa fare solo Dio. Il progresso e l’evoluzione
storica dell'umanità risiedono precisamente nella graduale liberazione
dalla superstizione religiosa, infanzia
della ragione, nella sempre più matura consapevolezza che noi acquistiamo dei
nostri poteri. Per l’idealismo trascendentale, da Fichte a Gentile, l’uomo
realizza la sua umanità piena nel pensiero che, attraverso il dialettistmo che
gli è immanente ed essenziale, perviene alla risoluzione del momento religioso
in quello filosofico e all’attuazione di quella assolutezza dalla religione
attribuita a Dio e che, invece, è il pensiero stesso nel suo perenne divenire,
nella conquistata consapevolezza di sè. Con il positivismo del Comte, il
materialismo del Feuerbach e l’economismo del Marx, la religione dell’ umanità
sostituisce quella di Dio. Così l’umanesimo ateo assume uno spiccato carattere
sociale: l’uomo acquista coscienza di sè nella società, nel lavoro inteso come
vincolo di fraternità », strumento di
dominio della natura, potenziato dal progresso scientifico e tecnico. Nella
storia l’uomo realizza tutto se stesso; nella società giusta attua quella
perfezione assoluta che l’alienazione religiosa gli fa attribuire a Dio. Al contrario,
secondo un’altra forma di umanesimo ateo antisociale anarchico individualista,
ma di un individualismo antiborghese, l’evoluzione storica raggiunge la sua
maturità con il tipo dell’uomo selezionato, eccezionale, eroe e tiranno,
crudele e despota, di cui unica legge è l’arbitrio e tutto è sua proprietà ». L’umanità esprime la sua potenza
intera nell’ unico (Stirner) o nel superuomo (Nietzsche), cioè quando
oltrepassa se stessa, si pone al di là della
mediocrità delle leggi, dello Stato, della morale ecc.; la pienezza
dell’uomo è nella negazione dell’umano nel superumano del superuomo, usurpatore
di tutto, con62 Filosofia e Metafisica quistatore dei suoi supremi diritti
contro Dio, di cui decreta la morte cancellando al tempo stesso l’alienazione
religiosa, vergogna del gregge dei
deboli. Queste forme di ateismo, imperniate sul concetto di alienazione,
nonostante le differenze a volte rilevanti, hanno in comune alcuni presupposti
dogmaticamente assunti: 4) la religione è un grado, inferiore rispetto ai
successivi, dell’evoluzione dell’umanità, corrispondente al momento in cui
l’uomo non ha ancora piena coscienza di se stesso ed attribuisce a Dio quello
che gli appartiene e attuerà in una fase più progredita della sua evoluzione;
è) essa, per conseguenza, grado transitorio del divenire storico, è destinata a
scomparire quando tutti gli uomini, e non soltanto i più evoluti, avranno
acquistato consapevolezza di sè, cioè quando vi sarà un’umanità o una società
nella piena maturità della sua evoluzione; c) pertanto, quel che si adora come
Dio non è che l’ideale umanità futura, che l’uomo per il momento proietta fuori
di sè ed entifica in un Ente supremo e domani invece vedrà realizzato in se
stesso con e nella sua opera; 4) fino a quando egli adora un Dio e si aliena in
lui, è indizio che l’evoluzione storica non ha raggiunto la sua completa
attuazione e ancora vi è nella società un residuo d’infantilismo. Sul fondo
comune della divinizzazione dell’umano
l’uomo al posto di Dio, l’ usurpatore temporaneo destinato ad essere
spodestato l’umanesimo ateo si
differenzia in forme diverse quando si tratta di stabilire in quale delle sue
attività l’uomo realizza il suo compimento: il Progresso, la Scienza, la
Filosofia, l’Umanità, la Società omogenea, ecc. a volta a volta sono state
additate come le nuove divinità della nuova religione umanistica », la cui
realizzazione farà sparire, relitto del passato, la religione teologica ». La forma più vistosa,
anche se teoreticamente meno consistente, è quella marxista, sulla quale
insistiamo in modo particolare per la sua diffusione e perchè espressione
L’ateismo 63 di ateismo integrale che pretende di oltrepassare anche se stesso,
sforzo poderoso di costruire l’umanità intera contro Dio e di rivoluzionare
dalle fondamenta la scala dei valori. Mai ateismo è stato più negativo ed
assoluto, apocalittico e messianico; mai, come ora col marxismo, è stato forma
di vita. La cosidetta sinistra hegeliana
», pur accettando il dialettismo, opera un rovesciamento di Hegel: i fatti non
sono un’estrinsecazione dell’Idea, ma la sola e vera realtà, di cui l’Idea è
solo un'immagine; perciò reale è l’uomo non come puro pensante, ma come
istinto, senso, corpo: l’uomo è un corpo cosciente », dice Feuerbach; ed è
bisogno, insieme di bisogni, che vuol soddisfare per realizzare la propria
felicità. Nel rapporto sociale egli acquista coscienza della sua umanità ed è
tanto più se stesso quanto più attua questa coscienza. Come nasce nell’uomo
così concepito l’esigenza religiosa? Questa la domanda alla quale Feuerbach
risponde ne L'essenza del Cristianesimo (1841). Hegel identifica Dio con il
processo storico, con l’uomo infinitizzato; dunque, quando parla di Dio, parla
dell’uomo; basta scrivere uomodove scrive
Dioper restituire all'uomo stesso il suo autentico essere;
pertanto, il problema di Dio è il
problema dell’uomo »; il segreto della teologia è l’antropologia ». Così
Feuerbach opera la trasformazione del
sacro già implicita nel pensiero illuminista e quasi esplicita nel Fichte e
nello Hegel. La religione è un prodotto puramente umano: non potendo l’uomo
soddisfare tutti i suoi bisogni, cioè liberarsi dal bisogno, postula o pone un
Essere illusorio, proiezione di se stesso come vorrebbe essere. La teologia non
è che antropologia; l'Assoluto filosofico e religioso, estrapolazione dell'immaginazione,
è l’uomo stesso, il suo essere come specie. 64 Filosofia e Metafisica Così
nasce l’alienazione religiosa o l’atto di abbandonare ad un altro la
realizzazione dei valori, di scaricarsi di un compito. Se l’uomo acquista
coscienza che quando pensa l’Infinito pensa e attesta l’infinito del suo
pensiero, e quando lo sente, sente e attesta l’infinito del suo sentimento; se
si fa consapevole che nell’essere e
nella coscienza della religione non vi è niente di diverso da quel che c’è nel
suo essere e nella sua coscienza »; in breve, se si convince che egli
inconsapevolmente e involontariamente crea Dio secondo la propria immagine »,
si riprende quel che ha alienato e acquista coscienza che tutto il discorso su Dio
non è che discorso sull’uomo, che lo ha creato a sua immagine e somiglianza. In
altri termini: se il fatto religioso dipende da una particolare situazione
umana e dura fino a quando essa non evolve, cessata o trasformatasi, l’uomo
cessa di pensare a Dio e di essere religioso. Feuerbach, nonostante tutto,
resta legato al vecchio materialismo; il reale per lui è ancora l’ oggetto
sensibile, come gli obietta Marx, che pur riconosce quanto deve al suo
predecessore. In breve, conserva residui intellettualistici, che Marx elimina
con la riduzione del reale all’ attività sensibile umana intesa come prassi: il
rapporto uomo-natura è dialettico e non vi è altra dialettica che quella uomo
sensibile-realtà sensibile in funzione del lavoro umano; pertanto, la
dialettica deve scendere dal piano teoretico-ideistico (Hegel) a quello pratico
o economico », anzi l’ economico »,
il materiale », è l’unica struttura del processo, di cui le altre (morale,
religione, arte, ecc.) sono solo
soprastrutture ». La proprietà privata, autoalienazione dell’uomo, è una
usurpazione o appropriazione della sua essenza da parte di un altro; la sua
soppressione positiva coincide, da un lato, con la soppressione positiva della
vita umana alienata e di ogni altra alienazione conseguenza della prima come la
religione, la morale, la famiglia, lo Stato, il diL'’ateismo 65 ritto, ecc.j
dall’altro, con il ritorno all’uomo come essere sociale », con la riconquista
del suo vero essere originario: l’essere dell’uomo si attua nella natura, ma
questa ha essenza umana solo per l’uomo sociale, in quanto soltanto nella
società diventa legame che unisce gli uomini tra loro. In quest’ultima si
compie l’integrale naturalismo dell’uomo e l’integrale umanesimo della natura:
non la dialettica hegeliana dell’Idea, ma quella uomo-natura, singolo-società.
La storia non è il divenire dell’Idea o della Ragione, ma quello della natura
attraverso il lavoro dell’uomo; non la dialettica di compimento dello Spirito
assoluto nella Filosofia, ma quella di compimento dell’uomo-natura nella
Società socialista. Ciò posto, se non ci sono che l’uomo e la natura in
rapporto dialettico e la religione appartiene al momento dell’alienazione o
della proprietà privata, realizzata l’unità dell’uomo con la natura nella
società ed eliminata l’alienazione, la religione scompare da sola: l’ateismo è
una constatazione, è o sarà un fatto
della nuova società socialista. Amano a mano che l’uomo andrà costruendola e
conquistando la sua libertà, sua opera esclusiva perchè la storia è soltanto opera
dell’uomo che in essa ha tutto il suo senso, andrà sparendo, anche senza
combatterla, la credenza nell’esistenza di Dio, soprastruttura
dell’alienazione. Dal momento che la
essenzialità dell’uomo e della natura diventa praticamente sensibile nel
rapporto dialettico uomo-natura, diventa praticamente impossibile anche il
problema di un'essenza estranea superiore alla natura e all’uomo implicante
l’ammissione della loro inessenzialità.
L’ateismo come negazione di questa inessenzialità non ha alcun senso,
poichè esso è una negazione di Dio e pone con essa l’esistenza dell’uomo ».
Dunque, non c’è più bisogno della negazione di Dio e della religione, l’ateismo
diventa superfluo: l’autocoscienza positiva acquistata dall’uomo nella società
socialista è la negazione 66 Filosofia e Metafisica della negazione, cioè
dell’ateismo: non si tratta di sopprimere la religione, perchè è già sparita,
come non si tratta di sopprimere la proprietà privata, già eliminata. In altri
termini, la negazione di Dio e della proprietà privata rappresentano solo un
momento necessario del processo di emancipazione dell’uomo alienato, della
conquista della sua libertà, ma non il fine della società umana, che è
l’attuazione della libertà dell’umanità. Questi e altri discorsi poggiano sul
presupposto dommatico di Feuerbach che la materia è il primo ontologico, a cui
Marx applica il metodo dialettico che lo Hegel riserva allo spirito. Così Marx
riforma contemporaneamente la dialettica hegeliana e il concetto feuerbachiano
di materia, ma la duplice operazione lascia intatto il presupposto
materialistico, anche se egli identifica la materia con la realtà economica,
cioè la sostituisce così intesa, ma senza giustifica zione alcuna, allo
spirito. Certo, l’economia, come ogni altra attività umana è dialettica, ma è
tale in quanto attività spirituale che, pur interessando il corpo, risponde
sempre ad un bisogno dello spirito unito al suo corpo; dunque interessa la
persona nella sua integralità spirituale e corporea. Ma, a parte ciò, da un
lato resta da dimostrare che la materia o l’economico sia il primum o il
principioassoluto fondante tutta la realtà umana e non essa fondata da un altro
principio, altrimenti si fa un’affermazione dommatica, come tale gratuita e
filosoficamente ingiustificata; dall’altro, è da vedere come il marxismo intende
lo spirito, il pensiero, la coscienza. Ora è noto che, per Marx e i neomarxisti
russi o di loro ispirazione, materia non
è soltanto la realtà economica, lo è l’universo tutto nella sua essenza; di
essa, dato oggettivo indipendente dalla coscienza, quest'ultima è solo un
elemento secondario derivato »; il pensiero è un prodotto del cervello, che a
sua volta lo è dell’evoluzione della materia, per cui la dualità
materia-spirito è una mera astrazione metafisica. Se è così, l’attività
econoL'ateismo 67 mica, primum assoluto, è soltanto ed esclusivamente
materiale, dato che la cosidetta coscienza o spirito è un elemento secondario
derivato dalla materia oggettiva, madre di essa e di tutta la realtà naturale;
dunque, monismo materialista in edizione aggiornata, ma più scorretta di quella
del vecchio materialismo, in quanto il neo-materialismo pretende di essere dialettico », ragione di quello storico »,
come se si potesse parlare di dialetticadove
tutto è materia e niente spirito. L'espressione
materialismo dialettico è una contraddizione nei termini e non è ragione
di alcun materialismo storico », per il motivo
inconfutabile che non c’è dialettica dove non c’è spirito e dove esso è
concepito come un elemento derivato dalla materia oggettiva; c’è solo quest’ultima
che è puro accadere naturale senza dialettica. Certo, l’ateismo in una
concezione monistica diventa una constatazione di fatto, ma non per le ragioni
che adduce Marx, bensì perchè, se la materia è il primum, non c’è nient'altro,
nè coscienza derivata, nè realtà economica, nè storia; non c'è l’uomo nè Dio,
non c’è lo stesso ateismo. Tutto diventa un dato inspiegato ed inspiegabile,
gratuito; non resta che riporsi tutti i problemi senza tener conto dell’assurdo
iniziale monismo materialistico. D'altra parte, che senso ha parlare di
uguaglianza e fraternità tra gli uomini in una concezione in cui la persona è
un puro prodotto naturale della materia, la risultante dell'evoluzione
materiale ed è per essenza tutta ‘e solo sociale, senza diritti extrasociali o
anteriori alla società stessa? Marx ammazza la persona tre volte: nella
materia, nella realtà economica e nella società; poi fa la peregrina scoperta
che non c’è più bisogno di parlare di Dio e della religione! Ha alienato la persona nella materia, negato lo
spirito nella realtà economica e nella società e dice di aver riscattato l’uomo
dall’alienazione religiosa. A parte ciò, come si fa a dire che l’idea di Dio e
la religione sono la conseguenza della 68 Filosofia e Metafisica proprietà
privata e dell’alienazione del lavoro, pronte a scomparire, incubo
plurimillenario, con la cessazione della causa materiale che le ha prodotte? Ma
che aveva in testa l'insiptens Marx e che vi hanno gli insipientes che l’han
perfezionato su questo punto quando pensano a Dio? Superfluo insistere nel
criticare una dottrina che, sotto l’aspetto filosofico a parte la questione sociale è così puerile e grossolana da non potersi
chiamare nemmeno assurda; infatti, nessuno taccia di assurdità un bambino il
uale dice che il manico di scopa che cavalca è uno dei cavalli del Re
d’Inghilterra. È quel che capita al marxismo quando sostiene che gli uomini
pensano a Dio perchè defraudati da una parte di quanto producono con il loro
lavoro e che cesseranno dal pensarvi dal momento in cui, sparita la proprietà
privata e la defraudazione del lavoro altrui, si sarà pienamente realizzata la
libertà dal bisogno, l’ideale perseguito dall’inizio dei tempi e proiettato in
un immaginario Dio. Ma è opportuno osservare che l’umanesimo assoluto marxista,
come quello che si fonda sull’autosufficienza umana, rientra nel quadro più
vasto del pensiero moderno laicista; non per nulla è figlio dello Hegel.
Variano i modi di divinizzazione dell’uomo: attraverso la Scienza, l'Arte, il
Pensiero ecc., ma l’esito è identico; perciò la puerilità del marxismo non
sfigura gran che al confronto di quella di altre dottrine. Solo che esso,
invece di affidare il compito di costruire l’Uomo-Dio a forme di attività
nobili o dotte, lo ha affidato ad una più rozza, l'economia; ma non è poi
questo gran male, perchè l’esito è sempre lo stesso. Gli altri ateismi o
laicismi non hanno da protestare contro il marxismo e da darsi una superiorità
che è solo sciocca arroganza. Non è il caso d’insistere, perchè già incluse
nella nostra esposizione critica, su altre teorie di alienazione religiosa, su
quelle che dicono in generale: l’uomo che crede in Dio L'ateismo 69 aliena se
stesso, abdica; dunque un vero umanesimo non può non essere ateo. Nietzsche
vien subito alla mente, ma le citazioni potrebbero essere numerosissime. Per
esempio, il Brunschvicg; il quale non nega il valore trascendentale del
pensiero, ma lo intende in senso idealistico: non Pensiero in atto (Dio), bensì
quello che è infinito progresso creativo; Dio s’identifica con la Ragione
immanente. Se, invece, l’uomo ammette con la pura immaginazione un Dio trascendente aliena in
Lui i poteri del pensiero, che è l’Assoluto. Anche per Sartre un Assoluto in sè
è assurdo: l’idea di Dio è la proiezione all’infinito di un impossibile sogno
dell’uomo, un'illusione fondamentale, il tentativo fantastico di fare
coincidere la riflessione (il powr-Soî) con l'essere (l’enSoi); è precisamente
l’impossibile tentativo o di annullare l'oggetto nel puro soggetto o il
soggetto nella pura oggettività. L'uomo vuole essere Dio e non potrà mai
esserlo perchè Dio è assurdo; l’uomo è
una passione inutile ». Queste teorie concepiscono Dio come negazione
dell’uomo; ma Dio non nega, eleva la natura umana ad un destino soprannaturale;
dunque, da questo punto di vista, la sua idea non è alienazione, ma
inglienazione. I filosofi dell’alienazione religiosa s’immaginano un Dio alienante e poi
concludono che l’uomo, pensandovi, si aliena in Lui. Ma, in definitiva, cosa
aliena? Quello che compete alla sua natura, o quel che non gli appartiene?
Secondo i teorici dell'alienazione, proprio quello che non gli appartiene,
essere Dio. In altri termini, se si attribuisce all’uomo quello che spetta a
Dio, chiaro, se vi pensa e lo ammette, si aliena.... ma come Dio, non come
uomo. Non vi è, dunque, alienazione religiosa nè l’esistenza di Dio la
comporta, se l’uomo si attribuisce quel che appartiene alla sua umanità e non
quello che non gli spetta. Proprio chi divinizza l’uomo, lo aliena, lo fa
escire fuori di sè, lo rende ridicolo, caricatura di se stesso.La breve
indagine storico-critica sull’ateismo e le sue forme fondamentali, condotta con
animo aperto e dal punto di vista più favorevole, ci porta a concludere che,
sia quello vero e proprio come l’altro che non si dice esplicitamente tale o
non lo è in apparenza, non vanno oltre affermazioni dommatiche o razionalmente
contraddittorie. Infatti, l’ateismo assoluto, che nega senz'altro l’esistenza
di Dio in qualsiasi modo Lo si concepisce, quando pretende ad un qualche significato
filosofico, esprime la fiducia che la ragione umana abbia la capacità di
provare la sua affermazione; ma nessun ateo, che si sappia, ha dato una simile
prova razionale inconfutabile. Gli agnostici giustamente gli rimproverano
questo suo dommatismo, di non porsi il problema pregiudiziale se la ragione
abbia il potere di dimostrare vero il suo ateismo. Non solo, ma l’ateo non si
chiede neppure se alla ragione, schietta e naturale, non ripugni una simile
negazione proprio in quanto è naturalmente indirizzata all’Essere, origine e
fondamento di ogni verità e dello stesso lume razionale; l’ateismo dommatico,
in questo senso, è contro la natura dell’uomo, contro la ragione. Per
conseguenza, l’affermazione atea è irrazionale, dettata dalla passione »; è lo stato dell’insipiens, di
colui che non sa L'ateismo ZI quel che dice, proprio perchè la sua ragione è in
cattività ; condizione psicologica non avente alcun valore oggettivo e dunque
filosofico. D’altra parte, l’ateismo dommatico non trova aiuti o sostegni nella
scienza che non oltrepassa arbitrariamente i suoi limiti ma in tal caso gli aiuti sono apparenti
perchè forniti da una scienza apparente
in quanto a nessuna contraddice l’esistenza di Dio, neanche quella del Dio
personale. Nessuna psicologia scientifica può distruggere la superiorità della
coscienza e del pensiero e la loro inderivabilità dalla materia; l’esistenza di
Dio-Volontà non contraddice all’ordine delle leggi fisiche; anzi proprio la
scienza, se non premeditata e consapevole del suo oggetto e dei suoi limiti,
può riconoscere la convenienza razionale del Dio-Persona. In conclusione, una
ragione atea non è razionale nè ragionevole. Ma proprio quella convenienza nega
l’agnostico, il quale dà torto all’ateo che pretende di sapere che Dio non esiste, ma lo dà anche al
teista che presume di provarne l’esistenza; egli così non incorre nè nel
possibile errore del primo, nè in quello pure possibile del credente che, dal
fatto soggettivo del credere, conclude affermativamente. Lo agnostico non nega
e non afferma l’esistenza di Dio; /a ignora, perchè i mezzi conoscitivi di cui
l’uomo dispone non hanno la capacità di spingersi fino all’affermazione o alla
negazione. Infatti, essi hanno validità conoscitiva solo se applicati a ciò di
cui l’uomo può avere esperienza; ma dello Essere in sè non c’è esperienza e v'è
solo pensabilità »; dunque non c’è
possibilità di pronunziarsi con un certo fondamento razionale sulla sua
esistenza. Come abbiamo osservato, la verità della conclusione è legata a
quella del sistema, il quale non comporta che si affermi o si neghi l’esistenza
di Dio; ma è vero il sistema? (I) L’ateo non ubbidisce alla ragione, ma la
sottomette al suo ateismo, meglio ai motivi passionali che lo fanno ateo. Non
lo convincono ma l’ateismo gli è comodo:
vuole essere ateo; ha paura di Dio e Lo nega. 72 Filosofia e Metafisica
E’ inconfutabilmente dimostrato che la conoscenza umana è limitata solo al
mondo fenomenico (7)? Lo si afferma perchè, in partenza, si assegna alla
filosofia come suo oggetto proprio il fenomeno o il fatto e non il valore e
l’atto; si riduce tutta l’esperienza valida a quella sensoriale ignorando che
ve n°è una spirituale più profonda e vera, che, quando non s’identifica
superficialmente con i fenomeni psichici, attinge profondità metafisiche che
danno evidenza razionale al problema di Dio e della sua esistenza. Ma assegnare
alla filosofia come suo oggetto il fatto fisico e umano, è negare che ne abbia
uno proprio, ridurla alla scienza o alla storia, di cui diventa una metodologia;
dunque, si nega che l’esistenza di Dio è problema filosofico, perchè si nega
che vi sono filosofia e problemi propriamente filosofici! In altri termini, il
sistema che limita la conoscibilità al fatto e al fenomeno è una filosofia che
si ferma al di quadella filosofia vera e propria, al punto in cui si arresta la
scienza; cioè è una filosofia che deve ancora cominciare a filosofare
sull’esistenza di Dio e gli altri problemi! Non nego e non affermo; ignoro se
Dio esiste ». Lo agnostico che dice di
ignorare Dio è ateo di fatto lo è
chi lo ignora ma dice d’ignorarlo perchè
il sistema esige di fermarsi al fenomeno di esperienza; dunque perchè si ferma
ad un certo punto. L’agnosticismo ateo è la rinunzia a pensare fino in fondo,
il fermarsi alle cause penultime (scienza) senza spingersi fino al Principio
primo (metafisica). Può essere timidezza, ma anche timore (*);
teoreticamente Per citare un esempio
recente, anche se di scarsa consistenza speculativa, il Rensi, nella citata
Apologia dell’ateismo, poggia tutta la sua argomentazione su una concezione
materialistica dell’essere, ricavata da un’insostenibile interpretazione
materialistica di Kant: è soltanto ciò
che può essere visto, toccato, percepito (15); Dio non può essere visto,
toccato, percepito; Dio non è e pensare diversamente è alienazione mentale (35). (3) In chi nega Dio
o dice di ignorare se esiste, non di rado ha una influenza decisiva un motivo
psicologico di ordine pratico: giustificare la propria condotta di vita.
Gli spiriti forti sono spesso di una
estrema debolezza: fanno i bravi con Dio
», secondo un'espressione di Pascal, per l'incapacità di libeL'ateismo 73 è il
non osare, mancanza di vera vocazione filosofica, rinunzia alla bellezza del rischio metafisico; è un fermarsi », in contraddizione con la spinta
della ragione e perciò non razionale. Bacone l’attribuisce a superficialità (*); Pascal
al non pensare fino in fondo Athéisme.
marque de force d’esprit, mais jusqu’à un certain degré seulement a metà: Les
athées doivent dire des choses parfaitement claires. Ma proprio di chiarezza mancano: presentano come chiara
una conclusione che non lo è, per esaurito e definitivo un discorso che è
infinito, e, quasi timorosi di convincersi dell’esistenza di Dio, cercano
sempre qualche difficoltà per persuadersi del contrario ("). La ragione
può rifiutarsi di andare fino in fondo solo facendo violenza a se stessa,
facendosi schiava di interessi non razionali, mistificandosi,
autocontraddicendosi (°). Tuttavia, a parte queste obiezioni, resta valida la
pregiudiziale critica sulla capacità
della ragione di fondare rarsi da una passione anche volgare! Spesso, sotto
l’apparenza di crisi spirituali, della coerenza di vita e pensiero, dell’onestà
intellettuale, si nasconde l’attaccamento ad una passione: pur di non
rinunziarvi si mette la ragione a servizio di essa, la si costringe a
sottolizzare, a trovar pretesti e scuse fino a quando non l’abbia giustificata.
In tal caso, l’ateismo e l’agnosticismo ateo ( si vuole ignorare Dio perchè fa
comodo) scaturiscono da un fondo di immoralità. Certo non sono mancati e non
mancano atei onesti e modelli di virtù morali; ma non di rado l’onestà di
questi galantuomini dai costumi
impeccabili è satanica: virtuosi per la superbia di esserlo, identificano i
valori con la loro stessa persona, ne fanno una
posizione dell’io da mantenere e rispettare anche fino al sacrificio di
sè... a se stessi. (4) F. Bacone, De dignit. et aug. scient., 1, I, c. I, $
5; Certissimum est, atque experientia
comprobatum, leves gustus in philosophia movére fortasse in atheismum, sed
pleniores haustus ad religionem reducere ». (5) Pensées, Sect. III, 225, ed.
Brunschvicg.(6) Ivi, Sect. HI, 221. (7) Come è stato osservato (Piar, in Revue pratique d’apologétique », 15 gennaio
1907, 451), se a cercare Dio si fosse impiegato un decimo dell’energia spesa
per avvolgerlo di nubi, l’umanità avrebbe già posseduto la più ampia, precisa e
solida delle teodicee. (8) VoLtaire (ocit., 43), non certo sospetto di eccessiva
pietà religiosa, scrive: les athées sont
pour la plupart des savants... qui raisonnent mal »; e gli ambiziosi », i voluptueux », aggiunge argutamente, n’ont guére le temps de raisonner... ». 74
Filosofia e Metafisica una teodicea e di risolvere il problema teologico; ma
farla valere non significa affatto giustificare innanzi tutto se ha il diritto
di oltrepassare l’esperienza sensoriale, ma provare che questa esperienza, alla
quale la si vuol costringere e limitare, è inspiegabile senza oltrepassarla.
Tale istanza non può essere ignorata dall’agnosticismo e dal criticismo,
appunto perchè spinge la critica al limite del suo sviluppo più esigente. Ma
ammettere razionalmente l’esistenza di Dio non implica di necessità concepirlo
come l’Essere trascendente e personale, obiettano deisti e panteisti. Abbiamo
già discusso e confutato le dottrine che concepiscono Dio come Ente impersonale
e dimostrato la loro contraddittorietà : hanno il torto di chiamare Dio quel
che non lo è, ma è Forza », Causa »,
Legge naturale », Natura : in
questi casi Dio è una parola senza contenuto, o con uno diverso. Ma ciò è lo
stesso che negarLo e perciò il deismo e il panteismo sono atei: teismo verbale
(uso della parola Dio) e ateismo sostanziale (chiamare Dio un’altra cosa). In
breve, o si nega Dio e si abbia la franchezza di dirlo accettando l’assurdità
dell’affermazione; o non Lo si nega e allora si parli di Lui e non di altro:
Natura, Legge, Divenire, Idea, Inconscio, ecc. Un Dio impersonale non è
Dio, ma solo una parola mal adoperata,
un non-concetto, una contradictio in adjecto », dice lo Schopenhauer. Se si
riconosce la necessità razionale del teismo, questo esige che Dio sia lo Essere
intelligente e volente, Persona, con cui gli enti creati sono in rapporto di
analogia e non di univocità o identità. Questo indica il termine; qualsiasi
altro uso è spurio e fa che il teismo diventi puramente verbale. Da ultimo,
notiamo che Dio, oltre che una verità razionale, è innanzi tutto una verità
religiosa, rispondente a una esigenza precisa dello spirito umano; dunque, la
ragione è chiamata a provare non un ente qualsiasi, sia pure il Tutto L'ateismo
75 o l’Assoluto, bensì l’Essere, assoluto sì, ma trascendente e personale. Dire
che Dio è verità razionale non deve significare depauperazione della Sua idea
al punto di farne una pura nozione concettuale esprimente l’esigenza dell'Unità
o dell’Assoluto, della Legge di natura o della Causa fisica, in quanto la
ragione è chiamata a dare fondamento razionale al Dio della religione, non a
dimostrare l’esistenza di un ente, che soddisfa solo pure esigenze
intellettuali della ragione stessa con la pretesa di ridurre ad esse quelle
religiose, magari dicendo che, in tal modo, queste ultime, dallo stato ingenuo
o d’immaginazione, vengono elevate a quello critico o di scientificità. Visto
così il problema, quanti dicono che Dio è il Divenire o la Natura, l’impulso
morale o l’Inconscio non parlano del Dio che gli uomini pregano, adorano,
amano. D'altra parte, se diamo a quello che chiamano Dio il senso vero che ha
la parola, con tutto il rispetto per pensatori insigni, scoppia il ridicolo a
pensare che si possa adorare, pregare, invocare, amare l’Idea che si
dialettizza, l’Umanità, il Progresso, l’Inconscio, la Storia, ecc.; scoppia
perchè si fa rappresentare a questi concetti una parte che non si addice loro,
e al tempo stesso si rifiuta la religione per accettare l’idolatria. Non è
stato forse ridicolo il Comte con la sua religione dell'Umanità »; chi si è
fatto sacerdote della religione della libertà »; quel tale adoratore della Dea-Ragione
che, al tempo della Rivoluzione dell’ 89 dichiarò di essere l’ennemi personnel
de Jesus Christ»? Ed è ridicolo oggi chi afferma che la verità è il Partitoe
basti realizzare una società socialmente ed economicamente perfetta perchè si
estingua nel cuore dello uomo l’esigenza religiosa nella riconquistata
coscienza che Dio è una sua creazione. Queste forme di ateismo aperto o
mascherato, sotto l'apparenza dotta, sono forse tra le più 76 Filosofia e
Metafisica grossolane ed ingenue e dell’ateismo vero e proprio non hanno il
senso di angosciosa sofferenza e di disperazione sincera, che meritano
comprensione e rispetto. Bayle, Pensées diverses écrites è un docteur de
Sorbonne è l’occasion de la comète qui part au moins de décembre 1680,
Rotterdam; VoLtarre, Dictionnaire philosophique, Paris, Flammarion; L. SrerHen,
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contemporain, Paris, Librairie Arthème Fayard. Inoltre: Athdism di vari Autori;
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philosophie a cura di A. Latanpe, Paris, Alcan, 1938, 4* ediz., vol. I; Francx,
Dictionnaire des sciences philosophiques, Paris, 1875; Ateismo, Enciclopedia italiana », vol. II;
Agnosticisme, Athéisme, Panthéisme,
Dictionnaire apologétique de la foi catholique »,. Paris, Beauchesne. Assumiamo l’esistenza di Dio come
un'ipotesi, ma, anche a partire da questo minimum, due questioni pregiudiziali
simpongono: 4) che cosa s'intende per Dio; 5) se è razionalmente fondata
l’ipotesi . Quale la definizione nominale di Dio? Ogni parola, perchè tale,
esprime qualcosa, è usata con un senso; dunque, quando gli uomini pensano
pronunziano scrivono il termine Diogli danno un certo significato, anche se con
sfumature diverse e con un senso ammettiamo pure non sempre univoco. Tuttavia,
quale che sia il grado di equivocità
Tale enunciazione rigidamente scientifica del problema sconcerterà
quanti, ricchi d’intensa vita religiosa e di robusta fede, contestano che si
possa persino parlare di problema
dell’esistenza di Dio, tanto per loro tale verità è fuori discussione. Osservo:
4) non tutti gli uomini si trovano in questa condizione; 5) l’esistenza di Dio
per noi non è, di primo acchito, un’evidenza; c) la fede non è del tutto
oggettivabile, vale per chi la possiede, ma da sola non è un argomento per convincere
chi ne è privo che Dio esiste; pertanto, a chi non crede nella Sua esistenza è
necessario, anche se non sufficiente, provare che l'affermazione Dio esiste è una verità, cioè una
proposizione valida per ogni essere razionale. D'altra parte, come ho accennato
sopra, la fede ha un grado non trascurabile di oggettivabilità; infatti, chi ha
fede in Dio, una fede serie, un’interiore ed intensa vita religiosa, è
portatore agito ed agente ad un
tempo di questa verità; in tal senso,
con il suo pensiero e la sua azione, con la
parola e le opere, ne è la
testimonianza ». La potenza penetrante del suo esempio », che incarna una verità e la esprime,
ha una indubbia forza indicativa e comunica80 Filosofia e Metafisica nell’uso
del termine, chi afferma o chi nega che esiste Dio, come chi dice di non
saperlo, in un certo modo, sa di che cosa afferma, nega, ignora l’esistenza;
d’altra parte, la formulazione di un'ipotesi è possibile sulla base di alcuni
dati reali che si cerca di spiegare, ma che non lo sono ancora: appunto si pone
l’ipotesi come possibile spiegazione; se provata, si assume come verità
oggettivamente valida. Quali sono i dati reali che autorizzano l’essere
razionale a porre l’ipotesi Dio »?
L’uomo e il mondo, la realtà esistente, in cui gli uomini vivono, pensano,
operano. Se porto la riflessione sull’ente esistente che sono, mi avverto
inserito in un universo di altri enti materiali, di organismi fisici; di altri
enti che, come me, oltre alla vita organica, ne hanno una morale, cioè la
libertà di orientare con responsabilità la propria condotta; dunque, sul piano
fisico e su quello morale, mi avverto in relazione con tutti gli enti
dell’universo, da essi influenzato e su di essi influente. Queste prime
riflessioni mi pongono di fronte ad un groviglio di problemi essenziali. So di
non essere sempre esistito, almeno nel modo in cui esisto e posso esistere nel
mondo; di avere pertanto un principio al pari di ogni cosa in esso esistente;
dunque, tutte le cose che sono non sono sempre state, nè saranno sempre: domani
non sarò, tutti gli estiva, un potere indiscusso di stimolare la riflessione,
suscitare il problema, sbloccare il pensiero, mettere in moto la volontà e
attizzarne lo slancio, spingere la ragione a realizzare tutta la sua forza
normale, cioè a porsi all’ altezza di dimostrare. Non dà convincimento
razionale, ma genera una condizione psicologica, che è più di una semplice situazione »: stimola a chiamare a raccolta
tutte le energie spirituali, affinchè costituiscano quella forza che
dà forza alla ragione, o meglio la mette nella condizione di sviluppare
la sua forza totale. Pertanto, l'impostazione scientifica data al problema non
significa che esso sia puramente di tale natura, ma soltanto che vogliamo
concedere il massimo all’istanza critica; anche lo stesso termine problema è da noi inteso in un senso
particolare. Per cvitare equivoci diciamo fin d’ora che non c'è ragione al
livello normale, totale o integrale, senza fede e non c'è fede senza ragione;
dunque, escludiamo il puro razionalismo, che è una ragione ancora al di sotto
delle sue capacità e della sua profondità, comc il puro fideismo, in quanto
senza la ragione non si salva la fede, che, come fede di un essere razionale,
non può essere dalla ragione disgiunta, nè la ragione negare. L'esistenza di
Dio 81 seri, che oggi sono, domani non saranno; ho, ciascuna cosa ha, un
principio; ho, ciascuna cosa ha, una fine. La contingenza e la temporalità
della mia esistenza e di ogni esistente in questo mondo è un fatto di
esperienza; inizio e limite nel tempo: entro e passo, ogni essere passa. E
allora, donde vengo? qual’è il principio del mio esistere? Passo; dove vado?
Finisce tutto là, preda di rapaci o in una fossa? o passosoltanto, transito,
per una destinazione che è la finalità suprema della mia esistenza? Sono
contingenza e limite e morte, miseria e dolore, ma la coscienza di esserlo mi
fa superiore a quanti esseri non lo sanno; tuttavia, anche se mi eleva, non fa
che sia esente da miseria e dolore. D'altra parte, proprio l’essere un ente
cosciente, pensante e volente, mi pone altri problemi: se sono coscienza, donde
la coscienza e il pensiero? Non la materia può essere principio di quel che
materia non è e di cui essa è priva, nè ha alcun fondamento l’ipotesi della sua
evoluzione, perchè non può mai spiegare il nascere dell’attività pensante e
riflessiva. Donde la sua presenza in me, e dunque nel mondo? Se penso, penso
pure qualcosa, oggetto del mio pensiero; dunque penso qualcosa che è vero, in
quanto pensiero non sarei se verità non fosse. Donde la verità? Son io,
contingente e finito, la fonte creatrice di essa, che era prima che entrassi
nel mondo e lo sarà anche quando ne sarò escito? Nella natura vi è un ordine
intrinseco cui ubbidisce l’evoluzione o il divenire naturale, ma che non riesco
mai a penetrare fino in fondo, a cogliere nella sua totalità; vi è come un
segreto nelle cose che mi meraviglia e stupisce. Nè la mia volontà è arbitrio
cieco: mi conduco nella vita secondo norme, a cui riconosco, anche quando ad
esse mi sottraggo, validità, forza obbligante. Donde queste norme? Della mia
condotta mi sento responsabile, anche quando sembra che l’ambiente mi domini
fino al punto da fare apparire la mia azione la risultante necessaria della sua
influenza 82 Filosofia e Metafisica determinante; responsabile appunto di non
avere saputo reagire ad esso, di non averlo trasformato. Donde la mia libertà ?
In breve, l’esistente contingente limitato finito è consapevole, in quanto
essere razionale, che vi è nel mondo naturale un ordine che lo governa e in lui
un ordine di pensiero o di verità e uno morale o di bene non contingenti e non
precari, indipendenti dall’inizio e dalla fine della sua esistenza; dunque, io
contingente e finito ed ogni cosa esisto in quanto partecipo dell’ essere »,
perchè sono in questa partecipazione,
altrimenti non sarei affatto. A_ questo punto: 4) ogni esistente contingente e
finito non è il principio di se stesso,
quantunque sia la causa di ogni atto
della sua vita; 5) non è principio di quanto è di non-contingente in lui
contingente, quantunque sia la causa di quanto pensi ed operi in conformità di
esso. Tali riflessioni sono sufficienti per formulare la seguente ipotesi:
esiste un Essere o un Principio intelligente
altrimenti non potrebbe essere principio di me persona », soggetto intelligente e volente e
di quante persone sono state, sono e saranno ; trascendente se no sarebbe natura ocosmo ; esistente da
sè altrimenti sarebbe un ente
contingente, 46 aglio , cioè ipsum esse subsistens, e perciò perfettissimo,
Principio assoluto di tutte le cose, dell’ordine del pensiero e della volontà
come di quello della natura, sorgente di ogni esistenza e Provvidenza
governante quanto fa esistere? È l'ipotesi Dio. Vi è dunque una reale
condizione umana, e del mondo su cui l’uomo riflette, che autorizza l’ipotesi
dell’esistenza dell’Essere intelligente, trascendente, esistente da sè e
provvidente, a cui si dà il nome di Dio; eliminabile solo nel caso che fosse
possibile dimostrare la non-contingenza di ogni singolo ente esistente e del
mondo nella sua totalità, dare una spiegazione completa ed esaustiva della
realtà umana e fisica da renderla
superflua »; in altri termini, solo se si L'esistenza di Dio 83 dimostra
razionalmente che il nostro mondo basta a se stesso, è autosufficiente,
metafisicamente autonomo ed indipendente, fondamento assoluto di sè a se
stesso. Ma se così fosse il fatto che
dei filosofi lo abbiano immaginato non è una soluzione razionalmente
valida l’ipotesi Dionon sarebbe mai nata. Si può anche sospendere 0 metterla da parte assieme ai
problemi che sempre la fanno e la faranno nascere, ma ciò comporta la rinunzia
alla suprema conoscenza metafisica, ad una soluzione adeguata dei problemi
radicali non solo della filosofia, ma anche della più ingenua coscienza umana e
direi del più elementare senso comune, dove pure quei problemi sono presenti.
Posizione, dunque, insufficientemente filosofica o prefilosofica o afilosofica,
quale è quella di un sapere puramente empirico ed anche scientifico nel senso delle
scienze naturali; positivismo, quali che siano le sue sfumature o camuffamenti,
anche quando si chiama filosofia dello
spirito 0 storicismo », pretesa
risoluzione o dissoluzione della filosofia nelle scienze, del valorenei fattio nelle opere », del perchè nel come ». Ma la ricerca speculativa
comincia precisamente dall’insufficienza di fronte ai massimi problemi del
sapere scientifico e di quello storico, i quali, pertanto, sono ben lungi dal
poter risolvere in sè la filosofia, che li oltrepassa e nella quale, da ultimo,
trova fondamento la Risulta senza
fondamento l’ipotesi secondo la quale ogni singola cosa esistente è contingente
e temporanea, mentre il mondo in sè e nella sua totalità è necessario ed
eterno, non svente un principio e una fine: è sempre stato € sempre sarà così
com'è, pur divenendo nascono, crescono e
muoiono gli esseri particolari. Chi così
pensa resta sul piano naturalistico, e costruisce una metafisica puramente
naturalistica; fa della cosmologia e non si pone ancora il problema primo della
filosofia prima ». Infatti, cerca e stabilisce le cause del divenire », ma non si pone la
questione del suo principio e delle sue
stesse cause immanenti; oppure confonde la
sufficienza del mondo ha in se
stesso le cause che lo governano con la
sua autosufficienza »: ha in sè il
principio da cui è. In tal caso, il mondo si assolutizza e l’ipotesi Dio diventa superflua; ma tale irreale assolutizzazione è un'estrapolazione
arbitraria del concetto di sufficienza del mondo, o una limitazione del
problema al naturalistico e scientifico come », che non è ancora il problema
metafisico e filosofico del perchè ». 84
Filosofia e Metafisica loro stessa validità conosativa. Per conseguenza, anche
la più embrionale posizione filosofica non può evitare l’ipotesi Dio », che pertanto risulta ineliminabile e
razionalmente possibile, conveniente e fondata, ancor prima che razionalmente
provata. Se l’ipotesi Dio non è
eliminabile, in quanto ogni ente e il mondo nella sua totalità non risultano
metafisicamente autosufficienti, consegue che ha origine dalla coscienza dei
nostri limiti e della nostra insufficienza. Non che nasca dalla mancanza », da ciò che non siamo », quasi dal nostro non-essere », in quanto ciò che non è non è e
non pone problemi; nasce da quel che siamo, dal nostro essere », cioè dalla nostra realtà relativa e
contingente, ma sempre realtà »; dalla
nostra condizione di esseri reali, sufficienti nei limiti del nostro essere
umano, ma non autosufficienti; dunque dal senso radicale (metafisico) di
dipendenza di una realtà noi e il
mondo da un'altra Realtà possibile fino a quando siamo ancora
nell’ipotesi; in breve, dal fatto che abbiamo coscienza di essere e perciò di
partecipare dell’essere. Una filosofia
dell’esistenza », nella quale quest’ultima è una possibilità fuori dell’essere, è semplicemente
una filosofia del nulla e il nulla della filosofia. 2. Di quale Essere si vuole dimostrare
l'esistenza quando si pone l'ipotesi Dio
». Non di un essere qualunque », in
quanto i dati reali da cui sorge l’ipotesi esigono la dimostrazione
dell’esistenza di un essere adeguato alla soluzione dei problemi posti: (3)
Sospendere l’ipotesi Dio », come vedremo
a suo luogo, è proiettare ogni ente, e l’esistenza in generale, al di fuori
dell'essere, gettarli nella pura empiricità, privarli della loro onticità; è
fermarsi al mero fenomenico, alla esistenzialità priva di essere, che è il
nulla; ma l’esistenza, appunto perchè tale, implica l’essere, senza di cui non
è. Pertanto, il problema di Dio è interno, non esterno, all’ente pensante;
anche quando lo si pone come ipotesi, è già molto, di più. L'esistenza di Dio
85 a) origine del mondo e del suo ordine; è) dello spirito, essenza dell’uomo,
e dunque dell’ordine di verità e di bene che è in lui e lo rende capace di
conoscere e volere, di pensare il vero e di agire secondo una legge morale, di
libertà e responsabilità; c) finalità dell’universo, dell’azione di ogni
singolo essere spirituale e del significato dell’umana istoria. Meraviglia e
stupore l’ordine dell’universo, che non riesciamo interamente a comprendere nell’orizzonte della nostra
mente; stupore una mente che pensa, la complessità della più semplice
sensazione, la capacità di scoprire una verità, di agire liberamente secondo
una legge; meraviglia e stupore l’enigma che è ogni essere vivente, il mostro uomo, il filo d’erba. Dunque l’Essere
che poniamo come ipotesi, esplicativo di tutta la realtà, non possiamo pensarlo
se non incondizionatamente ed immensurabilmente superiore a quanto è chiamato a
spiegare, altrimenti apparterrebbe all’ordine umano e naturale, sarebbe una
realtà da spiegare come le altre e non spiegante tutte le altre; ma se ci
oltrepassano per la loro enigmaticità il mondo umano e quello naturale, che pur
non bastano a se stessi e dunque mancano di realtà piena, a maggior ragione ci
oltrepassa infinitamente l’Essere che per ipotesi poniamo come esplicativo di
tutto e che non può non essere di ordine diverso. Di un ordine appunto
trascendente e soprannaturale e perciò impossibile, per la nostra mente,
nell’ordine naturale, a penetrarsi nella sua essenza: ogni conoscenza di Dio è
conoscenza per mezzo di Dio; non la creatura Lo conosce, ma Egli si fa
conoscere rivelandosi. L’enigma del mondo naturale ed umano rimanda al Mistero
Divino. D'altra parte, la definizione nominale di Dio come Essere intelligente,
trascendente, esistente da sè e provvidente, infinito, onnisciente, ci fa
acquistare una più netta coscienza della finitezza nostra e di ogni cosa, dei
nostri limiti e della nostra insufficienza; in breve, della nostra dipendenza
essenziale dall’Essere per ora ipote86 Filosofia e Metafisica ticamente posto.
Di fronte a Dio, infatti, la creatura si sente
niente »; l’immensurabilità con l’Essere la spinge ad annichilirsi,
senza che tuttavia perda la consapevolezza inequivocabile che anch’essa è
essere che vive, sente, pensa e vuole nell’essere. Così l’ente finito, imbevuto
dell’Essere, secondo un'espressione di Giovanni di S. Tommaso, avverte
centuplicate le sue forze ed irresistibile il bisogno di espandersi nell'azione
operosa e molteplice. Appare evidente che il
problema umano di una possibile esistenza di Dio e la sua trascrizione
in termini di problema filosofico
nascente dalla riflessione sulla condizione dell’uomo e del mondo, non
discordano da quelli in cui si esprime la
coscienza religiosa quando onora, prega, adora Dio. Vi è una convergenza
di sensi, solo apparentemente diversi, nell’unico dato alla parola Dio », che univocamente esprime la posizione
umana del problema, la riflessione filosofica su di esso e l’esperienza o la
vita religiosa. Pertanto la. dimostrazione razionale, se possibile,
dell’ipotesi Dio », deve tener conto
della realtà umano-naturale, dei suoi problemi reali, da cui l’ipotesi nasce, e
dell’esperienza religiosa di cui Dio è fondamento e oggetto assoluto; sarà
tale, cioè, che dimostri realmente quello che s'intende con la parola Dio. In
breve: la riflessione filosofica, chiamata a precisare le formule e a dare
possibilmente la giustificazione razionale dell’ipotesi dimostrandola verità
universalmente e necessariamente valida, deve rispondere a suzta la domanda da
cui l’ipotesi nasce, cioè alla condizione umana nella sua totalità e, per
conseguenza, anche alla coscienza religiosa, a cui appartiene in proprio il
termine Dio. Oltre a ciò, la forza normale della dimostrazione si misura
sull’uso del termine Dio in maniera rispondente a come esso è presentato dalla
condizione umano-naturale e religiosa; altrimenti, alla fine del discorso, pur
dicendo di avere o no provato la verità dell'ipotesi, si è in effetti provata o
non provata altra cosa. L'esistenza di Dio 87 La risposta filosofica, chiamata
ad adeguare la integralità della realtà da cui sorge l’ipotesi Dio », deve essere soluzione integrale della
filosofia integrale. L’ipotesi va posta in discussione, così come essa è,
affinchè la filosofia indaghi se sia possibile dimostrarla razionalmente così
come essa è, se razionale e ragionevole »; in caso affermativo, la realtà
ha la sua spiegazione integrale e la religione la garanzia del fondamento
razionale (“). L’ipotesi Dionasce da una
reale problematica umana; la ricerca razionale è impegnata a confermarla o a
smentirla, a dire se e fino a che punto l’esistenza dell’Essere intelligente e
trascendente, creatore e provvidente, sia verità razionalmente provata e perciò
oggettivamente valida, o una pura verità di fede, o un mero flatus vocis.
3. L'esistenza di Dio non ci è nota quoad nos ». Come abbiamo detto,
l’ipotesi Dio » nasce dall’esistenza
degli enti contingenti e finiti, come tali non principio di se stessi; per
conseguenza la prova della verità, o non, dell'ipotesi non può avere altro
punto di partenza che il mondo :1mano e naturale. Ciò esclude che vi sia
un’intuizione o conoscenza immediata dell’essere di Dio, che, secondo la
religione cristiana, è di ordine soprannaturale e non possibile per sua natura
ad un'intelligenza finita quale quella umana, i cui oggetti devono essere ad
essa proporzionati. Dunque, la mente
supposta la dimostrazione della ipotesi
non può conoscere Dio direttamente e in ciò che lo costi(4) La
definizione nominale del termine Dio, necessaria per sapere di che cosa si vuol
dimostrare l’esistenza e se l'ipotesi sia razionalmente fondata, non pregiudica
in alcun modo la soluzione del problema. Si tratta di una semplice ipotesi di
lavoro: la risposta può essere totalmente o parzialmente negativa o positiva,
come potrà anche arricchire di nuovi elementi la definizione nominale o respingere
alcuni di quelli in essa contenuti. Per l'impostazione del problema
dell’esistenza di Dio e limitatamente ad essa abbiamo tenuto presente in
qualche punto lo studio di F. Van SreeNnsERGHEN, Le problème philosophique de
l’existence de Dieu, Revue philosophique
de Louvain », nn. 5, 6, 7, 8, 1947. 88 Filosofia e Metafisica tuisce
(quidditative), ma solo indirettamente per cognizione mediata ed analogica (°).
Se l’esistenza di Dio fosse per sè nota quoad nos (6) non vi sarebbe problema
nè bisogno di dimostrazione razionale, ma solo una verità evidente per se
stessa. Invece vi è proprio problema, anche se quanti hanno fede non sentono
necessità di alcuna dimostrazione tanta è la forza del loro credo, anche se il
problema si chiarisse, poi, come esplicitazione di un implicito originario e la
dimostrazione come consapevolezza di una presenza. Ma evidentemente, altro è
l’esperienza vissuta, altro la dimostrazione razionale, anche se quest’ultima
non può e non deve eliminare o abolire la prima, dalla quale pur restando (come
deve) distinta, può ricevere e riceve forza. Dunque necessità della
dimostrazione, dato che Dio non è per sè noto rispetto a noi; ma necessità
anche di far convergere ed operare in essa quanti elementi legittimi in noi e
nelle cose possano concorrere a renderla più efficace e completa. In altri
termini, non dobbiamo privarci di nulla di quanto è a nostra disposizione e il
cui uso è razionalmente consentito. 4.
Da quale dato reale è conveniente partire per provare la verità
dell'ipotesi Dio ». È vero che di Dio
non vi è intuizione immediata e vi è problema della sua esistenza, e possibile
dimostrazione il cui punto di partenza sono le cose dell’ordine naturale,
oggetto proporzionato alla nostra mente; ma l’espressione realtà naturale non comporta, anzi esclude,
un significato restrittivo quale quello di cose materiali od oggetti del mondo
esterno. Tra gli enti dell’ordine naturale vi è anche l’uomo, realtà
spirituale, che è intelligenza e volontà, avente un ordine di verità e di bene
secondo cui ha l’obbligo di regolare il pensiero e l’azione. La mente umana,
nella sua condi S. Tommaso, S. TA., Ia, q. 12, a. 4. (6) Ivi, Ia, 2, 1; Quaest.
disput. de veritate, 10, 12 L'esistenza di Dio 89 zione finita e mutevole,
conosce solo cose dell’ordine naturale, ma, da un lato, ha una naturale
aspirazione all’in-finito e all’immutabile che non potrebbe avere se, in
qualche modo, non avesse di esso una certa nozione, sia pure oscurissima e
confusa; dall’altro, per quanto è capace di verità intellettuale e morale,
manifesta qualcosa dî necessario ed immutabile, dato che son questi gli attributi
convenienti all’essenza della verità; che, se è, non può essere contingente e
mutevole. Conveniamo che la verità di cui l’uomo è capace e la sua mente scopre
non è la Verità in sè, bensì quella confacente alla natura dell’uomo, ma essa:
a) non è contingente e mutevole; 5) è fecondatrice della mente; c) per la sua
validità universale, nel suo grado è assoluta. Lo spirito e il suo contenuto di
verità, se vi è verità, sono dunque dati reali diversi dagli altri; se sono
superiori ad ogni altro dell’ordine naturale, sono le massime condizioni reali
che danno origine all’ipotesi Dio ».
Infatti, se l’uomo desse a se stesso le verità fondamentali secondo cui giudica
e i princìpi morali secondo cui liberamente agisce, non sarebbe più finito e
contingente, nè la sua mente mutevole e limitata; dunque, è contraddittorio che
un essere siffatto sia autore di principî necessari e universali quali appunto
quelli del pensiero e dell’azione. Se si dimostrasse che l’uomo (la mente umana
in generale) è autore dell'ordine della verità e della legislazione morale,
sarebbe egli l’essere infinito, necessario e assoluto; l'ipotesi Dio non si affaccerebbe alla nostra mente,
venute meno le condizioni che la fanno nascere. Dunque l’uomo sa che: 4) non è
il principio che fa esistere le cose naturali e le governa secondo un ordine;
5) non è principio di se stesso, della vita organica e spirituale, della sua
intelligenza e volontà come dell’ordine che le informa. Sa, in breve, che egli
e le cose sono dati reali, e che quanto di universale e necessario è capace di
scoprire e conoscere è anch’esso un dato 90 Filosofia e Metafisica reale; son
proprio questi dati che pongono il problema del loro principio, cioè fanno
nascere l’ipotesi Dio nel senso sopra
definito. Dunque, se il punto di partenza è dai dati reali, si può partire da
uno quale che sia, ma ci sembra opportuno: 4) muovere da quello più idoneo per
la prova dell’ipotesi, che, presentando maggiore ricchezza e complessità,
accrescerà la forza della dimostrazione; senza escludere gli altri possibili
punti di partenza, in modo che le eventuali prove si potenzino reciprocamente e
conferiscano alla dimostrazione tutta la sua forza normale. D'altra parte, se
dei dati reali scelgo come punto di partenza le cose materiali è evidente che,
perchè nasca il problema della loro contingenza ed origine e da esso
l’ipotesi Dio », è necessario che
rifletta su di esse, mi ponga il problema della loro ragion d’essere e
significato, cioè che trascriva il mondo esterno in termini mentali o di
pensiero; ma porselo come problema è già trascriverlo in questi termini.
Pertanto non sono le cose come tali che pongono il problema della loro origine
e spiegazione e con esso l’ipotesi Dio
», ma il mondo esterno fatto oggetto di riflessione; anche in questo caso, la
prova non può non passare dal pensiero, come meglio sarà chiarito in seguito.
Posto ciò, possiamo anche accettare la nota tesi tomista che l’esistenza di Dio
probari debet a posteriori, ma a patto che ci si intenda sul significato dei
termini. Se 4 posteriori significa che non vi è intuizione diretta ed immediata
di Dio, concordiamo perfettamente che la Sua esistenza va provata 4 posteriori
e che di Dio c’è solo conoscenza mediata e analogica. Se, invece, s'intende che
bisogna partire dalla natura fisica per scoprire la causa non causata del suo
esistere e che non vi è nessun dato nell’uomo, nella vita dello spirito e la
stessa vita dello spirito, da cui è possibile partire, anche prescindendo dal
mondo esterno, respingiamo tale significato dell’ posteriori, pericolosamente
restrittivo in quanto per il suo esclusivismo, già come punto L'esistenza di
Dio 9I di partenza, è insufficiente a dimostrare, nel caso che la ragione umana
lo possa, la verità dell’ipotesi, contenente una ricchezza di elementi da esso
inadeguabili. Non si tratta solo di dimostrare se il mondo abbia un Architetto,
una Causa prima, una Legge incondizionata, concetti inadeguati ad esprimere
quanto è incluso nella definizione nominale di Dio. Inadeguati anche i concetti
di Essere supremo e di Ente realissimo », che, pur entrando nella
definizione e nella rappresentazione di Dio al pari déi precedenti se bene
intesi, indicano solo un Ente che può essere l’ Atto puro e immutabile di
Aristotele, la Sostanza unica e infinita
di Spinoza, il Legislatore dell’universo
degli Illuministi ecc.; termini tutti inadeguati ad esprimere il contenuto -di
quel che s'intende quando si dice Dio »,
la cui esistenza qui si cerca dimostrare. Nessuno di questi concetti Lo indica
come l’Essere personale creatore e provvidente, cioè contiene quegli attributi
che la coscienza religiosa od anche la semplice condizione umana gli
attribuiscono. Ora, come sopra abbiamo chiarito, l’ipotesi Dio nasce proprio dalla condizione umana, che
Dio definisce in termini non dissimili da quelli della coscienza religiosa, ed
è proposta alla ragione speculativa in tw4ta la ricchezza del suo contenuto.
Pertanto la dimostrazione richiesta è di un Dio che soddisfi tutta la problematica
della realtà umana della vita spirituale
e la stessa vita spirituale, come la sua esperienza religiosa oltre a quella della realtà fisica. Non si
può monopolizzare il problema dell’esistenza di Dio; è necessario che la
dimostrazione sia tentata con la presenza operante di tutti gli elementi e di
tutti gli strumenti possibili, affinchè abbia tutta la sua forza e, nello
stesso tempo, soddisfi tutti i problemi e i dati reali che l’hanno sollecitata.
Si tratta di un problema che interessa il fondamento assoluto della realtà:
come totale è la sua portata, così totale devono essere l’impegno e la
possibile soluzione. Sarà razionale e dunque lo92 Filosofia e Metafisica gica;
ma la logica che esige, affinchè tutto il reale vi sia presente e tutti i sensi
del problema vi si trovino concorrenti e solidali nella loro concretezza, è la
logica dell’ integrazione », di cui quella dell’ esclusione è solo un momento
nella prima contenuto. Pertanto a noi sembra che non siano da trascurare tutti
quei dati psicologici che, senza essere la prova, ne sono i preliminari:
le disposizioni dello spirito nel loro
insieme fanno parte dei prolegomeni di
una dimostrazione concreta dell’ipotesi
Dio». Evidentemente non si tratta di
metterle al posto dell’argomentazione razionale, ma di giovarsi delle
migliori o più favorevoli condizioni perchè la stessa forza della ragione possa
esplicare tutta la sua capacità. Per esempio, liberarsi da alcuni
pregiudizi e il pregiudizio è di natura
psicologica è una specie di
purificazione che agevola l’intrapresa della ragione; riconoscere che alcuni
impedimenti sono apparenti o illogici
quali la pretesa che di Dio si abbia percezione immediata in modo da
coglierne l’essenza senz'ombra di oscurità e mistero, o che la metafisica possa
sottostare al metodo sperimentale, ecc.
è già un buon avvio. Così pure acquistar coscienza dell’estrema
importanza del problema, rendersi conto che dalla risposta positiva o negativa
dipendono l’orientamento, il valore e il significato della nostra come di ogni
altra esistenza, è una disposizione non accessoria, in quanto rende cautissimi
nell’argomentare e concludere, estremamente vigili e tesi sì da potenziare al
massimo del loro rendimento tutte le risorse spirituali ed intellettuali:
l’attenzione si fa attentissima, intensa, concentrata. Queste disposizioni
hanno un valore più che psicologico: comportano la rettitudine della coscienza.
Nè è da trascurare anche se non deve
soL'esistenza di Dio 93 stituire la dimostrazione l’esperienza religiosa sia comune che
privilegiata, quella delle grandi umili anime mistiche e dei grandi spiriti
religiosi, esempio dell’alta tensione operante esigita da una questione della
portata di quella che qui si discute. Son tutte forze concorrenti, anche se non
determinanti in sede filosofica, alla realizzazione di quel clima spirituale »,
intellettuale e morale insieme, confacente ad un problema quale è quello
dell’esistenza di Dio. In breve, crediamo che, per scoprire e penetrare tutta
la verità della prova e poterle aderire, sia necessario conquistare la pienezza
del nostro essere e ad essa affidarci. Ciò non significa che l’adesione alla
prova dipenda senz’altro dalla nostra accettazione volontaria o dal rifiuto,
come se essa fosse priva di verità
attraente », ma che tale condizione è elemento essenziale per cogliere
tutta la sua forza razionale. Chi più ama, più conosce; non che l’amore faccia
essere la verità di ciò che è vero, ma dà maggior penetrazione alla mente e
contribuisce a farle scoprire ed intendere la verità. Sempre dal punto di vista
dei dati psicologici, l’odierno clima esistenzialista », quando non è deteriore
retorica o decadentismo e maniera, come presa di coscienza della condizione umana, senso dell’indigenza, del
peccato, della morte ecc. ha la sua importanza in sede di preparazione alla
prova (7), anche se da solo insufficientissimo, in quanto l’aspetto essenziale
di tale preparazione è proprio il senso della positività del nostro essere,
senza della quale la L'esistenzialismo, infatti, ha riportato sul tappeto della
discussione, anche se spesso con travisamenti notevoli, la metafisica e i suoi
problemi e ha contribuito a richiamare l’attenzione sull'esperienza e i valori
religiosi. In qualche modo, anche se entro certi limiti e in maniera molto
discutibile, ha come smondanizzato »,
esso mondano, Ja filosofia riconferendole un certo carattere teologico. Ciò
spiega, perchè i cosidetti sostenitori del
nuovo razionalismo marxista e di tanti
nuovi umanesimi assoluti combattono anche le forme atee di
esistenzialismo, preoccupati che questo
stato d’animo », per sua natura, alimenti sotto le ceneri del finito un’esigenza religiosa e trascendentistica.
Spiega ancora perchè qualche inguaribile cultore di scienze mondane abbia sprezzantemente
qualificato la filosofia di un pensatore di rilievo una specie di praefatio ad missam ». 94 Filosofia e
Metafisica condizione umana sarebbe pura possibilità, illusione, niente: non vi
sarebbe problema dell’uomo e della sua indigenza, nè di Dio (*). Ma anche nella
sua pienezza, la preparazione psicologica non è la soluzione del problema, non
data esclusivamente da un'esperienza di tal natura nè solo da quella religiosa,
come sostiene il Bergson; è come dire che non vi è prova razionale
oggettivamente valida dell’esistenza di Dio. D'altra parte, come ancora dice il
Bergson, con un significato che non è precisamente il nostro, la soluzione va
posta ed affrontata sperimentalmente »,
cioè tenendo conto di tutti i fazt1, anche di quelli di natura psicologica, in
quanto la vita stessa dello spirito è un fatto, la più alta realtà data alla
nostra esperienza. Perciò come metodi e dati psicologici non debbono escludere
od ostacolare metodi e dati razionali, allo stesso modo questi ultimi non
debbono fare a meno dei primi, quasi il problema dell’esistenza di Dio fosse
una questione di ragione astratta, di pura logica formale, di geometrica
razionalità e fosse possibile operare un’astrazione dell’uomo concreto, quando,
come abbiamo visto, dalla sua vita integrale nasce l’ipotesi Dio ». Non comprendiamo perchè nessuno
pretende di liberare il poeta,
l’artista, lo scienziato da quelle condizioni preliminari che favoriscono la
risposta al bello o al vero e perchè invece si vuol pretendere (8) L'esistenza
come pura possibilità non è, è la non
esistenza, cioè un non-senso. Non c’è dramma nè tragedia nè angoscia, in quanto
fin dall’inizio ci si colloca nel nulla; si ha la certezza che la partita è
perduta in partenza, dunque il giuoco è fatto. Ecco perchè l’esistenzialista
s’inebria del nulla e dell’assurdo dell’esistenza: non c’è più rischio, la
catastrofe è scontata in anticipo; la tragedia, nel suo stesso porsi, si
tramuta in farsa. Lo stesso si può dire del dialettismo dello Hegel;
l’antinomismo dialettico, identificato con l’essenza stessa del reale e del
pensiero, divora l'essere dall'interno e
divorandolo lo alimenta. Per conseguenza la tragedia del Reale, che è quella
della Ragione, s’identifica col modo con cui la Ragione tesse il suo idillio
eterno. Tutto il senso tragico dell’antinomismo svanisce una volta che il male
e l'errore, le cadute e le colpe sono necessarie alla vita della Ragione
assoluta e al suo perenne conquistarsi: tutto è perfettamente ordinato,
pacifico. Una volta che il nulla e la contraddizione si assumono al posto
dell’essere, si accetta la negatività pura: non c’è più problema nè
dell’esistenza nè del reale e perciò non c’è problema di Dio: c’'è_ l'assurdo
all'inizio e alla fine. L'esistenza di Dio 95 che il filosofo, il quale si
accinge a provare, con le armi della ragione la più rigorosa ed intransigente,
l’ipotesi Dio nascente dalla totalità
del reale che da questa soluzione aspetta intelligibilità profonda, abbia a
prescindere da tutti quei dati psicologici che fanno parte della concreta vita
spirituale, la più impegnata nell’esito della ricerca. Infatti, la questione
che si pone col problema dell’esistenza di Dio, è di sapere se i dati reali
della nostra esperienza siano o no metafisicamente intelligibili, in quanto tale
intelligibilità dipende appunto dall’esistenza, o non, dell'Essere personale e
trascendente, creatore e provvidente, principio esplicativo di ogni fatto 4/ di
là di tutta la serie dei fatti. 6. La
pregiudiziale critica da cui muove il problema dell’esistenza di Dio. Notiamo a
questo punto che il problema dell’esistenza di Dio e della metafisica in
generale muove da una pregiudiziale critica, non da quella, propria di Kant, di
saggiare, prima di affrontare il problema, le capacità della ragione farla giudice di se stessa: imputata e
giudice insieme per accertare se abbia o
no il diritto di oltrepassare l’esperienza, bensì dall’altra che l’esperienza
stessa e quanto in essa è dato, approfonditi criticamente, restano
metafisicamente inintelligibili, se quel problema non si pone e non si risolve.
Per conseguenza il problema dell’esistenza di Dio s'inserisce alla radice
stessa del problema critico. Ma ciò non deve indurci, senza sufficienti prove
razionali, ad ammettere ugualmente che Dio esiste (conclusione edificante », ma non filosofica) per il
timore che altrimenti tutto sarebbe inintelligibile. D'altra parte, proprio
l’esperienza della nostra finitezza e di ogni cosa esistente, tutta
l’esperienza non bastante a sè stessa e perciò incapace di autospiegarsi, pone
il problema della sua intelligibilità e con esso fa nascere l’ipotesi Dio come possibile soluzione: il finito come
tale esige il che % Filosofia e Metafisica cosa lo spieghi e giustifichi. Che
non può essere pure un finito, in quanto ancora problema e non soluzione;
dunque, se è, dev'essere qualcosa che
esiste da sè », che, principio di se stesso, può rendere conto definitivo ed
ultimo di quante cose esistono non da sè
». Non è neppure un qualcosa ma un Chi, Ego, in quanto non una Cosa può essere
il Principio delle cose tutte, ma il Soggetto assoluto, l’Intelligenza suprema.
È precisamente l’ipotesi dell’esistenza di Dio. 7. La realtà spirituale punto di partenza della
dimostrazione dell'ipotesi Dio”. Prima di procedere fissiamo qualche conclusione
utile a precisare i termini della questione: 4) il problema dell’esistenza di
Dio è posto da dati reali, dalla condizione di reale finito del mondo umano e
naturale; 5) questo, come finito, non può avere in se stesso il suo principio e
pone il problema della sua origine e della sua suprema intelligibilità; c) per
conseguenza, la dimostrazione della verità o no della ipotesi Dio », non può non partire dalla realtà
finita che la fa nascere e la presenta alla riflessione: dall’esistenza di
esseri limitati, dal fatto che degli enti sono, senza essere il principio di se
stessi. Mettiamo da parte inizialmente, salvo a saggiarne in seguito la
validità e a recuperare il recuperabile, la prova che muovendo dall’Idea di
Dio, 4 priori, attraverso l’analisi del contenuto dell’Idea stessa, ne deduce
l’esistenza. Accettato come punto di partenza il reale contingente finito, ci
sembra quanto mai conveniente ed anche necessario muovere da quell’ente che
presenta una maggiore complessità e ricchezza di contenuto e ne è il grado più
alto, tanto da non essere una parte tra le altre dell’universo, ma come il
centro e la sintesi; e più ancora, in quanto il compimento della vita
spirituale di un solo uomo trascende l’universo intero. L’uomo non è soltanto
un reale finito, ma è il solo L'esistenza di Dio 97 dotato di pensiero, capace
di volere e conoscere razionalmente, di riflettere. Solo egli, infatti, tra gli
enti finiti di cui abbiamo esperienza, si pone il problema dell’intelligibilità
metafisica della sua esistenza e con esso l’ipotesi Dio ». D'altra parte, anche se scegliamo come
punto di partenza quel reale finito che è il mondo detto materiale, o un suo
particolare aspetto, siamo sempre costretti, come già accennato, a porlo come
oggetto di pensiero, cioè a considerarlo per quanto ha di intelligibile: perciò
l’oggetto del nostro pensiero non è il mondo materiale come tale, ma i suoi
elementi concettuali. Il punto di partenza, anche in questo caso, è sempre
l’uomo soggetto pensante e capace di conoscenza razionale, cioè sono i dati
mentali che non sono le cose materiali, ma il risultato della riflessione su di
esse. D'altra parte, l’uomo non potrebbe pensare se non fosse e non vivesse, se
non fosse un essere vivente, ma l’essere e il vivere non implicano
necessariamente il pensare. Infatti, si può essere senza vivere e pensare (una
pietra), ma non si può vivere senza essere (il vivere importa necessariamente
l’essere); però si può vivere senza pensare (una pianta, un cane), mentre non
si può pensare senza essere e vivere, almeno nella condizione terrena degli
esseri pensanti: dunque il pensare implica l’essere e il vivere (*). Di qui: 4)
il pensare è superiore all’essere e al vivere: non si può pensare senza essere
e vivere, ma il pensare non è attributo essenziale di ogni essere e di ogni
vivente, bensì di una specie di esseri viventi e dunque è è più del puro essere
e del puro vivere in quanto coscienza di essere e di vivere e, posto, implica
gli altri due; 5) il soggetto pensante, che come tale implica nell’ordine naturale
l’essere e il vivere, è quel dato reale che, nella sua interezza di organismo e
pensiero, di materia e spirito, è ciò che sono le altre cose non pensanti,
essere e vita, più quello che non sono, pensiero. Dunque, nella sua interezza,
pos(9) S. Agostino, De libero arbitrio, L. Il, c. 3, n. 7. 98 Filosofia e
Metafisica siede, in questo senso, tutti gli elementi essenziali della realtà
finita. Dovendo partire per la dimostrazione dell’ipotesi Dio dai reali finiti,
mi pare estremamente conveniente scegliere come punto di partenza quello che è
(come sono tutti gli esseri), vive (come quanti di essi sono organismi) e pensa
(come solo a lui è concesso); che dunque assomma in sè tutte le categorie
essenziali del reale. Ma è solo conveniente, o anche necessario? Abbiamo detto
che, tra tutti gli enti finiti, l’ipotesi Dionasce nell’uomo, sia dalla
riflessione sul mondo fisico come indica la semplice domanda: chi ha mai fatto
tutte queste cose? », sia da quella su se stesso. E’ su quest’ultima che
dobbiamo portare la nostra attenzione al fine di ricavarne quanti elementi
preliminari ci è consentito dal rigore della ricerca e dall'obbligo di non
pregiudicare la dimostrazione. Come abbiamo già detto, l’uomo ha coscienza
della sua finitezza e contingenza, che è però anche e innanzi tutto
consapevolezza di essere, della miseria del dolore e della morte, di quanto lo
fa consapevole che non basta a se stesso, 20 è da sè. La consapevolezza di tale
condizione è propria dell’uomo: è dell’infelice e solitario pastore errante dell’Asia
non del gregge pago del suo stato perchè inconsapevole. Dunque, l’ipotesi Dio è posta e la sua dimostrazione richiesta
dall’uomo per l’uomo, quasi appello della sua condizione affinchè tenti di
capire veramente qualcosa di essenziale e definitivo della propria esistenza e
del suo significato. In altri termini, l'ipotesi Dio non nasce dal dato contingente come tale,
pura empiricità, ma dalla coscienza o dalla consapevolezza della sua
contingenza, cioè da un elemento spirituale; non dal puro fatto a cui si ferma la mentalità positivista, che
perciò fa a meno di Dio e, neppure sfiora il problema dell’intelligibilità
metafisica del reale ma dalla coscienza
del fatto, che importa già una valutazione di esso e un passaggio dal piano
empirico a quello ontico o dell’essere. L'esistenza di Dio 99 del dato stesso.
Questo, il dato da cui nasce l’ipotesi
Dio e da cui bisogna partire. Abbiamo anche accennato all’aspetto
religioso del problema: alla essenzialità di Dio per l’esperienza religiosa,
all’importanza che essa ha per una possibile dimostrazione razionale (!9). Non
si dimentichi che il problema filosofico dell’esistenza di Dio si pone quale
indagine razionale intorno al termine così come è definito sulla base della
condizione umana e creduto dalla fede religiosa; alla ragione si chiede di
dimostrare la verità di quel che si crede affinchè l’uomo sappia che è vero quello che crede ». Chi
rinunzia a partire dall’uomo, si priva in partenza dell’esperienza umana e religiosa,
a cui il problema appartiene e che lo presenta all’esame della ragione, lo
depaupera, quasi lo appiattisce. Dal filo d’erba non ci sembra si possa
arrivare al Dio dell’esperienza umana in tutta la sua pienezza e della
coscienza religiosa; d’altra parte, niente autorizza od obbliga la ricerca a
prescindere dall’uomo, che quel problema vede nascere dalla sua condizione.
Ammettiamo che ogni ente di natura abbia una finalità, cioè che la sua vita si
esplichi attraverso mezzi necessari disposti e combinati in modo da raggiungere
il fine che le è proprio e precede e domina la disposizione e la combinazione
dei mezzi stessi. E’ evidente che esso: 2) non ha la conoscenza del fine; 3)
non si da sè la capacità di disporre e combinare i mezzi per il suo
raggiungimento; dunque, conclude, la finalità naturale presuppone
un’Intelligenza che non è nelle stesse energie vitali ma ad esse s'impone. Ciò
im(10) Giustamente è stato notato (H. De Lusac, De /a connaissance de Dieu,
Éditions du Temoignage chretien) che la nostra epoca ha perduto, almeno
temporaneamente, il gusto di Dio »; se
questo gusto tornasse, le prove riapparirebbero
plus claires que le jour. Com'è noto, la biologia ammette con fondatezza
una finalità degli organismi viventi, una specie di loro pensiero embrionale o di orientamento delle
forme della loro attività vitale verso una unità di realizzazione quasi che
tale attività sia dotata di una specie di
potere sintetico ». 100 Filosofia e Metafisicaporta: ) dell’intelligenza
che il mondo fisico presuppone c'è conoscenza mediata, mentre l’uomo ha
esperienza immediata di essa in quanto ne è dotato, egli stesso fatto sperimentale della presenza dell’intelligenza;
4) le cose non hanno consapevolezza del fine a cui sono ordinate, nè sanno che
il loro ordine presuppone un'intelligenza, mentre l’uomo ha consapevolezza del
suo fine, esperimenta direttamente in sè l’intelligenza, sa che non si è autoposto
come essere intelligente; dunque sa che il suo essere ente intelligente pone il
problema della sua origine come tale. In breve, il problema del rimando dalla
finalità delle cose all’Intelligenza da cui sono state ordinate non nasce
direttamente e direi spontaneamente come quello del rimando dall’uomo-ente
intelligente all’Intelligenza da cui è intelligente; l’esperienza immediata che
l’uomo ha di se stesso come ente intelligente fa che sia più diretta efficace
sicura la via dall'uomo a Dio, mentre l’altra dalle cose (in questo caso dalla
loro finalità) è indiretta e si considera in un secondo tempo. Senza dire che
la vita dell’ente intelligente comporta tale ricchezza di esperienza e di
valori co‘ noscitivi, morali, estetici, religiosi da far sembrare ben povera
cosa la finalità inconsapevole del mondo fisico. Un'altra considerazione ci
sembra decisiva per accettare il reale-uomo come punto di partenza della
dimostrazione dell’esistenza di Dio. Più di ogni altra cosa e della sua stessa
esistenza all’uomo interessa sapere che cosa sia vero di quanto conosce e bene
di quanto vuole, cioè se è capace di conoscere la verità a cui è obbligato ad
uniformare la propria condotta. D'altra parte, se l’uomo non fosse capace di
giudizi veri, non potrebbe niente dimostrare e non penserebbe neppure; se
ragiona, discorre, dimostra lo fa in base a norme che considera vere, cioè
oggettivamente valide e tali da garantire la veridicità dei suoi giudizi e
delle sue dimostrazioni. Per conseguenza, quando, stimolato dalla sua condizione,
considera l’ipotesi Dio e ne tenta la
dimostrazione, si consiL'esistenza di Dio 101 dera già in possesso di alcune
verità che rendono validi i suoi giudizi. Ma qui sorge un problema, quello del
fondamento metafisico della conoscenza: le verità fondamentali e primali, senza
cui non vi sarebbe discorso e dimostrazione, sono il prodotto della mente,
poste da essa, o sono alla mente
presenti e da essa soltanto
scoperte »? Nel primo caso la loro validità si presenta notevolmente
sospetta, in quanto il prodotto della mente mutevole, capace di errore, di un
essere finito e contingente non dà alcuna garanzia di universalità,
immutabilità e necessità, cioè di possedere gli attributi essenziali alla
verità. D'altra parte, la nostra stessa contingenza e finitezza ci lascia
perplessi nè ci convince di essere noi i
creatori della verità; se non altro lascia in dubbio e induce a pensare
che se mai siamo portatori attivi di
essa, che in questo caso è oggetto della nostra mente e, come tale, da essa
conosciuta ma non creata. Ma se è così, la presenza oggettiva della verità alla
mente, da essa conosciuta o scoperta, pone il problema della sua origine e del
come ne siamo in possesso, cioè del da dove sia entrata in noi. Problema che
l’uomo non può lasciare sospeso o trascurare, in quanto si tratta di sapere
qual’è la provenienza di quell’ordine di verità intellettuali e morali in base
a cui pensa ed agisce, attua la sua vita spirituale; è il problema della
intelligibilità profonda del reale non solo umano ma anche naturale, in quanto
le cose sono intelligibili per il loro ordine, da cui, come sappiamo, nasce,
quale eventuale soluzione, l’ipotesi Dio
». Ammettiamo pure provvisoriamente che sia conveniente e necessario partire
dalle cose del mondo esterno invece che dalla realtà-uomo, disposti anche a
sacrificare l'apporto della vita spirituale mobilitata in tutta la sua
pienezza. Evidentemente la dimostrazione o la catena dei ragionamenti si serve
di norme o principî che considera veri, cioè oggettivamente validi (per
esempio, il principio di causalità), tali da 102 Filosofia e Metafisica
garantire la veridicità del discorso. Ma il servirsi di essi imrta già avere
risolto il problema, da noi posto sopra, dell'origine della verità di cui la
mente umana è capace, se suo prodotto o suo oggetto e, in quest’ultimo caso,
del come ne sia in possesso. Dunque il punto di partenza dalle cose materiali
presuppone quello da noi scelto, dall’ente razionale, il solo capace di un
ordine di verità, ed in esso resta incluso. Se si dice che nell’uomo non vi è
nulla di necessario e immutabile, in tal caso: @) si nega che egli possieda
verità e con ciò stesso che possa provare l’ipotesi Dio »; 5) non si spiega come avverta la sua
contingenza e finitezza nè quella delle altre cose, avvertibili solo se ha una
certa nozione di ciò che è necessario e infinito, cioè se sa cosa significhi la
parola verità ». Ma il solo sapere che è
verità è già una verità e, come tale, qualcosa di immutabile e necessario, che
appunto consente all'uomo di conoscere che lui e tutte le cose finite sono
contingenti e mutevoli. Ed ecco che questa condizione di un contingente in cui
è in certo modo presente un che di immutabile, infinito e necessario pone il
problema della propria intelligibilità e con esso l’ipotesi Dio ». Da qualunque punto di vista si
consideri la questione, il problema dell’esistenza di Dio si presenta come
essenzialmente antropologico e solo subordinatamente cosmologico. Non problema
posto da qualcosa di astrattamente concettuale nè dalle cose materiali, ma che
interessa la realtà umana integrale, considerata nella sintesi dinamica e nella
compresenzialità di tutti gli elementi che la costituiscono, desiderosa
d’intelligibilità totale e perciò nello stazo reale di aspirazione al possesso
della suprema verità metafisica, fondamento e principio dell’intelligibilità
della vita spirituale. L'ipotesi Dio è
suscitata dal bisogno di una conoscenza radicale del reale finito, dall’urgenza
di sapere se gli esseri contingenti abbiano o no un senso assoluto. Si tratta
di un'esigenza, e dalla sola esigenza non si può. L'esistenza di Dio 103
concludere all’affermazione; tuttavia, non si può negare che essa, non
dimostrativa per se stessa, è almeno indicativa. Nel nostro caso, indica una
condizione reale della vita dello spirito e precisamente quella di conoscere la
verità della sua verità di se stesso e della realtà finita in generale. In
questo la verità che vuol conoscere, anche la più elementare e povera, ha
sempre come scopo ultimo, anche senza esplicita consapevolezza, di acquistare
una maggiore conoscenza della verità di se stesso e della realtà finita in
generale. In questo senso, sia pure oscuramente, anche inconsapevolmente,
cercare è cercare il senso assoluto dell’esistenza, la sua intelligibilità metafisica;
ma è questo il problema donde nasce l’ipotesi
Dio »; dunque cercare è sempre porsi, anche indirettamente, il problema
dell’esistenza di Dio, dell'Essere personale e trascendente. Vi è nello
spirito, per il fatto che si avverte finito, un senso immanente dell’Essere che
l’oltrepassa (!); c'è una nozione oscura, implicito originario, di quella che
poi l'indagine speculativa chiarisce e precisa come Idea di Dio. Il problema
dell’uomo, quello detto psicologico-antropologico, è intimamente legato al
problema dell’esistenza di Dio; porsi l’uno è porsi anche l’altro. Le realtà
psicologiche pongono l’ipotesi Dio
(psicologismo che non è affatto soggettivismo) la cui dimostrazione investe il
loro significato totale ‘e assoluto, la loro intelligibilità (teocentrismo).
Reali, dunque, i dati da spiegare, realista il metodo della ricerca; la
finitezza dell’ente contingente e aspirante a sapersi fino in fondo è un fatto,
come è un fatto la sua aspirazione all’Assoluto. D'altra parte, non vi sarebbe
quest’ultima se nello spirito finito non fosse presente una certa nozione
dell’assoluto infinito, oscura e confusa quanto si voglia. Non si fraintenda:
non immanenza della trascendenza nell’ente finito come quella che è posta dallo stesso ente finito, per cui la
trascendenza si risolve nell’immanenza dell'atto che la pone o in una
condizione dell’esistente
pseudo-trascendenza di alcune forme di idealismo immanentista e di
esistenzialismo ma presenza della
trascendenza all’ente finito come presenza dell’Essere che l’uomo non pone e
dal quale è posto e oltrepassato. 104 Filosofia e Metafisica Il dato uomo è
costituito da un insieme di dati, di cui deve tener conto, proprio per rigore e
scientificità d’indagine, qualunque tentativo di dimostrazione
dell’ipotesi Dioper saggiarne
l’importanza, la portata e quel che significa o indica la loro presenza.
Cogito, ergo sum; ma nè il cogitare, nè il mio esse si spiegano da se stessi
non essendo assoluti ed infiniti. La celebre formula cartesiana, che qui non
discutiamo, non dà dunque la soluzione del problema di me ente finito, bensì
indica solo la mia condizione di essere pensante. Ma proprio questa condizione
pone il problema di se stessa o se stessa come problema; pensiero ed essere sì,
ma finiti; dunque il mio essere come il mio pensiero sono dati; ma donde sono
essere e pensiero o n essere che pensa? È evidente che il cogito, ergo sum
suscita il problema del da chi sono stato pensato e sono pensato per esistere
come essere finito pensante. Fino a quando non l’avrò risolto non possiederò
l’intelligibilità piena del mio essere e ignorerò le radici del mio pensare e
conoscere. Qual’è il principio che fa essere me cogitante? Pongo l’ipotesi Dio ». Nel caso che riescirò a provarla,
concluderò che l’Essere personale e trascendente mi ha fatto e mi fa essere un
ente pensante; pertanto, non dirò più Cogito, ergo sum, ma in maniera completa
e più vera: Cogitatus sum et cogitor, ergo sum ens cogitans. Questa formula non
esprime più soltanto, come quella di Cartesio, il dato di fatto della mia
realtà, la coscienza che ho del mio esistere, ma anche e, in primo'luogo, la
intelligibilità radicale e profonda di me. Per la soluzione del problema
metafisico che comporta, essa fa che io contingente e finito mi avverta ormai
bastevole a me stesso nella conoscenza della radice metafisica del mio essere,
del mio vivere e del mio pensare, nella spiegazione e giustificazione del senso
assoluto della mia esistenza e della mia vita, del mio conoscere e volere. Non
è forse superfluo avvertire, ad evitare interpretazioL'esistenza di Dio 105 ni
errate, che qui non si sostiene affatto la tesi di un universo: in sè assurdo,
il quale acquista senso intelligibile solo se si ammette l’esistenza di Dio.
Infatti l'affermazione, l’universo è in
sè assurdo », non comporta neppure la formulazione dell’ipotesi, che non ha
senso quando si è già concluso che l’universo è assurdo; anzi si può pensare
assurdo solo perchè in partenza è escluso che Dio esiste. Quell’affermazione è
conclusiva; perciò non ha senso dire che solo ammettendo. l’esistenza di Dio
l’universo acquista un senso. Pertanto, per il fatto stesso che l’ente pensante
si pone il problema dell’esistenza di Dio, almeno non si può escludere a priori
che l’universo abbia un senso; ma, se è così, risulta senza senso la tesi di un
fideismo aberrante: l’universo in sè è assurdo, ma ciononostante ammetto
l’esistenza di Dio e dunque tutto mi diventa comprensibile. Tutto, tranne che
esista Dio, se l’universo è assurdo. Non
è Dio che non accetto, comprendi », dice l’ateo Ivan nei Karamézov, ma il mondo da lui creato; è il mondo di Dio
che non accetto e non posso risolvermi ad accettare ». Già, perchè assurdo o
tutto negativo; dunque non può accettare neppure Dio. Qui si annida anche un
sofisma: se tutto nell’universo è assurdo, è anche assurda l’affermazione che
tutto è assurdo, ma chi conclude che tutto nell’universo è assurdo, ritiene
vera, non assurda, questa conclusione: dunque non tutto è assurdo in quanto
ammettere che una cosa è vera è ammettere un pensiero capace di verità. Qui
appunto nasce il problema: perchè nel mondo c’è il pensiero? perchè ci sono io
che penso? donde sono? Ciò pone l’ipotesi
Dio e fa che sia ragionevole »,
conveniente senza limitazioni alla ragione, e sia assurdo il non porla o rigettarla senza
previa discussione impegnatissima. Da ciò consegue che il senso assoluto del
reale che cerchiamo scoprire non può essere immanente alla stessa realtà
finita. Se così fosse, non penserei all’ipotesi
Dio in quanto. l'oggetto della mia ricerca continuerebbe ad essere la
realtà 106 Filosofia e Metafisica mondana; dunque, il solo porre l’ipotesi già
orienta in altra direzione, in quella dell’esistenza dell'Essere trascendente. Per conseguenza la posizione
razionale del problema sembra essere la seguente: 4) esiste la realtà finita e
contingente; 5) come tale, mi suggerisce l'ipotesi dell’esistenza dell'Essere
da sè esistente e di essa principio; c) dunque, l’Essere esistente da sè non
posso cercarlo tra gli enti finiti, nessuno dei quali è assoluto ed
incondizionato, e neppure nell’unità o totalità (nel mondo ») degli enti finiti Dio come unità impersonale è la più povera ed
inerte delle finzioni ; d) i quali, tutti contingenti, attestano una dipendenza
comune. Provare la verità dell’ipotesi
Diosignifica scoprire se esiste l’Essere incondizionato autosufficiente
da cui tutto dipende e a cui tutto tende, consapevolmente o inconsapevolmente.
Da quanto abbiamo detto risulta che la nostra integrazione del Cogito
cartesiano è di fondamentale importanza. Essa porta implicita questa
affermazione: io sono coscienza pensante perchè l’Essere che è il Pensiero mi
ha fatto e mi fa essere, mi ha pensato, mi pensa e mi penserà. Ciò significa
che il mio pensiero come quello di ogni
ente pensante e di tutti, il pensiero umano o dell’ordine naturale in generale
non è principio di se stesso, non il Primo metafisico, anche se causa di ciò
che pensa; rimanda al suo Principio, è pensiero dal e per il Pensiero: è ed è
pensante perchè è stato pensato. Qui la differenza radicale (metafisica) tra
l’idealismo trascendentista-teologico-teocentrico e l’idealismo
trascendentale-mondano-antropocentrico, che è egocentrismo ed egotismo anche
quando è etica del dovere; scettici smo, anche quando è panlogismo o sistema
della scienza assoluta. Il primo è idealismo del pensiero che rimanda al
Pensiero, dell’essere che si abbevera, si innova, si arricchisce e si compie
nell’Essere; l’altro è idealismo del pensiero umano o naturale tutto immanente al mondo con cui si identifica e perciò cosmico
o cosmologico e non vera vita spirituale
assolutizzato con un atto irrazionale, che, facendone il Primo
metafisico, lo chiude in se stesso, lo re108 Filosofia e Metafisica cide,
appassisce, essicca, in quanto lo strappa al Pensiero, fonte di ogni pensiero,
all’Essere da cui deriva il suo essere, per farne il Tutto, la cui condanna è
il suo nulla, il Nulla. Il dilemma dei due idealismi è il dilemma dell’uomo,
della realtà, della verità: o l’uomo, il reale, il vero sono da Dio e l’uomo è
uomo, il reale è reale e il vero è vero; o l’uomo, la ragione naturale, il
mondo e le verità umane sono essi stessi l'Assoluto, il Primo, e questo tutto,
fatto irragionevolmente i/ Tutto, precipita nel Nulla. O l’idealismo del
Pensiero e degli enti pensanti, quello del cogitazus sum et cogitor, o
l’idealismo del pensiero immanente che si autopone (e perciò si autonega) come
Pensiero assoluto, quello che, da Cartesio, gradualmente, ha penetrato il
pensiero moderno e si è sviluppato fino a culminare nello Hegel; dopo lo Hegel,
precipitosamente, è sboccato, con rigorosa consequenzialità, nelle odierne
filosofie del Nulla », del problema », delle convenzioni », della pura metodologia ». Era necessario, affinchè fosse
chiara la posizione dei due idealismi, anticipare queste affermazioni, che il
seguito del nostro discorso cercherà di approfondire. Il problema che poniamo è
quello della verità della mia esistenza e di quella di ogni ente finito. In
altri termini: io sono l’assoluta verità di me stesso, o sono dalla e per la
Verità? Il problema dell’esistenza di Dio è quello della verità o dell’essere
di ogni ente, dell’ intelligibilità metafisica del reale o del senso assoluto
dell’ente finito. Indagare se Dio esiste è sondare se vi è la verità della
verità di ogni ente creato e della verità che è in ciascun ente pensante. Se il
problema è quello della verità degli enti, ancora una volta risulta necessario
muovere dall’uomo, il solo, tra gli enti finiti, che concepisce il suo esistere
in termini di verità o d'’intelligibilità. Infatti, non la pura sensazione
immediata fa sorgere in noi il problema dell’esistenza di Dio, ma la
riflessione sulle cose. E riflessione significa mediazione, giudizio; ma
L'esistenza di Dio 109 non c’è giudizio senza l’applicazione o l’uso di
principi in base a cui si giudica. D'altra parte, se dall’ordine delle cose
materiali finite e contingenti, come dal fatto che sono dotate di movimento, si
argomenta intorno all’esistenza di Dio, si fa uso di alcuni principi, per
esempio di quello di causalità. In tal caso, l’argomentazione a favore
dell’esistenza di Dio dal mondo esterno si fonda sulla validità oggettiva di
quel principio, cioè su una verità; pertanto il problema primo è di sapere se
la mente umana sia capace di verità, come si trovino in essa o in qual modo le
acquisti. Senza verità universalmente valida nessun giudizio e nessuna
argomentazione oggettiva sono possibili; similmente non nascerebbe il problema
dell’esistenza di Dio, se mancassimo completamente della nozione di una realtà
non contingente e assoluta, se non fosse in noi una presenza oscura ed operante
di quel che cerchiamo; se non fossimo in qualche modo nell’essere, cioè se non
ne partecipassimo analogicamente; dalla totale contingenza e relatività non
nasce il problema del necessario e dell’assoluto. La dimostrazione
dell’esistenza di Dio non può partire che dalla verità; ma essa è per sua
natura intelligibile, oggetto di un pensiero; dunque la prova non può partire,
tra tutti gli enti finiti e contingenti, che dall’ente che è mente, pensiero,
spirito: dall'uomo o dalla vita spirituale. La posizione del problema si va
sempre più precisando: a) dagli enti finiti e contingenti; è) da quelli di essi
che sono menti o spiriti c) dall’oggezto delle menti; cioè dalla verità non
contingente e non finita di cui sono capaci, dato che la verità non può essere
che oggetto o contenuto di una mente. Se si prova che la mente finita è capace
di verità e dalla presenza di essa alla mente l’esistenza di Dio,
l’argomentazione può muovere anche partendo dalle cose materiali, in quanto
sappiamo che c’è verità e siamo capaci di conoscerla, che la validità dei
nostri giudizi è garantita dalla oggettività di alcuni principi; non è una
nuova dimostrazione, bensì un’applicazione di quella dalla vita dello spirito,
giacchè la verità della seconda prova è condizionata, dipendente, da quella
della prima, che la include, come include le altre; di qui la sua superiorità,
tanto da essere l’unica prova dell’esistenza di Dio, fondamento di tutte. Così
impostata, la questione si presenta sotto forma di dilemma: o vi è verità e la
mente umana ne partecipa, e vi è problema e dimostrazione dell’esistenza di
Dio; o verità non è, o, se è, la mente umana non ne partecipa affatto, e non vi
è problema nè dimostrazione. Il nihilismo, lo scetticismo, l’agnosticismo, il
relativismo assoluti, negando che vi è o si possa conoscere una verità
necessaria universale immutabile, negano con ciò stesso il problema e
l’esistenza di Dio: per loro essenza, come pensiero sono atei. Resta da
dimostrare però che non vi è verità e, se vi è, la mente umana non ne
partecipa; cioè se tali affermazioni sono razionali, abbiano un senso
comprensibile. Nè si dica che vi è verità, sì, ma tutta umana, del solo ordine
naturale o della sola universale ragione e ad essa immanente, perchè se la
ragione si fa creatrice di verità assoluta, si divinizza contro ragione:
mutevole e finita, è capace di scoprire
verità assolute e non di crearle ». Se si nega la trascendenza della Verità,
non si può ammettere nè dimostrare
ragionevolmente ammettere e razionalmente dimostrare che la ragione conosca verità assolute, per
il semplice fatto che si è negata la verità nel momento stesso che la si fa
figlia della ragione naturale finita e mutevole: o verità non è, ma se è, la
ragione oltrepassa in quanto è alla ragione data e non da essa posta. In altri
termini: o non è verità e si arriva alla conclusione assurda e contraddittoria
che è vero che niente è vero »; 0 è
verità, e c'è un dl di là dalla ragione; se non c’è, di nuovo, c’è il niente di
verità. L'esistenza di Dio 116 2. Gli
element: del giudizio e il problema della sua valsdità. Affinchè sia un
giudizio sono indispensabili: 4) un soggetto razionale pensante e giudicante;
5) un dato da giudicare; c) delle norme o principi in base a cui giudica.
Attività giudicante, nell’ordine della natura, è soltanto l’uomo; in quanto
ente razionale giudica, gli altri enti sono giudicati. Ma l’ente giudica sulla
base di alcuni principî di giudizio, non solo le cose, ma anche se stesso e gli
altri enti pensanti, e ogni singolo ente pensante se stesso e gli altri. Da ciò
consegue che, per quanto poco conto possa fare delle umane facoltà razionali,
so che la conoscenza sensoriale nella sua pura empiricità, è un grado
conoscitivo inferiore a quella concettuale. Infatti, anche quando giudicassi
che nessun concetto o giudizio è vero e che la verità è nella sola e pura
sensazione, sarebbe sempre un giudizio quello con cui considero vera la
sensazione e falso il concetto; ma il giudizio con cui giudico vera la
sensazione non è dovuto alla mia attività sensitiva nè da essa derivato, bensì
alla mia attività razionale; anche in questo caso, è quest’ultima a pronunziare
un giudizio di veridicità della conoscenza sensoriale e di erroneità di quella
concettuale; ma il giudizio con cui giudico vera la prima e falsa la seconda è
una conoscenza concettuale, la quale, proprio per il fatto che si esprime in un
giudizio, è superiore ad ogni conoscenza sensoriale, di cui,
contraddittoriamente, le si vuole contrapporre la superiorità. Ora è evidente:
se la ragione giudica la sensazione non può essere da essa giudicata; ma la
giudica in quanto fa uso di principî, senza di cui non potrebbe formulare
giudizi. Per conseguenza: se non c’è giudizio senza il soggetto giudicante
secondo i principî del giudizio, la verità di ogni giudizio non risiede nel
soggetto giudicante contingente e finito
o nella ragione per se stessa, anch'essa finita e mutevole nè nella cosa sottoposta a giudizio,
anch’essa contingente, finita ed inferiore allo stesso soggetto pensante per il
fatto che è giudicata e incapace di giudicare e giudicarsi, ma nei prinpi secondo
cui il soggetto giudica (!). Dunque vi è giudizio vero, oggettivamente valido,
in quanto la ragione nel giudicare si serve di regole, di principî necessari,
immutabili, universali, assolutamente validi. Non sono pure condizionidel conoscere in sè vuote come
le forme a priori kantiane, ma
conoscenze primali, originarie, fondamento di ogni conoscenza vera. Che l’uomo
sia capace di giudizi veri ci risulta dall’aver prima dimostrato che nessuna
forma di scetticismo, com'è provato dallo stesso argomento dello scettico, può
negare che l’uomo sia capace di verità; ma basta che egli lo sia anche di una
sola, perchè consegua: 4) che è capace di giudizi veri; 4) che sono presenti
alla sua mente alcuni principî, fondamento della veridicità di ogni giudizio
vero. Infatti, chi dubita conosce qualcosa di vero, se non altro che dubita ed
esiste come ente che dubita e s’inganna (si fallor, sum). Ma, come rileva
Agostino (De vera religione), chi conosce qualcosa di vero lo conosce per la
verità, dato che tutto ciò che è vero, è
vero per la verità ». La profondità di questa argomentazione non risiede nel
provare che l’uomo conosce alcune verità, tra cui prima quella di non poter
dubitare dell’esistenza di se stesso come dubitante ed ingannantesi, ma nel
rilevare che la presenza in noi di un solo vero sarebbe impossibile senza la
presenza del lume della verità: se siamo capaci di una sola verità, c’è in noi
la verità. Da ciò consegue: 4) ogni particolare verità, compresa quella della
coscienza che ogni singolo ha di esistere, presuppone altrimenti non sarebbe una verità primale, Un giudizio può essere formalmente corretto e sostanzialmente
erroneo. Ciò non significa che i principî del giudizio siano o possano essere
erronei, in quanto l’errore non è in essi. Il giudizio è vero quando la
relazione che enuncia è vera: falso quando è falsa, ma nell’uno e nell’altro
caso i princìpi sono sempre veri; infatti, il giudizio errato si corregge adoperando
sempre gli stessi princìpi. L'esistenza di Dio 113 di cui è una determinazione;
5) l’uomo è l’artefice di tutte le verità (l’umano sapere), ma non è il
creatore della verità che è in lui e di cui tutto l'umano sapere è una
specificazione; c) le verità dell’uomo non sarebbero se non fosse in lui la
verità che fa la mente capace di conoscenze vere, ma la verità, fonte di ogni
umano vero, è da sè, anche se ogni umana scienza non fosse; 4) la coscienza di
me esistente, cogito, ergo sum, è la prima verità nell’ordine di quelle di cui
sono artefice, ma non è la verità prima, della quale la coscienza di me è solo
la prima determinazione, ma la verità prima e in quanto oggetto di una mente;
e) dunque, il soggetto pensante ma solo
esso e non le verità che egli formula sul fondamento di essa le è necessario senza che ciò implichi che ne
è il creatore: il lume di verità è oggetto interiore della mente; f) per
conseguenza, la coscienza di me, il Cogito, prima verità di cui sono
l’artefice, non s’identifica con la verità prima, che la rende possibile e che,
interiore alla mente, non è la mente nè è da essa prodotta; g) perciò,
appartenenza dell’uomo ma non dall’uomo, madre di ogni umana verità compresa
quella dell’autocoscienza, non è umana, ma divina: 4) dunque, la presenza
nell’uomo di verità attesta l’altra del lume di verità da e per cui è capace di
verità, ma questa seconda presenza, la verità-oggetto interiore, in lui, ma non
da lui, pone il problema di se stessa: principio di ogni vero del quale l’uomo
è artefice, pone il problema del suo principio, che è il problema del Principio
primo, della Verità o dell’Essere. Identificare il problema del conoscere o
gnoseologico con quello del suo fondamento o principio problema ontologico-metafisico e rinunziare a chiarire e ad approfondire,
per superficiale acrisia, il problema critico della conoscenza. La capacità
umana di formulare giudizi veri verità
prodotta dall'uomo è soluzione del
problema gnoseologico, ma è essa stessa problema, che porta implicito l’altro del
prin114 Filosofia e Metafisica cipio per cui ogni giudizio vero è tale; ma il
problema del principio del conoscere non è più gnoseologico, in quanto è
problema della verità, fonte di ogni vero, cioè della verità oggetto della
mente e non suo prodotto; come tale, di ordine ontologico », non gnoseologico ». È essa che fa nascere il
problema dell’esistenza di Dio o del suo Principio assoluto; dunque
l’ontologicità della verità la verità è
l’essere pone il problema metafisico del
Principio: gnoseologia o dottrina del giudizio; ontologia o dottrina della
verità prima interiore all’ente pensante; metafisica o dottrina del Principio
assoluto, che è la Verità in sè: dall’umano al divino nell’uomo e dall’uomo a
Dio. Questo discorso significa: 4) vi è una verità ontologica anteriore ad ogni
particolare conoscenza vera; 5) l’atto con cui so di esistere, non solo mi dà
la prima verità oggettiva, ma, quel che più conta, mi attesta la presenza di un
lume oggettivo di verità, di cui l’autocoscienza è solo una determinazione,
anche se la prima e la sola essenziale. Dunque, verità primale e fondante in
interiore homine, come oggetto della mente, madre dello stesso pensare, per la
quale il soggetto è pensante ed ha coscienza di esistere come tale; la mente
non adegua il suo lume di verità, l’autocoscienza non esaurisce l’interiorità;
la verità in inzeriore homine per la sua stessa presenza, stimola, slancia,
obbliga l’uomo a trascendere ez se ipsum. Autocoscienza è coscienza di sè e di
altro da sè; come autocoscienza pura, l’ altro da sè è l’oggetto o Idea, la
verità interiore, che il soggetto coglie nell’atto che ha coscienza di sè come
ente pensante; anzi ha coscienza di sè perchè ha coscienza dell’altro,
l’oggetto interiore o il lume di verità, che lo fa essere coscienza di sè e
dell’oggetto stesso. L’interiorità fonda l’autocoscienza trascendendola; dunque
non l’autocoscienza come coscienza di me soggetto pensante, ma l’autocoscienza
come atto primo o prima specificazione dell’interiore verità pone il problema
dell’esistenza di Dio, nè. L'esistenza di Dio 15 può non porlo; le è
necessariamente intrinseco: in quanto partecipe dell’infinito della verità non
può non porsi il problema dell’Infinito in sè. L’idealismo trascendentale e
qualsiasi filosofia dell’immanenza sono al di qua di questa problematica,
nell’anticamera dell’ontologia e della metafisica, che si rifiutano di
riceverli fino a quando si ostinano a fare filosofia della natura etichettata
fraudolentemente per filosofia dello spirito. 3. I principî del giudizio non sono posti dalla ragione, nè indotti
dall'esperienza esterna. In quanto abbiamo detto ci sembra implicitamente
risolta, nella parte negativa, anche la questione dell’origine dei princìpi del
giudizio. Infatti, se sono le norme assolute ed immutabili con cui la ragione
giudica ogni cosa, consegue: 1) la ragione non può sottoporre le norme a
giudizio, in quanto, se la norma stessa fosse passibile di giudizio, cesserebbe
di essere norma ingiudicabile per esserlo quella o quelle che la giudicano: o
la norma è norma di giudizio e allora essa che giudica tutto non può essere da
nulla giudicata; o è da sottoporre a giudizio e non è essa la norma di
giudizio, bensì quella che la giudica. 2) Se la ragione non può giudicare le
norme secondo cui giudica, essa stessa ne è giudicata: il giudizio errato,
conseguenza della finitezza della ragione umana, è riconosciuto per tale e
corretto in base alle norme con cui la ragione giudica; dunque sono esse che
giudicano l’operato della ragione, se i giudizi che essa formula siano veri od
erronei. 3) Da ciò consegue che le norme sono indipendenti dalla ragione, da
essa non prodotte ma ad essa daze e, come tali, superiori, in quanto, secondo
una celebre espressione di Agostino, non vi è dubbio che qui iudicat, co de quo
sudicat esse 116 Filosofia e Metafisica meltorem (*). In breve, ie norme del
giudizio o le verità che lo fondano non sono un prodotto dell’attività
razionale, in quanto, se tali, essendo la ragione mutevole e finita, sarebbero
anch’esse mutevoli e finite; dunque, son esse che rendono possibili i giudizi e
l’attività della ragione e non viceversa: non vi sono norme vere perchè vi sono
giudizi veri, ma vi sono giudizi veri in quanto la ragione può disporre di
norme vere, in base a cui giudica e dalle quali è essa stessa giudicata. La
ragione non è madre ma figlia della verità, e, perchè tale, madre a sua volta
di verità; dunque l’origine delle verità che la fanno vera non è da cercare in
essa. Pertanto altro è il problema della verità, altro il problema del conoscere
razionale. Torto dell’idealismo panlogistico di Hegel, di alcuni suoi epigoni e
di quanti non distinguono i due problemi, è di ridurre la metafisica a
gnoseologia, identificando il problema metafisico con quello gnoseologico e
dissolvendo quello del principio-fondamento del conoscere nell’altro del
conoscere, principio e fondamento di se stesso. Il conoscere, assolutizzato, si
chiude in se stesso, verità di sè a sè, si autopone, consumando la soppressione
violenta ed arbitraria del problema della verità o della intelligibilità
metafisica del conoscere razionale. È la sopraffazione che la ragione perpetra
contro la verità illuminante; il sovvertimento per cui essa, fondata dalla
verità, si pone come fondante la verità stessa. La distinzione, in seno all’idealismo
di Hegel e all’hegelismo, rinasce nella forma della dualità dialettica del
pensiero pensante e del pensiero pensato, nel dialettismo dell’autoposizione e
dell’autonegazione del pensiero; e non può non rinascere in quanto il conoscere
razionale va in cerca del suo fondamento, del suo principio che è la verità.
Dissolto il paralogismo e con esso la soluzione illusoria del problema nella
dialettica del pensiero, il problema del fondamento del (2) Il lettore si sarà
già accorto come l’argomentazione dalla verità, che stiamo svolgendo per
provare l’esistenza di Dio, sia di ispirazione agostiniana.: Il testo più
completo a questo proposito è il De libero arbitrio L. Il. conoscere rinasce imperiosamente e si pone
come problema ontologico della verità o dell’essere fondante ogni conoscere, e
il pensare come tale, e come problema metafisico del Principio assoluto, cioè
della intelligibilità della verità dello stesso conoscere razionale e del senso
e del fine dell’uomo nella sua integralità. Il problema dell’esistenza di Dio
non nasce nè può nascere in una filosofia come sistema dell’assoluta scienza
razionale in quanto in essa è dissolto il problema della verità; nasce invece
all’interno della ricerca del fondamento assoluto o del Principio primo della
veridicità delle norme del conoscere razionale, cioè in una filosofia che
indaga sul donde quest’ultimo deriva la sua validità. // problema
dell'esistenza di Dio è il problema della verità, che è l’oggetto primo ed
interno della filosofia; prima di essere problema della ragione o del giudizio
sulle cose, è problema della intelligenza, dell’intuizione fondamentale della
verità, lume della ragione. 4) D'altra parte, se le cose sono giudicate dalla
ragione secondo i princìpi del giudizio, non possono esse contingenti, mutevoli, finite e inferiori
alla stessa ragione essere produttrici
di tali verità; le cose posseggono un grado di verità o di essere (sono, per
es., più o meno belle), ma non la norma universale, con cui la ragione giudica
del loro grado di essere o di verità, e che pertanto è indipendente dalle cose
stesse e preesiste al giudizio che per mezzo suo la ragione pronunzia sulle
cose. Voler ricavare dall’esperienza sensoriale i princìpi del giudizio è
rischiare, senza venire a capo della questione, conclusioni scettiche, a cui,
prima o poi, arriva ogni forma di empirismo. Il mutevole e contingente non può
essere fonte dell’immutabile e necessario; il grado di verità che riscontriamo
nelle cose contingenti non solo non adegua la verità conosciuta con la mente,
ma è conosciuto e giudicato in quanto nella mente preesistono le norme
oggettive del giudizio. Per conseguenza i princìpi immutabili, fondanti la
veridicità dei giudizi, non sono deducibili 118 Filosofia e Metafisica a priori
dalla ragione per analisi, nè sono un prodotto della sua attività; non
inducibili 4 posteriori nel senso di contenuti enucleati da una forma qualsiasi
di esperienza sensoriale. Donde, allora, questi princìpi? 4. Ragione ed intelligenza: l'intuito
fondamentale dei principi del giudizio. Prima di rispondere a questa domanda, è
opportuno chiarire un altro aspetto della questione. I princìpi del giudizio
sono noti alla ragione, che di essi si giova per giudicare; la sua attività è
discorsiva: stabilisce nessi e rapporti, formula giudizi e costruisce il
discorso. La ragione pertanto applica i i princìpi, li media, non ne ha
conoscenza diretta: essi sono conosciuti direttamente dall'intelligenza e
applicati dalla ragione, ia quale più che l’attività intuente i princìpi è
quella, diciamo così, che li adopera (*). Per conseguenza le verità sono
oggetto della intelligenza, ad essa presenti; la mente le vede in se stessa, le
scopre dentro di sè. Per l’intelligenza le norme sono illuminanti, le danno la
visione diretta della verità non com'è in sè ma come è alla mente presente
nell’ordine naturale; per la ragione sono, sì il suo lume, ma lume giudicante,
ne mettono in moto la capacità di formulare giudizi e le danno la conoscenza
mediata o indiretta della verità. Non abbiamo ancora detto l’origine di queste
verità, ma soltanto dimostrato che non le produce la mente umana che pur ne è
illuminata e costituita, nè la ragione, che pur di esse si giova per giudicare,
nè derivano dai contenuti dell’esperienza sensoriale ai quali li ap(3) Si può
osservare che i princìpi si colgono nel momento che sono applicati, non prima
nè fuori della concretezza della esperienza. Rispondiamo che ciò non mette in
questione l’intuito fondamentale dei princìpi, in quanto l’esperienza e i
giudizi della ragione sono possibili proprio per i princìpi, i quali, presenti
nell’esperienza non sono elementi derivabili da essa, che anzi li presuppone.
D'altra parte la distinzione intelligenza-ragione va sempre considerata
nell’unità concreta della vita spirituale. ” L'esistenza di Dio 119 plica:
constatiamo che sono in not, presenti alla nostra mente, da essa direttamente
intuite, suo oggetto intelligibile. Sono, dunque, innate? Non nel senso
dell’innatismo platonico, ma in quello dell’interiorità agostiniana: presenza
illuminante ed operante della verità in interiore homine; presenti anche quando
la ragione erra, perchè non è la verità che è assente a noi, ma noi ad essa. Se
per ipotesi assurda, la nostra mente fosse privata di questi princìpi, non solo
sarebbe incapace di verità, ma l’uomo, come spirito e anche come corpo, sarebbe
annientato. Questa presenza enigmatica della verità in noi, non proveniente da
noi nè dalle cose, e di cui pur partecipiamo, pone il problema della sua
origine; dunque, ci autorizza a porre l’ipotesi
Dio come possibile soluzione del problema dell'origine della verità
dalla nostra mente intuita e di quello dell’intelligibilità di ogni esistente.
Meraviglioso già che enti finiti e contingenti siano capaci di verità
immutabile e necessaria; che le cose abbiano un grado di essere o verità e nel
loro divenire un ordine che non passa, le regola e orienta. Qualcuno potrebbe
osservare: i principî, come dite, giudicano la ragione e non questa li giudica
anche se giudica secondo essi; ma chi riconosce veri i princìpi è la ragione;
dunque, sia pure per dire che son veri, essa li giudica. Esatto, ma l’atto con
cui la ragione dice che i princìpi son veri non è un giudizio, bensì una
constatazione: la ragione, giudicando veridicamente, testimonia della loro
verità; d'altra parte, i princìpi non sono oggetto immediato della ragione, ma
della mente a cui sono presenti. In altri termini, il cosiddetto giudizio con
cui la ragione riconosce la verità dei princìpi non fonda la validità dei
princìpi stessi, ma è l’atto con cui la ragione si costituisce come capace di
giudizi veri sul fondamento della loro verità fondante. 120 Filosofia e
Metafisica 5. Il problema dell'origine
dei princìpi del giudizio: tre risposte fondamentali. Degli elementi che
compongono il giudizio il soggetto pensante,
un dato da giudicare e le norme in base a cui la ragione giudica c’interessa quest’ultimo come quello che pone
il problema della verità oggettiva dei princìpi secondo cui la ragione giudica.
Il problema del conoscere è fondamentalmente quello della formazione dei
concetti; il problema della verità quello della origine dei princìpi, la
cui profondità »:è tale da convincere
che essa oltrepassa le possibilità dell’uomo. Prendiamo in considerazione tre
risposte, corrispondenti a tre diverse concezioni metafisiche e gnoseologiche:
in esse è contenuta quasi tutta la storia della filosofia. Prima risposta. Non
vi sono nella mente umana princìpi del giudizio, in quanto tutto nella
conoscenza deriva dall’esperienza sensoriale. È la risposta dell’empirismo la
quale, a rigore, non è tale per il semplice motivo che non risolve ma sopprime
il problema; infatti, dall’esperienza sensoriale non possiamo indurre alcun
principio assoluto e universalmente valido. Non per nulla l’empirismo, dalle
sue origini occamiste a Locke, Hume e fino ai nostri giorni, è nominalista,
agnostico, scettico. Se e quando non è tale, è contraddittorio: voler derivare
dall’esperienza sensoriale i princìpi con cui la ragione giudica l’esperienza
stessa, è come dire che i princìpi sono anch'essi cose ». Ma i princìpi del giudizio non son
cose e come non-cose sono ininduttibili
dall’esperienza sensoriale nè, d’altra
parte, sono conoscenze @ priori; consegue che l’empirismo è costretto a negare
la validità oggettiva dei princìpi e con essi la veridicità dei giudizi. Con
ciò nega la verità ed il problema della verità del conoscere razionale rchè
inizialmente, anche se implicitamente, fa della verità, realtà
intelligibile, cosa tra cose. Assimilati
alle quali . L'esistenza di Dio 121 MERE i pira : : i princìpi del giudizio,
l’empirismo ne riduce a due gli elementi; ma, come vedremo tra poco, neppure a
due. Seconda risposta. I princìpi del giudizio sono a priori: innati nella
mente umana (Razionalismo cartesiano-leibniziano) o prodotti dall'attività del
soggetto pensante (Criticismo e Idealismo trascendentale). Nel primo caso sono
conoscenze assolute, nel secondo soltanto
condizioni assolute del conoscere. Il razionalismo innatista già
comincia a non distinguere tra problema della verità e problema del conoscere
razionale. Di qui il suo andare ai due estremi: da un lato, ammessa
l’intuizione diretta dell'essere, nega il conoscere razionale e, per
conseguenza non può giustificare la ragion d’essere del mondo (Malebranche);
dall’altra, nega l’intuito della verità e riduce la conoscenza alla pura
razionalità con uguale conseguente negazione del mondo (panteismo acosmico
dello Spinoza). Ad eccezione del Malebranche, il razionalismo moderno perde a
poco a poco il senso dell’origine trascendente della verità e instaura
l’autonomia della ragione senza distinguere tra problema della conoscenza e
problema del fondamento del conoscere; d’altro lato, si avvia al filosofismo
illuminista che non distingue più tra filosofia e scienza e separa nettamente
il problema filosofico da quello teologico. Così è preparato il terreno al
Criticismo e all’Idealismo trascendentale, che segnano il passaggio dall’
innatismo all’immanentismo della verità: i princìpi del giudizio sono forme 4
priori immanenti dell’attività del soggetto pensante. Per conseguenza il
problema della verità s’identifica con quello del conoscere razionale: non vi è
un principio della sua assolutezza (Hegel), non esigenza di assoluto, ma
l’assoluto, essa, verità di e @ se stessa: il razionale adegua il reale e il
reale il razionale. Pertanto il problema dell’intelligibilità metafisica della
conoscenza non può avere più posto nell’idealismo trascendentale, in quanto il
sapere razionale 122 Filosofia e Metafisica è tutta l’intelligibilità
metafisica: la gnoseologia è essa la metafisica, la sola possibile. Il problema
dell'essere della verità del giudizio è risolto nell’altro della verità
immanente allo stesso soggetto pensante: metafisica del pensiero e non
dell’Essere o della Verità che fonda il pensiero. In altri termini, il pensiero
stesso è verità, padre e fondamento della veridicità di ogni conoscenza vera o
razionale, con cui s’identificano pensiero e reale. Anche questa volta i tre
elementi del giudizio sono ridotti a due; anzi, anche questa volta, neppure a
due. Infatti, l’idealismo trascendentale risolve e nega il reale ed ogni ente
nel Soggetto unico assoluto che è oggetto a se stesso; anzi con il Gentile nell’Azto del pensare o nel Pensiero
pensante, unico, ineffabile, puntuale. Allo stesso modo l’empirismo, diventato
positivismo, risolve il reale ed ogni ente nella Cose unica, alla quale
assimila il pensiero, che ne è un epifenomeno,
cosa dalle stesse leggi delle cose governata. Ma il positivismo non è solo
sviluppo dell’empirismo, bensì risultato della collusione di quest’ultimo e
dell’idealismo trascendentale attraverso il criticismo di Kant: se da un lato
può sembrare rinunzia al panlogismo dello Hegel, dall’altro, ne è uno sviluppo.
Infatti, se la ragione è tutta immanente al mondo ed il processo dell’uno è
quello dell’altra; se vi è adeguazione perfetta tra reale-cosmo e razionale,
consegue che assoluto filosofare è assoluto scientizzare: la filosofia si
risolve nella scienza e vi s’identifica; lo Assoluto è la Scienza, la filosofia
ne è la metodologia ». La metafisica
cosmologico-gnoseologista dal razionalismo ad Hegel ha nel positivismo uno dei
suoi sviluppi coerenti: posto il conoscere razionale come fondante se stesso;
negato il problema ontologico-metafisico della verità e per conseguenza una
verità oggetto della mente; identificato il sistema del sapere con quello del mondo », consegue che tutto il pensiero è
ragione, che l’oggetto unico della ragione sono le cose e i princìpi del
conoscere, cose essi stessi, o schemi, L'esistenza di Dio 123 categorie in cui
ordinare i fatti dell’esperienza. Non più i princìpi, ma divino è il fatto, come dice Ardigò, quasi i
fatti fossero essi ad illuminare la mente. Così, per l’idealismo
trascendentale, posto che i princìpi del giudizio sono il prodotto
dell’attività del soggetto pensante, divino, anzi Dio stesso, è il Pensiero e
non più la verità che lo illumina; ma siccome il Pensiero è tutto immanente
nelle cose e nel mondo dire che il mondo
è immanente al Pensiero è dire la stessissima cosa che il mondo adegua,
immanentisticamente, il Pensiero stesso
la divinità di quest'ultimo è divinità delle cose. Perciò a un epigono
di un Hegel pensato, o meglio spensato, con mentalità afilosofica è stato
facile ridurre la filosofia a
metodologia della storia », cioè dei fatti umani, forma di positivismo
umanistizzante che, nel fondo, non differisce da quello naturalistico, che
riduce la filosofia a metodologia delle scienze o dei fatti naturali. Infatti,
se questo positivismo assolutizza la scienza, l’altro assolutizza la storia.
Così la Ragione-Dio dello Hegel si precisa, senza che vi sia opposizione
sostanziale, come Storia-Dio e Scienza-Dio.
Ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale »; consegue che
se Dio non è razionale, non riducibile alla Ragione immanente, se non è la
stessa Ragione immanente, non è reale. Ma Dio identificato con la Ragione
immanente non è più Dio, è il Cosmo; e se il Cosmo è Dio, Dio non esiste. In
conclusione: 4) il problema della verità, fondante la veridicità del conoscere,
risulta soppresso e con esso la verità, la luce che fa intelligente la mente e
la ragione capace di conoscenza oggettiva: non sono possibili giudizi veri
senza l’oggettività dei princìpi del giudizio; 4) questi cessano di essere
oggettivi nel momento stesso che si riducono a
funzioni trascendentali del Pensiero o della Trascendentalità, principio
creatore della verità, luce a se stesso e fondante da sè la propria
assolutezza: il conoscere razionale è tutto e l’assoluto sapere; c) ma esso è
giudizio sulle cose, dunque, tutto il sapere è sapere le cose, e niente le
oltrepassa; tutto è cosa: cose spirituali o umane, ma sempre cose o fatti:
idealisti, spiritualisti, positivisti o come si chiamano sono in ogni caso
fondamentalmente e sempre materialisti (perciò il marxismo ha oggi tanto da
dire, a prescindere dalle contingenze politico-sociali); e) così come sono
negatori della essenza della filosofia, fatta necessariamente pura metodologia,
in quanto le si nega l’oggetto interno
il problema della verità quello
che la costituisce autonoma e la fa metafisica dell’essere che è verità e della
verità che è l'essere. Ma non basta: posto che l’unico sapere è quello
razionale o mondano giudizio sulle cose per stabilire nessi e
rapporti tra i dati dell’esperienza sensoriale
sapere assoluto in quanto ha il suo fondamento in se stesso, consegue
che, proprio perchè la ragione si pone come essa stessa principio
dell’oggettività, quel sapere e ogni sapere è privo di fondamento: la filosofia
dallo Hegel in poi è, infatti, processo di
sfasciamento del sistema della Ragione. Essa ha accolto dapprima la
conclusione del criticismo kantiano, convergenza del razionalismo e
dell’empirismo, che l’4 priori è
funzione del soggetto pensante e l’esistenza di Dio per conseguenza non
è razionalmente dimostrabile; e successivamente l’altra, che la
Trascendentalità è essa stessa l’essere tutto e che non c’è problema
dell’esistenza di Dio perchè Dio è lo stesso Logo immanente nel suo eterno
divenire dialettico (Hegel). Ma quest’ultima conclusione è stata spinta fino a negare
la teologicità della Ragione hegeliana e
a concludere, come il pensiero più recente, che, se Dio non esiste e l’uomo non
è Dio, niente ha più senso e tutto è assurdo. La filosofia moderna, come
filosofia della sola ragione », è
filosofia senza intelligenza »; perciò ha perduto Dio e l’uomo. Terza
risposta. I princìpi del giudizio sono
presenti alla mente, che ne ha l'intuizione. Questa l’inzelligenza costituita
dalla verità interiore, luce che illumina la ragione, che, illuminata, getta
luce sulle cose, le giudica, e giudicandole le vede nella loro intelligibilità
o loro grado di essere. E’ la risposta dell’idealismo trascendentista, di
derivazione e tradizione platonica, il solo idealismo autentico e, come tale,
il solo vero realismo. I due idealismi concordano sull’apriorismo dei princìpi
del giudizio, ma discordano radicalmente sul modo d’intenderli. L’idealismo
trascendentale fa dei princìpi del giudizio un prodotto del pensiero naturale e
le condizioni categoriali della conoscenza, identificando, come già detto, il
problema della verità come quello del conoscere razionale; l’idealismo
trascendentista, invece, distingue tra sapere intuitivo e conoscere razionale, tra presenza immediata
della verità a//a mente e presenza riflessa della verità nella ragione;
pertanto, per esso, i princìpi del giudizio sono verità interiori alla mente,
luce di essa, da cui la ragione è illuminata. La inzelligentia è il fondamento
della razio, che cerca l’intelligenza, la luce con cui, giudicando, illumina le
cose e le conosce: le conosce in quanto
le vede nella luce della verità alla
mente presente. Ma /a presenza della verità oggettiva alla mente, appunto
perchè interiorità, esclude l'’immanenza della verità stessa ed importa la sua
trascendenza rispetto alla mente. La verità, presente alla mente, è più di
essa: nel mio pensare e conoscere vi è qualcosa che trascende l’atto del mio
pensare e conoscere, verità che è mia, zon da me, più di me. Per essa son vere
tutte le cose vere, ogni ente è verità, il pensiero capace di verità e la
ragion di giudizio vero; ma essa non è le cose vere, nè ogni ente vero, nè il
mio pensiero, nè i miei giudizi: è ciò che fonda i singoli veri e li trascende.
Per conseguenza, la presenza della verità alla mente è insieme trascendenza, in
quanto alla mente è presente qualcosa che non è prodotto da essa. Donde questa
presenza? Quale il Principio assoluto della verità che illumina la mia mente,
per cui sono capace di giudizi veri? E’ questo il problema dell’intelligibilità
metafisica del conoscere ed è appunto il problema dell’esistenza di Dio.
6. Indubitabilità ed indistruttibilità
della verità dei princìpi del giudizio. Irrazionale e ridevole qualsiasi
tentativo di mettere in dubbio la verità dei princìpi del giudizio; infatti,
esso si configura come pretesa di giudicare intorno alla loro veridicità
fondandosi proprio... sulla loro verità! Ma, se i princìpi del giudizio sono al di làdel dubbio, consegue che
l’intelligenza che li intuisce è fuori
del dubbio e dell’errore: il dubbio è della ragione e del conoscere razionale
non della intelligenza e del sapere intuitivo; l’errore è nei nessi e rapporti
che la ragione stabilisce ed essa stessa corregge, non nei princìpi del
giudizio e nell’atto intellettivo che li intuisce. L'intelligenza o intuito
della verità è sempre nella verità; la mia mente e ogni mente umana, in questo
senso, è la libera prigioniera della verità. Anche se in odio ad essa volesse
scacciarla non potrebbe: vi abita ed è in casa sua; neanche il pazzo perde la
verità, che resta presente alla sua intelligenza. Infatti, il pazzo è uno sconnesso », ragiona male o non ragiona
affatto, come si dice, pensa ed agisce con nessi mal combinati, ma non potrebbe
sragionare o sconnettere, senza i principi del giudizio presenti alla sua
mente: se ne fosse privo non penserebbe affatto, nè male nè bene, non
sragionerebbe. Pietre, piante, animali non sono pazzi. Dunue anche nel pazzo
c’è l’uomo essenziale e profondo, la presenza della verità: la ragione
sopraffatta lo ha abbandonato, la verità no, e fa che egli, sragionante, sia
sempre uomo, soggetto spirituale. D’altra parte, anche ammesso, a detta di
alcune teste scientifiche di pseudofilosofi di moda, che tutto il conoscere
razionale sia convenzionale nel metodo,
nelle premesse e L'esistenza di Dio 127 nelle conclusioni, ciò non scalfisce
minimamente il nostro discorso: è possibile il convenzionalismo della
conoscenza razionale, proprio in quanto vi sono princìpi non convenzionali che
lo rendono possibile. Dire che anche essi sono convenzionali è giudicare i
princìpi in base a cui si giudica e che non possono essere giudicati. Domando:
in base a quali altri princìpi si giudicano convenzionali i princìpi? Una delle
due: o non ve ne sono altri e non potete giudicarli convenzionali; o ve ne sono
altri, e allora sono essi i principi non convenzionali. Anche se tutto il
conoscere fosse convenzionale non potrebbero essere convenzionali i princìpi in
base a cui giudico che tutto è convenzionale; se lo fossero, bene, in tal caso
niente sarebbe convenzionale. Non vi è giudizio con cui io possa distruggere la
verità; se non altro non potrei distruggere la verità del giudizio con cui pretendessi
distruggerla! Non posso annientare la mia mente, l’uomo profondo in me, anche
se posso distruggere la mia ragione: non la distruggono nè la pazzia, nè la
scemenza, nè la violenza scatenata delle passioni, anche se sconvolgono o
annientano la mia ragione. Il mio io profondo,. perenne, immortale come perenne
ed eterna è la verità non è l’io
razionale propriamente detto, ma l’io intelligente, che è oltre la ragione e
perciò oltre la scienza, la pazzia, la morte. Anche nel naufragio totale di
un’anima, superstite la presenza della verità, sopravvive il meglio di lei, in
lei il più di lei. Perciò anche l’uomo più reietto è capace di affermazioni
vere, di slanci di bene; le profondità del suo essere restano sempre orientate
verso Dio. Se i sotterranei della sua coscienza, sia pure per un attimo, sono
rischiarati consapevolmente dalla luce della verità, quel lampo può essere
decisivo, operare una trasformazione radicale: il reietto può diventare lume di
verità e fuoco di carità, potenza di santità. La verità, ogni verità, per
piccola che sia, è eterna; perciò va riconosciuta, rispettata, amata: è divina;
in questo 128 Filosofia e Metafisica senso, è divino l’uomo nel suo ordine, e
ogni cosa per il suo grado di essere. Dunque, l’uomo va sempre rispettato ed amato:
avanzo dolorante di miseria o rudere di mille delitti, in lui abita ancora e
sempre la verità, che è divina (‘). Essa, non privilegio di alcuni ma bene a
tutti comune, inerisce alla natura di ogni ente pensante in quanto tale: lume
dell’intelligenza, è dell’uomo, di ogni uomo, del povero e del ricco, del
venturoso e del percosso dalla sfortuna. E’ la riflessione scientifica o
tecnica, la elaborazione dotta e concettuale che è solo di alcuni uomini; ma
l’uomo essenziale, radicale, è nell’intelligenza della verità primale,
fondamento di ogni elaborazione razionale e scientifica; in essa la sostanziosa
e sostanziale sostanza umana. Togliere, per ipotesi, all'uomo la verità e
dargli tutto il benessere possibile e l’universo, è un’operazione somigliante a
quella di un assassino che, dopo aver ucciso, adorna splendidamente con
meticolosa cura il cadavere della vittima. Chi è nella verità, chi sa, può
sempre arricchirsi di conoscenza, perchè quel lume è il principio che fonda la
veridicità di ogni conoscere. Non è divino il pensiero (idealismo
trascendentale), non il fatto o la cosa (empirismo e positivismo), è divina la
verità in noi, madre di ogni verità razionale e figlia della Verità che la
oltrepassa e ci oltrepassa immensurabilmente. 7. Elementi e formulazione della prova dalla verità ». Dopo questo lungo discorso
necessario e chiaritivo dell’essenza della prova, raccogliamo tutti gli
elementi che la ricerca ha messo a nostra disposizione. (4) Quanto sopra è
detto previene un'eventuale obiezione: la vita concreta dello spirito non è
solo verità e bene, ma anche errore e male; è da questa reale dialetticità che
si ascende a Dio e non dalla sola intuizione della verità. Certo, la vita
spirituale è conflitto di verità ed errore, di bene e male, ma tale conflitto
non vi sarebbe senza la presenza della verità alla mente. Ora è proprio questa
presenza il fondamento dell’argomentazione dell’esistenza di Dio. L'esistenza
di Dio 129 1) La verità è un'entità intelligibile, oggetto di un pensiero o di
una intelligenza: non vi è verità senza un pensiero che la pensa,
un'intelligenza che la intellige. Nel caso della mente umana finita, ciò non
significa che la mente faccia essere la verità, la ponga», ma solo che la
scopre in sè, la intuisce; dunque, la verità che l’umana mente intuisce è da
essa indipendente. D'altra parte, come verità non di ieri o di oggi, ma di
sempre, è necessaria, eterna; era verità prima che mente umana la pensasse e lo
sarà anche se nessuna mente umana esistesse. Ma se è verità, oggetto d’intelligenza,
non può essere senza un'intelligenza che la pensi, nè può non essere, appunto
perchè eterna; dunque vi è la Mente o il Pensiero che la pensa, eterno come
essa. Ma se Pensiero eterno, è della stessa natura della Verità; il Pensiero
eterno ed assoluto è la Verità eterna ed assoluta, a differenza della mente
umana finita che ne partecipa soltanto. Dunque esiste la Mente assoluta
infinita che è la Verità in sè assoluta e infinita, da cui è ogni verità: è la
Verità creatrice. Si potrebbe obiettare: concediamo che la mente umana intuisce
verità immutabili e necessarie, ma ciò non basta a provare che esiste Dio come
Verità assoluta, in quanto le verità dalla mente intuite, proprio perchè
intelligibili, appartengono all’ordine della mente o del pensiero non a quello
della realtà; dunque non è ancora spiegato il passaggio dal‘l’ordine del
pensiero all’ordine del reale. Chi così obiettasse dimostrerebbe di essere
affetto dal più grossolano empirismo, in quanto: 4) da un lato, identifica il
reale con l’empirico, cioè con il grado più povero della realtà; 5) dall’altro,
non tien conto che noi argomentiamo dalla presenza della verità alla mente,
cioè non da un possibile o pensabile, ma dall’erze pensante, dall'uomo alla cui
mente è presente la verità, e l’ente pensante appartiene all’ordine
dell’esistenza, non del possibile; c) nè tiene conto che, se per l’essere
finito la verità intuita è solo dell’ordine 130 Filosofia e Metafisica del
pensiero perchè egli per la sua finitezza non può essere il soggetto sussistente
ad essa adeguato (se il pensiero umano adeguasse la verità infinita sarebbe
esso Dio e per ciò stesso insensatamente ateo), per la Mente infinita, invece,
la verità è lo stesso ordine dell’Essere. La Verità in sè non è un’entità di
ordine ideale, ma è Dio, l’Essere con cui s'identifica. In altri termini, la
distinzione tra i due ordini, per cui non è logicamente corretto dedurre dal
pensabile la sua esistenza, è valida per il finito e non per l’Essere infinito
o Dio. Su questo punto ha ragione S. Anselmo e non Gaunilone; e,
posteriormente, il paralogismo è di Kant, non del Santo di Aosta. Questa
precisazione significa ancora ben altro: la verità è oggetto nell’uomo, perchè
non può identificarsi con il soggetto, ente finito, ma come Verità in sè è
soggetto, è il Soggetto infinito e assoluto; dunque Dio, che è la Verità, non è
l’Oggetto impersonale, ma il Soggetto. Questa precisazione è valida contro chi
obiettasse che io faccio di Dio l’Oggetto o la Sostanza assoluta, al pari dello
Spinoza o del Carabellese. 2) Si arriva alla stessa conclusione secondo un
altro ordine di considerazioni: la verità che la mente umana intuisce e di cui
la ragione si serve per formulare giudizi validi, ha i caratteri
dell’immutabilità, necessità, universalità, i quali ci obbligano a riconoscere
che è, sì, nella mente umana, ma non dall’uomo creata; i caratteri essenziali
della verità sono gli stessi della definizione nominale di Dio; dunque, la
verità presente nella mente umana non può essere che di origine divina: esiste
Dio, Mente o Verità assoluta, che gliene ha fatto dono. Di qui ancora la
necessità di tener distinte l’inzelligenza e la ragione di Dio: non vi può
essere ragione di Dio senza intelligenza di Dio, mentre, anche quando non vi è
o viene a mancare la prima, resta la intelligenza di Lui, inesprimibile perchè
la ragione ne è impedita come nel caso del pazzo, dell’idiota, dell’ateo:
niente può strappare la verità L'esistenza di Dio 131 dalla mente e la mente
dalla verità, che è divina, più dell’uomo e all’uomo donata. Anche nella mente
del pazzo o dell’idiota, del malvagio o dell’ateo c’è perennemente la presenza
di Dio come presenza della verità data all’intelligenza. Per conseguenza, da un
lato, la ragione che nega Dio è la ratio nemica di se stessa, ribelle
all’inzellectus, fuori dell’intelligenza, insensata: dall’altro, la ratio che
argomenta dalla presenza della verità all’inzellectus l’esistenza di Dio,
dimostra conformemente all’intelligenza, non la fa essere: la ratio chiede
all’intellectus la ragione di se stessa. Perciò, da questo punto di vista, la
razio è un potere conoscitivo inferiore all’inzellectus da cui dipende. Il
dubbio e l’errore possono trovarsi nella ragione non conforme al vero, non
nell’intuito fondamentale della verità. 3) Tutti i caratteri che analogicamente
attribuiamo a Dio sono contenuti nella verità dalla nostra mente intuita: 1) la
verità rispetto alla mente è incondizionata; Dio, l’Essere che è principio di
se stesso; 2) la verità è necessaria ed immutabile; Dio, l’Essere necessario ed
immutabile; 3) la verità oltrepassa e trascende la mente umana; Dio, l’Essere
trascendente; 4) la verità è creatrice di giudizi veri; Dio, l’Essere creatore;
5) la verità è ordine e perfezione; Dio, l’Ordine e la Perfezione assoluti; 6)
la verità è essere, ciò che di essere è nella mente e nelle cose; Dio, l’Essere
realissimo; 7) la verità guida la mente alla conoscenza vera, suo fine e
perfezione; Dio, l’Essere intelligente che ordina a un fine; 8) la verità è
l'oggetto di un soggetto pensante; Dio, che è la Verità, il Soggetto
intelligente infinito. 4) Ormai possiamo dare alla prova la sua formulazione
recisa: l'ente intelligente intuisce verità necessarie, immutabili, assolute;
l'ente intelligente, contingente e finito, non può creare nè ricevere dalle
cose per mezzo dei sensi le verità che intuisce; dunque esiste la Verità in sè
necessaria, immutabile, assoluta che è Dio. Oppure sotto altra forma più
propriamente agostiniana: nulla vi è nell'uomo di superiore 132 Filosofia e
Metafisica alla mente; ma la mente intuisce verità immutabili ed assolute, che
sono ad essa superiori; dunque esiste la Verità immutabile, assoluta,
trascendente che è Dio. La ragione giudica secondo i princìpi intuiti
dall’intelligenza senza che possa giudicarli; pertanto essa non può mettere in
discussione, pretendere di dimostrare, la verità di quelle verità, fondamento
della veridicità dei suoi giudizi. Intuite dalla mente, sono applicate dalla
ragione; non ha senso domandarsi perchè è così o se potrebbe o avrebbe potuto
essere diversamente, in quanto non ha senso pretendere la dimostrazione di
quelle verità, fondamento della veridicità di ogni dimostrazione: sono fuori
discussione, al di sopra della dimostrazione razionale. Nè dimostrare
l’esistenza di Dio dalla verità
significa porre in discussione i princìpi, punto di partenza fuori discussione.
Per conseguenza, nell’intuizione delle verità immutabili e necessarie è
implicata l’esistenza di Dio, in quanto la loro presenza è già presenza in
immagine di Dio stesso. In questo senso si può dire che ogni qual volta la
mente è presente alla verità che è in lei e di cui la ragione fa uso, è
presente a Dio; dunque, pensare è pensare Dio senza che Egli sia l’oggetto
diretto ed immediato del nostro pensiero: Dio è l'al di là interiore, il
Trascendente. Non il ragionamento o la dimostrazione fa che Dio esista, ma
semplicemente constata che esiste: 2+2 è uguale a 4 non che deve esserlo; Dio
esiste, non che deve esistere. Più brevemente si può dire che dimostrare
l’esistenza di Dio è acquistare piena consapevolezza della nostra vita
spirituale, dalla quale infatti muove l’argomentazione, la cui forza è nella
proposizione è presente alla mente umana qualcosa che è superiore ad essa, e
alla ragione »; da qui la ragione argomenta. Dunque il processo razionale va
dall’esistenza degli spiriti finiti e contingenti all’esistenza dello Spirito
infinito e necessario; oppure dal soggetto pensante nell’oggettiva verità che
gli è interiore e lo costituisce pensante, alla Mente infinita che è la Verità.
Pertanto non si tratta di procedimento dall’idea all’esistenza di Dio, ma
dall’ente nsante finito e contingente all’Esistente assoluto e necessario che
lo fa essere ente pensante. D'altra parte, l’uomo pensa per la verità, oggetto
naturale del pensiero, che è tale solo per essa: la verità presente al pensiero
è presenza del pensiero, lo costituisce. Per conseguenza, la presenza del pensiero è compresenza della verità; dove c’è pensiero
c’è verità e viceversa; dove c’è pensiero c'è dualità, il pensiero, che è tale
perchè si illumina alla verità, e la verità, che gli è presente e fa che esso
sia. La prima alba del pensiero è la prima luce della verità, l’inizio
dell’esplicitazione dell’implicito originario, di quell’unità primale, per cui
anche la notte più densa della coscienza è sempre quella nella quale veglia la
presenza di Dio. La notte si ta giorno, ma solo perchè s’illumina alla verità
che dal di dentro illumina: l’oscura primitiva presenza si fa sempre più chiara
e si rivela come presenza di Dio. C'è l’ente pensante, dunque c'è Dio: basta
che vi sia un pensiero perchè sia implicata, come scrive Campanella,
l’esistenza dell’ Assoluto. In questo senso possiamo dire che c’è necessario
pensiero di Dio (per il fatto che esistono enti pensanti, Dio esiste) e
possibile consapevolezza di Lui, effettiva, ogni qual volta il pensiero
acquista coscienza di sè, cioè conquista la verità di se stesso, il senso della
sua dipendenza dall’Essere creatore. Consapevolezza di Dio, affinchè
l’argomentazione abbia rigore stringente e avvincente, è recupero integrale del
sensus sui, del momento della robusta coscienza genuina, ignuda, pura di
sofismi, vergine di menzogna: intelligenza della verità, che è senso
dell’essere, il costituirsi dell’uomo nella sua genuina umana sostanza! Chi pensa, pensa Dio»: al contrario chi non pensa Dio, non pensaperchè è assente
all’oggetto naturale del pensiero, la verità. Non avremmo coscienza del nostro
essere, se l’essere non fosse presente alla nostra coscienza; del nostro
pensare, se la verità non fosse presente al pensiero; del no134 Filosofia
e-Metafisica stro volere, se il bene non fosse presente alla volontà: noi
siamo, pensiamo, vogliamo nell’essere o nella verità. Solo chi si pone da
questo punto di vita cioè si colloca sul
piano dell’essere ha oltrepassato la
posizione empirica e positivistica, scientifica o storicistica, che sia, ed è
già ben saldo in quella metafisica e della vita spirituale. Insistiamo: altro è
l’inzelligentia, altro la ratio di Dio, cose distinte anche se non discordanti.
Sapere Dio è conquistare l'intelligenza di Lui, che è prima della razio e anche
senza di essa: la ratio trascrive in termini concettuali, traduce in discorso,
che è appunto dimostrare sul fondamento dell’intelligentia. Il pensiero moderno
ha voluto fare dell’esistenza di Dio un problema di pura ragione; ed ha perduto
Dio: ne ha fatto un problema di scienza
», di conoscenza scientifica », non uno
di vita spirituale, d’ intelligenza », di verità. Dio per la pura ragione quella del calcolo, dei nessi e rapporti è un ente di ragione: il Dio del deismo è
Ente razionale, in definitiva, la stessa Natura (Deus sive natura, dice
Spinoza); quello del meccanicismo di Newton è Legge o Causa del mondo,
l’Architetto dell’universo degli illuministi; fino a quando, con lo Hegel, si
risolve nel divenire stesso della vita della Ragione, che è tutto il Reale come
spirito e come natura, per cui vita spirituale e realtà naturale si adeguano
perfettamente in un cosmismo assoluto. Così Dio è perduto nè poteva non
perdersi: la ragione, fatta essa tutta la verità, è priva dell’intelligenza di
essa, veicolo a Dio. La ragione è giudizio delle cose, suo oggetto è il mondo
dell’esperienza; attinge dall ‘intelligenza i princìpi, ma li applica alle cose
di cui giudica: la ragione è scientifica
», esteriorizzante. Affinchè non sia solo questo è necessario Ché resti sempre
unita all’intelligenza, imbevuta della luce della verità, in modo che con un
occhio guardi nel mondo, e l’altro lo ficchi a fondo nella sorgente che la
illumina e tutto illumina. Il problema di una filosofia che voglia essere
revisione critica del pensiero moderno, è quello del recupero dell’intelligenza,
dell’intuito della verità che fa vera la ragione e ne è al di là»; in altri
termini, è il problema di oltrepassare la pura scienza, del riscatto
dell’interiorità, della profondità metafisica della mente. Bisogno di Dio è
bisogno di un al di là del mondo, cioè di un al di là della ragione; è
risveglio dell’intelligenza che penetra oltre nessi e rapporti, luce di verità,
sete di acqua sorgiva limpida e fresca: l’intelligenza è sempre più giovane
della ragione. Perciò la piena intelligenza di Dio è del mistico, dell’asceta,
del santo, che, folgorato dalla luce della verità, sente tutta la sua
persona carne e ossa e sangue €
spirito come fusa in una unità
incandescente e dinamica, che è slancio di azione, fecondità di pensiero,
accensione perenne dell’intelletto al fuoco della verità. Ragione sì, anche; ma
riempita d’intelligenza. 8. In interiore
homine habitat veritas. Presenza, non immanenza della verità alla mente; se
immane alla mente, nel senso proprio della filosofia moderna, la verità diventa
un suo prodotto e non pone il problema dell’esistenza della Mente assoluta, in
cui il pensiero e il suo oggetto (la Verità) s’identificano, a differenza che
nella mente finita: la mente umana si fa Dio essa stessa e perciò mente atea.
Ma la riduzione della presenza ad immanenza della verità implica
contraddizione, quella dell’idealismo trascendentale, specie della forma più
matura e coerente di esso, che è l’attualismo del Gentile. Se presenza è
immanenza, verità e pensiero s’identificano: l’oggetto del pensiero è lo stesso
soggetto pensante nell’4to che pensa; il pensiero pensa se stesso. L’attualismo
dice invece che pensare è mediare, ma la dialettica di pensiero pensante e di
pensiero pensato 0 è un artificio, o è una contraddizione; infatti, o il
pensiero pensante adegua il pensiero pensato e c'è immanenza, non mediazione, o
non l’adegua e c’è trascendenza, non più immanenza. 136 Filosofia e Metafisica
Presenza della verità alla mente dunque, e, nello stesso tempo, trascendenza,
in quanto presenza è sempre dualità di pensiero e del suo oggetto intuito. Ora,
se intuire la verità che è in noi è partecipare di qualcosa che ha caratteri
divini, consegue che ogni qualvolta la mente cerca la verità, in fondo cerca
Dio e quando scopre un vero, scopre in esso e dentro di sè un’immagine divina.
D'altra parte, se la verità è interiore alla mente, in questo senso si può dire
che Dio è in noi, che è in noi quella che è stata detta, forse imprecisamente,
l’idea di Dio: alla nostra mente è presente un’immagine di Lui, cioè la verità
illuminante ed operante. Che non è Dio; e perciò la sua presenza accende il
desiderio di Lui, Verità in sè che non conosciamo, stimola al possesso del Bene
sommo, cioè all’unione con Dio. Infatti, il bene della mente è la conoscenza della
verità: Dio è la verità assoluta; dunque alla mente adherere Deo bonum est (°).
La presenza della verità in noi non è dato inerte, ma forza operante,
stimolante, potenziatrice di tutta la vita dello spirito; orientatrice e
unificatrice: l’oscura nozione della verità è il presentimento di Dio; la
stessa esigenza di verità è esigenza di Lui, come la prima verità scoperta è
implicitamente la prima scoperta della Sua esistenza. La verità in noi è
l’intermediario, le milieu, tra la mente finita creata e la Mente infinita
creante: l’uomo è unito alla verità che è in lui ed è perciò naturalmente, ma
indirettamente, unito a Dio. Questa la sua condizione naturale. Da ciò consegue
ancora: dato che oggetto e fine della mente è la conoscenza della verità, tutto
il processo conoscitivo, dall’infimo grado al più elevato, anche quando l’uomo
tende ad altro, è orientato a Dio, converge nella scoperta della verità, che coincide con
la scoperta dell’esistenza di Dio, punto
assoluto di conver Acosrino, De diversis quaestionibus 83, q. 54. E' evidente
che il nostro processo 720 è dall’immanenza alla trascendenza. Dio non è nè una
produzione ideale nè un essere tra gli altri; la sua trascendenza è assoluta e
non relativa; Egli è Colui che è e gli
altri esseri sono per suo libero atto creativo. genza di tutta l’attività
conoscitiva dell’ente pensante. O unica filosofia è quella scettica e perciò un’insormontabile e assurda
contraddizione o essa è capace di una
sola verità e allora /a filosofia è sempre teistica, perchè teistica è
l'intelligenza umana, la cui vita autentica è amore, attraverso la presenza
della verità, della Verità in sè. Vi è in ogni ente pensante un teismo
embrionale, in quanto gli è presente la verità, sia pure involuta o nascosta;
vi è come un pensiero compendiato », che
si fa sempre più esplicito a mano a mano che lo spirito acquista coscienza
della verità ad esso interiore, quantunque, nello stato attuale, non avrà mai
la conoscenza piena della Verità assoluta, oggetto della sua suprema
aspirazione ma sempre rivestito di sacro mistero »; la Sapienza divina è
mistero per la filosofia, non è filosofia. L’infinito di verità che alla mente
manca, anche all’estremo confine della conoscenza, può esserle dato solo dalla
Rivelazione e dalla fede (6). L’uomo non è soltanto un essere razionale, ma
intelligente e razionale; come intelligenza è naturaliter teista. (6) F.
BonatELLI, Pensiero e conoscenza, Bologna. Vi sono verità che in nessun modo
possiamo pensare che non siano vere: questa proposizione è il fondamento della
prova, meglio di quell’aspetto di essa che sopra abbiamo sviluppato. Il fatto
che la ragione, malgrado la loro presenza, possa errare ed erri, non solo non
prova nulla contro di esse, ma anzi le conferma; infatti, se quelle verità non
fossero, non si potrebbe dire che la ragione sia capace di errore. Chi dice: la
ragione umana erra, s’inganna », sottintende:
perchè ha deviato dalla verità, se ne è allontanata »; dunque ammette la
verità e, solo in quanto essa c’è, può rilevare che la ragione erra.
L'affermazione: la ragione umana erra e s'inganna, perchè tutto è errore ed
inganno », non ha alcun senso: è soltanto uno sfogo passionale, un’insensatezza
che, come tale, non interessa la ricerca filosofica. Essa significa: l’uomo non
può pensare altro che l’errore e l’inganno, cioè il nulla di verità »; ma
pensare il nulla di verità è non pensare, e se l’uomo non pensa non C'è più
questione di errore, nè di verità.
Pensare il nulla », l’assurdo », il puro errore», conoscere l’errore »,
ecc. sono espressioni senza senso, suoni verbali che non significano niente.
D'altra parte, il fatto che la ragione possa errare e l’ente pensante in ogni
sua parte è contingente e finito, conferma L'esistenza di Dio 139 che la
verità, della cui conoscenza è capace, non è sua fattura: è stata data a lui,
fatto capace di conoscerla. L'ente pensante è un dato; la verità che egli,
contingente e finito, non può creare, è anch’essa un dato; ma se la verità in
interiore homine è prodotta, consegue: 4) che non è la verità in sè, il Primo
Vero assoluto; 5) che è dal Primo Vero Assoluto o Dio; c) che di essa è il
Principio: dalla verità creata in me alla Verità creante in sè; dal dato al
Principio efficiente creatore: dalla mente finita alla Mente infinita;
dall’uomo a Dio. Questa si può considerare un’altra formulazione della stessa
prova. Qui il termine principio ha il duplice senso di Principio esemplare e di
Principio efficiente. La mia mente intuisce delle verità, che sono un’immagine
vera e reale del Modello verissimo e realissimo o della Verità prima assoluta,
ma non si tratta di un rispecchiarsi meccanico (l’immagine dell’albero che si
riflette nello specchio d’acqua), bensì di un atto creativo efficiente che
lascia nella creatura un’orma di sè, viva, operante ed illuminante, produttrice
dell’attività razionale, cioè di verità seconde (i giudizi) che nascono dalle
verità prime, date all'uomo e da lui non create. L'immagine in me della Verità
in sè non è rappresentativa bensì presentativa di Dio, non com'è nella Sua
essenza, ma come può essere presente all’ente creato nello stato naturale. È
invece rappresentativa la conoscenza razionale in quanto lo è delle cose,
rappresenta la loro essenza e i rapporti in termini concettuali: è conoscenza
spettacolare, di ciò che sta fuori di me. Il sapere intuitivo, invece, è
presentativo: l'intelligenza non si rappresenta la verità, è presente alla
verità e la verità ad essa: dunque inzeriorità. Il rapporto non è di
rappresentazione di qualcosa che sta fuori di me, ma di partecipazione a e di
qualcosa che è dentro di me. La prova si fa sempre più chiara, ma nello stesso
tempo più complessa; conta che ci fermiamo ancora a considerarla. 140 Filosofia
e Metafisica 2. Il principio di causa e
le due forme di astrazione. Nella formulazione data testè della prova abbiamo fatto
uso del principio di causa, ormai legittimamente in quanto si è dimostrato che
l’ente pensante finito è capace di conoscere verità oggettive, una delle quali
è appunto il suddetto principio, che, come ogni altro fondamentale del
giudizio, è vero per se stesso e fonte di verità razionali (!). Come tale è già
una presenza, per se stesso una attestazione, una testimonianza dell’esistenza
di Dio; come principio di giudizio garantisce, solo perchè in sè vero, la
veridicità di ogni dimostrazione razionale che su di esso si fonda e dunque
anche di quella dell’esistenza di Dio. Ma nel contesto del nostro discorso il
principio di causa ha un significato particolare. Interiorità », presenza della verità alla mente, implicita
ed oscura quanto si voglia, significa sentirsi dentro la verità che è in noi,
viverla come vita e luce della nostra mente, esserne presi ed esser liberi
nella sua presa. Partecipare consapevolmente di questa presenza è acquistare
coscienza dell’esistenza di Dio, in quanto la consapevolezza della verità è già
coscienza che vi è nella mente qualcosa di superiore ad essa: la verità è di
per se stessa testimoniante. Pertanto il rapporto di causalità tra la Verità in
noi e la Verità in sè, stabilito dalla ragione, è dimostrativo dell’esistenza di
Dio, ma sulla base della capacità
presentativa di Dio stesso che ha la verità in noi. In altri termini, il
rapporto di causalità di ordine razionale si esplica e riceve verità e forza
dall’intelligenza, di cui fa parte, come verità originaria, lo stesso principio
di causalità; l’argomen(I) Resta da esaminare e provare se i princìpi
fondamentali non siano implicati in un'unica intuizione primitiva. Tale
approfondimento sarà fatto in altra sede, ma fin d'ora possiamo dire che i
princìpi del giudizio sono impliciti nell’intuito fondamentale dell’Idea
dell’essere, che intendiamo in un modo che non è più quello del Rosmini, anche
se da lui ispirato. Successivamente alla prima edizione della presente opera
abbiamo svolto questi punti nei seguenti volumi: L’interiorità oggettiva,
L’uomo, questo squilibrato, Atto ed Essere, Morte e immortalità,
rispettivamente I, IV, V, IX delle Opere complete. tazione in base al suddetto
principio dà forma razionale e dimostrativa al momento interioristico della
presenza della verità alla mente,
presentativa dell’esistenza di Dio. Perciò nella prova vi sono due
momenti solidali e convergenti: a) prova come esperienza della presenza della
verità, che è acquistare consapevolezza esplicita dell’ ospite celato e
presente », come dice il Blondel; 5) e prora come argomentazione dalla nostra
realtà spirituale all’esistenza di Dio. Il principio di causa è 4 priori, non nel
senso che ha per Kant, ma nell’altro che, come tutte le verità o princìpi
primi, è interiore a noi, intuito dalla nostra mente; dunque è già una
conoscenza, sia pure inizialmente compendiata o implicita, una verità oggettiva
e non una pura condizione soggettiva, anche se l’ priori di Kant è preteso come
oggettivamente valido. Se è così, il principio di causa, come ogni altro
fondamentale, non è il prodotto dell’astrazione ideologica o ascendente, cioè
astratto dalle percezioni sensoriali, in quanto ogni astrazione che l’uomo fa
da queste presuppone proprio i princìpi fondamentali come strumento di
astrazione, dai contingenti finiti, di quanto hanno di universale ed oggettivo.
Tale astrazione ascendente, dai particolari a quel che le cose hanno di universale,
non forma le verità prime e non potrebbe mai formarle tanto è vero che ogni posizione empiristica
prima o poi conclude al nominalismo, all’agnosticismo, al fenomenismo ma le trova formate e ne fa uso nel
procedimento astrattivo. D'altra parte, esse sono prodotte e non dall'uomo,
veri derivati e non il Vero assoluto, da cui sono, immagine del Modello eterno.
Dunque astratti sì, ma non dalle cose, bensì da Dio stesso: sono il prodotto,
come ha dimostrato il Rosmini, non dell’astrazione ideologica ascendente, ma
dell’astrazione divina discendente (*). La verità non sale a noi dalle cose, ma
di(2) A. Rosmini, Teosofia, 1185; 1405 e passim. Il Rosmini dice
precisamente astrazione teosofica »,
espressione che noi non adoperiamo. Si potrebbe anche dire: astrazione logica
ascendente e astrazione ontologica discendente. 142 Filosofia e Metafisica
scende in noi da Dio (*), altrimenti: 4) non vi sarebbe in interiore homine una
presenza della Verità, ma la stessa Verità, non il divino, ma Dio stesso: il
rapporto tra la verità e la sua immagine non sarebbe analogico ma univoco; 5)
l’uomo sarebbe egli il Soggetto infinito della verità infinita, cioè Dio. Con
l’astrazione discendente si spiega l’origine non umana delle verità primali che
sono presenti alla nostra mente; con l’astrazione ascendente e sulla base di
queste verità si conoscono le cose e si giudica della loro realtà o verità.
Perciò noi non respingiamo quest’ultima, ma diciamo che essa, da un lato,
presuppone l’astrazione discendente e, dall’altro, ha il suo campo di
applicazione limitatamente al mondo esterno, cioè a quanto è oggetto di
esperienza sensoriale. Ma quel che importa è recuperare e far nostro il
concetto di astrazione perchè è garanzia del rapporto analogico tra Dio e la
mente finita e dunque baluardo contro l’ontologismo e il panteismo. 3. La verità presente alla mente è appartenenza
di Dio senza essere Dio. Ogni cosa esistente è per quanto, e sempre
parzialmente, contiene di quelle verità che intuiamo nella loro pienezza
ideale, dunque sempre mancanti della sussistenza reale. Perciò noi
misuriamo, giudichiamo la verità o il
grado di realtà di ogni ente finito, senza che nessuno e tutti insieme adeguino
la verità che è in noi; dunque, la verità dalla mente intuita non trova in
nessuna cosa esistente la sua adeguata sussistenza e resta sempre un oggetto
ideale astratto. Ma se c’è nella mente creata una presenza della verità
assoluta e necessaria senza che alcuna cosa esistente, l’uomo compreso, perchè
contingente e finita, possa essere la sua sussi(3) Evidentemente si parla
di astrazione da parte di Dio in senso
analogico: qui il termine non vuol significare l’operazione propria
dell’uomo assurda se attribuita a Dio di astrarre l’universale dal particolare, ma
l'atto creativo con cui Dio dà all'uomo la verità primale, che, perchè creata,
non è più la verità come è in Lui, anzi la Verità che Egli è. L'esistenza di
Dio 143 stenza, consegue che esiste un Essere assoluto che, come tale, è il
Soggetto della Verità assoluta. In questo senso le verità primali che la mente
intuisce sono un’appartenenza di Dio, il
divino nell'uomo (*)», ma non Dio, quantunque opera dell’Intelligenza
divina. Non Dio, assolutamente: la Verità in sè contiene infinitamente più
perfezioni di quante possiamo attribuire alla verità che è in noi e le stesse
perfezioni da noi conosciute le contiene senza limitazioni, distinzioni e in
grado eminente. Noi non possiamo conoscere di Dio, se non per mezzo della
Rivelazione, più diquanto ci fa conoscere la verità intuita: gli attributi di
questa, per analogia, li predichiamo anche dell’Essere assoluto (°). Noi
sappiamo di Dio quanto Egli stesso ci ha concesso di sapere e per quanto ha
voluto che fosse presente alla nostra mente. În questo senso, ripetiamo, si può
dire che l’Idea di Dio è in noi €, se in noi non fosse, non ci potrebbe mai
venire dal di fuori; è in noi perchè in noi è la verità, immagine della Verità
in sè, intermediario che ci unisce a Lui. L’idea di Dio è in noi come derivata
da Dio stesso, che è dire: le verità prime sono in noi come derivate dalla
Verità assoluta, che è Dio. Tale cognizione, oscura implicata involuta quanto
si voglia, è interiore alla mente, perchè interiore le è la verità che la
illumina, la fa pensare, conoscere e giudicare di ogni cosa. Pertanto la proposizione,
(4) Se qualcuno obiettasse che in tal modo si unisce il soprannaturale alla
natura umana, dimostrerebbe, come è avvenuto a proposito del Rosmini, di non
capire o di non voler capire. (5) Dio, la Perfezione assoluta, possiamo
definirLo solo negativamente. Omnis determinatio negatio est; dunque Dio,
assoluta Perfezione, è al di là dell’atto definitorio della iogica della
determinazione astratta o del definire escludendo. In questo senso, come scrive
Spinoza, si deve negare di Lui tutto ciò che si predica del finito (Età. I,
Prop. XVI Scol.). Ma bisogna chiarire subito che Egli è l’indeterminato per
eccesso e non per difetto: essere infinito e perfettissimo, è l’Essere, non,
però, un'astrazione o una pura idea. Dunque Dio è fuori della serie degli
esseri, non è analogo nell’analogia dell’essere: è l’analoguant createur (N. I. I. BartHasar,
Mon moi dans l'étre, Louvain, 1946, p. IX). E’ l'Ipse suus actus essendi
irreceptus, cioè non ricevuto in una essenza specifica; la sua essenza è l'atto
di essere e dunque ia sua perfezione non ha limiti: indeterminato perchè senza
limitazioni, perchè è tutta la perfezione. 144 Filosofia e Metafisica nihil est
in intellectu quod prius non fuerit in sensu, è valida per tutte quelle
conoscenze che non possiamo avere senza il concorso di similitudini sensibili,
non per quelle verità primali che intuiamo direttamente e che, se non fossero
in noi, non potremmo mai ricevere da alcuna specie sensibile. Per conoscere un
oggetto particolare è necessaria l’esperienza sensoriale; per giudicare di
questa o quella cosa è necessario ancora che preceda l’esperienza della cosa
giudicanda; ma per conoscere i princìpi primi, che fondano la validità di ogni
giudizio e rendono possibile la conoscenza riflessa delle cose particolari, non
è necessaria esperienza alcuna, in quanto sono interiori alla mente, da essa
intuiti, di essa lume; meglio è necessaria l’esperienza interiore. Ora è
proprio questo lume di ogni conoscenza, fondamento di ogni altra verità, questo
naturale iudicatorium, che si dice presenza di Dio nell’uomo, legame che a Lui
unisce sine ad4miniculo sensuum exteriorum (°). 4. Critica costruttiva del principio di causa.
Da questa conclusione possiamo trarre lumi per ulterioriconsiderazioni sul
principio di causa. E’ stato obiettato dallo Schopenhauer che coloro i quali si
servono del principio di causa da un
effetto alla sua causa fino alla causa ultima non causata fanno come quel tale che va in giro tutto il
giorno con una vettura da nolo e poi, alla sera, giunto a casa, la licenzia
sulla soglia. Secondo l’arguta osservazione, chi conclude ad una causa non
causata si serve del principio di causa fino ad un certo punto, poi lo
abbandona, come chi licenzia la vettura sulla porta. In altri termini, il
principio di causa è valido fino a quando si risale da effetto a causa, ma non
quando si arriva (o si postula) ad una causa che non rimanda ad altro; cioè è
valido per il mondo dell’esperienza e non per ciò (Dio) (6) S. Bonaventura,
Commento alle Sentenze, vol. II, d. 39, a. I, q. IL L'esistenza di Dio 145 che
trascende l’esperienza. Sotto l’obiezione dello Schopenhauer c’è la critica di
Kant all’argomento cosmologico. Tale osservazione ha per noi scarsa importanza,
dopo il chiarimento dato sopra dei due momenti solidali e convergenti della
prova e dell’uso che facciamo del principio di causa. Qui non si licenzia la
vettura, del resto non presa a nolo, sulla soglia di casa, ma si entra in casa
con essa, anzi si è già in casa, in quanto l’effetto è presenza del Principio
da cui è. L’esemplarismo ci consente di scoprire nella realtà spirituale
l’immagine (effetto) del Principio primo; perciò conoscere me è conoscere Dio
come posso conoscerlo nel mio stato attuale: zoverim me, noverim te, dice
Agostino. Ma anche questo punto va ulteriormente precisato. Quando diciamo che
la dimostrazione dell’esistenza di Dio muove dalla vita dello spirito (di cui
fino ad ora abbiamo considerato solo l’aspetto intellettivo) intendiamo dire da
quell’essere contingente che è l’ente pensante finito avente un contenuto,
oggetto d’intuizione, di verità immutabili e necessarie. L’intuito o
l’intelligenza di queste verità, che non sono perchè io le penso, ma, al
contrario, io penso perchè esse sono e mi illuminano; la coscienza di questo
contenuto del mio pensiero, per il quale ho certezza della mia stessa
esistenza, non da esso posto o creato e perciò suo oggetto, questo è il punto
da cui muove la dimostrazione dell’esistenza di Dio dalla verità ». Non dunque solo dal mio
pensiero contingente e mutevole, ma da esso avente un contenuto di verità
immutabili ed assolute, che, come finito, non si può dare da sè; dall’ente pensante », ma che è tale in quanto intuisce
un pensato oggettivamente valido, che
egli non crea e non giudica, ma da cui è come creato quale pensiero; dunque la
prova muove dalla vita dello spirito
nella sua pienezza, che governa secondo verità immutabili ed universali la sua
attività intellettiva e morale. L’obiezione dello Schopenhauer ha un fondo di
verità se mossa ad un determinato uso del principio di causa e preci146
Filosofia e Metafisica samente a quello che chiamiamo cosmologico o anche scientifico »; infatti, la causalità in
questo senso è uno dei princìpi di cui la ragione si serve per intendere
(giudicare) e unificare il mondo dell’esperienza. Come verità oggettiva,
invece, al pari delle altre primali, essa è una presenza in noi della verità e,
come tale, valida come punto di partenza per dimostrare l’esistenza di Dio.
Allora non il processo causale, applicazione che la ragione fa di esso ai
fenomeni di esperienza, per se stesso porta a Dio in tal caso è valida l’obiezione dello
Schopenhauer , ma il principio di causa in se stesso, come puro principio,
presenza di verità in noi. Bisogna distinguere tra il principio di causa in se
stesso e la sua applicazione. In altri termini, il processo causale è un nesso
di causa-effetto tra fenomeni ed è limitato all’esperienza; il principio di
causa in se stesso, invece, è un dato intuito, la cui presenza è presenza di
verità in noi: come tale e come ogni
altra verità primale è punto di partenza
per dimostrare l’esistenza di Dio. Kant, che ne fa una pura condizione del
conoscere, deve necessariamente limitarne la validità all’esperienza e negare
per conseguenza che esso sia applicabile al di là di essa e dunque valido per
dimostrare l’esistenza di Dio. Ma in questo modo Kant, come lo
Schopenhauer, criticano soltanto l’uso
che la ragione fa del principio di causalità negando che possa essere esteso al
di là dei dati dell’esperienza sensoriale. Certo, se il principio di causa è
inteso nel suo primo significato fisico o naturalistico, Kant ha ragione: causa
in questo senso è un fenomeno che precede e condiziona un altro fenomeno che è
a sua volta preceduto e condizionato da un altro ancora; è di questa causalità
che lo Hume aveva negato la oggettività. Ma Dio è l’Essere assoluto e
necessario da nulla preceduto e condizionato, cioè è fuori della serie dei
fenomeni e di ogni serie, fuori dello spazio e del tempo; perciò in questo
senso non è causa dell’Universo, ma Principio assoluto, diverso dalle cause del
mondo fenomenico, cause a L'esistenza di Dio 147 loro volta causate. Resta
l’altro problema del principio di causa in se stesso, cioè della verità oggettiva di esso, che la
criticaignorò per difetto di critica. Ora proprio la verità del principio in sè non la sola sua applicazione o il processo di
unificazione dei fenomeni pone il
problema dell’esistenza di Dio ed è punto di partenza della sua soluzione. A
Kant resta il merito di aver dimostrato, contro, la metafisica scientista e
geometrizzante del razionalismo moderno, che il principio di causa, considerato
nel suo uso scientifico o cosmologico, non può servire a dimostrare l’esistenza
di Dio, in quanto o Dio resta inserito nella serie dei fenomeni e non è più
Dio, o ne è fuori e non si dimostra con il solo uso del principio che viene
infatti, come dice lo Schopenhauer, licenziato sulla soglia di casa. Si è che
il problema di Dio non è affatto quello dell’unità dell’esperienza, che è
problema puramente gnoseologico : Dio è al di là della unità dell'esperienza.
Se noi Lo identifichiamo con il tutto dell’esperienza cadiamo in una forma di
panteismo o di deismo e, in qualunque caso, di ateismo. E° l’errore della
metafisica razionalistica (nel pensiero greco di Aristotele e degli stoici) da
Cartesio a Wolff: Dio principio unificante la esperienza, architetto del mondo ». Di qui la identificazione di Dio con
la Causa o la Legge, con la Ragione universale; ma questo è il problema della
causa cosmologica non quello del Principio teologico. Dal nostro punto di
vista, la questione s'imposta diversamente: non dal processo causale (di causa
in causa) a Dio Causa prima, ma dal principio in sè di causa, verità
direttamente intuita, a Dio. La consapevolezza della presenza della verità è
chiarimento dello spirito a se stesso, è toccare la sua interiorità profonda,
che, conquistata, è è testimonianza di Dio, del Principio di verità e di ogni
verità; poi la ragione argomenta e rende esplicito il rapporto di causalità, e
la presenzialità si fa dimostrazione. Ma qui la causalità ha senso diverso da
quello che ha come legge dei fenomeni. Per con148 Filosofia e-Metafisica
seguenza crediamo che l’espressione
Dio-Causa prima sia impropria e generi equivoci; meglio dire Dio-Principio ». Dio non è causa, ma
Principio anche del principio di causa,
verità dalla mente intuita, come è Principio dell’ordine di causalità
che regola i fenomeni di esperienza (7). Il mondo, più che effetto, è creatura
di Dio; il concetto di effetto non traduce affatto la pregnanza di significato
di quello di creatura, come il concetto di causa, così legato all’altro di
serie, non adegua quello di Dio come Principio di tutto ciò che è nell’ordine
dell’essere limitato o creato. Dire che Dio è Causa di se stesso importa la
difficoltà di concepire una Causa in sè, indipendentemente dall’effetto e da
ogni effetto, tranne che non si stabilisca un rapporto necessario tra DioCausa
e il mondo-effetto; ma questo è panteismo. Ciò ci consente di porre l’esistenza
di Dio come problema di ordine metafisico, al di là del piano delle scienze
sperimentali e matematiche. Dio non è causa esplicativa del mondo, sia pure
causa ultima o prima spiegante il movimento o altro, quasi integrazione o
prolungamento della conoscenza scientifica; è solo il Principio (e la ragione
anche) di ciò che esiste: ciò che esiste si svolge nel suo ordine come se Dio
non esistesse, ma non potrebbe esistere se Dio non fosse; infatti, esiste in
quanto è il Principio creatore di tutto ciò che esiste. In breve, il concetto
di causa appartiene all’ordine dei fenomeni: Dio invece è l’Essere, la ragion
d’essere creatrice di tutto ciò che è. Il progresso della scienza, da questo
punto di vista, non interessa il problema dell’esistenza di Dio, nè questa
rende superflua o sostituisce la spiegazione scientifica; il metodo e (7)
Perciò abbiamo evitato studiatamente di parlare di Dio Causa prima non causata,
anche a costo di scostarci dall'uso tradizionale dei termini. Per evitare
equivoci non diciamo neppure che Dio è causa sui, in quanto ciò potrebbe
importare in Lui un assurdo prima e poi. Dio è Principio assoluto e solo per
analogia può chiamarsi anche Causa non causata. Cfr. la comunicazione di G.
‘Capone Braca nel vol. Ricostruzione metafisica, Atti del IV Convegno di Studî
Cristiani di Gallarate, Padova, Liviana, 1949, pp. 188-193. L'esistenza di Dio
149 l’oggetto della metafisica non sono quelli della scienza e viceversa. La
preoccupazione di tanti volonterosi di
armonizzare metafisica e scienza
e, peggio, fede e scienza è una
forma di irenismo senza senso e pericolosa. Dal nostro punto di vista il
principio di causa, più che risolutore del problema dell’esistenza di Dio, è
esso stesso un dato che pone il problema dell’origine di se stesso come verità
primale presente alla mente; ma, appunto perchè tale, esso è un dato che
attesta l’esistenza della Verità in sè; d’altra parte, serve alla ragione per
argomentare dalla verità presente alla mente all’esistenza della Verità in sè.
In altri termini, la ragione dimostra l’esistenza di Dio in quanto lo spirito è
capace di Dio: la mente che intuisce la verità attesta e desidera Dio. L'amore
di sì come mente nella verità e l’amore di Dio come Verità assoluta non sono
esteriori, ma l’uno all’altro interiori. 5.
Il non senso dell’ateismo. Se così, è possibile affermare razionalmente
che Dio non esiste ? Affermare razionalmente significa giustificare secondo
ragione: si può giustificare l’affermazione
Dio non esiste ? Se la domanda ha un senso non può significare che
questo: l’affermazione Dio non esiste è
un giudizio oggettivamente valido. Come sappiamo, non ci sono giudizi
oggettivamente validi senza princìpi assoluti su cui si fonda la loro validità
oggettiva; ma la presenza di questi princìpi è proprio il fondamento della
dimostrazione dell’esistenza di Dio; dunque, dire che il giudizio Dio non esiste è oggettivamente valido è una
contraddizione nei termini, in quanto se la ragione è capace di un solo
giudizio di tal fatta, ciò basta perchè argomenti l’esistenza di Dio e non
possa più negarla. Esattamente S. Bonaventura osserva (*) che, anche la (8)
Commento alle Sentenze, d. VII, p. I, a. I, q. II. 150 Filosofia e Metafisica
negazione di ogni verità faugualmente impensabile la negazione dell’esistenza
di Dio. Infatti, chi dice non esiste
verità pone come assolutamente vera questa affermazione e dunque ammette
qualcosa di oggettivamente vero; ma non vi può essere un solo giudizio vero e
una sola verità senza che si ammetta esistente la Verità in sè, in quanto ogni
vero è tale per la verità. Chi dice Dio
non esiste e considera quest’affermazione come assolutamente vera, con ciò
stesso afferma l’esistenza di Dio: anche chi nega che Dio esiste afferma Dio.
Ma egli è convinto di essere ateo; benissimo: non vede la contraddizione, non
si accorge che la sua negazione è l’affermazione senza senso di pensare
l’impensabile: s’illude di pensarlo; l’ateo appunto è l’instpiens, colui che
non sa quel che dice, l’insensato. Dio è presente alla nostra mente, interiore
alla nostra vita spirituale: negare la sua esistenza è atto irrazionale, in
quanto la ragione attua la sua capacità conoscitiva e giudicatrice perchè la
verità è presente alla mente, cioè proprio per la presenza di Dio in noi;
dunque, non può razionalmente dubitare
di ciò che la rende capace di giudizi veri e la libera dal dubbio. Assurda la
sua pretesa di giudicare la verità, fondamento di ogni suo giudizio vero e
dunque quella che la giudica e non viceversa: alla ragione non spetta giudicare
se i veri intuiti dalla mente siano tali, ma solo usarne per pronunciare
giudizi veri. Come già abbiamo detto, dimostrare Dio non significa farlo
esistere, ma semplicemente passare dal sapere originario alla conoscenza
discorsiva propria della riflessione. La ragione che nega Dio si mette contro
la verità intuita, cioè contro il fondamento di ogni giudizio vero, contro se
stessa, si contraddice; non nega Dio, nega se stessa nell’errore: insipientia.
In breve, non è ragionevole negare l’esistenza di Dio; anche se la ragione costruisce
un discorso negativo in tal senL'esistenza di Dio 151 so, la forza di tale
ragionamento è nulla, puramente apparente: la coerenza formale è vuota della
verità che sostanzia ogni vero procedimento logico. La sua apparente logicità è
sostanzialmente irragionevole; discorso che, mancando di razionalità
intrinseca, è intrinseca irragionevolezza, solo estrinsecamente o verbalmente
razionale: l’ateismo non volgare è insensatezza sottile. Spesso si nega
l’esistenza di Dio perchè non si riesce a penetrarne l’essenza, quasi per uno
stolto ed irragionevole dispetto della
ragione diabolicamente superba: Tu sei l’Impenetrabile, l’Oscuro, ed io ti
nego; dico che, siccome non ti posso ridurre alla mia misura, Tu non esisti».
Lo stesso atteggiamento può determinare il fideismo assoluto: Tu sei l’Oscuro e l’Assurdo e perciò credo
che tu esisti ». È la conclusione di un razionalismo irrazionale che spinge la
ragione, uccidendola, a compiere lo sforzo innaturale di rendere lucido
l’oscuro, di misurare lo smisurato. Così l’innaturale maggiorazione della
ragione si risolve nel suo accorciamento sterilizzante, nella sua distruzione.
Allora, non ci dovrebbero essere atei? Ci sono, ma non sanno quello che dicono.
L’ateo è colui che pensando che Dio non esiste, in realtà non pensa: fa uso dei
princìpi di verità senza consapevolezza alcuna della loro profondità
metafisica. La sua è affermazione puramente verbale: egli pronuncia parole che
non hanno senso e di cui non si rende conto; le dice, ma ad esse non può dare
il suo assenso, in quanto non può assentire alla contraddizione e all’assurdo:
il «sì», non dettato dalla volontà libera ma dall’arbitrio, è anch'esso
verbale. « Sarei molto curioso di vedere qualcuno che fosse persuaso che Dio
non c’è: almeno mi direbbe la ragione invincibile che l’ha saputo convincere
(La Bruyère). L’ateo si trova in una strana situazione: afferma che Dio non
esiste e non può dare un ragionevole assenso a questa affermazione. Si può dire
che la superstite « ragionevo152
Filosofia e Metafisica lezza del negare l’assenso lo salva in parte
dall’assurda «razionalità irragionevole del suo ateismo (7). L’ateo,
l’insensato che fa la ragione giudice della verità invece di usarla per
giudicare secondo verità, capovolge lo ordine del pensiero, sottomette la
verità alla ragione; una volta che lo schiavo crede di essere diventato padrone
non sa più dove vada: perduto il criterio del giudizio, si perde nell’errore e
nell’insensatezza. Conclusione: se Dio non esistesse l’uomo non potrebbe neppur
pensare che non esiste, in quanto non penserebbe nulla. In questo senso pensare
è pensare che Dio esiste; io penso,
dunque Dio esiste », scrive ancora La Bruyère, in quanto la mente pensa perchè
Dio esiste (!9). Da quanto abbiamo detto risulta che la dimostrazione
dell’esistenza di Dio o la sua negazione è questione, dal punto di vista
logico, di uniformità o disformità della ragione alla o dalla verità; la verità
regola il buon uso della ragione, non viceversa. Nella ricerca, guidata dalla
verità, (9) J. Lacneav, nei frammenti raccolti sotto il titolo Existence de
Dieu (Paris, 1910), nota acutamente che quelli che sono o credono di essere
atei testimoniano in favore dell’esistenza di Dio; infatti, ci aiutano a
rendere sempre più pura la nostra concezione di Lui, a liberarci delle
rappresentazioni grossolane o infedeli: Ces douteurs ont frayé la route Et sont
si grands sous le ciel bleu Que, désormais, gràce è leurs doutes, On peut enfin
affirmer Dieu. (10) Con la prova da noi sostenuta, di evidente ispirazione
agostiniana, ha punti di contatto quella del Rosmini: l’idea dell’essere
illimitato ed immutabile, intuita dalla mente limitata e mutevole, non può
essere prodotta dalla mente stessa, la riceve come l’oggetto primo che la fa
intelligente; vi è pertanto in noi un effetto non prodotto da noi nè da alcuna
causa finita; dunque esiste una Mente infinita, necessaria ed eterna. (Nuovo
Saggio, n. 1456 sgg.; Teos., 797). Rosmini argomenta così perchè la sua idea
dell'essere non è la forma a priori di Kant. Conoscere è giudicare, anche per
lui: ma vi è un sapere intuitivo fondamentale che non è giudizio, e garantisce
la validità di ogni conoscere giudicativo. Nei nostri scritti successivi, già
citati, abbiamo fuso la prova agostiniana’ con. quella del Rosmini attraverso
un approfondimento del principio di
verità e di quello dell’ essere come Idea », per cui è necessario integrare
quanto si legge in queste pagine con quanto abbiamo scritto soprattutto in Atto
ed essere, III ediz., pp. 124-134. L'esistenza di Dio 153 la presenza di questa
è presenza dell'immagine di Dio, cioè di un dato che testimonia del suo
principio: nella stessa dimostrazione dell’esistenza di Dio è presente quella
verità la cui presenza rimanda al suo principio. Si può dire che la
dimostrazione scaturisca da tutto il processo del pensiero, da ogni momento del
suo svolgimento. Se conoscere significa acquistare una sempre più chiara
consapevolezza del grado di verità di cui la mente umana è capace, il processo
del pensiero è processo di consapevolezza dell’esistenza di Dio: ogni verità
scoperta è aztestazione della sua esistenza e punto di partenza per la
dimostrazione razionale. La originaria oscura nozione di Dio si fa sempre più
chiara a mano a mano che il pensiero acquista coscienza della verità e ad essa
uniforma l’attività intellettiva: il suo destino di verità si precisa sempre
più nettamente come desiderio di Dio. La vita intellettiva dell’ente creato e
finito è itinerario dalla verità in noi alla Verità in sè, da Dio in noi a Dio
in sè. La presenza dell’uomo a se stesso lo è dell’uomo alla verità che gli è
interiore ed infinitamente lo trascende. Vi è in lui il segno di qualcosa che è
più di lui e perciò l’uomo più di ogni altro ente porta in sè i segni manifesti
del suo Principio. 6. La presenza di Dio
e il dinamismo del pensiero. Veritas e
ratio ». L’internità della verità alla mente al tempo stesso che garantisce la
validità oggettiva della prova dell’esistenza di Dio precisa nettamente i
compiti e i limiti della ragione, che non
pone la verità, ma argomenta sulla base della verità posta »,
data alla mente: giudica di ogni cosa con cui l’esperienza la mette in
contatto, in quanto le sono dati i mezzi per conoscere e giudicare secondo
verità. Vi è un nucleo essenziale di verità che l’uomo non si dà da sè e che,
illuminandolo e facendolo ente intelligente, lo fa ca154 Filosofia e Metafisica
pace di conoscere quanto appartiene all’ordine della realtà creata e finita. Vi
è, d’altra parte, una verità opera dell’uomo, la conoscenza del mondo
dell’esperienza, che la ragione è capace di costruire solo perchè poggia su un
fondamento che la trascende. Tale verità essenziale, originaria ed orientatrice
di tutta la vita intellettiva dell’ente razionale creato, è presente alla mente
e direttamente intuita da essa, che ne ha inzelligenza; è in noi la presenza
illuminante ed operante di Dio. Per conseguenza, la verità intuita, fondamento
di ogni conoscenza riflessa o di ogni giudizio, è indipendente dalla ragione ed
anteriore alle sue dimostrazioni. Senza la sua presenza, che è presenza
indiretta di Dio, il movimento stesso del pensiero sarebbe incomprensibile ed
inspiegabile: esso è originariamente mosso dalla verità che è in lui verso la
Verità che lo trascende. La ragione è chiamata a seguire questo movimento intellettivo
dalla presenza interiore della verità alla Verità in sè, a inserirsi nella
verità che fonda i suoi giudizi, ma appunto perchè li fonda, è ad essi e alla
ragione anteriore: la presenza indiretta di Dio in noi è prima della
dimostrazione della sua esistenza per concatenazione di concetti. Lo spirito
tende alla Verità in sè sollecitato dalla verità in lui presente; tende a Dio
che è in lui, ma che non gli è noto e perciò Lo cerca e ne dimostra
l’esistenza: ma la dimostrazione è possibile perchè nello spirito è presente
tutto ciò che la rende possibile, ciò di cui la ragione si serve per
argomentare rettamente. È evidente che i due termini veritas e ratio vanno
tenuti ben distinti: la veritas è l’insieme dei principi intelligibili dalla
mente intuiti; la ratio è l’attività che, sul fondamento di questi princìpi che
la trascendono, stabilisce nessi e relazioni. La ragione è il lume delle cose
in quanto è essa che le giudica, ma è /ume illuminato dalle verità
intelligibili, che le consentono appunto di illuminare e giudicare ogni cosa
(di fare che il mondo sia esperienza »),
tranne gli intelligibili stessi. Lume della ragione, la quale è lume del senso,
L'esistenza di Dio 155 è la verità che la trascende e la mette in grado di
stabilire relazioni e nessi; la ragione cerca l’intelligenza della verità.
Pertanto: 4) essa non potrebbe niente dimostrare e dunque neppure l’esistenza di Dio se nulla di vero o di intelligibile la
illuminasse: 5) è capace di conoscenze riflesse perchè la verità, indipendente
da essa e dalla quale essa dipende, la illumina; c) dunque, la ragione non fa
esistere Dio, ma solo dimostra che non può non esistere, in quanto è
assolutamente irragionevole che non esista e assolutamente ragionevole che
esista. Per conseguenza anche se la dimostrazione risultasse imperfetta a causa
della ragione mutevole e finita, ciò non infirmerebbe la verità dell’esistenza
di Dio. La concatenazione dei concetti può essere incompleta ed imrfetta,
perchè tale è l’umana ragione, ma non può mettere in dubbio l’esistenza di Dio,
per il semplice motivo che la stessa dimostrazione imperfetta ma sempre contenente una qualche verità non vi sarebbe se Dio non esistesse e non
illuminasse. Rosmini, che indubbiamente tiene presente S. Agostino, distingue
tra ragione e lume della ragione »: la
prima è l’attività che ha come oggetto l’idea dell’essere, che è appunto suo
lume. Questa distinzione va approfondita (l’approfondimento è nostro e non va
attribuito al Roveretano) perchè chiarisce, ci sembra, un punto fondamentale
del nostro discorso. Comunemente diciamo, retaggio dell’intellettualismo greco
e del razionalismo moderno, che il senso
è del particolare e la ragione
dell’universale »; il senso è del
contingente e la ragione del necessario
», ecc. Queste espressioni non significano affatto che il senso è particolare e
la ragione universale: non solo quest’ultima, ma anche il senso è la cosa
meglio distribuita »; non solo la facoltà di ben giudicare e di distinguere il
vero dal falso (che è propriamente quel che si chiama buon senso o ragione) è
naturalmente uguale in tutti gli uomini (Descartes, Discours de 156 Filosofia e
Metafisica la méthode, p. I), ma lo è anche la facoltà di sentire, anch’essa
naturalmente uguale in tutti gli uomini. Da questo punto di vista, il senso,
come facoltà comune a tutti gli uomini, è altrettanto universale come la
ragione o l’intelligenza. Per conseguenza, la particolarità e la contingenza
della sensazione e l’universalità e la necessità del giudizio non dipendono dal
senso o dalla ragione in quanto tali, ma dal diverso oggetto che è proprio di
ciascuna delle due fa coltà; in altri termini la ragione è universale, capace
di giudizi universalmente validi, perchè l’oggetto che le è proprio la fa tale,
cioè perchè illuminata dalla verità. Dunque, la universalità e la necessità del
conoscere razionale non sono date dalla ragione, ma dal suo lume, dalla verità
che è suo oggetto; nel caso in cui la ragione fosse privata (o si privasse da
se stessa) del suo lume, cesserebbe di essere universale e necessaria come
organo conoscitivo. Non vi è un rapporto gerarchico tra senso e ragione, questa
superiore all’altro, ma vi è tra quel che è oggetto del senso e quel che è
oggetto della ragione. Da ciò consegue che nella concretezza e sinteticità
dell’atto spirituale dove sono presenti, entrambi si coordinano e si
subordinano alla verità illuminante. Non la ragione, ma il suo oggetto è vero.
Da ultimo se la ragione producesse essa la verità, non vi sarebbe piùverità,
sarebbe essa stessa lume e, come tale, mutevole e soggettiva al pari del senso,
pur restando la cosa meglio distribuita ». Ciò spiega perchè l’idealismo
trascendentale si può sempre convertire in forme estreme di empirismo e
scetticismo. Vi è una verità primale presenze all’intelligenza fondante la
veridicità dei giudizi della ragione; dunque l’uomo è creato con e per la
verità, dove il conindica la partecipazione iniziale è dalla verità e il
peril fine: L'esistenza di Dio 157 cercare la verità nella vita
temporale per fruirne nella vita eterna; dunque, la verità guida il pensiero e,
guidandolo, fa che esso la trovi e trovi, salvi, se stesso: itinerario
filosofico con meta religiosa. Vi è dunque una partecipazione iniziale ed una
partecipazione finale dell'ente intelligente creato dalla e per la Verità
creante; vi è una sua contingenza essenziale per il fatto stesso che è
partecipante della verità, ma non è /a Verità, la contingenza della mente
creata, che è per la Mente assoluta increata. Non una soltanto di ordine,
diciamo così, gnoseologico o del nostro conoscere, ma anche e innanzitutto di
ordine ontologico, del nostro essere: siamo enti perchè l'Ente ci fa essere. Ci
pensa e ci fa essere; come esseri e per quanto abbiamo di essere abbiamo di
verità, e la verità che siamo è il nostro grado di essere: ciò che è vero È, e
ciò che è, è vero (!!). La coscienza di me come essere principiato implica
l’esistenza di Dio. Ma io posso pensare di non-essere e il Non-essere, ed
identificare Essere e Nulla. Posso; però nell’atto che penso il Non-essere e il
mio non-essere è implicato il mio essere, altrimenti non potrei pensare il
Non-essere e me come nonessente; dunque, in quell’atto è dato il mio essere, un
essere, ed è implicata l’esistenza dell’Essere: giacchè qualcosa esiste, esiste
l’Essere assoluto indipendente. Infatti, o l’ente è indipendente e allora ogni
ente è #n essere assoluto indipendente, ciò che è assurdo perchè non ci sono
più esseri assoluti indipendenti, ma /’Essere assoluto indipendente; o l’ente
dipende da altro per esistere e allora, basta che esista l’ente finito, perchè
esista Dio come Essere assoluto indipendente. Il problema dell’esistenza di Dio
è dunque interiore, intrinseco, non solo al nostro conoscere, ma a zutto il nostro
essere: l’uomo può scartarlo o evitarlo solo evitando o scartando se stesso,
tanto tale problema è radicato in lui ed egli in esso. Ora, se la parte Superfluo
avvertire che questa espressione è differentissima dall’altra hegeliana: ciò che è razionale è reale e ciò che è reale
è razionale », del resto già da noi criticata. cipazione iniziale e finale
all’Essere fa che l’ente creato non sia l’Essere ma dal e per l’Essere, fa
anche che esso non sia estraneo alla Verità o all’Essere nè l’Essere a lui, ma
si avverta nell’Essere, avvertendo, nello stesso tempo, che vi è
incommensurabilità e solo analogia tra l’ente partecipante dell’Essere e
l’Essere stesso. Il concetto di partecipazione, nel senso da noi usato, importa
contemporaneamente attrazione e repulsa; l’ente finito è come attratto e
respinto dall’Essere infinito: attratto perchè è 44 e per l’Essere, respinto
perchè non è l’Essere. Partecipazione significa distinzione e diversità da ciò
di cui si partecipa: in pari tempo, l’ente finito diverso da Dio, è perchè è da
Dio: l’abisso che lo divide è contemporaneamente il ponte che lo unisce a Lui.
Ma allora il problema dell’esistenza di Dio non è tanto quello di conoscere se
Dio esiste, quanto l’altro di sapere che l’uomo esiste e conosce, perchè Dio
esiste e solo perchè esiste. Le due formule sono ben diverse: la prima conoscere se Dio esiste implica la possibilità del conoscere anche se
Dio non esistesse, come se Egli fosse un qualsiasi ente, di fronte al quale la
ragione si pone giudicante come di fronte ad una cosa di esperienza: è la
posizione dell’estrinsecismo razionalistico o scientificodei razionali non
ragionevoli ». L’altra formula, la nostra
sapere che l’uomo esiste e conosce, perchè Dio esiste e solo perchè
esiste importa invece: 4) un sapere», che è più del puro conoscere, in quanto è
coscienza piena e completa di tutto l’uomo; ) una dipendenza iniziale e finale
dell’ente integrale che sa di pensare ed essere perchè Dio esiste; c)
l’impossibilità di esistere e pensare un solo istante se Dio non esistesse; d)
la partecipazione dell’ente creato all’Essere in sè, per cui non è di fronte a
Dio, ma, come può esserlo l’ente finito, in Dio ed Egli in lui. Per
conseguenza, il problema dell’esistenza di Dio non è di conoscere se », ma di sapere che », cioè di acquistare
consapevolezza della dipendenza iniziale e finale, della partecipazione
interiore, per cui L'esistenza di Dio 159 si è in Dio: siconoscono le cose
esterne, fuori di noi; si sanno le cose che sono in noi e noi in esse: perciò
si sa che Dio esiste. Essere in Dio non
significa, evidentemente, identificarsi con Lui o essere della Sua stessa
natura, ma sapere di essere perchè Dio l’ha voluto e lo vuole, e che si sa
perchè Dio ha illuminato ed illumina. Dimostrare la sua esistenza significa,
dunque, acquistare coscienza della nostra dipendenza ontologica, sapere che noi
siamo, viviamo, pensiamo e vogliamo in Dio, anche quando siamo assenti a Lui.
La dimostrazione non ci sta davanti, ma noi le siamo dentro, poichè siamo la
verità da cui essa muove e la testimonianza vivente di quell’esistenza. Gli
uomini sono esistenti in questa verità che li unifica: sono reali,
frammentariamente, nell’esperienza fenomenica. Io sono reale nella scienza,
ma sono esistente nella mezafisica e
soltanto nella metafisica. Pertanto, l’esistenza di Dio è un problema solo fino a quando l’uomo non
conquista la piena consapevolezza di sè e del suo essere, non è presente a se
stesso, che è essere presente a Dio, sempre presente; se lo è, non è più
problema, ma evidenza. Non inizialmente e perciò dapprima è problema;
provvisorio, fino a quando il pensiero non dissipa l’oscurità che avvolge la
verità originaria, non acquista consapevolezza di se stesso. L'esistenza di Dio
non s'impone alla mente con evidenza immediata, in modo da metterla
nell'impossibilità di dubitarne; è una verità che va cercata, ma, conquistata,
è un’evidenza. La conoscenza di sè lo è di sè principiato dal Principio;
dunque, il pensiero che conosce se stesso, sa che Dio esiste e, sapendolo, si
sa da Dio: /eggendosi, legge Dio. In breve: se c'è l’uomo, c'è Dio: chi nega
Dio, nega l’uomo che è, non si conosce. L’ateismo è una questione di
analfabetismo; ignoranza dell’intelligibilità metafisica di se stessi, perchè
ignoranza della dipendenza essenziale da Dio e della essenziale finalità in
Lui. Basta l’esistenza di un ente pensante 160 Filosofia e Metafisica perchè
sia implicata quella del Pensiero assoluto: se un ente è, è l’Essere assoluto.
Le incertezze sono nel processo della ricerca, non nella verità che lo guida.
Questo processo si attua attraverso due momenti di trascendimento: 4) della
ragione, di cui oggetto di giudizio sono le cose, il mondo visibile di Platone, per elevarsi
all’intelligenza della verità; 4) di questa o della verità in noi, r elevarsi a
Dio, la Verità in sè. Dunque, trascendimento dell’esteriorità (mondo della
scienza o della ragione) e dell’interiorità (mondo della sapienza o
dell’intelligenza); cioè ancora del momento gnoseologico (ragione) e di quello
intuitivo (intelligenza). Trascendimento che non è negazione; è
interiorizzazione di noi a noi stessi, salita dalla profondità di noi e delle
cose alla Profondità misteriosa e sacra che sovrasta ogni cosa e la fa essere.
A questo punto, l’evidenza dell’Esistenza di Dio, Mistero che solve ogni
enigma, dà all’uomo il presentimento (ma solo questo e, in questa vita, sempre
oscuro) di come egli sarà, penserà e vivrà nella visione ultraterrena di Dio,
quando, sciolto dai legami delle cose, dal discorrere ormai superfluo della
ragione, sarà tutto l’uomo, l’uomo assoluto, non come specie, ma come singolo
ente spirituale. Nell’ordine naturale, se non a tanto, si arriva a riconoscere
la dipendenza iniziale e finale da Dio, la nostra grandezza. La ragione nel
campo della sua attività è autonoma: giudica di ogni cosa del mondo senza
essere giudicata da nessuna; ma il mondo è piccolo e l’umana autonomia della
ragione più piccola della piccolezza del
visibile. Quando Bacone, esaltato dai progressi della scienza, esigeva
un metodo (con lui, Cartesio e Galilei) che consentisse all'uomo di farsi
padrone della natura, di dominarla conoscendola, evidentemente non rifletteva
abbastanza che la grandezza umana era in tal modo assoggettata ai limiti della
natura stessa: l’uomo abdicava all’infinito della sua intelligenza per
incoronarsi piccolo re delle piccole cose, oggetto del conoscere razionale. La
scienza è la L'esistenza di Dio 161 grandezza dell’uomo razionale, la sua
cosmicità, ma è proprio essa la sua piccolezza; l’inzelligenza, invece, con cui
avverte la sua dipendenza da Dio, la sua piccolezza, è essa la sua vera
grandezza, la sua spiritualità. Come filosofò Cusano, l’uomo è piccolo nella
sua grandezza, la scienza del mondo; è grande nella sua piccolezza, la
dipendenza da Dio e la nonconoscenza di Lui. L'uomo è in questo mistero: di
fronte al mondo si tratta per lui di conoscere; di fronte a Dio di essere. Il
pensiero moderno ha identificato l’uomo con il suo conoscere ed ha perduto
l’intelligenza dell’uomo, cioè il problema del suo essere, del consistere del suo esistere ». Come abbiamo detto, non può
essere pensato l’ente avente un certo grado di essere senza che si pensi
implicitamente all’Essere che è l’Esistente, da cui dipende ogni esistente e
ogni grado di essere; ma la consapevolezza dell’ente finito di partecipare e
dipendere dall’Essere lo ordina a Lui. La partecipazione iniziale lo spinge ed
orienta a quella finale, all’Essere in sè, l’oggetto adeguato dalla sua
interiorità; il pensiero è perenne ricerca dell’Essere, il pellegrino di Dio.
In questo senso, è come specificato dall’Essere a cui tende: la verità presente
alla mente preforma l’intelligenza e la dirige verso Dio è il senso profondo dell’idea dell’essere del
Rosmini, che ha il suo oggetto adeguato solo nell’Essere ; la partecipazione
manifesta la sua profondità nella finalità” ultima dell’intelligenza. Ma se è
così, nell’intelligenza, il cui fine è Dio, troviamo una solidarietà con la
volontà: la partecipazione finale si chiarisce come la finalità suprema dello
spirito nella sua totalità di vita. Tanta vis in eis (ideis) constituitur, ut nisi his
intellectis sapiens esse nemo possit. Quattordici secoli dopo, con ben altro orientamento di pensiero,
Leopardi annotava (18 luglio 1824) nello Zibaldone: Certo è che, distrutte le forme platoniche
preesistenti alle cose, è distrutto Dio(?). Queste due profonde osservazioni di
uomini così diversi e lontani nel tempo, per la loro perfetta coincidenza, sono
estremamente significative. Per il santo dei primi secoli, come per l’ ateo
dell’800, di formazione illuministica, negare le idee come conoscenze in sè,
anteriori alle cose e misura oggettiva per giudicarle, è irreparabilmente
negare Dio: o nella mente umana vi è una verità che non deriva dalle cose nè
pone essa stessa e allora per questa presenza di qualcosa di immutabile e
necessario, di illuminante e fecondo, ci si convince razionalmente che Dio
esiste ed è irrazionale dire il contrario, o si nega che vi è una verità di tal
natura e con essa la presenza di Dio e non è più possibile pensare o provare
l’esistenza dell’Essere trascendente, creatore e provvidente. Se tutto
nell’uomo è umano, da lui prodotto e creato senza traccia orma immagine
vestigio divino, è impossibile dargli la nozione di Dio: egli è stato privato
di quanto gli Acosrino, De diversis quaestionibus 83, q. 46, n. 1. (2) G.
Ltoparni, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Firenze, Le
Monnier, 1931, vol. II, p. 110. ° L'esistenza di Dio 163 è indispensabile per
poterlo trovare e provare, del lume della ragione, dell’oggetto che fa
intelligente la sua intelligenza. Dio avrebbe creato l’uomo non per Lui, ma per
l’uomo stesso, non per cercarLo, amarLo e pregarLo, ma perchè si perdesse nella
finitezza e contingenza sua e del mondo, cosa tra le cose. Perciò Platone, il
metafisico delle Idee, è il padre della metafisica della verità, essenzialmente
teistica: se esiste la verità, esiste Dio; la verità esiste, dunque Dio esiste.
Bandire le Idee come oggetto immutabile della mente, è bandire Dio dal
pensiero. Se la mente non conosce nulla di immutabile e necessario, niente vi è
per essa d’intelligibile o di vero: non vi è Dio. Ma siccome qualcosa di
assolutamente vero è conosciuto dalla mente
insopprimibilità delle verità che fa contraddittorio lo scetticismo l’intelligibile è, e Dio è. Se non s’intelligono
le Idee sapiens esse nemo possit; cioè: chi non è presente alla verità che è in
lui è insipiens,e l’ateo è l’insipiens, colui che non sa quel che dice, non sa
niente di sè, signora e perciò è ignorante dei motivi oggettivi, che rendono
impossibile negare l’esistenza di Dio; chiuso al lume dell’intelligenza, è
ottenebrato dalla duplice concupiscenza del senso e della ragione: un
irragionevole raziocinante. Alla base dell’ateismo, o c’è la caduta volgare
nella schiavitù delle passioni, o la caduta diabolica, da qualche tempo
qualificata nobileed eroica», nella
passione o superbia della ragione, quella che sta alla base della negazione
cosidetta scientifica o filosofica dell’esistenza di Dio: rifiuto di
conoscersi, negarsi della ragione a se stessa. Il suo limite non è
l’impossibilità di trascendere l’esperienza, ma il rifiuto di trascenderla,
l’ignorare che in essa è presente qualcosa che la trascende. Ragione critica
non è quella che si autonega la capacità di oltrepassare l’esperienza, ma la
ragione che sa che non può non oltrepassare l’esperienza e se stessa, in quanto
cosciente di possedere una luce,la verità, secondo la quale giudica, che è più
di essa ed ha dun164 Filosofia e Metafisica que al di là della sua mutevolezza
il Principio creatore. Solo se la ragione conosce che la verità è più e non
meno di essa, ritrova se stessa e Dio. Perciò il problema dell’esistenza di Dio
non si aggiunge all’esperienza quasi dall’esterno, ma è implicito nel problema
dell’esperienza e nella esperienza stessa, che, in questo caso, è
testimoniante: per il fatto che io ci sono e il mondo c’è, Dio esiste. Prima
che per inferenza esplicita, l’esistenza di Dio è data implicitamente dal dato
che l’attesta. Kant ha il torto di considerare l’esperienza sensoriale il
limite della ragione, affermazione che consegue dalla riduzione delle Idee o verità
prime, intuite dalla mente e fondamento della veridicità di ogni giudizio, a
forme priori, a pure condizioni della
conoscenza. Qui il punto della questione: le Idee per l’idealismo ontologico
sono verità, conoscenze prime, oggetto interiore della mente; sulla base di
esse la ragione giudica di ogni cosa, cioè conosce secondo verità le cose date
dall’esperienza, ma non giudica le Idee primali, che l’oltrepassano. Di qui la
conclusione; esiste una verità che è data ed è più dell’io; dunque esiste Dio,
la Verità in sè donante, illuminante, creante. Per Kant, le forme a priori,
quel che nella conoscenza è prima dell’esperienza e da essa non derivato, non
sono date all’intelletto, ma son funzioni di esso, forme dell’attività
sintetica del pensiero; non verità o conoscenze, ma pure condizioni del
conoscere e perciò vote: il contenuto lo riceviamo dall’esperienza, 4
posteriori. Per conseguenza, dato che in se stesse son vuote, la loro validità,
pur essendo 4 priori, è limitata al mondo dell’esperienza; dunque valgono solo
a costruire e sistemare contenuti empirici. È evidente che, svuotate le Idee
del loro contenuto di verità e fatte condizioni della conoscenza delle cose,
non possono più trascendere l’esperienza dalla quale restano bloccate; dunque,
non è più possibile una metafisica come scienza, tra l’altro, una dimostrazione
razionale dell’esistenza di Dio, in quanto le verità, secondo cui la ragione
L'esistenza di Dio 165 giudica dell’esperienza, non sono più tali, ma pure
condizioni di essa; le forme a priori non trascendono la ragione, ma ne sono
funzioni immanenti, nè l’esperienza, pur non derivando da essa, alla quale
soltanto si applicano. Conoscenza valida è solo quella razionale e tutto il
sapere è identificato con la conoscenza scientifica. Kant nega il sapere
intuitivo dell’intelligenza e perciò deve negare che si possa dimostrare
l’esistenza di Dio: limitato l’uomo alla sua cosmicità lo si fa prigioniero del
conoscere razionale e lo si priva di Dio, che non è problema della ragione, se
prima non è problema dell’intelligenza. Così è distrutta qualsiasi possibilità
di dimostrare Dio perchè sono state distrutte le Idee. Chi ha parlato di veleno kantiano », da questo punto di vista,
ha avuto ragione, anche se egli, se tosse vivo, ci darebbe torto, ma non a
ragione, per il tipo di apriorismo non kantiano qui sostenuto. In breve, Kant
nega l’onticità dell’Idea e un sapere intuitivo: limite della forma 4 priori è
l’esperienza sensoriale; perciò limite dell’uomo è la sua impossibilità a
trascendere l’esperienza, cioè è il
cosmo, la scienza. Il concetto critico dell’4 priori, che ha il suo
limite di funzionalità nell’esperienza, e il concetto critico dell’esperienza
che ha il suo limite nell’4 priori che la organizza, sono critici a metà: sono
critici del concetto di scienza, non del concetto di metafisica. Secondo Kant,
la struttura del pensiero, la sua preformazione è tale da avere il suo oggetto
adeguato nel mondo fisico, in quanto l’esperienza fenomenica adegua la forma:
il pensiero è ordinato al mondo, che è la sua finalità. Ciò nega implicitamente
la partecipazione iniziale all’Essere e rende inutilizzabile filosoficamente il
concetto di creazione; infatti, se è posta la partecipazione iniziale, risulta
contraddittorio negare quella finale, cioè ammettere che l’Essere creatore
abbia preformato l’ente creato 166 Filosofia e Metafisica in maniera da non
essere ordinato a Lui, ma da avere la sua adeguazione nel mondo. In altri
termini, se la creatura è dal Creatore, non può non essere stata creata in modo
da essergli ordinata; dunque la partecipazione iniziale implica necessariamente
quella finale. Per Kant, invece, l’4 priori ha la sua adeguazione nel
mondo nell'ordine naturale: il cielo
stellatoe la legge morale per conseguenza il mondo è la sua finalità suprema, e
dunque anche il primo iniziale. Basta: Dio è eliminato dall’ordine del pensiero
e da quello della realtà; non si spiega più neppure come possano nascere
l’esigenza di Dio e le Idee della ragione, che non si giustificano, dentro il
sistema kantiano, neanche come postulati della ragione pratica; Kant ve li
introduce, ma restano estranei alla Critica com'è intesa da lui, la quale si
risolve nel sistema della cosmicità ».
La Critica non è tanto critica da approfondire l’interiorità del pensiero, da
sondare le profondità dell’intelligenza: le manca l'intelligenza
dell’intelligenza, e non s’accorge che esigenze e postulati non potrebbero
essere le une sentite e gli altri pensati se lo spirito non portasse nella sua
struttura i segni indelebili e perenni di Chi lo ha creato spirito, di Chi,
facendo l’uomo ente pensante, gli diede il lume della verità e la verità come
oggetto del pensiero. Se ne accorse il Rosmini, la cui idea dell’essere (altro
che riducibile all’a priori kantiano!), oggetto intuìto dal pensiero, è
presenza analogica di Dio in noi (partecipazione iniziale) e preforma il
pensiero stesso in modo che ad esso è impossibile invenire in alcuno dei
contenuti di esperienza, o in tutta l’esperienza, il suo oggetto adeguato, per
cui essa risulta ordinata, in solidarietà con la volontà, con l’atto morale
sintetico dell’ideale e del reale, all’Essere, che, come tale, è la sua
finalità assoluta, convogliante, come letto d’immenso fiume, le innumerevoli
sorgenti della vita, la totalità del creato. L'esistenza di Dio 167 2. L'Idea nell’'empirismo inglese. Kant deriva
il suo criticismo dal Locke, dallo Hume
e dalla barbarie filosofica dell’Illuminismo, di cui è il più grande rappresentante.
Locke è il primo consapevole e sistematico distruttore dell’Idea nel senso
dell’idealismo oggettivo. Infatti, con la parola idea indica sensazioni,
immagini, percezioni, ecc., quanto è contenuto della coscienza: l’idea non è
più l’oggetto intelligibile, immagine
priori dell’Intelligibile in sè, ma immagine del sensibile: l’anima,
white paper, acquista le idee, puro contenuto della coscienza soggettiva, from
experience. D'altra parte, anche per il Locke, funzione della ragione è di
stabilire nessi e relazioni, ma solo tra le idee-immagini sensibili; per
conseguenza, la verità è unione o
separazione di segni (joining or separating ofsigns), cioè di quelli impressi
dalla esperienza sensoriale: il valore oggettivo dell’idea è distrutto e con
esso quello della verità. Consegue: 4) la sostanza è un’idea o impressione
sensibile complessa, cioè una somma di qualità prive di vincolo reale; è coesistenza continua di alcune idee
semplici, considerate (considered), per tale
continuità di esistenza, unite in una cosa ed indicate con un nome »; 5) l’identità della persona non viene
da una sostanza permanente e perseverante al di sotto del suo divenire, ma
semplicemente dalla continuità della coscienza: la mia identità arriva fin dove
arriva la mia memoria; c) se gli enti esistenti, di cui si conoscono solo le
qualità, abbiano un sostegno »,
un'entità reale € che cosa essa sia, l’uomo non lo sa: Io non so cosa sia (I
dont know what). Conclusione: l’idea è d'origine empirica, un puro nome, un
contenuto della coscienza soggettiva; non esiste un correlato oggettivo del
pensiero; la ragione unisce e divide
segni che, soggettivi, non garantiscono l’oggettività dei giudizi;
dunque, non esiste una verità intelligibile, l’Idea come oggetto della mente,
non prodotta ma solo intuita da essa, nè ricavata dall’esperienza. Per
l’ideali168 Filosofia e Metafisica smo oggettivo gli intelligibili sono, come
Verità in sè, il contenuto della Mente assoluta; come presenza della Verità in
sè, l'oggetto d’ intuizione delle menti finite e fondamento oggettivo dei loro
giudizi; ancora sono realizzate imperfettamente nelle cose, di cui
costituiscono l’essere o il grado di verità. In altri termini, sono il Primo
Vero da cui deriva ogni verità; Vero creatore e vivente, fecondo di quanto vi è
di vero, vita della mente e di ogni cosa: voytà Zé, così Platone nel Timeo
chiama le Idee. Per Locke, invece, esse non sono il prototipo o l’esemplare
intelligibile, ma pure immagini di origine sensibile: quanto noi conosciamo
della realtà è quanto di idee o immagini
ci forniscono i sensi; il reale conosciuto s’identifica con il contenuto della
nostra coscienza empirica. Com'è noto, lo Hume, con maggiore coerenza del Locke
e attraverso un approfondimento critico dei presupposti dell’empirismo, non
dice di non sapere cosa sia la sostanza,
ma che non vi sono sostanze: la realtà, spirituale e materiale, s’identifica
tutta (nè vi è una Realtà in sè trascendente) con le impressioni e le idee ». Ma, per lo Hume, tra le une e le
altre non vi è differenza di origine le
prime sono copie di nostre
impressioni(copies of our impressions) bensì d’intensità, le idee sono percezioni più deboli (more fleeble
perceptions); per conseguenza, di fronte ad un'idea, bisogna chiedersi di quale
impressione sensibile sia la copia. Non vi sono sostanze »: quella che così si
chiama è un insieme di percezioni che si assomigliano; non vi è un vincolo
causale necessario ed oggettivo, ma solo I’
attesa che al fatto 4 segua il fatto d: è l’ abitudine (custom) che fa
nascere questa attesa; non vi sono nessi tra le idee se non per somiglianze (resemblance), per contiguità tempo- rale o locale (contiguity
in thime or place), per causa ed effetto, cioè seguenza accidentale di due
fatti. Ecco: negato il valore oggettivo dell’Idea e la sua presenza L'esistenza
di Dio 169 alla mente indipendentemente dall'esperienza sensoriale, non è più
possibile un criterio valido di giudizio, un fondamento della conoscenza e
della realtà; vien meno ogni regola della vita intellettiva e morale, ogni
sostegno delle cose. Distrutte le Idee, non vi è più alcuna ragione che le cose
siano come sono e non diversamente, che la ragione giudichi in un modo o in un
altro e la volontà agisca così e non altrimenti, per il fatto che non vi sono
più princìpi necessari, immutabili ed universali (*). Ciò prova come il punto
cruciale del proble- ma dell’esistenza di Dio, come di ogni altro metafisico,
sia la questione della verità: se vi è verità e fino a che punto e come la
mente umana ne partecipi. Se tale verità si nega, come fa lo Hume, cade la
validità oggettiva di ogni prin- cipio e qualunque dimostrazione è impossibile
4 priori ed 4 posteriori. La validità razionale delle prove 4 posteriori, in-
fatti, dipende da quella dei princìpi secondo cui la ragione argomenta; dunque
dal problema della verità: secondo che questo è risolto positivamente o
negativamente anch'esse sono valide o no. Ma se è risolto positivamente è già
dimostrata l’esistenza di Dio; se negativamente, impossibile qualsiasi altra
dimostrazione. In ogni caso le prove 4 posteriori sono (3) Ancora una volta il
Leopardi, con chiara intuizione (lo cito perchè non filosofo nel senso tecnico
del termine, e perchè imbevuto di empirismo e sen- sismo), scrive il 17 luglio
1821 (op. cit., vol. III, pagine 99-100):
Quindi è chiaro che la distruzione [per un errore di stampa nel testo si
legge distinzione »] delle idee innate
distrugge il principio della bontà, bellezza, perfezione assoluta e de’ loro
contrari. Vale a dire di una perfezione ecc., la quale abbia un fonda- mento,
una ragione, una forma anteriore alla esistenza dei soggetti che la con-
tengono, e quindi eterna, immutabile, necessaria, primordiale ed esistente
prima dei detti soggetti e indipendente da loro. Or dov’esiste questa ragione,
questa forma? e in che consiste? e come la possiamo noi conoscere o sapere, se
ogni idea ci deriva dalle sensazioni relative ai soli oggetti esistenti?
Supporre il bello e il buono assoluto è tornare alle idee di Platone e
risuscitare le idee innate dopo averle distrutte, giacchè tolte queste, non v'è
altra possibile (1341) ragione per cui le cose debbano assolutamente e
astrattamente e necessariamente essere così 0 così, buone queste e cattive
quelle, indipendentemente da ogni volontà, da ogni accidente, da ogni cosa di
fatto, che in rcaltà è la sola ragione del tutto, e quindi sempre e solamente
relativa, e quindi tutto non è buono, bello, vero, cattivo, brutto, falso, se
non relativamente; e quindi la convenienza delle cose tra loro è relativa, se
così posso dire, assolutamente ». Filosofia e Metafisica legate alla sorte di
quella dalla verità », da cui dipendono,
di cui sono una applicazione e in cui restano incluse. Hume è una buona
lezione; negata l’oggettività dell’Idea è negato Dio; niente più regge, non lo
spirito nè le cose, non la filosofia nè la scienza. In questo senso
l’ultrailluminista Hume, che sviluppa fino in fondo il principio ateo del-
l’uomo fonda l’uomo e il suo regno », è la crisi del mito illuminista, in
quanto rappresenta la vanificazione del reale ‘spirituale e corporeo e di ogni
categoria del reale, la banca- rotta del razionalismo e dello scientismo
illuministici. 3. Ancora di Kant e
Rosmini. Sinteticità del conoscere e validità del giudizio. Kant si accorse
della rovina della conoscenza oggettiva e della metafisica come scienza,
conseguenza della negazione delle Idee; se ne accorse perfettamente anche il
Rosmini. Ed ecco i due pensatori porsi gli stessi problemi: 4) dell’oggetti-
vità del conoscere; 4) della restaurazione della metafisica co- me sapere razionale.
La risposta di Kant è nota: i princìpi del conoscere non possono essere
ricavati dall’esperienza sensoriale; sono forme 4 priori della mente, oggettive
ed universalmente valide, con cui lo spirito, mercè l’attività sintetica,
costruisce l’esperienza, che alle forme fornisce il contenuto. Ma, per Kant,
come abbiamo detto, le forme @ priori non sono conoscenze, ma pure (vuote »)
condizioni della conoscenza: per lui non vi sono verità 4 priori, interiori
alla mente e da essa intuite, ma di 4 priori c'è solo la forma del conoscere. Per conseguen- za, egli
nega che vi siano verità intelligibili, oggetto dell’in- telligenza, cioè è d’
accordo con gli empiristi nel rigettare 1’ idea com'è concepita dall’idealismo
oggettivo. Per con- seguenza, quando affronta il problema della metafisica come
scienza non può non rispondere negativamente: le forme 4 priori, pur essendo
indipendenti dall'esperienza, come sue L'esistenza di Dio IZI pure condizioni,
al di fuori e al di là di essa non hanno al- cuna validità conoscitiva: 4
priori, ma bloccate nella e dalla esperienza. Prodotto dell’attività dello
spirito e prive di un contenuto proprio, non verità o oggetti intelligibili, ma
semplicemente condizioni di conoscenza dei fenomeni, possono giudicare solo le cose di esperienza
sensoriale. Ogni metafisica come scienza razionale risulta impossibile, come
ogni prova dell’esistenza di Dio. In breve, Kant nega un sapere intuitivo, nega
l’intelligenza e perciò l’intuizione dell’intelligibile, la presenza alla mente
della verità: la forma più alta di sapere è per lui il conoscere razionale o
scientifico, la matematica e la fisica come scienze. Kant critico non è
platonico », è aristotelico ».
L’intelletto e le sue forme priori
(le categorie ») non sono attualità di
conoscenza, ma potenzialità di conoscere: quello kantiano è un intelletto
possibile», in quanto le forme non sono conoscenze o intuizioni originarie, ma
pure condizioni del conoscere e condannate a restare tali fino a quando non
vengono riempite dal contenuto dell’esperienza;
senza di esso, l’intelletto, in sè, è privo di conoscenza, è pura possibilità
di conoscere. Per conseguenza esso, che non è in sè attualità, può conoscere
soltanto quanto è oggetto di esperienza, le cose sensibili nella loro
fenomenicità. La conoscenza di tipo scientifico o razionale diventa così il
modello del sapere e l’unico sapere umano. Kant critico almento il Kant della Ragione pura è più
illuminista del Kant precritico
»: è il filosofo della ragione senza intelligenza, della razionalità
impersonale e non dell’ uomo concreto. Ma egli vide chiarissimo un aspetto del
problema di Dio: che la prova cosmologica, come ogni altra, in fondo dipende da
quella ontologica, che non è da identificare con la prova dalla verità o dalla vita dello spirito », anzi la
presuppone e in essa s'inserisce; vide che il nodo della questione è sempre lì:
se esiste una verità intelligibile data alla mente. Fino a quando Kant fu platonico
o come si dice precritico
considerò valida la prova ontologica; diventato critico la rifiutò, perchè,
negate le verità primali date alla mente ed ammessa la sola apriorità delle
vuote condizioni del conoscere, gli era preclusa la possibilità di dimostrare
razionalmente l’esistenza di Dio 4 priori e conseguentemente 4 posteriori.
Ancora: col riconoscere la importanza primaria, rispetto a quella cosmologica,
della prova ontologica, Kant si avvide che il problema dell’esistenza di Dio
inerisce alla vita dell’ente spirituale più che a quella del mondo fisico;
perciò egli, dopo aver creduto di aver colpito al tallone l’Achille della
metafisica, riprese il problema in sede morale, cioè a proposito di un altro
aspetto della vita dello spirito. Così egli distinse nettamente l’ idea cosmologica dall’ idea teologica facendo di quest’ ultima un
problema di pertinenza dell’attività morale. Ma, per lui, l’Idea è sempre una forma vuota », che aspetta di ricevere il contenuto
dall’esperienza sensibile: la restaurazione della metafisica gli risulta
impossibile; l’Idea resta ingiustificata nel suo sistema. Se Dio fosse solo
un’Idea della ragione nel senso kantiano, sarebbe un puro possibile; ma se Dio
è solo possibile, Dio è impossibile; e tutto ciò che è diventa di colpo
impossibile ed inesplicabile. L’idealismo trascendentale salta il fosso della
pura noumenicità dell’idea teologica,
come dell’idea cosmologica e di quella psicologica; rovescia il fondamento
metafisico dell’idealismo oggettivo (la verità è principio del pensiero) e fa
il pensiero umano principio della verità: non è
percettivo ma di essa costitutivo
»; pensandola la fa essere. Così l’immanentistica metafisica del Pensiero
assoluto è antitetica alla trascendentistica metafisica della Verità;
l’idealismo trascendentale o spurio è l’antitesi dell’idealismo trascendentista
o autentico. Hegel è implacabile contro l’
immediato », cioè L'esistenza di Dio 173 contro il sapere intuitivo o dell’intelligenza che,
come implicante la Trascendenza, è l’ostacolo maggiore alla riduzione di tutto
il sapere al mediato conoscere razionale. La metafisica della verità è negata
in quella del Pensiero o della Ragione assoluta, cioè nella metafisica
dell’assoluta irragionevolezza, e l’uomo decapitato come singolo. La metafisica
è perduta, ma resta il problema kantiano della sua restaurazione. Essa fu
possibile al Rosmini, il quale dalla critica dell’empirismo moderno non
concluse alla forma 4 priori come pura condizione del conoscere, ma all’Idea
come oggetto intuìto dalla mente. Egli riprende l’Idea dell’idealismo
oggettivo, verità intuita dalla mente, ad essa data e di essa lume; restaura la
verità primale come fondamento di ogni giudizio e su questa base ricostruisce
la metafisica. Rosmini comprese benissimo che per arrivare a Dio, o si passa
dalla verità a noi interiore e trascendente, o non si passa e non si arriva,
tanto da distinguere, a proposito del problema delle idee, l’ aspetto
ideologico da quello che chiama
teosofico ». Il problema metafisico vero e proprio è quest’ultimo:
origine da Dio dell’Idea dell’essere, oggetto intuìto dalla mente senza che
esso sia Dio. Qui la soluzione del problema ideologico: le altre idee sono figlie dell’idea madre dell’essere, cioè giudizi sulle cose
che ci presenta l’ esperienza. Noi non accettiamo alla lettera questa dottrina,
ma facciamo nostra la sua anima di verità: vi sono verità seconde (i giudizi
sulle cose) per le quali è necessaria l’esperienza e sono dunque 4 posteriori,
ma vi è in esse un elemento 4 priori, una verità prima e non kantianamente pura condizione del
conoscere che le rende possibili, la quale
non viene da nessuna esperienza nè è creata dalla mente; viene da Dio ed è alla
mente data. Così è restaurata l’Idea nel senso dell’idealismo oggettivo e, con
essa, ricostituito il fondamento per la dimostrazione razionale dell’esi174
Filosofia e Metafisica stenza di Dio; ripristinato il concetto della
partecipazione iniziale e finale all’Essere. Da Cartesio a Hume due esigenze
fondamentali dividono il pensiero moderno intorno al problema della verità:
l’esigenza razionalista e quella empirista. Il razionalismo approfondisce un
problema che non va perduto di vista: se non vi è una verità prima
indipendentemente dall’esperienza è impossibile una conoscenza oggettivamente
valida; le conclusioni dell’empirista Hume confermano la veridicità
dell’istanza razionalista. L’empirismo da parte sua, contro l’apriori(4) Nel
grande dialogo della filosofia moderna e soprattutto in seno all’empirismo
inglese, occupa una posizione particolare il Berkeley. Grossolana e senza
fondamento l’interpretazione di un Berkeley che nega la realtà del mondo;
infatti, a parte quanto vi è di empiristico, fenomenistico e nominalistico,
resta in lui un nucleo speculativo che s'inserisce nella linea dell’idealismo
oggettivo, Il Berkeley non nega la realtà del mondo esterno; dice soltanto che
è, e non può non essere, in rapporto costante con uno spirito che se lo rappresenta ». Questa affermazione può essere
intesa in due sensi: 2%) il mondo è la rappresentazione soggettiva di uno
spirito e non si sfugge al fenomenismo ;
il mondo è reale per quanto partecipa dell’Idea, la quale, come oggetto
intelligibile, non può non essere senza una mente che la pensi. Forse il
Berkeley si presta ad entrambe le interpretazioni, dato l’uso equivoco che fa
del termine idea », ma la più rispondente al suo pensiero metafisico è la
seconda. Nei Dialoghi tra Hylas e Philonous, scrive testualmente: dal fatto che
il mondo esiste in quanto vi è uno spirito che se lo rappresenta, io non deduco che le cose non esistono
realmente », ma siccome non dipendono
dall'essere percepite da me ed esistono indipendentemente dalla mia
percezione concludo che deve esistere
un altro spirito nel quale esistono ». Dunque, per il Berkeley a) le cose
esistono realmente; £) non esistono perchè io o un’altra coscienza finita ce le
rappresentiamo; c) siccome però non possono esistere da sole per la loro
finitezza e contingenza, esistono per uno Spirito infinito ed assoluto, cioè in
quanto Dio le fa essere; d) ma Dio fa essere le cose pensandole, cioè secondo
un esemplare di verità; e) dunque le cose sono in quanto Dio (la Mente) le
pensa. Interpretato così le idee hanno
un valore oggettivo di esemplari eterni della Mente creatrice è sulla linea dell’idealismo oggettivo. Dio
non conosce questo mondo perchè esiste, ma questo mondo esiste perchè Dio lo
conosce; e S. Tommaso: Universas creaturas non quia sunt, ideo movit Deus, sed
ideo sunt quia movit. Che sia così lo prova anche il celebre esse est peraipi:
l'essere delle cose non è nel percepirle
(in tal caso la loro realtà sarebbe posta
dal soggetto come per altre forme di idealismo), ma nell’ essere percepite »,
cioè nell’ essere pensate come idee da una Mente. Infatti, il mondo è in quanto
Dio l’ha creato, cioè lo ha pensato nel suo ordine o nella sua verità. Berkeley
più che gnoseologo è metafisico: tema primo della sua speculazione è la
teologia naturale, esistenza di Dio e degli spiriti finiti. Egli con la sua
metafisica interiorista c non cosmologica e gnoseologista, s'inserisce nella
linea platonica; meglio, per restare più vicini al suo tempo, in quella
pascaliana e non nella cartesiana. L'esistenza di Dio 175 stico razionalismo
deduttivista, pone l’istanza del concreto, rivendica il valore dell’esperienza
e della singolarità degli enti, il fatto o il dato dell’esistenza. Le due
istanze vanno conservate e perciò pongono il problema della loro sintesi. Il vichiano giudizio storico », sintesi di filologia e
filosofia », è il primo tentativo in tal senso: Vico, da questo punto di
vista, oltrepassa la filosofia europea del suo tempo. La sintesi a priori di Kant e la percezione intellettiva del Rosmini sono la
maturità del problema e le sue due soluzioni. Dunque, dopo Vico Kant Rosmini,
non c’è più questione sulla sinteticità dell’atto del conoscere, ma c’è,
capitale e decisiva, sulla natura della forma o del principio della validità
del conoscere stesso. Le forme o i princìpi sono: 4) funzioni del pensiero, o
5) sua attività creatrice, o c) dati al pensiero, suo oggetto, sapere
originario? Questa la gran questione: la prima risposta differenzia Kant
dall’idealismo trascendentale (seconda risposta) e la terza oppone Rosmini a
Kant e all’idealismo. Come si vede, è in questione il problema della validità
del giudizio: l’4 priori è oggetto della mente, o suo prodotto? Torna in
discussione, in piena maturità del pensiero moderno, il problema centrale della
teoria della conoscenza di S. Agostino. Le risposte kantiana ed idealistica,
anche se in diversa maniera, fanno il pensiero umano creatore della verità,
fondamento a se stesso: il primo ontologico è il primo conoscitivo. La risposta
rosminiana, conforme nello spirito a quella di S. Agostino e della tradizione
platonica, fa della verità primale il lume dell’intelletto, dono di Dio, una
Sua presenza alla mente. La verità, così intesa, implica l’esistenza di Dio ed
è il fondamento dell’argomentazione razionale che la dimostra. La prima
risposta dice: l’uomo dà la verità a se stesso », e con ciò divinizza l’uomo e
nega Dio: è la risposta atea; la seconda: l’uomo riceve la verità da Dio », e
con ciò stabilisce un rapporto di dipendenza essenziale tra l’uomo e Dio: è la
risposta teista. Ma la prima risposta, dopo Hegel, avanza verso uno sviluppo
fa176 a Filosofia e Metafisica tale: se l’uomo dà la verità a se stesso, la
verità è tutta umana »; dunque, deteologizzazione dell’uomo e della sua verità.
Lo scetticismo è inevitabile e, con esso, il nullismo. Lo sviluppo è coerente:
dalla negazione di Dio alla divinizzazione dell’uomo; dalla deteologizzazione
dell’uomo alla sua negazione, al nulla. La parabola dell’immanentismo si
conclude nell’assurdo; e la verità del teismo riemerge nella sua
indistruttibilità. Non ci meraviglierebbe che qualche Don Abbondio, molto
superficialmente, ci accusasse di ontologismo e pensasse a chi sa quali lontani
pericoli ». È necessario intenderci sulla questione, anche perchè non ci sembra
onesto che l’accusa sia lanciata, com’è stato fatto, a chi dall’errore è
immune. C'è conoscenza mediata di Dio quando: @) obiectum se reddit
cognoscibile per aliam realitatem quae illi est quodammodo similis; b) res
cognoscitur per speciem alterius rei (cognitio rei per speciem relucentem in
speculo, v. g. sensitiva). Crediamo che quanto abbiamo detto a proposito della
dimostrazione dell’esistenza di Dio risponda perfettamente alle due
proposizioni: a) la verità che la mente umana intuisce non è la Verità in sè o
Dio, quantunque ad essa simile; 5) conosciamo Dio per l’immagine di Lui
riflessa nello specchio della nostra anima senza che ci sia nota la Sua intima
essenza. Immagine di Dio, dunque, che non è Dio; essa fa che Lui, pur essendo
la sua natura diversa da quella della creatura, non sia un fine separato
dall’uomo, come pensano anche S. Agostino e il Rosmini, ma comunicabile, per
opera di Dio stesso, alla sua intelligenza e alla sua volontà, per cui l’uomo,
tornando al Creatore attraverso la Sua presenza in lui, opera di Dio stesso,
compie un atto che ha con Dio una relazione essenziale. Nella nostra mente 178
Filosofia e Metafisica vi è una verità primale che viene da Dio e dunque
qualcosa di divino, per cui l’ente pensante è unito al Creatore attraverso l’intermediario
della verità. Consegue che lo spirito che cerca la verità cerca Dio: chi pensa
la verità e nella verità pensa Dio ed ha Lui come fine. In questo senso abbiamo
detto che il pensiero umano è per sua natura teistico. In altri termini: la
presenza immediata della verità alla mente non significa presenza immediata di
Dio, intuizione della Sua essenza o contatto diretto della mente; significa
solo presenza immediata della verità com’è data alla mente da Dio, e non della
Verità com'è in Lui, cioè di Dio stesso. Se qualcuno ci accusasse ancora di
ontologismo gli domanderemmo se esclude qualsiasi rapporto tra l’uomo e Dio,
qualsiasi forma di unione, sia pure indiretta, di partecipazione, sia pure
mediata. Se così, gli obietteremmo che ha separato il Creatore dalla creatura e
che non incontrerà mai Dio col pensiero: se per noi il pensiero è teistico, per
lui è ateistico. Certo, non vi è visione immediata di Dio nè conoscenza,
nell’ordine naturale, della Sua essenza ed è errore l’ontologismo inteso come
cognizione diretta di Dio; ma vi è un tipo di ontologismo sfido l’uso della parola compromessa diverso dall’altro, anzi di esso la
confutazione, il quale non esclude l’intuizione di verità intelligibili,
interiori alla mente umana, anche se in maniera oscura e confusa e poi sempre
più chiara e distinta. Non si tratta d’innatismo, come abbiamo sopra chiarito,
ma d’inzeriorità, di presenzialità della verità in noi e a noi, non di dato
inerte gettato nell'anima come in un pozzo, bensì di energia operante, di presenza
attiva e attivante il dinamismo del pensiero, da essa orientato e guidato e
senza di essa inesplicabile ed incomprensibile. E interiorità della verità
significa trascendenza della verità stessa. Ora, se per ontologismo s'intende
intuizione o visione immediata e diretta di Dio, il nostro, ripetiamo, non lo è
affatto; se, invece, si considera impropriamente e a torto on. L'esistenza di
Dio 179 tologista ogni posizione filosofica che ammette verità anteriori
all'esperienza e interiori alla mente che le intuisce, allora anche il nostro è
ontologismo, che però non ha niente da spartire con l’altro. Infatti, per noi,
di Dio vi è solo conoscenza mediata ed indiretta, per partecipazione e
analogia; dunque, l’impropria qualifica ci lascia perfettamente tranquilli,
perchè confortati dalla solidarietà anche di chi ci chiama ontologisti, tranne
che, illuministicamente, non sostenga che l’uomo sia del tutto separato da Dio.
E che noi parliamo di analogia e non di univocità nessun lettore di buona
volontà può metterlo in dubbio. Vedere
», intuire la verità che è in noi, non è
affatto vedere », intuire Dio: non conosciamo la Verità in sè,
ma quanto di essa è riflesso nello
specchio della nostra anima: videmus per speculum. Tra la verità in noi
e la Verità in sè vi è somiglianza»:
dunque rapporto di analogia », che
esclude l’identità o l’univocità delle due nature. La mente partecipa » della divina Verità non
direttamente, ma mediatamente, attraverso l’intermediario della verità
riflessavi, per cui la verità in essa non è come è in Dio: è riflesso divino
senza essere Dio, che, non ora, ma d/lora vedremo facie ad faciem (!). La
verità, lume e vita dell’umana mente, ha i caratteri divini della immutabilità
e dell’assolutezza, ma non è Dio: è il più splendido riflesso » di Lui (?). In
questo riflesso la mente vede ciò che conosce assolutamente e ciò si dice omnia
in divina veritate vel rationibus acternitatis videre et secundum cas de
omnibus iudicare. Così AQUINO interpreta rettamente non ontologisticamente nè
aristotelicamente S. Agostino:
l’analogia da noi stabilita tra Dio-Verità e la verità in noi è identica a
quella tomista tra l’essere riferito a Dio e l’essere riferito a noi. S. Agostino, De Trinitate, 1. XV, c. 8, n. 14. (2) S.
Acosrino, De Gen. ad litteram, 1. X,
c. 24, n. 40. (3) S. Tommaso, Summa contra Gentes, l. Ill, c. XLVII. 180
Filosofia e Metafisica 2. Conoscersi ed
essere conosciuti. Essenziale il problema del conoscere, ma più, quello dell’essere
conosciuti; infatti, l'indagine sul fondamento metafisico della conoscenza ha
rivelato che l’uomo conosce ed è capace di verità in quanto è conosciuto. Il
socratico conosci te stesso », al pari
del cartesiano Cogito, va anch'esso integrato:
Conosci te stesso e saprai che sei conosciuto »; conosci te stesso e
dentro di te troverai la presenza di Dio; non avrai conosciuto te stesso fino a
quando non avrai trovato questa presenza. La scoperta della verità in noi, il
passaggio dal suo stato implicito e oscuro, avvertito quasi come un lontano
presentimento, allo stato d’intuizione chiara ed esplicita è una folgorazione,
come se un fascio di luce investisse di colpo e improvvisamente la mente umana.
Perciò l’intuizione della verità ci dà ad un tempo gioia e sgomento, senso di
possesso e di ossequio: scopriamo in noi qualcosa che è più di noi. Nel momento
che l’intelligenza è folgorata, quello della scoperta, una ricchezza la riempie
e la fa folgorante: ricchezza e povertà, quella di chi è ricco per avere ricevuto
in dono la ricchezza per cui è ricco ed insieme povero, in quanto è solo minimo
anticipo per guadagnarsi la vera Ricchezza. Umiltà ed entusiasmo: umiltà di
fronte alla verità che è divina; entusiasmo chè essa, che è più di noi, è in
noi. La verità intuita è indissolubilmente della nostra mente: figlia della
verità, perchè tale, la mente è partorita madre di verità, creatrice di
molteplici veri. L'intelligenza è poessca; creatrice di bellezza, di bene, di
giudizi veri in forme sempre nuove ed infinite. Una verità scoperta è il motivo
centrale che ritorna, come in una sinfonia, variamente orchestrato nei veri che
produce; c’è armonia, profonda, della intelligenza, del senso e della ragione;
c’è l’unità concreta dello spirito nella luce della verità, il quale vede
chiaro dove prima era buio, ha potere penetrativo e dimostrativo. La scoperta,
che L'esistenza di Dio 188 è nostra, della verità ci eleva al di sopra di noi
in una zona di luce, al di là della quale permane il sacro mistero di Dio: la
verità che ci sovrasta rimanda ad un Mistero che ci sommerge; ma nel suo abisso
presentiamo che sarà la nostra chiarezza totale e definitiva, alla quale tende
la mente, dal mistero sgomenta ma dal presentimento esaltata. È il limite della
filosofia totale dell’uomo integrale, quella che è mania: meraviglia,
entusiasmo, follia. La verità in noi stimola, percuote, pungola, sferza, fa di
chi la ama un genio di verità . La
preghiera del filosofo alla verità che lo genera e lo fa padre di veri è una
sola, semplice e vera: Signore, che sei
la Verità, fa che io, nella umiltà della mia piccolezza e nell'amore per la Tua
grandezza, possa essere il più pazzo dei saggi . I risultati, a cui fino ad ora
la nostra ricerca ha approdato, possono essere così riassunti: 4) la mente
creata e finita conosce verità immutabili e necessarie, di cui, per quanto
oscura e confusa, ha intuizione originaria: le sono presenti, interiori; 2) di
esse la ragione si serve per giudicare di ogni cosa; c) son queste verità che
ci insegnano, quasi maestro interiore ,
la presenza di Dio in noi; d) esiste la Verità, dunque, esiste Dio. Se non
esistesse non esisteremmo noi stessi e non potremmo neppur dire che Dio esiste,
in quanto mancheremmo di intelligenza. Degli scettici del suo tempo Aristotele
scrive: somigliano più a delle piante che a degli uomini (4); lo scetticismo, in qualunque tempo,
prima o poi, finisce fatalmente per abbassare l’uomo al puro livello biologico.
L'osservazione di Aristotele, profondissima, merita un breve commento. Lo
scettico nega che il pensiero umano sia capace di conoscere la verità che gli
compete: fatto per la verità, non la conosce; dunque il suo valore e il suo
essere sono nulli. Ma l’uomo è uomo per il pensiero (intelli(I) ArisroreLE,
Met., l. IV, c. 3. L'esistenza di Dio 183 genza e ragione): negare l’uno è
negare l’altro, è fare che l’uomo somigli più a delle piante che all'uomo che
è. Oppure: il pensiero, senza il suo oggetto naturale che è la verità, è il
non-pensiero; l’uomo, che è non-pensiero, è non-uomo: un puro vegetale o un
puro animale (livello biologico). Qualsiasi questione sull’uomo non ha più
senso, ma appunto per ciò, non ha senso lo scetticismo, che, nel suo stesso
porsi, è contraddittorio: si autonega. Non solo lo scetticismo, ma ogni
posizione filosofica che nega una verità oggettiva è negazione del pensiero e
dunque dell’uomo; lo è l’idealismo storicista e dialettico. Se la verità e la
sua validità sono storiche, consegue che il pensiero greco è la verità storica
dell’antichità, quello cristiano la verità storica
del mondo moderno, ecc. Ciò significa semplicemente che l’uomo non è
capace di verità e non vi è verità, perchè verità significa verità e
nient'altro: nè antica nè medioevale nè moderna, ma verità scoperta nell’antichità o nel medioevo, da
greci o da italiani valida per ogni ente
pensante, una volta scoperta e acquisita al pensiero. Se la verità è dialettica
e la dialetticità è l’essenza del reale, consegue ancora che niente ha essere e
nulla è vero: la realtà o la verità di ciascun ente è in rapporto al
suo contrario dove si nega e si conserva dialetticamente. Nessun ente è
quello che è: è nel suo conservarsi distruggendosi; nessun ente ha una sua
realtà o essenza e la verità non è tale. Noi abbiamo difeso la presenza
oggettiva della verità alla mente, perchè solo così si può difendere la
validità del pensiero e con essa l’uomo: perdere la verità è perdere il
pensiero, è svuotare l’uomo di se stesso, della sua natura, farlo somigliante,
come dice Aristotele, alle piante e alle bestie. D'altra parte, se si nega
validità oggettiva al sapere umano, si nega il fondamento naturale di quello
rivelato, cioè la base della fede. A chi avrebbe parlato Dio se l’ente pensante
non avesse lume oggettivo d’intelletto e discorsivo potere di ra184 Filosofia e
Metafisica gione ? Il suo discorso agli uomini avrebbe, in tal caso, lo stesso
senso, cioè nessuno, che per le piante e le fiere; o tanti sensi mutevoli
quante sarebbero le contingenti posizioni
storiche del pensiero, o le
autonegantesi sue posizioni dialettiche
j cioè ancora alcun senso sensato. 2. La
prova dalla vita morale. Fino ad ora abbiamo insistito sull’attività
intellettiva, affinchè la prova non sembrasse pregiudicata da altri elementi, e
soprattutto perchè qualsiasi altra possibile dell’esistenza di Dio, a nostro
avviso, presuppone quella dalla verità .
Ma ora è necessario analizzare gli altri aspetti della vita dello spirito,
affinchè la prova manifesti tutta la sua aderenza all’uomo nella pienezza della
sua integralità e riveli intera la sua forza normale. La verità originaria
presente alla mente non interessa solo la vita intellettiva, ma ogni forma
della nostra attività. Anche la vita morale ha il suo fondamento nei princìpi
originari che guidano, orientano e informano ogni azione, quantunque nessuna li
adegui: ne sono la misura senz’essere da essa misurati. L'azione buona
o quella doverosa non fanno essere bontà e dovere, anzi non vi
sarebbero senza la bontà e il dovere, che invece sarebbero ugualmente anche se
nel mondo non fosse e non fosse mai stata alcuna azione buona e doverosa.
Possiamo concludere: non vi sono i valori morali perchè esistono le azioni che
li esprimono, ma queste in quanto esistono quelli, preesistono a tutte le
azioni e ne sono indipendenti. I valori morali sono innanzi tutto verità
oggettive, intuite dalla mente; in questo senso, anche se pratici , sono teoretici, regole della
volontà che ad essi è obbligata a subordinarsi, e ai quali si subordina e
uniforma ogni qualvolta ne
riconosce la verità ed il pregio:
è la volontà volente secondo l’ordine morale. La ragione speculativa giudica di
ogni L'esistenza di Dio 185. cosa secondo i princìpi primali del giudizio; la
ragione pratica di ogni azione secondo i valori morali, i quali sono verità (e
come tali teoretici ) regolatrici della volontà e della nostra condotta e
perciò aventi un uso pratico. Per conseguenza, come alla mente sono dati i
princìpi fondamentali del conoscere, così le sono dati quelli del volere; dalla
presenza in noi di verità speculative si argomenta l’esistenza di Dio come
Verità in sè; dalla presenza in noi dei valori morali si argomenta l’esistenza
di Dio come Valore assoluto, Bene sommo. L’argomentazione è identica a quella
fatta a proposito della prova dalla
verità : la mente umana è capace di conoscere valori morali assoluti che sono
la vita, la forza e l’efficacia della volontà che di essi è come la
rivelatrice; essi non sono creati dalla mente o dalla volontà, nè indotti a
posteriori dall’esperienza, la quale anzi li presuppone; dunque esiste Dio come
Valore assoluto o assoluta Volontà creatrice di tutti i valori, di essi
fondamento e sostegno. Il bene morale è anche attrattivo ; la sua attrazione
conferisce alla prova una nuova sfumatura e rivela tutta la sua potenza
dinamica. Oggetto naturale della volontà è il bene, sua verità; essa ne è
attratta, anche quando lo misconosce e gli si pone contro: il pentimento del
male fatto, rivincita del bene, è opera della sua forza di attrazione. Il bene
è il principio motore della volontà e l’elemento informatore delle volizioni.
Non c’è felicità senza bene; il suo possesso è la felicità di ogni ente
spirituale; dunque il bene è il principio di ogni nostra azione. Vi è una
intuizione intellettiva di esso, una presenza, che è presenza di Dio come Bene
sommo; non intuizione, ma ancora immagine reale di Lui e pertanto il rapporto
tra il bene intuito e Dio come Bene Sommo è sempre analogico. Intuizione
operante, creatrice: conoscere il bene e volerlo è amarlo, esserne attratti;
esso genera il movimento della volontà e ne concentra gli sforzi verso lo
stesso fine, che non è solo il bene che l’ente 486 Filosofia e Metafisica
finito può conoscere e praticare, ma, attraverso questo, è il Bene Sommo, che
trascende ogni bene e lo fonda. Amare il bene è operare nel bene, che si
possiede in esso operando; le azioni buone sono le risposte veraci che noi
diamo all’oggetto della nostra suprema aspirazione. Solo quando il bene diventa
regola costante e continua della condotta, l’ente razionale, stimolato
interiormente dall’attrazione del Bene sommo, cammina e si approssima sempre
più alla meta. È la saggezza, ma saggezza mossa, inquieta ed attiva, ricca ed
indigente, suscitatrice di sempre nuove risposte secondo la norma regolatrice
ed orientatrice. Il Bene Sommo, lume della mente e della volontà, illuminando,
ama: Dio illumina ed il suo lume è amore; noi, gli illuminati, ci illuminiamo
amandoci ed amando gli altri enti creati. L'amore è l’attrazione del bene; Dio
è l’attrazione assoluta del Bene assoluto. Il dinamismo della volontà, alla
quale è presente il bene, è originariamente orientato verso il Bene Sommo o
Dio, Centro assoluto di attrazione, unificatore di tutti i suoi sforzi, che,
altrimenti, sarebbero inspiegabili, inintelligibili. L’ente spirituale finito
ha dunque il desiderio naturale del Bene Sommo, assolutamente ed infinitamente
perfetto. 3. La prova dal desiderio
naturale di beatitudine. L’ultima proposizione è la maggiore , se alla dimostrazione si dà la
forma sillogistica, di un 'altra prova dell’esistenza di Dio, la quale si fonda
pur essa su quella dalla verità .
Infatti, la proposizione tutti gli
uomini desiderano naturalmente il Bene sommo, infinitamente perfetto non sarebbe formulabile se non avessimo la
nozione del bene oggettivo; ma tale nozione non potremmo avere non la crea la mente altrimenti l’uomo
sarebbe Dio, nè si può indurre dall’esperienza la quale, al contrario, la
presuppone se non ci fosse data
originariamente come oggetto intuito. Per conseguenza: ) gli uomini desiderano
natural. L'esistenza di Dio 187 mente il Bene sommo solo in quanto vi è in loro
la sua presenza indiretta, ma attiva ed operante; 5) il desiderio del Bene
sommo presuppone dunque la nozione di esso, cioè un principio di verità. Ciò
rileva diciamo fugacemente quanto sia errata l’interpretazione
modernista di tale argomento, la quale si fonda su un presupposto agnosticismo
che distrugge fin dall’inizio il fondamento oggettivo della prova; come pure
quella pragmatistica, che, negato il suo valore teoretico, limita la forza
dell’argomento alla sua portata pratica e volontaristica. «Tutti gli uomini
cercano di essere felici; senza eccezione. Quali che siano i differenti mezzi
che adoperino, tendono a questo scopo... La volontà non muove mai il più
piccolo passo se non verso questo oggetto. È esso il motivo di tutte le azioni
di tutti gli uomini, financo di quelli che si vogliono perdere... ; così Pascal
in una delle sue Pensées. Questo desiderio di felicità, naturale ed
irresistibile, è il movente della volontà che, spinta di volizione in
volizione, non sa e non può arrestare il suo dinamismo se non quando fruisce
del Bene infinitamente perfetto. Ma nessun bene finito può adeguare le tendenze
e i desideri della volontà, il suo desiderio intimo e profondo del Bene assoluto,
anzi il possesso dei beni finiti lo accresce sempre di più: la « volontà
voluta non adegua la « volontà volente ,
che vuole ancora e vorrà sempre fino a quando non possiederà l'oggetto della
sua suprema aspirazione, come scrive il Blondel. Ma se è così, se gli uomini,
anche quando si perdono, vogliono la felicità piena quella che non rinvia è evidente che la loro volontà è
originariamente orientata verso il suo fine assoluto, cioè che è in essa la
presenza di quel Bene sommo a cui aspira. Si può dire con Agostino: qualsiasi
cosa l’uomo cerchi e voglia, cerca e vuole Dio. C’è al fondo del desiderio
naturale di beatitudine il bisogno di fedeltà ad un bene a cui si può restare
sempre fedeli perchè assoluto: l’infinita capacità di 188 Filosofia e Metafisica
volere trova in esso il suo oggetto adeguato, la volontà realizza il piano di
se stessa. Venir meno a questa fedeltà è la caduta dell’uomo al disotto
dell’uomo. Vi è un dramma essenziale alla radice della volontà: vuole con tutta
se stessa il Bene assoluto e sa che anche la fedeltà e l'impegno al massimo
della loro forza normale non la garantiscono dalla caduta, nè bastano ad
ottenere da soli la beatitudine; ma sono la condizione indispensabile perchè
essa resti conforme alla sua norma e non evada dalla sua partecipazione finale.
Infatti, orientare tutta la capacità della volontà volente verso un voluto
finito è atto innaturale, è la guerra della volontà contro se stessa, contro il
suo desiderio naturale del Bene infinito; è il male, in quanto, dato che il
desiderio di infinito è indistruttibile, l’infinita capacità di volere,
concentrandosi in un finito, lo assolutizza, non lo riconosce per quello che è.
Così l’aspirazione all’infinito, teista e religiosa, degrada in idolatria e
fanatismo. È il sovvertimento: dir vero al falso per aver detto falso vero.
L'autenticità della natura umana è perduta fino a quando, caduto l’idolo,
l’orientamento genuino della volontà non riprende il suo corso naturale e non
si eleva al vero livello umano di desiderio naturale di beatitudine in Dio. Ma
l’esigenza, come la pura esperienza vissuta, non basta e, se puramente
psicologica, non è dimostrativa. Rispondiamo: 4) qui si tratta di un’esigenza
naturale, essenziale ed universale dello spirito e, come tale, dell’essere umano;
5) i dati psicologici non sono illusioni ma realtà psicologiche; c)
l’esperienza interiore, per il fatto che è tale, è più vera di qualsiasi
esperienza esteriore; d) non ci troviamo di fronte al puro dato psicologico nel
senso ristretto e soggettivistico del termine, ma alla vita dello spirito, che
è un dato reale e all’intuito fondamentale del bene, oggetto della mente. Ora,
il dato psicologico che qui consideriamo
tutti gli uomini desiderano la felicità piena e dunque tutti aspirano al
Bene L'esistenza di Dio 189 sommo, il solo che possa appagare questo loro
naturale desiderio o essenziale esigenza
oltre che indicativo di una condizione reale, è anche aztestativo o
testimoniante, in quanto quella condizione sarebbe inesplicabile senza la
nozione o la presenza interiore del Bene sommo, inquietudine e movimento della
volontà, verso cui è attratta in un dinamismo che in questo scopo unico ed
assoluto trova la sua direttrice essenziale e la sua unità totale. Ma proprio
nella indicatività e attestazione della condizione reale è il fondamento della
dimostrazione razionale che giustamente si esige; non vi potrebbe essere nella
volontà la presenza creatrice di tanta vita spirituale ed orientatrice di ogni
desiderio ed azione, se non esistesse il Bene sommo, a cui la volontà stessa
aspira. In breve: non vi sarebbe nell’uomo desiderio di Dio, se Dio non
esistesse. L’ indicatività
dell’esigenza, chiarita, approfondita e colta nella condizione naturale
dell’ uomo, si rivela fondamento oggettivo della dimostrazione razionale. Ma se
è così, anche se il desiderio di Dio si manifesta per ultimo, anche nel caso
che non si manifestasse affatto, esso è ugualmente il motore interiore di tutto
il dinamismo della vita spirituale: senza questa originaria presenza della trascendenza (dell’Al di là interiore e trascendente)
l’uomo sarebbe privo di ogni segno di Dio perchè da nient'altro potrebbe
riceverlo o ricavarlo. Giustamente San Tommaso nota che il desiderio naturale e
necessario del fine ultimo o del Bene sommo non è una inclinazione incosciente,
contingente e transitoria della volontà, ma un’inclinazione consapevole, che ci
porta verso il bene, non della sola volontà, ma di tutto l’uomo. Gli altri
desideri non sono che in funzione dell’appagamento del desiderio essenziale e
fondamentale della beatitudine, cioè del possesso del Bene sommo (5); dunque,
(2) S. Tommaso, De veritate, 22, 3, ad 5 m. (3) Qui non si confondono affatto
Bene e felicità, Valore e beatitudine: l'aspirazione alla felicità non
significa volere il Benc per la felicità. Se fosse possibile pensarlo senza
contraddizione, si potrebbe dire ed è stato detto dai mistici, 190 Filosofia e
Metafisica la spiegazione di tutto il movimento della volontà va cercata in
questo implicito essenziale , sua unità
primitiva, di cui le singole azioni non sono che l’esplicazione parziale e a
cui tendono tutte come alla suprema unità finale. Il bene infinito a cui la
volontà tende è la ragione per cui vuole gli altri beni: come l’oggetto della
intelligenzaè il Vero assoluto, così l'oggetto della volontà è il Bene sommo.
L'ente spirituale è capace di desiderare l’Infinito e perciò è vita perenne e
dinamismo ascendente. Dinamismo verticale e non orizzontale, che è di ordine
fisico o biologico e non di natura spirituale; la dinamica dello spirito è
processo di trascendenza reale e non apparente o spuria, quello che si mantiene
sempre allo stesso livello, e non ascende, che guarda avanti
e non in alto , avanza ctelluricamente
verso ciò che è più ir /è e non sale
iperuraniamente verso quello che
è 42 di lè. Noi abbiamo perduto il senso profondo ed autentico dei termini più
pregnanti e perciò più ricchi ed espressivi della nostra vita spirituale, quali
quelli di dinamismo, ascesi, trascendenza, ecc., corrotti dall’uso
immanentistico, e perciò naturalistico, che li ha depauperati, depotenziati,
detonalizzati. Un dinamismo che non è mosso ed alimentato da un fine che lo
trascende è agitazione inconcludente ed arrovellamento disperato; una
trascendenza come posizione provvisoria di un che che sarà immanentizzato è
appiattimento dello spirito nell’orizzontalità del livello terrestre e perciò
negazione del suo slancio ascendente alla trascendenza vera. Chi dice che noi,
tendendo all’infinito, lo
realizziamo nel nostro stesso
tendere e lo coe come espressione
mistica non è contraddittoria) che la creatura è disposta a soffrire tutte le
pene anche eterne, in vita e dopo la morte, pur di fruire del Bene sommo.
Pertanto il desiderio di beatitudine Jo è del Bene assoluto in sè, anche se
tale possesso dovesse comportare l'eterno dolore; ma, senza che la creatura si
preoccupi della propria felicità, il Bene sommo per se stesso voluto è già
tutta la beatitudine dell’ente creato. In altri termini, il desiderio naturale
di beatitudine, se il possesso del Bene esigesse tutta la nostra infelicità
possibile, sarebbe ugualmente desiderio di beatitudine e felicità. L'esistenza
di Dio 198 struiamo nel nostro divenire,
dice cosa che non ha alcun senso e, degradando l’infinito alla nostra
finitezza, degrada noi al livello della fisicità e ci assimila alle cose. Il
Gott-imwerden di Hegel è un'espressione senza senso, in quanto usa il termine
Dio e dice di Lui cosa che Lo nega, contraria alla Sua natura. Dio non è un
fine che produce l’uomo
ed è ridicolo che lo possa produrre
ma un fine a cui l’uomo
tende e può attingere ; e ogni fine a cui si tende
e che si vuole attingere presuppone precisamente l’esistenza del fine
desiderato. Dio, dunque, a cui ogni uomo tende, è la Mente che è Verità, la
Volontà che è Bene assoluto: è la Persona assoluta, fondamento di ogni vero e
di ogni bene e perciò essenzialmente e perennemente creatrice. Il Bene sommo
trascendente è appunto il fine adeguato dell'umano naturale desiderio di
beatitudine. Sia, tutti gli uomini desiderano naturalmente il Bene sommo; ma
potrebbe darsi che, desiderandoio, tendano a qualcosa di inesistente e
impossibile. Abbiamo già risposto a questa obiezione, la cui forza è puramente
apparente, in quanto, dimostrato che tutti gli uomini desiderano naturalmente
il Bene sommo, è provato anche che il loro desiderio naturale non può essere
vano, proprio perchè naturale. Omne agens agit propter finem (*), e non vi è desiderio
naturale che sia privo del suo oggetto, in quanto un desiderio naturale senza
l’esistenza dell'oggetto proporzionato sarebbe contraddittorio ed
inintelligibile: una potenza senza il suo atto, nel linguaggio tomista. Per
conseguenza, come argomenta Campanella, se Dio non fosse, l’uomo non potrebbe
avere il desiderio dell’Infinito, in quanto la mente finita non potrebbe
eccedere il mondo nelle sue appetizioni; se lo eccede è perchè l’Essere
infinito dà fondamento a questo suo desiderio; dunque esiste il Bene sommo,
infinitamente per- fetto, nostro fine supremo e beatitudine. Il bene per sua
(4) S. Tommaso, Summa contra gentes, }. III, c. 2. 192 Filosofia e Metafisica
natura tende a comunicarsi; Dio, Bene sommo, è massima- mente diffusivo,
Attività creatrice, da e per cui è ogni bene creato, di Lui debole immagine. Ma
per quel che è di bene è reale, ordinato ad un fine, che è il principio ed il
fine del suo movimento (7). Ma anche la prova dal desiderio naturale di
beatitudine ‘presuppone l’altra dalla
verità , senza l’intuizione della quale non vi sarebbe in noi il desiderio del
Bene sommo, in quanto l’uomo non sarebbe creatura intelligente. Dio, creandomi
ente intelligente, mi dà quanto è necessario che io abbia per essere tale; la
verità a me interiore fa che la mia vitaintellettiva resti sempre sotto la
dipendenza divina: cammino sulle orme di Lui e dunque su una via già se- gnata
ed orientata; perciò Dio è anche il fine ultimo della mia volontà. Nessuna
verità finita può soddisfare la mia intelligenza e nessun bene creato il
desiderio infinito della mia volontà; io ho avuto quanto basta affinchè la
nostalgia della patria sia invincibilmente impressa nella mia vita
spirituale e ne segni la via : et
irrequietum est cor nostrum donec requiescat in te (6). L’autocoscienza o la
consapevolez- za di quel che sono è insieme coscienza di me o dell’io e di Chi
o del Tx che trascende; sapere me è sapere che Dio è; ed è amarLo.
L’autocoscienza profonda, sapersi fino in fondo, involge la coscienza
dell’esistenza dell’ente finito e quella dell’Essere infinito. L’autocoscienza
kantiana ed idealistica, invece, è coscienza di me come trascendentalità o
unità delle forme trascen- dentali. Per conseguenza: è coscienza di me vuoto
(le forme a priori in sè sono vuote) o di me piero, ma del contenuto
dell’esperienza, delle cose, a cui è limitata l'applicazione va- lida delle
forme. La trascendentalità, com’è definita da Kant, (5) Il desiderio naturale
di beatitudine, come scrive il Blondel, sebbene spesso ciò si dimentichi, sostiene e comanda ogni speculazione
filosofica sul mondo, sull’umanità e sul loro destino (Le problème de la philosophie catho- lique,
Paris, 1928, p. 161). (6) S. Acostino, Confess., L I, c. 6, n. 1. L'esistenza
di Dio 193 non può mai riempirsi di Dio e perciò l’autocoscienza tra-
scendentale non può mai trascendere il mondo, non è mai coscienza di me e di
Chi mi trascende. L’idealismo trasforma l’Io trascendentale kantiano in entità
metafisica per cui, da un lato, elimina il concetto di noumenicità (non vi è la
cosa in sè come pensabile), e dall’altro, dato che l’As- soluto è lo stesso Io
trascendentale, lo identifica coerente- mente con l’unità del mondo. Così
l’autocoscienza resta pri- gioniera della trascendentalità e lo spirito, tutto,
si assimila alla natura: l’immanentismo è cosmismo assoluto. L'uomo muore nella
trascendentalità: il suo desiderio naturale di beatitudine è compresso e
soffocato; il suo fine ultimo è il mondo, il suo unico amore la terra. Dio è
morto e, con Lui, l’uomo. Da quanto abbiamo detto, appare evidente che la
prova dalla vita dello spirito non è riducibile nè a quella onto- logica
nella forma di Sant’ Anselmo e nelle altre che ha rice- vuto nel corso della
storia della filosofia, nè alla prova cosmologica, di cui la più chiara ed
esatta formulazione sono le cinque
vie di S. Tommaso. Non è riducibile, ma
non ne esclude alcuna, anzi le include e, a nostro avviso, dà loro più forza,
perchè di esse è il fondamento. Sarebbe quanto mai opportuno, ma non rientra
nei limiti della nostra indagine, un esame approfondito delle due prove
ontologica e cosmo- logica, nelle diverse e pur simili formulazioni che hanno
avuto, in rapporto a quella da noi sostenuta; mostrerebbe come esse, in molti
punti concordanti e convergenti, sono riducibili in fondo ad una sola. Qui ci
limitiamo a qualche osservazione, che giova a chiarire quanto abbiamo
scritto. La prova ontologica. È la più
accanitamente difesa e combattuta, ma resiste sempre; non si tratta di
respingerla o accettarla integralmen- te, ma di bene intenderla e soprattutto
di integrarla. Infatti, se essa presuppone la prova dalla verità , tipica di S. Ago- stino, ci
sembra impossibile non riconoscerla vera, in quanto, in tal caso, muovendo
dalla realtà della vita spirituale, vien meno la forza della principale
obiezione: impossibilità L'esistenza di Dio 195 di dedurre dall’idea di Dio la
sua esistenza, di passare dal- l’ordine del pensiero a quello della realtà. A
nostro avviso, l'argomento di Anselmo presuppone la dottrina agostiniana della
verità e va inteso all’interno di tutto il suo pensiero. I sostenitori della
prova ontologica, S. Anselmo e S. Bo- naventura sicuramente, sono preoccupati
del fatto che, se la nozione di Dio non è in noi, non può in alcun modo essere
indotta dall’esperienza delle cose finite. Ciò significa: se non è presente
alla mente e da essa interiormente intuita la ve- rità, fondamento di ogni vero
particolare e modo come Dio può essere in noi, non è possibile all'uomo
partecipare del suo Principio: senza una verità originaria che illumina la
mente, egli non è capace di verità e di argomentare secondo verità; di pensare
e pensare Dio. Ma ciò più che dall’Idea di Dio, come chiariremo tra poco, è
partire dal fatto del pensare: è un fazto che la mente conosce verità aventi i
caratteri divini della necessità, dell’immutabilità e dell’assolutezza; un
fazto che essa non le crea e non le riceve dalle cose finite e contingenti;
dunque esiste Dio come Verità in sè, da cui deriva la verità che è in noi.
Intuire l’idea di Dio è possibile in quanto si intuisce la verità in noi,
quella di cui Egli ci ha fatto partecipi e che è presenza di Lui; verità
illuminante e operante, tanto è vero che le operazioni della ragione (il
giudizio e la dimostrazione) sono possibili in quanto presuppongono quel lume
di verità che è anche lume di bene, che alimenta il movimento della volontà e
fa che sia desiderio ed amore del Bene sommo. Se teniamo presente la
formulazione agostiniana della prova
dalla verità nella forma
sillogistica in cui l'abbiamo enunciata, la minore la mente umana intuisce verità immutabili e
assolute, ad essa superiori implica
l’esistenza di Dio, cioè della Verità in sè: non vi potrebbe essere verità
presente alla mente e ad essa superiore se non esistesse la Verità. Abbiamo
avuto cura di dimostrare che non c’è verità semza un pensiero che la pensa e
che, d’altra parte, 19% Filosofia e Metafisica non c’è pensiero senza verità:
nell’uomo vi è verità, dunque egli è un ente pensante; privo della verità
cesserebbe di esserlo. Per conseguenza: esiste un pensante, dunque, esiste Dio,
Pensiero assoluto creatore di ogni ente pensante. Certo, per analisi, posso
distinguere e distinguo tra il pensare e la verità oggetto della mia mente, ma,
in concreto, il pensare, perchè tale, involge già la verità e questa il
pensiero di cui è oggetto; dunque concretamente io esisto come essere pensante
la verità e pensante per la verità: l’una aderisce all’altro e sono
inscindibili. Perciò la prova dalla verità non muove da un possibile, ma dall’ente
pensante, dall’uomo. D'altra parte, la verità oggetto della mente e per cui la
mente è mente, non ha la sua sussistenza nell’ente pensante che la pensa, in
quanto questo è finito e contingente e quella infinita e necessaria; dunque,
pensata dalla mente, le è superiore. Di qui la necessità che esista il Pensiero
infinito, necessario e assoluto, Soggetto sussistente della Verità, che con
esso s’identifica. Nell’ente creato la verità non scindibile dalla mente è suo
oggetto, da nessuna cosu creata adeguato; perciò l’unità non significa anche
identità; nell’Ente increato Pensiero e Verità s’identificano. A noi sembra che
l’argomento ontologico di S. Anselmo vada inteso tenendo presente quanto già
detto. Egli muove dall’idea di Dio come
l’essere di cui non si può pensare nulla di maggiore ; tale idea importa
innanzi tutto che sia pensata, cioè che vi sia una mente che pensa; ma non vi
può essere pensiero senza presenza di verità; dunque l’idea di Dio importa
l’esistenza di un ente pensante e, come tale, dotato di verità. Per
conseguenza, la presenza alla mente dell’idea di Dio presuppone l’esistenza
dell’ente che è pensiero ed è tale perchè in lui è presente la verità;
l'argomento ontologico presuppone la prova
dalla verità . Una sarebbe la difficoltà, che non è alcuna di quelle
prospettate da Gaunilone, S. Tommaso e Kant: come fa l’uomo a pensare Dio? ad
averne un’idea vera? In fondo, l’ateo nega Dio per-. L'esistenza di Dio 197 chè
nega che si possa averne un’idea vera; se lo si convince che l’idea di Dio è
presente alla mente e che perciò negarne l’esistenza è contraddittorio, si
arrende 0, se non altro, si dispone a ragionare secondo verità. Dunque,
superata la difficoltà di come l’uomo abbia l’idea di Dio, la prova è
imbattibile, in quanto basta pensare Dio per pensarlo esistente. L’alternativa
che pone l’argomento ontologico è la seguente: o si pensa Dio o non Lo si
pensa; se lo si pensa, Dio esiste. L’ateo Lo nega perchè non pensa a Dio nel
momento che Lo nega: la sua mente è fuori di se stessa. Dunque, ripetiamo, se
Dio si pensa, esiste; ma per il fatto che la mente Lo pensa, le è presente la
verità e con essa l’idea di Dio. Ancora: se Dio è l’essere di cui non si può
pensare nulla di superiore, la mente, nell’atto che Lo pensa, riconosce che le
è presente qualcosa che è superiore ad essa, e ad ogni cosa esistente o
pensabile; per conseguenza conclude (l’argomentazione è identica a quella della
prova dalla verità ) che esiste l’Essere
assoluto. La verità presente alla mente le aderisce, come già detto, per cui
non c’è mente senza verità e verità che non sia oggetto di una mente. L’idea di
Dio, in S. Anselmo, va intesa allo stesso modo: in concreto, c'è l’uomo
pensante Dio e l’idea gli appartiene come qualcosa che fa parte della sua
natura; non il pensiero e l’idea di Dio, ma il pensiero che pensa Dio. Così
intesa, la prova perde quel carattere concettuale ed astratto che, a prima
vista, presenta e acquista tutta la sua concretezza: non muove dall’idea di
Dio, ma dall’ente pensante Dio, dal pensiero cui aderisce la verità,
connaturata, nell’atto creativo, alla creatura umana. Bisogna ancora notare che
nei sostenitori dell’argomento ontologico c'è un’altra preoccupazione
legittima, quella di dimostrare l’esistenza di Dio, ma del Dio cristiano, cioè
dell’Essere che è Pensiero e Volontà, Verità e Bene creatore, Verità
illuminante ed Amore. In altri termini, il Dio di cui 198 Filosofia e
Metafisica si dà la prova deve soddisfare non solo le esigenze della ragione ma
anche quelle della fede, dato che Egli è l'oggetto proprio della religione e
della coscienza religiosa. Per il filosofo cristiano, il problema
dell’esistenza di Dio si pone in questi termini: è razionalmente dimostrabile
l’esistenza del Dio a cui si crede per fede? Quale il fondamento razionale
della fede in Dio Padre, Creatore, Amore, Provvidenza? Per lui, senza che la
fede abbia a pregiudicare la razionalità della dimostrazione, non si tratta
solo della ragione, ma del suo uso cristiano, cioè della ragione posta a
servizio della fede; dunque di dimostrare non l’esistenza di un Dio Causa prima
non causata del divenire, Legge dell’Universo, come quello aristotelico, ma di
Dio Padre Creatore ecc., Spirito o Persona Assoluta. Posto così il problema, il
punto di partenza dell’argomentazione ha una grande importanza: bisogna partire
da un ente che contenga tutti gli elementi per concludere a Dio come è creduto
per fede e poi anche conosciuto esistente per ragione. Sant'Anselmo su questo
punto è molto esplicito, all’inizio: Ergo, Domine, qui das fidei intellectum,
da mihi, ut quantum scis expedire intelligam, quia es sicut credimus, et hoc es
quod credimus (Proslogion, c. II); e nella conclusione della sua dimostrazione:
Gratias tibi, bone Domine, gratias tibi quia quod prius credidi te donante, iam
sic intelligo te illuminante, ut si te esse nolim credere, non possim non
intelligere (Proslogion, c. IV). È qui il punto: la mente intende Dio perchè
Egli, la Verità, la illumina facendola partecipe di verità, di quelle che
rendono valida la discorsività razionale. In questo senso è vero che, se Dio
non fosse originariamente a noi interiore, non potremmo mai dimostrarne
l’esistenza, non saremmo neppure enti intelligenti e per conseguenza neanche
razionali. Ma, oltre a ciò, ripeto, resta l’altra preoccupazione testè notata:
chi parte dal mondo fisico rischia di non incontrare il vero Dio quello in cui si possa credere, che si possa
L'esistenza di Dio 199 pregare, adorare, sentire vivente nel cuore di ogni uomo ma un Principio impersonale, una Causa
cosmica, una Legge suprema della natura, come capitò ad Aristotele, il filosofo
di un deismo ante litteram e non del teismo. Ciò spiega perchè San Tommaso,
filosofo cristiano, pur essendo aristotelico, ha trasposto il pensiero del
filosofo pagano in termini di pensiero cristiano; e perciò, nello spirito, non
è aristotelico. Di qui il pericolo, se ci si ferma alla scorza aristotelica del
suo pensiero e non se ne rivive la profonda ispirazione cristiana di origine
agostiniana, di essere cristiani di fede, ma aristotelici e dunque non cristiani di -pensiero, cioè dei piissimi... atei.
Invece, chi muove dalla vita dello spirito nella sua integralità, se riesce
nella prova, dimostra il Dio che è Mente e Volontà creatrici di spiriti e di menti,
Verità e Libertà creatrici di verità e di libertà a loro volta creatrici;
questo Dio si può pregare, adorare, sentire nel cuore. D'accordo: si tratta di
partire da un dato positivo di esperienza su cui esercitare la riflessione;
perchè non può essere la nostra vita spirituale? la nostra esperienza interiore
più ricca di ogni altra? Forse lo spirito e l’esperienza interiore, la realtà
umana, non sono dati positivi? Ma proprio l’esperienza interiore e la vita
tutta dello spirito sono intelligibili per il lume interiore di intelligibilità
che le fa tali, per la verità presente alla mente, immagine di Dio, da Lui
data. Da e per questa, e solo in quanto essa c'è, la ragione argomenta che Dio
esiste; rapporto di somiglianza e analogia, razionalmente corretto e
perfettamente ortodosso. Se l'argomento ontologico è inteso nel suo nucleo di
verità ed in stretto legame con la prova
dalla verità , da esso presupposta, perde le sue apparenze di
astrattezza e di argomentazione dal puro dato concettuale. Inserito nella
realtà della vita spirituale non è più raggiunto dalle obiezioni di Gaunilone o
di S. Tommaso, il quale non nega la presenza in noi delle verità prime che,
anche se è necessaria l’esperienza per acquistarne consapevolezza (vengono 200
Filosofia e Metafisica dopo cronologicamente ), non sono date dall’esperienza
sensoriale. Così impostato, l'argomento ontologico è di un’evidenza fuori
discussione derivantegli dall’identità in Dio di essenza ed esistenza (!). La
stessa affermazione che nell’essenza di Dio è contenuta l’esistenza ha un
significato più che altro chiaritivo ed esplicativo; in effetti, non è che
nell’essenza di Dio è contenuta la Sua esistenza, bensì che la Sua essenza è
necessariamente la Sua esistenza. Non essendo Dio ricevuto in alcuna essenza
specifica, come abbiamo detto sulla scorta di Tommaso, perchè la Sua stessa
essenza è l’atto di essere o il suo atto
di essere è costitutivo dell’essenza
consegue ancora la identità perfetta di essenza ed esistenza. Dire che a
Dio è necessaria l’esistenza significa che l’esistenza è identica alla Sua
essenza, che non è alcuna specifica essenza; in breve, Egli è la Verità che è
Verità, l’Essere che è l’Essere e non può non essere l’Essere: è l’Esistente.
Chiaro che l’identità di essenza ed esistenza vale soltanto per Dio e non per
l’isola beata di Gaunilone o per i cento
talleri di Kant; isola beata, talleri e ogni altra cosa non possiedono
l’esistenza in e da sè e perciò dipendono dall’Essere che è l’Esistenza, da Dio
l’Esistente assoluto. La derivazione, nell’argomento ontologico, dell’esistenza
dall’essenza serve per convincere la nostra mente, a cui Dio non è evidente per
se stesso, con la forza del ragionamento;DI cioè è necessaria per la nostra
mente finita, ma in Dio (I) Com'è noto, pur ammettendo l’identità in Dio di
essenza ed esistenza, S. Tommaso critica l'argomento ontologico anselmiano:
accetta le premesse, ma nega la conclusione, non accorgendosi che è impossibile
perchè contraddittorio. S. Tommaso concede che l’Essere perfettissimo non può
essere concepito senza essere concepito esistente, ma aggiunge che ciò
significa che esiste solo in intellectu e non in rerum natura. L’obiezione non
ha alcuna forza: l’Essere perfettissimo, che non può non essere concepito che
come esistente, per ciò solo esiste. Il passaggio dall’ordine dell’idea a
quello dell’esistenza è richiesto da tutte le altre cose, che possono essere
concepite esistenti e non esistere affatto în rerum natura perchè non
perfettissime, tranne che da Dio, in quanto solo in Lui, come S. Tommaso
ammette, essenza ed esistenza s’identificano. L'esistenza di Dio 201 non si può
parlare di derivazione alcuna per la identità di essenza ed esistenza. Se c’è
identità, come si dice che dalla essenza deriva necessariamente
l’esistenza e per la mente finita non
può essere diversamente in quanto nello stato naturale non le è presente Dio
com'è in sè così si può. dire, ma non
più rispetto a noi, che dall’esistenza deriva la Sua essenza. In verità, non
c’è derivazione: Dio è lo Essere che è l’Essere, identità assoluta di essenza
ed esistenza come di esistenza ed essenza. Ciò posto, possiamo dire che per Dio
dall’essenza segue l’esistenza; per ogni altro ente dall'esistenza segue
l’essenza, ma tutti gli enti che non sono Dio ricevono l’esistenza, non la pongono , non esistono da sè. Solo in Dio,
posta l’essenza, segue l’esistenza; meglio, posta l’essenza, è posta con essa
l’esistenza, perchè Egli è atto di se stesso; dunque non Lo si può concepire
senza concepirLo esistente: l’esistenza non si aggiunge, è nella Sua essenza.
Ma, se è necessario per Dio che dall’essenza segua l’esistenza, è necessario
per ogni altro ente che dall’esistenza segua l’essenza, cioè non può concepirsi
esistente senza concepirlo con una sua essenza. È qui la forza della prova
cosmologica: partendo dalle cose, non possiamo non muovere dalla loro
esistenza, cioè da ciò che non è contenuto nella loro essenza; ma appunto
perchè non sono atto di se stesse, pongono il problema del principio del loro
esistere. D'altra parte, non la sola loro esistenza lo pone, ma l’esistenza
contenente una essenza, un ordine, una
verità ; dunque, pongono il problema del loro principio non in quanto
soltanto esistenti, ma in quanto esistenti con un'essenza o essenze
esistenziate. Per conseguenza, l'argomento dalle cose contingenti si riallaccia
a quello dalla verità , come, del resto,
l’argomento ontologico, il quale, a differenza di quello cosmologico, che non
può non partire dall’esistenza delle cose, non può muovere che dall’essenza o
idea di Dio, la sola che contiene necessariamente l’esistenza. Da ultimo
notiamo che l’argomento anselmiano con202 Filosofia e Metafisica tiene un altro
elemento di verità, del resto, già da noi evidenziato: mettere l’ateo di fronte
al senso dell’affermazione Dio non esiste . Che Dio non esiste si può dire e l’ateo
lo dice ; ma ha un senso questa
espressione verbale e le si può dare l’assenso? S. Anselmo dimostra che quel
che dice l’ateo non ha senso, e per questo è insipiens, non sa quello che dice
: parla di Dio, ma pensa ad altro, manca della vera nozione. Non
perchè non ce l’abbia, ma perchè egli non è presente a se stesso, è fuori della
sua vita spirituale e perciò della verità: i suoi giudizi non possono essere
che da insipiens, della ragione sensitiva non della ragione intellettiva. Che
Dio non esista non si può neppure pensare (Proslogion, cap. III), perchè non ha
senso pensare come non esistente l’Essere di cui non si può pensare nulla di
maggiore, perchè pensandolo non esistente mon si pensa più a Lui, ma ad un
qualsiasi altro ente che si può pensare senza pensarlo esistente appunto perchè
non è l’Essere di cui non si può pensare nulla di maggiore. L’ateo, in realtà,
nel momento che nega Dio, pensa a un altro ente. Ciò prova ancora che
l’esistenza di Dio non è una verità immediata nota a noi per se stessa e perciò
è bisognosa di dimostrazione, ma non perchè manchi in noi la nozione primitiva
di Dio {e dunque l’appoggio della dimostrazione debba essere cercato nel dato
sensibile), ma perchè possiamo allontanarci da noi stessi e dalla luce
interiore, essere assenti a noi, fuori
di noi , lontani dal sapere intellettivo ed immersi nel conoscere sensitivo. La
dimostrazione occorre non perchè manchi in noi la presenza di Dio, ma perchè
non c’è immediata nè sempre attuale consapevolezza di Lui. Se l’ateo riflettesse
su quello che dice non potrebbe
pensare che Dio non esiste nè
assentire alla sua affermazione
negativa, in quanto, incontrandosi con se stesso e con la verità che è in lui,
si incontra con Dio. L'argomento ontologico manifesta chiaramente la sua
origine agostiniana, da dove trae forza. Esso è anche valido negativamente:
dimostra assurda. la negazione dell’esistenza di Dio, cioè nega che abbia
valore L'esistenza di Dio razionale la proposizione Dio non esiste , che l’insipiens pronunzia in
cuor suo (?). Ci siamo più di una volta richiamati alla prova (alle prove)
cosmologica o a posteriori dell’esistenza di Dio, anch’essa vera se riportata a
quella dalla verità .
L’argomentazione vi è il moto nelle
cose; ciò che è mosso è mosso da altro (quidguid movetur ab alio movetur); la
serie causale non può procedere all’infinito; dunque esiste un Primo Motore,
qui ipse est immobilis prima che di S.
Tommaso (I via) è di S. Agostino, il quale a più riprese formula l’argomento
cosmologico. Ma lo stesso Agostino la riduce a quella dalla verità
per il motivo che la prova, la quale parte dai dati sensibili, dipende
da alcuni elementi intelligibili non derivati e non derivabili dall’esperienza,
quelli che le conferiscono validità oggettiva; dunque, non (2) E’ nota la
critica di Kant all'argomento ontologico: 4) l’idea di un oggetto non contiene
la sua esistenza; essa dice solo che esso è possibile, perchè non implica
contraddizione; £) l'esistenza può essere aggiunta solo dalla esperienza, cioè
4 posteriori (sinteticamente) ed è indeducibile dall’essenza (analiticamente);
c) perciò, se l’esistenza, anche nel caso dell'idea di Dio, va aggiunta
dall'esperienza, consegue che essa non fa parte dell'essenza o idea; dunque
toglierla o aggiungerla non diminuisce nè accresce il contenuto dell’essenza;
d) pertanto, anche negandogli l’esistenza, l’idea o l'essenza di Dio non perde
alcuna perfezione. In altri termini, l’esistenza non è un predicato e dunque il
contenuto del concetto di un oggetto resta quello che è sia che esista o non
esista. Ciò conferma che l'esistenza di un oggetto pensato non può essere
dedotta dalla sua essenza, ma è aggiunta dall'esperienza nel caso che questa la
fornisca; ma l’esperienza non fornisce affatto l’esistenza di Dio e pertanto
non è possibile dimostrare che Egli esiste fondandosi sui princìpi speculativi
della ragione, senza che ciò impedisca che Dio venga pensato come l'Essere
perfetto di cui non si può pensare nulla di maggiore, appunto perchè, avere o
non avere l’esistenza niente aggiunge e toglie all'idea di un oggetto. Kant
considera Dio alla stessa stregua degli enti finiti per i quali vale la
distinzione di essenza ed esistenza, senza senso per Dio, che è identità di
essenza ed esistenza; infatti, l'affermazione di Anselmo, che l’idea di Dio
involve necessariamente l'esistenza vale solo per Lui, per l’ente di cui non si
può pensare nulla di più grande. Kant non si accorge (il paralogismo è suo) che
quando afferma che dall’idea di Dio non si può dedurre l’esistenza, la quale
dunque dovrebb'essere aggiunta, non parla più di Dio, in quanto non parla
dell’essere di cui non si può pensare nulla di più grande: quando critica
l’argomento onto204 Filosofia e Metafisica possiamo ascendere dalle cose
sensibili a Dio senza appoggiarci alla Verità interiore. Esatta l’affermazione
di S. Tommaso che la prova deve avere il suo punto di appoggio in un dato reale
e non in una pura entità concettuale, ma il dato reale primo non è il
sensibile, bensì la realtà spirituale e quanto in essa è implicitamente presente.
Per esempio: esistono cose che hanno un certo grado di perfezione; ciò indica
che esiste il perfetto del quale partecipano le perfezioni finite; dunque
esiste Dio Perfezione assoluta (IV via). Esatto, ma come può il soggetto
conoscere, misurare, il grado di perfezione delle cose, se non intuisce la
perfezione, se non ha in sè la misura con cui misura? In altri termini: non
potrei dire questa cosa ha un grado di perfezione se non fossi illuminato dalla perfezione, cioè
se non fosse interiore alla mia mente una nozione di essa, che le cose possono
anche esplicitare, ma non mi possono dare. La proposizione le cose hanno un
grado di perfezione è un giulogico non
pensa a Dio, e perciò è insipiens, non sa quello che dice. L'idea di Dio è
qualcosa che non posso dire soltanto presente in me senza contraddire a quello
che penso; secondo un’espressione del Bertini, il concetto di Dio è un concetto
reale, cioè implicante la realtà del suo oggettoTutta l’argomentazione di Kant è
errata sostanzialmente. La sua affermazione: sia che Dio esista o no, nulla si
toglie o si aggiunge alla sua perfezione, vale per l’ente finito, ma non ha
alcun senso per Dio, in quanto, data l'identità di essenza ed esistenza, non ha
senso parlare di togliere o di aggiungere a Diol’esistenza. Ne ha solo uno:
togliere a Dio l’esistenza non significa lasciargli tutta la sua perfezione, ma
negarlo senz’altro, in quanto l’esistenza è la sua stessa essenza; dunque,
negata la prima, è distrutta l’altra e anche l’idea. Così resta confermato che
se Dio non esistesse l’uomo non potrebbe pensarLo e lo stesso ateo che pensa
di negare Dio, può farlo perchè Egli esiste. Negare Dio è ancora negare
l’uomo come ente pensante; ma l’ente pensante esiste e pensa Dio, dunque Dio
esiste. Ma le critiche che Kant muove all’argomento ontologico e agli altri
hanno, in fondo, un'importanza secondaria nel suo sistema, cosa a cui forse non
si è badato abbastanza. Ci spieghiamo: è l’impostazione della Critica che in
partenza nega l’esistenza di Dio o almeno non può più giustificarla; le
obiezioni alleprove tradizionali, tutte paralogismi, sono chiamate a coonestare
i presupposti del sistema. Quando Kant ha ammesso che le forme valgono solo nei
limiti della esperienza c pertanto il pensiero trova il suo oggetto adeguato
nei contenuti finiti dell'esperienza stessa o in quel contenuto finito che è il
reale nella sua totalità, e che le idee
non sono conoscenze ma pure
condizioni del conoscere il. %
cui contenuto dovrebbero ricevere dall’esperienza (e Dio non è oggetto di espeL'esistenza
di Dio 205 dizio: come potrei giudicare se non possedessi i princìpi del
giudizio a cui conformare ogni giudizio? Ma con ciò oltrepasso i corpi e anche
me stesso, in quanto quella verità primale è più di me, misura anche la mia
ragione e la mia intelligenza. Scoperta essa, ho scoperto che Dio esiste
non dalle cose , ma in quanto mi sono
elevato da esse alla verità che è in me e da questa a Dio: dall’esteriore
all’interiore e dall’interiore al Superiore. Quella cosmologica è una via
anch'essa, ma più lunga; l’altra dalla
verità più breve: dalla verità in me
(interiore) alla Verità in sè (al Superiore). Entrambe si fondano sulla
dipendenza essenziale dell’ente finito dall’Essere che lo pone, ma nella prima
il rapporto è diretto: lo spirito conosce se stesso e in questo atto intuisce
la verità che in lui è presente e lo illumina; di qui argomenta che,
partecipato, esiste l’Essere di cui partecipa, il Principio da cui è. Pertanto
l’autocoscienza implica la presenza a se stessa del Principio creante:
avverrienza) e se non lo ricevono sono
vuote , egli ha escluso non solo la soluzione del problema
dell’esistenza di Dio, ma Dio stesso dalla concreta vita dello spirito: ha
decapitato l'uomo affinchè con la testa non sovrastasse di un infinitesimo il
livello delle cose o del mondo. Quando Kant dice che non vi è altra verità
ncll'uomo oltre quella che egli stesso si costituisce col processo sintetico
del conoscere, ne fa il legislatore della natura (cioè gli attribuisce il
potere che spetta a Dio), ma nello stesso tempo, mondanizzandolo, lo
immondanizza, lo pone al di sotto di se stesso, al livello dell’empirico.
L'esigenza della metafisica e i postulati della ragione pratica sono pure
sovrastrutture che la Critica non sopporta se non contraddicendosi. Essa nella
sua impostazione iniziale non è orientata verso la teologia, bensì verso la
cosmologia intesa come conoscenza critica del fenomenico. Non possiamo non
accennare, a proposito dell’esistenza di Dio, all’ontologismo critico del
Carabellese, derivante da un ripensamento di Spinoza attraverso un'elaborazione
critica del Criticismo di Kant. Per il Carabellese, Dio è 1’ Oggetto puro
assoluto immanente alle singole coscienze, dunque non esiste; infatti,
l’esistenza è soggettività ed alterità ed è dei soggetti singoli; Dio,
l'Assoluto, non è soggettività nè alterità e perciò non gli compete
l’esistenza: dire che esiste è fare di Lui un soggetto singolo tra singoli,
cioè négarLo. L'argomento ontologico dev'essere pertanto abbandonato così come
è nella sua forma tradizionale e accettato solo nel punto di partenza, l’ Idea:
Dio è 1’ Oggetto o l' Idea assoluta, pura, oggettiva immanente allé singole
coscienze: l’ Unico nei singoli e non uno dei singoli, come sarebbe se si
ammettesse esistente. Così inteso, Dio non si può negare con il pensiero,
pérchè sarebbe negare l’oggettività del pensiero stesso con un atto di pensiero
e ciò è contraddittorio. /o penso, dunque affermo Dio; se tu neghi Dio, non
pensi. Ecco l'argomento ontologico nella sua forma positiva 206 Filosofia e
Metafisica tirsi, è avvertirsi dipendenti da Dio. In breve, se esiste l’uomo,
esiste Dio; l’uomo esiste, dunque Dio esiste: basta che esista un pensiero,
perchè sia implicata l’esistenza del Pensiero assoluto. Infatti, dato un
pensiero, come abbiamo detto, è dato un essere pensante e se è dato un essere,
esiste l’Essere assoluto. Dall’ente pensante all’Essere pensante, dalla
verità-uomo, la verità che ogni uomo è, alla Verità in sè, di cui ogni uomo
partecipa per una dipendenza essenziale iniziale e finale. Attraverso di essa,
se vuole esser valida, è costretta a passare la via cosmologica per il motivo
che sono i princìpi primi o le verità primali che rendono possibile il giudizio
vero, la conoscenza delle cose sensibili, e con ciò fanno che sia valida ogni
argomentazione dalle cose finite e conungenti a Dio essere infinito e
necessario. Ogni regola di giue in quella negativa (P. CaraseLLEsE, 1 problema teologico come
filosofia, Roma, 1930, pp. 181-183). Ma quale argomento ontologico? Qui non c'è
più argomento di sorta: c’è solo l’affermazione che io penso con la quale è
identificato Dio. Altro è dire io penso,
dunque affermo Dio ; altro io penso, dunque Dio esiste . Le due formule sono
antitetiche: la prima nega Dio e, contraddittoriamente, afferma il pensiero; la
seconda dimostra l’esistenza di Dio dalla realtà del pensiero, che c'è perchè
Dio esiste. S. Anselmo muove dall'idea di Dio e ne argomenta l’esistenza; il
Carabellese dice che Dio è Idea, solo Idea, pura Idea immanente e ne nega
l’esistenza. Altro che argomento ontologico! Idea di chi? delle coscienze
singole e dunque immanente e, come tale, adeguata da quel finito che è il
mondo; ma se Di è tutto immanente, è finito come il mondo a cui è immanente, e
ad esso relativo. Non la trascendenza, e perciò l’esistenza, nega Dio come
assoluto; è l’immanenza che lo risolve e lo nega nella finitezza, singolare o
globale, delle singole coscienze, di cui è l’Oggetto unico. E Dio è l'Unico
proprio in quanto esiste, perchè è l’unico Esistente assoluto, in cui
coincidono essenza ed esistenza. Questa, in fondo, la posizione del
Carabellese: accetta il concetto panteistico spinoziano di Dio, lo ripensa
utilizzando quello kantiano di Idea o noumenicità pura e a questo assimila,
contro la lettera e lo spirito della sua filosofia, l’idea dell’essere del
Rosmini. Da ciò trae le conseguenze estreme: se Dio è pura nou-menicità o Idea
e questa non è che l’oggetto di una coscienza pensante, Egli è l’Oggetto puro
immanente alle singole coscienze pensanti. Così il Carabellese all’immanenza
idealistica, con la quale ha polemizzato efficacemente tutta Ja vita,
sostituisce l’immazenza ontologica, dell’Idea od Oggetto assoluto nei soggetti
singoli. A noi qui non interessa l’importanza polemica di questa posizione nei
confronti dell’idealismo trascendentale, ma la sua validità ai fini del
problema dell’esistenza di Dio; e non ne ha alcuna. Il Carabellese ha ripetuto
anche lui l’errore di distinguere in Dio essenza ed esistenza e non si è
accorto che, negare l'esistenza, è negare anche l'essenza, cioè l'Idea; in
fondo, ipostatizza la rosmiL'esistenza di Dio 207 dizio lo è innanzi tutto del
nostro pensiero; dunque tutte le possibili prove cosmologiche dipendono da
quella dalla verità . Le due forme di
argomentazione a) esiste qualcosa di
contingente e finito, dunque esiste l’Essere necessario ed infinito; 5) è
presente alla mente una verità che le è superiore; dunque esiste la Verità in
sè nella loro profondità si riportano
allo stesso principio di verità, da cui ricevono la loro forza. Infatti,
partendo pure dalle cose sensibili, l’argomentazione non può non seguire questo
procedimento: le cose sono contingenti e mutevoli e, come tali, non possono
avere in se stesse la loro ragion d’essere: bisogna trascenderle
per cogliere il Principio da cui derivano quanto hanno di ordine, di
perfezione e di essere; al di sopra dell’ordine e della perfezione delle cose
vi sono l’ordine e la perfezione del nostro pensiero, con cui conosciamo, giudichiamo
e misuriamo quelli delle cose; la verità che è in niana
idea dell'essere, lume di ragione e oggetto della mente, e ne fa l' Idea
assoluta avente valore di Oggetto unico immanente. Il Carabellese, a cui
importa il problema dell’unità del molteplice come già al suo maestro Varisco,
identifica Dio con l’unità ideale o con l’ Idea pura; ma il problema dell'unità
del molteplice è ben diverso da quello di Dio e l’unità ideale non è l’unità
reale. Per la critica dell'immanenza ontologica cfr. le osservazioni di G.
Zamsoni nell’ Itinerario filosofico, (Verona, 1949, p. 118), che abbiamo tenuto
presenti. Per altre nostre osservazioni al pensiero del Carabellese su questo
punto cfr. 1! Secolo XX, Milano; Il problema di Dio e della religione nella
filosofia attuale, Brescia. D'altra parte, è errato affermare che l'esistenza
non è una perfezione e non aggiunge nulla all'essere pensato, in quanto l’ente
che esiste nel solo pensiero e non anche nella realtà è inferiore a quello che
esiste nel pensiero e nella realtà, come nota S. Anselmo (Proslogion, c. Il);
lo è in quanto l’essere che esiste solo nel pensiero ne dipende: esiste perchè
il pensiero lo pensa e soltanto come essere pensato. Pertanto dire che
l’esistenza non aggiunge nulla alla perfezione dell'idea di Dio è dire che Egli
è relativo al pensiero umano, è puro oggetto pensato ed è solo in quanto il
pensiero lo pensa. Perfettamente il contrario: io penso in quanto in me è
presente la verità che è presenza di Dio e dunque in quanto la stessa idea di
Dio è luce del mio pensiero. Ma Kant, tornando a lui, nega che esistano nello
spirito conoscenze primarie ed intuitivé e dunque una verità originaria;
consegue che non c'è altra verità nell'uomo oltre quella che egli stesso si
costruisce con la sintesi della forma 4 priori e del contenuto a posteriori:
Dio è escluso dal processo della vita dello spirito. Le obiezioni di Kant
all'argomento ontologico provengono dalla corruzione del significato del
termine idea operata dagli empiristi
inglesi ec mirano molto lontano: c'è già in nuce l’idealismo trascendentale,
che è la riduzione dell’essere all’immanenza del pensiero. 208 Filosofia e
Metafisica noi ci è data, dunque, il ragionamento ci porta a trascendere noi
stessi, a risalire dalla verità-data alla Verità-Principio, a Dio. In altri
termini: il pensiero discende dalle verità primali intuite per conoscere e
giudicare secondo queste verità le cose sensibili; da queste ascende alle
verità che sono in lui, inferiori alle cose, e da esse a Dio, l’Essere
perfettissimo, che ogni cosa ed ogni verità trascende. Per conseguenza,
l'ordine e la perfezione del mondo non si conoscono con i sensi ma con la
ragione, cioè misurandole con la verità che è in noi: il fondamento della loro
conoscenza è l’intuizione primitiva della verità; dunque le prove 4
contingentia mundi passano dalla vita dello spirito. È vero quanto scrive il
salmista, Vulg.: coelì enarrant gloriam Dei, et opera manuum cius enuntiat
firmamentum; ma nulla mi direbbero e mi indicherebbero, se in me non lucesse la
luce della verità. Così impostata, la prova cosmologica è inconfutabile; non si
può negare Dio senza spingersi ad affermazioni assurde come questa: è
contraddittorio concepire l’Essere assoluto ed ammettere l’esistenza, per poi
attribuire l’eternità e l’assolutezza alla materia e al mondo che sono
contingenti e finiti! La prova cosmologica non solo suppone quella dalla verità
ma è riducibile, come osservò Kant, alla prova ontologica: Dio,
Principio assoluto, ha la ragione della sua esistenza nella sua stessa essenza;
perciò in Lui essenza ed esistenza s’identificano; ma è questo, come sappiamo,
il fondamento dell’argomento ontologico (*). (3) Com'è noto, all'argomento
cosmologico, così come lo riceve attraverso il razionalismo
cartesiano-leibniziano, Kant muove un’obiezione: non è possibile applicare
all’Essere trascendente la categoria della causalità, valida solo nei limiti
dell'esperienza, dove non si trova un ente incondizionato e dove, invece, ogni
causa è a sua volta causata; dunque la categoria della causalità, fuori della
esperienza, è una forma vuota, senza oggetto. Abbiamo già evidenziato i limiti
di questa critica kantiana del principio di causa, la quale, del resto non
infirma la validità dell'argomento. BontapinI nel vol. Ricostruzione metafisica
(Atti del IV Congresso di Studi filosofici cristiani, cit., p. 379) d'accordo
con me afferma che la filosofia non x persegue la ricerca di un Dio qualunque,
ma di quello che è indicato dalla coL'esistenza di Dio 209 D'altra parte, la
formulazione della prova esiste qualcosa
che non è da sè, dunque esiste Dio è
insufficiente a dimostrare l’esistenza dell’Essere creatore e trascendente,
Intelligenza e Volontà; infatti, il puro Ens realissimum può essere una causa o
un principio impersonale, una legge cosmica ordinatrice. Non basta che esista
qualcosa, ma è necessario che esistano degli effetti tali, da cui si può
argomentare per analogia l’esistenza dell'Essere creatore, trascendente ecc.,
cioè di Dio, quale Lo crede per fede la coscienza religiosa. L’Ens di ragione,
causa dell’origine del mondo, è un’idea cosmologica, che non è Dio, quantunque
Egli sia scienza religiosa; che, perciò, essa non parte dalla (mera) esperienza
sensibile, ma dalla coscienza cristiana (la quale rientra nella unità
dell'esperienza); che la più ricca delle cose reali di cui abbiamo certezza è
l’uomo; che Dio si dimostra con tutto l'uomo; che la metafisica, come voleva S.
Agostino, è metafisica della verità, la quale si coglie in interiore homine .
Successivamente aggiunge: con questo si
dice che l’essere, che è oggetto della metafisica, non è fuori dal pensiero
(per questa non estraneità dell’essere al pensiero è possibile la metafisica
stessa come scienza). Ma con questo è altresì chiaro che non è da opporre la
metafisica dell'essere a quella della verità: si tratta di aspetti di una
medesima posizione . Certamente, una volta che il Bontadini mi concede che
l'essere non è estraneo al pensiero, cioè gli è interno originariamente come
idea; del resto, non ho mai opposto la metafisica della verità a quella
dell'essere se ben intesa, nè Agostino e Rosmini a S. Tommaso, anzi ho sempre
sostenuto il contrario. Proprio la Neoscolastica italiana, invece, trova
opposizione, o tutto vuol ridurre al suo tomismo; perciò il problema
dell’opposizione è affar suo e non mio. Secondo Bontadini io ho
sottoscritta (nel vol. 17 problema di
Dio e della religione nella filos. attuale, cit.) la prova tomistica, soltanto
spiritwalizzandola, appunto con quel riferimento a ’’tutto l’uomo’ e anche qui si dichiara d’accordo; ma, come
per me va intesa la prova tomistica, appare chiaro da tutto il presente
scritto. Da ultimo il Bontadini mi ascrive tra i personalisti concilianti ; invece, io non
concilio niente, perchè non c'è niente da conciliare. Il conciliare presuppone
due punti di vista opposti o una lite; e qui non c’è opposizione o ite; è
sempre smorzare e attenuare e qui marco i concetti e li approfondisco come
posso e so. La parte del paciere in filosofia non ha senso o è posticcia.
Successivamente il Bontadini ha avuto modo, a proposito di non so qual Convegno
francescano, di occuparsi di me e, a quanto sembra, in particolar modo della
prosa contenuta in questo volume. Quel che in tale occasione egli ebbe a dire e
pubblicare (Spiritualismo cristiano e metafisica classica, Giorn. crit. d. filos. ital., I, 1955)
dimostra semplicemente che ha orecchiato senza leggere e criticato
sulla base di preconcetti e luoghi comuni; ma la maldicenza, anche
se neo-scolastica non è oggetto di discussione. Del resto, il
superamento della fase esigenzialistico-fideistica e l'inserimento del mio
spiritualismo nella linea della metafisica classica è stato ampiamente vagliato
e riconosciuto dalla più autorevole critica mondiale, compresi i più
accreditati tomisti e neotomisti. 210 Filosofia e Metafisica l’Ente assoluto;
di qui ancora la necessità di partire
dalla vita dello spirito che è
intelligenza di verità, volontà morale ecc., effetti da cui si argomenta per
analogia l’esistenza di Dio essere creatore, Mente e Verità assolute, Volontà,
Perfezione infinita. Quale cosa del mondo fisico potrebbe mai farmi pensare che
Dio è Libertà e Persona? Non lo pensò Aristotele, che cercava appunto un Dio
Primo Motore Immobile, principio del movimento o del divenire, non potenza ma
Atto puro; ma quale abisso tra il Dio au quel pense la plupart des hommes e
questo Dio filosofico que les hommes n’ont jamais songé è invoquer!. È il Dio
di una filosofia ma di nessuna religione e non può esserlo di una filosofia
cristiana. Non diciamo che il Dio della religione (e della cristiana) non si
possa chiamare anche Primo Motore immobile o Atto puro, ma che questa
terminologia va trasposta in senso cristiano. Pertanto è necessario non solo
integrare Aristotele, ma trasporlo come ha fatto S. Tommaso, la cui metafisica,
che utilizza filosoficamente il concetto di creazione, non culmina
nell’aristotelico Motore Immobile, ma in quello cristiano, che è l’Essere
creatore, infinito e provvidente, cioè il Dio che tutti gli uomini invocano.
Non basta partire dal reale finito e diveniente per arrivare a Dio; è
necessaria una critica dell’ente finito
e diveniente in quanto tale, in modo da stabilire quali elementi contenga e se
tali da farci concludere non ad una o più cause immutabili del divenire, ma al
Principio creatore e provvidente. Daccapo: non è possibile alcuna critica
dell’ente finito, cioè alcun giudizio oggettivamente vero, se non è presente
alla mente la verità che è fondamento di ogni giudizio e della ragione
giudicante; ma se è presente la verità, esiste Dio, che è la Verità, il Lume
eterno e trascendente, che illumina la mente e riscalda il cuore delle
creature. (4)
H. Bercson, Les deux sources de la morale et de la religion, Paris, 1946, pp.
256 segg. ° L'esistenza di Dio 211
Da ultimo, la prova cosmologica dev'essere spogliata di quel suo carattere
puramente razionalistico e gnoseologico, più della tradizione tomista che di S.
Tommaso. Il problema, infatti, più che nei termini gnoseologistici di intelletto
conoscente ed oggetto conosciuto, di Causa prima ed effetto, s'imposta in
quelli ontologici di ciò che è empirico e contingente e di ciò che è metafisico
e necessario; altrimenti, se il metafisico (l’essere) non precede l’empirico
(le cose), è impossibile da questo arrivare all’essere. Dopo quanto abbiamo
detto, le tre prove dalla verità, che
include anche quella ontolcgica, dalla vita morale, legata all’altra del
desiderio di beatitudine e cosmologica
si presentano concorrenti e solidali: tutto il creato, nel suo ordine o
nel suo essere o nella sua verità, con una voce sola, attesta la sua dipendenza
da Dio e in Lui, e solo in Lui, cerca ed attua la sua finalità suprema (5). (5)
Credo che ciò possa tranquillizzare L. BogLioLo (Che cos'è metafisica, Salesiamum), il quale esige da me e da
altri una interiorità più robusta che
non avesse timore della materia nè la fuggisse , cioè un'interiorità profonda,
universale e totale. Ci sembra che la nostra abbia una tale robustezza: come
una a filosofia dell’integralità
potrebbe aver timore della materia e del mondo, e fuggirli? La nostra
indagine, muovendo dall’ipotesi Dio, ha
dimostrato che è razionale porla; la ricerca ha provato la sua verità oggettiva
e necessaria. A questo punto è opportuno domandarsi se è possibile porre
l’ipotesi opposta, Dio non esiste e, se porla, sia razionale. La si può porre,
ma con un atto non razionale; dunque, non è razionale porla, come del resto
abbiamo chiarito a proposito dell’ateo che è insipiens. Se fosse razionale
porre, al pari dell’ipotesi Dio esiste ,
l’altra Dio non esiste , le due ipotesi
si distruggerebbero e bisognerebbe, come lo scettico antico, sospendere
il giudizio e con esso la filosofia. Se è razionale porre l'ipotesi Dio non è razionale porre quella opposta. Qui
non siamo sul terreno dell’empirico accadere: è possibile che domani sia una
bella giornata com'è possibile che sia brutta; invece, non è razionalmente
possibile che Dio esista ed altrettanto razionalmente possibile che non esista.
Per porre una ipotesi è necessario che sia razionalmente possibile che possa
essere dimostrata vera; non posso porre come ipotesi da dimostrare una tesi
destituita di qualsiasi fondamento razionale, fantastica o assurda. Posso anche
farlo ma ragionando per assurdo, cioè per dimostrare indirettamente la verità
della tesi opposta. Se così, l’ateo non pensa,
vocia ; non è consapevole dell’assurdità della sua negazione: la sua non
è una conclusione critica, ma un’affermazione dommatica; non il risultato di
una riflessione esauriente, ma uno stato passionale che sottigliezze e sofismi
s’incaricano di fare, L'esistenza di Dio 213 apparire logico . Dio non esiste è l’ipotesi proibita, l’impossibile
razionale. Non si tratta di ammettere l’esistenza di Dio perchè soddisfa un mio
desiderio ed è consolante, ma perchè tale affermazione risponde all’ordine
della ragione e di tutta la realtà umana. Se l’ipotesi Dio
non fosse razionale e lo fosse
quella opposta tutto l’uomo e l’universo
sarebbero un falso incomprensibile ed assurdo. Ma non è razionale che sia
razionale l’ipotesi Dio non esiste ,
appunto perchè l’uomo in ogni forma
della sua attività e in tutte convergenti e unificate, la pienezza sua nel suo
ordine e in ogni grado della sua normatività, attestante la razionalità
dell’ipotesi Dio sarebbe sostanzialmente contraddittorio e
assurdo, nel caso che l’ipotesi opposta, anche come ipotesi, si ponesse
razionale e dimostrabile. L’ipotesi teista inerisce alla natura dell’uomo e
all’ordine della ragione; se quella ateista v’inerisse ugualmente, col solo
porla come razionale, si distruggerebbe l’uomo nella sua essenza. È
contraddittorio che alla stessa razionalità umana inerisca l’ipotesi Dio esiste
e l’opposta; perciò Dio non
esiste è l'ipotesi proibita perchè
contraria alla ragione e alla natura dell’uomo. Mi sembra che qui vadano
cercate la forza e la verità della pascaliana prova della scommessa e non nel suo presunto carattere
pragmatistico e volontaristico, che è solo una interpretazione scorretta o
insufficiente. Pascal, posto che è impossibile la neutralità di fronte al
problema, vuol dimostrare e dimostra che non si può non scommettere a favore
dell’ipotesi Dio esiste , perchè non si
può scommettere a favore dell’opposta, in quanto è irrazionale, contrario, non
ad una pura esigenza, ma a tutto l’uomo nel suo ordine. Scommettere per
l’ipotesi Dio non esiste è implicitamente puntare per il mondo, cioè
per un bene finito; scommettere per l’altra
Dio esiste lo è per il bene
infinito, senza scommettere contro il mondo. Ma, una volta che si tratta
dell’Infinito, il giuoco è fatto, dice Pascal: non si può non scommettere per
Dio. Non perchè sia più conveniente e con214 Filosofia e Metafisica fortevole
scommettere per un ipotetico bene infinito anzichè per un reale bene finito, ma
semplicemente perchè il reale bene finito (il mondo) non si spiega più come sia
un bene se Dio non esiste: o si considera un nulla, ed è assurdo scommettere
per il nulla; o reale e positivo nel suo ordine, ma basta che sia tale, perchè
la realtà e positività del mondo comporti l’esistenza di Dio; nè, ancora, si
può scommettere per l’ipotesi ateista perchè l’ordine della ragione giudica
razionale e ad esso conforme l’ipotesi teista e per conseguenza irrazionale e
disforme la sua opposta. Perciò la scelta, secondo Pascal e secondo noi, non è
tra due ipotesi, ma tra la ragionevolezza dell’una e l’irragionevolezza
dell’altra, tra il seguire la pienezza della ragione e l’abbandonarsi
all’insensatezza della passione sofisticata; non è tra due condizioni reali
dell’uomo, ma tra la sua condizione reale e la negazione insensata ed assurda
di essa. L’ateo prima di essere contro Dio è contro se stesso: si nega come
uomo e nega Dio; non passa da sè perchè ha negato Dio, attraverso cui l’uomo
coglie la profondità di sè e il suo ordine; dunque, la sua è l’ipotesi
proibita. Da ultimo: anche in chi nega Dio o Lo dimentica per attaccamento al
mondo o a sua cosa (ateismo pratico) vi è sempre la presenza di Lui, perchè
l’atto con cui si attacca alle cose è pur atto di pensiero; e non c’è pensiero
senza Dio. C'è e non Lo riconosce; dice di no al suo sì profondo ed
indistruttibile: offendendo Dio offende se stesso, si degrada al di sotto della
razionalità. Nè di ciò è incolpevole: certo, se ha dimenticato Dio per il
mondo, non ha più coscienza di Lui, ma è responsabile di essersi attaccato alle
cose fino alla dimenticanza di Dio, alla negazione pratica della Sua esistenza,
che è negazione della sua natura umana e della finalità che le è propria e non
è il mondo. Ipotesi proibita è il dubbio
iperbolico di Cartesio, che, perchè
iperbolico anche se metodico, sospende tutto, anche Dio, tanto da ammettere
l’ipotesi di un Genio maligno ..
L'esistenza di Dio 215 Ma il dubbio spinto al massimo, fino a negare Dio,
distrugge se stesso, perchè distrugge il pensiero: se davvero fosse possibile
bloccare la mente nel dubbio assoluto, nel momento stesso, cesserebbe il
pensiero e dal dubbio non nascerebbe mai il Cogito; infatti, è contraddittorio
pensare e nello stesso tempo annullare il pensiero con un atto del pensiero
quale è il dubbio assoluto. Chi dubita pensa e, se pensa, anche nel grado più
negativo del dubbio, non può dubitare di pensare; ma basta che vi sia un
pensiero, anche come pensiero del dubbio, perchè sia implicata l’esistenza di
Dio; dunque il dubbio iperbolico è impossibile, in quanto, negando sia pure
come momento metodologico, l’esistenza di Dio, si nega il pensiero e anche
quell’atto di pensiero che è il dubbio iperbolico e con esso l’ipotesi ateista. Metodo
significa via; ma il pensiero per
trovare la verità non può seguire la via che lo porta alla negazione di se stesso nel
dubbio assoluto che comporta la
sospensione dell’esistenza di
Dio. Dunque, è irrazionale ed assurda anche l'ipotesi del Genio maligno , che implica, sia pure
provvisoriamente, la possibilità di concepire razionalmente ciò che non è
razionalmente concepibile, cioè che tutto sia assurdo stupido insignificante,
al punto che un tal Genio avrebbe potuto aver fatta la testa degli uomini in
modo da far loro sembrare evidente e vero quel che è sostanzialmente falso. Ma
è precisamente questa l’ipotesi proibita perchè assurda; dunque impossibile ed
irreale, informulabile nell’ordine razionale come ad esso contraddicente. Non
per seguire un metodo che porta alla verità, ma contro ogni metodo confacente
alla ragione, Cartesio si è potuto spingere, sia pure provvisoriamente, al
dubbio iperbolico e alla ipotesi del
Genio maligno (). Lo stesso discorso vale per la Volontà
cieca ed irrazionale dello Schopenhauer, altra specie di Genio malefico,
tanto è vero che, irrazionale quanto si voglia, in fondo, pensa e delibera se,
come dice il filosofo, crea illusioni cd allettamenti per alimentare negli
uomini la volontà di vivere; dunque pensa e delibera l’assurdo; ma è assurda
una pura volontà dell'assurdo. 216 Filosofia e Metafisica Proprio alle origini
del razionalismo moderno, nella sua stessa posizione, c'è insito un elemento
d’irrazionalità: l’atto irrazionale con cui la ragione presume di poter ancora
esser tale negando la trascendenza della verità e con essa l’esistenza di Dio,
autosufficienza del pensiero, il quale, nell’atto che si autopone, si autonega:
è l’elemento dissolvente immanente alla stessa filosofia moderna. Concludiamo
che il dubbio sull’esistenza di Dio si può spingere al punto da esigere una
prova razionale, da discutere questa o quella prova, ma non fino a negare la
razionalità dell’ipotesi Dio esiste e ad ammettere quella dell’ipotesi opposta,
la quale, se posta, distrugge lo stesso dubbio e lo stesso pensiero: se
l’ipotesi Dio non esiste fosse razionale, tutto sarebbe falso, e
dunque anche l’ipotesi stessa; perciò impossibile che sia vera e formularla
razionalmente perchè assurda. Un dubbio che si spinge fino a quella ipotesi
varca i confini della razionalità e della ragionevolezza, si pone fuori
dell’una e dell’altra, del pensiero e dell’uomo, nell’irreale. L’ateismo è lo
stato irreale dell’uomo, è di chi è fuori del pensiero, della sua natura di
uomo, di se stesso; è dell’insipiens. Il razionalismo moderno, fin dal suo
inizio cartesiano, contiene un elemento di
insensatezza: ammettere la razionalità e la verità del pensare anche se
Dio non esistesse; e ciò è contraddittorio. Secondo Kant, è pensabile
che Dio esiste, anzi è solo
pensabile , perchè non implica contraddizione. Egli esclude il dubbio
iperbolico e l’ipotesi del Genio maligno
, ma non che sia razionalmente possibile e dunque pensabile
l’altra ipotesi Dio non esiste ;
se così non fosse, le antinomie o i
conflitti della ragione pura non
sarebbero possibili. Infatti, i due corni dell’antinomia, la tesi e l’antitesi,
propri della dialettica dell'idea cosmologica, sottintendono il primo che Dio
esiste e l’altro che non esiste: il mondo ha un cominciamento nel tempo e, per
lo spazio, è chiuso dentro limiti , dunque Dio esiste; il mondo non ha cominciamento nè limiti
spaziali, ma è infinito sia rispetto al tempo come rispetto allo spazio ,
dunque Dio non esiste; la causalità secondo le leggi della natura non è la sola
da cui si possano derivare tutti i fenomeni del mondo e perciò è necessario
ammettere per spiegazione di essi anche una causalità per libertà , dunque Dio
esiste; non c’è nessuna libertà, ma
tutto nel mondo accade universalmente secondo leggi della natura , dunque Dio
non esiste ecc. Come sappiamo e lo stesso Kant ammette, è pensabile, perchè non
contraddittorio, che Dio esiste e dunque è pensabile la serie delle tesi; ma,
come abbiamo dimostrato, non è pensabile razionalmente che Dio non esiste e
dunque non è razionalmente pensabile la serie delle antitesi; se è
contraddittorio pensare quest’ultima, una volta che è razionale pensare quella
delle tesi, cessa l’antinomismo della ragione pura. In breve: è pensabile che
Dio esiste, non che Dio non esiste; dunque non è pensabile la serie delle
antitesi che si fonda sulla pensabilità della ipotesi Dio non esiste ; perciò non vi sono antinomie
o conflitti della ragione pura, in quanto la pensabilità della serie delle tesi
non consente razionalmente la pensabilità e dunque la razionalità di quella
delle antitesi. Se l’ipotesi Dio non
esiste è impensabile, anche la serie
delle antitesi, che si fonda sulla pensabilità di questa ipotesi, risulta
impensabile; con ciò cessa l’antinomismo e il conflitto, restando compatibili con
l’ordine della ragione solo l'ipotesi della esistenza di Dio e, con essa,
soltanto la serie delle tesi. Possiamo aggiungere che neppure secondo un
convenzionalismo logico sia razionalmente possibile porre l’ipotesi ateista, in
quanto non ha senso porsi come ipotesi di lavoro un dato convenzionale
intrinsecamente assurdo. Dunque non c’è il dilemma o Dio
esiste , 0 Dio non esiste perchè il secondo corno è assurdo,
infondabile razionalmente anche come ipotesi: nell’ordine razionale manca
l’alternativa di questo 44 aut. Non c’è scelta se non tra ciò che è pensa218
Filosofia e Metafisica bile, rispondente a tutta la natura dell’uomo e ciò che
è impensabile, perchè in sè assurdo; dunque razionalmente è formulabile solo
l'ipotesi dell’esistenza di Dio, la sola pensabile. L’ateismo non è neanche un
problema perchè non è un problema sensato. Indubbiamente la psicologia
dell’ateo è molto più complessa di quel che risulta da quanto sopra si è detto
limitatamente all’ateismo considerato come posizione speculativa. Abbiamo
trascurato tutti gli elementi che formano lo
stato d'animo dell’ateo,
interessantissimi ma marginali per un metafisico che non desidera farsi
sopraffare dalla psicologia e dal sentimento. Tuttavia nell’ateismo filosofico
vi è un aspetto sul quale vale la pena d’insistere ancora. L’ateo ‘egli come individuo o la ragione umana in
generale, fa lo stesso vuole essere Dio
senza Dio: è qui la contraddizione costitutiva dell'essenza stessa
dell’ateismo, in quanto nessuno penserebbe di essere Dio senza l’idea di Dio,
cioè... se Dio non esistesse! Ancora: egli nega che Dio esiste non perchè sia
impossibile che esista l’Essere assoluto o perchè riconosca che non merita di
esistere, tanto è vero che identifica con Dio qualcosa che non lo è ed egli stesso
vuole essere Dio. L’ateismo filosofico è l’autodeificazione dell’uomo e della
ragione, idolatria; ma anche in tanta assurdità c'è una conferma dell’esistenza
di Dio: l’ateo non potrebbe autodeificarsi se non avesse ricevuto come ente
pensante la vocazione ad aspirare all'adozione divina. Egli devia
irrazionalmente questo dono di Dio, invece di indirizzarlo a Dio stesso, ma non
riesce ad annientarlo, altrimenti non potrebbe autodeificarsi. Il suicidio
metafisico della sua umanità profonda gli è impossibile: la sua insensatezza
non sopprime l’eterna coscienza della sua aspirazione (M. BLonpeL, La
philosophie et l'esprit chrétien), tanto che egli, in fondo, tende a realizzare
la sua unione con Dio, anche sotto la forma mostruosa di una unione con se stesso
divinizzato. L'orientamento primitivo e radicale del pensiero umano verso
Dio non è sterminabile . Lo si può
tradire; e l’ateismo ne è un tradimento, è dire di no a Dio; ma l’ateo, come
tale, dice di no anche a se stesso, all'uomo che è. Non lo neghiamo: vi è nel
cuore dell’ateo serio una sofferenza, che merita tutta la nostra simpatia
umana, e si può guadagnare dalla misericordia di Dio la chiamata . La sua condizione è quella di chi
ad ogni momento si rifiuta ad una chiamata
interiore, generosamente cd instancabilmente insistente. A proposito
dell'argomento ontologico abbiamo notato che S. Anselmo si propone dimostrare
che esiste il Dio a cui si crede per fede e quale la fede Lo indica; anche noi
teniamo fermo questo punto: non si tratta di dimostrare l’esistenza di un Dio
quale che sia, ma del Dio, a cui si crede per fede. Ciò non significa nè che la
ragione penetri la sua essenza (!), nè che la fede sia il fondamento della
dimostrazione della Sua esistenza, la quale, verità di fede e verità di ragione
insieme, interessa la filosofia e la religione. Certo, esse vanno distinte e la
via per cui la ragione arriva a Dio è diversa da quella per la quale vi arriva
la fede, ma le due vie devono concludere allo stesso concetto di Dio, in modo
che la ragione sia una conferma della fede: conosco razionalmente che esiste il
Dio a cui credo per fede. Così impostato il problema, la fede non solo non è un
ostacolo, ma è anzi un aiuto per la ragione e nulla toglie alla forza razionale
della dimostrazione; anzi, in un certo senso, gliene conferisce, in quanto fa
che la ragione dimostri il Dio di cui si cerca sapere anche razionalmente se
esiste, Quello che l’uomo prega, invoca, adora ed in cui crede e spera. Evidentemente il fatto che la ragione non
penetri l’essenza di Dio non infirma l’argomento ontologico nel senso che, se
la ragione ignora Dio nella sua essenza, non si comprende come dall’essenza o
idea possa dedurre l’esistenza. E' chiaro che, quale che sia Dio nella sua essenza,
questa s'identifica sempre con l’esistenza. 220 Filosofia e Metafisica
Impostare la questione in questi termini ci sembra estremamente importante per
oltrepassare l’apparente antitesi, tanto rovinosa quanto inconsistente, tra
il Dio della fede e il
Dio della ragione , il Dio d’Isacco e di Giacobbe e il Dio dei filosofi,
la quale oppone fede a ragione, verità a verità, cioè stabilisce un’antinomia
senza senso. Da un lato, un fideismo che, per il fatto che nega la ragione, non
salva la fede, la quale non dev'essere invocata per provare l’esistenza di Dio;
dall’altro, un razionalismo che, negando la fede, di essa non è più una
conferma e se anche dimostra Dio, egli non è quelio della coscienza religiosa,
ma una causa cosmica, una legge della natura. È necessario, invece, conservare
nella sua interezza il contributo della ragione e del pensiero
critico-dimostrativo (altrimenti s’impoverisce
sia detto per i volontaristi ed i pragmatisti proprio la ricchezza di quella vita
spirituale che credono difendere contro il razionalismo astratto), senza separare
la ragione dalla fede. Se separata, non sa precisamente che cosa si proponga di
dimostrare; disincarnata, la sua dimostrazione, risultato di un'’astratta
concatenazione concettuale e priva di quella forza reale che può attingere solo
dalla pienezza e dalla concretezza della vita spirituale, è di un Dio che non è
quello dell’esperienza religiosa ed umana. Teniamo fermo il punto centrale
della questione: l’esistenza di Dio si dimostra razionalmente, dunque è una
verità di ragione; ma la ragione è chiamata a dimostrare, senza fondarsi sulla
fede, il Dio della coscienza religiosa, Quello che gli uomini invocano ed
adorano, e, per una filosofia cristiana, il Dio della Rivelazione. La fede non
interviene e non deve nella dimostrazione, ma è lì presente ad indicare alla
ragione qual’è il Dio di cui è chiamata a dimostrare l’esistenza; è indicativa
della meta da raggiungere e, dunque, in certo senso, orientativa: è l’assente
presente. L’esistenza di Dio, dunque, è verità di ragione e anche di fede. Ma
il fideismo, oggi più pericoloso che mai dopo quasi tre secoli di accanita
corrosione della metafisica, è tentatore e non risparmia neppure la coscienza
comune. Infatti, quasi sempre si dice:
io credo o non credo nell’esistenza di Dio facendo di essa, implicitamente e spesso
inconsapevolmente, una questione di pura fede. Il pensiero speculativo moderno,
quando non è ateo o indifferente, è prevalentemente fideista ed afferma che
l’esistenza di Dio, di cui si riconosce l’esi-genza, non è dimostrabile
razionalmente: è una credenza, un bisogno morale, un atto di volontà, un affare
intimo, un sentimento personale. Di qui il pragmatismo e il volontarismo
religioso: credo nell’esistenza di Dio che non posso dimostrare razionalmente;
credo, voglio credere che esiste e
dunque esiste. Un dunque
inconcludente. Fideismo è agnosticismo; alla ragione agnostica, oppone
la volontà credente: posizione insostenibile e contraddittoria. Vi è ancora
un’altra forma non agnostica nè scettica di fideismo, quella protestantica, che
non nasce dalla sfiducia nei poteri della ragione, ma da una reazione contro di
essa, considerata troppo pericolosa e nemica della fede; contro la ragione che
pretende di risolvere, non solo il problema dell’esistenza di Dio, ma anche Dio
stesso nel processo del pensiero, come se Dio e la religione fossero questioni
puramente razionali e filosofiche. È il
fideismo che combatte il
razionalismo deista o ateo (il deismo, in fondo, è ateismo bello e buono), la
pretesa della ragione di dire tutto intorno a Dio, di costruire una religione
naturale o razionale, o di risolvere il momento inferiore della coscienza religiosa in quello superiore
della coscienza filosofica o della razionalità. In questa forma di
fideismo vi è un fondo di verità: rivendicare i diritti della fede contro la
ragione scatenata, quella dello Hegel, e, come tale, irrazionale per passione e
cecità; indicarle che il Dio che si cerca non è quello filosofico
o l’ Ente supremo di ragione del
deismo e neppure il Dio che si fa . Ma
vi è anche un gran torto: rivendicare i diritti della fede contro 222 Filosofia
e Metafisica la ragione e concludere che essa nega Dio e la fede, è loro
nemica, il diabolico nell’uomo, come
sostengono, per esempio, Unamuno e Chestov. Invece la fede deve far valere i
suoi diritti non contro ma con la ragione, di essa giovandosi; se è contro la
ragione è contro se stessa: non si può credere
senza o contro
la ragione; il conflitto distrugge i due termini. Il fideista dimentica
che la sua è sempre la fede di un essere razionale e dunque sempre imbevuta di
ragione, come quest’ultima, pur distinta , non è separata
dall’altra, altrimenti è ragione atea: deista, illuminista. Il fideismo
puro, che è ateismo della ragione e dunque
fede per disperazione , è esso stesso ateo; l’ateo precisamente si
rifiuta di credere perchè, secondo lui, la ragione smentisce la fede. La difesa
della ragione, dentro i limiti delle sue capacità naturali, è anche difesa
della fede (2). Posto ciò, contrapporre il Dio della fede al Dio della ragione
è architettare un’antitesi convenzionale ed inesistente, se per ragione
s'intende non quella immaginata dal
razionalismo assoluto, ma la ragione normale, la quale non si oppone alla fede,
non le si può contrapporre, nè la fede ad essa. Nel caso del problema che
stiamo discutendo, essa argomenta intorno all’esistenza di Dio per dimostrarne
la verità, cioè per confermare la credenza religiosa. Collaborazione, dunque:
dimostrare cor la ragione l’esistenza di Dio a cui si crede per fede. (2)
Queste mie affermazioni esplicite e chiare rendono inspiegabile il discreto sospetto dello STEFANINI (Ricostruzione metafisica,
cit., p. 387) che anch'io non rasenti la
metafisica della fede per la mia insistenza
(sì, insistenza, e senza sospetti neppure discreti) nel sostenere che nella
dimostrazione dell’esistenza di Dio bisogna tener conto della coscienza
religiosa e cristiana dell’uomo. Tutto quanto questo saggio esclude il
fideismo, la metafisica della fede e la petitio principii di presupporre ciò
che si deve dimostrare. Vedo che anche C. Ferro (Guida storico-bibliografica
allo studio della filosofia, Milano, 1949, p. 162) accusa me e lo Stefanini,
senza neppure discreti sospetti, di
fideismo e volontarismo ; ma che si può fare contro le
accuse gratuite ed orchestrate sempre nello stesso ambiente se non alzare le
spalle e continuare tranquillamente il proprio lavoro? L'esistenza di Dio 223
Con ciò si soddisfa ancora un’altra profonda esigenza: la esistenza di Dio non
è solo una verità razionale, ma di tutto l’uomo: verità integrale dell’uomo
integrale. Non della ragione astratta, disincarnata, ma della ragione concreta,
profondamente umana, che non prescinde
dall’uomo nella pienezza della sua vita spirituale. La ragione
filosofica, che non è quella geometrica , non ha da essere passionale
ma non può non essere
appassionata, accesa , ad alta
tensione; è passione di verità (eros) e, come tale, anche finesse. Solo in
quanto eros è ragione penetrante: solo in quanto si accende di amore per la
verità attinge la verità; in questo senso è vero che l’uomo conosce anche
razionalmente per quanto ama, e più ama e più conosce. Pertanto dimostrare
l’esistenza di Dio non è un'operazione, diciamo così, di ordinaria
amministrazione; non è fare un calcolo, mettersi di fronte ad una questione
indifferente, con indifferenza e quasi con pigrizia: non ci si esercita con
questo problema. È necessario viverlo intensamente, nella drammatica
alternativa del sì e del no, da cui dipende tutto il senso della nostra
esistenza e delle cose, la consistenza essenziale del nostro accidentale
vivere. Riflettere sul problema dell’esistenza di Dio è
sopravvanzare con la ragione, nell'amore per la verità, la stessa ragione per
renderla aderente a quella, verità primale che la illumina, per mezzo di cui
giudica e che pur la trascende (*). Dimostrazione rigorosissima, ma il cui
rigore logico deve essere vita e non morte dello spirito, fiamma di verità e
non estintore. È qui che presta il suo aiuto la fede, pur senza interferire: la
sua presenza indicativa è anche incentiva, eccitatrice dei poteri della
ragione, sollevata al massimo della sua forza normale dalla consapevolezza che
la risposta che da essa si attende, è quella del sì o del no al problema
assoluto. La risposta dev'essere senz'altro conforme 6 Amore petitur, amore
quacritur, amore pulsatur, amore revelatur, amore denique in co quod revelatum
fuerit permanetur (S. Acostino, De moribus cath. ecclesiae, c. XVII, 31). 224
Filosofia e Metafisica alle conclusioni della dimostrazione, quali che siano,
ma le conclusioni stesse sono più sicure razionalmente se si è certi che la
ragione abbia fatto il suo dovere, fino in fondo. Perciò la ragione riflessa
non può non tener presente l’oggetto della fede religiosa, di un’esperienza che
non può essere un'illusione universale (se il teismo lo fosse, sarebbe la
ragione ad autorizzare tale illusione!); e, a sua volta, la fede si tenga
sempre ancorata al suo fondamento razionale: credendo cogitat et cogitando
credit (*). (4) S. Acosrino, De praedestinatione sanctorum. Molti i portatori di ferule, pochi i bacchi ,
nè basta portar la ferula per essere un bacco; lo è chi è acceso del sacro
fuoco. Similmente, non basta esercitarsi
a dimostrare l’esistenza di Dio, ornarsi di sillogismi e filati
discorsi, anche se indispensabili ; è
necessario impegnarsi con la totalità di se stessi, dirigere,
unificate e solidali, tutte le proprie energie spirituali e vitali verso lo
stesso punto; fare sul serio, perchè si tratta dell’unica cosa assolutamente
seria della nostra esistenza. Ciò richiede particolari disposizioni, una reale
condizione psicologica di tutto l’essere spirituale che esclude l’indifferenza
e la pigrizia ed include la consapevolezza della profondità della questione,
dell’urgenza improrogabile di risolverla, della totalitarietà della risposta,
dalla quale dipende persino se noi siamo veramente o solo apparentemente degli
esseri intelligenti e non cose, il cui funzionamento organico ha delle
singolari manifestazioni dette
impropriamente pensiero, ragione, volontà
che gli altri organismi animali non hanno, beati loro in questo caso!
Non si dimostra l’esistenza di Dio senza aderire pienamente alla verità che si
vuol provare, se non si è disposti a dimostrarla, chiamati
dall’interno di noi a tentare la prova. Non è una chiamata qualsiasi: è
quella dell’Essere che scende in noi e sale dalle profondità del nostro essere;
nè chiamata vi sarebbe se l’atto della creazione non ci avesse radicato in Lui.
La chiamata aspetta in silenzio quando noi, perduto il senso autentico del
nostro 226 Filosofia e Metafisica esistere nell’onda del tempo, dall’Essere ci
sradichiamo: déracinés, sperduti e campati nel vuoto; allora le ore inesorabili
s'incurvano fino a saldarsi e ad annientarci nel cerchio del finito più insignificante,
opprimente, insopportabile. Se le cose stanno così, dimostrare Dio significa
desiderare una tale certezza della sua esistenza da essere poi nella condizione
di non più dubitare; infatti, è sapere tutta la verità di tutta la nostra vita,
ciò che appunto toglie il potere di dubitare di Lui. È l’atto dell’adesione
totale e traboccante, il momento della piena armonia, dell’equilibrio del
nostro essere integrale, che trova il suo appagamento nella conversione
all’Essere; è la fedeltà, 1! non poter dire di no. L’uomo è libero solo se è
liberamente prigioniero della verità. Perciò, la dimostrazione dell’esistenza
di Dio, affinchè la ragione sia nella condizione di rendere al massimo , esige preventivamente
una conversione di tutto l’uomo a quel problema. Tale conversione
al problema (non a Dio) riguarda innanzi tutto la ragione. Sofistica
non è la ragione retta, ma quella deviata; sofisma è un’argomentazione
corretta nella forma ma sostanzialmente errata, gioco di sottigliezze non forza
di ragionamento; perciò chi sofistica è sempre contraddittorio. Vi sono nella
sua argomentazione nessi e relazioni formalmente coerenti, ma il discorso è
ugualmente errato ('). È la stessa ragione che lo corregge dimostrando falsa
l’affermazione da cui muove e argomenta, ma non potrebbe se non le fossero
presenti i princìpi veri a cui deve uniformarsi. Ciò significa che la verità
non è nel nesso razionale, ma nel principio secondo cui esso è fatto: i nessi
razionali (le argomentazioni) sono veri se il principio è vero, sono solo
formalmente corretti e sostanzialmente errati se muovono da un errore assunto
come verità. Da questo punto di vista la ragione è inferiore
all’intelligenza Le raisonnement n'est
pas la raison; il en est souvent la parodie
(E. Hetto, Du Néant è Dieu, Paris, 1921, p. 154). L'esistenza di Dio 227
che intuisce i princìpi, fondamento su cui la ragione argomenta; ma la verità
dell’argomentazione non è nel puro nesso logico, opera della ragione, ma nel
principio, conosciuto dall’intelligenza, che ne è il fondamento.
L°’intelligenza è illuminata direttamente dalla verità, la ragione mediatamente
attraverso la prima, la quale, nella sua immediatezza, è infallibile.
L'intelligenza non è sofistica, la ragione può esserlo fino al punto di dire
vero al falso e falso al vero, di convincere di menzogna, di sofisticare la
verità: il sofisma è l’alibi della menzogna; buona parte della vita individuale
e sociale è volgare sofisma. La ragione riceve luce dall’intelligenza,
intuitiva della verità e creatrice di verità; giudica di ogni cosa e ci fa
conoscere la verità delle cose, ma solo in quanto l’intelligenza la illumina,
la fa feconda di verità; l’una è la verità fresca, allo stato incandescente,
zampillante come sorgiva, l’altra è la verità riflessa, solidificata. Ma
affinchè sia verità riflessa è necessario che sia riflessione secondo verità ,
che si converta , s'indirizzi alla verità e soltanto ad essa: solo
purificandosi della tendenza sofistica, la ragione si eleva al livello della
sua vera natura, riconquista se stessa in tutta la forza di cui è capace;
affinchè possa dimostrare la verità di una proposizione e conferirle tutta la
sua potenza logica è necessario che essa sia tutta della e per la verità. Solo
a questo livello la ragione conquista e realizza tutta la sua forza normale;
fino a quando è nell’errore, è al di sotto di se stessa e l’uomo al di sotto
dell’uomo. La sua natura di uomo lo sollecita semplicemente a vivere al suo
livello di uomo. Eppure soltanto l’uomo, tra tutti gli enti creati, non vive al
suo livello normale, sempre in squilibrio sul punto del suo equilibrio
integrale; tutti gli altri viventi sì; la bestia è tutta la bestia che è,
difficilmente l’uomo è tutto l’uomo che è. Destino tremendo, drammatico, quello
che alimenta insopprimibile una filosofia dell’integralità. Sembra di facile
attuazione il 228 Filosofia e Metafisica comando sii tutto l’uomo che puoi
essere ; è invece tremendamente difficile: io non so mai in quale condizione
raggiunga il limite della mia umanità totale. Ammesso pure che lo raggiungessi
e ne fossi sicuro, non basterebbe per salvarmi: questo livello posso perderlo
in ogni attimo ed ogni attimo debbo riconquistarlo. Salvarmi non dipende solo
da me; da me dipende mettermi nella condizione di esserlo: qui tutto il senso
di una filosofia cristiana dell’integralità. È evidente, dunque, che quando
parliamo di ragione o dell’uomo senz’altro al livello di tutta la sua forza
normale non intendiamo un’assurda super-ragione o un assurdo superuomo, che è
la negazione dell’uomo o meglio la sublimazione di quello inferiore, ma
semplicemente della ragione che sia tutta la ragione, dello spirito che sia
tutto lo spirito, dell’uomo che sia tutto l’uomo, cioè che attui integralmente
tutto il suo essere secondo l’ordine dell’essere, in modo che sia la pienezza
di se stesso. Ma qui è il punto: non c’è attuale e totale normatività dell'uomo
se ogni sua energia e forma di attività non sia indirizzata a Dio; e non c’è
salvezza se Dio non lo salva. Solo in questo caso la pienezza dell’uomo è
colma. La filosofia cristiana dell’integralità è la filosofia dell’umiltà
assoluta. La disposizione intellettuale di
conversione alla verità è anche
disposizione morale, processo di purificazione di tutto lo spirito, elevazione
al suo livello autentico: è mettersi nella condizione di esser liberi
dall’errore. Per dimostrare secondo verità, è necessario escir fuori dal nostro
egoismo, dalle nostre passioni, sofisticherie e bassezze: solo allora la
ragione dispone di tutta la sua efficacia; non sottomettere il pensiero alla
concupiscenza, le norme del giudizio alle cose da giudicare, in modo da
ascendere al livello dello spirito, fino al punto in cui la sua attività,
convertita al problema, converge tutta nella sua soluzione. Non basta ragionare
secondo la logica, è necessario esistere, pensare, ragionare secondo la verità.
Alla base L'esistenza di Dio 229 dell’autentica ricerca filosofica vi è una
iniziale onestà di pensiero e di volontà, che è frutto di ascesi e
purificazione: non si conosce la verità se non si è già nella condizione
intellettuale e spirituale di essere degni di conoscerla. La sua scoperta è la
scoperta dell’io profondo a cui è interiore, è il premio di chi si è liberato
dell’io superficiale, egoista, frammentario, disperso; premio dell’onestà
fondamentale di una ragione votata alla verità e di una volontà che è buona
volontà di servirla. Tutti possono far versi, ma son pochi i poeti; e non vi è
poeta senza una particolare condizione di spirito, quella che chiamano estro; e
vi è anche un estro filosofico, come ve ne è uno religioso ed uno
anche scientifico. L’ estro della
filosofia è l’amore incondizionato della verità, che è poi, anche quando non se
ne ha coscienza, amore di Dio, che è la Verità; i bei discorsi , di cui parla Socrate, sono il
suo modo di pregare, la maniera con cui la ragione si rivolge alla verità, come
ne testimonia purificata e purificantesi sempre più e meglio nella verità
stessa. Solo allora le argomentazioni manifestano tutta la loro forza normale.
Questa la condizione per acquistare tutta la consapevolezza possibile della
nostra iniziale e finale partecipazione all’Essere. Come abbiamo già detto,
del nulla non c’è discorso nè filosofia:
il nulla è il nulla e non avrebbe alcun senso senza la positività dell’essere.
Ogni ente è l’essere che è; è il richiamo, la sollecitazione dell’Essere che lo
stimola ad essere il pieno attuale ed ascendente del suo essere: l’ente
spirituale emerge perennemente dal suo essere per la spinta che riceve
dall’Essere che lo ha creato e l’attrae. La partecipazione all’Essere gli dà
tanta ricchezza da sentirsi come afflitto, Difficilmente la forza attuale
delle attività dell’uomo è tutta la loro forza normale , la quale, d’altronde, anche allo
stato interamente attuale, non è mai autosufficiente, anche se sufficiente
nell'ordine naturale. Anzi la normatività piena è impossibile senza la
convergenza di tutto lo spirito in Dio, cioè senza la condizione attuale della
transnaturalità. L’autosufficienza, invece, è l’al di là della norma,
l’abrorme, che è la negazione dell’uomo. 2% Filosofia e Metafisica più che
dalla sua povertà, dalla pienezza potenziale che non riesce a rendere tutta
attuale. L'uomo è sempre più di quel che è in un’ora: in ogni oggi ha sempre un
domani. Perciò è speranza e fedeltà e non nostalgia, che è del disperato, di
chi non ha domani significante ed eterno, dei sradicati dall’essere. È
nostalgico chi nel futuro vede il nulla e nel presente il vuoto: misconosce la
partecipazione iniziale e perciò si volge al passato, non perchè lo trovi
significante, ma per un fatale abbandono in ciò che non è. L’uomo è lievitato
dall’essere: farina che si fa pane, sempre nuovo pane: la fame dell’essere è
lievito inesauribile. Ogni ente è dato, ma è esso che si fa, si costruisce
nello spirito, ma solo perchè si costruisce nel e sull’essere; il livello dello
oggi sporge sempre in quello del domani: lievito e lievitazione perenne. È la
tensione della vita spirituale nella sua integralità; nè teme rotture, perchè
la tensione dell’essere all’Essere è il tonico , il ricostituente
dello spirito. È la tensione al finito che spezza l’esistenza; quella
all’infinito, risposta totale alla chiamata, è l’autenticità della creatura,
che salda e tempra il legame d’amore e di verità dell’atto creativo. Da un
punto di vista empirico questa tensione incandescente può far sembrare
allucinata e allucinante la vita; ontologicamente, nella dimensione dell’essere
al livello di tutta la sua forza normale, è luce piena dell’esistenza, che ha
saputo addossarsi fino alla sofferenza (distacco e riconquista) tutta la
pienezza della vita. Pour étre vraiment
homme il faut accepter d’ètre et accepter l’ètre sans aucune réserve (L'’ontologo, il metafisico vero, non parla
dell’essere, vive del e
nell’Essere assumendosi il problema totale del significato del suo essere
integrale, fin nelle sue profonde ed abissali radici. Tale condizione è esigita
assolutamente dalla dimostrazione dell’esistenza di Dio, dell’unum necessarium,
dal pro BaLtHAsar. L'esistenza di Dio 231 blema essenziale della filosofia
essenziale: tutto il dinamismo della vita spirituale è chiamato a convergere
nella soluzione del problema totale della verità totale. Solo allora non
capiterà d’incontrare persone che conoscono benissimo tutte le prove
dell’esistenza di Dio tanto da saperle esporre meglio di coloro che ne sono
convinti, ed essere atei ugualmente; o altre che ne sanno dimostrare
esattamente l’esistenza a degli atei senza convincerli, pur avendo costoro perfettamente
inteso per filo e per segno tutti i processi logici. Che manca? manca la
tensione, la convergenza totale della vita spirituale e di tutte le sueinfinite
ed a volte misteriose energie. Non basta mettere in opera la ragione, a
tavolino, tranquillamente; occorre che io metta in moto, con la ragione, tutto
me stesso, in modo che essa viva di tutta la mia vita, pulsante di tutte le
energie del mio spirito. Si scoprono allora nella ragione una forza
insospettata e risorse che sembrano quasi non appartenerle; e laragione scopre
nello spirito la presenza di qualcosa che prima intravvedeva solo confusamente:
si fa luce e nella luce cerca e dimostra secondo verità, con intelligenza, con
quell’intelletto di amore, che potenzia le sue capacità dimostrative senza
comprometterle. La ragione cerca e trova, cerca scopre dimostra, vivente di
tutto il mio spirito, non l’Ente necessario o la Legge o la Causa, ma il Dio
creante, vivificante, provvidente: lo scopre essa che ama, ed è vita ed è
artefice di verità, perchè dalla verità illuminata. La originaria ed oscura
nozione di Dio si chiarisce ed il presentimento primitivo, che ha sempre
orientato e sollecitato ogni atto spirituale, si svela come verità
razionalmente vera. La dimostrazione è ricca di tutta l’intensità presentativa
della verità: tutto lo spirito dimostra l’esistenza di Dio, perchè tutto
convergente in questa dimostrazione. La prova non è soltanto lavoro di
dialettica e concatenazione astratta di concetti, ma di logica incarnata, piena
di tutte le risorse, adesione integrale dello spirito integrale. Allora ogni
ente 232 Filosofia e Metafisica conosce il senso assoluto della sua
contingenza: la risposta è tutta la sua verità, tutta la sua realtà; orienta
indefettibilmente la vita nel tempo di
un passato che altrimenti non importerebbe più e di un futuro che diversamente
sarebbe inutile all’eternità. La prova
non ha fatto certamente che Dio esista; il suo rigore logico ha confermato
l’essere di Dio, del Trascendente interiore; ed è tale presenza che ha reso possibile
la prova stessa. Il presentimento, prima segreto e confuso, si traduce in
termini discorsivi: la vita dello spirito, nella consapevolezza razionale della
sua significanza, trova pace nella verità operosa e creatrice di nuovi veri,
che sono nuovi beni, al di sopra e al di là delle parvenze sensibili e delle
schematizzazioni astratte, in una pace che è solennità di pensiero maturo e
compiuto, operosità di volontà inesauribile nella realizzazione del bene. Trop
de vérité m’étonne, scrive Pascal. M°étonne non direi, perchè la verità non
stordisce nè fulmina: la verità illumina. Certo che, nello stato naturale
dell’uomo, resta una zona infinita di Luce, che, per troppa luce, non si
penetra. Vedere buio nella Luce: è questa la reale inquietudine dell’uomo, la
sua felice e feconda infelicità sulla terra.
La Grande Luce è per noi la Grande Tenebra: più si riflette sulla sua
essenza e più la Luce inviolabile ed accecante nasconde a noi il suo essere. Di
qui l’irresistibile bisogno del ritorno all’ Essere, di veder nella luce tutta
la Luce. Con Agostino ed il migliore agostinismo e S. Tommaso ne è il più originale
assimilatore noi rivendichiamo una
dimostrazione dell’esistenza di Dio in tutta la sua efficacia concreta, che
solo la vita dello spirito e il suo interiore dinamismo le possono conferire.
Dio non si dimostra ambulando (Aristotele, a mo’ di esempio, insegnava passeggiando ) ed astrattamente sillogizzando
come se bastasse un sillogismo per far decidere del senso di tutta la umanità e
delle cose. La vita spirituale è più ricca della ragione, anche se è vero che
non vi è vita spirituale senza ragione. È necessario che nella prova vi sia la
solidarietà essenziale di L'esistenza di Dio 233 tutti gli elementi attivi e
reali della vita dello spirito (vedute dell’intelletto, disposizioni della
volontà, amore di verità, rigore razionale, indicatività della fede e desiderio
di possederla, insegnamenti della tradizione ecc.) concorrenti allo stesso
scopo: solidarietà essenziale di elementi in una convergenza totale, orientata
e guidata dalla primitiva verità interiore. A questo livello e sulla base di
una razionalità sì piena e pregnante l’esistenza di Dio si presenta come verità
assoluta e la sua non esistenza come affermazione insensata e ipotesi proibita;
a questo livello la ragione dimostra, inconfutabilmente, che vi è l’Essere
creatore trascendente, Bene e Provvidenza, Principio unificatore della vita
spirituale di ogni singolo ente razionale, Verità che dona a noi la verità,
Luce della nostra mente, Valore assoluto, fonte di ogni valore. Tutto converge
in Lui perchè tutto è da e per Lui. La verità in me, immagine della Verità in
sè, presentimento primitivo di Dio e principio motore originario di tutto il
mio movimento spirituale, se non sono assente a me stesso, fa sì che tutta la
mia attività armonizzi in una convergenza radicale assoluta; solo essa ha il
potere di unificare tutti i momenti della mia vita e dirigerli verso la meta
unica. Se, come abbiamo scritto altrove, in me mancasse la presenza operante di
questa intuizione originaria, se essa
non esercitasse il suo potere sintetico ed unificante, la mia vita sarebbe
sparpagliata, dispersa in tante direzioni insufficienti e tutte insieme
inefficaci ad unificarla e a dirigerla verso un punto assoluto e totale. E’ la
condizione dell’ateo, dell’insipiens, che non sa più dove vadano e dove cadano
i brandelli della sua insignificante esistenza. Ed è una condizione ”’irreale”’
perchè frutto di ignoranza e di errori, disconoscimento o falsificazione della
reale condizione dell’uomo... . Perduto l’essere, si spezza l’unità
dell’esistenza, si disperde nel frammento: è la disintegrazione, il
disfacimento; questa la morte, non quella corporea. Un uomo ed una società
senza Dio sono fuori dell’uomo € 234 Filosofia e Metafisica dell’umana
convivenza. In una società che ha ucciso l’uomo perchè ha ucciso Dio, non si
comunica perchè la comunicazione è possibile solo nella verità. Solo tenendo
presente che la nozione di Dio vivifica, penetra, permea, imbeve ‘e mette in moto
l’interezza della vita spirituale, per cui la forma logica dell’argomentazione
aderisce perfettamente alla concretezza dell’integrale realtà umana, si coglie
tutta l'efficienza di cui la prova è capace. Pace della mente nella verità
creatrice di nuovi veri: mente vera; pace della volontà inesauribile nella
realizzazione del bene: volontà operosa. Mente vera e volontà buona: è la
rettitudine dell’uomo. La pura
razionalità non è intelligenza , che include l’altra e
l’oltrepassa; la prima, fatta di nessi e di rapporti, o è astrattismo e
formalismo, o conoscenza dell’empirico: c’è razionalità pura dell’astratto e
delle cose fisiche (la Critica della ragion pura, da questo punto di vista, è
una metodologia delle scienze). Di Dio non c’è pura razionalità, ma intelligenza
penetrante. Nel conquistare la verità della Sua esistenza vi è un recupero
dell’io profondo, del sensus sui, della verginità e schiettezza del nostro
essere, della sua ‘autentica originarietà: è la prossimità del noi sorgivo alla
Sorgente eterna. Il pensiero moderno ha voluto essere razionale
e perciò è scientifico e metodologico; si è privato dell’ intelligenza
di Dio e perciò ha cercato di demolire o fare a meno della metafisica:
ha confuso i due piani diversi dell’empirico e del metafisico. Posizione
formalisticamente razionale , ma non ragionevole. La ragionevolezza è la razionalità fatta penetrante
dall’intelligenza e vivificata dal sentimento: chi è ragionevole non può negare
l’esistenza di Dio. Perciò è necessario avere tanta ragionevolezza da non
‘essere puramente razionali o passionali, tanto calore di sentimento da rendere
umana la ragione e tanta forza di ragione da purificare ed illuminare il
sentimento, in modo che la verità dell’esistenza di Dio manifesti tutta la sua
razionalità L'esistenza di Dio 235 e ragionevolezza, che sono anche quelle
della ragione. Tutto il nostro discorso è un invito ai razionali
e ai passionali affinchè tornino ad essere ragionevoli . A questo punto, dimostrata
razionalmente e con una ragione ricca di
tutto se stessa — l’esistenza di Dio, il discorso della filosofia cessa e
comincia quello della fede. Ma il filosofo deve dire di sì alla sua vocazione
di arrivare , di spingersi fino a questo
punto, se pensa interamente, se è spietatamente critico : non deve fermarsi a
metà. Egli non può sottrarsi alla responsabilità di realizzare
quell’equilibrio, in cui tutta la vita dello spirito è compresente, solidale e
unificata, in cui si attua la rormazività piena, inclusiva di tutte ie norme di
ogni forma di attività e di tutti gli equilibri parziali. Il filosofo non può
sottrarsi, costi quel che costi, ad elevarsi — senza niente disprezzare o
respingere di quanto ha positività al
livello in cui l’essere conquista la sua chiarezza nella partecipazione
consapevole all’Essere, in cui si coglie l’intelligibilità metafisica del senso
dell’esistenza, il suo significato assoluto nell’immortalità e nella speranza
della salvezza. Poi la fede, quella che ha tale forza attrattiva da sollevare
l’anima al punto in cui cade in Dio, suo centro di gravità. Se mi
seppellisco nel mondo, mi faccio cosa tra le cose, mi sottraggo alla legge
della gravitazione degli spiriti, la terra mi ghermisce, mi attrae e terra e
fango mi coprono. Se dal mondo ascendo, non per derlo di vista ma per
riconquistarlo, vedo tutto il creato nella luce dell’Essere che è Verità. Da
questa altezza il mondo non mi attira e lo vedo sospeso a Dio, in cui gravito,
in cui bramo cadere non per annullarmi, ma perchè la sua Luce mi
trasfiguri. A questo punto il discorso si conclude come Agostino il XV ed ultimo libro del De
Trinstate — precatione melius quam disputatione. Di diritto e di fatto il solo
Istituto e il solo sistema dottrinale che riconoscono e garantiscono la libertà
autentica del pensiero e dell’azione sono l’istituto della Chiesa cattolica e
il sistema dottrinale filosofico-teologico del Cattolicesimo. Una tale
affermazione, nei tempi perduti che l’umanità attraversa, a prima vista,
superficialmente e solo in ap- parenza, è scandalosa e sconcertante. Dal
Rinascimento in poi, attraverso i
libertini , gli spiriti forti , i
deisti del Seicento e successivamente i cosiddetti liberi pensatori del giacobinismo settecentesco e del laicismo
dell’800, si è prevenuti a vedere nella Chiesa e nel Cattolicesimo la nega-
zione della libertà e di ogni libertà e ad identificare l’una e l’altro con la
coazione più oppressiva e tirannica. La lotta. tra la Chiesa e le altre
confessioni religiose, le teorie politiche moderne, il liberalismo e il
marxismo è stata interpretata, da storici e scrittori non cattolici, come la
lotta tra l’oscuranti- smo della tirannia chiesastica e clericale e
l’affermarsi della libertà dell’uomo, con una confusione di problemi e piani €
un travisamento di fatti e princìpi che può solo spiegarsi con la graduale e
progressiva ignoranza, caratteristica del mondo moderno e contemporaneo, di
quel che sono la Chiesa e il suo complesso dottrinale. Di fatto è accaduto
sempre al contrario: quando un’au- torità ha misconosciuto i diritti della persona
umana e ogni forma più elementare di libertà, si è trovata di fronte, non
nemica ma intransigente e irriducibile, la Chiesa di Roma senza paure al
cospetto di qualsiasi tirannide, per cui gli 240 Filosofia e Metafisica
oppressi hanno in Lei visto l’unica speranza e cercato l’estremo rifugio. Così
ogni qual volta gli stessi uomini che mettono in moto le forze oscure del
potere e dell’ambizione, sopraffatti dallo stesso ingranaggio da essi scatenato
ed impotenti ad arrestare lo sfacelo di ogni legge ed autorità a cui consegue
anarchia, perdono smarriti il controllo e il prestigio d'’istituti e leggi è
atterrato, chi raccoglie l’eredità e guida ancora tra tanta tenebra di
sanguinosa violenza negatrice di ogni libertà, è la Chiesa. Ai nostri giorni,
in quei Paesi dove tirannia impera e libertà è delitto da punire di morte, è la
Chiesa che ancora resiste, infonde speranze ed offre un’oasi ristoratrice di
libertà al gregge di uomini che terrorizzato applaude alla sua schiavitù. Per
rendersi conto di come soltanto la Chiesa è sempre stata ed è l’unica tutrice
della-libertà umana e la sola immancabile garanzia di essa, non per finalità
diverse dalla difesa della libertà stessa e dunque non per una sua concezione
strumentale, bisogna che vengano tempi duri, anni in cui la libertà è
minacciata o calpestata. Quando tutti s'inchinano alla realtà di fatto, la
Chiesa protesta per quanti tacciono e difende assiste protegge anche gli stessi
oppressori affinchè costoro, riacquistata la libertà per se stessi, possano di
nuovo sentirsi creature spirituali e redimersi dalla colpa di aver negato agli
altri questo naturale e fondamentale diritto. Questo storicamente. Ma quale il
concetto cattolico di libertà, e, più particolarmente, della libertà di
pensiero? Come intenderla dal punto di vista del Cattolicesimo? Problema
imponente, che in una brevissima nota può essere soltanto sfiorato in quelli
che a noi sembrano i suoi aspetti teoretici essenziali. Innanzi tutto, libertà
di pensiero significa libertà del pensiero, cioè non libertà di pensare quello
che piace, che è la negazione radicale della libertà nell’arbitrio irrazionale
e nel non-pensare, ma di pensare in maniera conforme alla natura del pensiero,
cioè in modo che, pensando, il pensiero avverta Il concetto cattolico di
libertà di pensiero 241 che quel che pensa è confacente alla sua essenza e non
una violenza, che è sua schiavitù. Dunque, libertà di pensiero come tale
significa semplicemente libertà del pensiero di pensare l’oggezto che gli è
conveniente e a cui la sua natura lo porta e sollecita. Ma l’oggetto del
pensiero alla sua essenza conforme è la verità; pertanto libertà di pensiero
significa libertà del pensiero di fronte alla verità, pensare nella verità. Chi
pensa nella verità non può non pensare la verità che l'umano pensiero può
conoscere e chi la pensa, pensa conformemente alla natura del pensiero stesso e
dunque in piena libertà di pensiero, conformemente ai princìpi illuminanti la
ragione e garanzia della veridicità di ogni giudizio. Ma la verità è più del pensiero
che la pensa e per cui esso pensa, in quanto non vi è pensiero senza il suo
oggetto. E’ più perchè non è il pensiero a crearla: la verità è prima ed
indipendentemente da esso; e vi sono i veri che la mente può conoscere perchè
c’è la verità, presente in ogni vero € per cui ogni vero è tale. Se la verità è
più del pensiero, gli sovrasta, lo trascende; dunque, il rapporto
verità-pensiero è di ordine gerarchico: il pensiero deve ubbidire alla verità.
Il diritto » alla sua libertà, a pensare
il vero nella verità, lo esercita, afferma e garantisce solo a patto che compia
il « dovere » di ubbidire alla verità, in quanto è libero solo ubbidendole.
Altrimenti si fa schiavo dell’errore, esce dalla verità che è come escire fuori
di strada, perdersi nel buio di sè a se stesso, pensare disformemente dalla sua
natura, che è non pensare, soffrire della privazione della verità e del peso
dell’errore. Dunque il concetto cattolico di libertà di pensiero si può così
formulare: chi pensa conformemente alla verità pensa conformemente alla natura
stessa del pensiero, il quale è libero quando pensa il suo oggetto proprio,
cioè quando si sottopone all’ordine oggettivo e superiore della verità. Libertà
del pensiero è libertà dall’errore: solo chi si fa servo della verità è libero
dall’errore ed in possesso dell’oggetto che appaga la sua natura e,
appagandola, gli dà la gioia della libertà piena. La libertà è processo di
liberazione dall’errore senza che tuttavia s’identifichi con il processo
attraverso cui si conquista. Similmente la libertà della volontà è libertà dal
male, cioè volere conformemente al bene, il quale sovrasta la volontà e la
trascende; dunque la volontà è libera quando è libera di ubbidire al bene, come
il pensiero lo è quando è libero di ubbidire alla verità. Il concetto cattolico
di libertà della volontà significa: obbedienza libera a legge giusta e buona;
disubbidire in questo caso è farsi schiavi del male e perdere la libertà del
volere. Anche per la volontà, dunque, libertà è processo di liberazione dal male,
conquista del bene e conformità dell’azione al bene voluto, che,
cristianamente, significa amato. Ma ecco pronte le obiezioni o i luoghi comuni:
qui s’impone al pensiero una verità bella e fatta e lo si obbliga a seguirla;
non gli si consente che si scelga la sua verità. Hanno un senso razionale
queste parole ? Non bisogna imporre al pensiero nessuna verità? lasciarlo
sospeso a se stesso, nel vuoto? Ma il pensiero non è affatto libero nel vuoto,
anzi tende a liberarsi dal vuoto da cui rifugge. Bisogna dunque dargli un
oggetto; e quello che gli è conforme e lo rende libero è proprio la verità, che
è tal cosa che non è nè antica nè moderna, nè di ieri nè di oggi: è di sempre,
extratemporale o superstorica, quantunque sia madre del tempo e della storia; è
tal cosa che non può non imporsi al pensiero ed obbligarlo a seguirla. Se il
pensiero dice di no, mentisce, e la menzogna, come l’errore, è schiavitù. i Che
significa che il pensiero, se libero, deve scegliere la sua verità? Ha solo un
senso: scegliere la verità invece che l’errore. Ma di fronte alla verità non
c’è scelta, perchè non c'è più alternativa. Sua, sì, se significa che il
pensiero scegliendola, se ne impossessa, la ama, le si sente unito; se la
fatica della conquista gliela fa sembrare tutta per sè; sì ancora nel senso che
in essa si trova a suo agio e vi si adagia, anche se per una veglia perenne.
No, invece, se significa che Il concetto cattolico di libertà di pensiero la
verità è prodotta o creata dal pensiero, a lui relativa e da lui dipendente,
tanto da essere verità per uno e non-verità per un altro. Tal verità non è più
tale, è opinione; ma qui delle opinioni non si fa questione. In breve: o si
dice dimostrandolo che non vi è verità e non c’è più libertà di pensiero, per
il semplice motivo che il pensiero è sempre nella non-verità; o verità c'è e
allora, siccome la verità è tal cosa che è sempre vera e mutare non può, la
libertà del pensiero ha ‘un senso razionale e comprensibile, se è libertà di
essere nella verità, di conoscerla e amarla, di pensare e giudicare secondo
essa. Ma il pensiero moderno non cattolico ha proprio negato l’esistenza di una
verità oggettiva ed immutabile, dei principi stessi della ragione, per una
verità storica e relativa, che è nello stesso dialettizzarsi e divenire del
pensiero, temporanea e quasi puntuale, produzione mutevole della mutevole mente
umana. Perciò, perduto il vero con- cetto di libertà del pensiero, schiavo
dell’errore, accusa di negatore della libertà il Cattolicesimo, il solo che ne
abbia un concetto vero avente tutta la sua forza normale perchè conforme alla
genuina natura del pensiero, la cui libertà si realizza nell’ubbidienza alla
verità, che è tal padrone che riscatta dalla schiavitù dell’errore ed impone
tale di- pendenza che, solo dipendendone, si è perfettamente liberi. Dentro
questa libertà del pensiero nella verità e della volontà nel bene è legittima e
vera ogni altra libertà: po- litica e sociale, privata e pubblica, ma sempre
tale che si attui nel vero e nel bene e in ubbidienza ad essi. Solo il concetto
cattolico della libertà di pensiero è fondamento e garanzia di ogni altra
libertà, della libertà integrale; perciò la Chiesa difende i diritti naturali
della persona umana, che si compendiano in un solo fondamentale diritto:
libertà di essere per la verità che è esser liberi di tutta la libertà e
liberati dalla schiavitù dell’errore. Tale libertà ha un solo limite: la verità
per il pensiero, il bene per la volontà; perchè non ha senso una libertà del
pensiero e della volontà oltre la verità, al di là del bene. Oltre la verità e
il bene c'è il nulla di verità e di bene, che è il nulla di pensiero e di
volontà; e nel nulla non c’è questione nè di libertà nè di schiavitù: c’è il
nulla della persona umana, di ogni suo di- ritto e dovere. Pensare fuori della
verità è non pensare e non essere affatto liberi di pensare; è sbrigliarsi
nell’errore, che è il niente del pensiero; pensare quel che piace è rifiu-
tarsi di pensare quel che è vero, è il non-pensare perchè ciò che piace non è
oggetto del pensiero ma del senso. Se si abbandona il piano della libertà
spirituale o di pensare nella verità si scende a quello della libertà biologica
o vitale, governata dal meccanismo degli istinti e dalla violenza delle
passioni. Allora il soggettivismo incontrollato del « ciò che piace » fa che
l’uomo venga meno alla sua prima libertà so- ciale e morale, quella di
riconoscere e rispettare la libertà dell’altro: è la violenza in tutte le sue
forme, dell’assassinio singolo e di quello collettivo (la guerra), della rivolta
o della tirannide. Per esser libero, l’uomo deve farsi libero di non fare quel
che gli piace, e di fare quel che è giusto perchè conforme all’ordine del bene,
in cui soltanto la sua volontà è libera e all’ordine del vero, in cui soltanto
il suo pensiero è libero. Dunque libertà nella verità e nel bene. Da un punto
di vista teologico questa formula si traduce in quest'altra: libertà
nell’ortodossia. La verità è infinita e si manifesta in aspetti infiniti, che
mai la esauriscono; pen- sare nell’ortodossia è aggiungere qualcosa,
armonizzante col tutto, al sistema dell’inesauribile verità, come una guglia ad
una cattedrale. Perciò noi crediamo che una filosofia, per quanta verità possa
contenere, non è mai tutta la verità e dunque non vi è alcuna filosofia che
possa dirsi tutta la verità cattolica. Tante filosofie perciò, ma non come
tante verità, bensì come tanti veri, parziali e concordanti, della unica
verità, in essa convergenti, come i raggi di un cer- chio convergono tutti al
centro. La Chiesa ha conosciuto nel migliore Medioevo questa magnifica libertà
di pensiero den- Il concetto cattolico di libertà di pensiero 245 tro
l’ortodossia; il pensiero ortodosso non può identificarsi senz'altro con una
filosofia o con una determinata corrente filosofica. Non una philosophia
perennis, perchè perenne c’è solo la verità e la filosofia come ricerca e
scoperta di sempre nuovi veri nella verità, ognuno dei quali è perenne come
particolare vero. Perenne è ogni filosofia le cui verità rive- lano un aspetto
della verità, perchè vive della vita perenne della verità; è ogni pensare
nell’ortodossia, senza esclu- sione, in quanto la verità è soltanto monopolio
di se stessa ed oggetto di ogni pensiero retto e di ogni volontà onesta.
Chiunque abbia scoperto un vero ed accresciuto l’umana conoscenza dell’unica
eterna verità, anche se si dice ateo, contro se stesso, pur essendo schiavo
dell’errore, è libero per quanto pensa e conosce di vero, nella misura in cui
ubbi- disce alla verità, ed è anche cattolico per quel che pensa non
contraddicente l’ortodossia. Il concetto cattolico della libertà di pensiero è
tal cosa che rende liberi anche coloro che fanno di tutto per essere schiavi
dell’errore e del male. Michele Federico Sciacca. Sciacca. Keywords: il
veintennio fascista, metafisica, ontologia. Refs.: Grice e Sciacca” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speraza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Scipione: la ragione
conversazionale del circolo degli Scipioni – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Si trova al centro del più antico portico romano. Console, distrugge
Cartagine, ottenne la censura, dirige un’ambasciata in Oriente, e di nuovo
console, distrugge Numanzia. È un appassionato lettore della
"Ciropedia" di Senofonte e ha tendenza del Portico. Forse, anche per
questo motivo, da alle sue orazioni contenuto morale e vi dipinta la
corruzione. A
statesman, military leader, and scholar. More a patron of philosophers than a
philosopher himself, he is particularly close to Panezio. Cicerone regards him
sufficiently highly to include him as character of some of his philosophical
works. He is much admired for his courage and moral integrity. C UM in Africani
veniftem, M. Manilio z Confuti ad quartam legionem Tribunus, ut fcitis,
militum ; nihil mihi potiusfuit, quam ut $ Mafmiffam convenirem, regem farri il
\x noftrsejuftis decauflis amicìfllmum * Ad quem ut veni, complexus me (enex
collacrymavit : aliquantoque polì (ulpexit in calum, Grate (inquic) tibi
ago, furarne Sol, vobifque, 4 rel qui Caelites; quod, antequam ex bac
vita migro, confpicio in meo regno et histe&is P. Cornelium Sci*
pionem, cujus egO nomine ipfo recreor .* ita numquam ex animo meo
difcedit illius Optimi atque invitìiffìmi viri memoria, Deinde ego illum
de fuo regno, illemd denofìra Repub. percontatus eft : multifque verbis
uttro citroque habitis, i 1 le nobis confumptus eli dies « Poftautem
regio apparatu accepti, fermcnemin multata nodem produximns; cumfenex nìtiil
nifi de Africano loqueretur, omnìaque eius non fafta folnm, fed ttiam
di&a m^miniflet; deinde, ut cubitum difcedi. mus, me et de via fefl'um, et qui
ad multam noflem vi t Seipio . Figliuola di Lucia Emilio Paolo Macedonico,
adottato da Scipittne figliuolo dell* Affici cano il maggiore, che
diflrutfe Cartagine e Numanzla nell'anno 609 Or etto nella difputa di
Repubblica follenea cotitra l' oppln Ione di Filo, che tanto era falfo non
poterli lenza commettere inglnftiiie la Repubblica governare, che anzi
dicea non poterli reggere Lina una » fornirla gluftizia Sant*
Agoftino di clb ragiona nel libro il cap. 21. de Civltate D I, a'
cui tempi quelli libri di Rtpubl. fi leggeano, come pare, ed andavano
attorno. 1 Confuti ...... tribunus militum. Ulata maniera, nort
Confuti. Diccafi fimilmente Ir* gatus confuti non confuti .
I Maftnifj'am . Re d' una patte d' Affrica . Solleone in prima 11 partito
de* Cariaginelì contra i Romani, nell' anno di Roma 541. Ma quattro
anni apprelfo, avendo Scipione niello in rotta l'armata d'Afdrubale,
rimandò fé u za prezzo di rifcatto 11 nipote a MalTìnilfa ; per tale
eciierofo ano sì ptefo e per taf modo fu quello principe, che poi fu
fempre cffezionjiiflimo a' Romani . Con erti congluofe l lue forze,
e nell'anno 55I. di Roma lì trovb alla battaglia, che quelli guadagnarono
contro N SCIPIONE PARLA, / K . E Sfendomi portato in Affrica,
militar tribuno, co» me fapete, alla quarta legione fotte il Confole
Manio Manilio; non ebbi cofa, che piò a cuor mi folle, quanto il
far vifita a Maflìniffa re per giu» Hi titoli aftezionatiflìmo alla
noftra cafa* Al qua! come fui giunto, il vecchio abbracciatomi, versò lacrime :
ed alquanto appreflo levò, gli occhi al cielo, e, Grazie, difTe o fommo
Sole, ti rendo, ed a voi al* tri, celefti Dii, che, prima di pa (Tare di
quella vita, nel mio reame veggio, ed in quelli foggiorni Pubblio
Cornelio Scipione, pel cui nome i He ITo prendo riftoro: s\e per
tal modo dall’animo mio non fi diparte giammai la memoriadi quell’ottimo, ed
invittiffimo uomo Apprelìò io gli feciftudiofe ricerche del reaméluo, ed
egli Culla Repubblica noftra . Accolti pofeia in reai trattamento,
menammo per la lunga irragionar lioftro fino a gran pezza di notte;
conciofoffèchè il vecchio non avelie alla lingua altro che 1* Africano, è
ricordane non folamente tutte le azioni di lui, mà i detti altresì: come
ci fummo fu levati per andare a letto, e per efier dal viaggio fianco, e
perché io vegliato ayea fino a notte molto inoltrata, mi prefe cm Tonno
più ferrato, che nonfolea. In quefto a me (credo veramente da ciò
procedeffe, di che avevacn parlato ; • O o a che Afdrubale, e dì
Si face . Dopo, la pace conci «fa tra.* Romani ed i Carraginifi
ebbe la fovfanirà di diverfe provincle d* Affrica, e vide Tempre
amico de* Romani . Morì di qo. anni, e lafciò 44. figliuoli di di
vetfe conferii . Dicefi che nell’ ultima malartia pregafle Mal Ho
generale dcll'armata Romana, ad Inviargli il giovane Scipione, affine d*
aver la conio lezione di morire nelle Tue braccia, e per dargli gli
op* portunLordioi, che offcrvati vo lea fui rìpaftimento del fuo
regno .\E da quella contezza per, avventura s’accatta I’occalìone
data al fogno . 4 Reìt^ui Calìtes . Accenna la luna e gli
altri pianeti e delle del elei fu premo, annoverate dalla pift parte degl’Antichi
tra gli Dei. Di che Lattanzio ragiona nel de Fal/a Religione
. Platone nel Cratilo deride sì beftiaJe oppimene vigilaflem, ar&ior,
quam folebat ; fomnuscomplexus eft. Hic mihi (credo equidem ex hoc» quod
eiamus Jocuti : 1 fit enim fere, ut cogitationes fermonefque noflri
parfant aliquid in fonino tale, 2 quale de Homero fcribit Ennius, de quo
videlicetj faepifTime vigìJans folebat cogitare et loqyi) Àfricanus fe oftendit
illa forma, qua: mihi 3 ex imagine ejm, 4 quam ex ipfo, erat notior. Quem
ut agnovi, equidem cohorrui. Sed ille, Ades, inquit, animo ; et orni tee
timorem, Scipio ; et, quae dicam, trade memori. V Idefne ilfamurbem, qu* parere
Pop. Roro. eoa da per me, renovat priftina bella, nec poteft quiefeere
(oftendebat aurem Carthaginem 5 de excelfo, et pieno flellarum, illuftri,
et darò quodaro loco) ad quam tu oppugnandam nunc veois piene miles? hanc
hoc 6 biennio Conful evertes : 7 eritque cognomen id tibi per te
partum, quod habes a nobis adhuc heredita x Fit enim fere iti cogitaiiona
<y c . Socrate appretto Platone nel 1 bro 9. de Repub. di quelle
cagio.ù, il fognar generanti, va nobilmente filosofando. a Squali
de Homero fcribit Bnrtiuf . Leggendo Ennio % e meditando 1 verfi d*
Omero e fluitandone con premura Pihritaiiene, fognò <1* effere divenu'O
O nero, e che l’ anima di colui (offe pattata m etto gialla il Pitagorico
domina . A ciò allude Orai. uell’Epift., Ennius et f api Citi, for «*
tis (5 f alter Homerus . ÌJt
Critici dicunt, leviier curare vìdetur. Ut pronti fa cadant, <y fo»
mai* Pytbagorea w v Oc. nel Luculìo cita un etrffU
cMo del luogo, dove Ennio >1 fuò fogno narrava . Fifus Homr.
rus adejfe poeta. j Ex imagine ejus &c. Allude a que* ritratti
degli antenati, che fottenuto a reano curut ma* gittrato,oche tener
fi folcano appetì uell* atrio. Quam ex ipfo . Vuole 11
Sigonio che nell' anno, che trapafsò 1* avolo Scipione Affocano il
Maggiore, venitte a htee il nipote adottivo 1' Affricano il Minore, cioè
nel 571. fotto 1 confoli Apjlo Claudio Pulcro, e Marco Sempronio Tuditano
. Altri però lo fanno nato due anni prima : e* pare che ciò piò
confuoni all'efpref* fumé, che nel prefeme luogo fi adopera .
5 De exctlf» . 1/ Affocano parlava dal cerchio ^ della via
Latea, gremita di piccole ttel* le, come dicono Ariftoti le 1
thè d* ordinario fuccede che ipenfamenti e difcorfi no* Ari
generano un non fo che di Tinnii nel Tonno, come Ennio Tcri ve a lui Tu
d’Omero avvenire, del qual fovente Tolea nel Vero penfar vegliando e parlarne)
in quello, dilli, a me mi fi fe l’ Affocano vedere in quel
iembiante, che più dal ritratto di lui, che da elio medefimo, m’era
noto* Cui come ravviato l’ebbi, fentii del ribrezzo. Ma egli dà qua mente,
prefe a di* re, o S., e caccia via il timore; ed a memoria manda quel,
che dirò* Q Uella città vedi tu, cheper opera mia cofirettaa
predare ubbidienza al popolo romano, le guerre prilline rinnovella,
nè può racchetarli (ed additava Cartagine da un certo alto lungo, e pien di
flelie, illuminato, ed arioTo) a cui oppugnare ora tt| ne vieni
quali faldato? quella tu interinine di due anni con podellà conlolare
diroccherai: e ti avrai quel cognome per tua opera procacciato, che d^noi
fina do* ra pofliedi ereditario. Quando avrai poi fllrtag'n di firutto,
menato trionfo, e Tara illato Cenfore, e legato avrai cerco attorno T Egitto,
la Siria, .T Alia, e la Grecia, Tarai di nuovo eletto Confole Tenza
cohcorre. re, e recherai a fine una poderofiffi ma guerra, rovine*
O 0 ì rat ^ } Eritrite càgnomin &c. Dite 1* Affricano il Maggiore ;
t* acq unterai per tue valorofe Opere II cognome d* Africano,
che firtadora da me avolo tuo 1* hai ereditarlo . Ottervano che
1* A Africano il Maggiore fu il primiero -tra* Romani comandanti,
dopo terminata la seconda guerra Punica, che fregiato forte del ritolo
formato da natiorte foggìogata da lui . Su tal prorofi'o Liv. nel fine
del llb. 3CXX. riflette . Exemplo fèittdg hujus, tìffHaquàm
V'&ori* p*-, tei •> infignes, imaginum tiiulot tlaraque
cognomina f amili* fi* cin le e Toìommeó, la qUale pef coiai
fimiglianza od apparenza, che ha col ìatte, fa da Greci detta a (•
Svariate furono le oppiniont della cagione di cotal comparfa, ma la piA
naturai pare « quel color fifultare dalla moltttudin folta di quelle
piccole «elle .. Biennio tonfai . Ottervà il Slgonio che 1*
Affrica no fu ben confole due anni appretto, ma pattaron tre anni
prima di compier r imprefa, e la città ditteutte In carattere di proconsole,
come egli dimoftra ue* commentar j de' ratti . . tanurn, Cum aurem
Carthaginecn deleveris, triumphum egeris, Ceniorque fueris, et i obieris
legatus Egyptum, Syriam, Afìam, Grgciam, deligere iterum conful x
abfens, bellumque maximum conficies » Numantiam exfcindes: fed, cum eri* curru
Capitolium inve&us, offencles Renripub. perturbatane confiliis $
nepotis mei • 4 Hic tu, Africane, oflendas opcrtebit patri» lumen
animi, ingemì, confiliique tui . Sed ejus temporis aneipitem video quafi
fatorum viam. Nam, cut» aetas tua feptenos otììes 5 t Solis anfratìus,
reditufque converterit ; duoque .hi numeri (quorum utetque plequs,
alter altera de caufla habetur) circuicu naturali fummam tibi fatalem
confeceriot ; in te unum, atque in tuuic nomen, fe tota con verter
civiras : te Senatus, te omnes boni, te focii, te Latini intuebuntur : tu
eris unus, in quo mtatur civitatis falus: ac, ne multa, 6 diélator Rempub.
confti. tuas oportet | fi impias propinquorum manus effugerìs. Hic
cum exclamafTet Laelius ingemuiflentque ceteri vehementius, leniter arridens
Scipio. Qn^fo, io* quit, ne me e fonino excitetis ; 8 pax ; audite ce*
tera. W 1 Oliar is legatus. Scrive Giuntino nel ìib. j8« che
per esplorare gli animi de re, e de comuni fu mandato legato con
Spurio Mummio, e Lucio Metello . Oc. però dice nel I.ucullo che quella
lega, rione feguì prima della esercirata ceuftira, e così pur fente il
Sigouio . Che qui poi prima fi accenni la ce n fura, fi P u h cib
riportare al cumino, do della efpouzione, alla quale tornava piti
in acconcio il mct. terla prima. z Abfens . Giulia la maniera, d-:
Ila qual parla fovente .Livio, quando fi ragioni dell* elezione de*
magiftrad 1* ai» fetts importa 11 non concorrervi ed il non proiettarli
candidato coll'andare in quel mimerò nel campo Marzo • Glb ben ritrae fi
dal conte fio di molti luoghi degl’istorici, ed olcraccib il
comprova la propria forza di abejj*, il qual verbo importa non l'efier
lontano, ma il non efier prefente. ? Nepotis mei . Intende Ti. berlo
Gracco, figliuoi di Cornelia figliuola dell* lAiTrjcano il Maggiore, il
quale, colla legge agraria taflarsu i 5 0. ju« ger! di poflefTo,
voleva abbattere lo fiato già corroborato degli ottimati *11 fatto t coìrti
Itinio nella llorfa Romana, del quale abtiam già fatto pai volte ricordo.
4 Hic tu, Africane, Vuole. s ui rai Numanzia; ma quando in cocchio
farai condito al Campidoglio, troverai la Repubblica fcompigliau
per le màcchine del nipote mio. Qui converrà che tu, o AfFricano,
facci alla patria vedere il la^reddl* animo, ingegno ed accorgimento tuo
. Ma di quel tempo io veggio ambigua effer quafi la traccia de’ fati .
Imperciocché quando la età tua voltato avrà per otto volte fette tortuofi
giri e ritorni del Sole: e queRi due numeri (che amendue per pieni tengonfi
qual per una cagione e qual per altra) come con periodo naturale t*
avranno compiuta renduto la fatai fomnru : tutta la città in te folo
rivolgeralTì, ed a| tuo nome: in te Afferà lo (guardo il fenato, in te
tutti i buoni, in te gli alleati, ed i Latini: tu farai 1’unico, nel quale la
fai vezza della città foflerraffi: e, per non farla più lunga, d’uopo è che tu
dittatore metti in buon ordine la Repubblica, fe ti verrà fatto di
fcanfare 1 empie mani de’ tuoi parenti In quello avendo Lelio levato alto
la voce, e dato aceefi gemiti gli altri, S. per maniera piacevole (or?
ridendo, deh, difTe, non mi rifcotcte dal foono: fiate chieti :
fentite il refìo. qui il Sigonio accennato il facto di Cajo Carbone tribuno
della plebe, quando condii fle fu’roftri Scipione, ed il coftrinfe
a dire, che gli parerle dell* uccisone di Tiberio Graccp, al J [uale egli
con franchezza rifpo-e, eum [iti fare cafum videri. 5 Soli* anfratti* s
Cosi nomina i giri del Sole per la obliquità del' Zodiaco, per cui vigore il
fole or piega a fettentrione ed ora a meriggio . Cosi pur chiamanti le
curve e sinuose vie de* fiumi e de lidi con rutta proprietà latina. 8
Dittator rempub. Significa, che fenza fallo farebbe ft.uo dittator
creato, per acchetare gli fcompigU della Repubblica, te non folle
flato tolto di vita da* parenti con infidie, ed in O 0 4 HL Affetto
fu trovato morto fui fuo letto. Hic cum exclamafjet . Si finge che
nella leena del fogno v Intervenirle Lelio e gli altri perfonagoj
accennati di fopra, che deputavano di Repubblica. Or qui Cic.
l’erba il carattere decoroso di S. . Perciocché mentre alPafcoltarfi de
futuri rifichi di lui gli alcolcnnci dimoftrano conimozion d* ani-mo:
folo l’eroe, a cui appartengono, ferba intrepidezza e cofanza % Pa . Voce
da Latini concici ufata ad accennare filenzio. Terenz, Eavtont. 4. j* Unus eiì
dits, dum argentarti eripio, pax, ni AH amplia s . U fai la
pur Plauto. C*ED; quo fis, Africane, alacrior adtotandamRemò pub. fic
habetoi omnibuJ, qui patriam confervarint, adjuveriot, auxerint, certum effe
incacio ac definitum locum, ubi beati aevo ftmpiterno fruantur. Nihil eft enim
illi principi Deo, qui omnero hunc mundum regie, quod quidem interrii fiat,
acceptius, «pian» concilia caetulque hominum ajure lodati, qu*
civitatesappellantur : harum redloresS confervatores ahinc profefti, huc
revertuntur. Hic ego, etfi eram perterritus non tatti metu mortis, quam
infidiarum a meis, quaefivi tamen, viveretne ìpfejPauIlus pater, salii,
quosnos extinflos arbitraremur . Imo vero, inquit, 11 »ivunt, qui 4
exeorporum vinculis, tamquam e carcere evolaverunt . Veftra vero, qua; dicitur
vita, mori eft. Quin tu afpictas ad te venientem Paullum patrem.
Quem ut vidi, equidem vim lacryroarum profudi. Jlle autem me amplexus,
atque ofculans Aere proh.bebat Atque ego ut primum ftetu repreflo loqui polle
1 cce- t 1 Jure focidti. Si accennano tutte le raguuanie, che
risultano dal conienio ed offervauza di legpl . Dà buon lume all*
efprcllìone un luogo di Macrobio. Servili s quondam, die* egli f et gladiatoria
manus concilia, CcBtufque hominum fuerunt, fed non jure {odati . JUa
autem fola eli jufia multitudo, cujus vnitfrjitas in legum
tonfentit otfequium. E quella definizione conviene con quella»
che Platone ci da della legittima moltitudine ne' J'hfl della
Repubblica, ed Ariflotile nel ljb. II. de* Poikic*. I Bine profetili
Già nel llb. de'Senec Spiegammo la fentenza Platonica Sulla origin di
tira delle anime, ammetta pure da Cic. Qui aggiungo in conferma un patto
tratto dal V. l* b » delle Tufculane . Bumanus ani-f ntus
decerptur ex mente divi- i *4, cum alio nullo, nifi cum \ tpfo Deo
% fi hoc fas e fi diflu, comparar i potefi . Or in quello luogo
Spezialmente attribuisce il ritorno in Cielo a quegli Spiriti, che /landò
in quella vita, dirittamence prefederono alle Repubbliche . 3 Vaullus .
Che fu naturai padre di Scipione Affricano il Minore, il quale
foftiene il Sogno . Quegli chiamoflì Lucio Emilio Paolo, che Soggiogò Perfeo Re
di Macedonia . L* adottivo fu Pubblio Scipione figliuolo dell* Affricano il
Mag* giore : quello Affricano ha dato principio all* iftruzione del,
fogno ; la quale è fiata Inter. rotta da Paolo . 4 Ex cor
forum vitteulis Ella 1 . v M A, oAflfrictno, acciocché
pibcoraggiofofii a fofìcner la Repubblica, Tappi, che a tutti coloro, i
quali confervatohan la patria, aiutata, e vantaggiata, v’ha in
cielo uo fitto e determinato luogo, dove godan beati un eterna vita.
Imperciocché a quelprincipale Dio, che tutto queir univerfo governa, di quello,
che fi opera almen nel mondo, nulla v’ha di pih accettevole, che le
ragunanze ed i ceti degli uomini per leggi aflTociati, che città fi
appellano : i reggitori, e confervatori di quelle quinci partiti, quafsh
fan ritorno. In quello io, febbene mi trovava (paventato, non tanto dal
timor della morte, quanto dall’ infidie, che m’ordirebbono i miei, ricercai tuttavia
Te vi veflfe l’ifteffo mio padre Paolo, ed altri, cui noi cedevamo eflinti •
Che anzi, loggiunfe, e(Ti vivono, i quali da’ corporali legami, come da
carcere, fono via volati La voftra
poi, che vita dicefi, ella è morte. Che anzi volgiti a vedere il padre Paolo,
chea te ne viene. Il qual come veduto ebbi, verfai veramente gran copia
di lacrime, Maegli abbracciatomi, ed imprimendo baci, il piangere mi
vietava. Maio come prima, ripreffo il pianto, cominciai a poter parlare, deh,
dilli, o fintiamo, ed ottimo padre, poiché quello egli é vivere (come
lento dire all’ Affricano) che fio a fare nel mondo? perchè non m*
affretto a venire da voi quaf. sii ? Non va così la faccenda, replicò
egli. Se quel Dio, del quale è tutto quello profpetto, che vedi, non
t'avrà dal corporal carcere liberato, non ti fi può aprire ac ceffo
Ella è dottrina ed efpreltìone Socratica . Nei Fedone di
Platone Sando Socrate per ber la cicuta, tra le altre cofc, cui
viene introdotto a dire full* anlma, prefenti 1 difcepoli; afferma il
corpo efierc una carcere dello fpirlto, che ivi con violenza dimora come
legato, il di lui naturai luogo, e plft puro elTere 11 cielo, e la
morte altro non elTere che un difcloglinienro da quello carcere, ed un
ritorno alla maggion celefte . E coerentemente nd ' Fedone, nel
Ostilo, ed in altri dialogì di Platone il corpo chiamali« 7 a vi»»
cui a animi, e lèCfduvnpiOf career . Che ami alcuni vogliono che ìsutui
corpus tragga Parlino logica origine da Ai? f/os, coltcch<è Ha come
Vinculum animi, ed al corpo li a 0Uìlihp&vn 'luXt! colli»
gatus animus capi, Quasfo, inquam, pater fan&iflìme atque optime,
quando hasc eft vita ( ut Africana m audio dicerc) quid - luoror in
terris? quia huc ad vos venire propero ì Noti eft ita, inquitille.
NifiOc*usis, i cujus hoc templum eft omne, quod confpicis, iftis te
corporis cuftodiis Jif beraverit, huc tibi aditus patere non poteft .
Homines cairn funt hac lege generati, qui tuerentur ilium globunri, quem
2 in hoc tempio medium vides, quae terra dicitur . Hifque animus datus
eft ex illis lempiternis ignibu9, quas 5 fiderà et ftellas vocatis ;
4quae globo» fae et rotundae, divi nis animata^ mentibus, circos fuos
orbefque confìciunt celeritate mirabili. Quare& tibi, Publi.,
et piis omnibus retinendus eft animus in cuftodia corporis: nec injuftu ejus, a
quo ilie eft vobis da tus, ex hominum vita migrandum eft ; ne munus
humanti m aflìgnatum a Deo, defugifte videamini. Sedfic, Scipio, ut avus
h*ic tuus, ut ego, qui ce genui, juftitiam cole et pi età te m ; quas cum fit
magna in parentibus et propinqui, tum in patria maxima eft . Ea vi* ta
via eft in caelum, et in hunc ccetum eorum, qui jam vixerunt, et corpore
iaxati illum incolunt locum, quem vides (erat autem is fplendidiflìmo
candore in» t ter ffommas circuseluceni ) quem vos, ut aGrajisaccepìftis,
$ orbem la&eum nuncupatis. Ex quo omnia mihb contemplanti preclara
cetera et mirabilia vide» bantur. Erant autem eae ftellas, quas numquam
ex hoc loco vidimus; et eae magnitudinesomnium, quas erte numquam
fufpicati fumus . Exquibus erat ili* minima, qua ultima cacio, citima
terris, luce lucebat aliena. Stellarum autem globi terrae magitudinem
facile vin* cebant . Jam ipfa terra ita mihi parva vifà eft, ut me
1 Cu fui hot templum e fi o* mnt, Tutto il ciclo dicefi t*m~
plum con proporzione, cbe I luoghi rilevati, per tenere le Kf
elioni degli auguri, dicean* v tempi a % che viene a. Tigniti* care
laogo, che da ogni parte ha profpetto c veduta . D* onde nato è il verbo
tontem» flavi. Così pure Terenzio chiama 11 cielo tempia nell* atto HI.
dell'Eunuco • v*;: -1 .• Ai quem Dtum, qui lem pia cali fumma
fonitte coifcutit . 1 In toc tempio medium . Cioè la terra, che da
ogni parte dal cielo è circondata, come punto da fmifurara
circonferenza tujvs templi di quello hnmenfo profpetto. ì Sidera.
Propriaménte fono 1 fegni celefti componi di più Itelle, quali fono T
Ariete ceffo quafsà . Imperciocché fono gli uomini con
quella condizion generati, che quel globo guardino, cui col*
locatovedi nel mezzo di quello profpetto, il qual globo r dicefi
terra. Ed a quelli è flato dato lo fpirito da quei fempiterni fuochi, cui voi
codellazioni e delle chiamate ; le quali eflendo globofe e rotonde, e da
divine menti animate, i cerchi e i giri Tuoi compifconocon mirabilecelerità •
Laonde ed a te, o Pubblio, ed a tutte le pie pedone dee lo fpirito rimanere nel
carcere corporale : nèfenza il beneplacito di colui, da! quale vi fu
compartito, non fi deedalla vita, che menan gliuomini, diloggia re;
per non parere di volere sfuggitela umana incombenza da Dio afTegnata, Ma in
quefla condizione, o S., come fatto ha quello tuo avolo, ed io, che
t’ ho generato, la giudizia pratica e la pietà ; la qua. le ficcome
ne genitori efercitata e ne’ parenti è di gran pregio, così verfo la
patria è d’eflìmazione grandinima. Queftotenor di vita firada è pel cielo, ed
in quello ceto di coloro, che viffergià, e dal corpo difciolti, quel luogo
abitan, cui tu vedi (ed era quello un cerchio tra le fiamme lucente d’un
candore rifplendentifTimo) il qual voi, come avete da’Greci apprefo, il
chiamate la via lattea. Dal quale io ogni oggetto contempiando,
nobililTimemi fembravan le altrecofee ma. ravigliofe. Erano poi quelle
flelle, le quali nonabbiam giammai da quedo luogo veduto ; e di effe
tutte tali le grandezze, quali non le ci damo immaginategiammai Infra le qua ! i quella era di minor
grandezza, che nell’ ultimo cielo, e pih vicina alla terra, rifplendeadi
luce accattata . Ma' i globi delle delle la grandezza della terra
vinceano lenza fallo. Orla terra mededma co. tc, l’Andromeda,
11 Leone ec. 4 . J£ud globofd . Crede Ari. dotile che le ftelle fieno di
forma sferica, sì perchè In qualunque lor progre filone noti
ci dinioftran couiparfa d* alcra figura, sì ancora, perchè, fiecome
la luna, che annoverar fi dee tra le ftelle, è di forma sferica, egli è
arresi vorifimilc, che le altre ftelle pure portin P Iftdfa figura . Oltracciò
gli Stoici appretto Cic. nel de
Nat. Deorum furon d* avvita aver le ftelle la forma e figura
ìftetta dell* Uni verfo, perciocché quefta è la pi fi bella, la piA
univerfale, che le altre comprende, ina fen* za 1 difetti . Orbem
laHeum . Della via httea già parlammo di (opra » Per dottrina degl]
antichi filo, fofi quella era deftinato feggio de* beati {pirici
imperii nofì ri, quo quali punftum ejusattingimus, pae* niteret. Quam cum
magis intuerer, quacfo, inquit Africanus, quoufque humi defixa tuamenserit?
Nonne aipicis, quae in tempia veneris? i Novem cibi orbibus, vel potius
globis, connexa lune omnia, quorum unus eft cfleftis extimus, qui
reliquoSvOmnes compie-élitur, 2 lummus ipfeDeus, arcens& continens ceteros;
in quo infixi funt illi, qui volvuntur, ftellarum curfus fempiterni,• cui
fubjeéli funt feptem, qui ver. fantur retro, $ contrario morti, acque
Cglum, ex qui* bus unum globum pofTidetilIa, 4 quam in terris Saturniam
nominane; deinde eft hominum generi prosperus et falutaris i Ile 5 fulgor, qui
dicitur Jovis ; tum rutiJus horribilifque terris, quem Martem dicitisi deinde 6
fubtermediam fere regionem Sol obtinet, dux& princeps, et moderator
luminum reliquorum, mens mundi et 7 temperano, tanta magnitudine, ut
cunéta (uà 1 Movent tìii orbi bus . 1 cerchi Tono nove, comprefa
la terra, la nual non fi muove: l’uno e l’altro è giuda 1’oppìnion degl’antichi
. Sicché sopra I’ottavo cerchio celefte altro non ne poneano, e
quello {limavano che tatti gli altri comprendere e deiTe Ior confiftcma,
come Oc. viene qui dichiarando. 1 Summus ipfe Devi . Quefta.
fuprema ed . ultima sfera regolatrice delle altre chiamai» Dio per
ecce llema, come Cic. ta. lora cotal titolo attribuire ad uomini
fingolarmente valenti in alcun genere . V. G. nel Ut. I. de Orat.
Te fetnper in dicendo putavì Deum . Ad Art. IV. 15. Feci idem, qvod
in Tolitia fu a Detti 'tilt nofler Flato . Altri interpreti poi credo
no ( ed è il plfi verifimile ) che qui Oc. parli fecondo
l'oppìnione non tua . ma di molti Antichi, che I* Onlverfo, 11
Cielo e le Stelle riputavano divinità . Nel de Nat. Deor. esponendo
Clc. la fem tema fu di cib di Platone così feri ve . Idem in Timeo
Jrcit in legiius fy murtdum Deum effe, et célum, et 4Jira, fV
terram, animo t . Nell' iftetfa opplnione fu Senocrate, e Cleame, come
ivi riporta fi poco appretto. j Contrario motu atquè Ca 0 lum . U
atqtte è particola correlativa di contrario, polla li» cambio di quam .
4 jQuam in tetris Saturni dm, La della di Saturno » la piil
alta delie erranti : chiamata é da' Greci QctiVCùV j Uccome
quel così piccola mi fembrò, che (enea mi malcontento del noftro
imperio, nel quale ne tocchiam come un punto di quella. LA quale
io vie maggiormente riguardando, deh, l’ Affricati foggiunfe, e fino a quando
farà la tua mente in terra fida? E non vedi tu in che profpetti fei
venuto? ogni cola ti viene concatenata in nove giri . o piuttofto
globi, de 1 quali l’uno è il celefte nell’ultima efterior parte, che tutti gli
altri contiene, in sé fommo Dio, che tutti gli altri lega e comprende :
nei quale fermati fono que’ (empitemi corfi di delle, che fi vanno
aggirando; al quale fot topofìi fono i fette globi, che indietro fi volgono,
con moto contrario a quello ; che fa il cielo, de* quali un ne poftiede
quella della, che nel mondo chiaman Saturnia; fuccede appretto quel
fulgore profperoe (aiutare all'uman genere, che chiamali Giove; quindi ne
viene il rodeggiante pianeta, fpaventevole al mondo,. cui dicono Marte;
il Sole occupa pofeia la regione, colà intorno a lotto mezzocielo,
guida, e capo, e direttore degli altri luminari, fpirito, e temperamento
dell’univerfo, di sì fmifurata grandezza, che colla luce illumina, ecorapie
ogni cola. Tengono a quedo dietro, comecompagni, l’uno il camino di Venere, e
l’altro di Mercu quella il Mercurio c/ h/?àtv voci latinamente per Aufonio
adoperate . Tempori qua StiU von volvat, qua facula Pia. i
io* . Queita ftclla crederi mandare influenze gelide e torpide : oude fu
rlpurato iL^lancta de* vecchi,* che però ueno tantalici e fartidiori .
Compie il Tuo cerchio iu anni ig. f iorii! 1 6t. ed ore iz. Cic. pel
uo tardo procreilo nel de Nat. Deor. vuole che così chiamili
quod •fdturrtur attui s . li Ricciolio peri» nell* Almegirto dà al dì lei
corfo ip. anni c ipo. giorni • 5 Fulgor, qui dieitur Jo* v'tt .
Quanto alla difporizion rio; grammaticale, o Jovis i genie.
retto da fulgor, ovvero è nomin. giufta 1* ufo, nel qual era nell*
antichi (limo Lazio . Quefta rttlla fu da* Greci detta (pctttitùv da /«- •
cto, ardto . Da Latini fu detto Jupittr Jovis da j uvando, atteri
gi’influflì fuol temperati e falutarl : onde da Cic. chiamali prosperus
(gf f alutaris . 6 Subttrmediam . Vocfe ottima, ma pure dal Calepino
riformato non ricordata punto nè popo . 7 T tmperat io . Perchè il
Sole col calor fuo comcmpera il deio e la terra. ; sua luce iUuIIrer et compleat.
Hunc ut cornice» conte» quuntur alter i Veneris, alter a Mercurii curfus
; in infirooque orbe Luna radiis Solis accenta convertitur infra
autem jam nihil ed > nifi mortale et caducum, praster animos generi
hominum munere Deorum datos» fupra Lunam funt aeterna omnia. Nam ea, quae
media et nona tellus, j neque movetur : infima eli, in eam feruntur
omnia 4 nutu luo podera. Q xjk cum intuererflupens, utmerecepi, Quishic,
inquarti, quis ed, qui complet aures meas tantu$ et tam dulcis fonus < Hic eft, inquic ille,
qui intervallisconjunfìusimparibus, fed tameng prò rata parte
ratione diftin&is, ó impulfu et motu ipforum or» r bium t
Veneris . Quello pianeta fi difttngue per la fua lucidezza, e
biancheria « onde avatua tut* tl gli altri pianeti » ed è si
notabile, che in un ofcuro luogo fpòrge ombra fenfibìle • 11
fuo luogo e tra la terra e Mercurio . Egli accompagna collantemente
11 Sole, e mai non fene dilunge più di 47. gradi. Quando quella
ftcjla va innanzi al Sole, che fi leva 9 dicefi Fosforo, Lucifero o
Ileila mattutina t c quando gli tien dietro, e che tramonta dopo di lui,
chiamali Espero, o Vesper, o stella Vespertlna . 1 Mercurii . Il piò piccolo
de* pianerf inferiori,< ed il piò vicino al Sole. La mezzana
diltanza di mercurio dal Sole per rispetto a quella della ter*
i;a al Sole tiene la proporzione di 387. a I00O. Giulia il
fentimento di Neuton, fondato fulle prefe efperienze per mezzo d’un
termometro, il calore del Sole fulla fuperficle di Mercurio < 7
volte più Intenso, che fulìa fuperficle della terra . La rivolnzion di
Mercurio attorno al Sole, ovvero il fuo anno compie fi in 87.
giorni e 17. ore La rivoluzione diurna
poi, ovvero la lunghezza del fuo giorno non è ancora determinata .
Per iò altre contezze vedi gli A ronoml . ì Neque movetur, Fa
oppininne comun degli Antichi che la terra non fi mo velie, cd
anche univerfal de* moderni, Ma non fono mancati filofoli e
ne* vetulll tempi, e ne' moderni, che ne folteneflero il fuo continuo
moto, e fpezlal* mente al prefcntc . Furon tra* Filofofi ' antichi
Filolao Pittagorico ed Eraclide Pontico ec. ed Ecfanto pur pittagorico,
Clc. ' nel Lucullo riporta I*opplnione di Niceta da'Siracufa con
quelle parole . Nicetas Si racupus, ut aìt T beophrafius % c eel urti,
folem, lunam, f ìellas % fupera dentque omnia (tare ten fet t neque
pr^ter ieh*m, rem ul«•IL SOGNO DI SCIPIONE. 5*1, rio; e nell’infimo
cerchio la Luna da raggi del Solé accefa raggirali: di foteo poi nulla
pili altro v’è, it toon mortale, t cadevole, dalle anime in fuori, pet
grazia degli Dii all’uman genere compartite; foprala Luna le
fòftanze tutte fono immortali. Che quanto aU la terra, eli 5 è in mezzo
ed è la noni, nè muovefi t élla è 1* infima, e verfò di ella viene ogni
pefo per propria inclinazione portato. I Quali oggetti io attonito
rimirando, come in me fui ritornato, che è egli n a*, dirti, quello sì
grati* dee sii foave fuono, che m’empie le orecchie ) Quello, ti
loggiunfe, è quel fuoho, che da intervalli dilpari venendo a un tempo, ma
con avvedimento però diflin ti fecondo la debita proporzione, per impullo
e moto delle orbite illelTe fi forma; il qual fuonoagli acuti tuoni co*
gravi contemperando, proporzionatamente forma fvariati lonori concerti.
Imperciocché movimenti di tanta mole non poflòn ertère chetamente
incitati ; e itìlam in mundo mtverì : qud tum circa axem jumma fe
et licitate -tonvertat, torqueat, tadem effici omnia, qua, fi fi
ante terra, cdlum movéretur, Àtque hoc ttiam Platonem in Timeo
dicere quidam arbitrantur. Sed pattilo obfcwìus. Ma «toppo pift foro i
moderni, iCopernico GALILEI ec. Di quella fi fica controversa, quali che
fieno quinci e quindi i fondamenti il certo fi, che ogni vero ed
ubbidiente cattolico dee contenerli a norma delle ordinazioni dalla
Romana chiefa emanate, ciò* che il moto della terra foftenere
1ppteticamente fi pofiTa, in quanto, fe tale fikppofizion fi faccia
* fi fpicgherebfcutio agevolmente molli fenomeni della natura : ma cl vieta il sostener
ciò, come tefi . Ma por Ì3;0 voglia che alenili non facciali
pafiaggio dalPjpotcfi a difender la tefi 1 4. Nutu fuo . Importa
indinazion, tendenza, ed affézion naturale. E’ di frequente ufo in
Cic. Pro rata parìe fattone, Col Gronóvlo riconofeo quella lezione
non punto sconciata, perciocché ben consuona con tutto il cancello
del sentimento. E viene a dire che quelli difpari intervalli delle sfere,
che ne loro moti rendon fuo110, fono proporzionati a diversi gradi de tuoni,
che formano: né fono quelle diflanze fatte a cafo, ma catione con
avvedimento, come appunto ricerca la natura di quello concerto armonico .
6 ìmpulfu et mota . Ancor Platone ammife quell 1 armonia dello s9 2 biuro
conficitur; qui acuta cum gravibus temperans, variòs^quabiliter concentus
efficit . Nec enim filentio tanti motus incitari poffunt ; et natura fert,
ut excrema ex altera parte graviter, ex altera auteni acute fo. nent.
Quam ob cauflam funimus ille ftelliferi Cfli curfus, cujus converfio ed
concitatior, acuto et excitato movetur fono, graviamo autem hic lunaris arque
indmus Nam terra nona imobilis manens, ima fede femper haeret
complexa medium mundi locum . Il ! ì autem o&ocurfus, inquibus eadem vis ed
deorum i Mercurii, et Veneris, septem efficiunt didintìos ìntervallis
fonos: qui numerus rerum omnium fere nodus ed . Quod 2 dodi homines
nervis imitati acque cantibus, aperuere fibi reditum ad hunc locum; ficut alii,
qui f traedantibus ingeniis in vita humana divina fludìacauerunt. Hocfonitu
oppletae aures hominum obfurduerunt; nec ed ullus hebetior fenfus in
vobisjficut, ubi Ni. delle sfere celelH, colicchè nella Repub.
deputò a tutte le eelefti orbite ciafcuna firena, che fopra dj effe
dandoli giraffe con quelle, acconpugnandone col canto loro la
rivoluzione. Altri poi appreffo Aridotile nel lib. 11. de Carlo
cap. 9 . c di Plin. nell* Iftor. Nat. vollero quello fuono non procedere
dalle celeftl orbite, ma dalle (Ielle medefime in quelle fide, che
nelle orbite fanno loro ri voltinone . Quindi è che i Platonici filofofi
credettero che il uiov imeneo de corpi celefli una vera ed
effettiva armonia formaffe s al qual errore drè luogo la feutenza
de* Pittagoricl, i quali per formare giudizio de* tuoni ad_ altro non
aveati riguardo che alle ragioni delle proporzioni efatte, che
perfette appari van ne numeri, i quali furon 1’ìdolo di Pittagora, fenza
punto attendere al giudìzio dell' orecchiò • Ma quella oppinione ne con»
feguenti tempi, a proporzione che abbracciata era la dottriua
Platonica, fece i Cuoi progredì . Quindi è che Filone Ebreo, i>. Agoftino, S
Ambrogio, S. lddoro, Boezio 9 ed altri molti furono molto impegnati
per quella celcfte armonia, cui attribuivano alle varie proporzionate
impreffioni de* globi celefti, che fan 1 un fopra l'altro t le quali comunicate
per certi giudi intervalli formano cotale armonia . Non ut> far,
dicon* efli, che sì erminar! corpi con tanta rapidità movendoli, cheti
(fieno ed In filentio . Ed all* Incontro 1 ' atmosfera di continuo da que'
corpi fofpinta dee produrre una ferie di fuoni proporzionati alle
itnpulfioni che la riceve : e per confeguente, conciodìachè tutti i globi
ce ledi non facciano la medefrma
m perù il altura 1 ordine delle cofe, che gli eftremi fi
et* dall* una parte rendano grave Tuono, dall’ altra poi il rendano
acuto. Per la qaale cagione i! Tu premo corio del cielo ftellifero, la
cui rivoluzione è più concitata, vien molto con acuto ed elevato (uono, c
con graviffimo quefto lunare ed infimo corfo. Che quanto alla terra, nona
d’ordine', ilandofi immobile, rimanfi Tempre nel feggio infimo, occupando il
luogo di mezzo nell 5 univerfo. Quegli otto corfi poi, infra i quali il
tuono de* due Mercurio e Venere fi èd’un tenore me. defimo, formano
Tette fuoni difpari per intervalli diversi: il qual numero fi è, quali come il
legamedi tutte le cole. Cotal concerto i dotti uomini colle corde da
Tuono avendo imitato, e co 5 canti, fiaperfero il ritorno a quello luogo ;
ficcome altri, che per loro eccellenti ingegni nella umana vita coltivarono
divini ftudj. Diquefio ftrepito ingombrate le umane orecchie fi
fono aflordite ; nè vi è in voi alcun feotimento più ottufo : a quella
guila che, dove il Nilo in quelle parti, cheCatadupe fi appellano, da altiffimi
monti precipita, quella gente, che intorno a quei luogo abita) P p
per ma rivoluzione, né colla medesima velocità, 1 tuoni differenti t che
provengono dalla diversità de moti, dall* Altiffimo Indirizzati, formano tm ammirabile
musicale concerto. Il difeorfo par ragionevole r ma noni effondo
foftenuco dall’efperienza delle nostre orecchie, che pur parrebbe dovcSTero
averne alcun femore, cosi concludo il mio debole fen timento fu di tale
oppfnione. Quell* armonia de* cieli fe ridur SI voglia a muftcal tuono è
una bella e fpeciofa favola degli antichi fi Io Toft, che pretendeano
alle oppinlonl loro dare aria e fembiania di maravlgliofe . Ma quefta
celaste muSica ed armoniofo concerto altro non è veramente che le
proporzioni, cui I dotti moderni astronomi han riprovato nelle mifure e
quantità, che foco portano i movimenti di questi oeleSli corpi ; i Mer
curii (f Ventri s . I quali pianeti accompagnando il Sole, fi
comprendono elfere dell* IfteSfo fuono t ficchè gli otto globi
formano fette diversi fuoni . z DoRi hominet . Ritrovatori 'dell’eptacordo,
cioè dei mnltcale iftrumento di fette corde, annoverati perciò tra»
Semidei. Macrobio e Severino furono in opinione che costoro col numero
ferteunarlo di queftè corde IntendeSTero d* imitare il moto
armonlofo de* fette pianeti . L’Affrlcano però qui intende da costoro
imitato il. fuono delle, otto orbite già divlf.ite. Su di costoro non vo*
tralafciare 1* oppiatone, che n: portò Quintiliano usi Nilusad illa, qu^e | Catadripa nominantur,
prscipitat CI altiflimirThontibus, ea gens» quae illum Iocura agcolie
propter magnitudi bear fonitus> fenfu audiendi caret. Hic vero cantu*
eft totius mundi incitati rti ma, converfioneionitus, ut euoi aures bominum
capere noti portine: ficut intuerì folem nequitis adverfum, ejufque
radiis acies vedrà (enfufque vi nei tur- Hate ego admìfans » referebam
tamen oculos ad te&rain ideutidem. T UM Africanus, Sentio, inquit, te
fedem etiarn dune bominum ac domum contemplali: qusefitibi parva, ut et!,
ita videtur, haeccaeleftia femper (pelato, illa Humana contemnito. Tu enim quam
celebritatem fermonis hominum, aut 2 quam expetendam gloriam confequi
pote$> Vides hab tari iti terra rana et anguftis in !oci$, et in ipfis quali
maculis, ubi ha- bjtatur, vaftas folitudines incerje&as; hofque, qui in-,
colunt terram,»non modo interruptos ita erte, utnihil incer Jpfos
ab aliis ad alios manare portìt ; led par. tim£ obliquos, partim 4
averfos, parcim etiam 5 adverfos flare vobis ; a quibus expeéhre gloriam certe
nullam poteftis. Cernis autem terram eamdem, quali 1 quibufdam
redimitami circumdatam òcingulis, equibus • t nel lib. I. io.
Claror dòmini fapitnt'ue viros rtemo dubita* Vtrit Jìudtofor
tnuficis fuifft tum * Vytb agoras, dtque tum fittiti acce pt am
fitte dubio antiquituf opittionem vulgati* itint f mundum ipfum tjm ra
fiotti ifit rompo jltum, quam Pojlta fit lyra imitata . Quindi cred* io
che procedcfie la cftimation grande J od anzi la venerazione, che
gli antichi Greci Nerbavano per, |a molici! che però I mutici
dic^nfi pare tatts e fapitttttsi e T^fepiilhcle effendi» inesperto
in toccar la cetera, gli folte imputato a difetto d* imperizia.
Catadupa . Le cataratte fono del Nilo dette da Xaf<T«J
ovvric* dt or furti cado, 2 fhfdm txptttttdam gloriam . Cic.
ne* lib? ! della Repubblica fu di, parere, che dovefle chi maneggia
la Repubblica effe re fomentato, ed eccitato alle generofe imprefe colla
gloria, e credc'a che ciò folle alla Repubblica vantaggio^», - rifle
Alone t che altresì de* Romani fece S Agoftino nel Uh. V- c*.- ij. de
Cl. Ir. Dei . Or coerentemente 1 # Atfricano non condanna del
•tU'to 1' appetito della . lori a, ma vuole a quello rlufcire,
che qualunque umana gloria i pef enrro ad auguttl tifimi confini
rirtretta, e non pur non e ter 1 5 p* per U grandezza dello
flrepito, priva è d’udito. fVfa quello Crepito di tutto l’utiiverfo con
rapidiffima rivoluzione è di tenore sì fatto > che le umane orecchie
noi poffon comprendere: ficcome non potete fiflar gii occhi del
Sole 5 quando Ila di rincontro, e da’raggidì lui l’acume voftro e’1 (enti
mento del, vedereè lover. chuto. Quelle cofeie con ammirazione
afcoltando, ri* volge» pure di tanto in tanto gli occhi alla terra.
Vi. . # i A Llora T
AfFricano, ben m’ accorgo, logp^iunfe, che tu anche al prefente il faggio
contempli e l’abitazione degli uomini; la quale fé piccola ti pare, com’è
ineffetto, tieni (empre rivolto l’occhio a quelle celefti magioni, e
quelle non curare, che umane fono • Im* perciocché tu qual mai confeguir
pool ftrepitofa fama dell’uman ragionare, o qual gloria, che da appetir
(la ? Vedi che nel mondo abitazioni fono in rari ed retti luoghi,
ed infra quelli medefimi, come fparfe macchie, dove fi abita valle
folitudini vi fono interpone; e coli oro, che abitan la terea, non pure edere
per tal maniera feparati, che tra elTì nulla dagli uni polla trapelare agli
altri; ma parte rifpetto a voi dare a fgembo, parte alle (palle, e parte ancora
di rinccntroal di fotto ; da quali certamente fperar non potete veruna
gloria. Vedi poi la medefima terra, come coronata di certe zone ed
intorniata, delle quali due fommamente tra 1 or* dittanti* e quinci
equjndt fugli fletti celefli po* P p a li eterna, cria neppur durevole
lungo tempo. Quelli rifletti peri» a chi per la evangelica Fede crede una
eterna immortai vita, in elei prometta a chi dirittamente opera,
debbono eflere podetofi incitamenti a . non curare la umana gloria
dei tutto, ed a prendere àccefi ttimoli per rivolgere ogni aiion noltra a
promuovere la gloria divina I Obliquo * . Qaefti fur detti da*
Greci 9rfpi oi xf f * 4 /ìdterfos . Coloro fono che tfgaafd;in
diverfo polo, e di coivi» * vvoixOt . Quelli fono, :hc abitano nella cont
rapporta na temperata fotto il rontrappcflto paralello, ma nell* Irte
fio' fenutircolo meridiano. 5 Adterfos . Sono gli antipodi, così
de^ti per li piedi o veftigj, che fi rifpondono di rincontro . t)i
qoett! termini vedine fplegazioite pift ampia appretto gl/ A Urologi
'ed I Geografi. 6 Cittguljs . Divifa le di,* ode zòne, delle qual! le
portreme frigidi ttìme fono, la aie# dia caldi Éfi ma . % > bus duos
maxime intet fe diverfos, et iceji «ertici* bus ipfis ex utraque parte
fubnixos obnguiffe pruina vides: medium autem lllum et maximum folis
ara?'"® torreri. a Duo funt habitabiles, quorum a udrai is «Ile
tin quo qui infiftunt, 3 adveria vobis urgent veft.gia) 4 nihil ad
veftrum genus . Hic autem alter (ubieflus Aquiloni, quecn incolitis,
cerne, 5 quam tenui vosparte contingat • Oronis enim terra, quac coli tur a vo*
bis, 6 anguQa verticibus, 7 laterìbus latior, 8 parva quaedam
infoia eft; circumfufa ilio mari, quod Atlanticum, quod Magnum, quod Oceanum
appellatis m terris: quitamen tanto nomine, quam fit parvus, vi»
des. Ex his ipfis cultis notifque terris, nutnaut tuum, aut
cojufquam noftrum nomen, vel Caucafum nunc, quem cernì*, trascendere
pctuit, vel illum Gangem tranfnare? Qui* in reliquis orienti*, aut
abeuntis folis ultimi*, aut. Aquilonis* Aufirive partibus tuum nomen
audiet^ Quibus amputatis, cet ni s profeto, quanti* in .anguftiis
veflragloria fedilatari velie • IpOautem, qui de nobis loquuntur, quamdiu
loquentur ? * Y va ; . ', Q Uinctiam fi cupiat prole* illa futurorum
hominum deincep^ laudes uniufcujSque noftrum apatribus acceptas
pofteris prodere, tamen prepter eluviones exuftitionefque terrarum, qua*
accidere tempore certo necefle eft, non modo aeternam, fod ne diu turnam
quidem gloriano affequi poffumus. Quid autem in ter t
% Cai* Virtìcibur. Ai p»U . 1 Duo furtt Jbabit abile s . Vie*
tic efponendo le due zone temperate intermedie quinci e
quindi da' lati t auftrale l* una boreale 1’altra* $ Adverfa
vobis . Perciocché dimorano dall* altra parte dell*’eccliptica folare .
Niktl' ad vefitum genus . Perciocché «è voi a loro nè efli a voi
trapalano . JQuàm tenui vos parte, Vedi quanto fi a piccolo fpaxio
quello ) dove fi aggirano le Volbe glorie . Angui a vertieibus * ' In
brevi parole accenna la latitudine della terra fottopofta a’
Romani, la quale coi. fitte nella dittatila d * un luogo dall*
Equatore ed un arco del meridiano, comprefo tra *1 Zenit h del
luogo, e l'Equatore. (Quindi la latitudine dlctfi efiere fettcRtrionaie 0
meridionale, fecondo che li luogo del qual fi parla è
fett^ntrionale, 0 meridionale . Or 4a parola wrticibus fignifica i poli
Artica Afr .; fp 7 ii
pofàndo, vediefTere per la brina irrigidite ♦ equeila di mezzo» e la più
ampia edere dal folare ardore avvampata* D.ie le abitabili fono, delle quali
l’audrale ( dove chi dà (opra imprimon veftigj di rincontro a noi )
alla vodra fpecie non appartiene . Di queO” altra poi all* Aquilon
foggetta, cui abitate, guarda come tenue parte a voi ne tocchi * Imperciocché
tutta quella parte di terra, che da voi fi abita, da vertici rifìretta,
più diflefa da fianchi, è come una piccola ifola; bagnata intorno da quel mare,
che in terra chiamate Atlantico, Magno, ed Oceano: il qual però
comecché di si gran nome, pur vedi quanto picco! fia. Da quelle idede
coltivate e note regioni o*l nome tuo, ovvero il nome d* alcun de’ nodri
potette egli forfè o queft’Oceano valicare, cui tu vedi, o
traghetfarequel Gange? Chi mai i]\nome tuo afctìlrerà o nelle altre
parti del nafcente fole, o nefl’eftreme del medefimo tramontate,
ovvero nelle parti dell’Aquilone, edell’Aulirò? Le quali regioni edendo
feparate, certamente fcor* gi in che augufli fpazi la vodra gloria alpi
ri ad ed'er didefa. Quelli poi, che di noi ragionano, finoaquan* do
il faranno? G HE anzi fe quella gènéraxìone di futuri uomini bràa
mera fuceeflìvamente di trafmetterea’poderi legione di ciafcun di noi da*
padri loro fentite, tuttavia ber le inondazioni, e divampamenti de'paefi,
i quali Fora* è che in determinati tempo fuccedano, nonpoflìamò acquiflar
gloria, non che fempiterna, ma neppuf lungamente durevole. Or che mónta
che da colorò, i quali nafceran dappoi, fu di tefìterran difcorfimen Pp -
j tre fe Aritattlco t che fono 4 ter, mini, per cui rapporto
fi mi. fura r eftenfione della latitudine
' Ì Ut tribù s f Attor. Viene efpretta la longitudine dell*
Imperio Romano, cioè 1’eftenfione, che area da Ponerite a Levante fecondo la
direzione dell' Èquatore . E quindi fi viete a concludere che maggior
nc forte ia longitudine che la la tir udinè •8 Par va
quaJatn ihfulA efb &c- Dal Cielo additando l'im* perfo Romano
lo dlmoftra come una piccola ifola conirtefa e bagnata dall’Oceano.
Ma quella è una mani fetta efagerazld<* ne per efprimerne la
piccolezza, chfe dal cielo all* Affrica* no appariva . Aulì, a dir vero,
non fi potea ncppor chiamar ifola . r tereft ab iis, qui poftea
nafcentur, fermonem fore de te, cum ab iis nuilus fuerit, qui ante nati
fint ; qui nec pauciores, et trerte 1 meliores fueruntviri? cam
pradertim apud eos ipfos, a quibus a udiri nemen no. flrum poteft,
nemo uniusanni memoriam confequi pof. fit . Homines eoiro populariter
annum tantummedo SoJis, ideft unius aftri rHitu metiuntur ; cum autem ad
idem, unde femel profeta funt, cun£te aftra redierint, eamdemque
tetius cadi deferiptionem longis interva!Jis retuleriot, tum ille 2 verevertens
annusappellari poteft; in quo vix dicere audeo, quam multa incula,
bominum teneantur- Nacnque, $ ut olimdeficereSoi •bominibus
extinguique vìfus eft, cumRomuIi animus baec ipfa in tempia penetravi;
ita quardoque eadem parte So^, eedemque tempore iterum defecerit, tum
fibus ad idem principium ftellifquerevocatis, ex«1 Meliores fuerunt, I coftumi
degli’antichi, la fede, gli andamenti ec. univerfalmente dagli
fcrittori commendane : quello è vezzo comune anche a eh! è vecchio,
deferitto da Orazio con quelle parole. Laudai or tempori s afri . Onde
quello giudizio non Tempre al ver corrifponde . 1 Vere verterti
annus . Quelle maniere verterti annus, verterti menfis fono pagamente
prefe per un anno, .per un mele trafeorfo . Altri parcirlp j
n'arreco di voce attiva in forza partiva alla nota 7. nella vita d*
Agelìlao apprettò Nipote. Qui però mi 'pare pift coturnoda V
interpretazione in forza attiva, actefe tutte le parole ed il
contefto. Or qui li parla •* dell' anno grande, che\ ebte più e
dlvcrfi titoli . Fu chiamato, or ma gnu s, or fidereus, quando mundanus,
tal Hata Platonìcus, e comprende tutta l’efteulion di tempo, ovvero
il perìodo di tanti anni, quanti li richiedono perchè i
corpi celefti torniti tutti a Quella poli» zion primiera, nella quale
furono al principio del mondo. Cic. acconciamente il divlfa nel lib, 11.
cap. de Nat. Deo-. rum . Maxime vero funt ad*n ir abile s mot us earum
quinqete jtellarum, qua falfo vocantttr errante s $ nihil enìm trat,
quod in omni eetemitate conferva progreffus, regrejjus t
reliquofque motus confante s (jf ratos .... jQuatum ex dijpnribus Motiombur
magnurn anriunì mai he mutici nominaterunt, qui tum efficitur, tum folis
fy lume, et quinque errarti ium ad earrtdem itJer fé zompar ationem.y
tonfi fòt) 0 ntniuru fpatiis, ejl fatta convergo. Pare che qui nel coffo
di que(|' anno inetta in confide razione i Ioli pianeti . Ma gli
alt» i fcrìttoti, e Cic. ifteflb nel prefen.t fogno palla .di tu^tc le
ftellc u*b ver Talmente -\ Quale poi lia il numero precifo degli
auul ella è controverfìa non 1 V * i $.
* . m tre nonfen’è fatto pur parola da quelli, che negli ante•
riori tempi vennero a luce; i qua!» nè furono in mirtor numero, e
certamente uomini furono più valenti? maffime che apprerto quegli flerti, da’
quali fi può il nome noftro afcoltare; niiino ne può la ricordanza
ottenere d'un fole anno. Imperciocché g li uomini giulia J’eftimazion popolare
dal rirorno (oltanfo del Sóle mifuran l’anno, cioè d’una fola (Iella :
quando poi faran tutte le (Ielle al punto medefimo ritornate, onde una
volta fi modero ; ed avranno ne* lunghi loro intervalli riportato il
drvifamento medefimo di tutto il Cielo, allora quello fi può veramente
appellare anno, che opera rivolozione: nel quale appena d’efprimer ro* attento
quan. ti fecoli umani fieno comprefi. Imperciocché, ficcome una
volta agli uomini parve che il Sole foftenedè ec. elidi, e fi
ammorzarti;, quando l’anima di Romolo penetrò in quelli (ledi profpetti ;
coslallor quando il Sole nella parte medefima, e nel tempo irteffo da capo
avrà (ottenuto ecclirtì, allora ertendo tutti i celetti corpi, etutte le
(Ielle al lor principio medefimo richiama, re, terrai l’anno erter
compiuto . E Tappi chedftjueft* anno non n’ è per anche la‘- vigefima
parte trafeoria % Che però (e difpenerai di far ritorno in quello luogo,
; ... y a r P p 4 nel non per anche decffa . Clc. Iftetfo
parlando di quella rivo» In z. ione foggi agile appreflb .. Quaquam
longa fit, 'magna quelito ejl, ejfe Viro cirtam defintiam necejfe
eji . Si cita perb un frammento dell* Opera intitolata l'Orccnfm,
dove chiaramente efprime il fuo Tenti, mento. 1s eft magnai et Virus
annus, quod i aderti pofìtìo cali fiderumque cum maxima ifi, rurfum
exijigt j ifque annui horutn, quoi tocamui, annorum Xll. . compie Bit ur 9 cioè
dodici mila novecento quatir' anni . In. cib fono fvariatiifime le
eppinioni degli altri-, che ci danno argomento ad affermar con certeira
non effor ancora 1’agronomia pervenata a tanto, eh» pocefle fame
probabile decifìo. ne. Sicché quel, che fi foggiti, gne pift
innanzi in quello cipo, hu)us anni nondum vieejimatn partem itfi cot/Virj'am,
fb. vuol prendere per piccolo, c fcarfo tempo, non per determinata
mifura trafeorfa . Ovvero fe Clc. ha pretefo di far dire * all*
Affricano il preclfo fpazio del trapalato tempo, non fi vuole
attendere in cofa cotanto incerta. j Ut olim. Ferma il principiò
dell* anno grande dalla morte di Romolo, cu! dicono che moriffe
nelPecliffe del fole . Per altro da ogni punto di tempo fi pub
dare cominciamento al computo di quello anno Platonico. Qxpietum
aonum habeco. Hujus quidem anni nóndulft vicefimam partem fcitoeffe converfam.
Quocirca fireditum iit hunc locum deiperaveris, in quo omnia fune magnis
et praeflantibus viris ; quanti tandem eft ifta hominuui gloria, quae pertinere
vix ad unius anni partemexiguam poteft ? Igitur alte (pelare fi voles,. a tque
hanc fedem et aeternam domum contueri, neque te fermonibus vulgi „
dederis, nec in praemiis humanis fpem pofueris rerum tuarum ; fuis te
oportet iilece brìs ipfa virtus trahat àd verum decus, Qui detealiì
loquantur, ipfi videant, fed loquentur tamen. Serma autem omnis ilie, et augufliis
cingitur iis regionum, quas vides, nec umquam de ullo perennis fuit ; et obruitur
hominum inceritu, et oblivione pofteritatis extinguitur. Q UiE
cumdixiflet, Ego vero, inquam, oAfricatie* fiquidem bene mentis de
patria, i quali limes ad cali aditum patet, quamquam a pueritia vedi*
giis ingreflus patriis et tuis, decori vefìro non defui; nunc
tamen, tanto praemiopropolìto, enitar multo vigilantius. Ét ille : Tu vero
enitere, fitfic habeto, non esse te mortalem, fed corpus hoc: 2 necenim
i9 es, quem forma irta declarat ; fed mens cujufque, is eft
quifque,* non ea figura, qua? digito demonOrari po* teli. 1 Deum te igitur
fcitoeffe; fìquidem 4 Deused, qui viget, qui fentit, qui meminit, qui
provider, qui tam regie et moderatur et movet id corpus, cui P**1
lima. Sono propr lanterne le
ftrade, che fervono di’ cfivifionc alle campagne, e per confeguente
fono od hanno anche T. varchi per enrrare né * campì . Quindi fi accatta
la metafora, e fi trafpórca al cielo. a Nec e» im is es, quem &C.
Qucfii rifleffì e dottrine con aU tre, che fieguono, fono
Platoniche. Socrate appretfb del divi» filofofo dìmoftra al fuo Alcibiade
che I* uomo noli £ il foto corpo, ne il corpo colla mente,
ma ta fola mente . E nell* Affoco cosi ferivi Hgeif uiV yip tVjuiv
* «d tf VOtOZfV y tv •Sl'l/ <7» xat$HpyfjisvGÌr Qpoupta Imperciocché
noi pani lene V 44 stinta, immortale animale, rat • eh tufo in
mortai cufiodia . SIniigliantc fu 'il fenthnento d* Arnobio e di
Lattanti©. ^ ' 3 Deum te igitur jtito
effe . Gli Stoici definivano 1* nomo animai rationale mortale, e
Diù t 6o i hel quale per li grandi ed
eccellenti uomini v'è ogn * bene ; alla fin fine corefta gloria degli
uomini a che valore monca, la quale appena comprender fi può in una
parte piccola d' un folo anno? Se vorrai pertanto fi (Tare l'occhio
dell’intelletto in alto, e quefto feggio rimirare, e quella eterna magione, non
ti farai fervente a’ parlari del volgo, nè Tulle ricoropenle umane la
fperanza riporrai delle imprefe tbe; conviene, che la virtù medefima cogli
allettativi fuoi ai decoro vero ti tragga . A quello, che gli altri fieno
per parlare di te, ci penfino erti, ma pur parleranno . Ma ogni lor
difcoirere e vien compralo tra le anguftie delle regioni, cui vedi, nè fu
d’alcun foggetto fu perenne giammai; e riman fepolto dal morire degli uomini, e
nellaoblivione della pofterità vien meno . « o - t è »*’ 1 a* . Y* ~ l * i 1 »
VHI. • % r ', * ! * • L E quali contezze avendomi efpofto, or io, fog.
giunfi, o Africano, giacché a’ foggetti) bene mefiti della patria è come
quafi aperto il varco all' ingreflo del cielo, febbene fin dalla puerizia
mefTomi ìu i paterni vefiigj e fu de’ tuoi, non ho al decoro voftro
mancato j pur nondimeno al prefence, portomi avanti cotanto premio, con
troppo maggior vigilanza farò miei sforzi . Ed ei replicò : Metti pur
tuoi sforzi ; e pervaditi, cbfc tu non fei mortale, ma quello corpo
fibbene * che non fei dello, cui la fembianza tua dimoftra; ma Io fpirito
di cialcuno è quello, che fi è ciafcuno ; non è tal la figura f che
accennar fi polla col dito * Sappi adunque che tu lei Dio: poiché Dio è
chi ha vivacità, fentimento, memoria, provvidenza, e che tanto regge, e modera,
e muove quello corpo, cui è a governar deputato, quanto quel
principale Dio queil’universo; e ficcome l'iddio eterno Dio animai
rationalt immortaìe . Sicché giuda la loro dot* trina 1* uomo per quella
pondo ne di fc, ond’è immortale, non farà da Dio differente k
4 Ùeus e fi qui Iftitulfce la parità tra Dio e l’uomo e la ragione,
onde provati l’immortalità deirefTema divina, l’eftende a provare rìnynortalità
dell'anima, eziandio anteriore. prstpofitus ed, quam hunc tnuodum princeps ille
Deus: et ut mundum exquadam parte mortalem ipfe Deus asterifus, fic
fragile corpus animus fempirernus nrovet. Nam i quod femper movetur,
«ternani eft: quod autem motum affert alicui, quodque ipfum a. gitatur aliunde,
quando finem habet motus, vìvendi *|faemUiabe*t neceflè est. Solum igitur
quod iefe mo* •vèt, quia 1 numquam deferitur a fé, numquam ne
moverì quidem definii : quin etiam ceteris, qu« moventur, hic fons, hoc
principium eft movendi. Principio autem nulla eft origo: nam ex principio
oriuntur omnia; ipfum autem nulla ex re: nec enim id efl’et principium,
quod gigneretur aliunde . Quod fi numquam oritur, uè occidit quidem umquam Nam
principium extinàum, nec ipfum ab alio renafcefur, nec ex se aliud.creabit:
a fiquidem neceffe eft a princi* pio oriri omnia. Ita fit, ut motus
principium ex eo fit, quod ipfam a fe^ roovetnr ; ìd autem nec calci
poteft nec mori: v *el concidat omne caelum, omnifque natura confiftat
necefl'e eft ; nec vira ullam nancifcatur, qua prime impulfu moveatur.
CUM pateat igitur, aeternum id esse, quod a fe ipfo moveatur; quiseft,
qui hanc naturai» ariimis effe tributam neget ? Inanimum eft enim omne,
quod pulfu agitatur externo. Quod autem animai est, id mota cietur interiore et fuo.
Nam haec eft natura propria animi atque vis*; quae fi eft una ex omnibus,
quae fefe moveant, oeque nata eft certe, et atterri eft. Hanc tu exerce
in' optimis rebu 9 . Sunt autem hae opti ma? cura? de falute patriae,
quibus agitatus et exercitatus animus, i velocius in nano fedem et domum
fuam pervolabit . Iraque ocyus faciet, fi iam tu, cum erit inclufus in
corpore, croincbit foras; et ea, - i jQuotì femper movetur tye. Quefto argomento lo efpóne quafi colle
iftefle parole nelle Tumulane 1. 2 $. Latta mio. v ancora .lo
tratta con principi ancor più forti 2 Yel tonciÀAt omne tàtìum
&c. $ no Dio T univerlo muove per alcuna parte cadevole, così l’immortale
spirito muove il fragile corpo. lm* perciocché eterno è quello, che
Tempre muovei: quello poi, che communica moto ad altra cofa, e che
pure impulfion foftiene da altra cagione, quando il moto ha fine,
egli è di neceffieà, che al fin pervenga del viver Tuo . Quel foio adunque, che
le Hello muove, perciocché non è mai da sé abbandonato, nep* pur
cella giammai di muoverli ; che anzi alle, altre cole àncora, che
muovonfi, egli è origine, egli -è principio di moto. Ma il principio non
riconofce ortgine i che dal principio tutte le cole traggono lor
nalcirrienio;.e(To poi da ninna il trae; imperciocché non farebbe
principi® quello, che generato folle d’ai* tronde. Che fe giammai non
nalce, neppur muore giammai. Concioflìachè il principio edendo venuto
meno, nè eflo da un altro rinalcerebbe, nè di sé potrà creare un’ altro
;* poiché egli è forza che tutto nafea da un principio . Per tale maniera
n’avviene, che il princìpio del moto da quello fi a, che da le
lleflb fi muove; or quello nè nafeer può nè morire: ovvero di
necelfìtà è che rovini giù tutto il cielo, e l’universa natura fi
arrefti; nè trovi alcun vigore, onde colla impulfion primiera fi muova. E
Sfendo pertanto manifeflo quel lo effere eterno 9 che da le ftelfo fi
muove, chi negar potrà che quella naturai proprietà fia fiata alle anime
conceda» ta ? I mperciocchè- inanimato è tutto ciò, che foftien
moto da impullo eflerno . Quello poi, che è anima Te, viene per interiore
e proprio moto rifeoffo. Im-, perciocché quella è la natura propria e la
virtù dell* anima ; che fe P una é infra tutte quelle nature, che
fe ftcflfe muovono, non ha certamente avuto prin-ci&c. Il fentimento e le
parole 1’anima più facilmente da fe altresj, fono di Platone nel -
fcocerà il mortale e torpido Tedro. ' ' pefo del còrpo, e pift fpedita-;
V elotius fife. Con quello niente voleranne alla celeitc ma cfcrdifo e moto d'
ojcraiìonl gione. } éo ea, quae extra erunt, contemplans, quam maxime (e a Corpore
abftrahet . Nam eorum animi, qui (e corporis voluptatibus dediderunt, earumque
(e quafi mi* ni (Ir os praebuerunt, impuifuque libidinum voluptati*
bus obedientiurti * Deorum et hominum jsra violavo* runt,
corporibus elapfi i circum terram ipfam volo, tantur, noe in hunc locum,
nifi multis exagitati (aeculis, revercuntur « Iile diiceffìt : ego (ornilo
folutus fum. i Circum terrdm ipfdm . Quella 6 oppiatone dì Socrate, da Platon f
ragionata nel Fedone dove dice che le anime de* malvagi rimaugonfi In
terra condannate a divagare intorno a* fepolcri, dave pagan le pe«
ne della vita malvagiamente menata . £d alla fatta oppi* ninne dà
pure alcuna compatta di fondamento 1’apparire ta« lora in si fatti
luoghi fpcttrf cd ombre 60$ cipio dì nafci mento, ed eterna è.
Quella tu eiercita in ottime operazioni . Ed ottime lono le premure
fall* falvezza della patria, {ielle quali Panima meda in moto ed
efercìrata, piò velocemente a quello leggio e magion (ua ne volerà E ciò pib
fpeditamente farà, Te già fin d* allora, quando farà nel corpo raccbiufa,
fi loileverà fuori di sè, e contemplando quegli oggetti, che eftranei faranno,
fi difiorrà, quanto può mai, dal corpo. Imperciocché le anime di colo,
ro, che fi fono a corporali piaceri dati, e fi rendettev ro quafi
minidri di quelli, e che, per impulfo delle didemperate padroni a*
piaceri fatti obbedienti, le leggi ruppero e degli Dii e degli uomini, da'
corpi ufci te fi vanno intorno alia terra medefima ravvolgendo, nè
io queflo luogo, fe non dopo d’edere (late tribo late molti fecoli, fan
ritorno. Egli dipartirti; edio mi difcoHi dai fonno. INTERLOCUTORI P. C.
SCIPIONE TENORE LUCEJO, principe de' Celtiberi SOPRANO C. LELIO, duce romano
.TENORE ERNANDO, re delle isole Baleari .. BASSO BERENICE, prigioniera .
SOPRANO ARMIRA, prigioniera SOPRANO La scena è in Cartagine
nova.All'eccellenza..Scipione All'eccellenza..di Carlo Lenos duca di Richmond e
Lenos, conte di March e Darnly, barone di Setterington e Methuen, e cavaliere
del nobilissimo Ordine del bagno. My lord, nulla meno dell'eroico deve dare
pubblico divertimento alla britanna nobiltà per interamente compiacerla. Gli
antichi Romani sono il modello di questa in armi e in lettere floridissima
nazione: e non può trovarsi soggetto più nobile delle loro gran geste, per un
teatro ove la medesima vegga rappresentati i personaggi a' quali i suoi più
gloriosi figli somigliano. P. C. Scipione che fu poi nomato l'africano,
vittorioso, amante, e vincitor di sé stesso, comparisce al pubblico, e mi
dà una
giusta occasione di
attestar pubblicamente l'interno mio sentimento di
stima e devozione verso l'e. v. con dedicarglielo. Io sin da che v. e. tornò
da' suoi viaggi, la stimai, l'ammirai, ed ottenutone l'accesso ed il
patrocinio, la ritrovai adorna delle più belle doti e naturali e acquistate:
prestanza di persona, vivezza d'Ingegno, nobiltà di costumi, grandezza di
maniere, affabilità di conversazione, conoscimento di lettere, buon gusto nelle
belle arti ammirai nell'e. v. e godei vederla felice presso a nobile gentile e
bella consorte. Negli affetti di padre e di marito dio prosperi il corso de'
suoi floridi anni, al quale se non
mancheranno occasioni, non potranno mancar fatti che lo rendano ancor più
simile a quegli eroi, che d'uno de' più Illustri de'quali, io presento la più
ragguardevole azione all'e. v. in questo mio novo dramma. Ed ossequiosamente mi
rassegno di v. e. umilissimo servitore ROLLI. P. Rolli Händel, Argomento
Argomento. Publio Cornelio Scipione proconsole nelle Spagne prese per assalto
Cartagine nova signoreggiata dalli
Cartaginesi: s'innamorò d'una bellissima
prigioniera, ma trovandola già
promessa a Lucejo principe de' Celtiberi, gliela rese generosamente con tutti i
doni portati dal di lei padre per suo riscatto. N.B. Il solo primo motivo ed
alcuni pochi versi di questo dramma sono stati tolti da un vecchio dramma del
medesimo titolo. Il celebre signor Federico Handel ne compose la musica, al
sommo espressiva ed armoniosa: ed il tutto fu eseguito in tre settimane. librettidopera.it
Atto primo Scipione ATTO PRIMO [Ouverture] Scena prima Piazza con arco
trionfale. Scipione su carro trionfale seguìto dall'Esercito vittorioso,
Schiavi d'ambo i sessi, e Lelio duce romano. [Marcia] [Arioso] SCIPIONE Abbiam
vinto: e Iberia doma, par che dica il fato a Roma, serva Egitto ancor sarà.
Recitativo SCIPIONE A Tiberiolo e a Sesto porgo egualmente la mural corona, ché
noto è a me, ch'ambo saliro i primi sovra il muro scalato. Lelio, al roman
senato fia noto il tuo sommo valore, in tanto segno d'illustre militar decoro
splendati al crin questa corona d'oro. LELIO Scipione, grazie ti rendo e del
dono e del merto: ché se i doveri adempio; di tua grand'alma sol seguo
l'esempio. Di tanti illustri prede, queste stimai degne di te; cui rende rare
amabil beltà che i cori accende. SCIPIONE (Numi! Che gran bellezza!) Bella, nel
vago petto ad un vano timor non dar ricetto: cadesti in sorte a vincitor
cortese. BERENICE Ah mia sorte infelice! SCIPIONE Il nome? BERENICE Berenice.
librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel, 1726 Atto primo SCIPIONE Non ti
lagnar: tu nel bel volto porti armi che il vincitor rendon già vinto. (ad
Armira) E tu chi sei? ARMIRA De' predatori all'ira tolta da Lelio illustre, io
sono Armira. SCIPIONE A te duce fedel consegno queste sì preziosa spoglie.
BERENICE A te Scipione confido l'onor mio: tu che le leggi sai tutte di virtù,
tu lo proteggi. [N. 3 Arioso] SCIPIONE Scaccia o bella dal seno il timore, di
tua vaga beltà, dell'onore la virtù a difesa starà. Abbiam vinto, e Iberia doma
par che dica il fato a Roma, serva Egitto ancor sarà. (parte) Recitativo
BERENICE Oh Lucejo! LELIO E qual nome con dolor proferisti? BERENICE È forse
noto tal nome a te? LELIO Del generoso parli principe de' Celtiberi? BERENICE
Deh come t'è noto? LELIO Prigioniero un tempo io fui del re suo padre, e
generoso ei volle rendermi libertade, e il cor m'avvinse. BERENICE Destinato in
mio sposo egli a me fu, ma di nemica sorte il barbaro furore cangiò in dure
ritorte i bei lacci d'amore. Oh prence amato che fia di me! Di te che fia!
LELIO Non darti in preda al duolo. librettidopera.it Atto primo Scipione ARMIRA
Io spero, che il vincitore ancor sì generoso libere ne farà. BERENICE Misero
sposo! LELIO Nella regal magion ricetto avrete vaghe illustri donzelle: nei
giardin dilettosi troverete riposi al vostro affanno. BERENICE Ahi qual riposo
i miei tormenti avranno? [N. 4 Aria] BERENICE Un caro amante gentil costante
mi diede amor, e un empio fato me 'l tolse allor che amante amato venia fedele
in braccio a me. Infin che porto tal piaga al cor, senza morire al mio martire
altro conforto no che non v'è. (partono) Scena seconda Lucejo in abito di
soldato romano. Recitativo LUCEJO Quando vengo alle mie nozze bramate con
Berenice l'idol mio, ritrovo Cartagin presa d'improvviso assalto, e cerco invan
l'anima mia: mi vesto qual soldato roman: vengo alla pompa trionfal di
Scipione, e per mia sorte la veggo, oh dèi! ma prigioniera. Udii che Lelio n'è
custode: ne' giardini reali m'introdurrò: seconda amor la frode. Oh con quai
fissi sguardi l'ammirò il vincitore! Ahi! La perdo per sempre s'ella non
fuggirà. M'aita amore. librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel, Atto primo
[Aria] LUCEJO Lamentandomi corro a volo, qual colombo che solo solo va cercando
la sua diletta involata dal cacciator. E poi misero innamorato prigioniero le
resta a lato, ma la gabbia pur l'alletta perché restaci il su' amor. Scena
terza Giardino. Scipione, e poi Lelio. Recitativo SCIPIONE Oh quante grazie
amore in quel bel viso accolse! Ma non son io già preso da quel celeste
sguardo? La mia gloria è in periglio. E si dirà. LELIO Signor, le due vezzose
prigioniere lodar tua cortesia. SCIPIONE Lelio, alla vaga Armira troppo spesso
girar ti vidi i guardi. LELIO Perché celarlo? Il cor per lei sospira; ma il
vincitor tu sei... SCIPIONE Molto l'avanza di beltà Berenice. LELIO E pur
soggiace all'altra l'amor mio: d'ogni bellezza è più bel quel che piace.
SCIPIONE A te la cura d'ambe già diedi. Capital delitto sia l'ingresso a
tutt'altri in queste mura. Armira tua sarà. (parte) LELIO Generoso Scipione!
Ecco la bella. librettidopera. Atto primo Scipione Scena quarta Armira e detto.
LELIO Armira, e perché mesta? ARMIRA Oh quante volte in questa selvetta amena a
mio diporto venni! Chi mai creduta avria le delizie cangiarsi in prigionia?
LELIO Dal momento che tu fosti mia preda, che t'affanna? ARMIRA Il pensar che
serva io sono. LELIO Ma di questa crudel sorte al rigore involar ti potria.
ARMIRA Chi? Dillo. LELIO Amore. [Aria] ARMIRA Libera chi non è i lacci del suo
piè no mai, non porta al cor. Chi adora una beltà, le renda libertà poi le
domandi amor. (parte) Recitativo LELIO Indegna è inver di servitude un'alma di
sì bei pregi ornata: quand'ella in mio poter sarà concessa, risolverò. Scena
quinta Berenice e detto. LELIO Del vincitore, o bella, vittoria avesti co'
begli occhi tuoi: che t'ami un tanto eroe vantar ti puoi. BERENICE Onde
scorgesti l'amor tuo? librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel Atto primo
LELIO M'impose che a tutt'altri che a noi delitto capital sia qui l'ingresso.
BERENICE E tal segno è d'amor? LELIO Dirne potrei altri ancor: ti consiglio a
riamare il primo fra' Romani. BERENICE E ingrato sei. Che? Già ti prese oblio
dell'amico Lucejo? LELIO Ah! Che diss'io! BERENICE Giunger dovea l'istesso dì,
che presa fu Cartago infelice. Chi sa? Forse perì. LELIO No, Berenice: spera
miglior destino, e ti conforta. BERENICE Ah! Chi scampar può mai, quando a
ruina il fato inesorabile ne porta? [N. 7 Aria] LELIO No non si teme
d'incerto affanno quando la speme con dolce inganno l'alma che brama può
lusingar. Cangian vicende il male e il bene: spesso un s'attende, e l'altro
viene, se vuol temere, non disperar. (parte) [Recitativo accompagnato] BERENICE
Oh sventurati, sventurati affetti! Di Cartagin col fato periro le mie gioie,
cadder le mie speranze. Chi sa, chi sa, se mai rivedrete il mio bene, occhi
dolenti. Continua nella pagina seguente. librettidopera.it Atto primo Scipione
BERENICE Che fortunosi eventi hanno sempre delusa la speme (o dèi!) de' puri
miei diletti! Oh sventurati sventurati affetti! [Aria] BERENICE Dolci aurette
che spirate, deh volate all'idol mio, poi tornate a dir, dov'è. Aure dolci se
'l trovate, velocissime tornate: oh potesse ove son io, dolci aurette, far con
voi ritorno a me. Dolci aurette che spirate, deh volate all'idol mio, poi
tornate a dir, dov'è. Scena sesta Lucejo dentro la scena, e detta. Arioso e
recitativo LUCEJO Molli aurette v'arrestate. Sì malgrado al fato rio, idol mio,
pur vengo a te. BERENICE E che ascolto! Che veggio? LUCEJO Mia Berenice.
BERENICE Oh dèi! Quale ardir? Qual consiglio? LUCEJO Così accogli lo sposo? Che
turba la bell'alma? BERENICE Il tuo periglio. LUCEJO Son deluse le guardie
dall'abito mentito. BERENICE Ah se scoperto in finte spoglie sei, chi dall'ira
di Scipion ti toglie? LUCEJO Non bramasti vedermi? BERENICE Sì vederti bramai.
LUCEJO Che più, mio bene? librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel, Atto primo
BERENICE Ma vederti tornar liberatore, e non compagno delle mie catene. Parti,
se m'ami, e a quelle del mio padre unisci le tue squadre, e torna armato: e se
ingiusto anche il fato il tuo zelo tradisce, e il mio desire; vedrai se o cor
che nacque, se non teco goder, teco a morire. [Aria] LUCEJO Dimmi, cara, dimmi,
«tu dei morir» ma, o cara, non mi dir, «parti lontan da me». Pria di vederti,
sì forse potea partir: or che ti veggio, no no che non vuol non può partire il
cor e il piè. Recitativo BERENICE Ah t'ascondi: non lunge veggo Scipione: ahi!
di timor son morta. LUCEJO Non temer, ti conforta. BERENICE S'ami la vita mia,
prence t'ascondi. LUCEJO T'ubbidirò. (si ritira) BERENICE Numi 'l celate! Ei
giunge. Che improvviso timor m'ingombra l'alma! Lo scorgerà nel volto: altra
cagione ne fingerò! Scena settima Scipione, e detta, e poi Lucejo. BERENICE
Guardin gli dèi Scipione... SCIPIONE Bella, perché turbata ne' begli occhi
sereni? Non rispondi? Perché? Forse non lice saperlo a me? BERENICE Come
apparir può mai se non turbata ognor serva infelice? librettidopera.it Atto
primo Scipione SCIPIONE Deh rasserena i languidetti lumi: la servitù non ti
sarà penosa. Comanda al vincitore chi tanta ha in sua beltà forza amorosa.
BERENICE Ignoti senti a me ragioni. SCIPIONE Ancora a donzella di sì vago
sembiante, ignoto ancora è forse il parlar d'un amante? LUCEJO Soffrir più non
poss'io. BERENICE Oh ciel! SCIPIONE Qual calpestio? Che fai tu qui soldato? Chi
sei? Rispondi. LUCEJO Io sono uom qual mi vedi innanzi ad un altr'uomo e se fra
noi v'è differenza alcuna, non è merto, è fortuna. SCIPIONE (Sotto latine
spoglie straniera è la favella.) Qui che pretendi? BERENICE (Anch'ei si scopre,
oh dèi!) LUCEJO Io non pretendo in costei di te maggior ragione. SCIPIONE
Grand'ardire! Chi sei? LUCEJO Sono... BERENICE Scipione, lascia, ch'io parli: e
quale hai ragion sovra me? LUCEJO Sono... BERENICE Tu sei o folle o temerario,
che con finto pretesto insidi l'onor mio, cerchi la preda rapire al vincitor.
LUCEJO Sogno! Son desto! Librettidopera P. Rolli / Händel Atto primo [Aria]
BERENICE Vanne, parti, audace, altiero, menzognero. Ahi! Non bastan le mie
pene, ch'altri viene più infelice a farmi ancor. Taci, fuggi, non m'intendi? Mi
proteggi, mi difendi o cortese vincitor. (parte) Scena ottava Lelio, e detti.
Recitativo LELIO (Giunsi a tempo, si salvi.) LUCEJO (È Lelio.) LELIO Erennio,
che fai qui? Vanne al campo! Signor, folle soldato ti disturbò. (a Lucejo) Non
ubbidisci ancora? LUCEJO (Errai nel mio trasporto.) Ubbidirò. SCIPIONE
All'accento credei fosse un ibero. LELIO Servì Publio tuo padre, e restò
prigioniero, e nelle ostili tirannie perdette parte del senno, ma il mio cenno
teme, ed anche è pieno di valor. SCIPIONE Gran cura prendine o Lelio nella sua
sventura. Pietade inver l'amico abbi eguale al valor contro al nemico. (partono)
librettidopera Atto primo Scipione LUCEJO Gelosia,
m'ingannasti? Gratitudin d'amico oh quanto industriosa mi scampasti! Ma!
Soffrir chi potea sentir parlar d'amore alla sua bella? Non è costume ibero un
rivale soffrir: ma... menzognero! Audace! Vanne! Parti! Fur sentimenti d'alma,
o fur sol arti? Ahi! Con troppo diletto ella certo sentia parlar d'affetto.
[Aria] LUCEJO Figlia di reo timor, freddo velen d'innamorato sen, o gelosia
crudel esci dal cor, lasciami in pace. Gelo ed ardor, smania ed affanno,
dubbiosa fé, nascosto inganno porti con te, e alfin così di vita e amor spegni
la face. librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel Atto secondo ATTO
SECONDO [Sinfonia] Scena prima Porto con nave approdata. Ernando padre di
Berenice, che sbarca, e poi Lelio. Recitativo ERNANDO Mercé del vincitor mi fu
concesso pacifico lo sbarco. Se i tutelari numi che veglian d'innocenza alla difesa,
scampar la figlia dal furor di Marte, le portate ricchezze ne renderanno facile
il riscatto. Vadano diligenti esploratori subito sulla traccia: ma fino a sua
scoperta l'infortunio si taccia. Un roman duce s'appressa. LELIO Al forte
Ernando che alle due Baleari isole impera, manda Scipion salute. ERNANDO Al
proconsol romano la gloria e l'armi cedo, offro tributo, ed amistà gli chiedo.
LELIO Grata a Scipione sia l'amistà d'Ernando, ma il tributo maggiore anzi il
sol ch'ei ricerca, ad offrir vieni, a Roma e a lui pien d'amicizia il core.
[Aria] ERNANDO Braccio sì valoroso core sì generoso il mondo vincerà. E senza
usare il brando, co 'l nobil cor pugnando tutto vi cederà. librettidopera.it
Atto secondo Scipione Scena seconda Appartamenti delle due prigioniere.
Berenice e poi Scipione. [Arioso] BERENICE Tutta raccolta ancor nel palpitante
cor tremante ho l'alma. BERENICE Ah! pria di rivederti adorato mio sposo in tal
periglio, prendi dagli occhi miei perpetuo esilio. Quanto propizia sorte ebbe
il regal mio genitore Ernando non approdaro per contrario vento! Ch'abbia già
Lelio il fido amico, io spero, persuasa la fuga al prence amato: ma so che
disperato soffre di gelosia le pene amare, e fuggir non vorrà. Gravi tormenti
alfin cadrò sotto la vostra salma. BERENICE Tutta raccolta ancor nel palpitante
cor tremante ho l'alma. Recitativo SCIPIONE Di libertate il dono, prigioniera
gentil, grato ti fia? BERENICE Mi renderà del donator più serva. SCIPIONE
Spera, ma dimmi pria tuo vero stato: i nobili sembianti spiran grandezza.
BERENICE Io son d'Ernando figlia re delle Baleari isole. SCIPIONE E come in
Cartagine? BERENICE Il principe Sitalce che n'è morto a difesa, era germano
della mia genitrice, ed in sua corte vissi gran tempo, ah! librettidopera.it Rolli
Händel Atto secondo SCIPIONE Deh non darti in preda a vano duolo: è inesorabil
morte. Libera tu sarai, ma libertà per libertà si chiede. Del suo laccio più
forte per te già strinse amor. BERENICE Signor, t'arresta, non mi dir che tu
sei... SCIPIONE M'odi. BERENICE No, ascolta. De' Celtiberi al prence, che meco
un tempo visse, il cor già diedi. Riamar non poss'io se non... SCIPIONE
(Spietato spietato mio destin! Misero core scoppierai di tormento e di furore.
[Aria] SCIPIONE So gli altri debellar, ma porto nel mio cor chi mi fa guerra.
Che giova trionfar, se tirannia d'amor l'onor ne atterra.) [Aria] SCIPIONE
Pensa o bella alla mia speme e il desio non ingannar. (Ahi che l'alma troppo
teme, e comincia a disperar.) (parte) Recitativo BERENICE Troppo qui noto è il
mio natal, celarlo era timido e vano: dissimulare affetti è di me indegno.
Scena terza Lelio, Lucejo, e detta. LELIO Ecco o prence la bella cagion del tuo
dolore. librettidopera.it Atto secondo Scipione LUCEJO Tu per me le favella: io
non ho tanto core. BERENICE Oh numi! E questa di Lucejo è la fuga? Ah folle! Ei
torna a turbar l'alma mia. LELIO (Sì mi dicesti 'l vero, o gelosia.) BERENICE
Lelio, da me l'invola. LELIO E non vuoi tu? BERENICE Voglio che parta, e che
non torni più. LELIO Ei brama sol..BERENICE Folle colui che vuole perdere le
pupille per rivedere una sol volta il sole. LUCEJO Lelio andiam. Vado a morte.
BERENICE A morte! Ah no. Lelio l'arresta. LELIO A morte. Sirena ingannatrice,
che importa a te? L'amor la fé giurata son questi? E qual ragione puoi dirmi
ingrata? BERENICE Ahimè! Verrà Scipione. LUCEJO Verrà il novello oggetto
dell'amor tuo? BERENICE Cieco, e non vedi? LELIO Io vidi già ne' tuoi lumi
infidi il cor fallace. In vana ambizion cangi il tu' amore, e il mio divien
furore. Resta con quella pace che a me dai, ma la falsa alma poi tema piangere
del rivale o dell'amante o d'ambo a un tempo sol, fu l'ora estrema. Ma no,
risolvo abbandonar. BERENICE Rivolto ogni pensiero in te... LUCEJO Va', non
t'ascolto. librettidopera.it Rolli
Händel Atto secondo [Aria] LUCEJO Parto, fuggo, resta e godi di tue frodi, tu
sarai felice altera, menzognera. Sventurato io resterò sventurato sol per te.
Resta ingrata, e che puoi dire? Quando invece di fuggire, vuoi restar co 'l
vincitore. Quest'è amore? Questa è fé? (parte) Recitativo BERENICE Seguilo o
duce. L'agitata mente lo trasporterà certo al suo periglio. LELIO L'orme ne
segue, e penserò allo scampo. (parte) BERENICE Misera Berenice! Ah già preveggo
il fine della tragedia mia tutta infelice. [Aria] BERENICE Com'onda incalza
altr'onda, pena su pena abbonda, sommersa al fine è l'alma in mar d'affanno. E
tutt'i miei momenti oh come lenti lenti di dolore in dolore a morte vanno!
(parte) Scena quarta Armira, e Lelio. Recitativo ARMIRA Importuno tu sei.
Quando in tua man sarà il darmi libertà, penserò allora di riamarti. LELIO Ed
ora perché amor non prometti? ARMIRA Sarian forzati e men sicuri affetti. librettidopera Atto secondo Scipione [Aria]
LELIO Temo che lusinghiero il labbro menzognero amor prometta per ingannar. Pur
benché finga, sì dolce è la lusinga, che più m'alletta sempre a sperar. (parte)
Recitativo ARMIRA Lusingarlo mi giova, finché del mio servaggio a Indibile il
mio padre giunga l'infausta nuova, onde s'attenda soccorso tal, che libertà mi
renda. [Aria] ARMIRA Voglio contenta allor serbar del piè, del cor, la cara
libertà. L'amante avvezzo a dir che sol volea servir, tiranno poi si fa. Scena
quinta Lucejo e detta. Recitativo LUCEJO Qui torno, e qui vuo' pria morir, che
mai lasciar. ARMIRA Qui che vuoi tu? LUCEJO Vuo' quel che vuole la mia
disperazione. ARMIRA Chi cerchi? LUCEJO Berenice. ARMIRA Ancor non sai, che
l'adora Scipione? LUCEJO E corrisposto credi il romano amante? ARMIRA E tu qual
cura ne prendi? L'ami ancor? librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel, 1726
Atto secondo LUCEJO Per mia sventura. ARMIRA Del vincitor latino non paventi lo
sdegno? LUCEJO Alma che nacque al regno non conosce timor. ARMIRA Dimmi chi
sei? LUCEJO Ora de' casi miei non mi lice dir più. ARMIRA M'offendi: in pegno
di fé, la destra mia prendine. LUCEJO O bella, tu mi conforti. (si danno la
mano) Scena sesta Berenice, e detti. BERENICE Bella! Mi conforti! Ah traditore!
Ah indegno! LELIO Oh van sospetto! BERENICE Sospetto il ver? Ma il tuo decoro,
Armira? Sì l'audace correggi? ARMIRA Lascioti sola con quest'altro amante, così
titolo avrai d'insegnar di modestia a me le leggi. (parte) LUCEJO E la mancata
fede? Con finta gelosia pur si colora? BERENICE Va' traditor. Scena settima
Scipione, e detti. SCIPIONE Tanto s'ardisce ancora, contra gli ordini miei?
LUCEJO Scipione, a te costei diede fortuna, a me la diede amore. BERENICE È
quel folle soldato. www.librettidopera.it Atto secondo Scipione LUCEJO Io son
Lucejo de' Celtiberi il prence: un vil timore non mi celò: tentai ritor la
preda, se si potea, con onorata fuga, ma la crudel non m'ascoltò. SCIPIONE
Tentasti, prence, un delitto: e prigionier già sei. BERENICE Ah misera! Il previdi.
LUCEJO Se qual duce roman parli, ti cedo. Ma come un mio rivale, so ch'hai
nell'alma onor, se non m'abbatti; prigionier non son io: ceder non voglio fin
che vivo, il mio ben. SCIPIONE Deggio al senato risponder della mia, della tua
vita. LUCEJO Disperazion non t'ode: il ferro stringi. Scena ottava Lelio con
Guardie che circondano Lucejo con l'aste al petto. BERENICE Numi, lo
difendete... Io manco... Io moro... SCIPIONE Olà? Non m'offendete. Non temer
principessa, ei salvo fia. LELIO Cedi amico quel ferro. LUCEJO Avverso fato!
Lelio m'uccidi tu... Son disperato. [Aria] LUCEJO Cedo a Roma, e cedo a te.
Questi dica innanzi a me, s'ebbi già romano il cor: ma in amor, no non ti cedo
no, ti sfido all'armi. E se rival tu sei, esser duce più non déi: l'onor ti
vieterà privar di libertà chi non disarmi. (Lucejo, Lelio e guardie partono)
librettidopera.it Rolli Händel Atto secondo Recitativo BERENICE Signor, del tuo
fisso pensar pavento. SCIPIONE Sì sì Roma altro sposo sceglierà del tuo merto
ancor più degno. BERENICE Lucejo è nato al regno. SCIPIONE Merta però di
posseder tuoi pregi un che dia legge ai regi, un romano. BERENICE In vil core
han sempre forza ambizion, fortuna; nel mio non già, dove ha sol forza amore.
SCIPIONE Del senato a' decreti forza è chinar la fronte, ed ubbidire. BERENICE
Forzata esser non può, chi può morire. SCIPIONE Odi tanto i Romani? BERENICE Io
n'ammiro il valor, n'amo il bel core, e se mia fede e l'amor mio non fosse
avvinto altrui, sì n'arderei d'amore. [Aria] BERENICE Scoglio d'immota fronte
nel torbido elemento, cima d'eccelso monte al tempestar del vento, è negli
affetti suoi quest'alma amante. Già data è la mia fé: s'altri la meritò, non
lagnisi di me; la sorte gli mancò del primo istante. librettidopera. it Atto terzo Scipione
ATTO TERZO Scena prima [Sala magnifica.] Scipione e poi Lelio ed Ernando.
Recitativo SCIPIONE Miseri affetti miei! Tutte le vie d'onore saranno chiuse
all'amor mio? LELIO Scipione a privata udienza Ernando vedi, secondo i cenni
tuoi. ERNANDO Del vincitore l'alta presenza onoro. SCIPIONE A cortesia amistà
corrisponda: accetta Ernando la destra in pegno. Fortunato evento pose tua
figlia in mio poter. ERNANDO Già Lelio tutto narrommi: dal tuo nobil core spero
sua libertà. SCIPIONE La sua bellezza l'alma m'avvinse: in casto nodo io spero
ottenerla da te. ERNANDO Sì grande onore, per mia sventura, troppo tardi è
giunto. La promisi a Lucejo principe de' Celtiberi. SCIPIONE Ma questi è nostro
prigionier. ERNANDO Con la sua vita la mia parola irrevocabil vive. La mia
vita, il mio regno son tuoi, né per serbarli unqua io vorrei mancare all'onor
mio. Corso è l'impegno, memore sino a morte animo grato n'avrò. SCIPIONE Vanne,
e ci pensa. ERNANDO Ho già pensato. librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel,
1726 Atto terzo [Aria] ERNANDO Tutta rea la vita umana saria sol brutale e vana
senza il freno dell'onor. Dar parola, è dar sua fede: e la lingua che la diede
fu ministra sol del cor. (parte) Recitativo SCIPIONE Degni amici di Roma son
questi Iberi. Il saguntino onore sparso di tutti è nelle vene! Vanne, qui
conduci Lucejo e Berenice, e a lui dirai, che deve gir prigioniero al novo
giorno a Roma. LELIO Esperienza, e senno ai più ch'io possa consigliar. Fia
tosto eseguito il tuo cenno. (parte) [N. 24 Recitativo accompagnato] SCIPIONE
Il poter quel che brami, il bramar quel che puoi sono in tua forza, e tu goder
non vuoi? Della vita i diletti non sono che momenti, se brami... pensi... e
speri, fuggono come venti. Chi meno gode, vive men. Virtute è tormentosa
opinion per cui muor di sete il desire al fonte appresso. Sì sì voglio... ma...
no...torna in te stesso. Puoi non usar tua forza, puoi non voler, giusto perché
tu puoi posseder quel che vuoi. Questo è un piacer che non avrai comune co'
bruti e co' tiranni. Qual fama di virtù! Ma no. Per fama ben oprar non si dée.
Ben far verace è quel ch'uom fa, perché al su' interno piace. Oh fecondo
pensier, sei generoso, tu riporti, lo sento, il mio riposo. (parte)
librettidopera.it Atto terzo Scipione Scena seconda Lelio, Lucejo, in proprio
abito, e Berenice e Guardie. Recitativo LELIO In questo luogo o prence, ov'io
dovrei renderti quel che tu a me desti, in questo devo darti un annunzio aspro
e funesto. BERENICE Numi! Che fia? LUCEJO L'alma ho maggior dei mali. Di' pur.
LELIO Prence, tu devi... ah! LUCEJO Da un romano con sì lungo esitar, morte si
noma? LELIO Gir prigioniero ero al nuovo giorno a Roma. LUCEJO Questo è più
fier che morte. BERENICE No non andrai senza di me, mio bene. Il dolore o la
mano l'alma mia scioglierà da sue catene. Ti seguirò nud'ombra. LUCEJO Oh fida!
Oh cara! Di cieca gelosia perdon ti chiedo! Oh compensati affanni miei! Deh
resta, deh vivi sì amorosa, e sì costante alla memoria mia sola, e poi serba
serba a fato miglior tua nobil vita. Amico un solo da te aspetto, un solo segno
di gratitudine infinita, deh fa che cangi il vincitore in morte l'aspra
sentenza della mia partita. [Aria] LUCEJO Se mormora rivo o fronda, sussurrano
venticelli, di', che i sospir son quelli, ho l'alma mia che viene, mio bene,
intorno a te. Dia vita o morte il fato, fian' ambe ugual tormento: sarò sol
consolato pensando alla tua fé. (parte) librettidopera.it Rolli Händel Atto terzo Recitativo LELIO Più
resister non posso. Il cor si spezza. Se a sì teneri affetti, se a lacrime sì belle
può resister Scipione, il cor romano ei non ha, ch'esser dée grande ed umano.
(parte) [Recitativo accompagnato] BERENICE Ah! Scipion dove sei? Ascolta i
pianti miei: o rendimi il mio bene, o avvinta in sue catene, mandami seco, sì
spietato vieni saziati delle mie lagrime amare. Scena terza Scipione e detta.
Recitativo SCIPIONE (Tenerezze del cor, cedo, son vinto.) BERENICE Non dovevo
sdegnarti, ma non potevo amarti. La rea sola son io; mortal sentenza deh fa
ch'io sola dal tuo labbro senta. SCIPIONE Bella non pianger più. Sarai
contenta. (parte) [Aria] BERENICE Già cessata è la procella e la calma tornerà.
E ne' rai d'amica stella l'amor mio scintillerà.librettidopera.it Atto terzo
Scipione Scena quarta Sala con trono. Scipione assiso che riceve Ernando
preceduto da Mori che portano vari presenti d'argento e d'oro. [Sinfonia]
[Sinfonia] Recitativo ERNANDO All'invitto proconsole romano, all'inclito
Scipione, e al Campidoglio offro tributo e pace. SCIPIONE In nome del senato
l'amiche offerte accetto, e patrocinio ed amistà prometto. ERNANDO Queste
ancorché inuguali al tuo gran merto ricchezze accetta ancor: prezzo al riscatto
della mia figlia Berenice. Oh degno cui tutto il mondo ceda, rendimi della vita
il conforto migliore. SCIPIONE Venga la bella. Scena quinta Berenice e detti.
ERNANDO Oh dolce figlia! BERENICE Oh genitore amato! SCIPIONE Libera sei: ma le
ricchezze tutte del mondo, prezzo eguale a te non sono: ti rendo al caro
genitore in dono. BERENICE Ho il cor da gioia oppresso. ERNANDO Vieni al paterno
affettuoso amplesso. Cortese vincitor, pregoti almeno d'accettare in legger
segno d'affetto i nostri doni. SCIPIONE Accetto le preziose offerte: ma in tuo
volto tutta non veggo scintillare ancora l'anima lieta o Berenice.
librettidopera.it Rolli / Händel Atto terzo BERENICE È vero. Troppo timida
ancor l'alma paventa. SCIPIONE Spera, non sospirar, sarai contenta. [Aria]
SCIPIONE Gioia si speri sì, sol voglio in questo dì letizia e pace. Marte
riposo avrà, e lieto accenderà amor la face. (partono) Scena sesta
Appartamento. Lelio ed Armira. Recitativo LELIO Tu d'Indibile figlia tanto
amico a' Romani? E perché mai tacermi il tuo natal? ARMIRA Bastante asilo
pareami aver nel tuo cortese affetto. LELIO In risponder così, mostri chi sei.
In piena libertate or vivi, ed io rimango in tue catene. ARMIRA Qual Berenice,
io non ho dato ancora ad altri il cor. LELIO Se a fedeltà sincera vorrai darne
possesso. ARMIRA Amami, e spera. (parte) [Aria] LELIO Del debellar, la gloria,
è il bel piacer d'amor, sono del mio valor pregi immortali. Del par con la
vittoria un corrisposto ardor è il sommo del gioir, ch'è senza uguali. (parte)
librettidopera.it Atto terzo Scipione Scena settima Berenice e Lucejo.
Recitativo BERENICE Dove o principe amato? LUCEJO A te mio bene. BERENICE
Veggoti al fianco il nobil ferro. LUCEJO Dianzi per man di Lelio, Scipion me 'l
rese, ed a sé m'invitò. BERENICE La gioia intera speriam da un cor generoso.
LUCEJO Oh cara, abbiasi il mondo tutto, mi lasci del tuo cor libero il dono, e
il più felice io sono. BERENICE Anch'io dovea senza vederti ire a Scipione, ma
volli, principe amato, rivederti pria. Vo piena di lietissima speranza. LUCEJO
Oh fida! Oh dolce? Oh cara anima mia. Aria] BERENICE Bella notte senza stelle
chiaro sole senza rai tu vedrai, non il mio core senz'amore e senza te.
Mancheranno al mar le sponde, mancheranno ai fiumi l'onde, pria che manchi la
mia fé. (parte) Recitativo LUCEJO Squarciasi 'l fosco vel del mio sospetto, e
qual fra nube il cui torbido seno rompa e dilegui il vento, veggo apparir più
chiaro il ciel sereno. .librettidopera.it P. Rolli Händel Atto terzo [Aria]
LUCEJO Come al natio boschetto augel che vien dal mar vola nell'arrivar,
l'anima mia così impaziente già se 'n vola al caro ben. No più non è crudele la
bella mia fedele: anima mia sì sì vattene innanzi a me posati nel bel sen.
(parte) Scena ultima Scipione, Lelio, Ernando, Armira, Berenice, e poi Lucejo.
[Arioso] SCIPIONE Dopo il nemico oppresso voglio esser di me stesso più forte
vincitor. (ascende il trono) Recitativo SCIPIONE Venga Lucejo... SCIPIONE
Prence, vinto dai primi sguardi arsi d'amor per la beltà che adori: la trovo
tua: vinco me stesso, e illesa pronto a renderla io sono, poiché d'ambedue noi
fia degno il dono premio da te si chiede a Scipio e a Roma d'amicizia e fede.
Lelio all'illustre tuo scampo tentato per l'amico Lucejo tutta la lode io do
d'animo grato. Ernando, i doni tuoi accettai per poter disporne poi: seguano la
vezzosa Berenice al possesso del suo sposo felice. LELIO Oh magnanimo core!
ERNANDO Oh virtù rara! LUCEJO Oh senza esempio anima grande! librettidopera.it
Atto terzo Scipione BERENICE Oh degno d'esser fra i numi accolto! [Recitativo
accompagnato] LUCEJO In testimonio io chiamo Giove e gli eterni numi, che la
mia vita e il regno a Scipione a Roma, in guerra e in pace, impegno. [ Duetto]
BERENICE E LUCEJO Si fuggano i tormenti, si vengano i contenti di bella
fedeltà. Non più crudel timore il dolce dell'amore amareggiar potrà. Recitativo
SCIPIONE Marte riposi, accenda amor la face sia questo un dì sol di letizia e
pace. [Coro] CORO Faran la gioia intera vittoria pace e amor. E sia l'Iberia
altera d'un tanto vincitor. librettidopera.it P. Rolli Händel, Interlocutori All'eccellenza
Argomento Atto Ouverture Scena Marcia Arioso]. Arioso Aria Scena Aria Scena
Scena Aria] Scena Aria Recitativo accompagnato Aria] Scena AriaScena
AriaScena AriaAtto SinfoniaScena AriaScena Arioso Aria Aria Scena Aria Aria Scena
Aria] Aria Scena Scena Scena Scena Aria Aria]. Atto Scena Aria Recitativo
accompagnato]. Scena Aria Recitativo accompagnato]. Scena Aria Scena Sinfonia Sinfonia
Scena Aria Scena Aria Scena AriaAria Scena ultima. Arioso Recitativo
accompagnato Duetto Coro Brani significativi Scipione BRANI SIGNIFICATIVI
Abbiam vinto: e Iberia doma (Scipione) Il poter quel che brami (Scipione)
Scoglio d'immota fronte (Berenice) Se mormora rivo o fronda (Lucejo) PIETRO METASTASIO / WOLFGANG AMADEUS MOZART Il sogno di
Scipione Azione teatrale Scipio Costanza Fortuna Publio Emilio Recitativo
Fortuna Vieni e segui miei passi, O gran figlio d'Emilio. Costanza I passi
miei, Vieni e siegui, o Scipion.
Scipione: Chi è mai l'audace Che turba il mio riposo? Fortuna: Io son. Costanza Son io; E sdegnar non ti dèi. Fortuna Volgiti a me. Costanza Guardami in volto. Scipione Oh dei, Qualle abisso di luce! Quale
ignota armonia! Quali sembianze Son queste mai sì luminose e liete! E in qual
parte mi trovo? E voi chi siete?
Costanza Nutrice degli eroi.
Fortuna Dispensatrice Di tutto il ben che l'universo aduna. Costanza Scipio, io son la Costanza. Fortuna Io la Fortuna. Scipione E da me che si vuol? Costanza Ch'una fra noi Nel cammin della vita
Tu per compagna elegga. Fortuna Entrambe
offriamo Di renderti felice. Costanza E
decider tu dèi Se a me più credi, o se più credi a lei. Scipione Io? Ma dèe... Che dirò? Fortuna Dubiti! Costanza Incerto Un momento esser puoi! Fortuna Ti porgo il crine, E a me non
t'abbandoni? Costanza Odi il mio nome,
Nè vieni a me? Fortuna Parla. Costanza Risolvi. Scipione E come? Se volete ch'io parli, Se
risolver degg'io, lasciate all'alma Tempo da respirar, spazio onde possa
Riconoscer se stessa. Ditemi dove son, chi qua mi trasse, se vero è quel ch'io
veggio, Se sogno, se son desto o se vaneggio. Aria Risolver non osa Confusa la
mente, Che opressa si sente Da tanto stupor. Delira dubbiosa Incerta vaneggia
Ogni alma che ondeggia Fra'moti del cor. Recitativo Costanza Giusta è la tua
richiesta. A parte, a parte Chiedi pure, e saprai Quanto brami saper. Fortuna
Si, ma sian brevi, Scipio, le tue richieste. Intollerante Di risposo son io.
Loco ed aspetto Andar sempre cangiando è mio diletto. 2. Aria Fortuna Lieve sono al par del vento;
Vario ho il volto, il piè fugace; Or m'adiro, e in un momento Or mi torno a
serenar. Sollevar le moli oppresse Pria m'alletta, e poi mi piace D'atterrar le
moli istesse Che ho sudato a sollevar. Recitativo Scipione Dunque ove son? La
reggia Di Massinissa, ove poc'anzi i lumi Al sonno abbandonai, Certo questa
non'. Costanza No. Lungi assai É l'Africa da noi. Sei nell'immenso Tempio del
ciel. Fortuna Non lo conosci a tante Che
ti splendono intorno Lucidissime stelle? A quel che ascolti Insolito concento.
Dele mobili sfere? A quel che vedi Di lucido zaffiro Orbe maggior che le
rapisce in giro? Scipione E chi mai tra
le sfere, o dèe, produce Un contento sì armonico e sonoro? Costanza L'istessa ch'è fra lorto Di moto e
di misura Proporzionata ineguaglianza. Insieme Urtansi nel girar; rende
ciascuna Suon dall'altro distinto; E si forma di tutti un suon concorde. Viarie
così le corde Son d'una cetra; e pur ne tempra in guisa E l'orecchio e la man
l'acuto e il grave, Che dan, percosse, un'armonia soave. Questo mirabil nodo,
Questa ragione arcana Che i dissimili accorda, Proporzion s'appella, ordine e
norma Universal delle create cose. Questa è quel che nascose, D'altro saper
misterioso raggio, Entro i numeri suoi di Samo il saggio. Scipione Ma un armonia si grande Perchè non
giunge a noi? Perchè non l'ode Chi vive lá nella terrestre sede? Costanza Troppo il poter de'vostri sensi
eccede. 3. Aria Ciglio che al sol si
gira Non vede il sol che mira, Confuso in quell'istesso Eccesso di splendor.
Chi lá del Nil cadente Vive alle sponde apresso, Lo strepito non sente del
rovinoso umor. Recitativo Scipione E quali abitatori... Fortuna assai
chiedesti: Eleggi alfin. Scipione Soffri
un istante. E quali Abitatori han queste sedi eterne? Costanza Ne han molti e vari in varie
parti. Scipione In questa, ove noi siam,
chi si raccoglie mai? Fortuna Guarda sol
chi s'appressa, e lo saprai. 4. Coro
Germe di cento eroi, Di Roma onor primiero, Vieni, che in ciel straniero Il
nome tuo non è. Mille trovar tu puoi. Orme degli avi tuoi nel lucido sentiero
Ove inoltrasti il piè. Recitativo Scipione Numi, è vero o m'inganno? Il mio
grand'avo, Il domator dell'Africa rubello Quegli non è? Publio: Non dubitar,
son quello. Scipione Gelo d'orror!
Dunque gli estinti.... Publio Estinto,
Scipio, io non son. Scipione Ma in
cenere disciolto Tra le funebri faci, Gran tempo è giá, Roma ti pianse. Publio Ah taci: Poco sei noto a te. Dunque tu
credi Che quella man, quel volto, Quelle fragili membra onde vai cinto Siano
Scipione? Ah non è vero Son queste Solo una veste tua. Quel che le avviva Puro
raggio immortal, che non ha parti E scioglier non si può che vuol, che intende,
Che rammenta, che pensa, Che non perde con gli anni il suo vigore, Quello,
quello è Scipione: e quel non muore. troppo iniquo il destino Sraia della
virtù, s'oltre la tomba Nulla di noi restasse, e s'altri beni Non vi vosser di
quei Che in terra per lo più toccano a'rei. No, Scipio: la perfetta D'ogni
cagion Prima Cagione ingiusta esser così non può. V'è doppo il rogo, V'è merce
da sperar. Quelle che vedi Lucide eterne sedi, serbansi al merto; e la più
bella è questa In cui vive con me qualunque in terra La patria amò, qualunque
offri pietoso Al publico riposo i giorni sui, Chi sparse il sangue a benefizio
altrui. 5. Aria Se vuoi che te
raccolgano Questi soggiorni un dì, degli avi tuoi rammentati, Non ti scordar di
me. Mai non cessò di vivere Chi come noi morrì: Non merito di nascere Chi vive
sol per sè. Recitativo Scipione Se qui vivon gli eroi... Fortuna Se paga ancora
La tua brama non è, Scipio, è giá stanca La tolleranza mia. Decidi... Costanza Eh lascia Ch'ei chieda a voglia sua.
Ciò ch'egli apprende Atto lo rende a giudicar fra noi. Scipione Se qui vivon gli eroi Che alla
patria giovar, tra queste sedi Perchè non miro il genitor guerriero? Publio L'hai su gli occhi e nol vedi? Scipione É vero, è vero. Perdona, errai, gran
genitor; ma colpa Delle attonite ciglia É il mio tardo veder, non della mente,
Che l'immagine tua sempre ha presente. Ah sei tu! Giá ritrovo L'antica in
quella fronte Paterna maestá. Gia nel mirarti Risento i moti al core Di
rispetto e d'amore. Oh fausti numi! Oh caro padre! Oh lieto dì. Ma come Si
tranquillo m'accogli? Il tuo sembiante Sereno è ben, ma non comosso. Ah dunque
non provi in rivedermi Contento eguale al mio! Emilio Figlio, il contento Fra
noi serba nel Cielo altro tenore. Qui non giunge all'affanno, ed è
maggiore. Scipione Son fuor di me. Tutto
quassù m'è nuovo, Tutto stupir mi fa. Emilio Depor non puoi Le false idee che
ti formasti in terra, E ne stai si lontano. Abassa il ciglio: Veddi laggiù
d'impure nebbie avvolto Quel picciol globo, anzi quel punto? Scipione Oh stelle! É la terra? Emilio Il
dicesti. Scipione E tanti mari E tanti
fiumi e tante selve e tante Vastissime province, opposti regni, popoli
differenti? E il Tebro? E Roma?... Emilio Tutto è chiuso in quel punto. Scipione Ah, padre amato, Che picciolo, che
vano, Che misero teatro ha il fasto umano! Emilio Oh se di quel teatro Potessi,
o figlio, esaminar gli attori; Se le follie, gli errori, I sogni lor veder
potessi, e quale Di riso per lo più degna cagione Gli agita, gli scompone, Li
rallegra, gli affligge o gl'innamora, Quanto più vil ti sembrerebbe
ancora! 6. Aria Voi collogiù ridete D'un
fanciullin che piange, Che la cagion vedete Del folle suo dolor. Quassù di voi
si ride, Che dell'etá sul fine, tutti canuti il crine, Siete fanciulli ancor.
Recitativo Scipione Publio, padre, ah lasciate Ch'io rimanga con voi. Lieto
abbandono Quel soggiorno laggiù troppo infelice. Fortuna Ancor non è
permesso. Costanza Ancor non lice. Publio Molto a viver ti resta. Scipione Io vissi assai; Basta, basta per me.
Emilio Si,ma non basta A'disegni del fato, al ben di Roma, Al mondo, al
Ciel. Publio Molto facesti e molto Di
più si vuol da te. Seza mistero Non vai, Scipione, altero E degli aviti e
de'paterni allori. I gloriosi tuoi primi sudori Per le campagne ibere A caso
non spargesti; e non a caso Porti quel nome in fronte Che all'Africa è fatale.
A me fu dato Il soggiogar sì gran nemica; e tocca Il distruggerla a te. Va, ma
prepara Non meno alle sventure Che a'trionfi il tuo petto. In ogni sorte L'istessa
è la virtù. L'agita, è vero, Il nemico destin, ma non l'opprime; E quando è men
felice, è più sublime. 7. Aria Quercia
annosa su l'erte pendici Fra'l contrasto de'venti nemici Più sicura, più salda
si fa. Chè se'l verno le chiome le sfronda, Più nel suolo col piè si profonda;
Forza acquista, se perde beltá. Recitativo Scipione Giacchè al voler de'Fati
L'opporsi è vano, ubbidirò. Costanza Scipione, Or di scegliere è il tempo. Fortuna Istrutto or sei; Puoi giudicar fra
noi. Scipione Publio, si vuole Ch'una di
queste dèe... Publio Tutto m'è noto.
Eleggi a voglia tua. Scipione Deh mi
consiglia, Gran genitor! Emilio Ti usurperebbe, o figlio, La gloria dela scelta
il mio consiglio. Fortuna Se brami esser
felice, Scipio, non mi stancar: prendi il momento In cui t'offro il crin. Scipione Ma tu che tanto importuna mi sei,
di': qual ragione Tuo seguace mi vuol? Perchè degg'io Sceglier più che
l'altra? Fortuna E che farai, s'io non
secondo amica L'imprese tue? Sai quel ch'io posso? Io sono D'ogni mal, d'ogni
bene L'arbitra collagiù. Questa è la mano Che sparge a suo talento e gioie e
pene Ed oltraggi ed onori, E miserie e tesori. Io son collei Che fabbrica, che
strugge, Che rinnova gl'imperi, Io, se mi piace, In soglio una capanna, io
quando voglio, Cangio in capanna un soglio. A me soggetti Sono i turbini in
cielo, Son le tempeste in mar. Delle bataglie Io regolo il destin. se fausta io
sono, dalle perdite istesse Fo germogliar le palme; e s'io m'adiro, Svelgo di
man gli allori Sul compir la vittoria ai vincitori. Che più? Dal regno mio non
va esente il valore, Non la virtù; chè, quando vuol la Sorte, Sembra forte il
più vil, vile il più forte; E a dispetto d'Astrea La colpa è giusta e
l'innocenza è rea. 8. Aria A chi serena
io miro Chiaro è di notte il cielo; Torna per lui nel gelo La terra a
germogliar. Ma se a taluno io giro Torbido il guardo e fosco, Fronde gli niega
il bosco, Onde non trova in mar. Recitativo Scipione E a sì enorme possanza Chi
s'opponga non v'è? Costanza Sì, la Costanza. Io, Scipio, io sol prescrivo
Limiti e leggi al suo temuto impero. Dove son io non giunge L'instabile a
regnar; che in faccia mia non han luce i suoi doni, Nè orror le sue minacce. É
ver che oltraggio Soffron da lei Il valor, la virtù; ma le bell'opre Vindice
de'miei torti, il tempo scopre. Son io, non è costei, Che conservo gl'imperi: e
gli avi tuoi, La tua Roma lo sa. Crolla ristretta da brenno, è ver, la liberta
latina Nell'angusto tarpeo, ma non ruina. Dell'Aufido alle sponde Se vede, è
ver, miseramente intorno Tutta perir la gioventù guerriera Il console roman, ma
non dispera. Annibale s'affretta Di Roma ad ottener l'ultimo vanto E co'
vessilli suoi quais l'adombra; Ma trova in Roma intanto Prezzo il terren che
vincitore ingombra. Son mie prove sì belle; e a queste prove Non resiste
Fortuna. Ella si stanca; E alfin cangiando aspetto, Mia suddita diventa suo
dispetto. 9. Aria Biancheggia in mar lo
scoglio, Par che vacilli, e pare Che lo sommerga il mare Fatto maggior di sè.
Ma dura a tanto orgoglio Quel combattuto sasso; E'l mar tranquillo e basso poi
gli lambisce il piè. Recitativo Scipione Non più. Bella Costanza, Guidami dove
vuoi. D'altri non curo; Eccomi tuo seguace. Fortuna E i donni miei? Scipione Non bramo e non ricuso. Fortuna E mio furore? Scipione Non sfido e non spavento. Fortuna In van potresti, Scipio, pentirti un
dì. Guardami in viso: Pensaci, e poi decidi.
Scipione Hò giá deciso. 10. Aria
Di' che sei l'arbitra Del mondo intero, ma non pretendere Perciò l'impero
D'un'alma intrepida, D'un nobil cor. Te vili adorino, Nume tiranno, Quei che
non prezzano, Quei che non hanno Che il basso merito Del tuo favor. Recitativo
Fortuna E v'è mortal che ardisca Negarmi i voti suoi? Che il favor mio Non
procuri ottener? Scipione Sì, vi son io.
Fortuna E ben, provami avversa. Olá venite, Orribili disastri atre
sventure, Ministre del mio sdegno: Quell'audace opprimete; io vel
consegno. Scipione Stelle, che fia? Quel
sanguinosa luce! Che nembi! che tempeste! Che tenebre son queste? Ah qual
rimbomba Per le sconvolte sfere Trerribile fragor! Cento saette Mi striscian
fra le chiome; e par che tutto Vada sossopra il ciel. No, non pavento, Empia
Fortuna: in van minacci; in vano Perfida, ingiusta dea... Ma chi mi scuote? Con
chi parlo? Ove son? Di Massinissa Questo è pure il soggiorno. E Publio? E il
padre? E gli astri? E l'Ciel? Tutto sparì. Fu sogno tutto ciò ch'io mirai? No,
la Costanza Sogno non fu: meco rimase Io sento Il nume suo che mi riempie il
petto. V'intendo, amici dei: l 'augurio accetto. Licenza Recitativo Non è Scipio, o signore
(ah chi potrebbe Mentir d'inanzi a te!) non è l'oggetto Scipio de'versi miei.
Di te ragiono, Quando parlo di lui. Quel nome illustre É un vel di cui si copre
Il rispettoso mio giusto timore. Ma Scipio esalta il labbro, e di Girolamo il core.
11a. Aria Ah perchè cercar degg'io Fra gli avanzi dell'oblio Ciò che in te ne
dona il Ciel! Di virtù chi prove chiede, L'ode in quelli, in te le vede: E
l'orecchio ognor del guardo É più tardo e men fedel. Coro Cento volte con lieto
sembiante, Prence eccelso, dall'onde marine Torni l'alba d'un dì sì seren. E
rispetti la diva incostante Quella mitra che porti sul crine, L 'alma grande
che chiudi nel sen. Publio Cornelio Scipione Emiliano Africano Minore. Keywords:
Silio, il sogno di Scipione. Scipione.
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