Luigi Speranza -- Grice ed Addiego: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale – la scuola di Turi – filosofia pugliese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Turi). Filosofo
pugliese.Filosofo italiano. Turi, Puglia. Grice: “I like Addiego; his obituary
looks fine, ‘amateeur mathematician and professional philosopher;’ of course he
was a priest and priests tend to get the nicest obituaries written by members
of their respective orders! Henry VIII
once said, “I shall follow Occam and not multiply religious orders beyond necessity!’
Some say he went a bit too further! My St. John’s used to be a Cistercian
monastery!” “One good thing about Addiego is that instead of trying to prove
the immortality of the soul, or the existence of God – “These are Strawsonian
presuppositions,’ he would say – he rather played with Platonic numbers and
geometries! His mathematical explorations caught the attention of the Pope who
invited him to Rome, thus leaving his ‘paese,’ the lovely Bari – and beyond!”
-- Vincenzo maria A., nominato Preposto Generale dei Padri Scolopi. Entra nell'ordine degli scolopi. Leone
XII lo chiama a Roma e con un Breve apostolico lo nomina preposto generale dei
padri scolopi. Alla sua morte il Pio
VIII gli rese l'estremo saluto nella casa professa di S Pantaleo. D. Resta,
Turi. La perdita del loro Preposi to Generale
P. Vincenzo Maria A., rapito ai vivi in pochi istanti nella notte dei 31 del
p.sp.. marzo, ha immerso in grandissima costernazione I Religiosi delle Scuole
Pie. Nativo egli di Turi nella Puglia, vesti giovinetto le divise del
Calasanzio, e fatti con somma lode isuoi studj nel Collegio Reale di Napoli,
diretto dai religio si suddetti ivi professa per lo spazio di quaranta e più
anni prima le belle lettere, e poscia la Filosofia e le Matematiche,
nell'insegnamento d'entrambi accoppið sempre la pietà, lo studio l'amorevolezza
el'industria alla precisione de'metodi. Fu due vol te Provinciale; e dopo
lepassate luttuose vicende nominato Delegato Generale pel riordinainento delle
Scuole Pie nel regno delle due Sicilie, ebbe la consolazione di veder coronate
le sue fatiche da un esito felicissimo. Chiamato Breve di Leone XII, di
gloriosa ricordanza, al Governo Hi
tiftta la sua Religione, la regole con dolcezza e prudenza, si mostrò padre con
tutti, e a tutti su specchio einodello di quelle rel giose virtù, che più belle
appariscono in chi tiene l'altrui direzione Vicino al termine del suo ogorevole
incarico, stavaeliane Tando alla tranquillità della vita privala, dalla quale
la sola Defienza aveva pniuto cayarlo; quando piacque all'Eterno di premiare
(come speriaino) con franquillità ben maggiore imeritiche si aveva procacciati
nella crislis na e religiosa carrier. Domani si celebra la Stazio De rrella
Chiesa di S. Giovanni in Laterano. TRATTENIMENTO PEL NEL LETTORE Che D. D. D.
NECESSITA DEGLI SU LA MIGLIORAMENTO MACCHINE pubblicamente SIGNORI I Giuseppe GIUSEPPE
DE GIOVANNI Studenti di COLLEGIO Filosofia e DELLE SCUOLE PIE SOTTO LA VINCENZO
A.. FRANCIONI Rivera Cesare D. PASCALE REALE DIREZIONE DEL MARIA MARTINO
BATISTA SPERIMENTI DELLE sperimentano CONVITTORI Matematica FISICO ZNALED
COLLONES /1000 NAPOLI 1810. COL PERMESSO DEL GENERALE, NELLA STAMPERIA MINISTRO
FLAUTINA. DELLA POLIZIA. Sumat quisque, quod suum credit, nihil mihi vindico,
Sgravesand in Prafat, Mihi satis fuerit, suum cuique habuisse honorem, Dalham
in Præfat. I chierici regolari poveri della Madre di Dio delle scuole pie (in
latino Ordo Clericorum Regularium Pauperum Matris Dei Scholarum Piarum) sono un
istituto religioso maschile di diritto pontificio: i membri di questo ordine,
detti comunemente scolopi o piaristi, pospongono al loro nome le sigle S.P. o
Sch. P. Lo stemma dell'ordine reca il monogramma coronato di Maria e le lettere
greche MP e ΘY, abbreviazioni per μήτηρ θεοῦ (madre di dio) Le origini
dell'ordine risalgono alle scuole popolari gratuite (scuole pie) fondate da Calasanzio
a Roma. Calasanzio e i suoi compagni diedero inizio a una congregazione di
religiosi per l'insegnamento: papa Gregorio XV elevò la compagnia a ordine
regolare con breve. Gli scolopi si dedicano principalmente all'istruzione e
all'educazione cristiana di giovani e fanciulli.[2] Il fondatore dell'ordine,
Calasanzio, giunse a Roma e venne nominato Teologo e precettore dei nipoti di Colonna.
Si iscrisse alla Confraternita dei Santi Apostoli. Nel mese di maggio cominciò
le visite ai rioni di Roma, portando aiuto ai poveri. Un giorno, mentre passava
in una piazza, fu colpito in modo insolito dallo spettacolo di una turba di
sudici e malvestiti ragazzi che giocavano tra grida scomposte, atti sconci,
litigi e bestemmie. Di colpo comprese qual era la missione per la quale era
giunto a Roma dalla sua patria lontana: la scuola. Così, in un ambiente di
ristrettezze e povertà, in due povere stanze attigue alla sagrestia e messegli
a disposizione dal parroco Don Brendani della chiesa di Santa Dorotea in Trastevere,
aprì "la prima scuola popolare gratuita in Europa", come riconobbe
anche Pastor, che nella sua monumentale opera Storia dei Papi scrisse ebbe
origine la prima scuola popolare gratuita d'Europa. E lì, in tempi in cui
l'istruzione era privilegio delle classi più abbienti, sviluppò il suo progetto
della scuola come strumento di promozione umana e salvezza educativa per i
ragazzi di strada (metodo preventivo, attinto da Neri). Fonda la
"Congregazione secolare delle Scuole Pie". Vincenzo Maria d’Addiego.
Addiego. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Addiego” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice ed Adelfio: la gnossi a Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. A gnostic who teaches at Rome and attracts a number of followers. He
seems to be a critic of the Accademia, and is one of those Plotino has in mind
when he makes his attack on gnosticism. Adelfio
Luigi Speranza -- Grice
ed Adorno: all’isola -- il gusto degl’antici per gl’antici – la scuola di
Siracusa – filosofia siracusana -- filosofia siciliana -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Siracusa). Filosofo
siracusano. Filosofo siciliano. Filosofo Italiano. Siracusa, Sicilia. Grice: “I
like Adorno; he more than anyobody else I know UNDERSTANDS the change of mind
set from the Hellenic embassy at Rome and the ‘gravitas’ of the Romans who
found that relativistic talk on justice ‘sophistical’! Scipione and the Roman
aristocracy – just to be different – enjoyed it and embraced it – and it turned
out that, as antiquities became more popular with the Romans, they recovered
the many schools of philosophy that have thrived in the provinces: Velia,
Crotone, Girgenti.” Filosofo. Laureato in Filosofia a Firenze e
professore a Bari, Bologna e Firenze, è stato presidente dell'Accademia Toscana
di Scienze e Lettere "La Colombaria", del Museo e istituto fiorentino
di preistoria e dell'Accademia delle Arti del Disegno. Ha diretto la
pubblicazione del Corpus dei papiri filosofici greci e latini. Ha studiato il rapporto tra l'insegnamento
socratico e la sofistica, estendendo i suoi interessi a Platone, allo stoicismo
e all'epicureismo; inoltre ha approfondito aspetti della cultura greco-latina e
cristiana tra il primo secolo a.C. e il sesto secolo d.C., nonché del pensiero
tardomedievale e umanistico. Utilizza il metodo filologico per la descrizione
degli autori del pensiero antico della scuola ionica, di Socrate, di Platone,
della prima Accademia, delle scuole ellenistiche, di Epicuro, di Seneca,
ecc. La sua formazione culturale affonda
le radici negli ambienti intellettuali e politici fiorentini e in particolare
risente dell'influenza crociana nell'interpretazione della filosofia come
riflessione teorica mai disgiunta dalla situazione storica reale. In nome di
questa concretezza antimetafisica e della necessità di una descrizione storica del
pensiero filosofico, aderisce al metodo marxista e alla filosofia del
linguaggio facendo sì che i testi classici vengano interpretati nel loro
autentico e concreto sottofondo politico e culturale. Opere: “I sofisti e Socrate”; “La filosofia
antica”; “Studi sul pensiero greco”; “Socrate”; “Dialettica e politica in
Platone”; “Platone”; “I sofisti e la sofistica nel 5°-4° sec. a.C.”; “Pensare
storicamente”. “Pitagora di Samo. I suoi viaggi, la permanenza in
Magna Grecia. Le suggestioni e la polymathia
di Pitagora”. Esigenze e problemi in Magna Grecia e ad Velia su RA IEnciclopedia multimediale delle scienze
filosofiche. Adórno, Francesco, in TreccaniEnciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche
alla voce corrispondente. Maria Serena
Funghi, Hodoi dizēsios. Le vie della ricerca: studi in onore di Francesco
Adorno, Firenze, Olschki, Francesco
Adorno, su Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Francesco Adorno, in
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Adorno, su open MLOL, Horizons Unlimited srl. Filosofia Filosofo del XX
secolo Filosofi italiani del XXI secolo Storici della filosofia italiani Accademici
italiani del XX secolo Accademici italiani Professore Siracusa Firenze Studenti dell'Università
degli Studi di Firenze Professori Bari Professori dell'Bologna Professori
dell'Università degli Studi di Firenze. E
interessante sottolineare che Pitagora di Samo, isola ionica vicina alle coste
dell'Asia Minore, emigra in Crotone, Italia (Magna Grecia) dopo aver fatti
molti viaggi in Egitto e in Oriente, viaggi non impossibili, anche se poi le
piu tarde scuole pitagoriche hanno voluto vedere in essi ben altro. Samo, dopo
alterne vicende simili a quelle delle altre città e isole ioniche, dopo lunghi
contrasti tra la classe dei nobili e la democrazia, e dominata dal tiranno Policrate,
che favod il popolo contro i nobili, che si circonda di una fastosa corte, che
e amico di Amasi re di Egitto. E per contrasti sorti con Policrate che Pitagora
abbandona la Ionia per recarsi a Crotone nell'Italia meridionale, accompagnato
là da una fama già leggendaria. Eraclito ed Erodoto, parlando di Pitagora,
testimoniano appunto la fama di lui nel mondo ionico. Eraclito (Diogene
Laerzio) sprezzantemente parla della multiscienza o polymathia di Pitagora. Evidentemente
il disprezzo nasce in Eraclito da una fama, o leggenda che fosse, ormai
acquisita. Erodoto, riferendo dubitosamente la leggenda di Zalmosside, un
tracio vissuto a Samo, in qualità di schiavo e di allievo di Pitagora e che,
poi, liberato e arricchito torna in Tracia, dove sale in fama di mago e dove
insegna l'immortalità dell'anima, provata con un trucco, afferma che questo gli
era stato narrato dagl’abitanti l'Ellesponto e il Ponto (cfr. Erodoto). La vita
e la figura di Pitagora le troviamo avvolte nella leggenda dai tempi piu
antichi. Con una certa sicurezza si può dire che Pitagora nacque a Samo, da
Mnesarco. Emigra da Samo nella Magna Grecia per un dissidio sorto con Policrate
tiranno di Samo. Possono non essere leggendari i suoi molti viaggi, in
particolare quelli in Tracia, in Asia Minore, in Egitto] a Creta. Risale
probabilmente a Pitagora in Crotone la fondazione di una setta, ove si svolge
una vita pitagorica. Fama di dotto e di enciclopedico e fama di uomo superiore,
Pitagora dove, dunque, avere già prima del suo ultimo viaggio che lo trasporta
a Crotone. Per quanto scarse, fondamentali sono le testimonianze di Eraclito,
Senofane ed Erodoto, che confermano l'esistenza reale di Pitagora. Pitagora a
Crotone, fondatore di una setta, di quella vita pitagorica di cui parla anche
Platone (Repubblica), scienziato e sacerdote a un tempo, sacerdote e medico di
anime, si perde nella leggenda, o meglio nelle ricostruzioni dei tardi filosofi
neo-platonici e neo-pitagorici. “La Vita di Pitagora,” di Porfirio e la “Vita
pitagorica” di Giamblico ricavano gran parte delle notizie dai pitagorici
Apollonio di Tiana, Moderato di Gada, e Nicomaco di Gerasa. Solo che il pitagorismo
puo sorgere, interpretandola a modo suo e per nuove esigenze, da una lunga e
continua tradizione che si scandisce in tempi diversi, ogni volta tornando alla
leggenda e proiettando in essa ciò che rispondeva a un certo tempo e a una
certa situazione, onde, piu che di pitagorismo parlamo di pitagorismi. Di tappa
in tappa, a ritroso, attraverso un attento smontaggio delle varie stratificazioni,
si può risalire sino a Filolao, di cui possediamo alcuni frammenti. Risalire
oltre è estremamente difficile e pericoloso. Gli stessi scritti andati sotto il
nome di Pitagora – i versi d'oro, i tre saggi su educazione, politica, e fisica
-- sono composti da filosofi che rivivano il sacro verbo del divino filosofo.
Lo stesso Aristotele, cosi propenso ad interpretare posizioni diverse in
funzione del proprio pensiero, non cita mai direttamente Pitagora, ma parla
sempre di coloro che vengono detti PITAGORici (Metaf.). – cf. Speranza non cita
direttamente Grice, ma parla sempre di coloro che vengono ditti GRICEiani. O
Giuliano non parla di Cristo ma dei Galilei! D'altra parte di quello che può essere
stato il Pitagora storico, anche il nome ha destato sospetto, ché il nome ‘Pitagora’
significa “l'annunciatore di Pizio,” e la leggenda vuole che Pitagora fosse figlio
del dio Apollo pizio o del dio Mercurio - non sappiamo altro dalle fonti piu
antiche se non che Pitagora, figlio di Mnesarco, nativo di Samo, si sarebbe
occupato di una quantità di studi," (Lct&I Lct't'ct -- Eraclito) - e
che quindi sarebbe stato spinto da un largo desiderio di sapere. Forse di qui
la fama di Pitagora, “l’annunciatore dell’apollo pizio,” che per primo usa il
termine ‘filo-sofo’, desideroso, “filos,” appunto, “di sapienza,” sofia – o
sapiente dell’amore? -- che sostenne l'immortalità dell'anima e forse la tras-migrazione
delle anime, che, giunto a Crotone, fonda una conventicola politico-religiosa.
Obbiettivamente non basta l'accenno di Eraclito ai molti mathemata per indurre
che Pitagora interpreta il tutto in termini numerici, che per Pitagora le cose sono
numeri, né può bastare per far risalire a Pitagora una teoria fisica. Si pensi,
comunque, anche al fatto che il termine “~&-rj(.Lot”, che c'è in Eraclito
(fr. 41), significa solo studio, apprendimento, e che nelle fonti antiche, riferentisi
a Pitagora, mai troviamo il termine “numero” (&.pL&(.L6t;). Il termine “numero”
lo si trova, invece, in alcuni frammenti di Filolao. Orbene, una tradizione
riferisce che e Filolao a divulgare la sapienza di Pitagora, tradendo quello
che è stato detto il "silenzio pitagorico,” cioè, l'assunto che la setta
doveva mantenere il segreto sull’inziazione. Solo che altra tradizione
riferisce anche che il silenzio sarebbe stato rotto da Ippaso, filosofo piu
antico di Filolao, da Archippo, da Liside, e cosi via. E costruita nei questi circoli
la leggenda di Pitagora uomo divino, già Eraclide elabora la leggenda delle re-incarnazioni
di Pitagora; e ben si conosce l'austerità dei filosofi pitagorici, austerità che
ci è testimoniata da Isocrate. Dunque l'interesse accresciuto per la scuola di
Crotone (o Crotona) suscita il desiderio di conoscere quale era stata la storia
di Pitagora. Si scoprono nomi, si conoscono accadimenti, ma non si scoprono
saggi di filosofi pitagorici anteriori a Filolao. La leggenda del silenzio
pitagorico nasce cosi, e -cosi nasce l'accusa mossa a Filolao e poi ad altri di
aver violato il segreto pitagorico (Maddalena, “I pitagorici,” Bari). Aristotele,
poi, sostiene che al tempo degli atomisti, quelli che sono chiamati pitagorici
si dedicano allo studio delle matematiche e lo fecero progredire. I scolastici
di Crotone, dunque, nutriti nello studio delle matematiche, credeno che i principii
delle matematiche sono i principii delle cose (Metaf.). Evidentemente, qui
Aristotele si riferisce proprio a Filolao e all’italiano Archita, della famosa
colomba mecanica. Dunque la scuola di Crotone, fondato sulla scienza dei numeri
e della geometria, dei numeri interi prima, degl'irrazionali poi, attraverso
l'influenza di Teeteto e di Teodoro, e in effetto posteriore a Pitagora e ai
primi immediati suoi discepoli. Ma forse un altro passo di Aristotele può
chiarire il complesso problema. Aristotele, accanto ai pitagorici aritmetici,
ne pone altri. Altri pitagorici però dicono che dieci sono i principii,
ordinati in serie: limite/illimitato, dispari/pari, uno/molteplice,
destroy/sinistro, maschio/femmina, in-quiete/in-movimento, diritto/ricurvo,
luce/tenebra, bene/male, quadrato/rettangolo. In modo simile pare che pensasse
anche Alcmeone di Crotone, sia che apprese questo da loro, sia ch'essi l'abbiano
appreso da lui (Metaf.). ALCMEONE, medico della scuola di Crotone, vive circa
al tempo in cui a Crotone e Pitagora. A Pitagora, dunque, si puo far risalire
il motivo delle opposizioni, delle cose vedute come determinantisi e quindi
opponentisi. Forse di qui è nata la fama di Pitagora discepolo, nell’lonia, di
Anassimandro e di Anassimene. Discepolo o meno, certo nell’Ionia Pitagora
conosce gli studi (!Lot&~!Lot't'cx) di Anassimandro e la sua visione
geometrica della realtà scandentesi nel ritmo dei limiti e delle compensazioni
entro la linea dell'indeterminato illimitato. Dalla materia indefinita, pura
quantità, incomprensibile se non determinata, limitata e qualificata, cioè
numerata, onde dal numerare si costituiscono le cose stesse, il passo e breve,
come facile è l'affermazione che, dunque, le cose sono numeri. Probabilmente
tale e la tesi dei primi discepoli di Pitagora, anche se non cosi esplicita.
Piu tardi, sia da Parmenide di Velia sia, per altro verso, d’Eraclito, tale
tesi della realtà scandentesi nei contrari, e aspramente criticata, soprattutto
per l'implicita opposizione contraddittoria di ciascuna unità (uno per sé) alle
altre unità (molti per sé). In Filolao si trova la tesi famosa dell'armonia dei
contrari, del pari e del dispari che si costituiscono dall'uno-parimpari e,
sottesa, una discussione serrata nei confronti di Parmenide, ed è probabilmente
con Filolao che l'oggetto dei “!LCX~!LCX't'cx” pitagorici divenneno il numero,
“cìp~&!Lo(“, mentre nei primi pitagorici e ancora il contorni di una cose,
il di-segno, costituito di punti. Si venne cosi a delineare già nella scuola di
Crotona due momenti storicamente determinabili. Uno originario, del tempo di
Pitagora, in cui il tipo di indagine è vicino a quello di Anassimandro e di
Anassimene. Un secondo che, dopo Parmenide di Velia, si delinea in un senso piu
strettamente matematico e musicale, che però spiega come i suoi sostenitori
(Filolao ed ARCHITA DI TARANTO) puossono proclamarsi “pitagorici,” recuperando
certi “!L«&~!LCX't'CX” di Pitagora. Piu complicato ancora è stabilire storicamente
l'aspetto religioso-magico di Pitagora, l'effettiva consistenza della setta
d'iniziati che fonda a Crotone, i suoi rapporti da una lato con gli sciamani e
il leggendario Abari, sciamano venuto dal nord (Dodds, “I greci e
l'irrazionale”, Firenze, pp. 171 sgg.), dall'altro lato con ALCMEONE e la
scuola medica di Crotone. Ancora durante il suo soggiorno in l’Ionia, Pitagora
e famoso per la sua multi-scienza, ma anche per il suo atteggiamento di uomo
attraverso cui parla il divino, per il suo atteggiamento magico-religioso. Si
dice che tale suo fascino suscita nell’Ionia meraviglia e forse anche
diffidenza (M. Timpanaro-Cardini, “Pitagorici; test. e framm.,” I, Firenze, p.
4) ed si sostenne che Pitagora e un aristocratico che si trova in contrasto con
il mondo ionico e milesio, razionalista e teso ormai a spiegare i fenomeni coi
fenomeni (O. Gigon, “Der Ursprung d. griechischen Philos. von Hesiod bis
Parmenides”, Basilea). È questa un'ipotesi plausibile, che da un lato spiega il
contrasto con Policrate di Samo, tiranno, democratico, circondato da una corte
lussuosa, e dall'altro l'accoglienza data a Pitagora in Crotone, governata
aristocraticamente, in lotta contro Sibari liberale e democratica. Sempre in
via ipotetica, si puo dire allora che certi atteggiamenti religiosi e magici Pitagora
benissimo accolta durante i suoi viaggi in Egitto e poi a Creta. Cosi il motivo
dell'immortalità dell'anima l’accolta dal dionisismo trace e cretese, dal
demetrismo di Creta, trasformando quelle che erano credenze agrarie, e che
oramai avevano assunto nelle città dell’Italia forme politico-religiose, in una
incantagione di tipo medico quali trova tra i medici incantatori e sacerdoti
egiziani e soprattutto tra i medici della scuola di Crotone. Di qui, forse, e
nata poi la fama di Pitagora discepolo del cosiddetto orfico Ferecide di Siro,
e la leggenda che Pitagora, giunto a Creta, scese nell'antro dell'ida, apprenne
nei misteri le cose riguardanti gli dèi. Parte poi per Crotone (Pap. Herc.).
Cosi non sembra un caso che la'leggenda già nota a Platone (“Carmide”) abbia
fatto di Zalmosside, presunto discepolo di Pitagora, un medico che, accanto
alla pozione o all'erba curativa, pronuncia un discorso incantatore, ch'era
tipica pratica dei medici della scuola di Crotone, tra cui non va dimenticato
che v'e ALCMEONE che e pitagorico, o, forse, viceversa, influenza i primi
pitagorici. Ora, la. tesi ionica dei contrari, dei limiti e della
compensazione, può essere propria anche di Pitagora, può spiegare, rifacendoci
in particolare al motivo dell'aria o respiro di Anassimene, la testimonianza di
Aristotele, secondo cui certi pitagorici ritennero che esiste il vuoto e che il
vuoto entra nell'universo, in quanto l'universo respira dall'infinito, o
“apeiron”, il respiro e il vuoto. Il vuoto, si dice, distingue le nature,
essendo una specie di separazione e di distinzione delle cose consecutive (“Fisica”).
Poiché la tesi dell'universo che respira ed è respiro è criticata in un
frammento di Senofane (fr. 7: cfr. Diogene Laerzio), non del tutto aleatoria è
l'ipotesi che il respiro dell'universo sia proprio del primissimo pitagorismo.
La vita del tutto si scandisce, dunque, nel ritmo dei contrari per la forza
della respirazione, di due moti contrari, emissione ed immissione, costituenti
l'armonia del tutto, d'onde quella che e la cosmologia della scuola di Pitagora.
La vita risulta quindi dall'equilibrio della respirazione, dal soffio vitale (anima).
L'anima è, quindi, presente a tutto e per ciò, nell'uomo, il venir meno
dell'equilibrio, della compensazione è malattia e poi morte dei singoli, non
del respiro che ri-vive in chi vive. Per questo, l’uomo muoe, perché non puo ricongiungere il principio con
la fine, si legge in un frammento di Alcmeone di Crotone. Qui, forse, anche il
motivo pitagorico dell'immortalità dell'anima e della trasmigrazione, è terapeuticamente
la cura del corpo che non può non essere accompagnata dalla cura dell'anima. E
come il corpo si cura ristabilendo l'equilibrio, cosi l'anima si cura ristabilendo
l'equilibrio, purgandola, purificandola mediante un apprendimento, mediante un’incantagione.
E se l’insegnamento consiste nell'iniziazione alla visione dei contrari e del
respirante cosmo, l’incantagione si dove a un discorso e alla musica. Il
sodalizio di Pitagora a Crotone si delinea come una specie di scuola medica, in
cui se da un lato il maestro inizia ai “mathemata” putificatori, dall'atro,
mediante una dieta, a prescrizione di cibi (fave, carni, ecc.), austerità di
vita, tende alla cura dell'anima, a far si che l'uomo scande la propria vita
all'unisono con la vita del cosmo. Senza dubbio vecchie credenze popolari,
certi aspetti del dionisismo e dei misteri cretesi, certi tabu,
ricongiungendosi a tradizioni apollinee, sirveno benissimo a costituire questa vita
pitagorica che in altri tempi, per altre esigenze assume ben diversi
significati. Si venne cosi a costituire, probabilmente fin dal tempo di Pitagora,
tutto un complesso di norme dietetico-religiose, un sodalizio purificatorio, in
cui, secondo il racconto di Dicearco (Porfirio, Vita di P.), che fossero
ammessi ad ascoltare il verbo del maestro, la verità (“autòs épha”, “ipse dixit”)
e a far parte del sodalizio uomini e ove, fin dai primi tempi si ha la celebre
distinzione tra acusmatici o acustici -- coloro che dovevano solo ascoltare --
e matematici, coloro che si iniziavano agli studi veri e propri e che furono
probabilmente i continuatori dell'insegnamento scientifico del maestro. A
Pitagora, dunque, si possa far risalire la visione del cosmo scandentesi nei
dieci contrari (da cui poi prese le mosse la concezione aritmo-geometrica e
musicale) e vivente del respiro (da cui la cosmologia); la concezione
dell'immortalità dell'anima e della presenza dell'anima là dove sono esseri (e
forse a questo allude il celebre frammento di Senofane, per cui l'immortalità
dell'anima e la tra-smigrazione si è fatta risalire ai primi pitagorici. Si
narra che una volta, passando per dove maltrattavano un cagnolino, Pitagora
impietosito pronunziasse, ‘Smetti di battere, poiché è certo l'anima di un mio
amico: l'ho riconosciuto udendone la voce!’; la cura medico-incantatrice
dell'anima, ove sono presenti tradizioni magiche antiche, vive soprattutto in l'Italia,
e tradizioni agrarie e mistiche che probabilmente proprio allora si costituisce
in quelle associazioni che avranno poi il nome di orfiche e che giuocano in
senso politico nelle ultime lotte dall’aristocrazia. Ed è qui che sia pure in
via ipotetica - s'in- serisc~ il fatto che a Crotone, in un primo tempo, e accolto
con entusiasmo l'insegnamento morale, equilibratore e GERARCHICO, di Pitagora
dai circoli aristocratici che hanno in mano il potere quando Pitagora giunse a
Crotone. Secondo la tradizione, la setta pitagorica e poi ostacolata e
combattuta sia dagli aristocratici - essa, in fondo, dovette rivelarsi piu
vicina alla latta condotta dai democratici in nome di una misura e di una legge
che non fosse obbligatoria solo perché data dagli antichi signori che unici
hanno in mano il potere. E non è forse un caso che si dice che a Pitagora si
siano ispirati i legislatori Zaleuco di Locri e CARONDA DI CATANI, sia dai
primi movimenti democratici che videro forse nella setta pitagorica un'eccessiva
chiusura aristocratico-sacerdotale. La leggenda narra che l'aristocratico CILONE
DI CROTONE, fattosi interprete dei malcontenti contro il sodalizio di Crotone,
che ha sede nella casa di Milone, assalta, insieme a molti altri, la casa,
ov'erano riuniti i pitagorici, e l’incendia. Si dice che sfuggirono alla morte
Archippo e Liside. Liside si rifugia a Tebe dove sembra fonda un circolo
pitagorico. Certo a Tebe fiorirono piu tardi Filolao e poi Simmia e Cebete, i
famosi interlocutori pitagorici del “Fedone” di Platone. Archippo si rifugia a
Taranto, ove prosegue l'opera del maestro. Di Taranto e il pitagorico ARCHITA, amico
di Platone. Quanto a Pitagora vi sono due versioni, l'una risalente a Dicearco
(Wehrli), l'altra ad Aristosseno. Secondo la versione di Dicearco, prima
dell'esplosione violenta dei Ciloniani che porta all'incendio della casa di
Milone, Cilone fa allontanare Pitagora da Crotone. Pitagora si recato a Metaponto
dove e morto ancor prima dell'incendio. Secondo la versione di Aristosseno (
Wehrli), Pitagora sarebbe sfuggito al massacro, perché non era presente.
Fuggito a Locri poi passa a TARANTO per andare, infine, a Metaponto dove e morto,
probabilmente (cfr. Porfirio, Vita Pit.). Data l'indefinitezza della figura
storica di Pitagora e del suo insegnamento, e opportuno delineare solo certe suggestioni
la cui origine si possa effettivamente far risalire a Pitagora, suggestioni che
hanno dato luogo a motivi molteplici e a interpretazioni che si son delineate
su vie diverse (la via della legislazione, dell'aritmetica, della mistica, del
SIMBOLO, della medicina), e che hanno profondamente inciso, per un verso o per
l'altro, a seconda di certe esigenze o di altre, sulla cultura italica.
costituendo, nella circolazione delle idee, componenti molteplici, sia nel mondo
italico. Si può dire che i primi pitagorici, quelli che Aristotele avvicina ad
ALCMEONE DI CROTONE, sono quei pitagorici che stabiliseno le dieci serie di
opposti. Sono gli scolari di Pitagora o i discepoli piu vicini al maestro i
quali pensano si al numero come rapporto e armonia, ma tra i componenti
dell'armonia poneno oltre tutti gli opposti, anche l'uno e il molteplice. Ma
come potevano accordarsi l'uno e il molteplice? (E. Paci, St. d. pensiero
presocratico, Torino). Proprio questo disaccordo o opposizione, tra l'uno da un
lato e il molteplice dall'altro, impegna la discussione d’Eraclito, mentre, per
altro verso, imposta la polemica di Parmenide di Velia. Certo di numeri nel *senso*
matematico della parola non troviamo accenno nei primi pitagorici, se non piu
tardi con Filolao. Nei primi pitagorici si tratta nell'esigenza di definire la
quantità indefinite, il contorno di una cose, di un di-segno, costituito di
punti. In altri termini, i pitagorici scoprono, attraverso quanto, mediante
Pitagora, e pervenuto dalla geometrizzazione di Anassimandro, che “intendere”
significa “misurare”, e “de-finire, appunto di-segnare. E poiché il ‘di-segno’,
lo schema, sotto questo aspetto la forma, la de-limitazione è linea. Un piano e
un insieme di line. Un solido e un insieme di piani. Una linea e un insieme di
punti. Si puo dire che ciò, senza di cui nulla è, e il punto, e che, dunque, la
qualificazione, l'intelligenza delle cose è dovuta al punto stesso e alla variazioni
spaziali dei punti, onde una figura e una schema, la cosa, e pure, numeri. Ciò
che rende conto della realtà stessa, delle cose, e la misura. Ora, se l'unità è
il *punto*, si capisce come l'unità sia unita accanto ad altre unità. Di qui
l'opposizione uno/molti, e, nella configurazione della cosa-punti, le
opposizioni pari/dispari, limitato/illimitato, destroy/sinistro,
maschio/femmina, quiete/movimento, diritto/ricurvo, quadrato/rettangolo. E
poiché il dis-pari è in-divisibile, e cioè riferibile all'unità, il dispari e
anche bene e luce, mentre, all'opposto, poiché il pari è divisibile, riferibile
alla molteplicità, il pari r anche *male* e tenebre. Nella tavola pitagorica
delle opposizioni, abbiamo cosi una figura-punti dispari e una figura-punti
pari, che, se vengono ra-ffigurati, come sembra facessero i primi pitagorici,
con una squadra (gnomone), si de-terminano in modo che i lati della squadra
resultino uguali nei dispari, mentre nei pari i lati resultano disuguali, e
quindi mentre i primi sono sempre rapportabili all'unità, i secondi sono
rapportabili alla molteplicità. Il quadrato a costituito di gnomoni dispari, il
rettangolo di gnomoni pari, per cui il *quadrato è unità*, il rettangolo molteplicità,
e via di seguito. Si puo cosi parlare di un numero quadrato e di un numeri
oblungo, ed è probabilmente entro questi termini che assume significato la
famosa uaternaria pitagorica, sulla quale, si è detto poi, i pitagorici giurano,
dato il suo valore sacro. Il suo valore sacro deriva dal fatto che la
rappresentazione geometrica della quaternaria è costituita da 10 punti messi in
forma di triangolo avente quattro punti per lato, la cui somma 1 + 2 + 3 + 4 è
uguale a 10. La quaternaria costitusce il numero perfetto, poiché racchiude in
sé i numeri delle TRE proporzioni musicali (proporzione ottava 2:l, proporzione
quinta 3:2, proporzione quarta 4:3), delle quattro specie di enti geometrici --
punto = l; linea = 2; superfice = 3; solido = 4) cioè di ogni cosa (cfr.
Mondolfo-Zeller, “La filosofia dei greci nel suo sviluppo storico” Firenze). E
questa un'interpretazione piu tarda. Unità-molteplicità resta, dunque,
l'opposizione fondamentale. Compresa l'unità, la misura, l'armonia, rimane
incompresa la molteplicità, la dis-armonia: il calcolabile (razionale) e
l'incalcolabile (irrazionale, incommensurabile). Oppure gli uni rimaneno
accanto agli uni e, dunque, ai molti dell'indefinito spazio (quantità), che fu
forse il respiro di cui, sembra, parla Pitagora, o il vuoto cui accenna
Aristotele. Solo che l'indefinito, de-finendosi, è un insieme di punti, è il contorno
di cose che tuttavia si scandisce come pari e dispari, come infinito e finito,
come comprensibile e incomprensibile, il tutto vivente dell'infinito (respiro),
e quindi esso stesso, perché indefinito, incomprensibile, irrazionale. Di qui prende
le mosse la critica di Parmenide di Velia, che, senza dubbio, ha rapporti coi
primi pitagorici, anche se può essere leggendario ch'egli sia stato avviato
alla filosofia, come dice Diogene Laerzio, da Aminia, figlio di Diocete,
pitagorico. Ma di qui, crediamo, anche le due facce dello stesso Pitagora, da
un lato volto ai “mathémata”, alla geometrizzazione, alle tecniche, e dall'altro
al silenzio, alla via sacerdotale, come si dirà piu tardi, che coglie, come in
un'iniziazione, di là dall'opposizione del finito e dell'infinito, del pari e
del dispari, il divino respiro del tutto, la suprema armonia. Da questo,
comunque, discende anche il significato medico dell'insegnamento di Pitagora e
dei primi pitagorici, come particolarmente si rileva in ALCMEONE DI CROTONE,
che se anche si accosta a Pitagora avendo già una sua certa formazione di origine
milesia, poteva sopratutto attraverso il motivo dei contrari e dell'equilibrio,
lui medico, accettare parte dell'insegnamento pitagorico. Come alla fisica
ionica si ricollega probabilmente la primitiva dualità pitagorica apeiron/péras,
cosi da quella stessa fisica trae verosimilmente Alcmeone alcune opposizioni:
umido/asciutto, caldo/freddo, amaro/dolce, le cui potenze constata nella
pratica della medicina, e che introduce in questa corrente pitagorica (M.
Timpanaro-Cardini). Dice cosi Alcmeone che la salute si mantenne
dall'equilibrio delle forze, dell'umido, del freddo, del caldo, dell'amaro, del
dolce e cosi via, mentre il dominio di un solo provoca la malattia (fr. 4),
onde l’uomo muoie perché non puo ricongiungere il principio con la fine (fr.
2). E cosi non è un caso che medici e pitagorici siano stati anche CALLIFONTE e
DEMODENE DI CROTONE, e poi di Taranto, medico e maestro di GINNASTICA. Ed è probabilmente entro questa cerchia di
interessi e di problemi, anche se discussa n'è la datazione, che rientra
l'anonimo trattatello cosmologico-medico “Sul numero sette” (m:pl
~~3otJ.Ii3(1)v), i cui primi undici capitoli (forse piu antichi) descrivono il
dominio del numero sette nell'universo, mentre i capitoli ultimi discutono le
malattie partendo dalla premessa che gli animali e le piante che vivono sulla
terra hanno una natura simile a quella del cosmo, i piu piccoli come i piu
grandi. A parte Pitagora, maestro e medico, nei primi pitagorici sembra abbiano
prevalso, entro la visione totale di Pitagora, interessi piu particolari e
tecnici, o per la medicina, o per la traduzione di una cosa in punto-figura,
dai quali si venne poi formando quella
che sarà la cosmologia pitagorica (come può darsi sia il caso di Petrone
d'Imera che ha una visione del cosmo in forma triangolare; o di Cercope, o di
Brotino, o di Xuto, di cui in effetto non sappiamo quasi niente); o per la
mnemotecnica (Parone) o la botanica (Menestore). Esclusi dalla scienza segreta,
gli acusmatici con a capo Ippaso di Metaponto si ribellano contro i matematici,
divenendo tali essi stessi, o meglio Ippaso, uno dei maggiori matematici del
primo pitagorismo, egli che divulga il dodecaedro, iniziando le ricerche
sugl'irrazionali.o incommensurabili, poi
proseguite da Teodoro e da Teeteto. Di fatto, le testimonianze su di lui sono
molto discordanti e in discussione è anche il periodo storico in cui sarebbe
vissuto. Ssecondo E. Frank, Plato u. die sogenannten Pyth., Halle, e quasi
contemporaneo di Archita. Per quanto possiamo ricavare su Ippaso dalle
testimonianze (tutte molto tarde, aristoteliche, post-aristoteliche e neo-platoniche)
sappiamo ch'egli trova gl'irrazionali in geometria, il medio armonico in aritmetica
(di qui l'avvicinamento ad Archita), gl'intervalli sin-foni in musica, la tesi
dei periodi cosmici e del tutto costituito dal fuoco, per cui già in antico è
stato avvicinato ad Eraclito (cfr. Waerden, in "Hermes,"; M. Timpanaro).
La circolazione delle idee Epicarmo, commediografo, nato forse a Cos,
nell'Ionia, o a Megara Sicula, vissuto fin da bambino nella Isola di SCILIA e
particolarmente a SIRACUSA, alla corte di Gelone e di Gerone, ove, sembra,
conosceSenofane, ha, per i frammenti che di lui ci sono rimasti, pochi
purtroppo, mportanza notevole come fonte. C'è chi in EPICARNO ha rintracciato
motivi eraclitei, chi ha individuato motivi del primo pitagorismo
(l'opposizione di pari e dispari: particolarmente interessante il fatto che,
parlando di tale opposizione, per dire cosa siano le unità e il cangiamento
delle cose, Epicarmo, sosteenne che si tratta di aggiungere o togliere
pietruzze -, - ossia i punti), chi ancora parladi chiari influssi senofanei. Originario
di Cos, nell'Ionia, o di Megara Sicula, vissuto a Siracusa, fin da bambino,
alla corte di Gelone e di Gerone, Epicarmo e il primo grande poeta della
commedia dorico-siciliana. Si son conservati di lui un trecento frammenti e
molti titoli, da cui si ricava che nelle sue commedie mette in parodia la
mitologia (“Ulisse disertore”, Ciclope, Sirene, Ulisse naufrago), o si diletta
di rappresentare figurine umane, tipizzandone i caratteri (Il contadino, Il
megarese]. Isolando l'uno o l'altro motivo si cerca di delineare ora uno ora
altro sistema filosofico di Epicarmo. Piuttosto che andar rintracdando una filosofia
di Epicarmo, ciò che sembra importante è, da un lato, sottolineare il
significato che hanno i suoi frammenti per stailire certi motivi propri del
primo pitagorismo, ma soprattutto, dall'altro lato, per rendersi conto di come
circolasno le idee e di come tali idee dovessero far presa ed essere discusse
non in un certo ristretto mondo di intellettualima in piu vasti strati,
costituendo una vera e propria atmosfera culturale. Non va scordato, a questo
proposito, che Epicarmo e un commediografo, probabilmente uno dei primissimi.
Sappiamo che la commedia (il canto del xé;l!Lot;, della festa orgiastica) come
la tragedia (il canto dei <tpciy(l)v, dei capri) hanno origine da feste e
riti collegati con il culto di Dioniso, e che il dionisismo e all'inizio,
religione essenzialmente agraria, poi popolare nelle p6leis, e che via via s'imposne
con la caduta dell’aristocrazie. La commedia sempre mantene il suo carattere
popolare e, almeno piu tardi, popolare e politico, tanto che in effetto non
poté mantenersi che in Atene democratica, ivi compreso il caso limite del
conservatore Aristofane che, appunto, liberamente pone sulla scena la sua
polemica politica contro gli uomini nuovi e i filosofi rivoluzionari. Probabilmente
Epicarmo è il primo. Non senza interesse è che Platone (“Teeteto”) dica che nel
genere della commedia Epicarmo è degno di stare a pari con Omero ad avere
collegato e ahicolato in commedia vera e propria quelli che originariamente
sono canti fallici e parodie popolari di miti distaccati gli uni dagli altri.
Ora, proprio il fatto che Epicarmo scrive commedie e che, dunque, si rivolge a
un certo pubblico, usando una certa tecnica di discorso, porta a pensare che
quelli che distaccati dai contesti (che non abbiamo piu) sembrano possibili
"sistemi " autonomi, dovevano essere in effetto motivi comprensibili
a tutti, rispondenti anche se presi in giro a esigenze e problemi diffusi in un
piu largo mondo. Sotto questo aspetto e per quel poco che di lui ci è rimasto,
Epicarmo non fu né pitagorico né eracliteo né senofaneo. In lu, pitagorismo, motivi eraclitei e senofanei
stanno a denunciare un intrecciarsi di problemi e di interessi, in una
riflessione consapevole, da un lato sulle tecniche per rendersi conto di
fenomeni su cui operare, indipendentemente da ogni racconto della realtà,
dall'altro lato sui metodi con cui intendere quella realtà stessa entro cui
l'uomo vive, l'uomo stesso realtà, in città politicamente agitate e in via di
assestamento, ove la misura, frutto di faticosa riflessione, la misura senofanea
o lo misura eraclitea o quella pitagorica, la comprensione della natura e del
metodo che può rivelare quella stessa natura ordinate (“cosmica”) puo dar luogo
a misura cittadina, onde cosmo politico e politica cosmica finino con
l'identificarsi, e dare un significato all'opera dei legislatori, di contro
alla legge di prima la cui obbligatorietà riposa sulla antichità della legge
dettata dai primi conquistatori, assurti a demoni, i cui discendenti, discendenti
di dèi, hanno in mano i poteri politici, formando l’aristocrazia. Di qui la
polemica di Senofane contro l'antropomorfismo degli dèi di Omero e contro le
genealogie di Esiodo, di qui l'esclamazione di Eraclito che demone all'uomo e
il logos a tutti comune, che è poi il logos che il tutto governa. Non sembra
cosi senza interesse ricordare che le nuove esigenze culturali, il fervore di
queste ricerche, le indagini tecniche, i tentativi di spiegarsi i fenomeni,
l'esigenza di rintracciare quale sia la via (636t;) esatta per queste ricerche
stesse, si siano avute nelle colonie ioniche e in quelle della Màgna Grecia
nell’Italia meridionale, ove si intrecciàno anche con certe conclusioni dei
culti dionisiaci, prima che nella propria Grecia. Qui assumono significato e
sono oggetto di discussione pio tardi e in Atene democratica, al tempo di
Pericle, quando oramai le città della lonia asiatica erano state assorbite
dall'impero persiano e nelle città della Magna Grecia nell’Italia meridionale e
in Sicilia i legislatori o i primi signori si erano trasformati in tiranni. Non
sembra, dunque, senza importanza che a Epicarmo si puo accostare Senofane e
Pitagora ed Eraclito. E ciò non tanto per Senofane, Pitagora, Eraclito presi in
sé, in quella che e la loro coerenza (è vero anche che dei motivi eraclitei in
Epicarmo si può a ragione dubitare), quanto per il fatto che sia nella lonia
sia nelle colonie d'Occidente si rivele una comune situazione storica e
politica che implica una comune e diffusa esigenza volta, dicevamo, al ritrovamento
di tecniche e alla comprensione della realtà, di quello che è l'ordine del
tutto. Particolarmente indicativo e in questo senso ricordare che quasi in
questi stessi anni, in Atene in crisi, ed in via di rinnovamento dopo le guerre
persiane, Eschilo, nel “Prometeo”, fa dire a Prometeo, che ha trovato cosi
preziose invenzioni (!L1Jl«v/jfL«T«) in vantaggio dei mortali (v. 469). Gli
uomini sono inetti prima che la chiarezza di spirito e dominio della mente a
loro desi. Gli uomini in passato, pur vedendo, invano vedeno, e udendo udeno,
ma simili a fantasmi di sogno nella loro lunga vita confusamente e a caso ogni
azione compiano. Non conoscevano un sicuro SEGNO per presagir l'inverno o la
fiorente primavera, ma senza conoscenza (')'VW!L1)) alcuna regolavano ogni
azione. Ma finalmente a loro il sorgere degli astri rivelai e il tramonto si
difficile a scernere. Inoltre il numero, somma di ogni invenzione (l~o:x,ov
aocpLa!LiiT(I)V), trova per essi, e le
combinazioni delle lettere, costruttrice memoria di ogni cosa, madre dele Muse (vv.
442-461, trad. Untersteiner) Naturalmente qui non interessano per ora quali
potevano essere le conclusioni, anche su di un piano politico, di tali
ricerche, ma interessa sottolineare tutti questi motivi che rendono conto di
come storicamente, in certi ambienti e in certe situazioni, si delineano certi
problemi che dettero luogo a certe concezioni della realtà e della vita. Ed è
appunto entro questi termini che sembra assumere il suo valore, nella polemica
contro i pitagorici, e forse anche contro Eraclito, la ricerca della via,
dell'unica via (636ç), o metodo di Parmenide di VELIA. Può darsi che Parmenide,
cittadino di Elea, colonia focese sulla costa della Campania, (tali date sono pura- [2 Platone, all'inizio
del “Parmenide”, narra che una volta durante le grandi Panatcnee, Parmenide e
Zenone vennero ad Atene e si incontrarono con Socrate, allora giovanissimo,
mentre Parmenide era già molto innanzi negli anni. Aveva circa sessantacinque
anni. Calcolando sulle indicazioni di Platone si potrebbe dire che Socrate
giovanissimo poteva avere allora sui diciotto anni. L’incontro tra Parmenide e
Socratc potrebbe essere avvenuto nel 452 circa, per cui Parmenide dovrebbe
essere nato nel 517 o anche nel 520 o 522, ché in effetto Platone non precisa
esattamente i sessantacinque anni (cfr. anche Teeteto e Sofista). Probabilmente
Diogene Laerzio desumeva la sua cronologia d’Apollodoro e dalla tradizione che
s'era sforzata di far coincidere le date di Parmenide con quelle di Eraclito e
di Senofane (Diogene). Della sua vita sappiamo pochissimo. Sembra che si occupa
di politica e che ordina la propria patria, Velia, con ottime leggi (Plutarco, Adv.
Colot.). Anche il poema di Parmenide va sotto il titolo “Intorno alla Natura”
(sembra si dividesse in due nette parti, la prima intitolata la vmta, la
seconda l'opinione). Ne sono rimasti in tutto !58 versi. 41 mente
indicative), abbia risentito e discusso il motivo senofaneo dell'uno che tutto
comprende, ch'è tutto mente, o viceversa che sia Senofane ad aver fatto tesoro
dell'unica via di Parmenide. Può darsi che Parmenide discuta Eraclito e
polemizzi contro le opposizioni di lui, o, piu facilmente, con l'opposizione
unità-molteplicità, che implica nell'opposizione stessa di piu esseri il non
essere, dei primi pitagorici. Può darsi infine che proprio dall'insegnamento e
dalla problematica dei pitagorici -- si dice che Parmenide fosse stato iniziato
alla ricerca e al sapere da Aminia pitagorico -- sia sorto in Parmenide il
problema di quale sia la via che rende possibile il sapere e comprensibile il
reale. Certo le testimonianze sono molto incerte e, a seconda della presa di
posizione dell'uno o dell'altro testimone, si è puntato su uno o altro dei
motivi parmenidei, facendo risalire a una o altra fonte, colorendo quindi di
una o altra tinta quello che fu il pensiero di Parmenide. Proprio questo,
tuttavia, può essere indice di come Parmenide, piu che sviluppare o portare a
estreme conseguenze un certo "sistema," in effetto cerca, nella
molteplice e diffusa discussione intorno alle possibilità del sapere, nella
diffusa esigenza di come rendersi conto di quelle che sono le strutture che
rendono intelligibile e comprensibile la realtà, d'inserire il proprio punto di
vista, sçaturito dal discutere e l'una e l'altra delle posizioni. Alcuni frammenti
che possediamo del suo poema (in tutto 158 versi, inseriti e citati in testi
piu tardi) conforta questa ipotesi di un Parmenide calato in un preciso
ambiente ove si dibatte, appunto, la questione dell'intelligibilità del reale.
Cosi in tal senso, sembrano suonare le seguenti parole. Col solo pensierò
esamina e decidi la molto dibattuta questione (fr. 7, v. 5); ma ora devi
imparare ogni cosa e il cuore che non trema della ben rotonda verità e le
opinioni dei mortali, in cui non è vera certezza. La molto dibattuta questione e
"ora devi imparare - cioè renderti conto - di come siano possibili le
opinioni dei mortali," sono due espressioni molto precise che sembrano
indicare da un lato come il problema di Parmenide nasca da un dibattito su
questioni che stano a cuore e rispondevano a esigenze diffuse, e, dall'altro
lato, come sia possibile, giunti a trovar la via che rende possibile il sapere,
comprendere come sorgano le opinioni, ché, infine, di opinione (36~ac) si può
parlare, finché non si sappia la verità (&>..of)&tLcc). Sembra
lecito allora supporre che la sentenza di Parmenide (pare che il poema fosse
piuttosto breve) venga alla fine di un lungo dibattito, di una ricerca che,
scartando via via tutte le possibili vie, perché contraddittorie, trova l'unica
via, unica perché non contraddittoria, su cui, dunque, si fonda l'unico sapere
e di conseguenza la verità, "ben rotonda," appunto, e che non "trema,"
perché non contraddittoria, e, per ciò, essa stessa unica. 'Col solo pensiero
esamina e decidi la molto dibattuta questione. Abbiamo qui il punto su cui
Parmenide impernia l'impostazione che rende valida la ricerca senza di cui non
è possibile fondare un sapere verace e, a sua volta, la verosimiglianza delle
opinioni intorno alla natura. Ora, può essere interessante sottolineare che il
proemio (ne sono rimasti 32 versi e forse è intero) del poema, che a sua volta
nettamente si divide in due parti (la verità, di cui leggiamo abbastanza; l’opinione,
di cui non leggiamo che pochi frammenti), piu che con un volo poetico che
rivelerebbe, com'è stato detto, l'entusiasmo dello scopritore, si apra con una
serie di luoghi, di tapoi, lasciti di un comune modo di parlare, anche
popolare, che evocano l'intento di Parmenide. LE CAVALLE CHE MI PORTANO fin
dove vuole il mio cuore, anche ora mi condussero via, dopo che le dee mi ebbero
[guidato sulla via molto famosa, che per ogni città porta l'uomo che [possiede
il sapere (fr. l, vv. 1-3). Basti qui ricordare che, secondo Aezio (Plac.), per
Parmenide sede della ragione (dell'egemonico, dice Aezio), come atto in cui si
raccoglie il molteplice, è il petto, il cuore, e che il cavallo rappresenta,
fin dai tempi piu remoti, la forza dell'intelligenza e la capacità
dell'apprendere, perché sia facile riconoscere un motivo popolare-evocatore in
quest'attacco del proemio. In altri termini Parmenide dice che la sua naturale
capacità intellettiva - naturale e dunque divina - lo ha condotto fino alla
distinzione Notte e Giorno (ivi guidato dalle vergini Eliadi, le figlie del
sole, ed ecco un altro topo popolare, che affrettavano il corso verso la luce,
liberando il capo dai veli, lo ha condotto cioè fino al punto primo delle
tradizionali distinzioni (da Esiodo ai misteri), all'origine verbale delle
contraddizioni oltre cui è la non contraddittorietà, cioè l’alterità. lvi è la
porta che mette ai sentieri della Notte e del Giorno, e ai due estremi la
chiudono l'architrave e la soglia di pietra c la riempiono, in alto nell'etere,
grandi battenti di cui la Giustizia, che molto punisce, tiene le chiavi dall'alterno
uso. La PORTA ROSSA DI VELIA si apre e benigna la dea accoghe Parmenide, perché
ivi è giunto condotto dalle cavalle (cioè dal retto pensare), onde, appunto, la
dea dice: Non fu un avverso destino a mandarti per questa via (che~ invero
lontana dall'orma [dell'uomo), ma la legge divina, “thémis”, e la giustizia, “dike”,
cioè il giusto pensare, che è via lontana dall'uomo comune (tanto è vero che
Parmenide usa il termine “anthropos” e non “aner”). Ma ora - prosegue la dea -
devi imparare ogni cosa c il cuore che non trema della ben rotonda verità c le
opinioni dei mortali, in cui non ~ vera certezza. Ma tuttavia anche questo
imparerai, come l'apparenza debba configurarsi perché possa veramente apparir
verosimile, penetrando il tutto in tutti i sensi. L'accettare i dati
dell'esperienza, di ciò che appare all'immediatezza dei sensi, implica
molteplicità e dispersione, contraddizione; la definizione dell'indefinito
implica il frantumarsi del reale in unità opposte fra loro, onde accanto alle
cose che sono bisogna porre un non essere. Il pensiero, invece, coglie sé come
discorso (logos), ma discorso che è unitd (mente, nas) ove ogni singolo membro
del discorso si articola all'altro in una continuità che costituisce e
presuppone il tutt'uno, compatto, che è la stessa realtà. Infatti a seconda di
come in ognuno è avvenuta la fusione delle molto erranti membra, cosi la mente
accompagna l'uomo. Poiché lo stesso ~ ciò che pensa - l'intima struttura delle
membra - negli uomini, in tutti e in ognuno. Ché il pensiero ~ ciò che prevale.
E allora quella stessa realtà, che nell'immediatezza sensibile e nella
definizione puntuale appare molteplice e disarticolata, onde si pongono esseri
accanto a esseri e quindi essere accanto a non essere, non appena si colga il
pensiero, che è discorso e unità comprensiva (mente), quella realtà molteplice
è essa stessa unità, cioè pensiero; e illusione il molteplice, il nascere e il
perire, l'opposizione. Ma guarda tuttavia come le cose tra loro distanti sono
invece per opera della mente saldamente unite. Infatti non scinderai l'essere
dalla sua connessione con l'essere, né disgregandolo completamente in ogni sua
parte, seguendo un certo ordine, né concentrandolo in se stesso (fr. 4).
Parmenide punta subito sul pensiero, cioè sul discorso che è mente, ossia
unità, o meglio comprensione totale e compiuta, per cui l'essere non è né un
punto, ove tutto si concentra, né una serie disgregata di punti accanto a punti,
ma totalità. In Parmenide, dunque, non si tratta tanto di un essere che è e di
un non essere che non è, ma di due nostri modi di atteggiarsi di fronte a
un'unica realtà: o si accettano le cose cosi come appaiono all'occhio, ai
sensi, le une accanto alle altre, ritagliate e disarticolate, contraddittorie,
nascenti e morenti; o, di là dall'apparenza fisica, si coglie, mediante la
ragione, la ragion d'essere del tutto, che non è nessuno degli aspetti, ma è
tutti insieme, simultaneamente: e non è mai stato e non sarà mai, perché è Qra
(vuv) tutto insieme, nella sua compiutezza, uno, continuo (“lv auv~:x'<”) o
soltanto nella sua natura un tutto (faTL 3~ 11ouvov oÒÀoq~ué<;), come ha
corretto l'Untersteiner. Le due famose vie di Parmenide (" orsu, io dirò...
quali sono le vie di ricerca che sole son da pensare ") si risolvono in
effetto in una sola via legittima, quella del pensiero, che è l'unica che svela
il reale. Pensare implica sempre pensare qualcosa, cosi come dire implica
sempre dire qualcosa, ché pensare il nulla è non pensare cosi come DIRE IL
NULLA è NON DIRE. Ora se pensare è pensare l'essere (perché il non-essere non
puoi né conoscerlo -.è infatti impossibile, -né esprimerlo, e se il pensare
dunque implica l'essere, lo stesso è pensare (voc!v) ed essere (fr. 3). Per la
parola e il pensiero (vo&:!v) bisogna che l'essere sia: solo esso infatti è
possibile che sia e il nulla non è ; e poiché il pensiero è n~s(vou<;),
mente comprensiva, e 16gw.(},6yo<;), discorso, cioè articolazione della
molte- plicità in una sola unità, e l'essere e il pensare sono la stessa cosa,
l'es- sere è mente, è cioè unità totale, compiuta (finita), circolare. Per
me," dice la dea, "è uguale da qualunque punto cominci: poiché là
tornerò di nuovo". Pensare, dunque, e dire non si può che l'essere, per
cui la via che è e che non è possibile che non sia è la via che, non essendo
contraddittoria, è l'unica che persuade, ed è perciò la via della Verità
("questa è la via della persuasione, poiché segue la verità (fr. 2, v. 4);
mentre l'altro modo di atteggiarsi di fronte alla realtà, quello della
sensibilità, è una via che non è e che è necessario che non sia, e questo è un
sentiero inaccessibile a ogni ricerca (fr. l, vv. 5-6). La conclusione cui la
prima via conduce, e non può non condurre ("e, come era necessario, il
nostro giuizio fu quindi di abbandonare una delle vie, perché impensabile e
innominabile, e infatti non è la strada della verità, e che l'altra è ed è vera,
è che l'essere è e che solo dell'essere si può dire che è, solo è è è. Pensare
l'essere, e non si può non pensare che l'essere, implica che l'essere è finito,
cioè compiuto - ché a lui nulla può mancare, onde l'essere è totalità, ché, se
fosse due o piu di due, tra l'uno e l'altro essere dovremmo ammettere un qualcosa
che distingue e che dunque è diverso dall'essere, cioè il non essere che non è,
per cui l'essere è tutto, ed è simultaneo (" è ora tutto insieme "),
senza origine e senza termine, ché dovrebbe o scaturire dal non-essere o
risolversi nel non-essere (per questo né il nascere né il perire gli concesse
Dike allentando i legami, ma lo tiene ben fermo". L'Essere in quanto
essere non ha né passato né futuro, ed è indivisibile, e poiché ogni parte
dell'essere è essere e non può non essere, l'essere è identico tutto a se
stesso. L'essere, dunque, è immobile ché,. se si muovesse dovrebbe muoversi in
un luogo altro dall'essere, cioè nel non essere che non è. Totale unità, perfetto
e quindi finito, indivisibile, immobile e immutabile, identico a sé, tutto
presente sempre e, dunque, atemporale e aspaziale, tale l'Essere, quale
necessariamente il pensiero può pensarlo senza contraddizione; o, meglio, QUESTI
I SEGNI, crljji4TCX, non contraddittori, tanto è vero che si possono ridurre a
uno solo (a è), e quindi persuasivi, con cui si può IN-DICARE (SEGNARE)
l'Essere. L'Essere, dunque, non si può umanamente che IN-DICARE, tanto è vero
che, alla fine, Parmenide non può non pensare l'Essere che come sfericità
compatta. Esso è compiuto tutto intorno, uguale alla massa di una rotonda
sfera, che dal centro preme in ogni parte con ugual forza giacché· è necessario
che non sia in questo o in quel punto di poco piu grande o piu piccolo. Da ogni
parte identico a se stesso, urta in ugual maniera nei suoi confini. Parmenide
crede cosi di risolvere nell'unità totale dell'Essere la contradditoria
opposizione unità-molteplicità, definito-indefinito dei pitagorici. Non a caso
egli dice. Ti tengo lontano da quella via su cui errano i mortali che niente
sanno, uomini a due teste... gente indecisa per cui l'essere e il non essere è
lo stesso e non è lo stesso, e per cui di ogni cosa v'è una strada, che può
esser percorsa in due sensi. Si può in questi versi scorgere una critica ai
primi pitagorici e, forse, ai motivi piu diffusi e facili di Eraclito. Risolta,
dunque, nell'Unità totale dell'Essere la molteplicità, il nascere e il perire,
quella stessa molteplicità, quello stesso nascere e perire si rivelano
contraddittori e quindi non veri. Il che significa che la contraddizione sta
nel porre e nel definire le cose come enti o esseri accanto a enti o a esseri,
cose che per sé nascono e per sé periscono, nel definire le cose come cose.
Cosi facendo si ritiene, si opina di aver colto l'essenza, le forme delle cose,
mentre in effetto si sono distaccati gli aspetti dell'è, si sono contraddette
le cose, cioè l'essere stesso, onde opiniamo vero ciò che in effetto non è che
puro nome. Perciò non sono che puri nomi quelli che i mortali hanno posto,
convinti che fossero veri: divenire e perire, essere e non-essere e cambiar di
luogo e mutare lo splendeQte colore. E qui va sottolineato che Parmenide non
dice come Eraclito essere - non essere, nascere - morire, unica cosa. Ma dice
essere e non essere, divenire e perire. Nell'e disgiuntivo sta la
contraddizione e, dunque, il non vero, nella denominazione e definizione (nel
contornare la cosa in senso pitagorico). E questo è tanto piu chiaro all'inizio
·della seconda parte (l'Opinione) del poema, ove Parmenide dice. I mortali
nelle loro dottrine hanno dato nome a due forme, di cui una è di troppo- e in questo
è il loro errore- e apponendole ne distinsero la figura, e vi apposero segni
assolutamente diversi l'uno dall'altro. Qui la fiamma del fuoco etereo, dolce,
e lieve al piu alto grado, e dappertutto uguale a se stesso, ma non
uguale all'altro; ed anche quello per sé, come suo contrario: la notte senza
luce, massa densa e pesante (fr. 8, vv. 53-59). Nella molto dibattuta questione
Parmenide sembra che chiaramente e consapevolmente, indicando la via da
seguire, batta l'accento su ciò che è fondamentale per ogni ricerca, che, cioè,
bisogna innanzi- tutto rendersi conto del campo e dell'orizzonte del proprio
lavoro, ri-chiamando al principio che non è affatto afferrare e comprendere le
cose il definirle, il raffigurarle, il nominarle: questa è, appunto, opi-nione,
illusione. Il che non significa che, resisi conto di questo - che la realtà
definita e SEGNATA con piu nomi diversi è un'illusione, è non vera, mentre
l'Essere in quanto tale, il solo pensabile, si risolve nell'Unità totale, per
cui il vero è l'Essere tutto, immobile e compatto, - il definire e il numerare,
il distinguere e il nominare non siano, emro questi stessi limiti, un lavoro
valido e utile. Appresa la verità, anche questo imparerai, come l'apparenza debba
configurarsi, perché possa veramente apparir verisimile, penetrando il tutto in
tutti i sensi. Si chiarifica cosf il motivo della Notte e del Giorno del
proemio che ora ritroviamo all'inizio della parte dedicata all'Opinione. L'unica
via, che è quella del pensiero e sulla quale conducono le vergini Eliadi, porta
oltre le distinzioni originarie di Giorno e di Notte (oltre quelle distinzioni
che son servite all'uomo per definire e intendere il reale) annullando ogni
distinzione nell'unicità dell'essere che è. Solo ora, solo quando si sia
consapevoli di ciò, possono sussistere i due mondi, il mondo della verità e
quello dell'opinione, come due modi diversi di cogliere l'unica realtà: sentita
e tradotta in parole da un lato (opinione), e, dall'altro lato, còlta col
pensiero e tradotta in una sola parola, la parola per eccellenza, è. Quando si
sia consapevoli di questo, si coglie il valore ipotetico delle opinioni, che
possono determinare e ritagliare una certa realtà verosimile. Di qui - crediamo
- tra le opinioni, si pone l'opinione di Parmenide su come sia costituito il
cosmo, di cui, pur- troppo, non abbiamo che oscuri accenni in Aezio. Quella di
Parmenide sembra fosse una visione dell'universo concepito come un complesso di
cerchi concentrici, costituenti tutti una sola circolarità, che, forse, era
l'immagine verosimile dell'Unità del Tutto, della Sfera, e, sotto altro
aspetto, giustificazione delle opinioni dei pitagorici. Avendo cosi risposto
Parmenide alla dibattuta questione, avendo risolto l'essere, per non
contraddizione, in una massiccia unicità, portando ad estrema conseguenza il
tema parmenideo si poteva giungere alla considerazione che, in effetto, l'unico
piano che resta all'uomo in quanto uomo è il mondo della opinione e delle
parole, sulle quali parole si configura la realtà stessa e non viceversa. Sarà
questa clusione di Gorgia; o ~ rovesciata la questione - si poteva giungere
alla possibilità, sul piano delle parole, di infinite contraddittorie, che, in
altro ambiente, e per interessi diversi - verso le discussioni e le antilogie
dei sofisti e la confutazione di -potranno essere le conclusioni eleatiche dei
Megarici. Senza le premesse di tale discussione e problematica si precisano
chiaramente nei finissimi argomenti di Zenone di Velia, diseepolo e difensore di
Parmenide, in cui si vede bene il taglio netto tra l'essere che è e in cui
tutto si annulla, e il mondo umano costruito dall'uomo stesso. All'inizio del “Parmenide”
Platone narra che una volta, durante le grandi Panatenee, Parmenide e Zenone
vennero ad Atene. Parmenide era allora molto innanzi negli anni, tutto bianco,
ma d'aspetto bello e nobile, e aveva circa sessantacinque anni. Zenone si
avvicinava allora ai quaranta anni, di grande statura e bell'uomo (Parmenide).
Platone dice, poi, che in quell'occasione Zenone lesse un saggio che scrive per
difendere la tesi di Parmenide, ma k:he quel libro egli compose per amor di
polemica e che per giunta un tale glielo aveva sottratto, per cui, Platone fa
dire a Zenone. Nnon ebbi neppure il ternpo di pensare se fosse o no il caso di
darlo alla luce. Platone, forse, per dare avvio alla sua discussione, probabil-mente
nei confronti dell'eleatismo megarico, si riallaccia di proposito a Zenone e a
Parmenide mettendoli in rapporto con Socrate, allora giovanissimo, quel Socrate
di cui poi i megarici furono discepoli. Può darsi, dunque, che Platone forza la
notizia di Zenone ad Atene insieme a Parmenide, in un'epoca in cui sembra
difficile, per ragioni cronologiche, che Parmenide sia potuto venire ad Atene,
o avesse circa sessantacinque anni. Nulla vieta, invece, di pensare che Zenone
sia stato effettivamente ad Atene, anche se in epoca diversa. Discepolo di
Parmenide, Zenone nacque ad Elea. Platone (Parmenide) narra che Zenone, venuto
con Parmenide ad Atene, aveva circa quaranta anni. Tutte le fonti lo presentano
come uomo prestante e altamente intelligente, che prese attiva parte alla vita
politica della sua città, dove sarebbe eroicamente morto combattendo il tiranno
Ncarco, quando, preso da Nearco e torturato, per non parlare si spezza la
lingua con i denti, sputandola addosso al tiranno. Sembra che la struttura
originaria del saggio di Zenone (o dei suoi saggi) fosse antinomica, e che [Altro
punto sospetto è che Platone dice che il saggio che Zenone scrive e stato fatto
circolare senza il permesso dell'autore. Potrebbe questo essere indice che
Platone, in effetto, non espone la tesi vera di Zenone, anche se, nella
finzione del dialogo, Zenone stesso approvi, con qualche riserva, il sunto che
dei punti salienti dà Socrate. Platone, nel Parmenide tende a dimostrare
l'impossibilità di pensare l'essere di Parmenide che porta dietro di sé
l'altrettanta impossibilità di pensare i molti, onde, postici sul piano di
Parmenide, risulta impossibile il discorso, un qual- sivoglia giudizio. Non
interessa ora la soluzione di Platone e il suo tentativo di poter pensare
l'Essere come dialetticità corrispondente alla dialetticità del pensiero, per
cui si rendeva possibile porre un tutto oggettivo. come ordine dialettico e
misura su cui scandire, attraverso la conoscenza di sé, lo stesso ordine
politico. È tuttavia importante sottolineare che nei confronti dell'uno di
Parmenide e delle opere di Zenone (che accettando l'ipotesi di Parmenide e
anche accettando che l'uno di Parmenide si può, all'estremo, ritenere assurdo,
vuoi dimostrare che altrettanto assurdo è porre unità accanto a unità, come i
pitagorici, quando si ritenga che queste siano realtà per sé e non puri nomi),
la polemica di Platone chiarifica quella che storicamente dev'essere stata
l'aporia fondamentale in cui doveva trovarsi il lettore del saggio di Zenone.
In verità - abbietta Zenone nel Parmenide di Platone - questo mio saggio vuol
essere in certo modo una difesa della dottrina di Parmenidc contro quelli che
cercano di metterla in ridicolo sostenendo che la tesi dell'esistenza dell'uno
va incontro a molte conseguenze ridiwlc c contraddittorie. Vuole confutare
perciò questo mio saggio quelli che asseriscono l'esistenza dei molti c render
loro la pariglia e anche di piu, cercando di mostrare che la loro ipotesi
dell'esistenza dei. molti va incontro a conseguenze ancor piu ridicole di
quella dell'uno se si vuole andare in fondo alla ricerca. In effetto qui
Platone corregge la sua prima affermazione che Zenone e Parmenide avessero
detto la stessa cosa ("dite su per giu la cosa medesima ": }, e per i
suoi intenti lascia cadere la precisazione di Zenone. Ma ciò è fondamentale,
perché, in genere, è con questi abili accenni che Platone distingue quello che
a lui importa da quello che accantona, ma che corrisponde, quasi sempre, alla
verità storica. Zenone, quaranta fossero gli argomenti contro la tesi che
sostiene il molteplice e il moto. Platone che vede in Zenone il difensore
dell"Uno di Parmenide, lo chiamò il "PALAMEDE eleatico" (Fedro).
] dunque, sarebbe parmenideo alla rovescia. Egli accetterebbe che l'Uno tutto
di Parmenide porti alla finale contraddizione dell'impensabilità - proprio
sulla via del pensiero - dell'Uno stesso. Solo che la facile critica
dell'annullarsi dell'Uno deve tener presente che, ammessa la esistenza dei
molti, di punti accanto a punti, come enti reali, si cade nelle stesse
contraddizioni di chi pone l'uno. Zenone non dice mai cosa sia l'Essere. Zenone
nega che posti i molti come esistenti, sul piano logico i molti esistano,
confermando cosi la tesi parmenidea che i molti in quanto tali, in quanto definizioni,
non sono che puri nomi. Ammessa, dunque, pitagoricamente, l'esistenza di punti
reali costituenti le cose, bisogna necessariamente ammettere che ciascuna di
tali unità in quanto punto ha una grandezza, anche se minima, onde in ogni
punto vi sono infiniti punti e quindi ogni punto-unità sarà infinitamente
grande; se il punto poi non ha gradezza, poiché le cose si costituiscono come
aventi grandezza per l'unione dei punti, come sarà mai possibile che punti
senza grandezza diano luogo a grandezze? n punto dunque, se non ha grandezza,
non è. Ancora: ammesse piu cose costituite di punti, esse saranno ad un tempo
in numero finito e infi.t;lito, il che è contraddittorio: saranno in numero
finito, perché non possono essere piu o meno di quante sono; infinito perché
tra l'una e l'altra ve ne sarà un'altra ancora, e tra questa e l'altra un'altra
ancora all'infinito. Ancora: ammessa la molteplicità di cose reali per sé,
bisogna ammettere o che sono continue, onde la molteplicità si annulla nella
continuità, che, essendo divisibile all'infinito, è costituita di infiniti
punti a loro volta divisibili all'infinito, fino al nulla; oppure che ogni
cosa, limitando l'altra, occupa uno spazio e si distingue dal- l'altra per uno
spazio: ma allora ogni spazio in quanto luogo implica un altro luogo e cosi
all'infinito, sino all'unico luogo cioè l'uno, cioè il nulla (Aristotele,
Fisica; Simplicio, Fisica). Entro questa linea rientra anche il cosiddetto
argomento del grano di miglio. Un grano o la decimillesima parte di un grano di
miglio fa rumore: ora se fra un grano di miglio e un medimmo c'è proporzione,
vi sarà proporzione anche tra i suoni, per cui se un medimmo di miglio fa
rumore lo farà anche un solo grano (Aristotele, Fisica; Simplicio, Fisica), ma
ciò non avviene. Evidentemente quest'ultimo argomento rientra nei termini dei
primi. Se l'uno, o la totalità, è impensabile irrelativamente, altrettanto
impensabili sono i molti qualora si pongano quali realtà accanto a realtà. Nessuna
parte del molteplice costituirà il limite ultimo e nessuna sarà senza una
relazione con un'altra". Poiché i molti sono impensaolli, se non.
determinati come variazione di quantità di un CONTINUO, e poiché IL CONTINUO si
può rappresentare come retta all'infinito, fino al nulla, i molti, se posti come
realtà per sé, non sono. Cosi nell'ipotetica retta (nulla è pensabile se non in
quanto estensione ed estensione che si qualifica) altrettanto inconcepibile è
il moto, o meglio la possibilità dello spostamento e del passaggio da punto a
punto, ché, dato, ad esempio, un segmento AB, tra A e B posta una metà A',
necessariamente tra A e A', vi sarà una metà A" e cosi vita all'infinito –
eis apeiron -- (argomento della dicotomia, cioè della divisione in due:
Aristotele, Fisica; Simplido, Fisica). Evidentemente non vi è allora passaggio
tra un ipotetico primo punto A e il punto della linea accanto ad A, onde si può
dire che Achille piè veloce" (in A) non raggiungerà mai la tartarugà che
sia un passo avanti (in A"), ché, in effetto, logicamente, né l'uno né
l'altra si muovono (argomento dell'Achille: cfr. Aristotele, Fisica;
Simplicio), tanto piu che la linea, essendo costituita d'infiniti punti, è
divisibile all'infinito, e quindi, all'infinito, si annulla. Analogamente LA
FRECCIA non raggiungerà mai il bersaglio, dovendo percorrere l'infinito e rimanendo
sempre ferma al punto di partenza (argomento della freccia: cfr. Aristotele,
Fisica, 239b; Simplicio, Fisica; Filopono, Fisica, 816, 30; Temistio, Fisica,
199, 4). Infine, dei presunti quaranta argomenti con i quali Zenone avrebbe
dimostrato la contraddittorietà in cui pone o l'esperienza sensibile o la
definizione dei dati che implicano la molteplicità o il movimento, abbiamo
l'argomento detto dello stadio. Considerando in uno stadio un punto mobile che
va ad una certa velocità, se lo si considera rispetto ad un punto fermo andrà,
ad esempio, a dieci chilometri l'ora, se lo si considera invece rispetto a un
altro punto mobile che vada alla sua stessa velocità in senso opposto, quello
stesso mobile va a venti chilometri all'ora. Il quarto argomento - dice
Aristotele - è quello delle due serie di masse uguali che si muovono in senso
contrario nello stadio, lungo altre masse uguali, le une cioè a partire dalla
fine dello stadio, le altre dalla metà, con velocità uguale; la conseguenza è,
secondo Zenone, che la metà del tempo è uguale al doppio (Fisica, 239b; cfr.
anche Simplicio, Fisica, 1016, 9 sgg). I celebri argomenti sul movimento, con
cui, accettata la premessa che esiste il moto, con ferrea consequenzialità, di
deduzione in deduzione, si dimostra come-sul piano logico, contraddicendosi,
non si possa se non negare il moto (onde, appunto, Aristotele, secondo Diogene Laerzio,
nel “Sofista” andato perduto - ha potuto dire che Zenone fu padre della DIALETTICA,
come arte del confutare), ci sono rimasti attraverso le discussioni e le
critiche di Aristotele. Non sappiamo, in effetto, se tali argomenti fossero
proprii del saggio di Zenone, ché le fonti precedenti, ivi compreso Platone (che
fa intravedere solo gli argomenti contro l'esistenza della molteplicità), ne
tacciono. Certo gli argomenti sul movimento potevano essere conseguenza di
quelli sulla pluralità, che, portando a dimostrare l'intraducibilità della
fisica in termini logico-matematici, per l'impensabilità del CONTINUO SPAZIALE,
portavano anche a rendere impensabile il continuo temporale-spaziale su cui si
determinano, definendoli, i punti-geometrici, i cui rapporti di movimento
divenivano rapporti spaziali e, quindi, ancora una volta impensabili o
contraddittori. La polemica di Zenone sembra quindi rivolta sia contro i punti-
cose dei primi pitagorici (o se si vuole contro la riduzione a numeri interi
delle cose da parte dei primi pitagorici), supponendo i numeri irrazionali, sia
contro l'impossibilità di ridurre le esperienze della vita, della mutevolezza,
alla sfera della ragione e dei numeri, senza perdere in puri nomi quella stessa
vitalità. Le conseguenze della discussione di Zenone, tenendo presenti certe
posizioni a lui contemporanee o immediatamente posteriori - lasciando da parte
le implicazioni che vi hanno veduto certi storici, riferendo le tesi di Zenone
ad alcune delle concezioni della matematica e della fisica moderna, - sembrano
potersi indicare nei seguenti punti: l. impossibilità di ridurre la fisica in
termini matematici; 2. conseguente impossibilità di pensare, e quindi di
definire, sia l'Essere come totalità, sia la molteplicità; 3. consapevolezza
che ogni ricostruzione matematica è valida, in quanto ipotetica e che
altrettanto ipotetica è ogni ricostruzione fisica. Sul piano storico si
determinano cosi: posizioni diverse, a seconda di quale aspetto della
problematica, impostata da Zenone, veniva approfondito. O si insistito sul
continuo giungendo a risolvere e ad an- nullare i molti (che restano come
determinazioni valide su di un piano puramente linguistico) nel continuo
stesso, cioè nell'infinita unità (Melisso); o si è risolto l'uno su di un piano
puramente matematico, per cui l'uno non è nessuno dei punti della serie, né il
pari né il dispari, ma la possibilità dell'uno e dell'altro, e che
nell'opposizione-armonia dà luogo a un'ipotesi logica che spiega un'ipotesi
fisica (Filolao e piu tardi Archita); o si è assunta l'ipotesi fisica del
continuo divisibile al- l'infinito in infiniti punti ognuno dei quali, infinito,
ha in sé tutte le infinite possibilità, gl'infiniti semi vitali, onde in ogni
punto tutto è tutto (Anassagora); o si è fatta l'ipotesi che gli infiniti
punti, proprio perché infiniti e quindi escludenti un passaggio dall'uno
all'altro all'infinito costituiscono infiniti limiti, d'onde una infinita serie
di limiti, d'indivisibili (atomi) implicanti nel limite una separazione, cioè
un altro limite come vuoto (Leucippo, che fu discepolo di Zenone, e Democrito).
Infine, se da un lato la problcmatica di Zenone portava a impo- stare
l'intelligibilità del reale non come afferrante la struttura in sé del reale
stesso, ma come ipotesi o fisica o matematica, dall'altro lato portava, nella
consapevolezza dell'impossibilità logica dell'Essere o del divenire, della
Verità, a rimanere sul piano dell'opinione c del discorso umani, entro i
termini dello stesso mondo dègli uomini e dei loro rapporti (Protagora, Gorgia).
Da quelli che sembrano essere i frammenti autentici del poema di GIRGENTI (si
veda), che va sotto il tradizionale titolo “Sulla natura”, ciò che pare potersi
ricavare è la seguente concezione. La realtà tutta è costituita di quattro
elementi o radici (p~~6ljL«T«): fuoco (Zeus lucente), aria (Era donatrice di
vita), terra (Edoneo), acqua (Nesti, le cui lacrime son fonte di vita per i
mortali); Tali radici non hanno nascita (&yhot-r«). Ciò che vico detto
nascere e perire non è altro che il mischiarsi in uno o altro modo degli
elementi di fondo. Vi sono due forze, l'una che unifica (amor~, cpLÀEot),
l'altra che separa e distingue (discordia o odio, ve!xoc;), mediante cui la
realtà tutta si scandisce in un ritmo, ovc a un primo momento, in cui predomina
la forza unificatrice (amore) e in cui le quattro radici (tutte uguali c tutte
aventi la stessa dignità: fr. 17, vv. 27-30) sono mescolate insieme come in uno
sfero (si è parlato di ricordi parmenidei), succede un momento in cui nella
lotta di Odio e di Amore - non ancora del tutto disgiunte le radici [Nato ad
Girgenti nel 492 circa, sembra che Empedocle sia morto nel 432. Le notizie
sulla sua vita e sulla sua morte sono leggendarie. Si dice che abbia avuto rap-
porti coi pitagorici (cfr. Diogene Laerzio) e con Parmenide, durante un suo
viaggio a Velia (Teofrasto, Pllys., fr. 3, Dids, DorograpA; G.). Fu di parte
democratica e politicamente attivo. Sembra che Empedocle abbia scritto piu
opere; di una parte di esse non ci son tramandati che i titoli (Politica, Della
med;cina, Proemo ad Apollo); d d poema Sulla Natura (ficp\ ~)leggiamo I l i frammenti,
del poema Puri#- caz;o,; (l{d«pJLOl) pochi frammenti. 62 sorge la
vita vera e propria, che è amore e contesa a un témpo, unità e distinzione,
finché per il predominiò di Odio le quattro radici si di- stinguono totalmente
restando masse accanto a masse. In effetto il ciclo cosmico è sempre tutto
insieme uno, ché l'Essere consiste appunto in questo scorrere e trapassare
dall'unità dello sfero alla distinzione delle radici, dall'uno all'altro polo,
ove l'essenza delle radici resta sem- pre quella che è, mutandosi le cose per
la tensione delle due forze op- poste: le due forze che reggono il mondo sono
state ieri e saranno domani, e mai l'infinito tempo di questa coppia sarà
vuoto. D'altra parte la massa dell'acqua, o quella del fuoco, o della terra, o
dell'aria, è costituita, ciascuna, d'infinite particelle d'acqua, di terra, di
fuoco, di aria, onde nel momento d'Amore sono tutte fuse e confuse insieme,
mentre nel momento di Odio si distinguono separandosi e tutte le particelle di
acqua si unificano nell'acqua, quelle di fuoco nel fuoco, quelle di terra nella
terra, quelle di aria nell'aria. Aristotele poteva cos(sostenere che Empedocle
cadeva in contraddizione perché, alla fine, Amore separa e Odio unisce: quando,
infatti, per opera di Discordia, il tutto si disgiunge negli elementi, allora
il fuoco si.raccoglie in una unica massa, e cosi ciascuno degli altri de-
menti; quando, al contrario, per azione di Amore, essi si raccolgono nell'Uno,
è necessario che di nuovo le parti di ciascun elemento si separino fra loro
(Metaf.). A parte l'abbiezione di Aristotele, ciò che resta proprio di Empe-
docle è che la realtà è costituita di infinite particelle di acqua, di terra,
di fuoco, di aria, che, distinte per qualità, sono, come sfondo originario su
cui tutto si ritaglia, una unità indistinta, ove le distinzioni avvengono per
la tensione delle due forze. E allora, per Empedocle, la vita, l'esistenza, è
appunto il momento intermedio, che non è né pieno amore né pieno odio, ma,
appunto, la tensione i cui momenti estremi sono come termini ideali di un
ciclo, che in quanto ciclo è sempre quello che è, cioè la tensione stessa. I
dati dell'esperienza, portata all'estremo, dànno che tutto ciò che è, è
riducibile a quattro elementi: solidi (terra), liquidi (acqua), aeri- formi
(aria e fuoco). Tali elementi sono irriducibili ad altro, se non all'essere che
è i quattro elementi stessi nella loro unità, donde l'ipotesi di un'unità
ongmaria e di una distinzione ultima, entro·cui, come arco di un pendolo,
oscilla il costituirsi di tutte le cose, in virtu delle forze di attrazione e
di repulsione, cui si giunge, sempre per esperienza, in quanto forze che
ciascuno vive quotidianamente. Questo sembrano significare i versi del secondo
frammento. Angusti poteri sono diffusi per le membra. Gli uomini vedono solo
una piccola parte di una vita che non è vita. Condannati a pronta morte, sono
rapiti e si dileguano come fumo. Ognuno di essi è persuaso solo di ciò in cui a
caso s'imbatte. E sospinto in tutte le direzioni si vanta di scoprire il tutto.
Tanto è difficile che queste cose siano viste o udite dagli uomini e abbracdate
dalla loro mente. Tu, dunque, poi che sei qui giunto, saprai non piu di quanto
la mente umana possa (fr. 2). L'uomo in quanto uomo, in quanto amore e odio a
un tempo, in quanto fusione ancora e distinzione dei quattro elementi, se da un
lato non può cogliere il momento originario della totale fusione nello ~fero
(fr. 27-28) d'amore, ché in quel momento, questa attuale realtà, l'uoniò, non è
piu (a lui, all'essere, è impossibile accostarci s1 da raggiungerlo con gli
occhi e afferrarlo con le mani, che è la via di persuasione maggiore che arrivi
al cuore dell'uomo (fr. 193), dall'altrv lato tuttavia può rendersi conto,
proprio perché la realtà quale appare all'uomv è unione e distinzione degli
elementi, che i due termini estremi sona unità totale e fusione delle radici e
distinzione delle quattro radici in masse accanto a masse. Ipotesi l'una e
l'altra (tu dunque saprai solo questo cui poté assurgere la mente umana -- fr.
2), fondata sull'esperienza di ciò che all'uomo, momento della realtà tutta, è
dato sentire, vedere, toccare, vivere, in quanto esperienza di vita, cioè di
forze vitali nella loro opposizione. E te vergine Musa dalle candide braccia,
supplico, di ciò che è giusto udire agli uomini che hanno la vita di un giorno.
Tu, dunque, uomo, con ogni tuo potere scorgi, in quanto è palese, non piu
fidando all'occhio che all'orecchio, non all'orecchio sonoro oltre la chiara
fede del gusto, e a nessuna delle altre membra, per quante è una via di
conoscenza, nega fede, ma conosci ogni cosa in quanto è palese. E poiché,
appunto, la via di persuasione maggiore che arrivi al cuore dell'uomo è la via
dell'esperienza diretta, è questa che pone l'uomo di fronte alla realtà
costituita di terra, di fuoco, di acqua, di aria, e a questa Empedocle
richiama. Su via! Vedi un po' se nelle testimonianze che ti ho dato ho commesso
qualche errore, parlando della forma ((Lopq~~) degli elementi. Guarda, dunque,
il bianco sole il cui calore ovunque si spande, e tutte le costellazioni infuse
di vaporosa chiarezza, e la pioggia che reca freddo e nuvole ovunque, e la
terra donde scaturisce tutto ciò che è saldo e compatto. Non solo, dunque, si
dimostra l'esistenza del fuoco, dell'acqua e della terra per via puramente
sperimentale, ma anche l'esistenza dell'aria, cioè dello spazio come pienezza
corporea, escludente il vuoto che è non essere inconcepibile, mediante la prova
famosa della clessidra. Empedocle descrivendo il processo respiratorio,
dimostra l'esistenza dell'aria come corpo, immergendo una clessidra nell'acqua.
Quando una fanciulla, giuocando con una clessidra di lucente rame, ne copre il
foro con la sua mano ben modellata, e la immerge nella cedevole argentea pozza,
il volume dell'aria che preme dall'interno dell'orifizio impedisce all'acqua di
entrare, finché la fanciulla non libera la corrente d'aria compressa. Allora,
non appena l'aria ne esce, l'acqua vi entra in quantità uguale. E, cosi,
sperimentabili sono le due forze (amore e odio) dalla cui tensione nascono e
muoiono tutte le cose, senza che gli elementi subi- scano variazione. E
manifesta è la lotta tra Amore e Odio anche nell'insieme del corpo umano. Quando
sotto l'azione di Amore, gli elementi si riuniscono in una sola massa, allora i
corpi fioriscono di crescente vita; quando sono disgiunti dalla funesta
Discordia, allora le membra errano separatamente verso le prode estreme della
vita. L'uomo, dunque, in quanto momento intermedio dell'oscillazione pendolare
del tutto, trovandosi come al momento culminante della tensione su cui la
realtà tutta si scandisce, avendo in sé gli elementi e le forze su cui si
struttura la realtà, può conoscere la realtà stessa in quanto le sue strutture
coincidono con le stesse strutture costitutive della realtà. Di qui l'affermazione
di Empedocle che il simile conosce il simile, che fra le parti vi è
un'attrazione simpatetica. Si pone cosi in maniera consapevole il problema del
conoscere, possibile in quanto le strutture della realtà coincidono con le
strutture del soggetto, in una identificazione delle parti del soggetto alle
parti dell'oggetto (con la terra vediamo la terra, con l'acqua l'acqua, con
l'etere l'etere divino, e col fuoco il fuoco distruttore, con l'Amore
l'Amore e con la funesta Discordia la Discordia, ch'entrano in comunicazione
mediante effluvi emananti dalle cose e che penetrano nei sensi per mezzo di
pori. t evidente in Empedocle una forte preoccupazione metodologica, per
spiegare il ritmo della realtà tutta, una e, nell'unità, molteplice. Fondandosi
sui dati di un'esperienza totale, si rende verosimile l'ipotesi fisica del
tutto i cui termini opposti, idealmente dati (la fusione di tutti gli elementi,
la separazione degli elementi accanto agli elementi), diano conto di quella che
è in atto la presenza della realtà. Ipoteticamente son cosi concepibili i due
estremi dell'unica oscillazione e. la formazione e la disgiunzione della
situazione attuale. Dalla fusione del tutto, poi, via via, si costituirono le
cose: dapprima, ad esempio, sulla terra spuntarono teste senza colli, ed
erravano le braccia nude prive di spalle, vagavano occhi soli sprovvisti di
fronti. Molti esseri nacquero con doppie facce e petti, e buoi con facce
d'uomini, o sorsero busti umani con teste bovine, e forme miste di maschi e di
femmine, provviste di membra villose. Per giungere infine, attraverso il punto
intermedio della parziale unificazione e disgiunzione, alla totale disgiunzione
degli elementi. Una, dunque, la realtà, e molteplice a un tempo. Immobile
nell'essere dei suoi elementi, mobile nello svariare dellè congiunzioni e
disgiunzioni, entro il ritmo delle due forze opposte che governa il tutto, il
tutto che sempre è, pur nelle sue facce molteplici. Si capisce cosi come anche
Empedocle {leghi ogni antropomorfismo, come egli canti l'essere uno vitalità,
“cpp-l)v”, ineffabile, che per tutto il mondo si slancia con veloci pensieri,
come l'appello alla natura sia- un appello polemico, di contro a certe credenze
popolari, un appello all'indagine scientifica. Gli uomini vedono solo una
piccola parte di una vita che non è vita. Condanna~ a pronta morte, sono rapiti
e si dileguano come fumo. Ognuno di essi è persuaso solo di ciò in cui a caso s'imbatte.
E sospinto in tutte le direzioni si vanta di scoprire il tutto. Tanto è
difficile che queste cose siano viste o udite dagli uomini o abbracciate dalla
loro mente. Tu dunque, poi che sei qui giunto, saprai non piu di quanto la
mente umana possa. L'appello di Empedocle all'esperienza è chiaro. Egli
distoglie l'amico Pausania, cui il poema è dedicato, dal disperdersi dietro ciò
che appare nell'immediatezza, dall'aver brama di ciò cui tendòno gli uomini
volgari, per richiamarlo ad ascoltare e a meditare sul suo insegnamento: Se
nella trama serrata del tuo pensiero comprendi con chiarezza le mie lezioni, se
con spirito puro ti lasci iniziare, le mie tesi tutte e per sempre ti saranno
presenti e molte altre ancora ne acquisterai, perché per sé si QCcrescono
nell'uomo, ciascuna secondo la sua natura. Attraverso l'indagine della natura,
di esperienza in esperienza, in un collegarsi intelligente delle esperienze stesse,
l'uomo, egli stesso natura, si fa davvero partecipe della natura, modificandola
in un unico processo. L'indicazione evidente del metodo costituisce una tecnica
con cui operare, e adeguarsi alla realtà stessa: Conoscerai cosi quanti rimedi
vi sono dei mali e riparo della vecchiaia. Placherai. L’mpeto degli infaticati
venti, che, balzando sulla terra, con il loro soffiare inaridiscono i
coltivati, e, se tu vuoi, potrai richiamarli quando possano servire. Dopo la
pioggia darai all'uomo la siccità propizia, e dopo l'arida estate la feconda
acqua che nutre l'albero e le messi future. Di qui, probabilmente, e da altri
testi simili a questi è nata piu tardi la leggenda di un. Empedocle mago e
taumaturgo, nell'epoca in cui sono nate anche le leggende su Pitagora, che non
a caso è stato piu volte avvicinato a Empedocle. Si narra che Empedocle fa
sbarrare una gola montana da cui soffiava, greve e pestilenziale, il vento di
mezzogiorno sulla pianura (Plutarco, De curios.); che arresta la pioggia, che
salva gli agrigentini da una pestilenza e cosi via. Potremmo moltiplicare gli
esempi. Evidentemente, in un'epoca che anda rintracciando, a sostegno di
proprie tesi, dati miracolosi, si son ritagliati certi aspetti e certi testi di
Empedocle, che potevano servire. In effetto, ricollocando Empedocle nel suo tempo,
nella sua città, Girgenti, in un'epoca di grande attività economica e politica,
in una Sicilia in cui sappiamo che circolano le idee di Senofane, di Pitagora,
della scuola medica di Crotone, di Parmenide, di Eraclito, la figura e la
personalità di Empedocle non hanno nulla di straordinario. Egli e uno
scienziato, che, atraverso una serie di esperienze, formula, tenendo presenti i
risultati di Parmenide, di Eraclito e la polemica di Senofane, l'ipotesi del
tutto che costituito di quattro elementi, fusi e confusi in una sola unità come
sostrato, si distinguono ed. esistono per virtu di due forze opposte. Ora, se il
metodo di Parmenide e uno metodo strettamente logico, quello di Empedocle è un
metodo empuiStlco e razionale, che imposta, a sua volta, il problema del
rapporto fra natura e uomo che; parte della natura, può, in quanto sappia il
ritmo della natura stessa e la sua costituzione, modificare sé e la natura.
Sotto questo aspetto la fisica di Empedocle è, ad un tempo, la sua morale,
tesa, attraverso l'indicazione del metodo e delle vie dd conoscere, a
purificare gli altri, la maggioranza dei cittadini ignoranti, legati a
tradizioni, a riti, a concezioni che Empedocle, conscio di una piu ardita
cultura, sente come estremamente invecchiati e falsi. Cosi, leggendo i pochi
frammenti che sono rimasti dell'altro suo carme, “Le purificazioni”
{xot&otp!Lo(), si ha la consapevolezza precisa di trovarci di fronte a un
uomo vissuto in un certo ambiente, che ha la coscienza di respirare una nuova
atmosfera culturale, effettivamente civile, e in questo senso purificatoria, di
avere. contribuito a fare avanzare la scienza, che non può essere solo
patrimonio di alcuni, ma che diviene davvero operante in quanto si divulghi,
formi una diversa coscienza critica, un diverso equilibrio e rapporto umano che
diviene, dunque, azione politica, naturalmente entro i termini di una certa situazione
storica. In quanto rivolta ai piu, ai concittadini di Agrigento popolosa e
arretrata, la sua lezione può apparire come profetica. Ma come storicamente,
per non equivocare, non diremmo Empedocle taumaturgo, cosi neppure lo diremmo
profeta o mistico. Il suo discorso ai piu, il carme pun"'ficatorio, è, in
effetto, molto chiaro nella sua genesi, quando lo si riconduce a quello che
probabilmente ha voluto essere. Il discorso di un saggio che rivolgendosi a un
pubblico, a una massa, senza dubbio arretrata, usa un linguaggio comprensivo
per quel pubblico, al quale egli appare, appunto perché sapiente, come un dio e
un sacerdote di una nuova religione. Sotto questo aspetto la sua parola vuoi
essere incantatrice, indicando ai piu.la via da seguire, indicando, pur nella
necessaria discordia, la strada dell'equilibrio e dell'amore, facendosi dunque
parola medica e politica. Amici, che abitate la grande città che declina al
biondo Acragante, sul sommo della cittadella, uomini usi a fare buone opere,
fidi porti di ospiti, che non conoscono la perfidia, a voi salute. Io al vostro
cospetto non piu· mortale, ma un dio, mi aggiro, fra tutti onorato come ne sono
degno, coro- nato di bende e di fiorenti serti. Uomini e donne mi venerano e mi
seguono in grandissimo numero, chiedendo la risposta mia che guida a salute. Gli
uni vogliono oracoli, altri di malattie innumeri domandano la parola che sana,
lungamente da aspre doglie trafitti. La via che guida a salute, la parola che
sana. Aristotele dice (secondo Diogene Laerzio, nel “Sofista” perduto) che come
Zenone di Velia inventa LA DIALETTICA, Empedocle inventa LA RETORICA, l'arte
del dire. E cosi si dice anche che Gorgia, fratello di un medico, e discepolo
di Empedocle, e che Empedocle scrive anche un trattato di medicina, e che ha contatti
con i medici di Crotone, con i medici pitagorici e con i medici agrigentini
Pausania e Acrone. Non possiamo giurare sull'esattezza di queste notizie, ma
sono sintomatiche di un certo indirizzo. Senza dubbio il Carme Purificatorio
(ch'ebbe grande successo anche quando fu letto ad Olimpia) è una specie di
discorso medico-oratorio (iatrosofistico), probabilmente sulla linea dei
discorsi medico-incantatori dei primi pitagorici e della scuola medica di
Crotone (anche se diverso n'è l'insegnamento), che venivano, d'altra parte, a
coincidere, data una precisa concezione del tutto, con il movimento politico
delle democrazie sicule. E democratico e politicamente attivo sappiamo che e Empedocle.
Ora, se in Empedocle abbiamo una concezione fisica che puo, nel suo insistere
sull'uomo come parte del tutto e partecipe della vicenda cosmica, coincidere
con.certe visioni dionisiaco-popolari, d'altra parte egli, giuocando su quelle,
tende a purificarle di ciò ch'esse, sul piano rituale, avevano di torbido e
d'irrazionale; e, rifacendosi appunto alla concezione del ciclo cosmico, ove
nella vicenda del tutto nulla va perduto, per cui su di un piano mitico si puo
sostenere la trasmigrazione delle anime, tenta di allontanare il volgo dall'uso
dei sacrifici umani e dall'antropofagia, lascito d'antichi riti. Empedocle,
cosi:, sottolinea che l'uomo, in quanto parte della natura, è divino, onde compito
dell'uomo è uniformarsi al ritmo stesso su cui si scandisce il tutto, tendendo
all'equilibrio delle forze, di Amore e di Discordia, senza far prevalere
Discordia, la cui mancanza tuttavia annullerebbe l'uomo stesso, per cui, anche
se l'aspirazione è all'unità totale e divina, tuttavia l'uomo, proprio perché
uomo è anche discordia e lotta, senza di cui neppure si renderebbe conto di
Amore, senza di cui non sarebbe sapiente, senza di cui non istituirebbe
quell'equilibrio chç è la salute dell'uomo e del tutto, onde Empedocle e cantato
da LUCREZIO (si veda). Cosi se nel carme “Sulla Natura” leggiamo: poiché
Contesa, nelle membra, grande s'accrebbe, e al suo onore insorse, compiutosi il
tempo che ad Amore e a Contesa è prefisso, in alterna vicenda per ampio
giuramento; nel Carme purificatorio éos1 suona il frammento 115. V'è un oracolo
del fato, antico decreto degli dèi, suggellato di larghi piuramenti: se mai
alcuno dei dèmoni che ebbero in sorte una lunga vita, macchi le sue membra di
sangue, o seguendo la Discordia empio spergiuri, vada errando tre volte
diecimila anni lungi dai beati, nascendo nel corso del tempo sotto tutte le
forme mortali, permutando i penosi pensieri della vita. Perché la forza
dell'aria li tuffa nel mare, e il mare li sputa nell'arida terra, la terra
nelle fiamme del sole fulgente, che li lancia nei vortici dell'aria, l'uno li
riceve dall'altro e tutti li respingono. Uno di essi anch'io sono, fuggiasco
dagli dèi ed errante, perché fidai nella folle Discordia. Ma l'uomo è anche
amore, amore che si pone, mediante la discordia, come termine di realizzazione,
onde se da un. lato a questo porta l'indagine sperimentale e metodologica,
dall'altro a questo è possibile aniare i piu·mediante certe tecniche di
discorsi, LA RETORICA, che viene ad essere a un tempo medicina e politica. Gran
parte ddle leggende su Empedocle, miracoloso guaritore e resuscitatore di
morti, uomo divino e profeta, derivano da certi passi del Carme Purificatorio,
che sono poi serviti, in tarda epoca, a far di Empedocle unà specie di santone,
accomunandolo non senza perché àlla leggenda di Pitagora, e, per altro verso, a
Orfeo, allorché si parlerà dell'aurea catena della verità divina rivelatasi
attraverso la catena degli iniziati. Cosi anche la morte di Empedocle è rimasta
avvolta nella leggenda. La piu fàmosa è quella secondo cui Empedocle, per
disfarsi dell’estranea tunica di carne che lo riveste, per tornare (ed è evidente,
in Plutarco e in Porfirio da cui è tratto il frammento, l'interpretazione
orfico-pitagorica) alla patria celeste, si sarebbe gettato nel cratere
dell'Etna, che avrebbe poi eruttato uno dei calzari di bronzo del filosofo
(cfr. Strabone; Diogene Laerzio; Suda). Ma altrettanto sintomatica è l'altra
leggenda secondo cui Empedocle, dopo aver resuscitato una donna, durante la
notte, dopo un banchetto, chiamato da una gran voce, in mezzo a un immane
bagliore, sarebbe scomparso in un'apoteosi, tornando, egli divino, tra i numi
del cielo (cfr. Eraclide Pontico, in Diogene Laerzio). Qui, d'altra parte,
s'innesta LA RETORICA DI GORGIA e se ne chiarifica la portata. Non
preoccupiamoci - egli dice - dell'Essere e del Non-essere, tanto l'uno e
l'altro sono la stessa cosa. Che ci sia o non ci sia quel mondo è lo stesso,
perché non è conoscibile (Del non ente o della natura). Se ci crediamo,
accettiamolo. Ma esso non incide affatto su questo nostro mondo umano, che è il
mondo dell'illusione e dell'opinione su cui si agisce facendolo e ordinandolo
mediante la parola e l'arte della parola (RETORICA). L'Elogio di Elena di
Gorgia sarà anche una pura esercitazione o uno scherzo, ma è senza dubbio uno
scherzo assai serio, che proprio, in quanto esercitazione, mette chiaramente a
nudo cosa Gorgia intendesse con RETORICA, indipendentemente (come Protagora) da
ogni preoccupazione d'ordine logico-gnoseologico. La parola domina tutta quanta
la vita affettiva. Con la parola discipliniamo gli affetti. La retorica,
dunque, è fondamentale nella formazione degli uomini, meglio nella istituzione
della vita sociale. È appunto giuocando passione con passione, sentimento con
sentimento, che possiamo costruire una società umana. E poiché la passione di
una folla non è la passione di un individuo e quella di uno non è la passione
di un altro, di qui l'importanza del sapere usare le parole, volta a volta,
l'importanza delle tecniche dei discorsi, fino a giungere allo studio del come
accentuare parole, o porre parole accanto a parole. Cosi non.1 caso Gorgia
nell'Elogio di Elena vede subito la relazione che corre tra la retorica e la
poesia. Le parole della poesia riescono a suscitare nell'anima nuove e
particolari esperienze. L'anima attraverso i discorsi uditi si modifica. Il
discorso cosi è visto come espressione da una parte e dall'altra come capacità
di modificare il modo dei rapporti umani, e poiché l'uomo è sentimento e
opinione. E sentimento e opinione sono parole. E la parola che trasforma e
costruisce il mondo umano, istituisce volta a volta quelle che possono essere
le virtu, indi- [Figlio di Carmantida, fratello del medico Erodico, nacque a LEONTINI,
in Sicilia Sembra sia stato discepolo di Empedocle ed abbia risentito gl'influssi
della scuola di Velia e di quella pitagorica. Con sicurezza sappiamo che nel
427 venne ad Atene, ambasciatore di Leontini, per chiedere aiuti contro
Siracusa. Ad Atene ha molto successo e determina un notevole influsso sulla
letteratura oratoria. Itinera poi in Tessaglia, in Beozia, ad Argo. E certo a
Delfi e a Olimpia ove tenne orazioni. Senza dubbio e altre volte ad Atene e qui
tenne un famoso epitafio. Muore vecchissimo - quasi tutte le antiche
testimonianze dicono a 109 anni - in Tessaglia presso Giasone, tiranno di Fere.
Suoi discepoli furono: Menonc tessalo, Licofrone, Isocrate, Crizia, Alcibiade,
Tucidide, Prosscno di Beozia, Polo di GIRGENTI, Licimnio, Protarco, Alcidamante
di Velia. Le sue opere piu famose sono: “Intorno al non ente o intorno alla
Natura”, “L'elogio d’Elena”; “L'apologia di Palamede”; “ “Discorso pizio”.
Forse è di Gorgia anche un trattato su L'arte oratoria.pendentemente da cosa
sia la Virtu con il V grande. Sotto questo aspetto estremamente importante,
proprio per rendersi conto dell'appello al concreto dei primi sofisti, appare
il fatto che Gorgia, ad esem-pio, non intende ricercare cosa sia la Virtu, ma,
a chi gli chiedeva cosa è Virtu, risponde. La virtu di chi? Del bambino,
dell’uomo virile, o del vecchio? della donna o dell'uomo? (cfr. Platone,
Menone, 71e; Aristotele, Politica). La seconda fase dei pitagorici secondi. Le
indagini matematiche. Ippocrate di Chio Secondo la leggenda, dalla distruzione
della casa dei pitagorici a Crotone si salvarono Liside e Archippo. Liside si
sarebbe rifugiato a Tebe, ove, sembra, avrebbe fondato un circolo Epitafio”;
“Discorso olimpico”; pitagorico di cui un prosecutore sarebbe stato Filolao,
fche sarebbe andato in Italia. Archippo si sa- rebbe, invece, rifugiato in
Taranto, ove avrebbe proseguito l'opera di Pitagora, proseguita a sua volta da
Archita di Taranto, uomo politico di vaglia, contemporaneo e amico di Platone. In
realtà di Filolao e di Archita sappiamo molto poco.1 Non senza una qualche
ragione, anzi, particolarmente per quel che riguarda Fi- lolao, si è giunti a
dubitare che gli stessi frammenti che si ritengono proprii dell'opera (Sulla
natura) di lui, siano in effetto rielaborazione, se non falsificazione, di
Speusippo, il nipote di Platone e suo succes- sore nella direzione
dell'Accademia, che avrebbe composto un libretto Sui numeri dei Pitagorici
(cfr. Throlog. Arithm., p. 82, 10 De Falco). Platone nel “Fedon” pur discutendo
alcune tesi pitagoriche, rivela un suo pitagorismo, soprattutto per quel che
riguarda il motivo dell'armonia dei contrari, e cosi:, in piu passi degli altri
dialoghi e in particolare nel “Filebo” e nel “Timeo” sembra riallacciarsi a
certi motivi che paiono tipici di Filolao (armonia del limite e del non
limitato, armonia cosmica), e di Archita (armonie musicali). Ad ogni modo
l'accenno che nel “Fedone” Platone fa direttamente a Filolao è molto sospetto. O
come,.Cebète, non avete, tu e Simmia, udito parlare di questi argomenti, voi
che siete stati discepoli di Filolao? Si, ma niente di preciso, Socrate. Anch'io,
veramente, solo per averne udito parlare di queste cose (“Fedone”, 61tl). Chi
abbia un po' di pratic~ dei testi platonici sa che generalmente Platone usa
questi giri di frase allorché vuoi mettere sugli attenti intorno a certe
dottrine. Nel caso preciso, Platone avverte che la tesi che sta per esporre,
appunto quella dell'armonia del tutto cui si giunge attraverso l'analisi di se
stessi (ché le nostre strutture corrispondono alla ragion d'essere del tutto) non
è né tesi di Socrate né di Filolao, ma interpretazione personale, volta a certi
scopi precisi e diversi. Talvolta, effettivamente, dietro alcune tesi
platoniche si nascondono motivi esistenti, ma che in realtà avevano
storicamente tutt'altro signifi- [Scarsissime sono le notizie sicure su Filolao
e su Acchita. Di Filolao sappiamo che fu contemporaneo di Socrate (dr. Feàone,
ove Socrate parla di Simmia e Cebete di Tebe che avevano ascoltato Filolao).
"Demetrio negli Omonimi dice che Filolao e il primo a pubblicare i libri dei
Pitagorici, col titolo Della natura " (Diogene L.). Su questo e
sull'esistenza di un'opera di Filolao si è molto discusso e la questione è
ancora aperta. Di Acchita di Taranto, sappiamo che visse a cavallo tra il V e
il IV secolo, che fu uomo politico di vaglia, signore di Taranto, amico di
Platone (cfr. VII lettera) che riusci a far partire Platone da Siracusa, quando
Platone si trova in quella città semi-prigioniero del tiranno Dionisio (VII lettera).
Secondo Aristosseno (Wehrli) Acchita, quando e stratega, non emai sconfita~:
ritiratosi dal comando, cedendo all'invidia, la città subi subito uoa sconfittacato.
Questo, con tutte le cautele possibili, può essere il caso di Filolao e, sotto
un certo aspetto, di Archita. Platone avrebbe, probabilmente in polemica con le
conclusioni dell'uno massiccio di Parmenide, ri-elaborato un pitagorismo a modo
suo, purrifacendosi a certi motivi che potevano scaturire dalla discussione di
Filolao nei confronti dell'Essere di Parmenide. E questo particolarmente appare
da certe pagine del Parmeide e del Filebo, ove sono alcune espressioni che
sembrano coinci- dere con alcuni frammenti di Filolao, ma che in effetto vanno
molto oltre ciò che di fatto possiamo ricavare dai frammenti di Filolao. Es-
sendo, dunque, possibile una distinzione tra Platone e Filolao, senza arrivare
a sostenere una troppo raffinata falsificazione da parte di sco- lari di
Platone, che avrebbero costruito i testi di ·Filolao a bella posta, la cosa piu
probabile sembra sia la seguente:- del secondo pitagorismo ciò che appare di
piu altamente metafisica, in un'aspirazione all'ordine supremo del tutto, è in
effetto rielaborazione platonica in primo luogo, poi rielaborazione di Aristotele.
Piu probanti, per tentare di avvicinarsi alle tesi storiche del se- condo
pitagorismo, sembrano certe pagine di Platone in cui si pole- mizza contro
coloro che si occupano di geometria, di aritmetica, di astronomia, di teoria
musicale: loro difetto sarebbe, secondo Platone, di non essersi elevati al
primo principio, alle strutture dialettiche dell'essere, per ri~anere sul piano
delle ipotesi e della traduzione del visibile in termini geometrici e
aritmetici (cfr., in particolare, Repubblica, 510c sgg.). L'abbiezione di
Platone, che implica tutt'altro problema, il problema della ragion d'essere del
tutto, è la stessa abbiezione - anche se diversa nel suo contenuto - che ai
pitagorici muoverà Aristotele. Sotto questo aspetto, rifacendoci a certi frammenti
di Filolao e di Archita e alla distinzione fatta da Aristotele tra i pitagorici
del tempo di Alcmeone di Crotone e i pitagorici del tempo degli atomisti,
sembra che si possa realmente parlare di un secondo pitagorismo, facente capo a
Filolao e poi ad Archita, i quali, in quanto matematici o per lo meno in quanto
sono partiti da osservazioni o da scoperte di carattere aritmetìco e
geometrico, sarebbero stati accomunati al pitagorismo - nome generico, - entro
cui per antonomasia si son fatti rientrare, tutti coloro che si sono occupati
di matematica e di armonia. Tale il significato della testimonianza di
Aristotele, che, parlando dei pensatori del tempo degli atomisti, afferma: vi
furono i cosiddetti pitagorici, i quali, applicatisi alle scienze matematiche,
le fecero per i primi progredire: cresciuti poi nello studio di esse, vennero nell'opinione
che i principii delle matematiche fossero i principii di tutti gli esseri. E
poiché i principii della matematica sono, naturalmente, i numeri, parve loro di
vedere nei numeri, piu che nel fuoco, nella terra e nell'aria, molte
somiglianze con le cose che sono o che divengono (Metaf., 958b). Aristotele,
dunque, non solo distingue tra i pitagorici del tempo di Pi~agora, cui sarebbe
attribuibile la tavola delle dieci opposizioni e i cosiddetti pitagorici di un
tempo piu tardo, ma è a questi ultimi ch'egli, in particolare, attribuisce il
progresso delle scienze matematiche, in- tese come scienze del numero, e la
tesi che il reale è pensabile qualora sia riducibile a numero, cioè a quantità.
Ed è, infine, a questi ultimi ch'egli attribuisce la tesi che elementi del
numero sono il pari e il dispari: il primo, infinito: il secondo, finito; e
l'unità, essendo pari e dispari insieme, la fanno costituita di entrambi gli
elementi; e dal- l'unità sarebbe formato il numero (Metaf., 986a). Mentre nei
primi pitagorici trovammo unità accanto a unità, donde vedemmo la critica di
Parmenide, qui sembra invece si trovi il tentativo di risolvere sul piano
matematico le aporie di Parmenide e di Zenone. In altri termini con Filolao e
poi con ARCHITA DI TARANTO pare che certe scoperte aritmetiche e àltre musicali
abbiano -portato a impostare il problema della pensabilità del reale sul piano
del discorso, possibile qua- lora si riduca a quantità il pensabile stesso,
ponendo quindi l'ipotesi della numerabilità e misurabilità resa possibile
dall'unità come discorso, onde l'unità non è piu uno o altro punto della serie,
ma il discorso stesso come armonia di punti (finiti e infiniti), cioè come condizione
di quelli e quindi come " parimpari," per cui ogni aspetto
comprensibile del reale è pari e dispari, è unità (monade) e diade. L'unità e
la molteplicità si conciliano cosi in una serie infinita di numeri, che si
ritmano nell'unità del discorso, come armonia, e come armonia dei contrari:
l'armonia nasce solo dai contrari: perché l'armonia è unificazione di molti
termini mescolati, e accordo di elementi discordanti (Filolao, fr. 10). Il che
non significa èhe per Filolao l'uomo colga l'essenza ultima della realtà: la
causa o le cause prime - saranno questi i problemi di Platone e di Aristotele.
Egli pone semplicemente e concretamente la possibilità di pensare il reale: la
sostanza delle cose, che è eterna, e la natura stessa richiedono conoscenza
divina, non umana; solo che nessuna delle cose che sono e noi conosciamo 106
sarebbe potuta esistere, se non ci fosse la sostanza delle cose
che compòngono il cosmo, delle limitanti e delle illimitate (fr. 6). Ora,
poiché le cose appaiono come aventi qualità infinite, esse non sarebbero
pensabili, se non si potesse trascorrere tra esse, cioè se non si potessero
ridurre tutte a quantità, a un indefinito definibile me- diante la numerabilità
e la misurabilità: perciò le cose stesse sono nu- meri, divisipili (pari) e
indivisibili (dispari), limitanti e limitate, fra cui corrono rapporti di
misura, proporzioni, che ne costituiscono l'armonia, cioè quell'unità che è
condizione e presenza in ogni cosa: tutte le cose che si conoscono- dice
Filolao -hanno numero: senza il nu- mero non sarebbe possibile pensare né
conoscere alcunché (fr. 4). Il numero ha due specie sue proprie, il dispari e il
pari: e la terza è il parimpari, for· mato da queste due mescolate. Molte forme
ci sono dell'una e dell'altra, e ogni cosa per se stessa le rivela (fr. 5).
Sembra, dunque, evidente che per Filolao non si tratta di conosce- re o di
cogliere quella che è la realtà in sé, ma di determinare quale sia la
condizione che rende pensabile la realtà, cioè che rende possi- bile la
scienza: è la natura del numero che fa conoscere ed è guida e insegna ad ognuno
tutto ciò che è dubbio e ignoto. Nulla sarebbe comprensibile, né le singole
cose né le loro relazioni, se non. ci fossero il numero e la sua sostanza. Ma
questo, armonizzando nell'anima tutte le cose con la percezione, rende co-
noscibili esse e le loro relazioni secondo la natura dello gnomone, col dar
corpo e distinguere le determinazioni delle cose, di quelle illimitate e di
quelle limitanti (fr. 11). E allora se pensare è armonizzare nell'anima tutte
le cose con la percezione, è riferire e misurare, la verità consiste
nell'armonia, nel numerare e misurare, che è articolare e discorrere: nessuna
menzogna accolgono in sé la natura del numero e l'armonia: non è cosa loro la
menzogna. La menzogna e l'invidia partecipano della natura dell'illimitati? e
dell'inintelligibile e dell'irrazionale. La verità è connaturata e propria
della specie dei numeri (fr. 11). Di qui l'importanza del discorso matematico,
per cui ciò che nel- l'immediatezza sensibile appare come continuo e
indefinito, illimitato, diviene intelligibile in quanto si numera, in
quanto ciò che si defi- nisce non è piu né acqua, né terra, né fuoco, né altra
qualità, ma è traducibile in figure, in forme (mediante lo gnomone), costituite
di piani, di linee, di punti; e i piani, le linee, i punti (gli originari
punti, o ciottoli dei primi pitagorici), i numeri interi della serie (tutti
uguali l'uno all'altro), si articolano fra di loro, in una unità discorsiva,
che dunque non è nessuno dei punti, ma la loro stessa condizione, che è quindi
ad un tempo pari e dispari, una e due, illimitata e limitante. Tutte le cose
sono necessariamente o limitanti e illimitate o illimita- te o limitanti e
illimitate. Soltanto cose illimitate non ci potrebbero essere (fr. 2). E in
Giamblico si legge. Secondo Filolao è assolutamente impos- sibile che ci sia
oggetto conoscibile, se tutti gli elementi sono illimi- tati" (fr. 3);
cosi. come non ci sarebbe conoscenza se tutto fosse li- mitante. Dalla
constatazione che nulla è pensabile se non è numerabile e misurabile, se non si
colgono le figure ddle cose, se non si riduce tutto a un determinatore comune,
viene l'affermazione di Filolao che la natura nel cosmo è composta di elementi
illimitati e di elementi limitanti: sia il cosmo nel suo insieme che tutte le
sue parti (fr. 1). Ora, se è vero, come sembra ritenessero i pitagorici, che le
figure, le forme, “idee”, delle cose si costituiscono di numeri, è altret-
tanto vero che ogni cosa ha un suo numero, e che, reciprocamente i numeri si
determinano come figure: punti, linee, triangoli, quadran- goli, poligoni, cubi
e cosi via. Nascevano di qui i problemi grossi dei rapporti tra le figure, che
tradotti in numeri ponevano il problema delle proporzioni, a loro volta fondamento
delle tecniche, ad esempio ar- chitettoniche, statuarie, e musicali. La natura
del numero e la sua grande potenza - dice Filolao - le si vedono... anche in
tutte le attività e in tutte le parole degli uomini, sia nelle attività
tecniche che nella musica (fr. Il). E Archita: la scoperta del calcolo ha fatto
cessare le discordie e ha accresciuto la concordia. Non è possibile che ci sia
sopraffazione da che esso è stato trrntc: c'è invece parità. Per esso infatti
ci accordiamo nelle relazioni di affari. Per mezzo suo i poveri ricevono dai
ricchi e i ricchi dànno ai poveri, avendo fiducia e gli uni e gli altri di
avere la loro parte. Il calcolo è strumento di giudizio e impedisce i torti.
Quanto al cosiddetto sistema filolaico relativo alla concezione del- l'universo
ed alla sua formazione, bisogna andare molto cauti. Se da un lato può darsi che
Filolao abbia sfruttato tesi di pitagorici piu an- tichi e forse risalenti allo
stesso Pitagora (come, ad esempio, il motivo della sfericità della terra, del
moto dei punti, costituenti le figure, del moto inteso come respiro
dell'universo), dall'altro lato il tentativo di tradurre in figure piane e
solide, gli elementi come il fuoco, la terra e cosi via, può essere sospetto,
soprattutto per quel che riguarda le figure solide e i loro rapporti,
“sterometria”, perché la stereometria, come appare chiaramente da Platone, che
ne fa un solo accenno nella Repubblica, mentre la conosce piu a fondo nel Timeo,
fu studiata da Teeteto - discepolo di Teodoro che è senza dubbio alquanto posteriore
a Filolao. Può cosi essei:e giustificato il sospetto di una rico- struzione a
posteriori, formata anche di tesi proprie del pitagorisnìo primo e secondo
(l'accentuazione dell'armonia musicale, il tentativo di matematizzare
l'astronomia rifacendosi all'aritmetica e alla musica), in cui sono presenti
anche ipotesi platoniche, democritee, eudossiane. In effetti i frammenti che si
dicono propri di Filolao o i frammenti di altri pitagorici del tempo o anche
anteriori, sono troppo pochi, brevi, e inseriti in testi troppo posteriori per
giustificare sia una concezione cosmologico-cosmogonica propria di Filolao, sia
una concezione cosmo- logico-cosmogonica dei pitagorici tout court. Non solo,
ma non va scordato che possiamo ricostruire tale concezione pitagorica solo
attraverso testimonianze di Aristotele che non cita Filolao, di Simplicio che
non cita Filolao, ma· che, su sua stessa confessione, riprende da Aristotele, e
da Aezio che cita Filolao. Al centro del cosmo è posto il fuoco, intorno al
quale ruotano dieci corpi celesti (probabile ricordo del valore dato alla
decade, alla tetraetys, dai primi pitagorici), ivi compresa la terra, che non
ha dunque posi- zione centrale e che è sferica. Il cosmo si sarebbe generato da
un primo alito caldo (il respiro di Pitagora), da un fuoco centrale (che sembra
risalire a Ippaso di Metaponto), che armonicamente determina un in- determinato
spazio vuoto. Il cosmo è uno, e cominciò a formarsi dal mezzo, con distanze
uguali dal mezzo all'alto e dal mezzo al basso. Le parti che si trovano sopra
la 109 parte centrale sono dalla parte opposta rispetto a quelle
che si trovano sotto. Le une e le altre si trovano insomma, rispetto alla parte
centrale, nello stesso rapporto: se non che sono da parti opposte (Filolao, fr.
17). Dal fuoco centrale, chiamato la madre degli dèi, perché da esso si
generano i corpi celesti, o Estia, il focolare della patria, o il trono o la
torre di Zeus, il fulcro cioè della vitalità del tutto (il primo armonizzato,
l'uno, è nel mezzo della sfera, e si chiama focolare -- Filo- lao, fr. 7), si
determina l'illimitato, costituendo cosi a poco a poco l'or- dine di tutta la
realtà, formata alla fine dei dieci corpi celesti ruotanti armonicamente
intorno al focolare dell'universo. Dal centro (fuoco) alla periferia abbiamo:
la terra e, ad essa opposta, l'antiterra, invisi- bile per l'uomo perché
ruotante insieme alla terra dalla parte opposta al fuoco; i cinque pianeti
(Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno); il sole C' il pitagorico Filolao
dice che il sole è come un cristallo, perché accoglie il riflesso del fuoco che
è nel centro e rimanda a noi la luce e il calore (Aezio, II, 20, 12); la luna
e, infine, circondante il tutto, il cielo delle stelle fisse. Filolao, poi,
sempre secondo la testimonianza di Aezio (II, 7, 7) avrebbe chiamato Olimpo la
parte estrema di ciò che sta intorno, nella quale sono gli elementi nella loro
purezza, mentre Cosmo avrebbe chiamato la zona che si trova sotto l'Olimpo e in
cui si muovono i cinque pianeti, il sole e la luna, e Urano la zona sub- lunare
dove ancora è disordine e indeterminatezza. Sembrerebbe, dun- que, che secondo
Filolao l'universo sia una sfera entro cui si muovono armonicamente i corpi
celesti, aventi come perno e centro di irradia- zione il fuoco centrale (la
dimora di Zeus), che in quanto è fonte di tutto è anche ovunque, tanto piu là
dove di piu il tutto è definito, il cielo delle stelle fisse, o Olimpo (la
tradizionale sede di Zeus), per cui, forse simbolicamente, il fuoco è
quell'unità che non è nessuno dei numeri, ma è tutti nella loro armonia,
trovandosi cosi al centro e alla periferia come involucro di tutto (cfr.
Aristotele, De coe.lo, Il, 13, 293), unità di finito e d'infinito. Sembra,
infine, che a questa concezione vada riallacciata la celebre dottrina
dell'armonia delle sfere di cui parla Aristotele. Certo Aristotele non cita
direttamente i pitagorici ed è probabile che anche questa teoria sia una
posteriore interpreta- zione e rielaborazione. Alcuni dicono che dal movimento
degli astri nasce armonia, in quanto dal movimento sono prodotti dei suoni e
questi sono consonanti. C'è in- fatti chi crede che, muovendosi corpi cosi
grandi, ne nasca un suono perché suono è prodotto dal movimento dei corpi che
sono quaggiu, i quali pure sono meno grandi e meno veloci di quelli. Non può,
dicono, non nascere un suono straordinariamente grande dal movimento del sole e
della luna e degli astri, che sono tanti e tanto grandi e procedono con tanta
velocità. Cos{ essi credono che i rapporti della velocità degli astri in
relazione alle distanze siano i medesimi degli accordi musicali; e perciò
dicono armonico il suono degli astri ruotanti. Poi, a giustificare il fatto che
questo suono non lo udiamo, dicono che la causa sta in ciò, che esso c'è sempre
dal nostro nascere; manca per questo, dicono, ogni contrasto col silenzio, e
quindi non possiamo distinguerlo, ché suono e silenzio si discernono appunto
perché sono in contrasto. Insomma accade, per tal suono, agli uomini quello che
accade ai fabbri, che per l'abitudine fatta al rumore non lo distinguono piu
(De coelo, II, 9, 290b). Ora, come nella cosmologia l'alito caldo, il fuoco,
che è al centro ed alla periferia, si costituisce come armonia vivente del
tutto, cosi: sembra-che per i pitagorici l'anima fosse armonia e accordo
musicale. L'anima, in quanto p~euma, soffio vitale, sta all'essere vivente come
l'uno centrale, il focolare dell'universo, sta al tutto costituendo armonia tra
gli elementi contrari. L'anima, dunque, sarebbe l'armonia che costituisce,
essendone la condizione, la mescolanza ordinata degli de- menti corporei. Sotto
questo aspetto, venendo meno gli elementi corpo· rei non viene meno l'anima,
ché l'anima come armonia non è il risul- tato di una somma di parti, ma la
condizione dell'ordine stesso, per cui l'anima resta sempre armonia di ciò che
è vivente. Questa sembra fosse la tesi di Simmia, discepolo di Filolao, anche
se Platone, nel Pedone, obbietta che, dissolvendosi gli elementi corporei,
dovrebbe venir meno anche l'anima. Queste, nelle loro linee generali, le
dottrine cosmogonica-cosmolo- gica e dell'anima-armonia che la tradizione ha
fatto risalire ai pitago- rici. Senza dubbio alcuni motivi sono certamente del
primo e del se- condo pitagorismo, altri sono dovuti a interpretazioni e
sistemazioni posteriori, e, innanzi tutto, a Platone. Cosi, per esempio, certe
conce- zioni proprie di Platone, che, nel Timeo in particolare, le mutuava da
Teeteto (cfr. la tesi dei cinque elementi: terra uguale cubo, acqua uguale
icosaedro, aria uguale ottaedro, fuoco uguale tetraedro, etere uguale
dodecaedro), sono state piu tardi (da Aezio, in II, 6, 5) attribuite a Filolao
(cfr. E. Sachs, Die fiinf plat. Korpcr, Berlino, 1917). Molte tesi cosiddette
pitagoriche sono in realtà di Platone o posteriori ai pitagorici, o sono
interpretazioni che, comunque, rispondono;~ problemi e ad esi- genze di altri
pensatori in altre situazioni storiche. Ciò che invece sembra proprio dei
secondi pitagorici, o almeno dei matematici è il valore dat~ all'i(lotesi,
intesa etimologicamente come il presupposto che permette un. certo
ragionamento; ipotesi matematiche che permettono appunto di pensare e che hanno
estrema importanza per le tecniche, come sottolinea Fi- lolao. Di qui la critica
di Platone a coloro che si sono occupati di geo- metria, di aritmetica, di
astronomia: essi hanno formulato i(lotesi, ma da queste non sono giunti ai
fondamenti primi, o meglio, al contrario, a queste.non son giunti dalla suprema
ragion d'essere (cfr. Ref1.); e la critica di Aristotele secondo cui i
pitagorici sarebbero rimasti sospesi fra il sensibile e l'intelligibile
(Metaf.). Ha cosi ragione Rey (La science dans l'antiquité, Parigi) quando
sostiene che i pita- gorici hanno insistito sui " primi principii della
scienza che non sono però i primi principii in se stessi assolutamente
parlando." Entro questi termini può essere opportuno ricordare che a
Filolao sembra si debba la scoperta e lo studio della proporzione o medietà ar-
monica (di quarta, di quinta, di ottava), accanto alla proporzione arilm~ tica
(le cui proprietà furono formulate da.Archita) e a quella geometrica. Queste
ricerche e studi appaiono come l'aspetto piu saliente del secondo pitagorismo,
insieme a un altro problema che si presentava loro, e che, forse, entrava in
contrasto con la teoria dei punti-unità dei primi pi- tagorici, il problema
degli incommensurabili o numeri irrazionali (detti prima indicibili, 4ppYjTat;
poi irrazionali, 4>-oyo'), che tuttavia po- neva le basi di nuovi rapporti e
misure, la possibilità del passaggio dalle figure piane (geometria), alle
solide (stereometria). Di qui da un lato il problema della duplicazione del
quadrato e dall'altro il problema della duplicazione del cubo, che vennero
spostando il problema da un'inda- gine piu strettamente aritmetica a una
indagine che divenne sempre piu strettamente geometrica. Non sappiamo con
precisione a chi risalga la teoria delle grandezze irrazionali. Probabilmente
si scoprirono gli irrazionali, quando, volendo applicare il teorema detto di
Pitagora (la duplicazione del quadrato) al triangolo rettangolo isoscele, ci si
accorse ch'era impossibile misurare e indicare con un numero la diagonale del
quadrato di lato l. Senza dubbio il motivo degli irrazionali fu poi approfondito
da Teodoro di Cirene e quindi da Teeteto, come risulta chiaramente da Platone.
Quanto alla duplicazione del cubo, o problema di Delo (cosi detto perché
secondo la leggenda, conservataci da Eutocio, l'oracolo di Odo avrebbe
richiesto agli abitanti di Delo di duplicare uno degli al- tari del tempio,
clie aveva forma cubica), sembra che per primo vi si sia dedicato il matematico
Ippocrate di Chio, che venuto ad Atene per ragioni di commercio vi si stabill
insegnando matematica, scrivendo i primi elementi di geometria ed entrando in
rap- porto coi maggiori esponenti della cùltura ateniese. lppocrate applicò
alla duplicazione del cubo il metodo, da lui stesso scoperto, detto apagogico,
che consiste nel ridurre un problema a un altro problema, di modo che, se il
secondo è risolto, o dimostrato, lo è ugualmente il primo. Egli stabilisce cosi
che il problema della duplicazione del cubo era di trovare due medie
proporzionali fra due numeri dati e non una sola media come per la duplicazione
del quadrato (cfr. Michel, La science hellène, in Hist. génér. des Sciences,
Parigi). Sempre a Ippocrate di Chio sembra si debba l'impostazioné del problema
della quadratura del circolo, cui credette di poter giungere mediante lo stu-
dio dell'area delle lunule, che, se non risolse la quadratura del circolo,
servi a formulare nuovi teoremi. In questa epoca il problema della quadratura
del circolo fu ripreso e discusso anche da lppia di Elide, che mediante la
curva la lui detta di Ippia o
quadratrice, se non risolse la quadratura del circolo, formulò il teorema della
trisezione dell'angolo; da Antifonte 'che tentò la soluzione raddoppiando
indefinitamente il numero dei lati di un poligono regolare iscritto in un
cerchio; e da Brisone, un sofista fiorito sulla fine del V e l'inizio del IV
secolo, che oltre al poligono iscritto considerò anche quello circoscritto. Non
a caso ci siamo soffermati un momento su questo tipo di in- dagini volte a
questioni precise e concrete. Accantonato il problema del- l'Essere quale si era
formulato con Parmenide ed Eraclito, rivelatosi quel problema come inesistente,
ché nell'uno e nell'altro caso si finiva nel silenzio, questo tipo di ricerche
(volte all'indagine delle condizioni che rendono pensabile la realtà, o delle
condizioni che rendono possibile il rapporto umano, o di quelle che esplicano
il 'fatto' natura) ap- pare come il piu significativo e tale da costituire una
ben precisa si- tuazione culturale. E se per filosofia s'intende ciò che allora
s'intendeva, non una specifica disciplina avente un suo oggetto (come avverrà
con Platone e con Aristotele), ma ricerca, desiderio di sapere in senso gene-
rale, diremmo che la filosofia fu la matematica, la fisica, lo studio di quello
che è il modo umano di pen- sare e di parlare, la retorica, l'indagine di come
gli uomini istituiscono rapporti, di come l'uomo è religioso. Entro questi
termini culturali ed entro questo tipo di ricerche rientrano esattamente anche
le indagini di Democrito.'A tal proposito sembra, anzi, interessante ricordare che
già sulla metà circa del II secolo si venga sempre piu definendo il campo pro-
prio della dialettica e particolarmente della retorica come scienze a sé,
approfondendone il significato educativo. Da un lato ciò si rivela da quel poco
che sappiamo della Retorica dello stoico Diogene di Babilonia, che insieme a
Carneade si reca a ROMA per l'AMBASCERIA, il quale vedeva nella retorica l'arte
con cui si formano uomini politici utili alla città (cfr. Filodemo, De rhet.,
Sudh.); o dall'altro lato attraverso la sistemazione della retorica del celebre
Ermagora di Temno. Egli, oltre a determinare le tecniche dei discorsi relative
alle questioni di dispute particolari da parte di singole persone (ipoten),
delineò la pos- sibilità di discutere sul piano retorico argomenti di carattere
generale (ten), vedendone il pro e il contro, come in tribunale, e che possono
essere utiii sia per la parte deliberativa della retorica, sia per quella
giudiziaria, sia per quella encomiastica, in uno sviluppo di quelli che in
Aristotele erano i luoghi comuni (tesi) e i luoghi propri (ipotesi). Si capisce
come poi di qui si potranno assumere, per esercitazione retorica nelle scuole,
o per utilità di discussione in tribunale o in wli- tica, le tesi dalle tesi
stoiche di morale, dalle tesi platoniche, da quelle aristoteliche,
indipendentemente dai contesti e dal loro significato in quei contesti. Ma qui
il discorso si fa diverso, anche se era necessario questo accenno per
prospettare quelli che saranno certi aspetti della cultura quale troveremo
dalla seconda metà del II secolo a. C. in poi a Roma, nel costituirsi di un
ambiente, di una tematica, di un com- plesso di esigenze, che prendendo mosse e
strumenti dal pensiero e dalla problematica della cultura greca si delinea in
modi diversi, risol- vendosi alla fine in una diversa strutturazione, ove altre
sono le do- mande e le richieste. Ad ogni modo, posta la formalità della logica
crisippea e la sua soluzione in termini di grammatica e di sintassi, in
un'analisi del lin- guaggio, ammesso pure che l'assenso venga dato a ciò che
piu fortemente. impressiona, onde assumiamo fede nella esistenza di ciò che si
vien oresentando ('tUrx«vov )su cui poi si costituisce il discorso, posta
l'analisi rivelante i vari tipi di discorso, la loro verità o falsità, e posti
con ciò i sillogism! ipotetici, i ragionamenti anapodittici, ciò che sem- bra
difficile spiegare è come Crisippo sia poi potuto passare, sul fon- damento di
quella logica, a determinare la ragion d'essere, la logica di tutto, il cui
esito è una teologia, una fisica, una concezione del di- ritto naturàle simili
a quelle di Cleante. Qui non vengono in aiuto né le testimonianze, né i pochi e
sospetti frammenti. Se da un lato tro- viamo un certo insieme di testimonianze,
che, riferendosi particolar- mehte a Crisippo, permettono di ricostruire la sua
logica e la sua dia- lettica, il suo studio dei significanti e dei significati,
e certi termini tecnici, nel senso che sopra abbiamo detto; dall'altro lato,
dall'esposizione che gli antichi dettero dello stoicismo parlando insieme di
Zenone, di Cleante e di Crisippo, vengono fuori, soprattutto comuni a Cleante e
a Crisippo, la stessa teologia, la stessa fisica, la stessa etica. Possiamo
cos1 solo sospettare o che la dimostrazione del tutto (fatalmente ordinantesi
in una catena, manifestazione della Legge con cui Dio si realizza) è tratta per
analogia dal modo con cui si costituisce il discorso, per cui lo stesso tutto e
la sua ragion d'essere e concatena-. zione fatale è, alla fine, un possibile
discorso ipotetico, che viene ac- cettato o respinto solo per opzione, per un
atto di volontà, in un ripie- gamento, dal punto di vista ontologico, sul
probabile o credibile; op- pure che Crisippo abbia nettamente distinto dalla
logica (dialettica e retorica) come unica scienza umana, valida per provare uno
o altro tipo di discorso, la fisica e la teologia valide a spiegare in quanto
basate su di un ragionamento, che può essere formalmente vero, e al quale diamo
quindi l'assenso, una certa condotta morale. L'uomo, cos1, razionalmente
ricostruendo un ipotetico tutto razionale, ove tutto è determinato, nella
consapevolezza critica delle proprie determinazioni e limitazioni, da esse si
libera accettandole e, in un giuoco ove le pedi- ne sono date e date sono le
mosse, ha possibilità - tale sembra l'affer- mazione crisippea che fato e
volontà umana possono coesistere - di determinare tra le possibili mosse date
una mossa piuttosto che un'altra. Dice Crisippo: a quel modo che chi ha dato la
spinta a un cilindr~ gli ha dato l'inizio del movimento, ma non la capacità di
girare, cosf la rappresentazione imprime, si, l'oggetto, ma l'assenso sarà in
nostro potere... Cosi l'ordine e la ragione e la necessità del fato muovon gli
stessi gelliO"i e priiÌcipii delle cause, ma l'impeto delle risoluzioni e
delle menti nostre e le azioni stesse le governa la volontà propria di ciascuno
e l'indole degli animi (Cicerone, De fato; Gellio, Notti Attiche). Altro di
Crisippo non possiamo dire, ché gran parte delle piu duttili discussioni sugli
indifferenti, sul rapporto tra utile e onesto, probabilmente certi sviluppi
relativi alla giustizia, all'unica ragione per cui tutti gli uomini sono uguali
e, idealmente almeno, hanno quindi tutti
gli stessi diritti da natura (il giusto è per natura e non per convenzione,
come anche la legge e la retta ragione, secondo dice Crisippo ": Diogene),
le interpretazioni allegoriche degli dèi, alcune affermazioni paradossali, sono
certo posteriori a Crisippo, e se prestiamo fede alle ricostruzioni di
Cicerone, furono proprii della Scuo- la e in particolare di Diogene di Seleucia
o di Babilonia e di Antipa- tro di T arso, che, dopo Zenone di T arso,
successero nello scolarcato della Stoà durante il II secolo. Secondo Antipatro
si deve rivelare ogni cosa, perché il compratore non ignori nulla di ciò che
conosce il venditore: e per Diogene il venditore deve dire i difetti di ciò che
vende, fin quanto vuole la legge; per il resto agisca senza inganno e, poiché
vendè, venda nel modo migliore... E mentre Antipatro dice: “Ma come? Mentre
devi provvedere agli uomini e renderti utile al consorzio umano, a tale scopo
sei nato, e riconosci il princi- pio naturale, per cui l'utile tuo è
inseparabile dall'utile comune e viceversa, terrai nascosto agli uomini quel
vantaggio che può favorirli? Diogene risponderà. Altro è nascondere, altro è
tacere. (Cicerone, “De officiis”). In effetto sembra che se da un lato molte
delle discussioni di etica1 sorte nella Scuola, hanno un sapore di esercitazioni
dialettiche e retoriche, dall'altro lato proprio tali esercitazioni ponevano il
problema della eticità su di un piano casistico, che venne, non poco, spostando
la rigi- dità dell'originario stoicismo, permettendo una maggiore duttilità nei
confronti delle singole situazioni politiche, mentre il motivo dell'ugua-
glianza di tutti gli uomini in nome dell'unica ragione naturale assu- meva
significato polemico di fronte alle sempre piu gravi sperequa- zioni sociali,
anche se, alla fine, entro l'ambito di una realtà ove tutto si dispone in ben
precisi gradi, rispecchianti la Legge di Dio, poteva giustificare proprio
quelle stesse sperequazioni sociali. L'atteggiamento polemico, invece, tanto
meglio si vede in alcune posizioni di Cinici del III secolo (Bione di
Boristene, Menippo di Gà- dara, Cercida di Megalopoli, Telete), che, mantenendo
il tipico aspetto cinico, di ribellione ad ogni tipo di società, nelle loro
satire e diatribe e meliambi, forme letterarie propriamente popolari e rivolte
al popolo, vennero puntando l'accento sulla sperequazione tra ricchi e poveri:
Perché mai il cielo - scriveva Cercida - non toglie ai ricchi la loro maialesca
ricchezza? A quali signori, dunque, a quali celesti dovremo rivolgerei, per
avere il giusto compenso, quando il Cronide, che tutti ci ha generati, che
anche a noi ha dato la vita, degli uni si mostra padre dei ricchi, degli altri
patrigno dei poveri? (Meliambo). Alla morte di Crisippo, avvenuta ad Atene tra
il 208 e il 204, sco- larca dell'Accademia era Telecle, successo a Lacide di
Cirene, ch'era stato a capo della Scuola dalla morte di Arcesilao. Di Lacide,
ch'ebbe notevole fama di maestro, che fu circondato da molti discepoli venuti
ad Atene da· tutte le parti del mondo greco, sappiamo solo che espose per
scritto il pensiero del maestro. COs1, poco o niente sappiamo di Telecle, e
meno ancora del suo successore Evandro, che lasciò la direzione dell'Accademia
a Ege- sino di Pergamo, al quale successe il discepolo Carneade. Di altri Ac-
cademici di questo periodo sappiamo solo i nomi, Aristippo di Cirene e Pitodoro,
che dedicò i suoi scritti all'esposizione delle argomentazio- ni di Arcesilao
(si cfr. Diogene L.; lndex Herc.; CICERONE, Lucullus; Suda, . Aotxu31Jc;). La
loro importanza sembra, dunque, soprattutto dovuta all'avere costituito una
tradizione arcesilea, prendendo le mosse dalla quale Car- neade,1 in un
approfondimento delle argomentazioni di Arcesilao, serratamente discusse gli
scrhti di Crisippo (" Se Crisippo non fosse sta- to, neppure io sarei:
Diog.) e le tesi stoiche elaborate dai discepoli di Crisippo, Diogene di
Babilonia, alla cui scuola fu Carneade (Cicerone, Lucullus, XXX, 98), e
Antipatro di Tarso, contempo- raneo di Carneade, del quale si dice che mai osò
attaccare Carneade nella scuola o in piazza, preferendo difendere lo stoicismo attraverso
gli scritti (Numenio). Nato a Cirene, in una città ricca di tradizioni
scientifiche e culturali - da dove erano venuti ad Atene anche [Nato a Cirene
Carnéade venne ad Atene in un'epoca che non è dato precisare. Ad Atene si
preoccupò soprattutto di rendersi conto delle varie com- ponenti culturali:
ascoltò Egcsino di Pergamo, scolarca dell'Accademia, Diogene di Babilonia,
scolarca della Stoà e discepolo di Crisippo. Fu uomo di vastissima cultura,
dia- lettico sottile, buon parlatore. Successe nello scolarcato dell'Accademia
a Egesino di Per- gamo. Probabilmente fu proprio la sua fama di dialettico e di
buon parlatore che fece decidere gli ateniesi ad inviare a Roma Carneade
insieme allo scolarca della Stoà Diogene di Babilonia, e allo scolarca del
Peripato, Critolao, in qualità di·ambasciatore presso il senato romano. Gli
ateniesi, condannati da Roma a pagare una·forte multa per avere saccheggiato Oropo,
inviano Carneade, Diogene di Babilonia e Critolao, a Roma perché cercano di far
ritirare il provvedimento. Giunti a Roma e non ascoltati subito dal senato, i
tre ambasciatori presero contatto coi romani, discutendo con loro di filosofia.
Chi fece la massima impressione, per la sua arte dialettica, per avere un
giorno esaltato la giustizia e il giorno dopo, con altrettanti argomenti
convincenti, sostenuto che la giustizia è stoltezza, fu Carneade. gli accademici Aristippo e Lacide, -
Carnel).de, ad Atene, ascolta le lezioni e le discussioni dei maggiori maestri,
dallo scolarca dell'Accademia Egesino di Pergamo a Diogene di Babilonia,
scolarca del Portico (Cicerone, “Lucullus”). Studioso e lettore attento di
scritti filosofici di ogni provenienza, dice Cicerone che Carneade conosce a
fondo ogni parte della filosofia: Va"o,, - ottimo parlatore e sottile
dialettico, sembra che per queste sue doti e scelto da Egesino a succedergli
nello scolarcato dell'Accademia. Che Carneade, come Arcesilao, non scrive snulla,
indica chiaramente una netta presa di posizione e l'assunzione della filosofia
come sempre attenta e aperta consapevolezza critica. Di qui, non tanto un
atteggiamento polemico nei confronti dello stoicismo, quanto un continuo
richiamo alle ingiustificate evasioni dai limiti delle possibilità umane verso
cui lo stoicismo veniva scivolando. Non a caso, anzi, tutta la discussione di
Carneade si svolge al di dentro della stessa logica dello stoicismo. Carneade
non oppone allo stoicismo altra concezione, sia pur rovesciata, ché sempre si
sarebbe trattato di una “filosofia,” ma egli, riconoscendo con lo stoicismo, o
meglio con Crisippo, che i fondamenti del discorso umano sono da un lato i dati
dell'impressione sensibile e dall'altro lato l'attività del soggetto che ordina
e unisce in nessi e implicazioni quei dati stessi, proprio per questo, non po-
tendo la ragione umana uscire da se stessa e dal proprio discorso, sottolinea
l'illeceità del passaggio dal discorso umano ad un presunto discorso della
realtà. E, soprattutto, usando il metodo delle anti- Carneade visse. Vecchio e
ammalato, lascia la direzione dell'Accademia, che passa al discepolo Carneade
di Polemarco che prem.ori al maesto. Lo scolarcato dell'Accademia e quindi
tenuto da Cratete di Tarso, al quale succede Clitomaco di Cartagine. Carneade
non lascia scritti. Su di lui e sul suo modo di pensare scrive Clitomaco, che,
probabilmente, fu la maggior fonte di CICERONE. Per utilità ricordiamo che dopo
Platone scolarchi dell'Accademia furono: Speusippo, Senocrate, Polemone, Cratete
di Atene, Arcesilao, Lacide, Tclecle, Evandro, Egesino di Pergamo, Carneade. Di
Diogene di Babilonia e di Critolao, che accompagnarono Carneade a Roma, sappiamo
molto poco. Diogene di Babilonia, discepolo di Crisippo, succede nello
scolarcato della Stoà a Zenone di Tarso. Soprattutto Diogene di Babilonia si
occupa di dialettica e di retorica. Fu il quarto scolarca della Stoà dopo
Zenone: Cleante, Crisippo, Zenone di Tarso, Diogene di Babilonia. Pochi i
frammenti di Critolao, nativo di Faselide, nella Licia, e scarse le notizie su
di lui. Succede nello scolarcato del Liceo ad Aristone di Ceo che scrive una
“Storia del Peripato”, in cui sono inseriti i testamenti degli scolarchi suoi
predecessori. Critolao fu il quinto scolarca del Liceo, dopo Aristotele:
Teofrasto, Stratone di Lampsaco, Licone di Troade, Aristone di Ceo, Critoli10.
A Critalao successe Diodoro di Tiro.
logie, egli tende a chiarire l'impossibilità di affidarsi a
una qual- siasi dottrina che presuma d'essere l'unica vera o la possibilità che
una dottrina abbia di dimostrarsi vera razionalmente. Di qui, di contro ad ogni
tipo di teologia o di dimostrazione dell'esistenza degli dèi o del divino,
l'appello di Carneade a rendersi conto dei propri limiti e delle proprie
possibilità è, si, da un lato, la dichiarazione di morte di un certo tipo di
filosofia, ma dall'altro lato è anche il piu alto riconoscimento della serietà
dell'indagine che, negando alla filosofia la sua presunta funzione di scienza
delle scienze, dà alla filosofia la funzione di determinare volta per volta il
limite e la validità di que- sta o di quella ricerca, la consapevolezza
dell'umana responsabilità, della responsabilità del pensiero. Carneade, certo,
non si spiega senza Crisippo (soprattutto per ciò che riguarda i limiti della
logica e della dialettica), senza la tesi stoica del fato e della Legge, e
senza i conseguenti problemi sulla pos- sibilità o meno della libertà e della
umana capacità di azione. Sotto questo aspetto, l'appello di Carneade alla
consapevolezza critica, alla responsabilità del pensiero, al significato e alla
funzione che ha il filosofare, non è un vuoto appello, ma una concretissima
presa di posizione, nei confronti di tesi che finivano per alienare- l'uomo, in
una situazione storica particolarmente favorevole a simili evasioni ed evi-
tate responsabilità in astratte pacificazioni. Cosi, accanto alla discus- sione
svolta da Carneade nei confronti della fantasia catalettica, della veracità o
meno dell'impressione sensibile, della dialettica come capacità di discernere i
ragionamenti veri dai falsi, dell'assenso, della necessità della epoché
(discussione, del resto, anche se piu approfondita, molto simile a quella
svolta da Arcesilao), sembra di non poco conto ricordare la precisa
problematica posta da Carneade nei confronti del- l'impossibilità di porre da
un lato una realtà fatalmente ordinantesi in nessi, ove tutto è là dove
dev'essere necessariamente, momento del necessario realizzarsi di una legge
universale, e, dall'altro lato, l'uomo avente la capacità di volere, per cui
almeno alcune cose sono in suo potere. Carneade, ed è naturale, non si decide
né per l'una né per l'altra tesi. Ciò ch'egli vuole è giungere a porre l'inconciliabilità
tra libertà e necessità, tra possibilità umana di costruire il proprio mondo e
d'esserne responsabile, e la visione di un tutto ove Dio è legge. Ma nel
sottolineare tale aporia, Carneade portava ad estrema conseguenza ed a
consapevolezza quella ch'era stata la problematica propria di gran parte del
pensiero greco. E qui pensiamo particolarmente ad Aristotele nel quale si vede
bene il conflitto tra un tutto che sillogisticamente si scandisce e la volontà
come capacità di realizzare in armonia dei fini che dipendono dall'attività
propria dell'uomo e alla soluzione di una parte almeno della scuola
aristotelica, che svincolando il filosofare dalla ricerca delle cause prime e
dei fini ultimi, aveva posto la funzione del filosofare nell'indagine delle condizioni
che permettono la costruzione delle singole scienze, o, per altra via, del come
è che si pensa, del come è che si parla. Ma pensiamo anche ad Epicuro, alla sua
polemica contro l'astrologia e la dialettica di Platone, contro il sillogismo
di Aristotele, contro la matematicizza:z;ione dell'universo. Ed infine pensiamo
agli stessi Stoici, in particolar modo a Zenone e a Crisippo, e cioè ai loro
sillogismi ipotetici, alla loro logica proposizionale, che, invece di un esito
religioso-teologico - non va dimenticato che gran parte degli stoici
provenivano da zone orientali, particolarmente semitiche, ove giovani si erano
formati - poteva aver quell'esito, che, in effetto, ebbe proprio in Carneade.
Posto cioè che ogni discorso si costituisce di implicazioni dovute al ricordo
di impressioni ricevute, ognuna delle quali non è, presa in sé, né falsa né
vera (non abbiamo alcun criterio per poter affermare che l'impressione vera è
quella che corrisponde all'oggetto impressionante, perché dovremmo già prima
conoscere l'oggetto), e posta quindi l'ipoteticità del discorso, si deve avere
il coraggio di mostrare che proprio perché ogni discorso è ipotetico, per cui
l'uno si può opporre all'altro (antilogia), ogni discorso è valido sul piano
umano, e la sua stessa verità - la coerenza o meno delle implicazioni - può
cangiare, se diverse sono le impressioni e i relativi ricordi, per cui la
stessa dialettica, intesa come scienza che dovrebbe distinguere il vero dal
falso nei discorsi, non ha alcun criterio assoluto e quindi è vana, sf come
vano sul piano ontologico si rivela il criterio dell'analogia con cui gli
Stoici hanno costruito la loro cosmologia, la loro concezione del divino, della
Provvidenza, con cui provano l'esistenza di Dio, e pongono la tesi del diritto
naturale. Costruzione umana, gli umani discorsi e le umane verità, le une e gli
altri validi entro i termini della mobile storia degli uomini e delle loro
esperienze, la stessa giustizia è storica e non naturale. Gli uomini sancirono
il diritto per proprio utile, dal momento che spesso esso venne cangiato a
seconda dei costumi e, nell'ambito di una medesima società, a seconda dei
tempi: non esiste pertanto alcun diritto naturale; tutti, uomini ed esseri
viventi, sono portati all'utile proprio, sotto la guida della propria natura;
di conseguenza o non esiste affatto la giu- stizia o, se esiste in qualche
modo, è il colmo della stoltezza, perché in servizio del vantaggio a ltrui
nuocerebbe a se stessa (Lattanzio, Div. inst.). C'è, dunque, un diritto civile,
non un diritto naturale (CICERONE, Rep.). Distinta la giustizia in due parti,
chiamando l'una sociale e l'altra naturale, Carneade le capovolge ambedue, dal
momento che la prima è civile saggezza, ma non vera giustizia, e la seconda è
1..erto naturale giustizia, ma non saggezza (Cicerone, Rep.). Il che, ancora
una volta, non significa affatto negare la giusuz1a o opporre alla tesi stoica
un altro concetto di giustizia, ma dimostrare l'impossibilità di cogliere la
giustizia in sé, di cogliere, di là dall'umano discorso e dalle situazioni
umane, la ragion d'essere del tutto, la legge come recta ratio su cui tutto si
fonda. Carneade, testimonia CICERONE, confuta la giustizia, non già perché
pensasse che essa dovesse essere ingiuriata, ma per dimostrare che i suoi difensori
discutevano intorno alla giustizia, senza avere alcun fondamento certo e solido
(Rep.). Lo stesso potremmo ripetere per ciò che riguarda gli dèi, la
cosmologia, la provvidenza, la divinazione (artificiale e naturale) e cosi via,
tutte tesi stoiche, che Carneade discute senza uscire fuori dalle stesse
argomentazioni stoiche, dimostrandone la contraddittorietà sia ricorrendo alle
antilogie sia ai vecchi sofismi megarici, come i soriti, sia all"'
ironia" socratica (si cfr., anche per ciò che sopra è stato esposto, CICERONE,
Lucullus; De natura deorum; De divinatione; De fato; De finibus; Sesto
Empirico, Adv. math.). D'altra parte, infine, poiché, almeno in Crisippo, la
dimostrazione del tutto e di quelle che sono le leggi del tutto è tratta per
analogia dal mondo con cui si costituisce il discorso, per cui di implicazione
in implicazione si giunge a porre la condizione prima nel principio attivo e in
quello passivo, lo stesso tutto e la sua ragion d'essere e concate- nazione
fatale sono, alla fine, un possibile discorso ipotetico, che viene accettato o
respinto per opzione. Sembra chiaro, allora, come di qui Carneade potesse
trarre che, dunque, l'esito non· contraddittorio della logica stoica doveva
essere non la certezza in un sapere assoluto, che accantona ogni altra
opinione, ma il ripiegamento sul probabile o cre- dibile (7tr.&«vov-
pithan6n ). Molto si è discusso sul significato che ha in Carneade la tesi del
credibile. " È invalso l'uso," scrive PRA (si veda) (Grande Antologia
filosofica, Milano}, di considerare del tutto a parte la dottrina carneadiana
del pithan6n, che darebbe fondamenmente si scandisce e la volontà come capacità
di realizzare in armonia dei fini che dipendono dall'attività propria dell'uomo
e alla soluzione di una parte almeno della scuola aristotelica, che svincolando
il filosofare dalla ricerca delle cause prime e dei fini ultimi, aveva posto la
funzione del filosofare nell'indagine delle condizioni che permettono la
costruzione delle singole scienze, o, per altra via, del come è che si pensa,
del come è che si parla. Ma pensiamo anche ad Epicuro, alla sua polemica contro
l'astrologia e la dialettica di Platone, contro il sillogismo di Aristotele,
contro la matematicizzaione dell'universo. Ed infine pensiamo agli stessi stoici,
in particolar modo a Zenone e a Crisippo, e cioè ai loro sillogismi ipotetici,
alla loro logica proposizionale, che, invece di un esito religioso-teologico -
non va dimenticato che gran parte degli stoici provenivano da zone orientali,
particolarmente semitiche, ove giovani si formano - poteva aver quell'esito,
che, in effetto, ebbe proprio in Carneade. Posto cioè che ogni discorso si
costituisce di IMPLICAZIONI dovute al ricordo di impressioni ricevute, ognuna
delle quali non è, presa in sé1 né falsa né vera (non abbiamo alcun criterio
per poter affermare che l'impressione vera è quella che corrisponde all'oggetto
impressionante, perché dovremmo già prima conoscere l'oggetto), e posta quindi
l'ipoteticità del discorso, si deve avere il coraggio di mostrare che proprio
perché ogni discorso è ipotetico, per cui l'uno si può opporre all'altro
(antilogia), ogni discorso è valido sul piano umano, e la sua stessa verità -
la coerenza o meno delle implicazioni - può cangiare, se diverse sono le impressioni
e i relativi ricordi, per cui la stessa DIALETTICA, intesa come scienza che
dovrebbe distinguere il vero dal falso nel discorso o dialogo, non ha alcun
criterio assoluto e quindi è vana, si come vano sul piano ontologico si rivela
il criterio dell'analogia con cui gli stoici hanno costruito la loro
cosmologia, la loro concezione del divino, della provvidenza, con cui provano
l'esistenza di Dio, e pongono la tesi del diritto naturale. Cotruzione umana,
le umani discorsi e l’umane verità, le une e gli altri validi entro i termini
della mobile storia degli uomini e delle loro esperienze, la stessa giustizia è
storica e non naturale. Gli uomini sancirono il diritto per proprio utile, dal
momento che spesso esso venne cangiato a seconda dei costumi e, nell'ambito di
una medesima società, a seconda dei tempi: non esiste pertanto alcun diritto
naturale; tutti, uomini ed esseri viventi, sono portati all'utile proprio,
sotto la guida della propria natura; di conseguenza o non esiste affatto la
giu- stizia o, se esiste in qualche modo, è il colmo della stoltezza, perché in
servizio del vantaggio altrui nuocerebbe a se stessa (Lattanzio, Div. Inst.). C'è,
dunque, un diritto *civile*, non un diritto naturale (Cicerone, Rep.). Distinta
la giustizia in due parti, chiamando l'una sociale e l'altra naturale, Carneade
le capovolge ambedue, dal momento che la prima è civile saggezza, ma non vera
giustizia, e la seconda è terto naturale giustizia, ma non saggezza (CICERONE,
Rep.). Il che, ancora una volta, non significa affatto negare la giustiza o
opporre alla tesi stoica un altro concetto di giustizia, ma dimostrare
l'impossibilità di cogliere la giustizia in sé, di cogliere, di là dall'umano
discorso e dalle situazioni umane, la ragion d'essere del tutto, la legge come “recta
ratio” su cui tutto si fonda. Carneade, testimonia CICERONE, confuta la giustizia,
non già perché pensasse che essa dovesse essere ingiuriata, ma per dimostrare
che i suoi difensori discutevano intorno alla giustizia, senza avere alcun
fondamento certo e solido (Rep.). Lo stesso potremmo ripetere per ciò che
riguarda gli dèi, la cosmologia, la provvidenza, la divinazione (artificiale e
naturale) e cosi via, tutte tesi stoiche, che Carneade discute senza uscire
fuori dalle stesse argomentazioni stoiche, dimostrandone la contraddittorietà
sia ricorrendo alle anti-logie sia ai vecchi sofismi megarici, come i soriti,
sia all'ironia socratica (si cfr., anche per ciò che sopra è stato esposto, CICERONE,
Lucullus; De natura deorum, III; De divinatione, II; De fato; De finibus; Sesto
Empirico, Adv. math.). D'altra parte, infine, poiché, almeno in Crisippo, la
dimostrazione del tutto e di quelle che sono le leggi del tutto è tratta per
analogia dal mondo con cui si costituisce il discorso, per cui di implicazione
in implicazione si giunge a porre la condizione prima nel principio attivo e in
quello passivo, lo stesso tutto e la sua ragion d'essere e concatenazione
fatale sono, alla fine, un possibile discorso ipotetico, che viene accettato o
respinto per opzione. Sembra chiaro, allora, come di qui Carneade potesse
trarre che, dunque, l'esito non-contraddittorio della logica stoica doveva
essere non la certezza in un sapere assoluto, che accantona ogni altra
opinione, ma il ripiegamento sul probabile o credibile (7tt&otv6v- pithanon).
Molto si è discusso sul significato che ha in Carneade la tesi del credibile.
"È invalso l'uso," scrive il Dal Pra (Grande Antologia filosofica,
Milano) di considerare del tutto a parte la dottrina carneadiana del pithanon,
che darebbe fondamento al suo probabilismo, come anche di considerare il
probabilismo del tutto a parte rispetto allo scetticismo vero e proprio. Per
contro, un attento esame della questione porta a concludere che, anche a
proposito del problema dell'azione e del motivo della probabilità, Carneade non
ha fatto che attenersi al classico metodo della ritorsione polemica nei
confronti dello stoicismo. Crisippo sostenne che il probabile conduce
all'assenso, ma non certo all'assenso della rappresentazione comprensiva;
mentre tale assenso infatti è criterio di verità, la probabilità è causa
permanente di errore. Ci si potrà difendere da esso percorrendo interamente
ogni enunciazione, evitando che il conflitto delle ragioni in pro ed in contro
ci distolga dalla rappresentazione comprensiva, evitando soprattutto che
l'indebolimento dell'assenso ci porti a lasciarci sfuggire la rappresentazione
comprensiva. Ebbene, Carneade risponde all'incirca nei termini seguenti. Il
vostro criterio, o stoici, della rappresentazione comprensiva non è in fondo
che un pithanon, ossia una di quelle probabilità che voi considerate come
perenne fonte di errori. La vostra dialettica, che è tutta la vostra scienza,
fondata sulla persuasione e sulla probabilità diviene una pura e semplice arte
di persuadere, una retorica. La vostra pretesa di costituire, partendo dalla
sensibilità, una scienza del vero e del falso, è vana; per l'azione è
sufficiente la persuasione, come mostra lo stesso sapiente stoico; e la
persuasione rende inutile la conoscenza compren- siva; la vostra teoria della
conoscenza non ha dunque oggetto; pro- prio e solo alla persuasione voi siete
costretti a ridurvi. Il pithanon è l'unico punto che vi resta di tutta la
vostra filosofia." La rappresentazione ha due aspetti, uno relativo all'oggetto,
l'altro al soggetto. Rispetto all'oggetto essa vera o falsa. Rispetto al
soggetto appare vera o falsa: e quella che appare vera si chiama persuasiva,
“pithane”. Ora, quella rappresentazione che appare vera, e in modo abbastanza
chiaro, è per Carneade criterio di verità per la condotta della vita e
l'acquisto della felicità. Talvolta accade anche che una tal rappresentazione
sia falsa. Ma siccome questo capita di rado, si pu prestar fede a quella che
per lo piu è vera, poiché noi non possiamo regolare giudizi e azioni che in
conformità di ci che è il piu consueto (Sesto Empirico, Adv. math.). Il
criterio primo e comune secondo Carneade è dato dalla rappresentazione
persuasiva. Ma poiché le rappresentazioni non sono mai isolate,.ma formano come
una catena nella quale ciascuna è collegata con le altre, il secondo criterio
sarà la rappresentazione persuasiva e insieme non contraddetta, “aperispastos”.
Come alcuni medici comprendono chi ha davvero la febbre non da un solo SINTOMO,
ma dal concorso di tutti, cosi l'accademico dal concorso delle rappresentazioni
giudica la verità; e se nessuna delle rappresentazioni concomitanti la
contraddica come falsa, dice che è vera quella che gli appare. Ma ancor piu
della rappresentazione non contraddetta è persuasiva e perfetta generatrice di
giudizio quella che aggiunga al non esser contraddetta anche l'esser esaminata
in ogni parte ("diexodeuméne"), per esempio, per quel che riguarda il
giudicante, il giudicato, il mezzo attraverso cui si giudica, la distanza e l'intervallo,
il luogo, il tempo, la disposizione, l'attività, e cosi via. Nelle contingenze
comuni, dice Carneade, usiamo per criterio la sola rappresentazione persuasiva.
In quelle un po' importanti la non contraddetta; in quelle poi che influiscono
sulla felicità, quella esamimta in ogni parte (Sesto Empirico, Adv. math.).
Cicerone e Sesto sono le uniche fonti per avvicinarsi alla posizione di
Carneade. Cicerone sembra attingesse - ma personalmente li rielabora, agli
scritti di un discepolo di Carneade, Clitomaco di Cartagine, che fedelmente
espose il pensiero del maestro. Ad ogni modo, comunque s'intenda o s'interpreti
la tesi del pithanon, sia pur attraverso la ricostruzione che
dell'atteggiamento di Carnede dà CICERONE e l'esposizione che del cosiddetto
scetticismo di Carneade dà Sesto Empirico, ciò che chiaramente emerge è il
continuo appello di Carneade a non uscire fuori dal proprio mondo umano, ad
assumere di fronte ad ogni opinione o concezione, per venerata o venerabile che
sia, una consapevolezza critica che, chiarendo le nostre idee, rende conto di
ciò che siamo e di ciò che possiamo plausibilmente fare, in un accantonamento
delle supreme verità, quali che siano, oggetto di fede, ma distruggitrici di
quell'umano dovere che è il ragionare. Sotto questo profilo ed entro i termini
delle discussioni antilogiche di Carneade, ci rendiamo conto dell'impressione
che fa in Roma il suo celebre discorso sulla giustizia, in cui, dopo aver
sostenuto il valore della giustizia con argomenti convincenti, con altrettanti
convincenti argomenti ne dimostra l'assurdità. Ma ci rendiamo conto anche delle
preoccupazioni di un CATONE di fronte a uomini come Carneade, e il suo darsi da
fare, perché gli ambasciatori (Carneade accademico, Diogene di Babilonia
stoico, Critolao peripatetico), inviati da Atene a ROMA per convincere il senato
a ritirare il decreto con cui Atene e condannata a pagare una forte multa per
aver saccheggiato Oropo, vennneno subito ricevuti e se ne andassero al piu
presto. L'ambasceria di Carneade a ROMA è un episodio, ma è un episodio che è
pure un SINTOMO e che, anche se con cautela, può indicare un termine bi-fronte:
la conclusione di quella ch'ela problematica propria del pensiero greco, e
l'inizio di tutta una problematica rispondente a situazioni diverse, a diverse
richieste ed esigenze, nell'incontro tra due culture diverse di origini
diverse, in un sempre maggiore allargamento anche a culture orientali, non piu
filtrate solo dai greci, ma ritornanti al mondo greco attraverso Roma. Certo
non fu all'indomani che tutto divenne diverso. Ma è sicuro che, già coi primi
discepoli di Carneade (dei quali peraltro sappiamo pochissimo: Carneade di
Polemarco, premorto al vecchio Carneade, che venne meno, Cratete di Tarso,
Clitomaco che fedelmente espose il pensiero del maestro), e particolarmente con
Carmada e Metrodoro dai quali deriva Filone di Larissa, che fu a Roma e del
quale CICERONE ascolta le lezioni, e Antioco di Ascalona, si puo determinare una
problematica diversa, rispondente, appunto, a situazioni diverse e a diverse
richieste. E cosi troviamo entro la scuola stoica modificazioni e compromessi
che dettero luogo alla cosiddetta media stoa, indicativi anch'essi di
situazioni diverse e di diversi controlli umani e politici, ove in nome
dell'ordine e della razionalità del tutto, del diritto naturale e della legge
universale, si puo riconoscere Roma la capitale del mondo, caput mundi),
recuperando gia vecchie concezioni astrali e cosmologiche dei caldei, sia certi
aspetti piu mistici e religiosi di Platone. Non solo, ma non è un caso che
proprio in questi tempi, vi sia un rifiorire dell'epicureismo e si diffonda un
epicureismo romano che già condannato dal senato romano, con l'espulsione degli
epicurei Alceo e Filisco, per avere introdotto costumi licenziosi (Ateneo), è
indicativo di una opposizione nuova, di un appello alla plebe, fino
all'esplosivo canto di LUCREZIO, il quale vide in Epicuro piu che una dottrina
un'arma politica e culturale. Né certo possiamo comprendere LUCREZIO e l'epicureismo
romano se non si tengono presenti proprio quelle situazioni di cui parlavamo, e
senza di cui è difficile rendersi conto del delinearsi di una nuova civiltà,
frutto di un incontro, di uno scontro e di un dialogo, diversi da quelli da cui
si genera il complesso delle componenti della cultura greca: la quale, a sua
volta, offri i suoi elaborati strumenti, ma in una modificazione dei suoi
contenuti. Roma si assicura il dominio dell'Egeo, colla pace di Apamea conquista
l'Asia Minore fino al Tauro, con la battaglia di Pidna, la Macedonia edefinitivamente
sconfitta, e, con la seconda battaglia di Pidna, divenne PROVINCIA ROMANA. A
causa di un'ultima rivolta della lega greca, Roma, dopo avere distrutto
Corinto, rese tributarie tutte le città greche, trann~ Atene e Sparta. Il poeta
Antipatro di Sidone cosi canta la distruzione di Corinto. Dov'è, dorica
Corinto, la tua ammirata bellezza, dove le tue corone di torri e le ricchezze
antiche? Dove i templi degli immortali e le case? Dove le spose sisifee e le miriadi
di folla? Nessun VESTIGIO è rimasto, infelice, di te. Tutto ha rapito, tutto ha
divorato la guerra. Noi sole, le alcioni, immortali Nereidi oceanine. Restiamo
a testimoniare il tuo dolore (Ant. Pal.). Sono versi come tanti ve ne potevano
essere, si come tante erano state le guerre e le distruzioni durante la lunga e
tormentata storia della Grecia, ma sono versi che possono avere, ora, un loro
significato simbolico, come significativo è il fatto che Antipatro di Sidone fu
il primo poeta greco volontariamente anda a Roma. Cosi altrettanto indicativa è
la vicenda di Polibio, che, nemico di Roma, difensore della Macedonia, e, dopo
la battaglia di Pidna tra i mille ostaggi inviati a Roma da Emilio Paolo. A
Roma entra in dimestichezza con Scipione Emiliano e col suo circolo,
descrivendo, infine, la grandezza di Roma, con chiara consapevolezza che tutto
un mondo culturale e civile s'era compiuto e che, con Roma, altro si
richiedeva, altre sono le esigenze, altra divenne la cultura. Oso avanzare
l'ipotesi che quanto il resto dell'umanità [i greci] deride è il fondamento
della grandezza romana, cioè la superstizione. Questo elemento è stato
introdotto in ogni aspetto della loro vita pubblica e privata con ogni
artificio per impressionare l'immaginazione a un grado tale, che non se ne
potrebbe concepire uno piu alto. Molti probabilmente si stupiranno
nell'apprendere ciò; la mia opinione è che ciò fu fatto per impressionare le
masse. Se fosse possibile fondare uno Stato in cui tutti i citta- dini fossero
filosofi, potremmo forse far a meno di questo genere di cose; ma in ogni Stato
le masse sono instabili, piene di desideri illeciti, di violente passioni.
Tutto quel che si può fare è quindi tenerle a freno col timore dell'invisibile
e con altri inganni di tal genere. Non a caso, ma a ragion.veduta, gli antichi
insi.nuavano nelle masse idee sugli dèi e pensieri su~la v1ta. ultrate~re~a. La
folha. ~ la.incapacità sono nostre [dei greci] poi- che cerchtamo dt dtsperdere
tah liluswni. E non è, forse, senza interesse ricordare che proprio IL CIRCOLO
DEGLI SCIPIONI ha accolto ostilmente la celebre opera (Scritto sacro) di
Evemero di Messana, in cui Evemero, rifacendosi a certe tesi sofistìche
sull'origine storica della nascita degli dèi, sosteneva che gli dèi non sòno
altro che uomini celebri e famosi in vita, che, per i loro meriti verso il
genere umano, furono divinizzati dopo la morte.compimento del pensiero greco e Roma.
La cultura e tradizioni greche a Roma sono forti. Chi si ponga a studiare la
situazione culturale tra l'ambasceria dei tre filosofi a Roma e la morte di CICERONE,
si trova di fronte a un insieme di questioni assai complesse e difficilmente
districabili, che certo non si possono risolvere con quella specie di categoria
che è divenuto il termine “eclettismo”, per la prima volta usato da Diogene
Laerzio (Proem.) nei confronti di Potamone di Alessandria, ma ripreso dal
Brucker (Historia critica philosophiae, Lipsia) e da allora adottato da tutta
la storiografia filosofica per indicare l'indirizzo proprio del secolo di cui
Cicerone sarebbe il maggior rappresentante. Si è cosi parlato di “eclettismo”
per lo stoico Boeto di Sidone, per gli stoici Panezio e Posidonio, per Mnesarco,
successo nello scolarcato della Stoà a Panezio; per gli accademici Filone di
Larissa e Antioco di Ascalona, successi nello scolarcato dell'Accademia a
Clitomaco, per l'aristotelico Andronico di Rodi. Al di fuori dell'”eclettismo”
e, invece, rimasta la corrente epicurea con Zenone di Sidone, Fedro, Filodemo,
Patrone, culminante in Roma con Tito LUCREZIO Caro, mentre con Enesidemo si
avrebbe un ritorno all'originario scetticismo di Pirrone e di Timone. La prima
difficoltà oggettiva è la mancanza di testi e di una documentazione precisa che
permettano una ricostruzione storicamente esatta di singole posizioni,
soprattutto per Boeto di Sidone, per Panezio e Posidonio, che pur ebbero
un'influenza grandissima, per Filone è Antioco di Ascalona, con i quali sembra
che l'insegnamento dell'Accademia abbia assunto un diverso significato rispetto
a quello di Carneade. Ciò che sappiamo di loro, lo dobbiamo soprattutto Cicerone,
o, meglio, alla rielaborazione che CICERONE nel corso della sua meditazione e
nella sua precisazione del significato della retorica per la costituzione di
una vita associata (entro i termini de! mondo romano, della sua cultura e della
sua storia, in un momento drammatico per la salvezza della repubblica) ha
operato di quei dibattiti, di quegli atteggiamenti fluidi e duttili, a loro
volta influenzati dalle nuove richieste, dai nuovi problemi impostati dalla
tradizione e dalle esigenze di Roma, da una Roma che da “città-stato”, avente
una sua cultura ed una sua formazione, si veniva trasformando in “impero”, in
mezzo a lotte e a dolori, a guerre, a cozzi di partiti, nell'incontro con altre
e diverse concezioni e culture. D'altra parte, una seconda difficoltà sta nell'impossibilità
di accertare con esattezza l'esistenza di UNA LINEA ORIGINARIA E ORIGINALE
DELLA TRADIZIONE ROMANA, prima dell'incontro piu vasto con il mondo greco ed il
mondo orientale, a parte le sicure reciproche influenze dovute a quel ponte di
passaggio che furono Cuma e L’ETRURIA prima, TARANTO, la MAGNA GRECIA –
Crotone, Velia --; la SICILIA poi. A tal proposito CICERONE è piuttosto preciso
nel dichiarare l'imprecisione e la fluidità della cosiddetta corrente
pitagorica romana, che avrebbe costituito lo sfondo e il tessuto della cultura
di Roma fino al tempo della conquista della Grecia. Cicerone stesso in quel
pitagorismo piu che una determinata concezione, piu che una filosofia, vede una
tradizione, un modo di vita, o meglio una visione di un ordine trascendente e
teleologicamente determinato su cui si vengono armonicamente scandendo le leggi
della città e un tipo di éthos, in una struttura di stato ARISTOCRATICO e
contadino-MIITARE, dove trovano posto esigenze religiose estremamente semplici
e povere e pratiche terapeutico-cultuali, che se da un lato, trasmesse dalla
Magna Grecia – Crotone, Velia --, potevano andare sotto il nome generico di
"pitagorismo," dall'altro lato s'incontravano con la situazione
ARISTOCRATICO-contadina del popolo di Roma. Per molti rispetti - scrive
Cicerone - sono un ammiratore dell'ingegno e della virtu dei nostri
connazionali, ma soprattutto per quegli studi a cui si dedicarono molto tardi,
trasferendoli dalla Grecia nella nostra città. È vero che fin dalle prime
origini di Roma, durante il periodo regio, gli ordinamenti, e in parte anche le
leggi, regolarono a perfezione gli auspici, le cerimonie religiose, le
assemblee popolari, gli appelli al popolo. Il consesso dei senatori, la
ripartizione dei cavalieri e dei fanti e tutta l'organizzazione militare. Però,
quando lo stato lazio o romano e liberato dal regime monarchico, si verifica un
progresso meraviglioso e uno slancio incredibile verso ogni specie di primato.
Non è certo questo il luogo per parlare dei costumi e degli ordinamenti dei
nostri ante-nati né della costituzione e del governo dello stato lazio o stato
romano. Esaminando in questa sede le attività culturali e filosofiche, molti
fatti mi fan credere che esse pure siano state desunte dal di fuori e siano
state non solo ricercate, ma anche mantenute e coltivate. I nostri ante-nati
avevano infatti quasi sotto gli occhi un uomo di straordinaria sapienza e
rinomanza, Pitagora, che visse in Italia al tempo in cui libera la patria Lucio
BRUTO. Poiché la dottrina di Pitagora ebbe larga diffusione, a mio parere
penetra anche nella nostra città, e questa congettura non è soltanto probabile,
ma è anche confermata da alcuni INDIZI. Infatti le grandi e potenti città dell'Italia
meridionale – Crotone, Taranto, Velia --, che appunto fu chiamata Magna Grecia,
sono al culmine del loro splendore ed ivi ha grande risonanza il nome di
Pitagora prima, e piu dei “pitagorici”. Chi può pensare che i nostri connazionali
siano stati sordi a quei richiami di alta dottrina? Anzi ritengo che per
ammirazione verso i pitagorici anche IL RE NUMA che regna molto prima del tempo
di Pitagora, e stimato dai posteri un pitagorico. Essi infatti conoscevano le
teorie e le massime di Pitagora, e dai loro pro-genitori avevano avuto notizia
della equità e della saggezza di quel re. Ma, facendo una confusione
cronologica sull'età di quegli uomini, perché si perde nella lontananza del
tempo, credeno che colui che primeggia per sapienza e un alunno di Pitagora. E
questo basti per la congettura. Quanto agl'INDIZI sui Pitagorici, benché se ne
possano raccogliere molii, ci limiteremo a pochi, perché non è questo
l'argomento della presente discussione, Si dice che essi solevano esporre in
poesia certi insegnamenti piu segreti e rilassare nella tranquillità le loro
menti affaticate dalle meditazioni con il canto e la musica. E CATONE,
scrittore autorevolissimo, dice nelle sue “Origini” che presso i nostri ante-nati
vige nei banchetti l'usanza che i convitati l'uno dopo l'altro cantassero,
accompagnandosi al flauto, le glorie e le virtu degli uomini illustri. Risulta
da ciò evidente che a quel tempo esiste il canto applicato ai suoni musicali e
la poesia. Per quanto anche le dodici tavole rivelano che già allora si
coltivava la poesia. Una legge (tab. VIII) sance che non e lecita la
diffamazione mediante la poesia. Un'altra prova della cultura di quei tempi è
che i festini religiosi e i banchetti dei magistrati si svolgevano al suono
della lira. E questa era appunto una caratteristica di quella scuola filosofica
di cui sto parlando. Per mio conto anche il carme di APPIO CIECO, console, che
Panezio loda vivamente in una lettera a Quinto Tuberone, di cui Scipione
l'Emiliano era zio e L. Emilio Paolo il nonno, discepolo di Panezio, forte oratore
avversario dei Gracchi, è d'ispirazione
pitagorica. Nelle nostre istituzioni vi sono ancora molti particolari che
risalgono ai pitagorici. Ma li tralascio, affinché non appaia che abbiamo
appreso da altri ciò che abbiamo fama di avere appreso da noi. Lo studio della
sapienza, ovvero filosofia, è certamente antico presso di noi, però non riesco
a trovare nomi da citare per il periodo anteriore a LELIO, detto sapiens,
oratore, stoico, console, e SCIPIONE EMILIANO. Quando questi erano giovani, mi
risulta che furono mandati dagl’Ateniesi come ambasciatori presso il senato lo stoico
Diogene e l'accademico Carneade (Cicerone, Tusculanae disp.). Sembra, questa,
una pagina abbastanza indicativa. Dietro la leggendaria figura di Pitagora è
chiaramente mostrata l'UNILATERITà della cultura romana. Non sappiamo fino a
che punto vi sia qui un giuoco ciceroniano, volto da un lato a mostrare il
quadro di una antica AUSTERITÀ romana, cui puo servire il topos della vita
pitagorica, e dall'altro lato a dimostrare la necessità di una consapevole
riflessione che serva da fondamento, in una piu ampia concezione, a certi modi
di vita, senza di cui la stessa attività dell'oratore non è, in effetto,
realmente e concretamente politica e che Cicerone riconosce dovuta alla
complessa problematica della cultura, che, tuttavia, ha da innestarsi sul
tronco delle nuove esigenze e dei problemi, che, politicamente, socialmente,
economicamente, militarmente, si presentano a Roma. CICERONE, naturalmente, ha
presente la situazione di Roma al suo tempo, e sarebbe ozioso ricordarne i
conflitti e i cozzi di ideologie e di interessi di classe e personali, i
tentativi economici, le resistenze, le aperture (dai conflitti dei Gracchi –
GRACCO (si veda) a MARIO e SILLA, a GIULIO CESARE e POMPEO), in un mondo, senza
dubbio, in gravissima crisi e in trasformazione. Ma Cicerone sa anche che
l'uomo politico, l'oratore (e si badi che CICERONE nettamente distingue il
retore, il tecnico dei discorsi, il professore o precettista di retorica,
dall'atore, che pur deve conoscere quelle tecniche e quei manuali, com'è
chiaramente dimostrato dal “De inventione”, un manuale di retorica, al “De
Oratore”), non può concretamente agire, determinare una certa condotta
piuttosto che un'altra, se non inserendosi nella situazione presente, se non
avendo coscienza della propria responsabilità, che tuttavia scaturisce dal
riflettere sulla struttura culturale del proprio tempo, e a cui si giunge
rendendosi conto del come e del perché si è pervenuti a quella struttura
stessa. Sotto questo profilo CICERONE è una fonte preziosa, soprattutto quando
le sue opere vengano studiate in ordine cronologico e non in astratto, e si
tenga conto delle varie situazioni storiche per ricostruire, piu che un insieme
di sistemi, il complesso delle molteplici linee attraverso cui si venne
determinando l'incontro tra il mondo orientale e il mondo romano, e la
trasformazione dell'uno e dell'altro, nel giro di un secolo circa, in una nuova
atmosfera culturale. Il pensiero di Cicerone è incomprensibile, quando non lo
si veda scaturire da certe precise situazioni storiche, quando non se ne colga
la genesi dal di dentro di ciascun'opera, da quelle piu strettamente retoriche
e giuridiche a quelle in cui si tenta di delineare il significato del “vir
bonus”, dell'orator che, mediante il suo sapere, la sua “virtus”, sa inserirsi
in una certa società, duttilmente, sapendo usare le tecniche, avviando quella
società a una certa ritenuta convenienza e a una certa ritenuta “honestas”. Si
capisce perciò come CICERONE, pur puntando a un certo ideale di uomo e di
società, si preoccupa dei mezzi pratici per realizzarlo, e si capisce altresl
come esponga via via i piani diversi con cui si sono storicamente presentati i
vari aspetti della retorica e i vari tipi di oratoria, diversi a seconda delle
concezioni e dei caratteri, delle situazioni in cui si sono venuti a trovare gl’uomini
politici. Di qui, ed entro questi termini, i vari tipi di oratoria esposti da
Cicerone da quella di SULPICIO e di SCEVOLA, a quella di COTTA, di CRASSO e di MARC’ANTONIO,
a quella dei GRACCHI e di ORTENSIO, di BRUTO - e i fondamenti filosofici che
hanno mosso quegli oratori, cioè quegli uomini politici. Cosi, attraverso
questo lavoro, Cicerone, dal “De inventione” al “De Oratore”, all'Orator, e
cosi via, si è reso sempre meglio conto che la retorica ha da trasformarsi in ORATORIA,
cioè in filosofia, nel senso che la verace persuasione si ottiene ben pensando
(virtu), che è ben parlare (ELOQUENZA) istituendo misurato e onesto costume.
L'oratore, perciò, deve possedere un complesso di cognizioni che vanno dalla
psicologia allo studio dei caratteri, di ciò che ragionevolmente anche
dell'ordine del tutto e della realtà e del divino può essere accettato (“consensus
gentium”), donde, nel conflitto tra "filosofia" e
"retorica," il significato dato da Cicerone alla psicagogia del Fedro
platonico e alla retorica di Aristotele, e, ad un tempo, accanto alle ipotesi (discussione
giuridica di casi particolari), alle tesi (discussione di problemi generali), e
quindi a certi aspetti della virtu e delle concezioni degli stoici la cui
casistica e discussione scolastica, offre larga mèsse per le tesi" -, ma
anche alla duttilità discussiva di un Arcesilao o di un Carneade, determinando
il pro e il contro di ogni concezione e tesi, in un abile inserirsi e
modificare che nega ogni sistema chiuso, per cui, appunto, Cicerone verrà
criticando e escludendo sia il fato sia la divinazione. Cicerone, in effetto,
non è mai stato né un "brillante espositore di dottrine altrui," come
si è detto, né un uomo che abbia cucito insieme dottrine talvolta anche in
contrasto tra loro, se non in quanto con- trasto e conflitto furono propri
dello stesso CICERONE. Pensi pure ciascuno come vuole: vi deve essere libertà
di giudizio. Noi ci atterremo sempre ai nostri principi; ricercheremo cioè
sempre in ogni questione quello che abbia maggiore carattere di probabilità,
senza essere vincolati a regole di nessuna scuola, alle quali ubbidire di
necessità. (Tusc. disp.). Vi è piuttosto, in CICERONE, una sottile noia nei
contronti delle dispute di scuola, l'esigenza di ricondurre sul piano di un
concreto agire umano sia il ragionamento sia la problematica morale sia la
problematica relativa all'ordine del tutto, nell'ideale di usare le tecniche
retoriche e le tecniche dialettiche, o una o altra concezione etica o
religiosa, al fine di persuadere a un certo modo di vita che sia salvazione
della libertà romana, della concordia di Roma, lacerata nei conflitti. Tale
consapevolezza porta Cicerone a sostenere ch'egli, pur facendo tesoro della
cultura greca, pur usando le tecniche ricavate dai manuali greci di retorica,
pur rifacendosi ai grandi oratori latini, pur usando concetti e motivi
elaborati dai greci, cerca di dare una consapevolezza critica (filosofica) al
popolo romano, una cultura, che anche nel linguaggio, non fosse piu né greca né
meramente precettistica e scolastica. Magnifica e gloriosa cosa è per i Romani
non avere piu bisogno del greco per la filosofia: che, per certo, adempirò, se
porterò a fine l'opera iniziata (De divinatione). Stando cosi le cose, sembra
estremamente difficile potere, attraverso Cicerone, ricostruire precise
posizioni di pensatori precedenti (Panezio, Posidonio, Filone di Larissa,
Antioco di Ascalona, e cosivia), ché, sempre, anche quando CICERONE cita
direttamente, anche quando dice di avere in mano le opere di quegli autori, egli
usa quelle fonti in funzione di un suo fine, in funzione del pro e del contro,
delle tesi, in funzione di certe situazioni politiche e, nei confronti di
quelle, della sua politica. Ciò che, invece, è possibile, attraverso CICERONE,
attraverso la mediazione da lui attuata, da un lato è ricostruire un'abbastanza
precisa atmosfera culturale, ed entro questa la stessa evoluzione ed
originalità del pensiero ciceroniano, fino a cogliere il senso e il perché di
una posizione che è l'indice della trasformazione di una problematica, ben
diversa da quella delle fonti stesse di Cicerone; e, dall'altro lato, tenendo
presente tutto questo, ricostruire certe linee e correnti, certe componenti e
certi materiali, che hanno dato luogo alla composizione ciceroniana. Ora,
attraverso Cicerone ed altre non molte fonti sicure, appaiono evidenti quattro
punti fondamentali. La cultura greca penetra in Roma sotto forma di
insegnamento scolastico impartito dagli schiavi e dai liberti greci,
soprattutto per ciò che riguarda la retorica. Quella stessa retorica e con essa
aspetti e concezioni propriamente recierano richiesti dai romani delle classi
superiori, in quanto strumento per una formazione culturale che sirve alla vita
politica. Anche i maestri piu noti e i capi- scuola di Atene, o di Rodi; che,
per la sua relativa libertà, divenne notevole centro culturale, se da un lato
assunsero sempre piu aspetto professorale, dall'altro lato entrarono in
rapporto con personalità romane, furono a Roma, insegnarono a romani, furono
consiglieri di uomini politici di Roma, viaggiarono in oriente e in occidente.
Nessun romano, discepolo di piu di un tutore greco e attento a correnti
diverse, e, filosofo di professione, o "saggio," ma uomo politico,
uomo di governo, oratore, finché proprio in questo, in questo saper governare,
consisterà per essi il "sapere," il filosofare, in un tutt'uno di
otium e negotium, ove l'otium serve al negoiium e il negotium è illuminato e
reso intelligente dall'otium; il che non ha ancora nulla a che fare con
l'ideale della vita contemplativa, o con un rifugio nell'otium per liberarsi da
un ingrato negotium, ma è l'approfondita consapevolezza dell'antica
"pratica" romana, che si trasforma in "cultura," in
"humanitas," attraverso l'influenza della meditazione greca. Altri e
diversi diverranno i problemi e gli ideali di vita con l'avvento del principato
e dell'Impero. Sembra ora non poco suggestivo riportare un testo del “De
Oratore,” in cui CICERONE riferendosi ai tempi immediatamente posteriori alla
conquista della Grecia, scrive: Allorché la durata della pace - avendo Roma
stabilito il suo dominio su tutte le genti - assicura un certo otium, non vi fu
giovinetto posseduto da un qualche amore di gloria, che non volgesse i suoi
sguardi e i suoi sforzi all'arte del dire. Dapprima ignoravano tutto delle
ragioni interne della retorica e neppure lontanamente pensavano che vi fosse un
metodo o un qualche precetto dell'arte, si che pervenivano solo fin dove
potevano giungere col talento naturale e la riflessione. Piu tardi, dopo che si
ascoltarono gli oratori greci, si studiarono i loro modelli, si seguirono le
lezioni dei tutori greci, e veramente con incredibile studio che i romani
s'infiammano per l'eloquenza (De Oratore). I romani delle classi aperte al
governo si resero conto dell'efficacia che per la carriera (cursus honorum) ha
la retorica, e poiché incontrano presso i tutori greci e le scuole greche la
piu ampia discussione e precisazione di quell'arte, si servirono dei tutori greci,
trovando numeroso personale insegnante tra i molti. schiavi che procuravano le
conquiste. Ciò era già avvenuto al tempo della conquista di Taranto, quando da
Taranto e condotto come schiavo. a Roma Livio Andronico, che venne poi liberato
dal padrone, al quale Andronico aveva educato i figli (Hieron., Chron.). Con
Andronico ha inizio l'insegnamento pubblico del greco: domi forisque insegna Andronico
(Svetonio, Gram.). Ma con Andronico - e questo inì:eres~ qui ricordare - ha
anche inizio, in Roma, sul calco della scuola d’Atene, l'insegnamento *secondario*.
L'insegnamento primario, cioè l'insegnamento. dello scrivere, risale molto piu
indietro, probabilmente al periodo etrusco della Roma dei re, quando i latini
adottarono l'alfabeto degl’etruschi e il metodo di insegnamento della
scrittura, derivato agli etruschi dai greci (cfr. Marrou, Storia
dell'èducazione nell'antichità, Roma). L'insegnamento *secondario* latino
appare molto piu tardi. Questo ritardo non deve meravigliare. L’insegnamento *secondario*
classico si basa in Atene sulla spiegazione prima di tutto su Omero. Come
avrebbe potuto Roma conoscere l'equivalente d'un tale studio dal momento che
non possedeva una letteratura NAZIONALE? Di qui il paradosso, che non è forse
stato abbastanza messo in rilievo, che la poesia è stata precisamente creata
per fornire una materia d'esegesi all'insegnamento, e certamente per rispondere
all'esigenza del nazionalismo romano, che non sarebbe stato a lungo soddisfatto
di un'educazione unicamente greco. Il primo poeta IN LINGUA LATINA, che anche
il primo professore di letteratura IN LINGUA LATINA, è quello stesso Livio
Andronico di TARANTO, segnalato come il primo in data dei tutori di greco che
hanno insegnato in Roma. Andronico traduce IN LOQUELA DEL LAZIO o loquela lazia
o la loquela dei lazini l'Odissea, servendosi del vecchio metro indigeno, il
saturnio. Tale traduzione e per Andronico un testo che egli spiega,
praelegehat, parallelamente ai classici nella ‘loquela graii’ (Svet., Gram.). Naturalmente non fu questa l'unica
fonte della poesia nella loquella dei lazii, ma per molto tempo conserva il
carattere, per noi strano, d'essere intimamente vincolata alla necessità
d'alimentare i programmi dell'insegnamento secondario. Due generazioni dopo,
Ennio, anch'egli mezzo greco, accanto ad autori greci, continua a spiegare i
suoi poemi promossi, fin dalla loro apparizione, al rango di.classici (Marrou).
Quando Roma conquista la Grecia, i romani delle classi superiori conosceno
benissimo il greco e già lo usano come lingua diplomatica, per cui non ebbero piu
bisogno di traduzioni, tanto è vero che la retorica fu studiata e insegnata in
greco. Ma il discorso, sul piano del contenuto, è lo stesso di quello fatto per
l'insegnamento secondario. La retorica, che costitu1 l'aspetto fondamentale
dell'insegnamento superiore, servi ai romani, che hanno possibilità di fare
carriera politica, come strumento di cultura, come esercizio e preparazione,.s1
come per l'insegnamento secondario sirve la grammatica e l'esegesi dei testi
poetici. E perciò essi, almeno in principio, si rifecero, indiscriminatamente,
ai retori greci e ai manuali di retorica, indipendentemente dai possibili
contenuti di pensiero che pur erano dietro quelle tecniche. Questo spiega come
l'insegnamento della retorica si svolgesse mediante esercitazioni, mediante
svolgimenti di discorsi fittizi, che toccano o le tecniche persuasive,
rientranti nella deliberativa, o le tecniche proprie della controversia, ove si
discute il pro e il contro di casi particolari in relazione a testi di legge,
in modo astratto e precettistico. Ma questo spiega anche come il contenuto
soprattutto delle questioni generali (''tesi"; anche se già si ritrovano
in Aristotele come luoghi comuni, e come "tesi" in Teofrasto, esse
vennero poste in primo piano da Ermagora di Temno) si potesse assumere,
indifferentemente, a seconda della "tesi" messa in discussione, sia
dalle questioni di etica impostate dagli stoici, sia dalla dialettica e dai pro
e dai contra sottilmente posti dagli accademici. L'entusiasmo che a Roma suscita
Carneade presso la classe colta, col suo doppio discorso sulla giustizia ri-entra
in questo quadro, sL come l'adesione che in quella stessa occasione ottenne, da
parte di molti, lo stoico Diogene di Babilonia, maestro di dialettica. Lo
studio della retorica, dunque, non presenta soltanto l'insegnamento di una
precettistica, ma implicava un piu vasto sapere: discussioni sulla dialettica e
sulle fonti del sapere, su problemi morali, giuridici, di psicologia, e,
quindi, alla fine, discussioni su una o su altra concezione del tutto, ove il
materiale poteva essere assunto dalle piu diverse tesi, offerte dalle filosofie
greche, e usato, poi, a seconda dell'una o dell'altra causa politica o
giuridica, deliberativa o relativa a controversie. Proprio questa neutralità
della retorica, nei confronti dei possibili contenuti, nel senso della prima
grande sofistica, dovette, in principio, preoccupare i conservatori romani.
Polibio testimonia che era in Roma grandissimo numero di tutori greci. Di
questo tempo è il Senato consulto che proibisce la residenza in Roma ai retori
e ai filosofi greci. Si capisce cosi come, per politica, un conservatore DELLA
RAZZA DEL CELEBRE CATONE il Censore si preoccupasse del- 1 [Nato nella Sabina,
a Tuscolo, Marco Porcio Catone, di una famiglia] l'introduzione in Roma
delle tecniche retoriche greche e dèlle dispute delle scuole filosofiche e
scientifiche greche. In effetto Catone, piu che della elaborazione della
cultura greca, si preoccupa dei Greci e probabilmente dei Greci del suo tempo,
ch'egli considera dei “degenerati”. t sf bene - scrive nei celebri “Praecepta
ad filium” avere notizia delle lettere greche, ma non studiarle a fondo. RAZZA
CATTIVISSIMA e indocile (nequissimum et indocile genus) è quella dei greci, e
fa' conto che sia un profeta che ti dice questo. Se, quando che sia, codesta
gente ci darà la sua scienza, manda tutto in rovina; e peggio ancora, se
verranno qua i suoi medici. Congiurano di ammazzare con la loro medicina tutti
i barbari; e si faranno pagare per questo, affinché si abbia fiducia in loro e
possano facilmente compiere l'opera di distruzione. Chiamano barbari anche noi,
anzi avviliscono noi piu degli altri con il chiamarci Opici (in Plinio, Natur.
hist.). Ad ogni modo lo stesso Catone e grande oratore e si rese tanto conto
della funzione politica della retorica, ch'egli, appunto, ne teme le possibili
applicazioni. I conservatori romani paventano, ora, certi di agricoltori,
legato alla sua terra, contadino rimase )><'r tutta la sua lunga. vita.
Vita parca, dura, laboriosa, dice Catone stesso, vissi sin da principio,
coltivando il mio campo tra i dirupi della Sabina, dissodando, seminando le
selci (Maleovari). Gretto, duro, di pocbe idee ben fisse, contadino-soldato
egli fu )><'r tutta la vih. Questore in Sardegna di Publio Scipione
Africano, edile, pretore, console e comandante di eserciti in Spagna, e nominato
censore e soprattutto il suo nome fu legato alla durezza della sua censura,
tanto che fu detto, per distinguerlo da altri Catoni, Catone il Censore.
Inviato a Cartagine, in qualità di ambasciatore, ne torna con la convinzione
che gl'interessi di Roma esigessero la distruzione di Cartagine: "Delenda
Carthago" divenne il suo slogan. Plutarco riferisce un epigramma su
Catone, che in due versi sintetizza la figura fisica e morale di Catone. Tutto
denti, mordace, occhi verdi, rossigno è Catone, e Persèfone teme ancora
d'accoglierlo nell'Ade. Se una specie di enciclopedia dove essere il suo “Praecepta
ad filium” (vi si trattava di medicina, di agricoltura, di retorica, di
giurisprudenza e di arte militare), un vero e proprio trattato di arte agraria
è il “De agricoltura”, il primo libro in prosa nella locuzione dei lazini
giunto fino a noi (dalla classe degli agricoltori provengono gli uomini
migliori e i piu valorosi soldati. Meno in balla di cattivi pensieri sono
coloro che attendono al lavoro dei campi. Non altro che pochi frammenti
possediamo della sua grande opera storica in VII libri, le “Origines” (I libro:
storia di Roma sotto i re; II e III libro: storia delle primitive città.
italiche; IV e V libro: storia della prima e della seconda guerra punica; VI e
VII libro: storia degli avvenimenti). Orazioni Catone scrisse (ben quarantaquattro
volte dovette difendere se stesso) durante tutta la sua vita (delle CL che
compose, di un'ottantina leggiamo oggi scarsi frammenti). Celebri sono rimaste
certe sue lapidarie sentenze. “Orator est, Marce fili, VIR BONUS DICENDI
PERITUS” “Rem tene, verba sequentur" (dai Praecepta ad filium). Tutto
cose, fatti, conti, come risulta dalle biografie antiche (Livio; Cornelio
Nepote; Plutarco), la sua durezza, il suo talento, il suo buon senso da
contadino, il suo utilitarismo, il suo ideale d'uomo forte, non ozioso, la sua
stessa dirittura, hanno servito a creare la figura del ROMANO O LAZINO per
eccellenza (a parte la sua ambizione, e il non troppo bello episodio del suo
essersi dato all'usura)] aspetti della cultura greca, si come nel v-Iv secolo i
conservatori ateniesi dello stampo di un Aristofane e di un Senofonte, o del
piu grande Platone, temettero la sofistica. Non a caso, anzi, Catone s'ispira
piu volte a Senofonte e si senti vicino al Socrate, moralista e predicatpre,
presentato da Senofonte nei “Detti memorabilia” e nel “Convito” (il principio
delle Origines di Catone, è una traduzione del principio del “Convito” di
Senofonte). Non solo, ma è interessante a tal proposito ricordare che le opere
di Senofonte, che Cicerone testimonia essere sempre state in mano di Scipione
Emiliano (in particolare i Memorabili e la Ciropedia) e lette da Catone (cfr.
Tusc.; Ad Quint. frat.; Cato maior), fano parte della biblioteca dei re di
Macedonia, messa insieme dallo stoico Perseo, discepolo di Zenone di Cizio, e
che Paolo Emilio ha trasferito a Roma, come proprietà privata, in casa sua, e
posta a disposizione dei propri figli e degli amici loro. Il Socrate
senofonteo, filtrato attraverso testi stoici che formano il.grosso della
biblioteca dei re di Macedonia - non si scordi l'aneddoto secondo cui Zenone di
Cizio si.sarebbe convertito alla filosofia leggendo il Socrate di Senofonte e
ritrovandone un esempio nel cinico Cratete -- apparve certo a Catone
rispondente al suo ideale di vita, come anche risulta dalla biografia che di
Catone compose Plutarco (cfr. F. Della Corte in Studi di fil. greca, Bari). Ad
ogni modo, accanto ai retori e ai maestri greci, cominciarono a circolare a
Roma i testi di pensiero, che offreno quel materiale e quei contenuti, quella
necessaria cultura di cui parlavamo, e che, a seconda della situazione
politica, delle cause in questione, puo servire all'oratore. D'altra parte, per
rendersi conto delle scelte, per cui di volta in volta puo essere assunti passi
o·tesi di Platone o di Aristotele, di Zenone o di Crisippo, e, piu tardi, di
Panezio e di Posidonio, di Carmada e di Filone e di Antioco, o i loro modi di
intendere Socrate o Platone o Aristotele, va tenuta presente la classe cui
appartennero via via gli oratori e i politici ROMANI O LAZINI, da P. Cornelio SCIPIONE
Emiliano (l'Africano minore) ai Gracchi, a Pompeo, a Mario e Silla, a Cicerone.
Non va, intanto, scordato che si comincia a circolare la grande sistemazione
della retorica dovuta a Ermagora di Temno. Il manuale di Ermagora duo essere,
per quel che ne sappiamo, una specie di summa e di ordinamento dei vari aspetti
in cui si era discusso il problema della retorica dai sofisti agli stoici, dai
quali ultimi deriva Ermagora stesso, in una teorizzazione della retorica. Ermagora,
dopo avere insistito sulla distinzione tra ipotesi e tesi, dando particolar
valore alla tui -- due sono i generi delle 'questioni'," scrive Cicerone. L'uno
è il genus infinitum, l'altro il genus definitum. Definito è quello che i greci
chiamano ipotesi, e noi nella loquela lazia, causa. Infinito quello ch'essi
dicono tesi e noi possiamo chiamare proposito (Cic. Top.), imposta la distinzione
dei discorsi retorici sullo stato della causa. Ermagora divide a sua volta lo
stato della causa in due grandi aspetti, l'aspetto razionale (yévot; Àoytx6v,
genus rationale) e l'aspetto legale (yévot; VO(J.tx6v, genus legale) (cfr. in
Hermagoras Fragmenta, ed. D. Matthes, Lipsia, i fragmm. 6-23). Ermagora cosi
teorizza da un lato una retorica razionalistica e filosofica, dall'altro invece
una retorica spiccatamente giuridica, una interpretatio iuris sorgente dalla
stessa pratica giuridica. Da un lato, quindi, la retorica ermagorea mira al
vero, dall'altro al GIUSTO: ai due massimi valori, cioè, della filosofia
stessa, nella sua parte teoretica e nella sua parte morale (A. Plebe, Breve
storia della retorica antica, Milàno). Accanto alle altre conoscenze, offerte
dai testi del pensiero greco, e dai maestri greci che venivano a Roma o alle
cui scuole (Rodi, Atene) ci si recava, prese sempre piu piede l'esigenza di una
sistemazione e razionalizzazione del DIRITTO, tanto che, anche per l'impulso
dato da Cicerone, sorsero, accanto alle scuole di retorica, scuole vere e
proprie di DIRITTO in cui insegnano magistri iuris, iuris periti. La conoscenza
della legge romano e del complesso della legge romana, come insegna Ermagora di
Temno, sirve non poco alla retorica ed all'azione politica. Materiale per tale
sistemazione, soprattutto quando si pensi che il significato della legge romana
giusta e universale e discusso e studiato in particolare da uomini che tendeno
al potere politico e che per nascita e censo ne hanno la possibilità, e offerto
dalle varie elaborazioni e approfondimenti che della Legge romana e del diritto
romano hanno dato e davano gli Stoici, risalendo poi, attraverso essi, alle
testimonianze di Platone, di Aristotele, di Dicearco. Quasi tutte le nozioni, scrive
Cicerone, le cui parti sono riunite ora in corpi dottrinali, costituenti questa
o quell'arte, un tempo erano disperse e non formano un insieme. Cosi, in
musica, il ritmo, i toni, la melodia; in geometria, le linee, le figure, le
dimensioni, le grandezze; in astronomia, le rivoluzioni del cielo, il sorgere e
il tramontare, i movimenti degli astri; in grammatica, la spiegazione dei
poeti, la conoscenza della storia, il significato delle parole, la pronuncia. Nella
stessa retorica, l'invenzione, l'elocuzione, la disposizione, la memoria,
l'azione. Il rapporto di questi elementi fra loro e ignoto. Sembra senza legami,
disarticolati. Si è coscer- cato al di fuori, in un altro campo, di cui il filosofo
si attribuisce l'intiera proprietà, un metodo che in qualche maniera cementa
questi materiali sparsi e li costringesse a entrare in un sistema razionale.
Poniamo dunque l'oggetto del diritto romano civile. Mantenere, sulla base della
legge romana e dei costumi, il principio di giustizia che regola gli interessi
dei cittadini nelle loro reciproche relazioni. Distinguemo, quindi, i generi,
riducendoli a un certo numero, il piu piceolo possibile. Il genere è ciò che
racchiude due specie o piu, simili tra loro per un carattere comune, ma
separate per una differenza propria. Le specie consistono nelle suddivisioni
che si raccolgono sotto il genere di cui sono formate. E tutto termino che serve
a designare generi o specie, abbiamo cura di definirli con il loro esatto
valore. La definizione, infatti, è una spiegazione breve e precisa dei
caratteri che sono propri dell'oggetto che vogliamo definire. Si tratta,
insomma, di ricondurre il complesso del diritto romano civile a un piccolissimo
numero di generi, dividere poi ciascuno di questi generi in diversi membri o
specie, far vedere infine, con una definizione, il valore proprio di ogni
termine. Abbiamo cosi una teoria completa del diritto romano civile, ed una
scienza stesa e feconda invece che difficile e oscura (“De Oratore”). Se cos{,
per il yhoç ÀO')"x6v, il genere razionale, e per le "tesi" si
cerca il materiale negli aspetti piu vari del pensiero e nei modi con cui esso
puo essere usato - retoricamente si puo benissimo accostare tesi diverse, e,
soprattutto, frasi diverse, sganciate dai loro contesti, - per il yhoç
VOIL'x6v, il genere legale, il materiale e offerto, formalmente, dalla logica,
dalla dialettica, e, per il contenuto, dal rapporto v6jLoç-Myoç, o meglio v6oç-v6jLot;,
che impostato da Platone (cfr.. Leggi), puo essere interpretato secondo il
"diritto naturale" approfondito da alcune posizioni stoiche.
L'esegesi del diritto romano e della legge romana, l'esegesi delle tecniche
retoriche, la loro funzionalità a seconda di certe situazioni ed esigenze
politiche, implicano una piu vasta cultura, la richiesta di conoscenze e
sistemazioni, come chiaramente si vede attraverso Cicerone, atte ad essere
usate di volta in volta. Cicerone verrà a costituire come il nodo di questo
processo, svoltosi dall'età di Scipione alla morte di Cesare, nel consapevole
tentativo, egli homo novus, di conciliare l'oratoria usata dagl’ARISTOCRATICI
con l'oratoria dei "populares" (o, meglio, di certi ARISTOCRATICI che
mossero il popolo), mediante, appunto, una piu alta e vasta cultura, che e
terreno comune, comune parentela, con cui determinare la persuasione alla pace,
non solo entro il campo dell'aristocrazia, ma anche del popolo e tra
aristocrazia e popolo. Naturalmente attraverso l'oratoria di un uomo capace di
questo, attraverso un PRINCEPS fori, cioè sempre dall'alto. Di qui, per Cicerone,
l'importanza ch'egli da all'insegnamento della retorica in la lingua
degl’abitanti del Lazio, perché e possibile costituire nel mondo romano e del Lazio
una consapevolezza critica (filosofia), che dove, nell’ideale di Cicerone, determinare upa misura
e un rapporto tra le classi, che fa davvero del mero stato romano una res publica.
Tale prospettiva vede bene chi riperc'Qrra l'evoluzione dell'oratoria romana dei
lazini nei suoi rapporti con la vita politica, da SCIPIONE Emiliano ai Gracchi
a Silla. Le tecniche retoriche sono assunte per presentare un certo tipo di
politica e, quindi, persuadere a una certa concezione di vita che, in alcuni
almeno, come nell'Emiliano, trova la sua espressione, il suo linguaggio, nello
stesso modo di vita dell'uomo, creando un personaggio, un modello. E fu il
modello aristocratico del “vir bonus,” del salvatore della patria, dell'uomo
misurato, che si sacrifica per lo stato romano e la sua unità, e la cui
eloquenza riflette, appunto, tale modo di vita. Si pensi a SCIPIONE, a LELIO, a
MARC’ANTONIO, a CRASSO, a RUTILIO RUFO, a SCEVOLA pontefice, a COTTA. Oppure si
tratta di muovere e commuovere il popolo vero e proprio, il popolo lazino, e
allora altro è il tipo di eloquenza usata, altra la concezione cui si fa
ricorso. Si pensi all'oratoria dei Gracchi, di Mario, di SULPICIO. Sotto questo
aspetto, sembra chiaro perché Crasso, censore, abbia ~;mdannato e sciolto la scuola
di retorica in la loquela dei lazini, creata da PLOZIO GALLO, su ispirazione di
MARIO. I rappresentanti del partito senatoriale e aristocratico, come ora
Crasso, studiano a lungo la retorica e attraverso essa e per essa si e formata
una vasta cultura, mediante cui tendeno a persuadere della propria concezione
non solo la propria classe, bens(tutto IL POPOLO ROMANO o il popolo del LAZIO.
Ma, pur dotti di greco e sostenitori della funzione che per l'oratoria ha la
cultura greca, IN PUBBLICO OSTENTANO DISPREZZO per la cultura greca (cfr.
Cicerone, “De Oratore”), consapevoli del pericolo che l'oratoria viene insegnata
in la loquela del Lazio. Non è un caso che la fondazione di una scuola di
retorica in la loquela del Lazio e ispirata da Mario, un "popolare,"
che CICERONE dice essere né eloquente né colto (Cic., Pro Fonteio). L'arte del
ben dire, in quanto insegnata in quello ch’OVIDIO chiama la ‘loquela graia’, accompagnata
da lunghi studi, divenne patrimonio delle classi ricche e dell'aristocrazia.
Plozio Gallo, attraverso la sua scuola, minaccia quel monopolio, dando le
stesse armi piu che ai populares allo stesso popolo. S'irrisce qui la questione
della “Retorica ad Erennio”. Questo saggio e un trattato di retorica in la
loquela dei lazini, il primo giuntoci integrale. Alcuni recente, si l'hanno
ritenuta di ispirazione ploziana (Marrou), rispecchiando un insegnamento di
tipo molto moderno, nettamente opposto alla retorica classica delle scuole
della loquela ‘graii’, anche se nutrito di questa, e specialmente di Ermagora,
in cui si reagisce all'ingombro delle regole, alle astratte esercitazioni, per
avvicinare l'insegnamento alla pratica e alla. vita mediante soggetti attinti dalla
reale vita romana dei lazini (“exempla latina” – essempi dei lazini) e
dibattiti agitanti la politica contemporanea (Marrou, Storia dell'educazione nell'antichità).
Il questore Cepione deve condannarsi per essersi opposto alla legge frumentaria
del tribuno saturnino (Ret. ad Er.)? Si può assolvere l'uccisore del tribuno
Sulpicio, ucciso per ordine di Silla (Ret. ad Er.)? Il Senato delibera, durante
la guerra sociale, sulla questione di accordare il diritto di cittadinanza agli
ITALICI chi non sono lazini (Ret. ad Er., III, 2). Morte tragica di Tiberio Gracco
(Ret. ad Er.). Naturalmente, non tutti i soggetti sono tratti da un'attualità
cosi scottante. L’argomentazione non è sistematicamente orientata nel senso
favorevole ai populares - un buon retore deve sapere parlare pro e contro. Tuttavia,
non c'è dubbio che l'atmosfera generale della scuola risente della posizione
politica del fondatore (Marrou). Altri (Michel, Rhétorique et Philosophie chez
Cicéron, Parigi), invece, ritengono che non bastino le citazioni dei Gracchi,
gli elogi dei populares, gli “exempla latina” – essempi dei lazini -- per
accertare che la Retorica ad Erennio sia opera ispirata ai retori latini o
lazini. Già Marc’Antonio, che, secondo Cicerone (De Oratore), compone un
trattato di retorica, e favorevole agli “exempla latina” (cfr. Cicerone, De Oratore).
Non sempre l'autore della Retorica ad Erennio mette in primo piano i populares.
Se è vero che, anche senza nominarlo, elogia Mario, è altrettanto vero che
tesse l'elogio di Silla (Ret ad Er.), spesso evoca la politica aristocratica e
cita ed elogia la figura di Scipione Emiliano (Ret. ad Er.,), non solo ma in
certi casi, come nella lotta contro Saturnino, approva il consensus bonorum
(Ret. ad Er.), e non pochi sono, infine, gli esempi in la ‘loquela Graii’ (Ret.
ad Er.). Michel trae di qui la conclusione che l'autore della “Retorica ad
Erennio” vuole stabilire una specie di equilibrio tra populares e OPTIMATES e
ravvicinare i precetti dei retori greci alla storia politica di Roma. In effetto
la “Retorica ad Erennio”, che chiaramente si ispira ad Aristotele, a Crisippo e
ad Ermagora, è un trattato in cui si tenta, sull'esempio, appunto, di Ermagora,
di presentare una summa dell'arte del dire, in una sistemazione dei vari
aspetti della retorica in un tutt'uno coerente, facendo uso nelle esemplificazioni,
non solo degl’esempi oratori greci, ma, SCRITTA DA UN ROMANO, nel LAZIO, PER
romani, anche dei maggiori esempi dell'oratoria romana. Si vedono cosi,
chiaramente, i due aspetti della Retorica ad Erennio. La teoria dell'arte del
dire è ricavata dalle fonti greche, INDIPENDENTEMENTE dai contenuti filosofici
ch'erano sottesi dietro quelle fonti. Essa consiste nella classificazione dei
tre generi oratori aristotelici, giudiziario, dimostrativo, deliberativo. Nella
divisione delle tecniche retoriche, di origine crisippea, in invenzione,
elocuzione, disposizione, recitazione, cui è aggiunta, invece
dell'argomentazione della causa, come in altri trattati stoici, la memoria,
che, forse, risale a Zenone di Cizio. Nella divisione in sei parti del discorso:
exordium, narratio, divisio, confutatio, confirmatio, CONCLUSIO. Per la casuistica
e l'esemplificazione sono usate le fonti romane, cioè i tipi di orazione dei
grandi oratori latini o lazini del lazio, tanto del grande Marc’Antonio, quanto
dei Gracchi. Non va, d'altra parte, scordato che la Retorica ad Ermnio è il
primo trattato romano di retorica, giuntoci integrale di cui, in realtà, le
fonti romane ci sono ignote, se non siano ricostruite attraverso Cicerone, il
quale nel suo tentativo fin dal “De inventione”, molto vicino alla Retorica ad
Erennio, di dare una base meno precettistica e piu culturale-filosofica alla
retorica, discutendo poi della funzione e della cultura necessaria all'orator,
che deve svincolarsi dall'assumere unilateralmente una o altra precisa
concezione, dall'accettare una o altra posizione, classifica e oppone tipi di
retorica, cui corrispondeno tipi di concezioni. La Retorica ad Erennio è, da un
lato, l'indice chiaro dell'esigenza, ormai maturatasi, da parte romana, dai
lazini del Lazio di una sistemazione e di un ordinamento in un complesso dottrinario
del sapere retorico, si come, sempre in funzione della retorica e del
CON-VIVERE civile, si verrà poi sistemando e ordinando il sapere giuridico, e,
dall'altro lato, è l'indice chiaro delle mutate condizioni politiche. L'oligarchia
senatoriale nella quale si sviluppa l'ideale del “vir bonus” subisce la
concorrenza delle altre classi. Nelle quaestiones uno spirito nuovo, piu
democratico, penetra le istituzioni. I giudici sono tribuni, cavalieri. Di qui
il nuovo aspetto politico e concreto dei problemi oratori. L’avvocato che
perora per un magistrato dinanzi ai giudici cavalieri si trova a dover difendere
un grande dinanzi a chi pretende d'essere del popolo. Rutilio Rufo, console,
risponde alle accuse dei pubblicani. Il grande Crasso stesso, in un'arringa
defensionale che scandalizza Marc’Antonio, si dichiara, lui senatore, schiavo
del popolo (Cic., De Oratore). L'eloquenza non è piu la nobile arte dei
dibattiti aristocratici. t 10 strumento ambiguo di queste lotte in cui s'ignora
sempre se l'oratore aduli il popolo o l'istruisca. Talvolta lo istruisce
adulandolo (Michel). La retorica assume cosi una sempre piu larga funzione,
oltrepassando i meri schemi precettistici, divenendo chiaro e necessario strumento
politico, mediante cui inserirsi in una certa società per ordinaria a un certo
fine, onde, appunto, il problema diviene il problema dei fini, dei termini
entro cui è razionalmente valida l'azione umana socialmente e, entro questa,
del fine proprio dell'uomo. S'innesta qui la problematica di Cicerone, homo
novus, cavaliere, che sa benissimo come la sua carriera non la può dovere che
alla propria cultura e all'abilità con cui usarla, in una con-temperanza
dell'antico ideale del “vir bonus” senatoriale, il cui modello e la figura di
Scipione l'Emiliano, dottrinariamente, forse, delineato da Panezio, con il
raggiungimento di quell'ideale, indipendentemente dalla propria nobiltà di origine,
attraverso la cultura e la propria "prudentia." Sotto questo aspetto,
Cicerone non fu né un popolare né un aristocratico, ma un uomo di centro politicamente
impegnato, sensibilissimo alle esigenze della classe nuova, in una
moralizzazione della res-publica, di cui deve pur sempre rimanere guida il
Senato. In CICERONE, cavaliere, uomo di cultura, avvocato e politico, hanno
senza dubbio giuocato motivi diversi, concezioni e dottrine diverse, che, se
prese nel loro insieme e nella loro coerenza, sono in contrasto l'una con
l'altra, assumono tuttavia un significato, qualora vengano ricondotte entro i
contesti ciceroniani. CICERONE non espone dottrine altrui, ma usa tesi e
aspetti di dottrine, a seconda o della situazione politica per la quale parla,
o della sua personale situazione, in mezzo ad avvenimenti mutevoli e talvolta
drammatici, dando a filosofia non tanto il significato di una certa filosofia, quanto
quello di consapevole riflessione su esperienze umane, riflessione che renda
conto razionalmente, ragionevolmente (prudentia), di quelle stesse umane
esperienze. L'uomo, poiché è dotato di ragione e per mezzo di essa vede la concatenazione
dei fatti, le cause efficienti di questi e le cause occasionali, e ne conosce
quasi i precedenti, confronta le cose simili e congiunge intimamente le cose
future alle presenti, può facilmente vedere tutto il corso della vita e
preparare le cose necessarie per viverla. E questo stesso istinto naturale,
mediante la forza della ragione unisce l'uomo agli altri uomini, crea una corrispondenza
che si manifesta nel linguaggio e nella socievolezza (Cic., De officiis). Cosi,
sul piano della discussione, della dialettica, potevano servire gli’accademici,
e sul piano della logica certe posizioni stoiche - si pensi all'uso fatto da
Cicerone dei sillogismi ipotetici e dell'analogia e alcuni aspetti dell'analisi
aristotelica per la formalità delle definizioni. Sul piano della condotta
forense e politica, accanto a quelle tesi sia accademiche, sia aristoteliche,
sia stoiche, puossono servire le tecniche retoriche elaborate da Aristotele, da
Crisippo, da Ermagora. Sul piano piu strettamente umano, della possibile
comunione umana, puo servire la delineazione di una humanitas il cui incontro è
la comune ragione e la comune cultura, in un comune linguaggio, che sembra e
l'aspetto piu saliente della tesi stoico-aristotelica di Panezio, in cui,
certo, hanno giuocato il motivo della filosofia umana di Aristotele e il motivo
accentuato della vita attiva di Dicearco; su di un piu alto piano politico si
ricercava una legge romana universale, un diritto naturale che giustificasse un
certo ordine sociale, una certa legalità romana, per cui potevano servire altre
tesi stoiche. Ma, oltre a tutto questo, l'aspirazione umana ad una quiete ultra
mondana, soprattutto dovuta a situazioni immediate e tristi della vita, poteva
benissimo far usare a Cicerone tesi di Platone sull'immortalità dell'anima o
alcuni aspetti del Protrettico e dell'Eudemo di Aristotele, accanto a una
visione del divino la cui fonte può essere Cleante, insieme al topos della
filosofia intesa come consolatio. Ora, se tagliamo via Cicerone e poche
testimonianze posteriori, di cui alcune sono di derivazione ciceroniana, poco o
nulla resta delle opere dei questi filosofi. Di qui, per le ragioni dette
sopra, la difficoltà di ricostruire, attingendo a Cicerone, dottrine e
posizioni compiute, storicamente esatte. Si pensi, ad esempio, al caso di
Platone. Se le opere di Platone sono andate perdute e si dovesse ricostruire
Platone mediante Cicerone, non avremmo certo Platone ma Cicerone stesso, che
usa frasi e motivi di Platone. Lo stesso dobbiamo dire per gl’accademici da
Clitomaco a Filone di Larissa ad Antioco d’Ascalona, gli ultimi due
direttamente ascoltati da Cicerone e per gli stoici Boeto di Sidone, Antipatro,
Panezio, Posidonio, anch'esso ascoltato da Cicerone, e per tutti gli altri cui
si riferisce CICERONE. Non è, evidentemente, possibile ricostruire, ad esempio,
la dottrina e una compiuta e sistematica filosofia di Panezio attraverso Cicerone,
per poi, con un Panezio cosi ricostruito, spiegare CICERONE. Ciò che possiamo
è, invece, renderei conto delle questioni suscitate in Cicerone, in funzione
della sua problematica, dai pensatori greci da lui citati e discussi, i quali,
a loro volta, hanno senza dubbio, almeno per ciò che ne sappiamo, risposto alle
esigenze, ai problemi, alle richieste che provenivano da Roma, fin dal tempo di
Carneade e di Polibio, in un complesso e Ìn un ampiamento di orizzonti, anche
geografici, per cui se è vero che il mondo romano si grecizzò, è altrettanto
vero che il cosiddetto mondo ellenico si romanizza, o meglio si venne determinando
tutta una nuova e diversa atmosfera culturale, in cui anche certe parole, pur
rimanendo le stesse, vennero ad assumere altro significato. Il celebre DOPPIO
DISCORSO SULLA GIUSTIZIA, che Carneade tenne a Roma e ancora riportato e
discusso da Cicerone. Con l'andar del tempo se n'era lorse ingrandita la fama e
l'importanza, ma, certo, ciò sta a testimoniare che uno dei punti fondamentali
della rifflessioni romana s'era venuto a imperniare sul motivo delle condizioni
che rendono possibile l'umano rapporto. E per questo non vanno dimenticate da
un lato la storia di Roma e delle sue conquiste e dall'altro lato la
problematica che veniva a sorgere sulle condizioni e le capacità del potere. A
parte l'aspetto dialettico del DOPPIO DISCORSO DI CARNEADE, la sua forza
filosofica di rimettere sempre tutto in dubbio, ci.J che di quel discorso
rimaneva piu crudo e scottante e, non solo la sottile negazione della dottrina
stoica dello IUS NATURALE e la conclusione che la giustizia non va ricercata né
in Dio né nella natura, intese come ordine e bene universale, ma l'esito di
quel discorso stesso, per cui Carneade non negando l'esistenza della giustizia
nel senso comune sottolinea che il giusto è sempre, soprattutto nei rapporti
tra stato e stato, una forma di ‘ingiustizia’ nel senso comune della parola. Se
Roma avesse voluto essere veramente giusta avrebbe dovuto restituire ciò che,
con le sue conquiste, aveva tolto agli altri. Roma si è comportata
prudentemente e utilmente, non con giustizia. In conclusione, dunque, non è
possibile vivere giustamente, ché significherebbe ridursi ad un assoluta
inazione. Se lo stoico vuoi vivere, cioè agire, deve negare il suo concetto di
giustizia. Lo stesso va ripetuto per i romani. Quello di Carneade puo suonare
come un richiamo, preciso e severo, nei confronti dei romani, alla lealtà, alla
consapevolezza critica di ciò che si fa, un richiamo alla riflessione sulla
verità della propria azione, e, nel caso specifico, all'azione dei romani, le
cui conquiste e le cui forme di governo giuste dal punto di vista dell'utile
romano e dell'utile di una certa classe dirigente vieni ammantate dell'orpello
del concetto di giustizia. Se tutto ciò indigna Catone, particolarmente per la
verità pericolosa ch'e implicita nel discorso di Carneade non va scordato che
Polibio scrive che la grandezza romana sta nell'avere imposto un certo ordine e
una certa legge giuocando sulla superstizione, tenendo a freno le masse
mediante il timore dell'invisibile: Polibio, tutto questo impone, d'altra
parte, una piu approfondita discussione e giustificazione. Carneade non
condanna l'impero romano. Carneade mette solo in rilievo il fatto che quest’impero
non ha base etica; e questo stimola altri a cercarne una (T. A. Sinclair, Il
pensiero politico classico, Bari). Non solo, ma va aggiunto che se al tempo di
Carneade il concetto di “impero” non esiste, se non nella sua figura giuridica,
e proprio la riflessione sulla giustificazione del *commando* di un singolo o
di un gruppo in Roma, nella delineazione di un modello d’uomo giusto, e del
potere di Roma sugli stati e le città conquistate, che venne a costruire,
appunto, il concetto di “principato” o d’impero. Entro questa linea, nei
termini di questa esigenza di rendere giustificabile e, per ciò stesso,
razionale e, dunque, convincente, l'azione della classe, che ha possibilità
politiche, e l'azione di Roma, sembrano chiarirsi molti degli atteggiamenti assunti
e dagli Stoici, e dagli stessi Accademici, i quali tutti ebbero contatti
diretti e di clientela con i maggiori esponenti della classe dirigente romana,
a cominciare da Polibio e da Panezio. Mentre, per altro verso, la de-lineazione
di un ordine razionale e universale cui adeguarsi, fondamento e giustificazione
dell'azione svolta da Roma, almeno da quando certe possibilità di carriera si
allargarono dalla classe senatoriale alla classe dei nuovi ricchi o dei
cavalieri, mise in crisi il mono-polio del potere dei nobili, giustificando,
appunto, in nome della comune ragione, le possibilità dell'inserimento politico
da parte delle nuove classi. E cosi, alla concezione universalistica e
imperialistica di Roma, e alla concezione di un ordine politico basato su
quella razionale universalità, di cui il "princeps" -
l'"orinor" in principio - è il depositario e il propagandista, non
poco poteva servire la tesi del gius-naturalismo stoico, qualora se ne
giustificasse la possibilità, risolvendo il problema impostato da Carneade, che
cioè il concetto stoico di giustizia e di diritto assoluto veniva a negare
l'azione e gl’atti giusti. Ora tale giustificazione impone una revisione, entro
i termini dello stoicismo, della originaria soluzione stoica, che e tentata da
Panezio di Rodi, amico e consigliere, insieme a Polibio, di Scipione Africano,
s1 come da parte degl’Accademici (da Carmada e Metrodoro a Filone di Larissa e
Antioco d’Ascalona), perché fosse possibile la stessa dia- lettica e la
discussione, perché si potesse giustificare l'azione, si imponeno delle
modìficazioni che, rispondendo alle nuove esigenze, non ebbero poi piu niente a
che fare con l'originaria posizione di un Carneade: né, d'altra parte, va
scordato che già Clitomaco, successore di Carneade, dedica la sua opera intorno
alla gnoseologia del maestro al console Lucio Censorino, e che, piu tardi,
Antioco fu amico di LUCULLO e che a Roma vive e scrive Filone di Larissa. Chi
tenti, dunque, una ricostruzione, storicamente valida, delle varie fasi del
pensiero non può non tener conto della storia interna di Roma, soffermandosi in
primo luogo dapprima sull'esigenza da parte senatoriale di giustificare il
proprio operato e la propria virtuosità fino a giungere a costruirsi con SCIPIONE
Emiliano minore l'ideale modello del “vir bonus”, salvatore della patria, che
assomma in sé I'auctoritas, il cui consiglio è dato alla potestas (all'esecutivo),
piu che con la parola, con la propria figura morale e la propria condotta,
divenendo princeps della città. In secondo luogo, tenendo presente il conflitto
tra la classe senatoriale e l'impoverita borghesia italica rurale, culminante
nel conflitto tra lo stesso Scipione e Tiberio Gracco (dell'uccisione di
Tiberio, Scipione dirà: iure caesum) e poi tra Scipione e C. PAPIRIO CARBONEC,
fino a che, morto Scipione, improvvisamente la notte precedente il giorno in
cui egli dove pronunciare un discorso in senato contro le proposte di legge
sulla questione agraria (fu chi disse che Scipione venne fatto uccidere da
Papirio Carbone), sembra potersi attuare la rivoluzione in virtu di Gaio Gracco,
rivoluzione però stroncata dalla oligarchia senatoriale. In terzo luogo,
tenendo presente il celebre conflitto tra Mario e Silla, fino a giungere a
Pompeo e al primo triumvirato. Entro questi termini sembra chiarirsi perché il
problema fondamentale: quali che di volta in volta ne siano state le soluzioni
- fosse il problema delle condizioni che permettono la vita politica: o in una
negazione delle tecniche retoriche - particolarmente da parte senatoriale, -
puntando sul retorico modello di una figura esemplare, e, per la sua
esemplarità, convincente; oppure, via via negata la retorica come arte a sé,
neutra, in un'affermazione della retorica filosofica, psicagogica, onde piu
volte l'uso di Platone e di Aristotele, che, ricorrendo a tecniche diverse,
caso per caso, seducesse ad una razionalità, istituente ordine e misura, entro
i termini della legge, specchio di quella medesima comune razionalità. Di qui,
anche, la sempre piu accentuata importanza data alla conoscenza del diritto romano
e alla sua sistemazione. Il riflesso di tali polemiche sulla retorica, il
conflitto dapprima tra contenuti e retorica e poi tra retorica degl’affetti e
retorica filosofica, la problematica tra il porre una virtuosità in assoluto,
che alla fine nega ogni possibilità di azione, e, quindi, anche ogni
possibilità di convin- cere a quella virtuosità stessa, e il porre una
possibilità di rapporto umano, fondato solo di volta in volta sul giuoco degli
affetti, il riflesso di tutto ciò, anche nella sua aderenza, caso per caso, a
precise esigenze politiche, è molto chiaro in Cicerone. A tal proposito, anzi,
sembrano particolarmente illuminanti certi passi di Cicerone, in cui egli condanna
l'insegnamento retorico di Cleante e di Crisippo. È vero che Cleante scrive un
trattato di retorica e anche Crisippo, ma in modo tale che se uno desidera
diventar muto, non deve leggere niente altro (De fin.). Troppo rigida ed
esclusiva la loro logica per divenire eloquentia (“De Oratore”), essi non hanno
possibilità di discutere altri argomenti, ché uno solo è il loro, onde mancano
di inventio (Topici). Essi perciò non possono convincere alla virtu, per alta e
pura che sia la virtu da essi proclamata (cohlc, sottolinea Cicerone, fu il
caso dello stoico romano Rutilio Rufo, che per non adulare le passioni del
popolo, per non scendere dinanzi ai giudici ad usare la tecnica del pathos, non
fu capace di difendersi: De Oratore). Sotto questo aspetto sembrerebbe aver ragione
Carneade, dimostrando che, sul piano umano, lo stoico non può che contraddirsi,
ripiegando sul probabile e sul convenevole, negando con ciò stesso la propria
tesi, tanto è vero che gli stoici non pongono alcun passaggio tra il saggio e
virtuoso e il non saggio e malvagio (di qui, per Cicerone i paradossi degli
stoici: cfr. Paradoxa stoicorum), giungendo alla fine a sostenere che nessun
uomo è saggio, tranne pochissimi, che, d'altra parte, non hanno possibilità di
convincere gli altri per lo stesso fatto che gl’altri sono non saggi, per cui
il saggio stoico resta in conclusione assolutamente avulso da ogni tipo di vita
politica, rinnegando con questo lo stesso proprio concetto di giustizia e di
razionalità. In realtà vi sono negli stoici cose troppo incompatibili con
l'oratore quale noi formiamo. Questa, ad esempio: ad ascoltarli, tutti coloro
che non sono saggi sono schiavi, nemici pubblici, folli; d'altra parte non v'è
uomo che sia saggio. Sarebbe, dunque, una grande assurdità affidare la cura di guidare
il popolo, il senato, qualsivoglia assemblea a chi fosse persuaso che tra i
suoi ascoltatori non vi è uomo sensato, non un cittadino, non un uomo libero (“De
Oratore”). Tale impossibilità di guidare la vita politica, sottolinea Cicerone,
non ha permesso agli Stoici di scrivere intorno allo stato (De legibus). Solo
Dione stoico, aggiunge, se n'è occupato. Chi sia Dione stoico non sappiamo a
meno che non si tratti di Diogene di Babilonia, che secondo Ateneo, scrisse “De
legibus”, e, insieme a lui, Panezio di Rodi. Su questo argomento dei
magistrati, alcune questioni furono studiate molto sottilmente prima da Teofrasto,
poi dallo stoico Dione. Tu dici? Anche dagli stoici fu trattato questo? Non
proprio, salvo da colui che ho ricordato, e poi da quel grande e coltissimo
uomo di Panezio. Gli stoici antichi soltanto astrattamente e pur con acutezza
hanno trattato dello Stato romano, ma non in questa maniera pratica per
l'utilità del popolo e dello stato romano (De legibus). È vero. Lo stato romano
che potremmo delineare attraverso i frammenti di Cleante e dì Crisippo sarebbe
lino stato romano universale, fondato sul motivo del diritto naturale,
razionalmente ordinato, ove la legge sarebbe specchio della legge del tutto,
del logos, ma dove anche, data la distinzione stoica tra saggio e non sagg e ola
incomunicabilità tra gli uni e gli altri, si avrebbe un solo saggio ché tutti i
saggi si identificherebbero in uno e molti uomini, i non saggi, i quali soli,
alla fine, si dimostrerebbero capaci di azione e di vita sociale, che sarebbe
però in-giusta, a-sociale, a-politica, dove non potrebbe non avere il sopravvento
che la retorica degli affetti e delle passioni. L'abbiezione di CICERONE
avrebbe potuto essere e in fondp lo e l'abbiezione sottesa di Carneade nei
confronti degli stoici, ma con scopo rovesciato, ché Cicerone tende a rendere
convincente sul piano umano proprio alcune tesi stoiche, in quanto utili a un
certo fine politico. Certo a Carneade, per quel poco che di lui sappiamo, non seppe
rispondere il capo della stoà del tempo, Antipatro di Tarso. Si dice che Antipatro
di Tarso non ha mai il coraggio di scendere in discussione con Carneade
direttamente e ch'egli tentasse di difendere le posizioni dello stoicismo
ortodosso per scritto (cfr. Numenio, in Eusebio, Praep. ev.), limitandosi ad
approfondire gl'indifferenti tra cui avrebbe posto il dovere e la fama validi
entro l'ambito umano (cfr. Cicerone, De fin.; anche Seneca, Ad Lucil.), mentre
Diogene di Babilonia, il collega di Carneade al tempo dell'ambasceria a Roma,
discepolo di Crisippo, ha particolarmente approfondito alcuni aspetti della
dottrina stoica, in forma precettistica e tecnica (la dialettica, la retorica,
la musica), ma in modo tale che, ponendosi su di un piano piu logico che
ontologico, nel senso di Zenone di Cizio, puo rinnovare i contenuti stessi
dello stoicismo. Panezio poi tenta il recupero di tutte quelle tesi stoiche
che, utili per un tipo di politica e di giustificazione di una certa azione,
avrebbero potuto assumere, entro una precisa visione del tutto, una loro forza
sul piano umano. In realtà, dietro l'atteggiamento piu pratico - come
sottolinea Cicerone - piu umanistico di Panezio, che puo esattamente servire ai
fini dell'azione di Scipione Emiliano, v'e la possibilità di sviluppare la
logica e la dialettica di Crisippo, indipendentemente da corrispondenti
strutture ontiche, battendo l'accento sull'aspetto ipotetico del discorso e
sulla retorica nel modo in cui, attraverso Zenone e poi Crisippo, s'e delineata
in Diogene di Babilonia. Studi recenti (cfr. A. Plebe, La retorica di Diogene
di Babilonia, Filosofia) hanno messo in chiaro la stretta relazione posta da
Diogene di Babilonia tra filosofia e retorica. Se la filosofia viene ad essere
stoicamente 2 [Di Diogene di Babilonia, o di Seleucia, sappiamo molto poco.
Discepolo di Crisippo, succede nello scolarcato della Stoà a Zenone di Tarso. E
il quarto scolarca della Stoà dopo Zenone: Cleante, Crisippo, Zenone di Tarso,
Diogene di Babilonia. A Diogene di Babilonia succede nella direzione della
scuola Antipatro di Tarso e ad Antipatro, Panezio, la scienza del ben pensare,
attraverso cui si determinano le condizioni senza le quali non v'è discorso cioè
i dati e l'implicarsi dei dati stessi in nessi necessari, in un discorso
sintattico e proposizionale, che è costituito dall'esperienza, in cui anzi
consiste l'esperienza si capisce come l'arte del dire, in quanto espressione
dell'arte del pensare, possa avviare gli altri a ben pensare, costituendo un ordine.
sintattico e armonico, sociale, specchio appunto dell'ordine razionale cui si
giunge attraverso lo stesso pensare e il rivelarsi del pensiero a se medesimo.
Ipotetiche le premesse, an-apodittici i sillogismi, formalmente il discorso è
necessario e può costituire, sul piano umano, un ordine altrettanto necessario
e perciò stesso razionale, a cui serve la retorica, valida qualora, appunto,
sia introduzione e avviamento al ben pensare e per ciò al ben vivere,
insignificante, anzi da respingere, qualora resti su di un piano neutro di
contenuti (cfr. framm. 95, III Arnim). Di qui il contrasto tra retorica pura e
retorica filosofica, sospesa tra arte e scienza, e il parallelo, posto da
Diogene di Babilonia o Seleucia, tra retorica e medicina (Arnim), per cui la
vera retorica è terapeutica ed è “psica-gogica”. Di qui, formalmente e per la
sua funzione terapeutica e stimolante, il rapporto posto da Diogene tra
retorica e musica (Arnim). La funzione della retorica, che, in quanto seducente
in vista del fine cui mira, cioè l'ordine e la misura razionali, si fonda su
tecniche precise che potevano essere benissimo riprese dalle analisi sulla
retorica e dai topici di Aristotele, sulla conoscenza dei caratteri umani
(Gorgia, Platone, Aristotele, Teofrasto}, assumendo anche l'accorgimento
dell'inganno o dell'illusione seducente (Arnim), sapendo con opportunità
(eùx.cxtp(cx, cukairla) usare i discorsi (Arnim), prende un suo carattere
preciso in quanto serva a porre ordine e composizione (croveaL(i, syncsis)
nelle città e buona condotta (eòotyroy(ot, cuagoghia) politica, cioè sociale (Arnim).
Retorica e politica venneno, in tal modo, a coincidere in funzione della
costituzione di un rapporto umano che fosse rapporto razionale, simile
all'ordinarsi necessario di un discorso, in una misura per cui ciascuno si
ponga là dove è bene che sia, come lè parole in una struttura grammaticale e sintattica.
Non a caso, cosi, sembra che tra i pensatori greci, suoi contemporanei, Catone
il Censore avesse, accanto all'ideale del Socrate senofonteo, una qualche
simpatia per Diogene di Babilonia, che, d'altra parte, e anche questo sembra
opportuno sottolineare, era stato a Roma già prima della CELEBRE
AMBASCIATA (cfr. Cicerone, De
senectute). Le lodi che Cicerone fa di Panezio si fondano sul riconoscimento
che Panezio ha reso realizzabile, politicamente funzionale, l'ideale della
virtu e della giustizia stoiche. Ciò che di Panezio sappiamo è, in realtà,
molto poco. Sappiamo ch'egli nacque a Rodi, città in quel tempo culturalmente
attiva, politicamente legata a Roma. Uomo aperto e curioso, non vincolato fin
dal principio a una precisa scuola, non formatosi ad Atene, sappiamo che
Panezio vive a Roma parecchi anni, ch'entra in dimestichezza con Scipione
Emiliano, che ne e consigliere ed amico, che e con lui ad Alessandria e durante
le campagne d'Africa,e che divenne, in Atene, scolarca della stoà, succedendo
ad Antipatro di Tarso, proprio all'indomani della morte di Scipione. Può darsi
sia un caso, ma è un caso che può far pensare. Panezio lascia lo scolarcato. Panezio
non e uno stoico di scuola, né, d'altra parte, si può sapere l'influenza che
avrebbe potuto giuocare su di lui il pensiero dello stoico eretico [Nato circa
a Rodi, Panezio, amico e discepolo di Diogene di Babilonia, vive a Roma
parecchi anni, entrando in dimestichezza con P. Scipione Emiliano, di cui fu
consigliere. Lo segui in Africa e in Asia. Nominato scolarca della Stoà, succed
ad Antipatro di Tarso. Lascia lo scolarcato
e sembra sia morto in quello stesso anno. Delle sue opere, andate
perdute, si ricordano soprattutto una “Sul dovere” (ITcpl wii x~o~), che
sarebbe stata scritta al tempo del suo soggiorno a Roma, ed una “Sulla
provvidenza” (ITcplnpov61cxç), che sarebbe la fonte del De officiis di
Cicerone. Si conoscono inoltre i seguenti titoli: “Sulla tranquillità dell’animo”
(ITcpl IÒ&u!l-(«ç); Sul,Oflt!Nio (ITcpl no>.l-n:!cxç); Sulle sct!l~ (ITcpl
atlp~m:(J)'\1); “Di Socrate dei socratici” (ITcpl Ec,xp«wu Xlll TW'II
E(J)xpcmxwv); Lettera a Q. Elio Tuberone. Nello scolarcato della Stoà, a
Panezio succede Mnesarco, del quale non sappiamo nulla se non che segui
pedissequamente il maestro. A parte Posidonio (dr. oltre) e i romani che
seguirono Panezio, un altro discepolo di Panezio, del quale occorre fare almeno
il nome, fu Ecatone di Rodi, che si occupa in particolare di problemi morali e
i cui manuali divulgativi hanno larga diffusione. In questi manuali Ecatone
discute soprattutto il problema dei conflitti dei doveri, in una delineazione
della piu rigida morale stoica e in una distinzione tra virtu teoretiche e virtu
non teoretiche, riportando lo Stoicismo ad una rigidezza che non era stata
certo quella di Panezio. Scrive in tal senso Diogene Laerzio: "Secondo gli
Stoici, non v'è alcun grado intermedio tra la virtu e il vizio. Come un legno
deve essere diritto o storto, cosi un uomo è o giusto o ingiusto. Ecatone, nel
secondo libro Sui beni, sostiene che la virtu è sufficiente alla felicità, non
dando alcun valore a tutto ciò che si crede possa turbarla. Panezio e Posidonio
invece sostengono che la virtu non è sufficiente, ma occorrono anche buona
salute, abbondanza di mezzi di vita, e forza" (Diogene L.). Per il resto
cfr. sempre Diogene Laerzio, VII, passim. Ci sono stati tramandati i titoli
delle seguenti opere di Ecatone: “Sui fini” (ITcpl T&ÀW'IIi; “Sui beni”
(ITcprciyat.&wv); “Sulla virtu” (ITepl cip&:Twv); “Sul dovere” (ITcpl
xat&ljxo~; “Sulle passioni” (ITcpl ncx&ciiv); “Sui para-dossi” (ITcpl
natpct36~(J)'II); “Sentenze” (xpc't«'). Boeto di Sidone, del quale, di fatto,
non sappiamo niènte (cfr. J. F. Dobson, Boethus of Sidon, "Classica!
Quarterly," pp. 88-90), se non che fa un commento ai Fenomeni di Arato (su
Boeto cfr. Diogene Laerzio). Anche se indirettamente, cioè al di fuori e
indipendentemente dalle dispute scolastiche e professorali di Atene, Panezio
risponde a Carneade, rendendo positivo e non puramente negativo lo stesso
"probabilismo" di Carneade, che, valido sul piano umano, suppone a
suo contenuto - se non vi fosse una presunta verità, neppure si potrebbe
parlare di probabilità, di capacità d'assumerne fede, nr.&Clv6v- pithan6n, dietro
a sé o innanzi a sé, la visione di un tutto ordinato, un dover-essere cui
ciascuno, a seconda della propria natura deve adeguarsi. Qui, forse, il senso
del cosiddetto platonismo di Panezio, in questo suo porre l'ordine e la legge
del tutto - niente affatto contrastante con certe tesi stoiche - come termine
di realizzazione, come dovere, cui l'uomo conoscendo sé, entro i limiti della
propria natura, deve avvicinarsi, realizando con ciò, di volta in volta, la piu
genuina natura umana, l'istinto proprio dell'uomo. Di qui i due aspetti che
Cicerone sembrano ispirati a Panezio particolarmente il “De natura deorum” e il
“De offiiciis”) e anche altre testimonianze. (sia pur assai frammentarie)
sottolineano come i piu appariscenti di Panezio. Da un lato un rigoroso
immanentismo naturalistico, dall'altro lato, entl'Ò i termini di quella che è
la natura nella sua totalità - il dovere dà parte dell'uomo di adeguarsi a
quella natura stessa, ciascuno a seconda della propria natura. Sembra cos' interessante
ricordare che Diogene Laerzio, su testimonianza di Fania, scolaro di Posidonio,
sottolinea che, mentre Zenone e Crisippo poneno per prima la logica e per
seconda la fisica e Diogene di Babilonia l'etica, Panezio e Posidonio
cominciano dalla fisica: TIClvClhLot; 3~ XCll Tioaet36>vtot; cinò -.C>v
rpuatxwv clpxov-.ClL. Approssimativamente possiamo renderei conto della concezione
della fisica di Panezio per via negativa, cioè attraverso quello che le
testimonianze sottolineano avere Panezio negato rispetto alle posizioni degli
stoici precedenti. Panezio sostiene che il cosmo non muore e non invecchia, che
questo cosmo è uno ed eterno nella sua totalità, e; che, dunque, non ha né un
principio né una fine, né v'è conflagrazione (bcn6pc.>att;, ek_pirosis)
periodica, e che per ciò stesso nessun dio lo regge, per cui è sciocchezza
(rp>.-f)votrpov, flénafon) tutto ciò che si dice, intorno al divino:
l>.eye yà:p rp>.-f)votrpov elvotL -.òv nept.&eou Myov (Epifanio, De
fide, 9, 45. Per il resto cfr.: Cicerone, De nat. deor.; Filone, De aet. mundi;
Diogene L.; Arnobio, Adv. nat.; Stobeo, Ecl.). Sembrerebbe cos' potersi riferire
a Panezio, anche se non direttamente citato, la concezione riportata da
Cicerone nel “De natura deorum” secondo cui natura e divinità coincidono nel
senso che il divino è la stessa ragion d'essere (logos) del tutto, forza vitale
e organizzatrice (egemonica), non separata dagl’esseri individuali, esistente anzi
nel costituirsi di quegl’esseri, che quanto piu realizzano e conservano se
stessi (la propria natura), tanto piu realizzano e conservano l'universo
medesimo, ché diversi tra loro per gradi, non lo sono affatto per natura.
L'ordine, quindi, e i rapporti tra le cose non sono dovuti a una
"simpatia" delle cose tra loro né alla necessità del fato, bensi ad
una razionalità che rende pensabile e giustificabile la realtà stessa e i suoi
molteplici aspetti, e che esclude da sé sia il motivo della divinazione sia il
motivo dell'anima immortale, separata dal corpo (cfr. Cicerone, Lucullus; De
divinatione; Tusc. diss.; Diogene L.). Piu di questo non possiamo dire della
fisica di Panezio. D'altra parte, sia il fatto che alcuni interpreti antichi
hanno veduto nella concezione fisica di Panezio una diretta influenza della
concezione platonica (va sottolineato che il riferimento è al Timeo ed è dovuto
all'interpretazione che del Timeo dà Proclo, In Plat. Timaeum, 50b), sia i
continui riferimenti delle testimonianze all'aristotelismo di Panezio, al suo
essere non solo filo-platone ma anche filo-aristotele (Stoic.lnder Herc., col.
61, Comparetti 534), avendo Panezio sostenuto l'eternità del cosmo, sempre
tutto in atto, l'unità di anima e corpo, portano a pensare che per Panezio la
realtà, tutta in atto sempre, nei suoi aspetti molteplici, sia quella che è, in
sé né buona né cattiva, comprensibile in quanto ricondotta ad una sua
universale razionalità, rasserenante qualora appunto se ne comprenda da un lato
la sua necessaria razionalità, dall'altro lato che, entro quella stessa
razionalità, ogni cosa è là dove è bene che sia, ogni cosa attua se stessa
pienamente in quanto attui la propria natura, cioè la propria ragione, secondo
le risorse che la natura ha dato. Poiché, d'altra parte, è un fatto che
all'uomo è dato rendersi conto di ciò (tra l'uomo e la bestia vi è grandissima
differenza. La bestia, solo in quanto è stimolata dal senso, conforma le sue
abitudini a ciò che è vicino e presente, non curandosi affatto del passato e
del future. L’uomo, invece, poiché è dotato di ragione e per mezzo di quella
vede la concatenazione dei fatti, le cause efficienti di esse e le cause
occasionali, e ne conosce quasi i precedenti, confronta le cose simili e
congiunge intimamente le cose future alle presenti, può facilmente vedere tutto
il corso della vita -- Cic., De off.), tale consapevolezza e comprensione è ciò
che Panezio chiama ragione di contro all'istinto e agli impulsi degli animali e
alla natura propria di ciascuna cosa, ché, sotto altro aspetto, essi stessi
impulsi e natura, sono razionali. "Due sono gli elementi naturali
dell'animo. L’uno è posto nell'istinto,
35 detto dai Greci op!J.i) (hormè: impulso), che trascina l'uomo
qua e là; l'altro è posto nella ragione, che insegna e rivela all'uomo cosa si
debba fare ed evitare. È quindi vero che la ragione deve comandare e l'istinto
obbedire. I movimenti dell'animò sono di due specie e consistono nel pensiero e
nell'appetito. Il pensiero si applica soprattutto alla ricerca del vero. L’appetito
spinge all'azione. Faremo in modo dunque di rivolgere il pensiero alle cose piu
grandi e di far sentire all'appetito il peso della ragione" (Cic., De
off.). Di qui, evidentemente, l'affermazione di Diogene Laerzio che, secondo
Panezio, due sono le virtu: virtu teoretica e virtu pratica. In altri termini,
insomma, l'istinto, l'impulso sono tali in quanto non compresi; compresi,
l'istinto e l'impulso cessano di essere irrazionali, onde la razionalità e ciò è dato all'uomo consiste nello stesso
impulso qualora sia ordinato nella consapevolezza di quelle che sono, appunto,
le risorse che la natura ci ha dato (•.. Ticxvat(-rLot; -rò l;;ijv
xat-riX-rà;t;8e8o(dvrxt;~!Li"!x!pUae(a)ç&.!pop~t;-ri>.ot;
d.m:!pi)vat-ro: Clemente Alessandrino, Strom., II, 21). Ciascuno deve
conservare le proprie tendenze. Perché si possa pm facilmente conseguire quel
decoro, che si cerca. E ciò avverrà se non contrasteremo per nulla con la
natura dell'uomo in generale ("siamo tutti partecipi della ragione e di
quella superiorità per la quale ci distinguiamo dalle bestie, da cui deriva
l'onesto e il decoro ed alla quale risale la conoscenza del dovere": Cic.,
De off.); ma, conservata questa, seguiremo la nostra propria natura ("come
nei corpi ci sono grandi diffrenze cosi negli animi vi sono varietà anche
maggiori": Cic., De off.), cosi che anche se le altre ci sembrano migliori
e piu importanti, misuriamo alla sua regola le nostre attitudini; non ~
opportuno infatti andare contro la natura e cercare di ottenere quello che non
si può. Da ciò risulta chiaro che cosa sia il decoro, perché non lecito far
nulla, ~e comunemente si dice, a dispetto di Minerva, ci~ quando la natura ~
contraria. Ma non v'è cosa piu decente della coerenza e di tutta la vita e
delle singole azioni, e non si può conservarla se, per imitare l'altrui,
trascuriamo la nostra natura. Tanta questa differenza fra le nature umane, che
talvolta per gli stessi motivi uno è costretto a darsi la morte ~ un altro no. (Cicerone,
De off.). Concepita la realtà come razionalmente.strutturata, strutturato
razionalmente l'uomo, parte della realtà, posto che, appunto, la natura è ciò
per cui tutto è là dove è bene che sia, s1 che ciascuno realizzandc il proprio
impulso, conservando sé conserva il tutto (si come nell'organismo quanto piu
ogni organo è sé e realizza la propria funzione tanto piu l'organismo vive in
atto nei suoi organi), ne consegue che l'uomo scoprendo sé come ragione, quanto
piu vive secondo ragione, cioè secondo l'impulso proprio dell'uomo, che ordina
e si fa guida degli altri impulsi, armonicamente, a seconda delle proprie
possibilità, tanto piu ciascuno vive secondo "natura," secondo la
propria natura, e quindi coerentemente. Sia pur nell'interpretazione che ne dà
Cicerone, sembra che l'aspetto saliente di Panezio sia stato quello di
insistere sul fatto che nell'ordine razionale del tutto ciascuno ha il suo giusto
posto, in una specie di ordine gerarchico, per cui da un lato ne deriva che
ciascuno deve realizzare sé razionalmente, cioè misuratamente, entro i propri
limiti e le proprie possibilità, dall'altro lato ne deriva anche che ciascuno
deve rimanere al suo posto, al posto che natura gli ha dato. Non a caso
Cicerone, in funzione del suo ideale politico, riallacciandosi alla idealizzata
figura di Scipione, sviluppa particolarmente proprio questo motivo, fino a
giungere a far rientrare entro questo quadro la difesa della proprietà privata.
Se è vero che formalmente gli uomini sono tutti uguali, perché partecipi di
ragione (cfr. Leggi) e che per ciò, formalmente, non esistono cose private per
natura, è altrettanto vero che, in concreto, come ciascuna cosa e ciascuno
nell'ordine del tutto è distribuito al suo posto, cosi ciascuno ha il diritto a
ciò che gli è toccato in sorte. Come il primo dovere della giustizia è di non
offendere alcuno, se non si è provocati da ingiuria, cosf dovere della
giustizia è di usare delle cose comuni e delle cose private come proprie. Non
vi sono però cose private per natura, ma per antico possesso. Tuttavia, poiché
quei beni comuni per natura diventano di proprietà privata, ognuno si tenga ciò
che ebbe in sorte; se poi qualcuno desidererà per sé l'altrui, violerà il
diritto ddl'umana società (Cicerone, De officiis). L'uomo di Stato dovrà
soprattutto badare che ciascuno conservi il suo e che la proprietà privata non
sia diminuita da parte dello Stato romano. L'eguagliamento delle fortune è la'
peggiore delle pesti. Lo stato romano e costituito e la comunità cittadina e
ordinata appunto perché ciascuno mantenesse la sua proprietà. Gli uomini
infatti, sebbene siano spinti per istinto naturale ad unirsi fra di loro,
cercano la difesa delle città nella speranza di conservare i loro beni (Cic.,
De off.). Certo, nel motivo di "ciascuno al suo posto," sia entro
l'ordine del tutto sia entro le società specchio della politéia cosmica
(l'argomento platonico anche se con frase stoica è particolarmente presente in
Cicerone nelle Leggi: "Questo mondo intero è da considerare come un'unica
città comune agli dèi ed agli uomii": Leggi) si veniva delineando lo
scioglimento del rigido motivo stoico dell'ordine dato: a seconda dd posto che
ciascuno ha, nel tutto e nella società di cui fa parte, ciascuno ha da
realizzare per essere sé, un proprio dovere, che se formalmente è uguale per
tutti (vivere secondo la comune ragione) ed è uno - onde l'ideale del saggio stoico,
- in concreto si pone da un lato come realizzazione della ragione propria di
ciascuno e, dall'altro lato, in ciascuno, come ordinamento armonico dei propri
impulsi, sf che ciascuno sia se stesso, in armonia con sé e con gli altri,
costituendo un ordine sociale. L'istinto naturale, mediante la forza della
ragione, unisce gli uomini agli altri uomini, crea una corrispondenza che si
manifesta nel linguaggio e nella socicvolczza, ispira soprattutto uno
straordinario amore verso la prole, induce a desiderare adunanze c riunioni:
per questi stessi motivi gli uomini cercano di procurarsi quelle cose che sono
necessarie alla vita e alle sue comodità, e non solo per se stessi, ma per la
moglie, per i figli, c per tutti gli altri che essi amano e debbono proteggere.
Né invero è piccolo privilegio della ragione umana che soltanto l'uomo possa
conoscere cosa sia l'ordine, il decoro c la misura nei fatti e nelle parole. E
cosi non v'è altro animale che conosca la bellezza, l'armonia, l'ordine delle
cose visibili; e la ragione naturale trasportando per analogia queste pro-
prietà dagli occhi all'animo, tanto pio egli ritiene che si debbano osservare
la bellezza, l'armonia c l'ordine nei detti e nei fatti, che non si commettano
atti indccorosi cd effeminati, e che in ogni pensiero cd azione nulla si faccia
o si pensi a capriccio... (De off.). Di qui il concetto, sviluppato da
Cicerone, del dovere medio e del conveniente e i concetti della società come
ordine gerarchico e armonico e del rapporto tra gli Stati come rapporto di
interdipendcnza armonica sotto l'egemonia di una città guida, realizzante la
universale razionalità. Certo, secondo le tesi piu rigide dello Stoicismo, il
virtuoso in assoluto è solo il sapiente, per cui solo il sapiente attua il
dovere asso- luto (xcx-r6p&6lfL«, kat&rthoma); d'altra parte, se
nell'ordine del tutto ogni essere ha il suo posto, e nella società, che
idealmente dovrebbe rispecchiare l'ordine supremo, ciascun uomo ha il suo
posto, per cui, per natura, non tutti possono essere sapienti, attuando quindi
il dovere perfetto, ne deriva che, tuttavia, a ciascuno, per ciò che gli
compete e che gli è proprio, spetta attuare il suo dovere, detto, rispetto a
quello perfetto, dovere medio (xcx&;jxov, kathèkon), nella cui attuazione
con- siste l'onestà. Si parla di un dovere relativo e di uno assoluto. lo penso
che si possa chiamare retto il dovere assoluto, poiché i Greci.lo chiamano
xcx'r6p&6lJL« (dovere perfetto), c l'altro, comune, perché lo chiamano
xcx&;jxov. E cosf 38 definiscono questi doveri, in modo da
stabilire come dovere perfetto quello che è retto; chiamano invece dovere
comune.quello del quale si può dare una ragione plausibile. Tre, secondo
Panezio, sono i casi che si presentano, quando si deve prendere una
deliberazione. Riflettere cioè se si deve prendere una deliberazione: nella
quale considerazione spesso gli animi ondeggiano in opposti pensieri. Ricercare
poi ed esaminare se l'ar- gomento preso in considerazione possa arrecare o no
le comodità e le gio- condità della vita, gli averi, il benessere, il credito e
il potere, con i quali portiamo giovamento a noi stessi e ai nostri; la quale
deliberazione rientra nell'utile. Si è, infine, incerti nel deliberare, quando
ciò che sembra utile contrasta con l'onesto: mentre infatti l'utilità ci
trascina verso di sé e l'onestà anche ci chiama a sé, avviçne che il nostro
animo vacilli nel pren- dere una decisione e rimanga perplesso fra opposti
pensieri... (Cic., De off.). Ciascuno, dunque, in quanto viva seeondo ragione,
cioè bene, ha il dovere di far bene il proprio singolo mestiere di uomo, il
proprio ufficio, nei proprì limiti, conoscendo sé1 (cognitio), di agire secondo
misura (actio), secondo convenienza (7tprnov, prépon), decorosamente (decus).
Cos~ accanto alla virtu teoretica, era possibile, nella realiz- zazione pratica
della ragion d'essere, che è lo stesso ordine del tutto, posto dinanzi agli
occhi come dovere, porre ilcomplesso ·delle virtu pratiche (giustizia,
beneficenza, temperanza: cfr. De ofJ., 1), in cui consiste l'onesto, che se
formalmente sta, apJ?unto, nella giusta misura, di volta in volta realizzata
secondo le circostanze, costituendo un abito civile, che va dai rapporti sociali
1 (De of J.) all’educazione, dal modo di vestire e di incedere (De off.,) al
modo di parlare, al decoro delle abitazioni e cosi via; dall'altro lato
rispecchia quéll'arnionia razionale del tutto, quel supremo bene che, dunque,
non nega i singoli beni, quei singoli benessere, estetica- mente valutabili,
buoni perché belli, cioè compiuti con ordine e mi- sura. "Nella padronanza
dell'animo e nella giusta misura di ogni cosa consiste il decoro, che i n greco
si dice 7tpé7tov, pré p o n " (D e off.). La virtu pratica per eccellenza,
dunque, è quel giusto mezzo,, di sapore aristotelico, che sta a fondamento sia
dell'agire giustamente, sia dell'agire benevolmente, sia dell'agire con
temperanza, in un rap- porto di equilibrio e di rispetto, in cui sta
l'humanitas e la charitas generis humani: charitas, cioè rapporto di decoro,
che, in quanto armo- nico, si riflette come rapporto di grazia, di eleganza. Il
decoro per natura non può mai esser disgiunto dall'onesto; ciò che è infatti
decoroso è anche onesto, e ciò che è onesto è anche decoroso, e quale sia la
differenza tra loro è piu facile immaginare che spiegare. Qualunque 39 cosa infatti appare decorosa,
quando ha per fondamento l'onestà. Il decoro [si manifesta non solo nella
temperanza, ma è il fondamento di tutte le virtu che costituiscono l'onestà]. È
decoroso infatti ragionare con assen- natezza e prudenza, agire consideratamente,
vedere ed osservare in ogni cosa il vero... La stessa cosa si può dire della
fo,rtezza. Le azioni generose e magnanime sembrano decorose e degne
dell'uomo... Il decoro, dunque, riguarda tutte le parti dell'onestà e le
riguarda in modo che non si vede solo per via di astrazione, ma si manifesta
chiaramente. Vi è un qualche cosa di decoroso che si presuppone in ogni virtu;
ma questo può essere separato dalla virtu piu in teoria che in pratica... Due
sono poi le specie del decoro: vi è infatti un decoro generale, che si ritrova
in ogni genere di onesto, e un decoro, a questo subordinato, che riguarda le
singole parti di esso. Il primo è di solito cosi definito: "Decoro è ciò
che è consentaneo alla superiorità dell'uomo, in quanto la sua natura si
differenzia dagli altri esseri animati." Cosi, invece, si definisce quella
parte che è subordinata al genere: "Ciò che è consentaneo alla natura
umana, in modo che in esso appaiano moderazione e temperanza ed una certa
nobiltà... A noi la na- tura stessa ha assegnato una parte, dotandoci di
superiorità e preminenza sugli altri esseri animati... e perciò, dalla natura
stessa essendo state asse- gnate le parti della costanza, della moderazione,
della temperanza e della verecondia e insegnandoci essa il modo di comportarci
verso i nostri simili, possiamo conoscere quanto sia l'estensione del decoro
generale e quali parti contempli il decoro particolare. Come infatti là
bellezza del corpo per l'armonica disposizione delle:.membra attira gli sguardi
e ci diletta in quanto tutte le parti sono tra loro unite in leggiadra armonia,
cosi quel decoro che risplende nella vita eccita l'ammirazione di quelli con i
quali si vive con l'ordine, la coerenza, la moderazione degli atti e dei fatti.
Si deve avere dunque un certo rispetto non solo per gli uomini migliori, ma
anche per tutti gli altri... Il dovere poi, che deriva dal decoro, deve prima
di tutto seguire quella via che conduce alla convenienza ed alla conservazione
delle leggi di natura; e se noi la seguiremo come guida, non potremo mai
sbagliare e conseguiremo la sapienza, la giustizia e la fortezza... (Cic., De
off.). La concezione stoicheggiante di un tutto ordinato, di una realtà
razionalmente articolata, ove, come in un discorso o in un organismo vivente,
ogni parte implica l'altra in una sola armonia - accantonate e non piu discusse
le ragioni e i motivi che avevano mosso i primi stoici nei confronti di Platone
e di Aristotele, - poteva benissimo, soprattutto in quanto volta a costituire
il fondamento di un certo ordine politico e l'ideale modello, inserire nel
proprio corpo dottrinario antichi testi platonici, particolarmente, per ciò che
riguarda appunto l'ordine costituito, i testi del Platone ultimo, dal Timeo
alle Leggi all'Epinomide, oltre alcune parti della Repubblica. Cosi, una volta
posto l'ordine del tutto piu che come conclusione di un'argomentazione
scientifica, come dato e come termine di realiz- zazione, e sottolineata quin6i
la possibilità di Ùn ayviamento a quel- l'ideale nella capacità di compiere ciascuno,
per ciò che gli compete, il proprio dovere, entro i termini del mondo umano, la
rigidezza mo- rale di certo stoicismo poteva risolversi nel compromesso del
dovere comune e del conveniente, salvando i cosiddetti
"indifferenti," che assumevano un loro valore in quanto strumenti di
quella misura (chi è ricco, se lo sia con temperanza e prudenza, può attuare
meglio l'ideale del sapiente di chi è povero). Non solo, ma è chiaro come per
ciò si potessero recuperare da un lato i motivi platonici del cittadino cellula
e organo della propria classe e delle classi strumenti in funzione del tutto
ordinato che è lo Stato, e della temperanza di ciascuno che ha da rivelarsi non
solo nella misura interna, ma anche negli atteggiamenti esterni (dal vestire
all'incedere, dall'accogliere le sventure con fortezza al rispetto per i vecchi
e cosfvia), e dall'altro lato si potessero sfruttare- le indagini aristoteliche
sul_ giusto mezzo, sulle virtu etiche e sui caratteri. Entro questo quadro poi,
che poteva servire come un'enciclo- pedia e un sistema del sapere, e la cui
funzione, appunto, fu tale negli ambienti romani nei quali venne formandosi,
assumeva un particolar significato, una volta interpretato nel senso platonico,
l'antico motivo stoico· del diritto naturale. Una la ragione del tutto, una la
legge su cui tutto si scandisce: la legge, almeno formalmente, pone tutti su di
un piano di uguaglianza, ove per natura tutti hanno gli stessi diritti, in
quanto dovere di cia- scuno è di seguire quell'unica ragione e quell'unica
legge diffusa in tutto e in ciascuno. Secondo ragione o giustizia, perciò, non
vi sono patrie o classi diverse, uomini superiori e inferiori, schiavi e
liberi, ma una sola Città, una sola patria, l'umanità nel tutto
(cosmopolitismo). Certo, l'interpretazione della legge e della giustizia come
adeguazione all'ordine e alla legge universali, in nome della comune umanità
razio- nale, per cui tutti gli uomini sono uguali, quando si era venuta formu-
lando e!ltrO l'àmbito della prima Stoà, in Grecia, rispondeva a precise
esigenze, ed assumeva un carattere politicamente rivoluzionario nei confronti
delle strutture politico-sociali delle Città-Stato, quali in par- ticolare si
erano venute determinando dopo la morte di Alessandro; si come, in altra
situazione, la stessa vis polemica aveva avuto l'appello alla convenzionalità
della legge, ed allo Stato valido in quanto costru- zione degli uomini, non
soffocati nella libera esplicazione della loro natura, che è di non aver natura
ma di costruirsela (appello formulato da alcuni dei primi solisti e dagli
epicurei). Entro i termini, invece, in cui viene ora prospettato il concetto di
natura e di ragione universale, che non esistono a sé, ma nel co- 41 stituirsi stesso del tutto,
per cui tutto è là dove è bene che sia, tutto ha il suo giustò posto, lo stesso
appello al diritto naturale assume una venatura ed un'accezione diversa. Se
formalmente, infatti, per natura tutti gli uomini sono uguali, sempre per
natura ciascuno è diverso dall'altro, ed entro l'ordine del tutto, in cui ogni
parte è organo, di- verso dall'altro, in funzione del tutto, ognuno ha da
essere là dove è posto da natura, in un'armonia si delle classi e degli uomini
tra loro, ma dove ognuno non può non restare se non dove è. D'altra parte,
proprio perché ciascuno è là dove deve essere, po- tendo entro i suoi limiti
esplicare il proprio diritto, nel rispetto, appunto, dei limiti e delle
possibilità altrui, cioè nel rispetto dell'ordine costi- tuito, non tutti
possono aver la coscienza, o meglio la conoscenza di quello che è l'ordine
supremo, da cui deriva l'ordine umano. A tale ordine, dunque, gli uomini vanno
avviati da chi ne sia capace, dal saggio, dal vir bonus, incarnazione della
Legge, e, sia pur gradual- mente, da quella Città in cui la classe dirigente,
l'auctoritas, in nome del popolo, costituendo, volendo un'armonia di Senato e
di Popolo, ordini in armonia le altre città e gli altri stati avvicinandosi con
ciò all'ideale dell'unico Stato. Non possiamo certo dire quanto Panezio abbia
influenzato la concezione politica di Scipione e del suo circolo, o, viceversa,
quanto certe tesi paneziane abbiano subito l'influenza della politica di
Scipione. Ad ogni modo nella situazione storica di Roma, la costituzione romana
deve essere apparsa, sia pur con tutti i suoi difetti, sia pur sfruttando miti
e superstizioni religiose (come malinconica- mente sottolinea il greco
Polibio), rispetto alle singole situazioni poli- tiche delle città greche,
condizione della possibile realizzazione dell'ar- monia delle genti ed
internamente ad ogni stato dell'armonia tra le classi. Non sembra cosi un caso
che tanto Polibio quanto Panezio abbiano esal- tato la costituzione romana
(Cic., Rep.), e che Polibio, rifa- cendosi al motivo dicearchiano della
"politèia" mista, ne abbia visto la possibile realizzazione
attraverso la Respublica romana, mentre Panezio ha dato un contenuto teorico
alla politica perseguit~ da Sci- pione, il quale ha presentato se stesso come
il salvatore della Patria e della Respublica. Polibio,4 l'uomo che aveva
combattuto contro Roma, in nome della f Nato a Megalopoli nd 208 circa, Polibio
fu, come ilpadre Licona (uno dei capi della Lega Achea), avversario dei Romani.
Vinti i Greci a Pidna nd 168, Polibio venne inviato come ostaggio a Roma. A
Roma divenne intimo della casa degli Scipioni e, soprattutto, del giovane
Scipione Emiliano. Maestro e consigliere di lui, Polibio accom- pagnò Scipione
l'Emiliano nelle sue varie spedizioni: sia in quella che si concluse con la
distruzione di Cartagine, sia in quella contro Numanzio.. Morl sembra per una
caduta da cavallo. Solo cinque libri restano dei quaranta della sua Storilt,
che vuole essere un'indagine documentata e obbieniva degli eventi (UI), libertà
della Grecia, che, come il padre Licorta, aveva avuto cospicua parte nella
storia della Lega Achea, che, dopo la vittoria romana del 168, fu in.viato
quale ostaggio a Roma, entrato in dimestichezza con la gente degli Scipioni, e
divenuto maestro e consigliere di Scipione Emiliano, al principio della sua
Storia (che vuoi essere una storia basata tutta sulle reali vicende umane e sui
fatti, “pragmatica"), scrive: Chi può essere tanto stolto o pigro da non
sentire il desiderio di sapere come e sotto quale forma di governo i Romani, in
meno di cinquantatré anni, fatto senza precedenti ndla storia, abbiano conqui-
stato quasi tutta la terra abitata? (I, l). Il carattere peculiare della nostra
opera dipende da quello che è il fatto piu straordinario dc:i nostri tempi [la
conquista romana]: poiché la sorte rivolse in un'unica direzione le vicende di
quasi tutta la terra abitata, e tutte le costrinse a piegare a un solo e unico
fine, bisogna che lo storico raccolga per i lettori in una uni- taria visione
d'insieme il vario operato con cui la fortuna portò a compimento le cose dd
mondo. E nel VI libro si legge: Chi ritiene impresa piu bella e piu grandiosa
non solo guidare, ma sottomettere e controllare altre. nazioni, cosi che tutti
guardino a lui e si inchinino ai suoi ordini, allora bisogna ammetta che la
costituzione degli Spartani è inadeguata e inferiore a qudla dei Romani. I
fatti stessi ba- stano a provare la maggiore efficienza della costituzione di
Roma. Tre erano [al tempo ddla battaglia di Canne] gli organi ddlo Stato che si
spartivano l'autorità. Il loro potere era cosi ben diviso e distri- buito, che
neppure i Romani avrebbero potuto dire con sicurezza se il loro governo fosse
nd complesso aristocratico, democratico, o monarchico. Né c'è da
meravigliarsene, perché considerando il potere dc:i consoli, si sarebbe detto
lo stato romano di forma monarchica, valutando quello del Senato lo si sarebbe
detto aristocratico; se qualcuno inqne avesse consi- derato l'autorità dd
popolo, senz'altro avrebbe definito lo Stato romano democratico. Le prerogative
di ciascuno di questi organi ai tempi della guerra annibalica e, tranne qualche
piccola eccezione, ancora.ai nOstri giorni, sono le stesse. Il rapporto tra le
diverse autorità è cosi ben congegnato, che non è possibile trovare una
costituzione migliore di quella romana. Quando infatti un pericolo comune
sovrasti dall'esterno e costringa i Romani a una concorde collaborazione, lo
Stato acquista tale e tanto. potere, che nulla viene trascurato, anzi tutti
compiono quanto è ricercandone principi, cause e pretesti nel tempo e nello spazio,
in una spie· gazione razionale e scientifica del reale succedersi dei fatti
(pragmaJica), che renda conto di come Roma abbia potuto divenire il centro
della storia. 43 necessario
e i provvedimenti non risultano mai presi in ritardo, poiché ogni cittadino
singolarmente e collettivamente collabora alla sua attuazione. Ne segue che i
Romani sono insuperabili e che la. loro costituzione è per- fetta sotto tutti i
riguardi. Quando poi, liberati dai timori esterni, essi go- dono del benessere
seguito ai loro fortunati successi e vivono in pace, se nell'ozio e nella
tranquillità, come suole accadere, qualcuno si abbandona alla prepotenza e alla
superbia, subito la costituzione interviene a difendere l'autorità dello Stato.
Se difatti uno degli organi che lo costituiscono diventa troppo potente in
confronto agli altri e agisce con tracotanza, non essendo esso indipendente
come abbiamo detto, ma essendo i singoli organi legati l'uno all'altro e
controllati nella loro azione, nessuno di essi può agire con violenza e di
propria iniziativa. Non va ora scordato che questi testi del VI libro, sulla
costituzione romana, seguono ad alcune pagine dedicate da Polibio alla nascita
degli Stati, alle loro varie fasi, alla loro decadenza e ricominciamento dal
punto di partenza, in un andamento ciclico. Polibio, rifacendosi, in parte, a
Platone e ad Aristotele, per la teoria della naturale trasformazione delle
forme di governo, divenuta oramai un t6pos ("essa è stata esposta con
particolare acume da Platone e da altri filosofi," VI, 5), sottolinea che
la prima forma di governo è la monarchia la cui degenerazione è la tirannide,
in contrasto alla quale sorge l'aristocrazia la cui degenerazione è
l'oligarchia, contro la quale si fa avanti l'ordinato potere del popolo
(democrazia), che tuttavia degenera nella oclocrazia (potere della plebe). La
moltitudine, abituata a consumare i beni altrui e a vivere alle spalle del
prossimo, quando ha un capo magnanimo e ardito, che non può aspirare alle
cariche pubbliche per la sua povertà, usa la violenza e concordemente ricorre a
uccisioni, esili, divisioni di terre, fino a quando, ritornata allo stato
selvaggio, ritrova un padrone e un monarca”. Questa la rotazione delle forme di
governo (1toÀ~-n:~6>v dV«XOXÀwatç, politeiòn anak.Yklosis), processo
naturale per il quale esse si trasformano, deca- dono, ritornano al tipo
originario. A prima vista sembra che la costituzione romana, descritta subito
dopo (VI, 11-18), non rientri in nessuna delle tre succedentesi forme di
governo. In effetti Polibio vede in essa la piu alta forma di demo- crazia, la
possibilità di salvare la libertà nell'ordine dello stato costi- tuito come
armonia dei poteri e come armonia tra gii Stati, sotto la guida di Roma, e in
Scipione l'Emiliano (se ne veda l'esaltazione) l'uomo virtuoso, il princeps che
può, almeno per un certo tempo, salvare lo Stato e l'universale Stato dal
disordine, dovuto a gruppi faziosi e popolari - non è un caso l'accenno alla
divisione delle terre, ove, forse, è presente in Polibio la lotta condotta da
Scipione contro Tiberio Gracco, - con il conseguente ritorno a forme
monarchiche e tiranniche, attraverso l'ocloaalria. La posizione di Polibio e di
Panezio (il loro avere recuperato certe linee di una certa tradizione greca, in
una sistemazione che rispondeva alle esigenze politiche di una precisa classe
romana) giustificava la giusta azione di Roma, di fronte al discorso di
Carneade sulla giustizia. La repubblica (res-publica) fa dire Cicerone a Scipione
è cosa del popolo (res-popul1), ed il popolo poi non è qualsivoglia agglomerato
di uomini riunito in qualunque modo, ma una riunione di gente asse> ciata
per accordo nell'osservare la giustizia e per comunanza di interessi. La prima
causa poi di siffatto riunirsi non è tanto la debolezza, quanto una specie di
istinto associativo naturale; l'umano genere non è infatti isolato né vagantQ
nella solitudine, ma generato con carattere tale che, nemmeno in ogni sorta di
abbondanza... [e facilità di vita, l'individuo po- trebbe rimanere isolato1.
Motivo dell'associarsi non furono gli sbranamenti delle fiere, ma la stessa
natura ume.na, e il fatto che gli uomini si riunirono tra loro perché
rifuggivano naturalmente dalla solitudine e appetivano la comunione e la
società... Tutta la popolazione, che è costituita da un rag- gruppamento di
gente, tutta la città, che è l'ordinamento della popolazione, tutto lo Stato
che, come dissi, è cosa del popolo, deve esser retto da un governo cosciente,
onde essere duraturo. Ora delle tre tipiche forme di governo, la pio pericolosa
è quella che sorge dalla smodata libertà delle plebi.1Da questa suole sorgere
il potere degli ottimati o quello fazioso dei tiranni, o il regio o quello
popolare, e da esso suoi germogliare una qualche specie di regime di quelle che
già dissi, ed impressionanti sono i ritorni e quasi i cicli dei mutamenti e
delle vicissitudini negli ordina- menti politici; è proprio del filosofo
conoscerli, mentre il prevederli nel momento in cui incombono quando si è al
governo dello Stato, moderan- done il corso e mantenendolo in propria potestà,
questo è pregio solo di un grande cittadino e di un uomo quasi dit~ino. Sento
pertanto che la pio degna di approvazione è una quarta specie di ordinamento,
moderata e frammista di questi tre [monarchia-aristocrazia-democrazia1che ho
men- zionati per primi (Cic., De rep.). Il circolo sembra cosr chiudersi. Da un
lato abbiamo formulata e sistemata, attraverso il recupero di motivi stoici,
platonici, aristotelici (distaccati dai loro contesti), la visione di un tutto
razionalmente ordi- nato, ove ogni cosa è là dove deve essere, dove è giusto
che sia; dall'altro lato abbiamo, in funzione di un'azione politica, il
tentativo di un ordi- namento dello Stato, che trova il suo fondamento e la sua
giustifica- zione, la sua legalità, nello stesso ordine universale, nell'ordine
natu- rale, che, in quanto a tutti comune, per la comune razionalità, se for-
malmente dichiara tutti uguali e fratelli di fatto, in nome del diritto
naturale, del vinculum iuris e della giustizia, pone ciascuno a un certo posto,
dove i posti sono già dati per natura e, dunque, per legge. Entro questi
termini si vede bene; da parte romana, il tentativo di dare un fondamento
giuridico allo Stato di Roma, s! che il diritto positivo, quale si era venuto
determinando storicamente, trovasse la sua conferma in un diritto comune a
tutti, nel diritto, appunto, di natura, di modo che il vinculum iuris e il
vincolo su cui si articola il tutto coincidesse. Rompere q!Jel vincolo avrebbe
significato spezzare l'ordine costituito, rovesciare la respublica, venendo
meno alla giusti· zia e al diritto stesso, su cui si poteva basare la
"propaganda" di Roma e della sua classe dirigente in funzione dello
ius gentium. "Il consolidamento del territorio o della giurisdizione di
una na- zione, specialmente quando comprende tribu o distretti confinanti, non
può non far sorgere contemporaneamente la questione dei rapporti tra legge
nazionale e legge delle tribu o dei distretti: e la risposta non può essere
rimandata a lungo. Un qualsivoglia sistema 'comune' deve sorgere per rispondere
a questa pratica necessità, e il contenuto effet- tuale di questo sistema
dipenderà in ogni caso dalle condizioni in atto quando la necessità compare...
Roma incontrò questo problema nei primi tempi, relativamente, della sua storia
giuridica, quando l'in- fluenza della filosofia politica greca era forte e il
diritto romano ancora malleabile, e anzi piu suScettibile di influenze esterne
di quanto non divenne piu tardi, dopo che le sue leggi si furono sviluppate e
fissate in una tecnica tanto esigente da richiedere uno studio che escludeva
necessariamente gli altri rami del sapere. Avvenne cosi che i primi giuristi
romani poterono - e lo fecero, in effetti - fondere i principi filosofici greci
con le leggi locali della penisola italica, per formare il loro nascente
sistema giuridico; e per alcuni di essi questa fusione può avere gradualmente
·preso la forma di una identificazione piu o meno completa dello ius gentium -
un sistema 'comune' distillato in pratica dalle varie leggi locali di Roma.e
delle vicine tribu da ultime assogget- tate - con lo ius naturale che la
filosofia stoica aveva insegnato a consi- derare come un sistema 'comune' a
tutta l'umanità" (C. H. McLlwain, Il pensiero politico occidentale dai Greci
al tardo Medioevo, Venezia). Il motivo del diritto naturale, dunque, poté
servire in Roma, da fondamento e da giustificazione per l'azione politica della
classe diri- gente senatoriale e, piu tardi, attraverso l'idealizzazione della
figura di Scipione Emiliano (quale si rivela anche nel Somnium Scipionis di
Cicerone), soprattutto al tempo di Cicerone, quale giustificazione della
posizione assunta dalla classe degli uomini nuovi, e, ad un tempo, in nome
della 1egge (espressione della legge razionale su cui si scan-
disce il tutto) a giustificare la conservazione dell'ordine dato, d'i
contro a coloro che tendevano a rompere quell'ordine, fossero i popolari o un
Cesare. Tale, nel suo fondo, la politica di Cicerone. Se, ora, la visione di
Cicerone, la sua interpretazione della concezione paneziana, retori- camente
espressa volta a volta a seconda di certe situazioni, spiega quella ch'egli
dichiara difesa della "res-publica," essa spiega anche, oltre la
ripresa di motivi platonici, aristotelici e stoici, l'avversione di CICERONE
per i popolari e per Cesare e la sua avversione per L’ORTO, la cui filosofia,
egli arriva a dire, dovrebbe essere condannata non con ragionamenti, ma con un
decreto legge (De finibus). Basti qui ricordare la formulazione che del diritto
aveva dato Epicuro, coerentemente alla sua concezione che socialmente implicava
non un ordine dato, scandentesi su di un ordine universale e razionale, ma un
ordine e un equilibrio frutti dell'attività umana, per cui la razio- nalità è
conquista e azione, e la formulazione che, attraverso una rie- laborazione del
concetto di giustizia, di ordine, di legge-intelletto di Platone, mediante il
motivo della legge e della ragione propria di certe posizioni stoiche (Cleante,
Crisippo, Panezio) vien data del di- ritto naturale da Cicerone: lucidissima
formulazione di un concetto che s'era venuto elaborando in un secolo circa di
discussioni politiche, nell'àmbito di Roma, e che sta a fondamento di una
precisa presa di posizione. Diceva, dunque, Epicuro: Per tutti gli animali che
non poterono stringere patti per non ricevere né recarsi danno reciprocamente,
non esiste né il giusto né l'ingiusto, altrettanto per tutti quei popoli che
non vollero e non poterono porre patti per non ricevere e non recare danno (Massime
Capitali). Non è la giustizia qualcosa che esiste di per sé, ma solo nei
rapporti reciproci e sempre a seconda dei luoghi dove si stringe un accordo di
non recare né di ricevere danno (Mass.). L'ingiustizia non è di per sé un male,
ma lo è per il timore che sorge dal sospetto di non poter sfuggire a coloro che
sono preposti alla punizione di tali azioni (Mass.). Da un punto di vista
generale il diritto è uguale per tutti, poiché rap- presenta l'utile nei
rapporti reciproci, ma dal punto di vista delle parti- colarità dei vari luoghi
e di ogni genere di principt causali segue che una medesima cosa non è per
tutti giusta (Mass). Cicerone, invece, proprio di contro alla tesi
contrattualistica e con- venzionalistica di Epicuro e di contro all'altrettanto
contrattualistica e storicistica tesi di Carneade, ambedue estremamente
pericolose per uno Stato costituito, che, d'altra parte, cercava
giustificazione e fondamento alla propria politica universalistica, dice. Vi è
certo una vera legge, la retta ragione conforme a natura, diffusa tra tutti,
costante, eterna, che col suo comando invita al dovere, e col suo divieto
distoglie dalla frode; ma essa non comanda o vieta inutilmente agli onesti né
muove i disonesti col comandare o col vietare. A questa legge non è lecito
apportare modifiche né togliere alcunché né annullarla in blocco, e non
possiamo esserne esonerati né dal senato né dal popolo...; essa non sarà
diversa da Roma ad Atene o dall'oggi al domani, ma come unica, eterna,
immutabile legge governerà tutti i popoli ed in ogni tempo, e un solo dio sarà
comune guida e capo di tutti: quegli cioè che ritrovò, elaborò e sanzionò
questa legge; e chi non gli ubbidirà, fuggirà se stesso e, per aver rinnegato
la stessa natura umana, sconterà le piu gravi pene, anche se sarà riuscito a
sfuggire a quegli altri che solitamente sono con- siderati supplizi (Cic., De
rep.). Ancora una volta, sia pur nell'affermata uguaglianza di tutti gli
uomini, si rivela una precisa presa di posizione da parte di un preciso partito
politico. Assumono anzi un valore non poco indicativo certe battute iniziali
de)T,'! Leggi, in cui chiaramente si dice: Riallacciamoci, dunque, nello
stabilire la definizione del diritto, a quella legge suprema che è nata tutti i
secoli prima che alcuna legge sia mai stata scritta o che un qualche Stato sia
mai stato costituito... Dal momento, dunque, che dobbiamo mantenere e
conservare inalterate le condizioni di quello Stato, la cui forma Scipione ci
insegnò essere la migliore... e poiché tutte le leggi dovranno essere adattate
a quel genere di costituzione, occor- rendo anche inserirvi i principi morali
senza sancire ogni cosa.per scritto, trarrò fuori la radice del diritto dalla
natura, sotto la cui guida dobbiamo svolgere tutta questa discussione...
(Leggi). Non solo, ma altrettanto indicativo è che alla tesi postulata da
Cicerone ("tutto l'universo è governato dalla potenza, dalla ragione,
dalla potestà, dall'intelletto, dal volere, o con qualsiasi altro termine che
indichi ciò che pensiamo"), donde discende che il tutto è come legalmente
costituito, Cicerone stesso contrapponga la tesi epi- curea, secondo la quale
il "dio di nullà si cura né delle cose proprie né delle altrui," e
faccia dire ad Attico epicureo: "Te lo concedo, se me lo chiedi: tanto per
questo concerto di uccelli e risonare di acque" - il dialogo si finge
svolto in campagna - "non temo che mi senta al- cuno dei miei
condiscepoli" In effetto l'uguaglianza di tutti gli uomini - si dirà pio
tardi di tutti gli animali, onde la giustizia è vincolo universale degli esseri
viventi - è un'uguaglianza relativa, ché già in partenza sono date le
disuguaglianze. L'uguaglianza è dovuta alla comune ragione di cui ognuno
partecipa, ma in gradi diversi. Entro il motivo stoico, infatti, la
comune ragione è la Ragione universale che realizza se stessa me- diante
gl'individui, onde ciascuno nel tutto e nella società deve mantenere il posto
che gli è dato da natura, per cui il bene è conoscenza e sta nel mantenere
l'ordine dato. D'altra parte, entro i termini di questa visione legale del
tutto, se da un lato si giustificava l'azione politica e la funzione cosmica
(ordi- natrice) della classe senatoriale, dall'altro lato si delineava la
possibilità formale di un rispetto umano, che si concretava in quel decoro, in quel
dot1ere medio, in quella charitas humana, in quel vivere conveniente- mente
alla propria natura, di cui sembra abbia parlato Panezio, e che sul piano
pubblico diveniva, di contro ad altre posizioni politiche, ri- spetto della
res-publica e dovere di lavorare per essa. Di qui, anche, entro quest'àmbito
politico, l'importanza dello studio del diritto, della formulazione della
parola"della legge e della sua interpretazione, in quanto rispecchiamento
dell'ordine universale, della universale giustizia, o, meglio, in quanto
quell'ordine esiste appunto nella formulazione stessa della legge. Sotto questo
aspetto, in questo convergere fra giu- stizia formale e giustizia sostanziale,
il sapere giuridico diviene il fon- damento medesimo della ricerca scientifica,
diviene iuris prudentia, e, per·altro verso, studio delle tecniche oratorie.
Non sembra cosi un caso che fin dal principio le persone che ruo- tarono
intorno a Scipione Emiliano e che ebbero rapporti con Polibio e con Panezio, si
siano proclamate tutte vicine allo " stoicismo" e siano state
soprattutto personalità politiche, militari, oratori e giuristi, a cominciare
da C. LELIO, avversario dei Gracchi – GRACCO (si veda), detto sapiens, per la
sua prudentia politica, amico di Panezio; C. Fan- Dio, genero di Lelio,
console, anch'egli amico di Panezio, autore di Annales, contrario alla proposta
di C. Gracco di concedete la piena cittadinanza ai Latini e i diritti dei
Latini agl’ltalici; BLOSSIO DI CUMA discepolo di Antipatro di Tarso, Quinto
Mucio SCEVOLA l'Augure, Q. Elio TUBERONE, avversario di Scipione Emiliano e di
C. Gracco, SPURIO MUMMIO, vicino a Scipione e a Panezio, P. Rutilio RUFO, Q.
Elio STILONE, maestro di VARRONE e di CICERONE; per giungere a Q. Mucio Scevola
Pontefice, vittima delle lotte civili, celebre per la sua giustizia, giurista
di grande valore, autore di libri XV/Il iuris civilis, in cui cercò di dare un
fondamento al diritto, e di un'opera intitolata "Opo~ (H6rot) in cui dava
definizioni (!Spo~) di concetti giuridici e di rapporti giuridici, a L. Lucilio
Balbo, anch'egli giurista, discepolo di Q. Mucio SCEVOLA, il Pontefice, a Q.
Lucilio BALBO, al quale CICERONE assegna nel De natura deorum il compito di
esporre le conce- zioni stoiche sul divino; a M. FAVONIO, partigiano di Pompeo,
ucciso dopo Filippi; a Cornificio LUNGO, a Q. Valerio SORANO; al celebre CATONE
Uticense, ch'ebbe a maestri gli stoici Atenodoro Cordilione (da Pergamo, segui
Catone, a Roma, ove rimase suo ospite) e Antipatro di Tiro. CICERONE definl
Catone stoico com- piuto, soprattutto per la sua dirittura e constantia
sapientis. Avversario di Cesare, in cui vedeva l'attentatore alla libertas
romana, a Utica, assediata da Cesare, nel 46 a. C., si tolse la vita. II suo
suicidio è rima- sto un topos della letteratura stoica e della teorizzazione
del suicidio politico sul quale, poco prima di uccidersi, sembra abbia discusso
con Io stoico Apollonide (cfr. Plutarco, Catone). Posidonio. È stato detto che
il gran merito di Posidonio di Apamea,'1 scolaro di Panezio "fu di
raggruppare, in modo piu completo di chiunque altro, la massa di credenze che
dominavano lo spirito degli uomini, dando ad esse una forma singolare ed elo-.quente.
II vasto insieme dei suoi scritti esprime con una.pienezza unica Io spirito
generale del mondo greco all'inizio dell'èra cristiana: egli concentrò questo.
spirito e lo rese consapevole. È per questa ragione che, in seguito, gli
scrittori che si occuparono di teologia, di filosofia, ·di geografia o di
scienze naturali, considerarono Posidonio come la fonte piu abbondante e piu
facilmente accessibile a cui attingere. Egli li Posidonio, nato ad Apamea, in
Siria, a circa venti anni lasciò la patria, dilaniata da lotte intestine,
disprezzando, inoltre, la molle vita delle città greco- siriache. Giunto ad
Atene, entrò nella Stoà, allora diretta da Panezio. Ritiratosi Panezio
dall'insegnamento nel 110/109, Posidonio lasciò Atene. Si mise in viaggio: fu
in Africa settentrionale, in Gallia, altrove. Fissa la sua dimora in Rodi,
ove,·divenuto celebre per la sua cultura, il suo insegnamento, le sue ricerche
scien- tifiche e storiche, fu fatto cittadino onorario della città, occupandone
anche la pritania. Ambasciatore a Roma sostenne gli interessi di Rodi. In Rodi
venne visitato dalle mag- giori personalità del tempo. Tra gli altri lo fu da
Pompeo, e Cicerone si recò apposita- mente a Rodi per ascoltarlo. Delle
moltissime opere di Posidonio, andate perdute, riferiamo qui i titoli
tramandati: Fisica {~cnxòç ).6yoçl; Sull'universo (IIe:pt x6CJ!'OUl; Sugli dèi
(IIe:pt &t:wvl; Sugli eroi e sui dèmoni (IIcpt ijpc!!Cil\1 X(Xl
à(XLI'6116l\ll; Sul fato (IIt:pl &:(I'(XPI'évtJçl; “Sulla divinazione”
(IIt:pl I'(XVTLlrijc;;l; “Sull’anima” (IIcpl ~U)('ijt;l; Introduzione al lin-
guaggio (E!a(XyCilyi) ncpl >Jl;t:Cilç l; Contro Ermagora {Upòt;
'Epi'(Xy6p(X11 l; Srtl cri- terio (IIcpl TOU xpLTCptou l; Sulle passioni (IIcpl
7rot&wv l; Dottrina del carattere (:Eu\IT(Xy- V.CC mpt 6py'ijçl; “Sulle
virtu” (IIa:pl~~'lipCTW\1l; Etica ('Hihxòc;;~·Myoc;l; Protrepttci
(IIpOTpmTLXot); Sul dovere (IIr:pl wu xcx&Tjxo\ITOc;l; Esege# del Timeo di
Platone ('E~iJY1JaLç TOU IIM.TCil\10<;; TLI'(X(ou l; Sulle meteore (IIe:pl
!.I.ETC6lp6l11 l; Strlla gran- dezza del Sole {Ilcpl TOU 'H).(ou
l'cyi&ouc;l; Su Zmone (IIpòt; ZijiiCil\I(Xl; Sujl'oceano (Ilepl cllXC«VVul;Oltre
Polibio (TIZ I'CTii Ilo).(~L0\1l; Tattica (Téxll'll T(XXTLxij l; Lettere
('E7rLCJTOì.r&t l- 50 univa i vantaggi di uno stile attraente
e colorito a quelli di una enci- clopedia" (Bevan, Stoics and Sceptics,
Oxford}. D'altra parte, si è anche detto, il fatto che il nucleo degli scritti
di Posidonio fosse tratto dalla filosofia corrente delle scuole e dalle
credenze popolari accresce la difficoltà che sorge quando si cerca di
attribuirgli con sicu- rezza molte idee che ritroviamo presso scrittori a lui
posteriori. "Que- ste idee possono infatti essere giunte a questi
scrittori attraverso la mediazione di altri" (Bevan, cit.). Senza dubbio
dietro molte cogni- zioni di Cicerone, che ascoltò Posidonio a Rodi, di Filone
l'Ebreo, di Strabone, di Seneca e cosi via, c'è Posidonio, ma ci sono anche
quei molti manualetti di filosofia popolare, per lo piu di tipo stoico, che
sappiamo circolare nel 1 secolo a. C., e che erano compilazioni di luo- ghi
comuni, di sentenze correnti, di detti popolari. Impossibile rico- struire
attraverso le fonti una posizione, storicamente attendibile, di Posidonio, ché
a seconda delle fonti usate potremmo avere piu Posi- doni l'uno diverso
dall'altro; tuttavia mediante quelle fonti stesse, cri- ticamente vagliate, è
possibile cogliere un Posidonio volto, piu che a costruzioni astratte, a
raccogliere dati, descrivere e catalogare fenomeni, a rendersi conto e a
rendere conto di quei dati e di quei· fenomeni stessi, dai normali agli
anormali all'osservazione, si tratti di fenomeni fisici o di fenomeni
cosiddetti psichici, o di fatti storici, in un tenta- tivo, sembra, di dare una
spiegazione integrale dell'universo o, com'è stato detto, di "rendere
l'universo familiare agli uomini." Già un primo sguardo ai testi da cui si
traggono le testimonianze su Posidonio o entro cui si trovano citazioni da
Posidonio, rivela non solo la molteplicità degli interessi di lui in campi
molteplici, ma anche, e soprattutto, il fatto che Posidonio servi da fonte e da
informazione a uomini di culture diverse e mossi da interessi diversi. Chi si
limi- tasse a Cicerone o a Seneca avrebbe un Posidonio studioso di questioni
morali e sociali; chi si limitasse a Galeno avrebbe un Posidonio stu- dioso di
fenomeni psichici; chi si limitasse a Strabone o a Simplicio o a Stobeo o ad
Ateneo, avrebbe un Posidonio descrittore di fenomeni naturali, geometrici,
astronomici, astrologici, geografici, storici; chi si limitasse a Cicerone e a
Diogene Laerzio avrebbe un Posidonio assai vicino a un Cleante e a un Crisippo,
particolarmente in fisica. Abbiamo citato solo alcuni nomi di autori dalle cui
opere è possi- bile trarre informazioni su Posidonio, ma già questi sono assai
indi- cativi per mostrare da un lato gli aspetti diversi dell'opera posidoniana
e, dall'altro lato, l'impossibilità di ridurre il pensiero di Posidonio a una o
ad altra precisa dottrina. Cosi v'è chi, unilateralmente puntando su certe
fonti, da cui sem- bra apparire una qualche insistenza di Posidonio sulla lotta
tra un 51 principio positivo
e attivo e un principio negativo e passivo, tra forza attiva e materia, tenendo
presente l'origine orientale, siriaca di Posi- donio, ha fatto di Posidonio un
mistico, legato.a concezioni dualistico- religiose "orientalizzanti,"
che di contro al razionalismo unificante proprio dello stoicismo greco, avrebbe
inserito entro la concezione stoica il motivo di forze irrazionali, come
starebbe a dimostrare la polemica di Posidonio contro Crisippo e il primo
stoicismo che, ridu- cevano, invece, l'errore e il male a sbaglio logico,
negando l'esistenza di un'anima irrazionale, e sostenendo che le passioni non
sono che errori di giudizio. E cosi v'è chi - sempre escludendo quelli che sono
stati gli aspetti diciamo scientifici dell'indagine posidoniana, appunto perché
"scienti- fici" e non "filosofici" - ha cercato, spuntando
precise testimonianze, avulse dai loro contesti, di fondare tutta la concezione
di Posidonio sul motivo stoicheggiante della "simpatia" universale,
dimostrando come proprio in questo Posidonio si allontanasse dal maestro
Panezio, riallacciandosi allo stoicismo di Crisippo (diceva Crisippo che il
pneuma diffondendosi e penetrando ovunque, au!J.ftot&ét; ~nLV ot1Y.(j).ro
niv cfr. Arnim). Posidonio, ancm:a di contro a Panezio, avrebbe ripreso la tesi
della ciclicità del tutto i cui termini estremi, toccantisi, sono dovuti alla
conflagrazione (ecpirosis) del cosmo, in cui l'universo, che si scandisce per
degradazione nelle due zone del razionale e del- l'irrazionale
(aristotelicamente del sopralunare o celeste e del sublu- nare o terrestre e
mortale e corruttibile), si riassorbe tutto - ivi com- prese le anime umane -
nel l6gos universale. Entro questi termini (dovuti alle ricostruzioni dello
Schmekel e del Reinhardt, mentre molto piu cauto, usando tutte le fonti, appare
l'Edelstein) si è delineato un ben preciso sistema di Posidonio, in cui mentre
da un lato.sarebbero penetrati motivi mistici e irrazionali di provenienza
orientale, dall'altro lato tali motivi sarebbero stati spie- gati da Posidonio,
al di là delle tesi propriamente stoiche, mediante la concezione aristotelica
dell'universo distinto nelle due zone, celeste e sublunare, e la concezione
platonica dei due aspetti dell'anima, la razionale e l'irrazionale, in una
conseguente ripresa del dualismo pla- tonico, proprio del Timeo (sembra che
Posidonio abbia scritto un commento ·al Timeo) nella tensione tra Intelligenza
e Necessità. Posido- nio, dunque, avrebbe posto a fondamento del tutto due
principi attivo l'uno (~ò noLouv, tò poiun), passivo l'altro (~ò n«oxov, tò
paschon), in quanto materia sostanziale non avente alcuna qualità (Diogene L.).
"La materia e sostanza di tutto, Posidonio disse che è senza qualità e
senza forma, non avente né una forma distinta per sé né una qualità in sé"
(Doxographi Graeci). L'altro principio, il principio attivo o divino, è alito
caldo, pneuf!Ja e fuoco, forza vitale che, pur senza forma, si diffonde e dà
forma alla materia informe, esso l6gos dando a tutti una ragione, una propria
ragion d'essere. "Dice Posidonio:.&&6c; la-rL 7tV&:U(.Lot
vo&:pòv 8L~xov 8L' &:7tl%<71jc; oòatotc;: dio è alito razionale
diffuso per tutta la materia" (Commenta Lucani, ed. H. Husener, ad. v.
578, p. 305). Ne discende che la realtà qual è scaturisCe nelle sue
qualificazioni, cominciando dagli elementi (fuoco, aria, acqua, terra), dalla
tensione tra il principio attivo e quello pas- sivo in una gradazione che va
dal superorganico (l'originario fuoco, l'originaria forza, il l6gos divino,
inesistente in sé quale realtà tra- scendente) all'organico e all'inorganico,
dal razionale (di cui parteci- pano dèi e uomini) all'irrazionale, al limite,
al corpo, come termine estremo e affievolito dal diffondersi del pneuma. Di qui
la distinzione tra un mondo celeste e divino ed un mondo sublunare e corporeo,
cor- ruttibile, già oltre la natura e sottoposto al fato. "Dice Posidonio
che il fato è terzo dopo Zeus. Primo è Zeus, seconda la natura, terzo il
fato" (Doxographi graeci, 234a, 4). L'irrazionalità, dunque, in quanto
mancanza di organicità, di razionalità, di ordine collegante ("sim-
patia") è propria del mondo corporeo e, perciò, anche dell'uomo in quanto
corpo, impulsività (primo aspetto dell'anima irrazionale) e desiderio (secondo
aspetto dell'anima irrazionale). Le passioni non sono, quindi, dovute ad un
errore di giudizio, ma hanno una loro realtà, accanto all'altro aspetto
altrettanto reale dell'uomo, che è, in lui, la forza egemonica, la razionalità
(anima razionale), mediante la quale l'uomo può coordinare le passioni, con ciò
facendosi specchio di quell'ordine che è costituito dal divino 16gos o pneuma
che si dif- fonde e si realizza nell'ordine con cui appare il tutto. Animato il
tutto per la razionalità o forza vitale e organica che gradatamente per il
tutto si diffonde sino al limite del corporeo e dell'irrazionale, posto l'uomo
come nesso tra l'irrazionale e il razionale, oltre l'uomo, tra l'uomo e il
principio divino, vi è tutta una serie di anime, di demoni e di eroi
intermediari. Secondo certi stoici, scrive Alessandro Polii- store, "l'aria
è tutta piena di anime, venerate come demoni ed eroi; sono esse che mandano
agli uomini sogni e presagi" (in Diogene L., VIII, 32). E tale tesi è da
Cicerone (De divinatione) attribuita a Posidonio. Di qui, sembra, il motivo
posidoniano della divinazione e, sul piano della "simpatia," il
significato che vengono ad avere le congiunzioni stellari e i loro influssi,
attraverso le graduazioni demo- niche, sulle cose e sugli uoplÌni (cfr. Ario
Didimo, f. 32 in Doxographi Graeci, p. 466, 18; Achille Tazio, lsagoge in Arati
Phaenomena, c. 10), ché, appunto, le stelle e gli astri sono divinità. Senza
dubbio stoica, nel suo complesso, la concezione di Posidonio, si capisce
d'altra parte com'essa sia stata detta eretica e platonizzante nei confronti
dello stoicismo primo, e non solo per ciò che riguarda la "fisica" -
secondo Diogene Laerzio, VII, 41, Posidonio poneva, nell'ordine degli studi,
innanzi tutto la fisica, - ma anche, paralle- lamente, per ciò che riguarda
l'"etica," soprattutto per la minuziosa indagine posidoniana delle
passioni, dell'irrazionale e del male, del fato, che sono propri della natura
umana, ad essa radicati e che si risolvono solo, platonicamente, in un
controllo delle passioni, in una sapiente misura, per cui è possibile da parte
di chi sa, di chi ha com- preso e studiato le umane passioni e gli umani
caratteri, un'educazione dell'anima, mediante l'indicazione di un ordinamento
delle passioni stesse, in cui consiste la razionalità, in un amore di sé come
armonia, specchio dell'armonia del tutto, che diviene ad un tempo amore degli
altri, in quanto tutti, cose e uomini, sono come organi di un solo orga- nismo
(dr. in particolare, per l'analisi delle passioni e per la loro terapia,
Galeno, De plac. Hipp. 6t Plat.). Sotto questo aspetto, la funzione del
filosofo, in quanto saggio, è d'essere educatore e, per ciò stesso, socialmente
e politicamente impegnato. Molti piu frammenti e testimonianze abbiamo
relativamente alle ricerche ed alle scoperte scientifiche di Posidonio. Innanzi
tutto sap- piamo che gran parte delle sue descrizioni di fenomeni, dei suoi
cal- coli, delle sue dottrine, sono dovuti a osservazioni dirette, a minuziose
raccolte di dati, opportunamente vagliati e non solo catalogati. Sap- piamo
altres1 che Posidonio, nato in Siria, ad Apamea (città greca sull'Oronte,
fondata un secolo e mezzo circa prima della sua nascita), abbandonò ancora
giovane la patria, dilaniata da lotte intestine, da guerre tra città e città,
nella corsa al potere dell'uno o dell'altro prin- cipe della oramai distrutta
casa seleucida. Due frammenti di Posidonio parlano, anzi, del suo disprezzo per
la vita molle delle città grcco- siriache e per la "miserabile farsa delle
loro operazioni militari" (cfr. Bevan, cit.). Da Apamea Posidonio venne ad
Atene, ove entrò nella scuola di Panezio circa nel 115 a. C. Dopo la morte di
Panézio (110/09) viaggiò molto: fu in Africa settentrionale fino alle colonne
d'Ercole (Strabone testimonia ch'egli vide coi proprt occhi calare il sole di
là dei limiti del mondo sconosciuto: III, l, 5, 138; che vide alberi popolati di
scimmie: XVIII, 3, 4, 827). Visita l'entroterra di Marsiglia e in quei villaggi
barbari vide teste umane appese alle porte delle capanne (Strabone, IV, 5,
198); e, sempre spinto dalla sua curio- sità e dall'esigenza delle sue
ricerche,· fu ovunque nel mondo occiden- tale conquistato e ordinato da Roma. Fissa
la sua dimora in Rodi, la patria di Panezio, ove scrisse le sue opere, insegnò,
divenne celebre, cittadino onorario di Rodi, di cui occupò 54
anche la pritania, e per cui andò ambasciatore a Roma, visitato dai
romani che passavano per Rodi (come fu il caso di Pompeo) o che da lui
veniv,ano appositamente per studiare, come fu il caso di Cicerone. Sono tutti
dati molto indicativi. Discepolo di Panezio, quando Panezio era scolarca della
Stoà ad Atene, Posidonio, in effetto, non fu stoico di professione, non fu
scolarca della Stoà, legato cioè a certe regole. Viaggiò molto, raccolse u n
notevole materiale di osservazioni. non s'impegnò mai con un partito, né fu cliente,
tanto che fissò la sua dimora a Rodi, la città rimasta piu libera del mondo
dominato da Roma. Il complesso delle sue ricerche e delle sue osservazioni lo
portarono non solo a raccogliere e a descrivere un materiale di prim'ordine in
tutti i campi delle scienze naturali (astronomia, meteorologia, geo- grafia),
ma anche a formulare teorie che furono fondamentali per ulteriori ricerche e
che chiaramente dimostrano la precisione del me- todo proprio dei precedenti
grandi ricercatori di Alessandria. In astro- nomia, Posidonio, riallacciandosi
alla misurazione del diametro del sole ottenuta da Aristarco e migliorata da
lpparco di Nicea e rifacendosi a un calcolo di Archimede, giunse a dare la
misura del diametro del sole e della distanza di esso dalla terra che piu si
approssima alle misure calcolate oggi, spiegando anche perché il sole appare
piu grande sul filo dell'orizzonte che non nel cielo aperto (cfr. Plinio, Nat.
·hist.), mentre descriveva il fenomeno della rifrazione atmo- sferica (cfr.
Cleomede, Sul moto circolare dei corpi celesti), Posidonio poi, rifacendosi
all'analisi che delle maree avevano dato Eratostene e Seleuco di Seleucia,
mediante osservazioni proprie, fatte dalle coste della Spagna atlantica,
sostenne che le maree sono dovute agli sposta- menti della luna, descrivendo,
per primo, i tre periodi delle maree: alta e bassa marea quotidiana; alta e
bassa marea mensile; alta e bassa marea annuale. Il fenomeno è, secondo
Posidonio, dovuto all'influenza della luna e degli altri astri sulla terra,
entro l'ambito della simpatia universale. Celebri furono anche le descrizioni e
catalogazioni, meto- dicamente effettuate da Posidonio, dei fenomeni sismici,
ch'egli, con Aristotele, spiegava mediante l'ipotesi che i movimenti terrestri
fos- sero dovuti all'aria circolante nelle cavità sotterranee, e la descrizione
della formazione delle comete. Si è detto, infine, che Posidonio è stato il
fondatore dell'"etnologia." In effetto, Posidonio, rifacendosi a de-
scrizioni di popoli date da Erodoto e da Polibio, alle analisi dei carat- teri
umani e dei popoli di certi testi ippocratici, mediante osservazioni proprie,
ha cercato di determinare i caratteri fisici e i tratti psicologici di ciascun
popolo, spiegando tale rapporto psico-fisico con l'influenza dei climi. Egli ha
cosi nettamente distinto ·i popoli europei del nord 55 dai popoli europei del bacino
mediterraneo. Ha sottolineato che i popoli del nord e quelli delle zone
tropicali, gli uni per il troppo freddo, gli altri per il troppo caldo, hanno
intelligenza ottusa, mentre i popoli che vivono in clima temperato hanno
intelligenza vivace, e in loro prende il sopravvento il l6gos, la razionalità,
fonte di civiltà e di equilibrio. Ogni natura (piante, animali, uomini) si
determina qual è nel suo luogo naturale, ma quando viene trasportata in altra
regione si adatta poco a poco ai caratteri del nuovo ambiente, finché ne assume
la natura propria. Abbiamo, non a caso, citato il nome di Archimede (cfr.
sopra, I vol.) e il nome di Ipparco. Ipparco di Nicea, in Bitinia, nacque
intorno al 180, mori nel 125, visse ad Alessandria e a Rodi, dove compf la
maggior parte delle sue osservazioni. Non è qui il luogo per descri- vere le
scoperte di Ipparco e i suoi calcoli. Basti ricordare ch'egli ottenne la
possibilità di determinare la posizione delle stelle (calcolò la posizione di
circa 800 stelle) e di farne un catalogo, appurandone la grandezza a seconda
della loro luminosità, calcolando la loro longi- tudine e latitudine, mediante
processi matematici, per i quali, usando pratiche babilonesi, determinò i
fondamenti della trigonometria. Posto un circolo, egli lo divise in 36 gradi,
ogni grado in 60 minuti e cia- scun minuto in sessanta secondi. "
Dividendo poi il diametro in 120 parti, Ipparco cercò di calcolare, con
procedimenti teorici, di cui troviamo l'applicazione in Tolomeo, e non con
semplici approssima- zioni pratiche, il valore delle corde in rapporto a queste
parti del diametro. Non solo, ma per rendere piu comodi e piu rapidi i calcoli
astronomici nei quali dovevano essere utilizzati i diversi valori delle corde,
ne stabiH una vera 'tavola' cominciando da un angolo di una metà dì grado e
successivamente procedendo per metà di grado. Si vede di quale aiuto poteva
essere una tale tavola, e quale ·precisione un simile procedimento
trigonometrico dava alla espressione matema- tica delle osservazioni
astronomiche" (P. Brunet, La science dans l'an- tiquité, in Histoire de la
Science, a cura di M. Daumas, Parigi). Su questa base scaturisce il tentativo
di Ipparco di applicare le costruzioni geometriche alla realtà concreta dei
fenomeni osservati. Solo dopo la piu attenta.osservazione del movimento di
ciascun astro, delle sue eccezioni, della sua grandezza e periodo, per cui
Ipparco, oltre la tavola trigonometrica, si costruf degli strumenti nuovi (per
la misura del diametro apparente del sole e della luna, costruf uno stru- mento
migliore di quello che s'era fatto Archimede, in quanto munito oltre che di un
punto visivo mobile, di un punto visivo fisso con cui con esattezza si otteneva
il dia~etro angolare dell'astro), è possibile passare alla costruzione
geometrica che renda ragione delle apparenze. 56 Ipparco cosi,
studiando il sole, dimostrò per via di misurazione la ine- guaglianza delle
stagioni, mediante gli eccentrici e gli epicicli, deter- minando la posizione
del sole per ogni giorno dell'anno, giungendo quindi a formulare la celebre
teoria della "precessione degli equinozi." Ipparco, infine, sempre
sul piano del calcolo e della misurazione con- tinuò l'opera geografico-matematica
di Eratostene, sviluppando l'uso delle coordinate geografiche, cioè
introducendo paralleli e meridiani, indicando cosi le regole geometriche
mediante cui è possibile disegnare carte piane del cielo e della terra. Sembra
che per la rappresentazione del cielo abbia proposto una proiezione
stereografica e per quella della terra una proiezione ortografica (cfr.
Brunet). A parte i risulçati di Ipparco, ciò che soprattutto interessa sotto-
lineare qui è il tipo della sua ricerca, che, sul piano di un Archimede, di un
Eratostene, sul piano di quella ch'era divenuta la ricerca propria dei
"filosofi" di Alessandria"', indipendentemente da pregiudiziali
teo- logiche, da costruzioni già date "a priori," si fonda sull'osservazione
sperimentale, e, attraverso questa, senza rimanere preso dalla pura
enumerazione dei fenomeni, vien determinando una teoria, che serva a rendere
ragione dei fenomeni osservati, attraverso il calcolo e la misura- zione
matematica (che assumono il valore di strumento, si come gli strumenti veri e
propri che servono per quelle misurazioni e calcoli me- desimi, come n'è
esempio il nuovo astrolabio inventato da Ipparco). D'altra parte, ciò che, come
abbiamo detto, colpisce particolarmente chi studia come si sono costituite le scienze
dei primi "filosofi" di Alessandria, fino a un Eratostene, un
Archimede, un lpparco, se da un lato è la prevalenza data all'osservazione
diretta e allo studio delle condizioni che permettono l'una e l'altra ricerca,
che diviene scienza, appunto, a seconda dell'uso corretto delle sue stesse
limitazioni, dal- l'altro lato, ed entro lo studio di quelle condizioni
medesime, è l'allon- tanamento dalla prima impostazione dovuta agl'immediati
discepoli di Aristotele, che, in un'accentuazione dell'ultimo Aristotele, per
il peri- colo sempre implicito in Aristotele che per il suo legame con Platone
si era mantenuto sul piano delle "forme" e quindi sempre della filosofia
intesa come teologia, avevano decisamente puntato sulla mèra raccolta di dati,
sull'enumerazione, che in quanto tale, rende alla fine impossibile il sapere.
Molto bene ciò si nota quando chiaramente si vede (si cfr. particolarmente
Archimede) da un lato l'importanza data all'esperienza, all'osservazione, alla
catalogazione dei fenomeni nor- mali e anormali, ma dall'altro lato, attraverso
la stessa analisi dei feno- meni, alla invenzione di ipotesi che riescano
concretamente a spiegare in unità una molteplicità di fatti. Tutto ciò,
naturalmente, era pio facile finché si trattava, entro l'ambito di ciascuna
scienza di trovare le condizioni dell'una e dell'altra. Piu difficile lo fu per
·la fisica e particolarmente per l'astronomia. L'astronomia, e per altro verso
la fisica, dopo Platone - si pensi in special modo alla soluzione del Timeo,
delle Leggi e dell'Epinomide, e all'importanza politica ch'ebbe per Platone
quella soluzione - andò ·a cozzare contro il motivo (d'altra parte ripreso da
Aristotele) del movimento circolare e uni- forme dei cieli. Con esso, che, in
quanto movimento perfetto e razio- nale, veniva identificato con la divinità,
entrava in contrasto il rispetto dei fatti e diveniva estremamente astratta la
riduzione della fisica e dell'astronomia a teologia, ché la soluzione
geometrico-matematica dei fenomeni (la "salvazione dei fenomeni")
correva il rischio di passare da strumento esplicativo a costruzione per sé
stante entro cui, poi, dovevano essere costretti i fenomeni. I termini del
contrasto si vedono bene quando si pensi all'accanto- namento della teologia
operato in Alessandria dagli "istorici" e poi, andando oltre essi,
dai "filosofi" che usarono la matematica e la geo- metria come
strumenti esplicativi dei dati Bsservati e sperimentati, finché alla loro volta
in altri ambienti (sempre per sottintese esigenze politiche) quelle ipotesi
geometrico-matematiche tornarono ad avere la funzione che avevano assunto in
Platone e in Aristotele, definitiva- mente teologizzando la filosofia. Per
altro verso, tale contrasto si vede bene allorché si dia il debito peso alla polemica
di Epicuro e all'ipotesi della struttura dell'universo costituito di atomi e di
semi vitali, e al "casuale" incontro di quegli atomi, ove la
razionalità non è piu un dato, una forma per sé, ma una conquista. Sia pur
giungendo a solu- zioni diverse - a parte la componente del primo scetticismo.e
della seconda Accademia, - anche l'ipotesi del primo stoicismo (Zenone) e il
motivo della "simpatia" (Crisippo}, potevano servire alla costi-
tuzione di una fisica autonoma, o, per lo meno, alla giustificazione di certe
esperienze religiose, non razionali, che s'erano delineate sem- pre di piu in
ambienti popolari, lasciti di antiche credenze, di antichi miti e riti. · Ora,
una piuttosto ampia documentazione mostra un Posidonio assai vicino al metodo
d'indagine proprio di Ipparco di Nicea: analisi minuta e diretta di fenomeni,
uso.di certi ritrovati matematici e geo- metrici in funzione della spiegazione
dei dati stessi; ma anche studio minuto e diretto di fenomeni psichici (forze
irrazionali, caratteri di- versi, e cos{ via); registrazione di fenomeni fuori
dell'usuale. Di qui, da parte di Posidonio, nella sua palese esigenza di
rendere "familiare l'universo agli uomini," il recupero del motivo
stoico della "simpatia" e della ipotesi stoica, mediante cui è possibile
pensare la realtà, per cui a fondamento del tutto stanno due principi non
qualitativamente determinati, non aventi cioè "forma": da un lato
urra quantità assolutamente indefinita, dall'altro lato una forza. Dalla
tensione dei due termini si costituiscono e si qualificano le cose, onde
l'ordine e la razionalità non son presupposti, "forme," ma si
costituiscono nella stessa tensione dei due termini, in un conflitto ove la
misura e la razionalità sono un'operazione, ove operativa è la stessa scienza e
la saggezza, e dove la religiosità consiste da un lato nel sentirsi dipendere
dalle forze irrazionali (documentate dall'esperienza, testimoniate dalle
tradizioni religiose popolari, dai misteri) dall'altro lato nell'operare,
mediante il l6gos, su quelle forze, costituendo un'armonia che è la stessa
razio- nalità. Giuoco di forze l'universo, giuoco di forze l'uomo; il l6gos,
che è soffio vitale (pneuma), scaturisce dall'equilibrio di quelle forze nella
con-passione (simpatia) dell'una e dell'altra forza, e perciò nel- l'organarsi dell'una
e dell'altra cosa, dell'una e dell'altra forza vitale (anima), onde le
reciproche influenze e simpatie, ivi comprese le influenze stellari, come, ad
esempio, le maree dovute alla Luna, e i rapporti tra le anime incorporate e le
anime (pnéumata) che per gradi si trovano tra il l6gos e i corpi. Sembra, cosi,
chiaro come per Posidonio, curioso di ogni aspetto della realtà, dei fatti
della natura e dei fatti umani, la "filosofia" sia scienza in quanto
consapevolezza dell'operatività del sapere, mediante cui se da una parte è
possibile rendere "familiare l'universo," dall'altra parte, entro un
tale universo familiarizzato, è possibile rendere docile la natura, dare
all'uomo, operando sulla natura, una vita civile. Vi è a tal proposito una
testimonianza preziosa di Seneca (Lettere a Lucilio). Seneca discute e critica
la tesi posidoniana, sostenendo che pur riconoscendo a Posidonio d'aver
"portato un gran contributo alla filosofia" (Lett. a Luc.), non può
ammettere oon Posidonio che la filosofia sia tecnica, sia operatività, che
mediante la filosofia si siano costituite e abbiano progredito le tecniche, che
naturalmente modifi- cano e trasformano la natura in funzione del benessere
umano: dalle tecniche per costruire case alle tecniche per fare il pane, alle tecniche
per coltivare (agricoltura), alle tecniche per avere le case riscaldate,
comode, a quelle per costruire tavole, e cosi via. "Non posso concedere a
Posidonio che la filosofia abbia trovato le arti di uso comune, né saprei darle
la gloria dei mestieri fabbrili. La sapienza sta piu in alto, non delle mani
maestra, ma delle anime (sapientia altius sedet nec manus edocet, animorum
magistra est)" (Lett. a Luc.). Nella polemica di Seneca - e si vedranno le
ragioni per cui Seneca dà àlla filosofia un compito liberatore, il compito di
purificare l'anima, di curarla, per condurla alla contemplazione del divino, in
un'evasione da questo mondo - sembra chiarirsi l'atteggiamento proprio di
Posidonio, anche nel campo piu strettamente politico, ché, appunto, anche la
politica è saggezza, e, in quanto tale, è operativa, cioè capacità da parte del
saggio di costituire, di creare un ordine tra le passioni, in un equilibrio che
è conquista, e che, in quanto equilibrio, è, ad un tempo, giustizia. Sappiamo,
ora, che Cicerone, il quale aveva ascoltato Posidonio a Rodi e che con
Posidonio era entrato in dimestichezza, tanto da inviar- gli la Storia del
proprio consolato, perché il grande storico la usasse per la sua opera (può
essere abbastanza sintomatico che la richiesta di Cicerone sia rimasta senza
risposta), fece largo uso delle notizie, dei dati, delle singole dottrine
scientifiche di Posidonio, e soprattutto della tesi posidoniana relativa
all'unificazione delle scienze nella filosofia, ma in funzione della cultura
enciclopedica propugnata da Cicerone, utile per la formazione dell'oratore
(cfr. particolarmente, De Oratore). Anche; tale deviazione ciceroniana è
piuttosto indicativa, come lo è il fattiféhe, appunto, il successo che ebbe
Posi- donio nel futuro della cultura fu dovuto essenzialmente alla mèsse di
notizie, di dati, di istorie, che si sono ritrovate in lui, usato soprat- tutto
come una specie di enciclopedia del sapere. Sembra, infine, che Posidonio,
sottolineando i rapporti intercorrenti degli oggetti che scaturiscono dalla
tensione tra i due principi nell'or- ganarsi delle cose sotto la spinta del
l6gos, del pneuma, abbia da un lato giustificato sul piano di un'ipotesi le
possibili influenze dell'una stella sull'altra e delle stelle e degli astri
sulla terra e sulle cose della terra, ivi compreso l'uomo (astrologia);
dall'altro lato, posto che per gradi di affievolimento, non giungendo il 16gos
a tutto, vi è una zona che rimane come abbandonata a sé, pura quanticl, abbia
con ciò giu- stificato non solo le passioni e il caso, ma anche indicato la
possibilicl di operare, mediante.il 16gos umano, su quella zona, qualificando
certe cose, cioè trasformando il loro primigenio aspetto in altro. Posi- donio,
pare, giustificava cosf tutta una serie di esperienze che aveva determinato la
tradizione astrologica (di provenienza caldaica) e tutta un'altra serie di
esperienze che, pur rifacendosi all'astrologia, si era delineata per un verso
nella fiducia di costituire delle tecniche mediante cui con la natura
trasformare la natura (alchimia, magia), e per altro verso operando su certe
cose, in rapporto diretto con una o altra influenza stellare, influire sulle
stelle stesse e perciò sugli uomini e sugli dèi (magia astrologica). Anche se,
indirettamente, alcune testimonianze hanno fatto pen- sare che Posidonio abbia
raccolto del materiale intorno alla storia della magia e abbia descritto
esperienze magiche, e abbia inoltre composto una specie di storia
dell'astrologia- che, si badi, nell'antichità non era affatto 60 distinta
dall'astronomia - il silenzio di Cicerone, il quale, cÒmunque, sostiene che tra
gli stoici il solo Panezio avrebbe rifiutato gli "astro- logorum
praedicta" (De divinat.), e il silenzio, in merito, di fonti piu tarde,
non permettono un piu lungo discorso. Ha, invece, una sua importanza
l'accostamento tra Posidonio e Democrito fatto da Seneca nella citata Lettera a
Luci/io. Dopo avere negato che le tecniche e le invenzioni siano frutto della
filosofia e della saggezza come avrebbe voluto Posidonio, Seneca cita
Democrito: il medesimo Democrito trovò come si leviga l'avorio, come un
sassolino sottoposto a cottura si trasforma in uno smeraldo, come anche oggi,
cuo- cendoli, si colorano certi sassi adatti a essere cosf colorati. Ora, anche
se un saggio ha fatto queste scoperte, non le ha fatte perché era un saggio
(Seneca, Lettere a Lucilio). Cultura e politica nell'ultima fase della
Repubblica. Cicerone. Lucrezio. L'avvento di Augusto l. La Nuova Accademia: da
Clitomaco, Carmada e Metrodoro di Stratonica a Filone di Larissa e Antioco di
Ascalona. Cicerone È noto come, ancora una volta, bisogna rifarsi a Cicerone
per rico- struire, molto approssimativamente, quello che fu il pensiero di
Filone di Larissa e di Antioco di Ascalona, l'uno e l'altro per un certo periodo
della loro vita scolarchi dell'Accademia (Filone; Antioco); e come, in effetto,
sia la posizione di Filone sia quella di Antioco, e il conflitto tra di loro,
si possano comprendere solo attraverso il filtro di Cicerone e le sue
intenzioni. Secondo l'Academicorum index herculanensis, a Carneade, ritiratosi
per vecchiaia e malattia nel 137, successero nello scolarcato dell'Accademia,
prima Carneade di Polemarco, morto nel131, poi Cratete di Tarso, al quale,
morto nel 129, successe un altro discepolo di Carneade, Clitomaco, detto
Asdrubale, nato a Cartagine riel 187 circa. Carneade di Polemarco e Cratete di
Tarso non sono piu che dei nomi.1 Dello stesso Clitomaco" sappiamo
pochissimo. Venuto ad Atene 1 Per la vita di Carneade cfr. I volume. Dci primi
successori di Carneade sappiamo pochissimo, in realtà solo i nomi: Carneade d i
Polcmarco, scolarca dal 137 al 131; Cratctc di Tarso, scolarca dal 131 al 129;
Clitomaco Asdrubale di Cartagine, scolarca. Sembra che Clitomaco, per un
qualche disguido con Carneade, nel 140 - nato nel 187 circa a Cartagine, aveva
allora 47 anni - abbia aperto una scuola per conto suo. Ciò renderebbe conto
del perché Carneade ritiratosi dall'insegnamento nel 137, piuttosto che
Clitomaco abbia designato alla sua successione, prima Carneade di Polemarco,
poi Cra- tcte di Tarso. Solo dopo la morte di Carneade e di Cratcte, Clitomaco,
ritenuto il piu fedele interprete del pensiero di Carneade, poté essere
nominato scolarca dell'Accademia. Delle sue molte opere (400 secondo Diogene
Laerzio) non abbiamo che notizie. La piu celebre è una storia della dottrina
sulla sospensione dell'assenso, in 4 lihr'i. Si ricorda anche uno scritto sulle
sètte. Per il resto si veda sopra, s{ come a veda sopra ciò che riguarda le
varie correnti determinatesi in seno all'Accademia al tempo di Clitomaco. 95 su1 ventiquattro anni (cosi
secondo l'lndex herculanensis, XXIV, 2; mentre secondo Diogene Laerzio, IV, 67,
sui quaranta), aperto alle discussioni piu vive del suo tempo - egli discusse e
approfondi le tesi dei peripatetici, degli stoici, degli accademici: cfr.
Diogene L. - Clitomaco fu noto soprattutto per i suoi scritti con i quali
divulgò il pensiero di Carneade, da lui frequentato per una ventina d'anni, dandone
evidentemente una sua interpretazione (si ricordi che Carneade non aveva
scritto nulla). Non sembra un caso, anzi, che con- temporaneamente a Clitomaco,
di contro a lui, altri discepoli di Car- neade abbiano sostenuto che
diversamente andava interpretato Carneade. Delle moltissime opere di Clitomaco
(circa quattrocento, sostiene Diogene Laerzio, IV, 67), quasi tutte relative
all'esplicazione del pen- siero di Carneade (Diogene L., cita anche un suo
scritto su Le scuole filosofiche e Cicerone, Tusc. disp., un suo scritto
consolatorio inviato ai Cartaginesi in occasione della distruzione della
città), Cicerone apertamente dichiara di conoscerne e usarne, per esporre la
tesi di Carneade sulla "sospensione del giudizio," tre, di cui due
dedicate al poeta Caio Lucio e al console L. Censorino, ed una, piu Si veda
sopra anche per Callide, Carmada, Metrodoro di Stratonica e i loro relativi
disce- poli. A Clitomaco successe nel 110/109 Filone di Larissa. Nato a
Larissa, in Tessaglia, Filone fin da giovane potE _ascol- tare l'insegnamento
dell'accademico Callide che a Larissa dirigeva una diramazione dell'Accademia.
Sui ventiquattro anni, nel 136 circa, passò ad Atene, entrando nell'Acca-
demia, sotto la direzione di Clitomaco. A Clitomaco, mono nel 110 a.C. circa,
suc· cesse quale scolarca dell'Accademia. Filone resse l'Accademia fino all'88.
Nell'88, allo scoppio della guerra mitridatica, si recò a Roma, dove prosegui
il suo insegnamento, e dove, sembra, mori intorno al 79. Nulla·~ rimasto
dell'opera di Filone se non scarsi frammenti e testimonianze di un suo scritto
Sulla filosofia e la notizia di un. suo lavoro, composto a Roma, che si sarebbe
non poco spostato dallà linea Carneade-Clitomaco-Carmada seguita da Filone
finchE sog· giornò ad Atene. Antioco nacque ad Ascalona, in Palestina, tra il
140 e il 130 a. C.:Venuto ad Atene da giovane, segui per molti anni
l'insegnamento di Filone. Quando Filone si trasferl a Roma, Antioco si recò ad
Alessandria, passando prima per Roma dove conobbe Lucullo. Nell'86 era
sicuramente ad Alessandria con Lucullo. Nel 79 era ceno ad Atene, scolarca
dell'Accademia. Segui poi Lucullo nella spedizione di Siria, durante la seconda
guerra mitridatica, assistendo alla battaglia di Tigranocerta. Delle molte
opere di Antioco.non possediamo nulla se non ciò che riferisce Cicerone, in
panicolare di una, il Sosus. Il Sosus fu composto da Antioco, al tempo del suo
sog· giorno ad Alessandria, per controbattere e confutare lo scritto
dell'antico maestro Filone giuntagli da Roma e che lo aveva indignato. Si veda
nel testo i termini e il significato della polemica Filone-Antioco. Se già
Filone.aveva dato un nuovo indirizzo all'Accade- mia, per cui si disse ch'egli
era stato il fondatore di una quana Accademia; piu deciso ancora verso un
aspetto piu dogmatico fu l'indirizzo dato da Antioco per ciò detto il fondatore
della quinta Accademia ("Di Accademie, come dicono i piu, ce ne sono state
tre: la prima e piu antica fu quella di Platone, la seconda, o media, quella di
Areesilao, uditore di Polemone, la terza e nuova quella di Carneade e Clitomaco.
Alcuni ne aggiun· gono una quarta, quella di Filone e Carmada, e altri ne
contano una quinta, quella di Antioco": Sesto Empirico, Pyrr. hypoth.).
ampia intitolata, appunto, Sospmsione del giudizio, in quattro libri, nei quali
venivano esposte e discusse le tesi di Arcesilao e di Carneade. Non dirò nulla
- sottolinea Cicerone - di cui si possa sospettare che sia una mia invenzione:
riprenderò tutto da Clitomaco, vissuto con Carneade fino alla vecchiaia, uomo
di acutezza veramente cartaginese, c so- prattutto accurato e zelante. Abbiamo
di lui quattro libri sulla sospensione dell'assenso (de
sustinendis.assensionibus)... Ho esposto sopra, sull'autorità di Clitomaco,
come Carneade spiegasse il suo probabilismo. Ascoltate ora come tale problema
sia presentato da Clitomaco stesso, nel libro da lui dedicato al poeta Lucilio,
dopo averne dedicato un altro, sullo stesso argomento, a L. Ccnsorino, che fu
console con M. Manilio (Cic., Lucullus). A quanto sembra Cicerone riteneva che
Clitomaco fosse stato un espositore accurato e fedele di Carneade (del suo zelo
analitico e della sua prolissità parla anche Sesto Empirico, Adv. math., che,
d'altra parte, accomuna sempre il nome di Clitomaco a quello di Carneade,
Pyrrh. hypot.), soprattutto per ciò che riguarda quello che dovètte essere il
motivo piu discusso nella scuola, in polemica con i fondamenti della logica
stoica, e cioè il motivo dell'assenso cui si accom- pagnava la possibilità o
meno del criterio del probabile, che a sua volta coinvolgeva la possibilità o
meno della fiducia nell'azione. In due modi, aggiunge Clitomaco, si può
intendere l'affermazione: il sapiente sospende l'assenso; l) che il sapiente
non dà il proprio assenso a nulla; 2) che si trattiene dal rispondere, senza
dichiarare se approva o no, senza negare, senza affermare. Clitomaco ammette la
prima inter- pretazione, c non dà mai il suo assenso: adotta anche la seconda
c, tenendo ferma la sola probabilità, risponde si o no, a seconda che ciò che
si presenta sia piu o meno probabile..., ma solo per quelle appercezioni che
spingono all'azione, e per quelle, mediante cui possiamo, quando si venga
inte~ro gati, rispondere in uno o altro senso, non seguendo che le apparenze,
dato, tuttavia, che non diamo il nostro assenso (Cic., Lucullus). Sembrerebbe,
dunque, che la interpretazione data da Clitomaco della posizione di Carneade -
sulla scia di Carneade egli mostrava anche come tutte le tesi che sostengono la
possibilità di un sapere assoluto siano controvertibili: cfr. Sesto Empirico,
Adv. math.,- s i risol- vesse sul piano della totale sospensione, allorché si
tratta del vero in assoluto, onde il sapiente non solo non può proclamare
alcuna verità, ma, conseguentemente, neppure accettare una qualsiasi opinione:
se tutto è opinione, nulla è opinione, ché assumendo una qualsiasi opinione già
si distinguerebbe tra vero e opinabile. Solo che allora, pro- seguendo
coerentemente su questa via, sarebbe impossibile il criterio del
"probabile," sia pur sul piano dell'azione (dice Sesto che "gli
Acca- demici assentiscono a qualcosa con predilezione e, per cosi dire, con
simpatia, accompagnata da un forte volere": Pyrrh. hypot.). Se l'una
rapppresentazione vale l'altra, non si capisce come l'una, sul piano del
volere, sia da preferire all'altra, sia piu probabile dell'altra. E per ciò
verrebbe a cadere anche la retorica propugnata da Clitomaco (cfr. Sesto, Adv.
math.), che di contro alla dannosità della retorica comune, basata
sofisticamente sulla possibilità di muovere gli affetti, sosteneva che la vera
retorica consisterebbe nell'avviare a ben pensare, attraverso lo studio e la
discussione delle varie opinioni dei filosofi. Ma se l'una opinione vale
l'altra, l'un giudizio vale l'altro, nep- pure è possibile pensare bene o
pensare male, ed altro non resterebbe che il silenzio. Tali, sembra, le
obbiezioni che in seno alla scuola furono mosse a Clitomaco da altri discepoli
di Carneade, i quali tesero a dare del mae- stro un'interpretazione piu
temperata e meno esclusiva. Su questa linea, per quel poco che ne sappiamo, si
mossero particolarmente Carmada e Metrodoro di Stratonica. Certo, delle molte
discussioni che fiorirono intorno al modo di interpretare il genuino pensiero
di Carneade poco o nulla sappiamo, se non, appunto, che l'Accademia sembrò un
"uni- verso coro" (Sesto Emp., Adv. math). Cosi, di Callide che
diresse una diramazione dell'Accademia a Larissa, di Zenodoro di Tiro che ne
diresse una ad Alessandria, di Hagnone di Tarso che scrisse un'opera Contro i
retori, di Melanzio di Rodi e di Eschine di Napoli, non abbiamo che notizie
esteriori (cfr., per Callide e Zenodoro, lndex herc.; per Hagnone, Quintiliano,
lnst. Or.; per Melanzio ed Eschine, Cicerone, Lucullus; De Oratore; Diogene
Laerzio). Tutti, comunque, appaiono impegnati intorno alla questione della
"sospensione dell'assenso" e sulla sua portata pratica, da un lato di
contro a certa verità assoluta colta dagli stoici, di là dalla loro stessa
impostazione logico-empiristica, che non poteva non condurre al silenzio,
dall'altro lato di contro al peri- colo, portando ad estrema conseguenza la
"sospensione del giudizio" sul piano teoretico, di rimanere in
silenzio, cioè nell'assoluta impossi- bilità di pensare e di agire. Entro i
termini di tali discussioni si mossero Carmada e Metrodoro di Stratonica. Di
Carmada si dice che fosse bravissimo oratore, che celebre fosse la sua memoria
(cfr. Cicerone, Tusc. Disp.; De Oratore; Lucullus, VI, 16), che, fedelissimo di
Carneade (ne imitava perfino la voce: Cicerone, Orator), ne seguisse
il metodo (cfr. Cicerone, De Oratore), discutendo le varie opi- nioni,
non tanto per far prevalere l'una o l'altra, quanto per richiamare sempre
chiunque ad un controllato atteggiamento critico, in cui, d'altra parte,
consisteva per Carneade, come già per Clitomaco, la retorica da opporre alla cosiddetta
"retorica comune." Ma proprio perché fosse possibile la riduzione
dell'atteggiamento carneadiano a tecnica retorica, mediante cui, dalla
discussione di tutte le opinioni, escludendo ogni passaggio dall'opinione al
vero in assoluto, si potesse assumere, sul piano pratico, una certa opinione
che servisse piu di un'altra, sia nel discorso sia nellfl spinta all'azione,
era necessario scostarsi dalla sospen- sione assoluta propugnata da Clitomaco.
Ugualmente sembra che Me- trodoro di Stratonica - sottolinea PRA (si veda) -
" sia stato del parere che conveniva senz'altro riconoscere
l'inevitabil~tà dell'assunzione di qualche opinione e di qualche posizione; lo
scettico stesso non è pertanto che non abbia alcuna opinione ed alcuna
posizione; piuttosto egli attri- buisce alla sua opinione o posizione un valore
ben diverso da quello che gli stoici attribuivano alla loro verità. Per
mantenersi nello scetti- cismo basterebbe pertanto riconoscere la differenza
tra verità ed opi- nione e convenire che non si può dare se non opinione, ossia
una persuasione pragmatica, una certezza che è d'altra parte sufficiente per la
condotta della vita" (Lo scetticismo greco, Milano). In effetto la
discussione si manteneva qui - entro l'àmbito delle scuole di Atene - sul piano
della piu acuta tradizione greca relativa alla problematica logica, scaturita
dalla questione dell'aderenza o meno dei termini del discorso alla cosa
significata. Se si ritiene che il discorso verace sia quel discorso che
corrisponde nel rapporto soggetto-predicato a reali rapporti di inerem:a propri
delle cose, onde, pur usando nomi, i nomi sono tuttavia simboli significanti
realmente le cose e il discorso è tale in quanto riflette il discorso del reale
(in senso aristotelico); allora, posto che rimane sempre in dubbio che la
rappresentazione, l'immagine o il nome, corrisponda a ciò che è, alla cosa, e
che, quindi, lo stesso discorso. sia arbitrario, ne deriva che si debba
sospendere ogni giudizio, cioè che non si debba né affermare né negare qualcosa
di qualche altra cosa, perché ciò implicherebbe sempre l'affermazione o la
negazione di un'inerenza di cui non potremmo dir niente; su questo piano,
probabilmente essendo inadeguato ogni giudizio, si elimina la possibilità del
discorso verace e, per ciò, altro non resta che il silenzio, un pieno ritorno
all'afasia di Pirrone. Oppure, se si ritiene (riallacciandosi al tipo di logica
scaturita dalle discussioni intorno all'analitica e all'inerenza necessaria di
Aristotele, e delineatasi attraverso la tema- tica dei sillogismi ipotetici di
Teofrasto e l'implicazione di Diodoro Crono e di Filone Megarico),,che il
discorso si fondi su rappresentazioni (già esse giudizi e proposizioni, e non
soggetti e predicati), non perciò analizzabili, sulla cui veracità ed esistenzialità
assumiamo fede in quanto afferrano piu fortemente di altre, ne deriva che il
discorso si costituisce di rapporti tra rapprèsentazioni-giudizi, la cui
implica- zione è dovuta al ricordo e, dunque, all'anticipazione. Perciò verace
o no è il discorso, se corretta o meno è la implicazione, indipendente- mente
dall'adeguazione o meno, nel giudizio, alla reale ineremea (di qui i sillogismi
ipotetici, e ipoteticamente il porsi delle possibili strutture della realtà);
se si ritiene E:iÒ, si può benissimo, sul piano della verità in sé e della
esatta corrispondenza tra rappresentazione e cosa rappre- sentata, parlare di
sospensione del giudizio e di non assenso, mentre sul piano del discorso si può
parlare di probabilità relativamente a ciò che esso significa, assumendo quel
discorso che appare come il meno con- traddittorio, cioè il piu probabile, il
piu credibile (nr.kv6v, pithanòn). In altri termini, se sul piano del vero non
c'è nessun "criterio" che permette di sostenere che le cose sono
comprensibili (per cui può anche darsi che lo siano), onde non si può parlare
né di vero né di falso, sul piano, invece, delle rappresentazioni, quali si
presentano alla mente, indipendentemente dal loro corrispondere o meno alla
cosa, si può par- Jare, relativamente a ciò che appare, di verità e di falsità.
Il remo che nell'acqua appare spezzato e fuori dell'acqua diritto, può darsi
che in sé sia spezzato o diritto: perciò su questo sospendiamo il giudizio;
solo che è vero che ai sensi appare··spezzato ed è vero che ai sensi appare
diritto, ma anche che, se piu evidente è attraverso l'impres- sione stessa,
ch'è diritto, è vero, nel giudizio, che è diritto ed è falso che è spezzato, e
perciò l'assenso è di probabilità (per l'esempio del remo, o per quello del
colore cangiante delle piume del collo della colomba, cfr. Cicerone, Lucullus).
Tale, sembra, la posizione di Fi- lone di Larissa che, discepolo diretto di
Clitomaco, al quale successe nella direzione dell'Accademia, alla morte di
Clitomaco, fu piu vicino alla interpretazione che di Carneade ave- vano dato
Carmada (di cui furono scolari Diodoro e Metrodoro di Scepsi, ma dei quali non
abbiamo che i nomi: cfr. lndex herc.; Cicerone, De Oratore; Plinio, Nat. hist.)
e Metrodoro di Stratonica (di cui furono scolari Metrodoro di Pitane e
Metrodoro di Cizico, e anche dei quali non sappiamo che i nomi: cfr. lndex
herc.). Cosi: Sesto Empirico (Pyrrh. hyp.), brevemente esponendo la tesi di
Filone di Larissa, scrive: "Filone afferma che relativamente al criterio
stoico, cioè la rappresentazione catalettica, le. cose sono in- comprensibili;
ma relativamente alla natura delle cose, esse sono com- prensibili." Il
criterio stoico non garantirebbe cioè se le cose siano o no comprensibili. Ma
proprio questo, appunto perché non si· può dire quando una cosa sia o non sia
compresa, non esclude che le cose in quanto tali siano comprensibili.
"Noi," sottolinea Cicerone, che in questo passo, su sua
testimonianza, si riferisce a Filone, "non neghiamo quello che ·si
presenta chiaro come la luce, ma diciamo che quelle stesse cose che voi
stoicamente dite di percepire e di comprendere, a noi sembrano probabili"
(Le~cullus). Di qui deriverebbe la sottile distinzione posta da Filone tra
evidenza e ' percezione: evi- denti o incerte le cose in quanto presenti alla
mente in modo piu o meno forte, ciò non significa ch'esse siano di per sé
percepite e non percepite (cfr. Cicerone, Lucullus). E cosi, all'abbiezione che
Antioco di Ascalona - discepolo dapprima di Filone, ma poi deci- samente volto
a uno stoicismo del tipo di quello di Cleante - avrebbe mosso a Filone: se
assumiamo la proposizione alcune rappresentazioni sono false, e quindi
affermiamo esse non differiscono in nulla dalle vere, si cade in
contraddizione, perché, accordata la prima e riconosciuta dunque una qualche
differenza tra le rappresentazioni, la prima viene negata dalla seconda che
dichiara le rappresentazioni false simili alle vere; Filone avrebbe risposto:
"l'abbiezione sarebbe giusta se toglies- simo del tutto la verità: ma non
lo facciamo; noi discerniamo tanto il vero quanto il falso, solo ch'essi si
presentano sotto l'aspetto della probabilità, poiché non abbiamo alcun segno
che indichi la perce- zione" (Cicerone, Lucullus). Sembra, dunque, che
Filone svolgesse la propria discussione su due piani diversi. Da un lato, egli,
riallacciandosi ad una certa tradizione (da Democrito a Carneade), negava la
possibilità (sia coi sensi, sia con la ragione) di cogliere quelle che sono le
strutture proprie della realtà, che resta di là dalle possibilità umane, e
intorno a cui si sospende ogni giudizio o si parla per via di ipotesi;
dall'altro lato, perciò, entro l'arco del discorso umano, Filone poneva la
possibilità di costituire discorsi piu o meno probabili. Di qui la funzione
della esperienza e della ragionata esperienza e della ragione che, se rimane
sospesa sul piano dell'essere, è valida, con i suoi sillogismi, la sua dial~ca,
la discussione delle opinioni, dei pro e dei contra, sul piano umano: " p
e r navigare, seminare, sposarsi, avere figli, fare infinite altre cose, per le
quali la sola probabilità può essere di guida" (Cicerone, Lucul- lus). •
Si capisce in tal modo perché Filone, andando a ritroso nella storia del
pensiero greco, abbia ritenuto che la genuina tradizione filosofica si dovesse
rintracciare in quei pensatori che avevano messo in discus- sione la
possibilità di cogliere le strutture della realtà, avanzando ipo- tesi e
prospettando ragioni non contraddittorie, che permette~sero la 101 pensabilità del reale, onde
la possibilità di molteplici spiegazioni, ed entro la discussione di queste
l'opzione per quelle che possano servire di piu, che siano utili alla vita, o,
per lo meno, ad una presunta utilità, un presunto bene della vita. E per ciò
Filone poteva sostenere che egli, in effetto, rappresentava il piu intimo
platonismo e, dunque, l'Ac- cademia, interpretando il platonismo da un: lato
sul piano dei dialoghi socratici, dall'altro lato sottolineando dei dialoghi
della maturità di Platone l'aspetto dialettico e problematico, insistendo sul
mito e sul verosimile, compresi come ipotesi di spiegazione, in funzione della
vita pratica e associata, per cui poteva sostenere che in realtà non v'era
stata una prima e una seconda Accademia, ma che unico n'era stato sempre
l'intento. Filone ha sostenuto nelle sue opere - e l'abbiamo ascoltato dalla
sua stessa bocca - che non vi sono affatto due Accademie, e dimostrava in modo
irrefutabile ch'erano in errore coloro che cosi pensavano... Chiamano nuova
quest'Accademia, se nell'antica si deve collocare Platone. Comunque, Platone,
nei suoi scritti, non afferma nulla, discute spesso il pro e il contro,
interroga su ogni argomento, senza mai giungere a qualcosa di certo. Tuttavia,
si chiami pure, se si vuole, antica Accademia· quella di cui ho parlato ora, e
nuova quella che si è continuata fino a Carneade, quarto successore di
Arcesilao, e che non si discostò dai principr del suo fon- datore... Arcesilao
diresse i propd.attacchi contro Zenone, non per per- tinacia, o per ambizione
di vincere, ma a causa dell'oscurità di quelle questioni che avevano condotto
Socrate a confessare la propria ignoranza, e, prima dì Socrate, Democrito,
Anassagora, Empedocle e quasi tutti gli antichi. Sostennero che nulla si può
conoscere, nulla comprendere, nulla sapere; che limitati sono i sensi, deboli
gli intelletti, breve la vita, e la verità, come diceva Democrito, immersa nel
profondo; che tutto dipende dalle opinioni e dalle convenzioni; che nulla può
esser lasciato alla verità; e che, infine, tutto è circonfuso di tenebre.
Arcesilao, cosi, affermava che nulla si può sapere, neppure ciò che Socrate
s'era mantenuto (Cicerone, Va"o, IV, 13; XII, 46 e 44; si cfr. anche
Lucullus, dove sono an- cora citati Anassagora, Democrito, Empedocle, Socrate,
Platone, e accanto a loro Metrodorò di Chio, Stilpone, Diodoro Crono, Alexino,
i Cirenaici). Di qui, dunque, il valore dato all'opinione, alle discussioni
dèlle opinioni, mediantt cui determinare ipotesi piu probabili di altre, in una
continua apertura della ricerca, s1 che la ricerca stessa si costituisca come
regola con cui individuare ciò che serve (bene) o non serve (male) alla vita,
al convivere. Non sembra, perciò, un caso, secondo la testimonianza di Stobeo
(Ecl.), che Filone, in un suo libro sulla funzione della filosofia, paragonasse
la filosofia alla medicina e il filosofo al medico, che sostenesse che la
f).Inzione della filosofia consiste nell'av- 102 viare a purgarsi
dalle opinioni unilaterali e perciò stesso false, determinando quindi i beni e
i mali (II libro), quale possa essere il fine - cioè la felicità - cui l'uomo
deve tendere, quali le varie forme di vita - per chi, in senso particolare; e
come, entro i termini della convivenza politica, in senso generale, - quali,
per l'uomo comune - per chi non è sapiente - i precetti e le regole da seguire.
Pur- troppo il rapido sunto dato da Stobeo e la frammentarietà degli Accademici
di Cicerone - nei quali, sembra, si doveva trattare anche l'aspetto dell'etica
di Filone - non permettono di renderei conto se sul piano pratico e accettando
una verosimile ipotesi, che potesse inter- pretarsi in chiave platonica, Filone
abbia proposto l'ipotesi stoica del- l'ordine entro cui tutto si scandisce ed
entro cui ciascuno deve assu- mere il posto che gli spetta. Tale sembra l'interpretazione
di Numenio (in Eusebio, Praep. ev.) e di Agostino (Contra Ac.), i quali
sostengono che Filone dapprima nemico giurato degli stoici, sarebbe poi passato
allo stoicismo (Numenio), riducendo lo stoicismo a platonismo (Agostino). Senza
dubbio Cicerone (Varro e Lucullus), discorrendo dell'aspro conflitto che
sarebbe scoppiato tra Filone e An- tioco di Ascalona, fa intravedere questo
passaggio di Filone. Ad ogni modo, interessante sembra la notizia (Cicerone)
che Filone avrebbe particolarmente sottolineato l'utilità pratica della piu
generale tési stoica dell'ordine, quando da Atene all'epoca della prima guerra
Mitrìdatica passò a Roma (da dove non si sarebbe piu mosso, e dove mori),
entrando in diretto. contatto con gli uomini che in quel tempo conducevano la
politica romana. Secondo Cicerone, Filone, dopo essere giunto a Roma, scrisse
un'opera in due libri, che pervenuta nelle mani del suo ex scolaro Antioco di
Ascalona che, allora, si trovava ad Alessandria, ne suscitò grande
indignazione. Mentre ero proquestore ·ad Alessandria - fa dire Cicerone a
Lucullo, che fu appunto ad Alessandria come proquestore nell'87, - con me era
Antioco, egià prima di noi era giunto ad Alessandria Eraclito di Tiro, amico di
Antioco, che per parecchi anni aveva studiato sotto Clitomaco e Filone: egli fu
uomo di valore e celebre in questa filosofia, che, quasi abbandonata, torna
oggi alla ribalta. Spesso ho ascoltato Antioco discutere con lui, ma, sempre,
dall'una e dall'altra parte con dolcezza. Fu proprio allora che i due libri di
Filone, recentemente portati ad Alessandria, per- vennero per la prima volta,
tra le mani di Antioco. Quest'uomo, per na- tura dolcissimo (nulla avrebbe
potuto essere piu mite di lui), violentemente si arrabbiò. Me ne sorpresi, ché
fino ad allora non l'avevo mai visto in quelle condizioni. Appellandosi alla
memoria di Eraclito, gli domandava se quei libri gli sembrassero di Filone, o
se ma:i avesse ascoltato aualcosa di simile, sia da Filone, sia da qualche
altro accademico. Eraclito diceva di no, ma riconosceva lo stile di Filone, né
era possibile dubitarne. Erano presenti anche gli amici miei P. e C. Selio e
Tetrilio Rogo, uomini dotti, i quali assicuravano di avere ascoltato a Roma
sostenere quegli stessi prin- cipi da Filone, e che avevano copiato i due libri
dal manoscritto dell'autore. Antioco trattò allora Filone ancora peggio e alla
fine non poté tenersi dal pubblicare contro il suo maestro un libro intitolato
Sosus (Cicerone, Lucullus). Antioco, nato ad Ascalona in Palestina (cfr.
Strabone) (di circa venticinque anni piu giovane di Filone), venuto ad Atene in
gioventu, segu(per molti anni l'insegnamento di Filone, facendo parte
dell'Accademia di cui difese con zelo le tesi fondamentali, discutendo
particolarmente contro la posizione stoica di Mnesarco (successo nel 110 a
Panezio nella direzione della Stoà) e di Dardano. Circa al tempo in cui Filone
lasciò Atene per andare a Roma, Antioco lasciò Atene per recarsi ad
Alessandria. Forse era passato prima per Roma. Certo si legò di amicizia con
Lucullo. Nel 79 Antioco era ad Atene, scolarca dell'Accademia, e là lo ascoltll
Cicerone, recatosi ad Atene al tempo della dittatura di Silla. Nel 74, quando
Lucullo fu nominato console e condusse le truppe durante la seconda guerra
mitridatica, che vittoriosamente per Roma si concluse con la battaglia di
Tigranocerta, Antioco segu(Lucullo in Siria. Mod nel 68 a. C. Senza dubbio
Antioco, come risulta dal Lucullus di Cicerone - in cui da un lato per bocca di
Lucullo si espone la tesi di Antioco, IV-XIX; e dall'altro lato si difende, per
bocca di Cicerone stesso, la posizione di Filone e dell'Accademia in genere,
XX-XLVII, - era passato da un atteggiamento piu strettamente critico, da una
posizione vicina a quella di Carneade, di Clitomaco e di Filone (del Filone
almeno del periodo di Atene) ad una posizione piu dogmatica, avvici- nandosi
decisamente a tesi stoiche: anch'egli, sembra, al tempo in cui entrò in piu
stretti contatti con l'ambiente romano e particolarmente con un uomo come
Lucullo. La malignità di Cicerone, secondo cui alcuni avrebbero sostenuto che
Antioco aveva abbandonati i suoi an- tichi amori e le tesi di Filone, quando
anche lui ebbe scolari e sperll ch'essi in futuro sarebbero stati detti
"antiocheni," è una malignità assai indicativa quando si pensi che i
discepoli di Antioco erano soprat- tutto romani (cfr. Lucullus). Curiosa sembra
allora la rot- tura tra Antioco e Filone, se essa è dovuta, come pare,
all'irritazione che Antioco provò per il passaggio da parte di Filone allo stoicismo,
passaggio documentato dall'opera di Filone, scritta a Roma, giunta ad Antioco
che si trO\'llva ad Alessandria. Antioco scrisse allora 11 ~osus, in cui,
soprUtutto, secondo quanto riferisce Cicerone, cerca di demo- lire il motivo
del "probabilismo" e della"sospensione." Gli argomenti
contro la tesi del "probabile" e contro la "sospensione"
ricalcano la linea con cui Zenone, Cleante, Crisippo, Antipatro di Tarso
sostenevano la "fantasia catalettica" e l'"assenso" e con
cui Platone, nel T~~teto, affermava che l'atto del giudizio è dovuto all'anima
(Cicerone, Lucullus); ma ciò che piu colpisce è il fatto che secondo Antioco,
il "probabile," l"'evidenza," non bastano per assicurare un
certo fonda- mento a un certo tipo di vita, per convincere e persuadere a
vivere secondo l'ordine del tutto. Ma è la conoscenza delle virtU che innanzi
tutto ci assicura che molte cose possono essere percepite e comprese. In esse
sole, diciamo, è la scienza: la scienza, secondo noi, è non solo comprensione
degli oggetti, ma comprensione stabile e immutabile; lo stesso è per la
saggezza, per l'arte di vivere, che ha in se medesima la propria invariabilità.
Se tale invariabilità non implica alcuna percezione e conoscenza, io domando
donde viene e come è nata... Perché l'uomo onesto s'imporrebbe (egole, anche
severe, perché non tradirebbe il suo dovere o la sua fede, se non possiede
alcuna comprensione, percezione, conoscenza, nulla che fondi le ragioni della
sua azione? Sarebbe impossibile che si stimassero l'equità e la fede date ad un
prezzo tale da non indietreggiare dinanzi ad alcun supplizio per osservarle, se
non vi fosse assenso a realtà che possono essere false. Se la saggezza stessa
ignora se è o no saggezza, come, prima di tutto, assumerà il nome di saggezza?
E poi come oserà fare qualsiasi cosa, o agire con fiducia se non avrà nessuna
idea certa da seguire? Poiché avrà dubbi sul termine e il fine dei beni, non
sapendo a cosa riferirli, come potrà essere saggezza? È chiaro anche che
bisogna stabilire un principio che la saggezza deve seguire, quando comincia ad
agire, e che tale prin- cipio dev'essere conforme a natura. Se no, la tendenza
(traduco cosf horml), mediante cui siamo mossi ad agire ed a cercare ciò che ci
è sem- brato bene, non potrebbe esser messa in movimento. Ma la rappresentazione
che la mette in moto deve dapprima apparire ed essere creduta vera, il che
sarebbe impossibile se una rappresentazione vera non potesse esser distinta da
una rappresentazione falsa. Come l'anima potrebbe essere spmta a ricercare un
oggetto se non percepisse se l'oggetto che le appare è con- forme o estraneo
alla natura?... Se la tesi di Filone fosse vera sopprime- rebbe interamente la
ragione che è luce e fiaccola della vita. In ogni ri- cerca, è la ragione che
offre il principio e che conduce la virtU al proprio bene, poiché la virtU non
è che la ragione stessa fortificata da questa ri- cerca. Desiderio di
conoscenza è la ricerca e scoperta è il fine della ricerca. Ma non si scoprono
cose false; anche gli oggetti incerti non possono essere scoperti; si parla di
scoperta quando certi oggetti ch'erano come racchiusi vengono messi in chiaro.
Si comincia cos{ dalla ricerca e si finisce con la 105 percezione e la comprensione.
La dimostrazione (in greco apoàèizis) è defin,ita "un ragionamento che
conduce da oggetti percepiti ad oggetti che non lo erano" (Cicerone,
Lucullus). Su questa base, in effetto, si svolge tutta ·la critica di Antioco
nei confronti degli ultimi Accademici e di ·Filone, per cui sembrerebbe che,
alla fine, la ragione della rottura tra Antioco e Filone debba essere
rintracciata nei due diversi modi di assumere la tesi dell'ordine: in Filone,
come ipotesi probabile; in Antioco, come autentico fondamento, scientificamente
determinabile, attrayer~ il procedimento conoscitivo impostato dagli Stoici.
Secondo Antioco, perciò, non solo Filone; aveva tradito il suo primitivo
atteggiamento, scostandosi dalla linea di Carneade, di Clitomaco, dello stesso
Carmada e di Metrodoro di Strato- Dica (ecco perché Antioco poteva dire che nel
nuovo scritto di Filone,. giuntagli da Roma, non riconosceva piu il vecchio
maestro), ma, assu- mendo la tesi stoico-platonica in forma ipotetica e
probabilistica, distrug- geva quella stessa tesi, ché, potendo essere
altrettanto probabile un'altra, tutte divenivano indifferenti, né piu, o l'una
o l'altra, potevano spin- gere all'azione. Arcesilao aveva messo in discussione
particolarmente lo stoicismo di Cleante, cercando di mostrare la
contradditorietà implicita nell'~ssumere la rappresentazione catalettica ad un
tempo come rap- presentazione adeguata dell'oggetto che impressiona e come
assenso, cioè giudizio. Posto, appunto, che la rappresentazione è di oggetti,
la rappresentazione stessa non può essere giudizio, ché il giudizio si ha solo
nella proposizione, e se la rappresentazione la poniamo nel senso di Cleante,
evidentemente essa non è una proposizione, se mai un termine della
proposizione. Impossibile l'assenso relativamente a ogni rappresentazione, ogni
rappresentazione (non giudizio) si presenta vera tanto quanto ogni altra
rappresentazione, per cui lo stesso giudizio che si determinerà nel costituire
i nessi e le implicazioni tra le rappresen- tazioni (non a ca$0 Arcesilao fu
avvicinato a Diodoro Crono e ai megarici), non potrà mai esser volto alle
strutture e ai nessi in sé dd reale. Sul piano della verità, dunque, lo stesso
stoico, se non vuol ca· dere in contraddizione è costretto a sospendere il
giudizio, o a rima· nere in silenzio, e perciò stesso a ripiegare, nel campo
morale, sul conveniente, sull'eulogon, o a rimanere inattivo. Se Arcesilao e,
poi, Carneade (polemizzando con Crisippo) avevano svolto le loro discus- sioni
sull'epoché per mettere in contraddizione i fondamenti della tesi stoica, senza
di contro avanzare una loro propria posizione, con Metro- doro di Stratonica c
con Filone si cercò di dare un valore positivo e non piu solo critico nei
confronti dello stoicismo, al "probabile" carneadiano, assumendo,
perché sia possibile l'azione una probabile ipotesi. E qui Antioco aveva buon
giuoco: la tesi del "probabile," divenuta po- sitiva e non piu
critica, poteva esser ricondotta alla prima tesi della sospensione del giudizio
e perciò all'indifferenza di tutte le rappresen- tazioni, per cui si poteva
ritorcere l'accusa fatta agli stoici, che cioè come gli stoici dovevano
rimanere in silenzio e inattivi, cosi in silenzio e inattivi dovevano rimanere
gli Accademici. Per venir meno all'una e all'altra accusa, Antioco,
riallacciandosi all'interpretazione che della fantasia catalettica di Zenone
aveva dato Cleante, e cioè che la rap- presentazione coincide esattamente con
il rappresentato e che perciò i nessi tra le rappresentazioni ripercorrono i
nessi tra le cose, giungeva, sia pur con altra terminologia (con terminologia
stoica), a rifar sua la logica di tipo aristotelico, e, non rendendosi conto
che, in effetto, la logica degli stoici era una logica
"proposizionale" (di cui, invece, s'era reso conto benissimo
Arcesilao criticando creante), riduceva il discorso stoico sulla realtà in
discorso di tipo aristotelico che, a sua volta, gli faceva interpretare Platone
in chiave aristotelico-stoica. Quali sono le qualità che diciamo percepite dai
sensi, tali, di conseguenza, e cose di cui non si dice che sono direttamente
percepite dai sensi, ma:he in un certo qual modo lo sono: "questa cosa è
bianca, quella dolce, ~uesta emette suoni, un'altra è odorosa, altra ancora è
aspra": tutto ciò lo afierriamo con un atto di comprensione dell'anima,
non mediante i sensi. E poi: "è un cavallo, è un cane." Poi si passa,
per il resto, ad una serie ~he collega insieme i caratteri piu salienti, come
quelle proposizioni che abbracciano una percezione completa di realtà: "se
è uomo, è animale mor- tale partecipe di ragione." Di questo genere sono
le nozioni delle realtà impresse in noi e senza di cui ogni intelligenza, ogni
discussione, ogni problema sono impossibili. Se tali nozioni (in greco ennoiaz)
fossero false o impresse in noi in rappresentazioni tali che le vere non
potessero essere distinte dalle false, come potremmo usarne? Come potremmo
vedere quel che si accorda e quel che non si accorda con una cosa? E alcun
luogo sarebbe lasciato alla memoria, che tuttavia è di fondamento, a un tempo,
non solo della filosofia, ma di tutta la vita e di tutte le arti..Come potrebbe
esserci, infatti, memoria di cose false? Ci si ricorda di ciò che non si è
\'eracemente afferrato con l'anima?... (Cicerone, Lucullus). Antioco cosi,
poiché il criterio stoico dimostrava, secondo lui, la coincidenza tra strutture
della ragione e strutture della realtà, cui si giunge mediante le percezioni,
sosteneva che, in effetto, gli stoici ave- vano servito, approfondendo la
genesi del processo conoscitivo, a dar conto della tesi platonica, secondo cui
l'ordine del tutto è razìonale e coincidente con le strutture del pensiero,
onde l'indirizzo dato all'Accademia da Arcesilao prima (media Accademia), aveva
cosutulto un vero e proprio tradimento del piu genuino pensiero di Platone,
che, ora, Antioco, attraverso gli stoici e i peripatetici, voleva restaurare in
funzione anche della vita associata e della moralità, non a caso rial-
lacciandosi a Senocrate, Crantore, Polemone. Sembra allora chiaro, di qui, come
Antioco interpretasse le tesi platoniche del tutto ordinato e dell'"anima
mundi" (Timeo) e la tesi aristotelica della realtà tutta in atto, nel suo
scandirsi in atto-potenza- atto, sulla linea di Zenone-Cleante, accantonando,
d'altra parte, in questa, a sua volta, interpretazione dello stoicismo in
chiave platonico-aristo- telica, certe tesi piu propriamente stoiche, come
quella della confliJgra- zione, probabilmente anche per influenza degli stoici
Boeto di Sidone, Zenone di Tarso, Diogene di Babilonia (la stessa attività
divina che farebbe dopo la conflagrazione? E ammessa la conflagrazione, non
ammetteremmo corruttibile l'incorruttibile divinità?: cfr. Filone l'Ebreo, De
aeternitate mundi, 54), ma derivandone, attraverso le conces- sioni fatte
proprio dagli ultimi stoici al rigidismo morale primo, una propria
interpretazione dell'imperativo stoico: "vivi secondo natura." E ora,
entro il quadro che siamo venuti delineando, assume un suo particolare
significato l'esposizione che per bocca di Varrone, Cicerone (Varro) fa della
posizione di Antioco, che scaturisce dall'interpreta- zione che ·Antioco dava della
vecchia Accademia, di Aristotele e degli Stoici. Per influenza di Platone,
vasto, diverso, ricco, si costitu{ una forma di filosofia una e identica sotto
una doppia denominazione, cioè la filosofia degli accademici e quella dei
peripatetici. Essi, d'accordo sul fondo delle cose, non differiscono che per il
nome. Infatti, se Platone lasciò, per cos{ dire, l'eredità della sua filosofia
a Speusippo, figlio di sua sorella, i suoi discepoli piu brillanti per il
sapere e per la dottrina furono Senocrate di Calcedonia e Aristotele di
Stagira... Gli uni e gli altri, completi della fe- condità di Platone,
formarono un sistema ben determinato, ricco e com- piuto ad un tempo.
Accantonarono il socratico dubbio esteso a tutte le cOse e la consuetudine di
Socrate di discutere senza nulla affermare. Cosf av- venne ciò che Socrate non
approvava affatto, che cioè la filosofia si costituf in un'ane, in un ordine
delle cose (ordo rerum), in una dottrina (descrip#o disdplinae). In principio
tale filosofia fu unica, anche se sotto due nomi, ché non vi era alcuna
differenza tra i peripatetici e l'antica Accademia... Stabilivano la stessa
distinzione tra ciò che si deve ricercare e ciò che si deve sfuggire. Triplice
fu la ragione del filosofare ricevuta da Platone: la prima trattava della vita
e dei costumi; la seconda della natura e delle cose occulte; la terza del
ragionamento e del giudizio che discerne il vero dal falso, i termini giusti da
quelli che non lo sono, l'accordo e la repu- gnanza dei termini. Nella prima
parte, per apprendere a ben vivere, ci si rivolgeva alla natura, ci si
raccomandava di obbedirle: in nessun'altra cosa, se non nella natura, va
ricercato quel sommo bene, cui debbono riferirsi tutte le nostre azioni~
Stabilivano che l'estremo termine delle cose da desiderare, il fine dei beni,
consiste nell'aver ricevuto dalla natura tutto ciò che è necessario all'anima,
al corpo, alla vita. Dei beni del corpo, poi, ponevano gli uni nel complesso,
gli altri nelle parti: nel complesso la salute, la forza, la bellezza; nelle
parti l'integrità dei sensi e i vantaggi collegaù a ciascuna delle parti del
corpo, come l'agilità per i piedi, la forza per le mani, la chiarezza per la
voce, e per la lingua chiara scansione dei suoni. Dicevano beni dell'anima
tutto ciò che serve a far penetrare la virtu nell'ingegno, e riferivano gli uni
alla natura gli altri ai costumi. Della natura ritenevano proprie la prontezza
nell'apprendere e la memoria, ambedue dipendenù dall'attività della mente e
dell'ingegno. Ai costumi attribuivano i nostri interessi, e, per cos{ dire, le
nostre consuetudini, le quali in parte si for- mano con un assiduo esercizio,
in parte con la ragione... Tali sono, dunque, i beni dell'anima. Quelli della
vita (terza specie) consistono in certe ag- giunte che possono facilitare la
praùca della virtu. Infatti la virtu (del- l'anima e del corpo) si mostra anche
ill" alcuni vantaggi che non dipendono tanto dalla natura, quanto da una
vita felice. Affermavano perciò che l'uomo è membro della città e del genere
umano, è cioè unito ai suoi simili mediante il vincolo dell'umanità. Ecco ciò
che pensavano del sommo e naturale bene, cui riferivano tutti gli altri beni
che servono ad accrescerlo o a conservarlo, sf come le ricchezze, la potenza,
la gloria, la grazia. In tal modo ponevano tre specie di beni... Questa teoria
comprendeva l'ob- bligQ di condurre una vita attiva e la fonte del dovere
stesso: in altri ter- mini, raccomandava di obbedire ai precetti della
natura... Della natura poi (questo seguiva) dicevano ch'essa va ricondotta a
due principi: l'uno efficiente, l'altro, per cosi dire, che si offre all'azione
modifi- catrice del primo. Nella causa efficiente, vedevano una forza;
l'oggetto sot- tomesso alla sua azione era una specie di materia. Ad ogni modo
non concepivano l'una senza l'altra, ché le parti della materia non sarebbero
coerenù se non fossero trattenute da una qualche forza, e la forza non può
trovarsi fuori della materia, poiché tutto ciò che è deve essere in qualche
parte. Tale unione dei due principi la chiamavano corpo, o qua- lità. Di queste
qualità le une sono primarie, le altre derivate da queste. Le qualità primarie
sono uniformi e semplici; quelle che ne derivano varie e, diciamo, multiformi.
Cosi l'aria..., il fuoco, l'acqua e la terra sono qualità primarie;. da esse
sono scaturite le forme degli animali e di tutte le cose che la terra produce.
Per ciò si chiamano principi e, per tradurre il termine greco, elementi. Ve ne
sono due, l'aria e il fuoco, che hanno in sé forza motrice ed efficiente; le
altre, cioè l'acqua e la terra, ricevono e patiscono in un certo qual modo
l'azione di questa forza. Aristotele poneva un quinto elemento di cui erano
formati gli astri e le anime, avente una sua essenza e che differisce dalle
quattro di cui sopra. Ma subietta a tutte le modificazioni suppongono una certa
materia non avente alcuna specie e sprovvista di qualità, di cui tutte le cose
sono espres- sione, di cui tutte sono fatte, sostanza di tutti i fenomeni, che
può essere modificata in tutti i modi e in tutte le sue parti: donde segue che,
per essa, perire non è affatto annièntarsi, ma scomporsi nelle sue parti, che
possono essere tagliate e divise all'infinito, poiché nulla v'è in natura di s{
piceòlo che non possa essere diviso. Aggiungono che i corpi che sono mossi
percor- rono intervalli ugualmente divisibili all'infinito. Da tal moto e dalla
materia sorgono i fenomeni che abbiamo chiamati qualità], che, nella natura
giustapposta e continua, hanno formato il mondo con le sue diverse parti. Fuori
del mondo non v'è alcuna particella di materia, nessun corpo. Chia- mano parti
del mondo tutti gli esseri di cui si compone e che sono tenuti insieme dalla
natura senziente, in cui risiede la ragione, che eternamente dura, poiché nulla
vi è di pio forte che possa distruggerla. Dicono che questa forza è l'anima del
mondo, essa stessa mente e sapienza perfetta: questo chiamano Dio, questa
specie di prudenza che veglia su tutte le cose sottoposte al suo comando, che
ha particolar cura del cielo e che, sulla terra, si occupa anche delle faccende
umane. Talvolta chiamano questa forza necessità, perché nulla può essere
altrimenti da ciò che mediante essa si è costituito, nella catena, per cos{
dire fatale e immutabile dell'ordine eterno. Altre volte, invece, la chiamano
fortuna, poiché produce quell'in- sieme di effetti inattesi, che l'oscurità
delle cause e la nostra ignoranza impediscono di prevedere. Peripatetici e
accademici trattano quindi la terza parte della filosofia, la parte che ha per
oggetto la ragione e la dialettica. Benché sorga dai sensi, il giudizio di
verità non risiede nei sensi. Ritenevano che la mente fosse giudice delle cose:
la consideravano come la sola degna d'essere creduta, perché solo essa
contempla ciò che, sempre, è semplice, uniforme e tale quale è. Questa essi
chiamavano idea, sull'esempio di Platone (e tale termine noi postiamo
esattamente tradurlo con spedes) La scienza, secondo questi filosofi, non
riposa che sulle nozioni dell'anima e sui ragio- namenti. L'opinione sulle
sensazioni non illuminate dalle nozioni]. Per questo approvavano le definizioni
delle cose, e le usavano in tutte le que- stioni controverse. Approvavano anche
le spiegazioni delle parole, cioè le ragioni per cui un certo termine era stato
applicato a un certo oggetto,. il che chiamavano etimologia. Infine, prendendo
per guida gli argomenti, quasi segni infallibili delle cose, giungevano alla
prova e alla conclusione di ciò che volevano chiarire. In questo consisteva
tutta l'arte della dialettica, l'arte in virtU della quale la ragione deduce
conseguenze. Insieme alla dia- lettica, quasi frontalménte ad essa, facevano
progredire l'arte oratoria, che consiste nello sviluppare tutto il seguito di
un discorso composto in modo da persuadere..• [Chiarite le modifiche apportate
da Aristotele e da Zenone di Cizio, si conclude, affermando]: penso come il
nostro amico Antioco, che cioè nella fil~fia di Zenone va veduta una leggera
riforma della vec- chia accademia piùttosto che una nuova dottrina (Cicerone,
Van-o). Varrone, Cicerone e la funzione della cultura A parte Antioco, o chi
per lui, il testo di Cicerone sopra riportato non ha tanto importanza se
considerato a sé, quanto perché in esso è chiaramente delineata una concezione
che sembra oramai divenuta comune, e che, indipendentemente dalle singole
discussioni delle scuole. su singoli argomenti ed aspetti, assume significato
in quanto viene a costituire un sistema di sfondo, una visione abbastanza
generale e ge- nerica (divinità, ordine.dei cieli, mondo nella sua totalità,
uomo e uomo che in quell'ordine del tutto trova i principl, la regola della
vita) che serva da prima ed elementare cultura. Si capisce come qui giuo-
cassero, di là dai loro contesti, testi singoli di Platone (dal Sofista al
Timeo), dell'Epinomide, del primo Aristotele, gli aspetti pio generici della
fisica stoica, in un tutt'uno abbastanzà· coerente che costituiva questa specie
di religione cosmica entro cui dare forma all'ideale di un certo tipo di vita,
proprio della classe colta e' dirigente. È stato giustamente detto che tale
religione del Mondo trascende ormai le dottrine di scuola per ~ivenire il bene
comune di ogni per- sona che abbia partecipato della b "paideia"
greca: "oggi, diremmo, che abbia seguito il suo bravo corso scolastico"
(Festugière, La révélation d'Hermès Trismegiste). Non solo, ma non poco in-
dicativo sembra il fatto che tali sintesi (di cui già in Cicerone si riflette
l'esposizione manualistica da un lato, dall'altro lato la presentazione per
argomenti) siano state compilate dai loro autori quando, usciti dai propri
diretti impegni nelle loro singole scuole, sono entrati in contatto con la
classe colta e dirigente del mondo romano, rispondendo evidentemente a ben
precise richieste e.dando ad esse. chiarificazione e consapevolezza, in un arco
che va da Polibio a Panezio ad Antioco e Filone. Per altro verso, invece, in
seno alle scuole (particolarmente di Atene: Accademia, Stoà), si discutevano
singoli problemi, donde il nascere, poi, ad uso delle scuole stesse, di manuali
in cui - ad esempio per la scuola stoica - si elencavano questioni di morale,
modi diversi di vita a seconda delle singole situazioni, sistemazioni delle
ricerche della scuola sul linguaggio e sulle tecniche del dire (cfr. Diogene di
Babilonia, Antipatro di Tarso, Cratete di Mallo, che insegnò a Pergamo),
introduzioni generali alla. stessa dottrina (cfr. Apollodoro di Sdeucia);
oppure - per l'Accademia e ad uso delle discussioni - si elencavano le opinioni
diverse intorno alle piu varie questioni, le ptolte sentenze da sottoporre a
problemae cos1 via (si cfr., ad esempio, il sopracitato Clitomaco). Tutto ciò,
fuori dalle singole scuole, fuori da precise problematiche che rispondevano a
specifica preparaziOne, as- "sunse entro l'àmbito della cultura romana, la
funzione da un lato di lll
introduzioni generali, dall'altro di manuali utili alla preparazione
sulle singole materie. E quando si pensa alla classe che in Roma aveva in mano
le redini del governo e al modo di funzionare della politica romana (non si
scordi l'importanza che ebbero anche i processi), ci rendiamo conto del perché
la maggioranza di questi manuali, di cui è rimasta me- moria, o siano manuali
d'introduzione (dacxyoylj, eisagoghè} alla filosofia (intesa come concezione
culturale generale) o manuali di retorica, di dialettica, o esposizioni di una
certa· serie di opinioni o sentenze su singoli problemi (non a caso in
quest'epoca, 1 a.C., si formarono i cosiddetti Vetusta Placita, una epitome in
sei libri delle Opinioni dei fisici di Teofrasto, che sembra siano usciti dalla
scuola di Posidonio), o manuali di morale e di casistica morale (si vedano
sopra i titoli delle opere di Ecatone di Rodi) cui vanno aggiunti, entro i
termini di una preparazione generale, manuali divulgativi intorno alle singole
scienze (particolarmente di astronomia, di agricolt_ura, di storia naturale),
cui potevano servire i clo~ti acquisiti e le si~gole ricerche dei grandi scien-
ziati del m e del u secolo. E se è vero che tali Introduzioni e Manuali
servivano già per i giovani greci, che venendo alle scuole di Atene, di
Alessandria o di Pergamo, non aspiravano certo a loro volta alla professione
dei loro maestri, ma a formarsi, appunto, una cultura ge- nerale che servisse
poi loro ad aprirsi l'accesso ai posti che offriva l'amministrazione dei singoli
regni, ciò è tanto piu vero per i giovani romani avviati alla carriera
politica, nel disfacimento di quei regni stessi. Le discussioni svoltesi in
seno all'Accademia e alla Stoà, partico- larmente in quest'ultima, per ciò che
riguarda i modi di vita, le posi- zioni di Panezio, di Posidonio, di Filone e
di Antioco, le introduzioni e i manuali, le dossografie e le esposizioni di
singole questioni, si riflettono in Cicerone.2 Chiaramente, anzi, attraverso
gli aspetti piu 2 Di antica famiglia di possidenti, appartenente all'ordine dci
cavalieri, Marco Tullio CICERONE nacque ad Arpino, in un'antica villa dci suoi
antenati. Insieme al fratello Quinto, Marco Tullio Cicerone fu condotto dal
padre a Roma pcrch~ vi avesse la migliore istruzione. Sotto la guida dell'oratore
Lucio Licinio Crasso ebbe a insegnanti i maggiori maestri greci allora in Roma.
Avuta nel 90 la toga virile, CiccJ:one prese pane alla guerra Marsica,
comandata da Pompeo Strabone. Tor- nato a Roma prosegui i suoi studi sotto la
guida di Filone di Larissa, scolarca dell'Accademia in Atene fino all'88,
stabilitosi a Roma dopo 1'88, c sotto la guida del retore Molonc di Rodi,
mentre, in casa, aveva come precettore lo stoico Diodoto, che in casa di CICERONE
moti nel 49 a. C. Ristabilitosi con Silla dittatore un relativo ordine,
Ciocrone si dette alla carriera oratoria, trattando cause civili c subito dopo
penali. Dell'SI ~ l'ora- zione a favore di Publio Quinzio, dell'SO l'orazione a
favore di Sesto Roscio accusato di parricidio. Preoccupato per avere difeso
Sesto, contro le accuse di Crisogono potente libcrto di Silla, Cicerone si
allontanò da Roma, per un viaggio di "perfezionamento" problematici
deil'opera di Cicerone, si delineano alcune grandi conce- zioni, entro il
quadro di quelle visioni d'insieme, di cui parlavamo, e che, appunto mediante
le discussioni delle Scuole, i manuali, le in- in Grecia. In Atene ascoltò lo
scolarca dell'Accademia, Antioco di Ascalona, successo a Filone di Larissa, il
retore Demetrio Siro, gli epicurei Fedro e Zenone. Lasciata Atene, visitò le
scuole di retorica in Asia e fu, quindi, a Rodi dove s'incontrò di nuovo con
Molone di Rodi e dove conobbe Posidonio. Nel 77 era di nuovo a Roma, "non
solo piu esercitato, ma quasi mutato" (Brutus). Cicerone, che nel frattempo
aveva spo· sato Tercnzia, tornò alla carriera oratoria. Nominato questore nel
75, ebbe la provincia Lilybacum in Sicilia, che tenne con molta abilità e
moderazione. Ritornato a Roma, nel 71 intentò il celebre processo contro Verre
che nei suoi tre anni di pretura siciliana 11veva saccheggiata la provincia. È eletto
edile curule, nel 66 pretore urbano. Disse allora la sua prima orazione
politica (D~ imperio Gnaei Pomp~i). Insieme a Gaio Antonio fu eletto console,
con l'aiuto degli ottimati, difendendo poi il partito degli oligarchi contro
quello dei popolari e di Cesare, con quattro orazioni contro il disegno di
legge agraria proposto dal tribuno della plebe Rucio Servilio Rullo. Fu poi la
lotta contro Catilina e la lotta a favore di Murena. Se è vero che durante il
suo con- solato Cicerone aveva reso grandi servigi al partito degli ottimati, è
altrettanto vero, come è stato detto, ch'egli aveva abusato del potere mandando
a morte cittadini romani senza regolare giudizio. Avvenuto l'accordo di Pompeo
con Cesare e Crasso, Cicerone si trovò isolato, sotto l'accusa di Publio
Clodio, che passato ai plebei, nella sua qualità di tribuna della plebe, nel 59
promosse una legge contro coloro che avevano fatto uccidere un cittadino romano
senza regolare condanna. Cicerone allora si allontanò da Roma,. mentre Clodio
faceva decretare l'esilio di Cicerone e l'ordine di distruzione della sua casa
di Roma e delle ville di Tuscolo e di Formia. Cicerone si recò a Brindisi, a
Tessalonica e quindi a Dirrachio. Il console, su proposta di Pompeo, revocò
l'esilio di Cicerone, sostenendo ch'egli aveva agito per il bene della
Repubblica. Cicerone tornò a Roma in trionfo, pronunciò ~razioni di
ringraziamento dinanzi al Senato e al popolo e riusd a farsi ricostruire a
spese pubbliche le sue case. Legato a Pompeo, Cicerone che non era piu
appoggiato dal Senato, cercò da ora in poi, appoggi e forza presso i potenti
dell'ora, difendendo amici e fautori, accusando nemici c gente che potevano
metterlo in pericolo. Con molta intelligenza e moderazione resse il
proconsolato in Cilicia nel 51. Tornato nel 50 a Roma si trovò in piena lotta
tra Pompeo c Cesare. Titubante dapprima, si decise poi a seguire Pompeo c fu
con lui in Oriente. Malato, non combatté a Farsaglia e, dopo la fuga di Pompeo,
rifiutato il comando della flotta, si recò a Brindisi, dove attese Cesare.
Appena Cesare sbarcò, Cicerone gli andò incontro. Cesare smontato da cavallo si
accompagnò a Cicerone. Tornato a Roma si ritirò dalla vita politica. Ucciso
Cesare Cicerone pronuncia in Senato un'orazione in favore di una pacificazione
c di un'amnistia generale. Marco Antonio invece eccitò il popolo contro i
congiurati. Anche Cicerone fu costretto a fug- gire d" Roma. La sua lotta
contro MARC’ANTONIO è affidata alle celebri Filippiche. Giunto a Roma Ottavio,
che assunse, in qualità di crede di Cesare, il nome di Cesare Ottaviano,
Cicerone tornò a Roma sperando che Ottaviano salvasse la Repubblica, mantenendo
la sua linea politica di difesa del Senato e degli Ottimati. Ma Ottaviano si
accordò con Antonio e Lepido, proclamandosi triumviri uipublicae costituendae
per cinque anni, riserbandosi ciascuno il diritto di proscrivere i propri
avversari. Cicerone fu proscritto da Ant<.onio. Fuggito da Rom.., si rifugiò
nella sua villa di Astura presso Gaeta, ovc raggiunto da sicari di Antonio,
venne ucciso. Se le orazioni di Cicerone, seguite cronologicamente segnano le
tappe della sua attività politica, le altre opere di lui segnano l'arco su cui
si venne scandendo il suo pensiero, i momenti diversi della sua problcmatica e
dei suoi fini, di cui specchio sono le stesse tecniche oratorie di volta in
volta usate. In realtà impossibile è una divisione 113 traduzioni, si c9stituiscono in
funzione di certe esigenze proprie del mondo romano. E quando diciamo mondo
romano, non intendiamo qualcosa di compatto. Tutt'altro: un mondo culturalmente
in fieri, delle opere di Cicerone in retoriche, filosofiche, storiche. Diamo
qui, per utilità, l'elenco cronologico delle opere fisolofico-retoriche e delle
orazioni. IOpt!re retorico-filosofiche Traduzione dell'Economico di Senofonte
(ne restano alcuni frammenti); traduzione dei Fenomeni di Arato (ne restano
alcuni frammenti); De inventione rhetorica (in II libri; tentativo di
sistemazione delle tecniche retoriche); De Oratore libri 111 (si dà, oltre alle
tecniche, valore alla cultura in un solo nesso di filosofia e di eloquenza); De
Republica (in VI libri: doveva includere IX libri. Il dialogo si suppone
avvenuto nel 129 ed ha per principali interlo- cutori Scipione Emiliano e C.
Ldio. Resta una parte del VI libro, andata sotto il nome di Somnium Scipionis;
possediamo inoltre citazioni e riassunti di Lattanzio e di Agostino, alcuni
frammenti scoperti da A. Mai in un palinsesto vaticano. Nel l libro dopo avere
discusso della natura dello Stato e della sua origine, e dopo aver passato in
rassegna le tre forme di reggimenti politici tradizionali, monarchia,
oligarchia, democrazia, e delle loro degenerazioni, si sostiene che ottima è la
costituzione romana; nel n libro si fa vedere come si è realizzata la
costituzione di Roma; nel III libro si dimostra che non c'è Stato senza
giustizia; nel IV libro si chiariscono i fondamenti istituzionali senza di cui
non vi sarebbe vita morale; nel. V libro si delinea quale debba essere la
figura dd reggitore, del rector rerum publicarum; nel VI libro si doveva·
definire il princeps: ne è un saggio il somnium Scipionis); De Legibus (doveva
essere in 5 o 6 libri; ne restano 3. Il dialogo si finge tenuto ad Arpino, presso
il fiume Fibreno e il fiume Liri; principali interlocutori sonò lo stesso
Cicerone, il fratello Quinto e Attico. Nel I ·libro si discute e si defi· nisce
il diritto naturale e il significato da dare alla legge; nel Il libro si
dichiara che le leggi civili debbono avere a loro fondamento le leggi naturali;
si discutono poi le leggi religiose; nel III libro si discutono le leggi dei
magistrati; il IV e il V libro dovevano trattare dei giudizi e
dell'educazione); Brutus o De claris oratoribus in un libro (il dialogo, che ha
per principali interlocutori Cicerone stesso, Bruto e Attico, è una specie di
storia dell'eloquenza romana, culminante in Antonio, Crasso e Ortensio); Orator
(: vi si delinea il ritratto dell'oratore perfetto secondo Cicerone, filosofo
ed oratore ad un tempo); De optimo gent!re oratorum (è un'introdu- zione alle
traduzioni latine, andate perse, che Cicerone fece dell'Orazione di Eschine
contro Ctesifonte e dell'Orazione di Demostene per la Corona); Paradoza
Stoicorum (: elenco di tesi retoriche tratte da tesi stoiche in funzione di
discussioni sulla morale); Hortensius (perduto, ma noto fino all'xi secolo: ne
restano frammenti e testi· monianze. Doveva essere una specie di grande
introduzione alla filosofia inspirantesi al Protrettico di Aristotele. Servi
nelle scuole eome introduzione alla filosofia); De partitione oratoria (opera a
carattere tecnico e istituzionale); Consolatio (perduta: ne abbiamo qualche
frammento citato da Cicerone stesso e da Lattanzio. Fu sc:Ìitta per consolarsi
della morte della figlia Tullia); Academici libri (Cicerone ne stese due
redazioni: gli Academica priora in 2 libri e gli Academica posteriora in 4
libri; degli Academica priora il l libro, o Catulus, è per- duto, il n libro, o
Lucullus, si è salvato; degli Acllliemica posteriora si è salvato il l libro, o
Varro; abbiamo alcuni frammenti e testimonianze degli altri libri. Furono
scritti nel 45. Vi si espone criticamente la storia del pensiero degli
Accademici e in pa'licolare il pensiero di Filone di Larissa e di Antioco di
Ascalona); De finibus bonorum et malorum libri V (dd 45; in tre dialoghi - il
primo dialogo abbraccia il l e il n libro; il secondo dialogo il III e IV
libro; il terzo dialogo il V libro. Nel l libro C. L. M. Torquato espone la
tesi epicurea secondo cui il bene sta nel piacere; nel n libro Cicerone confuta
la tesi epicurea; nel III libro Catone espone la tesi stoica secondo cui il
bene consiste nella virtU e tutti gli altri cosiddetti beni sono indifferenti;
nel IV libro 114 ove la grande espansione e le conquiste presentano
problemi nuovi, economici e sociali, per cui lo stesso modo antico di governo
entra in crisi, in cui la classe senatoriale e, ormai, quella degli uomini
nuovi Cicerone confuta la tesi stoica sostenendo che nulla di nuovo se non
nelle espressioni. hanno detto gli Stoici, rispetto ai platonici e agli
aristotelici; nel V libro si espone la dottrina degli· Accademici, o meglio
quella di Antioco); Tusculanae Disputationes libri V (; sono una prosecuzione
del De finibus; si rivolgono ad un pubblico piu esteso che non il De finibus,
e, questo, forse, spiega il maggior peso dato all'ideale dd saggio stoico: nel
I libro si dimostra che il saggio non teme la morte, nel II che non teme i
dolori del corpo, nel III e nel IV che è alieno da ogni passione, nel V che uno
è il bene, la virtu, in senso strettamente stoico); traduzioni del Protagora e
del Timeo di Platone (45 circa); De natura deorum libri Ili (nel I libro
Velleio epicureo espone la tesi di Epicuro sulla divinità, confutando le tesi
di Platone e degli Stoici ed esponendo le varie teorie sugli dèi da Talete a
Diogene di Babilonia; Vdleio viene quindi confutato da Cotta; nel II libro
Balbo espone la tesi stoica sul divino; nel III libro, di cui sono andate
perdute alcune parti, Cotta confuta la tesi stoica sia relativamente alla
natura degli dèi, sia al loro governo sul mondo, sia al loro interessamento per
gli uomini. Cicerone, infine, sostiene ch'egli attraverso la sua posizione
accademica, ritiene opportuno optare per la tesi di Balbo); De senectute o Cato
maior (probabilmente finito prima del De natura deor., del De divinazione e del
De fato; il dialogo si finge tenuto tra Catone il Censore, ottantaquattrenne,
Scipione Emiliano e C. Lelio, ed ha per oggetto la difesa della vecchiaia; la
prima ispirazione è probabilmente dovuta al I libro della Rep. di Platone); De
divinazione libri Il (si riallaccia al De nat. deorum, per confutare la tesi
stoica della divinazione. Il dialogo si svolge tra Cicerone e il fratello
Quinto. Nel I libro si espone la storia e la critica della divinazione,
implicante una ferrea ne- cessità. Quinto si dichiara favorevole alla tesi
stoica; nel II libro Cicerone confuta la tesi stoica); De fato (scritto dopo la
morte di Cesare, 44, nel De fato si discute a fondo la questione del rapporto
necessità-libertà, rifiutando sia la tesi epicurea che quella stoica); Laelius
de amicitia (il dialogo si finge avvenuto in casa di Lelio all'indomani della
morte dell'amico di Lelio, Scipione Emiliano); Topica (scritti durante un
viaggio per mare da Velia a Reggio; è un'opera di logica formale e di tecnica
retorica); De officiis libri Ili (composti sulla fine del 44; vi si tratta dei
doveri medi, in una rielaborazione dell'opera di Panezio intitolata IItpl
"tOÙ Xct&-l)xov-ro~. Nel I libro si delinea in che consiste
l'honestum, nel II in che consista l'utile, nel III si chiariscono i conflitti
tra honestum e utile); perduti sono andati, oltre I'Hortensius, il De gloria e
il De virtutibus, ambedue del 44. II. - Orazioni Pro Quinctio; Pro Seztio Roscio;
Pro Q. Roscio; Pro M. Tullio (non completa); Verrine (70; dalla Divinatio in C.
Verrem al Proemium actionis in Verrem alle 5 accusat. in C. Verrem); Pro M.
Fonteio, Pro.Aula Caecina; Pro lege Manilia o De imperio Gn. Pompei; Pro.A.
Cluentio; De lege agraria contra P. Servilium, De lege agraria ad. pop. Romanum
contra Rullum; Pro C. Rabirio; In Catilinam; Pro L. Murena, Pro L. Fiacco, Pro
P. Sulla, Pro.A. Licinio.A.rchia poeta (63-62);.Ad Quirites post reditum suum;
Post reditum in Senatu; Pro domo sua a d Pontifices (57); De haruspicum
responsis in Senatu; Pro Cn. Plancia, Pro P. Seztio, In P. Vatinium, Pro M.
Coelio, Pro Lucio Corn. Balbo, Oratio de provinciis consularibus; In L.
Calpurnillm Pisonem; Pro T. Anneo Milone, Pro C. Rabirio postumo, Pro M.
Marcello, Pro Q. Ligario ad Caesarem, Pro rege Deiotaro, Filippiche (14
orazioni in M. Antonium). ·si ricordano, infine,. gli epistolari ciceroniani,
raccolti, probabilmente, fin dal 46, dal dotto liberto di Cicerone, Tirone
(Epistolarum libri XVI ad familiares, Ep. libri XVI ad Atticum, Ep. libri Ili
ad Cicer. fratrem, Ep. ad Brutum) ed alcune opere storiche e poetiche andate
perdute, ma, sembra, di nessun valore.] tentano di mantenere il proprio
potere o di rinnovarsi - non senza grossi contrasti interni - senza perdere le
proprie prerogative, cercando anche, per la propria opera o la propria azione,
giustifica- zioni ideali. La prima concezione, d'ordine· generale (trascendendo
le singole scuole e le loro piu profonde differenze), quale appare attraverso l'opera
di Cicerone, è quella delineata come di Antioco: visione di un tutto ordinato,
gerarchicamente scandentesi, ove il divino è la stessa ragion d'essere che fa s(che
ogni cosa si articoli all'altra, in una sola unità vivente e razionale che su
tutto si diffonde (anima mundt) e per cui ciascuna cosa ha la sua ragione
(l6gos). Entro questi termini, in cui si fondevano aspetti platonici
(doH'ultimo Platone) e stoici (particolar- mente la dottrina del principio
attivo e del principio passivo, del l6gos e dei l6goi, della provvidenza, della
legge, e la possibile interpre- tazione di tali dottrine, il cui esito era una
concezione legale del cosmo), e il cui arco va da Panezio ad Antioco di
Ascalona, si vede bene il costituirsi di una concezione, la quale ideologicamente
serv(a giustifi- care un certo modo di intendere la politica e il mos, quali
vennero attuati sull'esempio di Scipione, dalla corrente senatoriale, che
prese, appunto, le mosse da Scipione Emiliano. Non solo, ma tale concezione,
sotto l'aspetto dell'armonia del tutto e della legalità del tutto, giustifi-
cava da parte ~enatoriale l'istituzione di un certo "diritto" a
diritto universale e la teorizzazione di un costume e di una libertà che veni-
vano perciò assunti a costume, a bene, a libertà per tutti. Non poi molto
lontana da questa, è un'altra dottrina che traspare da Cicerone, e che sembra
sia stata messa a fuoco da Filone di Larissa. Identico lo sfondo e la
strutturazione stoico-platonica, essa tuttavia sembra rispondere a una diversa
esigenza, che rivela, di contro alla oramai sclerotizzatasi visione di certi
conservatori piu rigidi, la possi- bilità di una maggiore duttilità di una
discussione e convinzione che si realizzi retoricamente. Essa rivela cioè
l'esistenza di gente che, pur legata alla carriera politica e alla corrente
senatoriale conservatrice, si rende conto dei mutamenti avvenuti, che piu vivi
sono i contrasti entro la stessa classe dirigente, nel venire alla ribalta di
uomini nuovi e in una carriera politica alla quaie non si accede piu solo per
nascita, ma anche da parte di chi ha rivelato le proprie capacità nei tribunali
e nei processi. Pur optando per la visione di un tutto ordinato, tale
strutturazione tuttavia viene assunta non come verità assoluta. Tale
accettazione dogmatica, utile finché unica era la voce, diveniva estre- mamente
debole, quando, in una discussione piu aperta si poteva di- mostrare che,
portata alle estreme conseguenze, giungeva alla negazione proprio dell'azione
(s(come avveniva in certe posizioni dello stoicismo) e, alla fine,
all'impossibilità del discorso e, perciò, ad esau- rire la propria forza di
convinzione. Di qui, invece, l'assunzione di quella tesi, e oramai comune
concezione, come ipotesi, come verità probabile: era cosr possibile la
discussione, la contrapposizione di opinioni diverse, il muovere a quella
piuttosto che ad altra posizione e azione, mediante le tecniche della
convinzione, fino a porre quella struttura- zione del tutto e la relativa
acquisita saggezza e modo di vita piu che come essere, come dover essere, come
impegno di realizzazione. E allora accanto al recupero di certo platonismo,
stoicismo, aristotelismo, si chiarisce il recupero di altri aspetti del
platonismo, di quel plato- nismo che poteva essere interpretato, invece che come
essere, proprio come dover essere, insieme al paradossale ideale del saggio
stoico, anch'esso posto come dovere, onde la possibilità di una morale medi~.
di una misura e di una convenienza tutte umane, che, in chi n'è ca- pace,
possono servire come termini medi per raggiungere l'impossibile virtu perfetta,
posta non come principio, ma come termine di realiz- zazione. Tale la via presa
da Cicerone e tale il suo rifarsi a Filone di Larissa e all'Accademia,
piuttosto che al rigido dogmatismo in cui era venuto sfociando Antioco di
Ascalona. Se avessi abbracciato la filosofia dell'Accademia per ostentazione o
per puro gusto di critica, penso che andrebbe condannata non solo la mia stol-
tezza, ma anche il mio costume e il mio carattere. Ché se nelle piccole cose si
biasima la pertinacia e si reprime lo spirito cavilloso, vorrei, allorché si
tratta del fondamento e del fine della mia intera vita, entrare in conflitto
con gli altri, o frustrare gli altri tanto quanto me stesso? Perciò, se non
pensassi essere inconveniente in una tale discussione, fare quello che tal-
volta si· fa quando si discutono le questioni dello Stato, giurerei per Giove e
per gli dèi penati che brucio per scoprire la verità e che penso come parlo. E
come non potrei desiderare di scoprire il vero, dal momento che provo
gradimento se, su di un qualche punto, scopro il verosimile? Ma proprio perché
giudico essere cosa bellissima contemplare la verità, ritengo vergognosissimo
affermare il falso come se fosse una verità. Personalmente, certo, sono incapace
di non affermare mai il falso, di non dare mai il mio assenso, di non avere mai
un'opinione, ma qui si tratta del saggio. Quanto a me, faccio molte congetture
(io non sono un saggio), e non mi volgo a quella piccola Cinosura [Orsa minore]
"guida notturna cui si affidano i Fenici in alto mare," come dice
Arato [Cic., Arat.; cfr. Nat. deorum], i quali, tanto piu esattamente si
dirigono, quanto piU, per la sua vicinanza al polo, "ha una breve
rivoluzione," ma dirigo i miei pensieri verso I'Orsa maggiore e le
chiarissime stelle di settentrione, cioè verso ragionamenti in forma larga e
non minuziosamente limati. E per ciò mi capita di andare errando e di navigare
nel vago. Ma, come ho detto, non si tratta di me, ma del sapiente. Quando,
infatti, ciò che mi rappresento ha fortemente
scosso la mente e i sensi, lo accetto e talvolta anche gli do il mio
assenso; tuttavia non lo percepisco; ché nulla ritengo si possa percepire. lo
non sono un sapiente; per questo cedo alle rappresentazioni e non posso resistere
loro. Arcesilao è d'accordo con Zenone, quando pensa che la piu alta forza del
sapiente è di stare attento a non essere afferrato e a non essere ingan- nato.
Nulla è infatti. piu lungi dell'idea che abbiamo della gravità· del sapiente
che l'errore, la leggerezza, l'avventatezza (Cicerone, Lucullus). Quando
scrisse gli Accademici Cicerone aveva ses- santun anni. In essi, per quel che
n'è rimasto (Acad. post., Varro; Acad. prior., Lucullus), alla posizione piu
rigida e pio dogma- tica di Antioco di Ascalona, quale, d'altra parte, si
rifletteva.nella posizione di Varrone reatino e di Lucullo, si contrappone
nell'inter- pretazione del probabilismo di Filone di Larissa (cfr. sopra: si
veda anche: "ci sono molte cose probabili, le quali, per quanto non colte
in sé, tuttavia, dandoci una rappresentazione chiara e distinta, servono a
regolare la vita del saggio": De nat. deorum; anche Tusc. disp.), una piu
duttile concezione, passibile d'essere assunta in funzione retorica, avente per
fine un certo tipo di politica. Cicerone era oramai giunto al pieno della sua
maturità. Se considerati non a sé o come semplice fonte, ma nel complesso degli
scritti di Cicerone, gli Accademici hanno un particolare interesse, in quanto
chiariscono il doppio aspetto di tutto il pensiero ciceroniano: da un lato
l'esigenza di una concezione filosofica, di una riflessione critica che renda
conto, diciamo cosr, di una "saggezza teorica"; dall'altro lato,
anche mediante quella saggezza, la capacità d'inserirsi nel mondo umano, per
mezzo del- l'arte del dire, sr che quello stesso mondo umano si muova,
scendendo, se si vuole, a compromessi, usando tutte le tecniche della piu
scaltrita retorica. Può darsi che in Cicerone non vi sia una
"filosofia," com'è stato detto, che in lui coabitino piu concezioni,
non poche volte in contraddizione tra di loro, ch'esse siano state desunte,
volta a volta, superficialmente, dai manuali e dalle sillogi, ma è anche certo
che in Cicerone si riflette la problematica di un'epoca, o meglio di una certa
classe di uomini, fluida e in lotta, in una certa epoca, nel suo tenta- tivo di
determinare un modo di vita, che andando oltre l'assunzione della cultura come
mezzo, facesse della cultura il fine, in una sintesi di scienza e retorica, in
un pensiero che è davvero tale se è azione. Non è cosr un caso l'abile ripresa
del motivo aristotelico ("e cosr - esclama Cicerone, - l'uomo, secondo
Aristotele, è nato per due fini, comprendere e agire, come un dio mortale -- De
finibus) di una ragione teoretica, di una ragione pratica e di una ragione
poietica, ove, relativamente alla retorica, essa, avendo per campo il mondo del
possibile e non del necessario, fa tutt'uno con la dialettica. Certo, per
intendere la-funzione mediatrice di Cicerone, il tipo ideale di vita da lui
affrescato, il significato da lui dato alla cultura e perciò al rapporto
filosofia-retorica, cioè la prospettiva di una poli- tica illuminata, capace di
inserirsi volta per volta nel contrasto degli avvenimenti, vanno tenuti
presenti i momenti estremamente gravi della storia e della politica di Roma
durante l'arco della vita di Cicerone. È
storia troppo nota per farne cenno qui. Non vanno comunque scordate le alleanze
e le rotture tra uomini in lotta, i conflitti tra i "populares" e gli
aristocratici, e in seno agli aristocra- tici le lotte in nome del popolo o del
senato che gli stessi aristocratici e i cavalieri ebbero tra loro, pur di
assurgere al potere. Entro questi termini si vede bene il tentativo di Cicerone
di ostacolare l'affermazione singolare dell'uno o dell'altro personaggio - non
a caso Cice- rone fu in contrasto con Pompeo e con Cesare, - in nome di un
ordine e di una legalità che conservasse quella res-publica quale si era deli-
neata attraverso Scipione Emiliano, ch'era poi il tentativo di mante- nere un
ordine in cui si determinasse la libertà d'azione piu che degli aristocratici o
dei popolari, degli optimates. "Tutti sanno," ha scritto giustamente
La Penna, "di qual largo favore godette nell'ultimo se- colo della
repubblica romana lo slogan della libertas: uno slogan usato da parti opposte,
con contenuto diverso e indefinito, uno slogan pluri- valente quasi quanto la
libertà e la democrazia di oggi. Tutti por- tiamo dalla scuola, che spesso
campa di sostrati remoti di cultura, l'immagine di Catone e di Bruto morenti
per la libertà, benché a quasi tutti gli storici sia ormai chiaro che quella
libertà era, in fondo, la facoltà per alcune cricche nobiliari di manipolare
elezioni e magi- strature, grazie alla ineducazione politica e alla fame della plebaglia
urbana, le cui esigenze vere o si manifestavano in esplosioni cieche e
inefficaci o influivano in misura scarsa sulla legislazione. Ma è meno noto...
che lo slogan della libertas non mor1, anzi continuò a prospe- rare sotto
l'impero. Augusto attribuiva a suo merito di vindicare in libertatem rem
publicam e gli imperatori successivi si proclameranno spesso vindici della
libertà; nelle contese per l'impero non vi sarà contendente che non si proclami
campione della libertà del popolo romano contro il tiranno. Tutto ciò è di
scarsissimo interesse; piu interessante è che nel corso dell'impero lo slogan
della libertas, in iscrizioni di monete e anche in qualche testo letterario,
vada sempre piu accostandosi e quasi fondendosi con quello della securitas; e se-
curitas è la tranqu~llità nel godimento dei propri beni, senza paura di nemici
esterni, senza paura di rivolte di schiavi o di agitazioni della plebaglia
rerum novarum cupida, senza preoccupazioni per la cosa pubblica, che è in alto,
in buone mani. Questo processo ideologico era naturale e già chiaro nell'età
augustea..." (Libertas e Securitas, "Belfagor"). In effetto
tutto questo era già presente in Cicerone. E ciò si chiarisce tenendo presente
la situazione storica, l'autorità degli optimates messa in forse sia da certi
aristocratici e cavalieri che agivano avendo per scopo un potere personale, sia
dalle rivolte popolari, in una struttura sociale in cui il popolo non c'era; ma
anche si chiarisce cosi la funzione data da Cicerone alla cultura, la tensione
a porre, sia pur come dover essere, un ordine e una misura ideali, per muovere
i quali divenivano di grande importanza tutte le tecniche retoriche, onde la
retorica venne pian piano a perdere per Cicerone il significato di mèra
precettistica (come ancora era nel giovanile De inventione), per assumere la
funzione di costituire e di "inventare" un certo ideale e di
convincere ad esso. Se non vanno dimenticati i massacri di Mario, le molte
guerre civili, le proscrizioni di Silla, la politica di Pompeo, di Crasso e di
Cesare, i molti processi, neppure vanno dimenticati, anche in funzione di
questi stessi conflitti, della lotta fra aristocratici e popolari, i due schemi
retorici che n'erano scaturiti: l'uno fondato sulla pura virtus romana, legato
alla sola tradizione del "forte" popolo romano, indi- pendentemente
da ogni cultura, o meglio sganciato dall'ideale di un ordine costituito, la cui
visione è propria del saggio; l'altro fondato invece sulla concezione del
saggio di tipo stoico, in cui alla fine la virtu si distacca nettamente dalla
politica. Di qui, ora, rifacendosi a quello che col tempo era divenuto un
ideale, cioè la figura di Scipione Emiliano, virtuoso perché saggio, ma saggio
perché uomo d'illuminata cultura, mediante cui ordinare lo Stato verso il bene,
sorge l'esigenza di delineare l~ figura dell'oratore quale uomo politico, che
può indicare quello che deve essere l'ordine e il fine da realizzare, in quanto
abbia una vasta cultura generale e tecnica, e perciò stesso, perché ro- mano,
non solo volta a quella greca, ma anche allo studio della tra- dizione di Roma,
dei suoi costumi, della sua lingua, del suo diritto. Tale, sembra, l'esigenza
messa in chiaro da Cicerone. Da un lato, quindi, l'importanza di una cultura
enciclopedica, ed ecco di nuovo, oltre all'interesse per ascoltare e conoscere
i vari maestri delle varie scuole, recandosi anche nei centri di maggior
cultura, Rodi, Alessan- dria, Atene, il significato dato ai manuali, alle
introduzioni, alla discussione delle questioni, mediante cui formare la propria
personalità, cioè la propria humanitas o cultura; dall'altro lato il valore che
assumono le ricerche dedicate alla tradizione romana, alla sua lingua, alla sua
cultura. Assume qui un preciso significato storico - di cui già ci si rendeva
conto nel tempo- l'opera cosiddetta erudita di VARRONE reatino. A tale
proposito, anzi, sembra avere un particolare interesse la delineazione che
Cicerone fa della figura di Varrone e soprattutto della sua importanza per aver
fatto conoscere ai romani la loro storia, le loro antichità, contrapponendo
tuttavia a lui la propria funzione di rendere latino un aspetto della paidèia
greca, costituendo i cardini di una nuova cultura.... Che Varrone ci dica
quello che fa, poiché le sue Muse tacciono piu a lungo del solito. Non credo
che abbia smesso di lavorare, ma penso che nasconda le cose che scrive.
"Niente a~o," rispose Varrone, "secondo mc, anzi, è follia
scrivere ciò che poi si 'Vuole nascondere. Ho, invece, tra le mani una grossa
opera, di cui da tempo mi propongo di dedicare una 3 Nato a Rieti, nella
Sabina, da una illustre famiglia plebea, Marco Terenzio VARRONE è soprattutto
uomo di lettere e di vastissima cultura, anche se per un certo periodo si occupa
di politica. Questore, legato, propretore di Pompeo nella guerra contro
Sertorio, tribuno della plebe, pretore, legato di Pompeo nella guerra contro i
pirati, Varrone vede in Pompeo il salvatore delle antiche tradizioni
repubblicane. Addolorato per l'alleanza di Pompeo con Cesare e Crasso, segui di
nuovo Pompeo contro Cesare nella Spagna ulteriore. Dopo Fàrsalo si ritirò
definitivamente dalla vita politica attiva per darsi tutto agli studi, ma
sempre in funzione di Roma. Sia pur avendo combattuto contro Cesare, sia pur
avendo scritto l'elogio di Porcia, la moglie di·Catone Uticense avversario di
Cesare, Cesare, al quale Varrone aveva dedicato nel 47 le Antìquitates rerum
divi,..,m, gli diede l'incarico di organizzare un complesso di pubbliche
biblioteche latine e greche (cfr. Svetonio, Caes.). Morto Cesare nel 44,
Varrone rientrò tra i proscritti di An· tonio. La sua casa e la sua ricchissima
biblioteca furono saccheggiate e fu in quell'oc· casione che molte delle opere
di Varrone andarono perdute. Varrone si dette alla macchia e fu nascosto da
amici fidati, tra cui Fufio Caleno. Amnistiato poté tornare ai suoi studi. Morl
nel 27 a. C., l'anno stesso in cui Ottaviano prese il nome di Augusto. Varrone
stesso, secondo Gellio, III, IO, I7, nel I libro delle Ebdomadi, scrivèva che a
84 anni aveva composto 490 libri: il Ritschl, OfJUJt:., III, 525, riprendendo
l'in· terrotto catalogo dei titoli delle opere di Varrone olfertoci da S.
Gerolamo e aggiun· gendo scritti citati da autori antichi· che non si trovavano
nel catalogo di S. Gerolamo, arriva a citare 70 opere per un complesso di 620
libri. Di tale sconfinata opera di Varrone resta pochissimo: Libri tres rerum
rustìt:iiTUm (scritti a 80 anni); sei libri dei venticinque De linpa latina; un
migliaio di frammenti delle altre opere. Diamo qui un elenco dei titoli delle opere
piu celebri di Varrone: Antiquitates rerum humanarum et divinarum (41 libri);
Annalium libri tres; De vita populi Romani; De gente populi Romani; De Pompeio
(III libri); Legationum libri 1I1; De iure civili (15 libri); DiscipliniiTflm
libri IX (1. De grammatica; 2. De
dialectica; 3. De rheto- rica; 4. De geometria; 5. De arithmetìca; 6. De astrologia; 7. De musica; 8. De me· dicina; 9. De
architectura); Libri tres rerum rustit:iiTflm; De lingua latina (25 libri); De
poematis (III libri); De poetis; De Jt:aenicis originibus (3 libri); De
actionibus scae- nicis (3 libri); Quaestìonum Plautinarum libri V; De
lectionibus (3 libri); Suationes (3 libri); Orationes (22 libri); De
proprietate scriptorum (3 libri); De bibliothecis (3 libri); De similitudine
verborum (3 libri); Liber de philosophia; De forma philo· sophiae libri' IIT;
De principiis numerorum libri IX; Logistorici (76 libri); Saturae menippeae (4
libri); Pseudo-tragoetiiar11m (6 libri: tragedie da leggere, non da rap· presentare);
Poemata (I O libri). 121
parte al nostro amico (parlava di me Cicerone); è un lavoro di una certa
importanza, che sto limando e rifinendo. Varrone, dissi io, benché da tempo aspetù questo tuo
lavoro, non oso reclamarlo, ché il nostro Libone, di cui ti è noto l'affetto,
mi ha detto (certe cose non si possono nascondere), che, !ungi
dall'interrompere quest'opera, tu la rimaneggi con grande cura né mai l'abbandoni.
C'è però una domanda che fino ad ora non mi era venuto in mente di farti; ma
ora, che mi son dato all'impresa di trasmet- tere gli argomenti dei nostri
comuni studi, e di illustrare in lingua laùna quell'antica filosofia che è
cominciata con Socrate, dimmi, ù prego, perché tu, che scrivi tante cose,
accantoni questo genere, dal momento poi che in esso eccelli, e che tale studio
e tali quesùoni sono assolutamente superiori ad ogni altro studio e ad ogni
altra arte?" Varrone rispose: "Tu mi parli di un progetto cui ho
spesso pensato, che spesso ho agitato... Vedendo la filo- sofia trattata con una
cura. particolare negli seritti dei Greci, ho ritenuto che quelli dei nostri
concittadini che si sentono attratti da tali studi, se sono erudiù nelle
dottrine greche, leggerebbero le opere dei Greci piuttosto che le mie; mentre
quelli che non hanno gusto per le arù e le discipline greche, non si
curerebbero affatto di un lavoro che non si può comprendere senza conoscere
l'erudizione greca. Per questo non ho voluto scrivere opere che gl'ignoranù non
potrebbero comprendere, e che i dotti sdegnerebbero di leggere. Noi poi, che
rispettiamo come altrettante leggi i precetù della retorica e della dialettica
(due scienze che la nostra scuola mette nel numero delle virtu), siamo
costretti ad impiegare, nonostante la loro novità, alcuni termini che i dotù
preferiscono cercare tra i greci, e che gl'ignoranti non vorrebbero neppure
ricevere da noi. Sarebbe, dunque, un lavoro inutile. Non solo, ma tu, Cicerone,
conosci la nostra fisica: essa abbraccia la forza efficiente e la materia che
questa forza plasma e modifica: abbiamo dun- que bisogno anche della geometria.
Infine, mediante quali termini ·si potrà esprimere e far capire i principi che
concernono la vita, i costumi, ciò che si deve fuggire e ciò che si deve
cercare?... (In questo campo], noi ci riallac- ciamo alla vecchia Accademia...:
quanta sottigliezza ci vorrà per esplicarne le dottrinel Quale spirito e
oscurità nelle nostre discussioni contro gli stoici! Tengo, dunque, per me solo
i miei studi filosofici, e ne faccio, per quanto mi è possibile, la regola della
mia condotta e il diletto dell'animo, d'accordo con Platone che la filosofia è
il piu grande e il piu bel dono che l'uomo abbia ricevuto dagli dèi. Ma quelli
dei miei amici che s'interes- sano di questi studi, li mando in Grecia,
consiglio loro di andare ad attin- gere alla fonte piuttosto che ai rivi che ne
derivano. Quanto alle cose che nessuno aveva ancora insegnato, e che gli
studiosi non potevano trovare in nessuna parte, ho cercato, per quel che ho
potuto (non ammiro granché le mie cos<:), di farle conoscere ai miei
concittadini. Sono ricerche che non si potevano chiedere ai Greci, né, dopo la
morte del nostro L. Elio, ai Latini. Ad ogni modo, le opere della mia
giovinezza, in cui imitatore, non traduttore, di Menippo, ho diffuso qualche
gaiezza, contengono certo cose riprese dal fondo stesso della filosofia e non
poco dalla dialettica; non solo, ma perché i meno dotù, invitati a leggere dall'interesse
dell'argomento, comprendessero piu facilmente tali questioni filosofiche, mi
sono proposto di trattarle nei miei Elogi e nei proemt delle mie Antichità, se,
comunque V l sono ClUSCltO. "SI," risposi, "ci sei riuscito,
Varrone; stranieri nella nostra città, errànti come viaggiatori, le tue opere
ci hanno, per cosi dire, ricondotti a casa, e, grazie a te, possiamo finalmente
conoscere chi siamo e dove viviamo. Sei tu che ci hai rivelato l'età della
nostra patria, la successione dei tempi, i diritti della religione e del
sacerdozio; tu che hai esposto l'amministrazione interna, la disciplina
militare, la disposizione dei quartieri e dei luoghi, tu che ci hai svelato i
nomi di tutte le cose divine e umane, le specie, le fun. zioni e le cause. Tu
hai diffuso luce sui nostri poeti, sulla nostra letteratura, sulla nostra
grammatica. Tu hai composto un poema vario, elegante, quasi perfetto; tu,
certo, hai in piu parti toccato questioni filosofiche, abbastanza per dare
l'impulso, non sufficientemente per istruire..." (Cicerone, Va"o).
Varrone, per quel che ne sappiamo, fu soprattutto un uomo di studio. Forte di una
certa concezione filosofica generale, senza dubbio sulla scia del suo maestro
Antioco di Ascalona (cfr. Cicerone, Va"o, III, 12), applicò alle proprie
ricerche sul mondo antico, greco e romano, il metodo istorico proprio della
scuola peripatetica, cercando d'illumi- nare le sue ricerche intorno ai
costumi, alle leggi, alla religiosità, alla poesia e alla letteratura, mediante
la visione della vita e della virtu propria degli stoici, dei cinici, e, pare,
in particolare di Posidonio. Ad ogni modo sembra che le molte letture, la sua
curiosità di co- noscere le cose umane, attraverso i monumenti e i documenti,
lo ab- biano portato, nei suoi scritti, oltre alla descrizione e alla
schedatura di tutto ciò che aveva ritrovato Varrone servf agli antichi sf come
un'enciclopedia - a determinare come è che l'uomo, in certe condi- zioni
politiche, geografiche, sociali, culturali, costituisce certi tipi di costume,
di religione, di condotta politica. Sotto questo aspetto si chia- risce come
Varrone distingua, senza porre l'uno superiore o inferiore all'altro, tre tipi
di teologia, corrispondenti a tre modi diversi di spie- garsi da parte
dell'uomo la propria esigenza religiosa. Il discorso su dio in forma di favola
(teologia favolosa o poetica) risponde all'esi~ genza del divino propria degli
uomini ignoranti o incolti; il discorso sul divino interpretato come ragion
d'essere del tutto o causa, natura naturans (teologia naturale), è il discorso
proprio degli uomini di cul- tura (filosofi), che identificano il divino con la
stessa ragion d'essere o con le possibili condizioni che rendono pensabile la
realtà, quali che poi ognuno ritenga siano le strutture del tutto (Varrone
accettava la tesi accademico-stoica del divino come anima mund1); il discorso
sulla divinità, rispondente all'esigenza dell'uomo in soCietà (teologia civile)
di trovare un criterio all'obbligatorietà della legge, può essere in con-
trasto, per ragioni politiche, con la t~ologia naturale (ove molte sono le
soluzioni e le interpretazioni), per cui, proprio in funzione della vita
associata, secondo Varrone, i discorsi della. filosofia intorno al divino e
alla natura debbono rimanere privati o chiusi in seno alle scuole, a meno
ch'essi non coincidano con le strutture legali di una certa comunità, servendo
anzi a rendere conto di tale legalità. Il che, per altra via, sembra spiegare
il successo di certo stoicismo e di certa Acca- demia nell'àmbito della classe
romana, dirigente la vita politica (cfr. per la testimonianza sulle tre
teologie, Agostino, De Civitate Dei). Gli studi storico-eruditi di Yarrone su
come è che l'uomo è uomo, lo portavano, d'altra parte, a sostenere che già gli
studi e le dimostra- zioni dei piu grandi pensatori dimostrano che
l'aspirazione naturale dell'uomo consiste nel realizzare pienamente se stesso
(felicità), e che perciò l'uomo è felice, allorché attua se medesimo sia come
anima sia come corpo, ché l'uomo è un tutt'uno d'anima e di corpo. Vita beata,
perciò, si avrà quando "virtu" (capacità di realizzare sé eccellente-
mente) e "naturalità" (ciò che è bene compiere, che è primo per
natura, prima naturae) coincidono, vita piu beata (beatior) allorché si abbiano
anche quei beni di cui potremmo fare a meno, b~atissima quando non manca nulla.
Di qui anche si capisce perché Varrone, dei due generi di vita (contemplativa e
attiva), ormai luoghi comuni della tradizione, non ritenga compiuto né l'uno né
l'altro, se presi a sé, ma ritenga perfetto il genere di vita misto, la vita
cioè che sia ad un tempo contemplativa e attiva, in cui l'azione scaturisca
dalla rifles- sione e la riflessione sia consapevolezza critica della propria
posizione nel mondo e nel mondo degli uomini. Varrone, da un lato, con la sua
sistemazione del sapere, e, dall'altro lato, attraverso l'ordinamento delle sue
ricerche per discipline, ebbe un'enorme influenza su tutta la cultura
posteriore e sull'organizzazione degli studi. Purtroppo della sua immensa
produzione - sembra abbia scritto oltre 490 libri - si sono salvati Libri tres
rerum rusticarum, VI libri dei 25 De lingua latina, pochi fram- menti e non
poche tracce del suo insegnamento e dei resultati delle sue ricerche in quasi
tutti gli autori posteriori. Cos{ sembra che tra le opere piu lette e sfruttate
siano state le Antiquitates rerum huma- narum et divinarum (in 41 libri) e gli
Anna/es (in 3 libri) - certo anche il De poematis, il De poetis, il De
scaenicis originibus, il De actionibus scaenicis, i Quaestionum Plautinarum
libri V, il De jure civili, i Logistorici - mentre notevole influenza, rispetto
all'organizzazione degli studi e degli insegnamenti, mediante cui costituire il
curriculum che formi l'uomo, che lo liberi con una cultura fondata appunto
sulle discipline liberali, hanno avuto i· Dùciplinarum libri IX, cosi
suddivisi: de grammatica, de dialectica, de rhetorica, de geometria, de
arithmetica, de astrologia, de musica, de medicina, de architectura. Varrone
era convinto, si come il suo amico Cicerone, della impor· tanza della cultura
per la formazione dei "cittadini." Solo che Cice- rone fu piu preso
nel giuoco politico che non Varrone. Varrone ebbe, certo, uffici importanti (fu
triumviro capitale, questore nell'86, propretore di Pompeo nel 76, tribuno
della plebe, pretore nel 68, partecipò alla guerra civile dalla parte di
Pompeo), ma, piu portato agli studi e alle ricerche, pacificatosi con Cesare,
al quale nel 47 dedicò. le Antiquitates, abbandonò ogni velleità politica,
proponendosi soprat- tutto l'organizzazione degli studi (Cesare lo incaricò di
mettere in- sieme una pubblica biblioteca). Riusd a sfuggire alla proscrizione
di Antonio. Purtroppo le sue biblioteche andarono completa- mente distrutte.
Altro il temperamento di Cicerone. Senza dubbio piu ambizioso, egli, fin da
giovane, fu attratto dalla carriera politica. Fu, anzi, in funzione di questa
che Cicerone venne elaborando una concezione, che, riprendendo motivi
circolanti nella cultura contemporanea, servisse a mantenere un ordine e una
misura che fossero salvaguardia, nei gravi conflitti, nella lotta per il potere
di singoli individui (popolari o aristocratici) - quando si tenga poi presente
che in effetto non esi- steva un "popolo" - della libertas della
res-publica. Studioso fin da ragazzo di retorica, in funzione di una possibile
carriera politica, e degli aspetti diversi della cultura propria del suo tempo
(egli ascoltò in Roma lo stoico Diodoto, l'epicureo Zenone, fu particolarmente
attratto da Filone di Larissa e dal retore Apollonia Molone), preso dagli
esempi di grandi oratori come Sulpicio, di giu- risti come Scevola, di uomini
politici corne Cotta, della funzione, dive- nuta oramai ideale, di Scipione
Emiliano, Cicerone tese per suo conto a trasformare la figura del retòre,
divenuto oramai solo maestro di retorica, precettista, nell'antica figura del
retore uomo politico, del- l'orator, nel senso di un Demostene, che, tuttavia,
deve inserirsi in una situazione politica e sociale assai diversa, per la quale
perciò si dove- vano far funzionare altri ideali, costituire una diversa
concezione, alla quale potevano servire certi recuperi di Platone e degli
Stoici, assunti entro i termini di una discussione dialettico-retorica delle
diverse ipo- tesi elaborate nelle scuole, mediante la tecnica dei pro e dei
contra, optando per quella tesi che piu sostenibile di altre (piu probabile)
servisse a convincere della validità e della superiorità di un certo or- dine
politico e giuridico. Per questo Cicerqne, non accettando la tesi 125 varroniana che le questioni
piu strettamente filosofiche si debbano discutere in privato o nelle scuole,
affermava· anzi ch'è necessario co- noscere e vagliare tutte le ipotesi, farle
conoscere, latinizzarle, sf che poi, caso per caso, a seconda del conflitto
politico in cui ci si trovi, mediante le arti del dire si possa convincere
(duttilmente assumendo di volta in volta sia il tipo di eloquenza detta
atticistica sia il tipo di eloquenza detta asianica) a quel certo ideale
politico, in funzione se- natoriale, che salvi il "cittadino," la
"res-publica," fondata sulla mi- sura della ragione, per cui ciascuno
abbia il posto che gli compete. Di qui la paura continua di Cicerone (e il
compromesso) nei__confronti di chi potesse assumere, o a nome del Senato o in
nome del popolo, potere personale. - Cicerone fu pompeiana finché Pompeo si
dimostrò difensore del Senato, ancora pompeiana durante la guerra civile, ché
in Cesare egli vedeva il possibile tiranno e non il princeps tipo Scipione
Emiliano; riti- ratosi dalla vita politica durante il periodo in cui Cesare
ebbe in mano il potere, Cicerone riprese la sua attività politica alla morte di
Cesare, in appoggio di Ottaviano, che gli sembrò il piu moderato, il difensore
dei diritti del Senato, moderatore della "res-publica," contro
Antonio. Incluso nelle liste di proscrizione allorché Antonio, Ottaviano e
Lepido si trovarono d'accordo (secondo triumvirato), Cicerone fu ucciso dai
sicari di Antonio nella.sua villa di Formia il 7 dicembre 43. Cicerone se da un
lato appare come un conservatore, un senatoriale, dall'altro lato, certo,
mediante la sua visione platonico-stoicheggiante di un tutto ordi- nato, ove
tutto ha il suo giusto posto, in una ragionevale misura, ove lo stesso universo
si costituisce legalmente ed ove lo stesso uomo politico per eccellenza (cfr.
Somnium Scipionis) è colui che rappresentando il l6gos del tutto diviene una
specie di anima mundi del mondo politico, Cicerone attraverso le sue opere,- da
quelle retoriche a quelle dette filosofiche e giuridiche, ha preparato il
fondamento giuridico e filoso- fico di quella che sarà la concezione imperiale-repubblicana
di Ottaviano Augusto. Entro questi termini si vede bene la linea - anche
cronologica - del pensiero ciceroniano, dal De inventione al De officiis, che
passando attraverso il De Oratore, il De republica, il De Legibus, le
Partitiones oratoriae e il Brutus, si compie nel senso di un affinamento delle
tecniche di persuasione e dello studio di quelle tecniche stesse, mediante l'Orator,
i Paradoxa stoicorum, i Topica cui convincere, ponendo in discussione le varie
ipotesi, per avviare - tale è per Cicerone la funzione protrettica della
filosofia, e sembra che questo fosse il contenuto del perduto Hor- tensius (46)
- a certi presupposti valori, dialetticamente enunciati e retoricamente
discussi che siano a fondamento della condotta civile quale veniva affrescata
nella Repubblica e nelle Leggi (Academica, De finibus, Tusculanae
disputationes, De natura deorum, Cato maior de senectute, De divinatione, De
fato, De gloria, Laelius de amicitia, De otficiis: opere da Cicerone composte
tutte al tempo della sua forzata inazione politica. Inutile ripetere, ora,
quanto ab- biamo detto cercando di ricostruire quelle che fuorono le componenti
culturali del II-I secolo a. C., e che per necessità di documentazione abbiamo
rintracciato attraverso Cicerone stesso (per la concezione ci- ceroniana della
legge, della r.es-publica, del decoro, dei doveri medi, del- l'honestum,
dell'humanitas, del consensus gentium, cfr. sopra). Certo, con Cicerone,
attraverso la dialettica (in senso soprattutto accademico-filoniano e
tecnicamente stoico: "la dialettica è l'arte che insegna a distribuire una
cosa intera nelle sue parti, a,spiegare una cosa nascosta con una definizione,
a chiarire una cosa oscura con una interpretazione, a scorgere prima, poi a
distinguere ciò che è ambiguo e da ultimo a ottenere una regola con la quale si
giudichi il vero e il falso e se le conseguenze derivino dalle assunte
premesse": Brutus), si determina il t6pos della filosofia intesa come
discorso reto- rico-protrettico in funzione di una certa forma di vita civile e
legale, in una opzione dell'ideale platonico-stoicheggiante di un tutto ragio-
nevolmente (piu che razionalmente) costituito. Filosofia, condottiera
dell'esistenza! indagatrice della virtu! vittoriosa avversaria deì vizi! Senza
di te che ne sarebbe non dico della mia vita, ma di quella del genere umano? Tu
hai fatto nascere le città; hai chiamato a raccolta gli uomini che vegetavano
dispersi; li hai uniti nella convivenza sociale, ottenendo il reciproco
rispetto tra vicini ed insegnando alle fami- glie a federarsi con patti
nuziali; tu. hai rivelato agli uomini le possibilità comunicative del
linguaggio e della scrittura. Hai inventato le leggi, hai suscitato le
comunanze, hai dettato i doveri... Meglio vivere un giorno a norma di
filosofia, che tutta un'immortalità da dissennato. E chi saprebbe aiutarci
meglio di te? A te sola dobbiamo la tranquillità del vivere; tu ci hai salvato
dal terrore della morte... (Tusculanae). E che si tratti di opzione, di un
ordine posto piu che come essere coine dover essere, di un fine cui convincere
e convincersi mediante la dialettica e il discorso mitico, sembra si chiarisca
bene quando si tenga presente la polemica di Cicerone nei confronti della
divinazione, del fato e della simpatia universale, nei termini in cui
derivavano da una massiccia e naturalistico-razionale interpretazione dello
stoicismo teologico. Sotto questo aspetto Cicerone sembra che rovesci la
visione del tutto ordinato e necessariamente articolato in una simpatia
universale, per cui tutto ciò che avviene, avviene come è bene che sia
(Provvidenza), necessariamente (fato), onde si rende possibile la divi-
nazione, ch'era visione propria di certe posizioni stoiche. La questione di
come allora si possa sostenere la possibilità del libero atto umano, era
questione su cui già gli stessi stoici avevano a lungo discusso (in particolare
Crisippo), e su cui gli avversari avevano dato risposte opposte: e si era
assolutamente negato - almeno su di un piano logico - la conciliabilità tra destino
e libertà (si ricordi l’argomento principe di Diodoro Crono, che, contro
Aristotele, giungeva a negare, accettato che tutta la realtà è in atto, il
contingente e il possibile); oppure, negata la possibilità della conoscenza
della strutturazione del tutto (Carneade) o negato che il tutto sia razionalmente
costituito, sca- turendo anzi da un incontro casuale di atomi (Epicuro), si
giungeva ad accantonare la questione dell'ordine in sé, per sostenere che l'or-
dine e la misura sono dovuti alla stessa attività e alle iniziative umane,
mediante cui si sfuggiva al cosiddetto "argomento pigro" (ignava
ratio), ch'era la conclusione cui secondo i megarici (probabilmente i seguaci
di Diodoro Crono) doveva giungere chi sosteneva che il tutto è provvidenzialmente
e fatalmente ordinato. Se per te è destino di gua- rire da questa malattia,
guarirai; sia se ricorrerai a un medico sia se non ricorrerai. Egualmente se
per te è destino non guarire da questa malattia, non guarirai, sia se
ricorrerai a un medico sia se non ricorrerai. Ora il tuo destino è l'una o
l'altra di queste cose, dunque non serve a niente ricorrere al medico"
(Cicerone, De fato). Non a caso Cicerone, particolarmente nel D e fato (cfr.
anche D e divinatione), ripropone la lunga discussione sul destino e sulla
libertà, pro- spettando sia le concezioni antologiche (da Crisippo a Epicuro),
sia quelle logiche che negando il possibile e la libertà sul piano.logico
(Diodoro), non escludono su altro piano (allorché si dimostri con Car- neade
che strutture della ragione e strutture della realtà possono non coincidere)
che sia possibile da parte umana volere quell'ordine che, col criterio della
probabilità, si pone come termine di realizzazione, solo miticamente e
idealmente posto dietro le spalle, lasciando all'uomo la possibilità di
costituire quell'ordine idealmente presupposto, a cui con- vincere mediante le
tecniche della persuasione. Tale sembrò allora a Cicerone - nel periodo di pace
fredda con Cesare e di inazione politica diretta - la sua funzione politica
("la filosofia rimase trascurata fino ad ora, né mai brillò nella
letteratura latina; dobbiamo noi darle vita e splendore, e, se nella mia attività
politica io fui utile ai miei concittadini, lo sia, per quanto è possibile,
anche ora che mi sono ritirato a vita privata": Tusc. disp.). Nella
Repubblica e nelle Leggi egli aveva delineato quale doveva essere lo stato
nella sua fondazione e nella sua costituzione giuridica, tenendo presente
l'ideale figura di Scipione, non imperator, non rex, ma princeps, moderatore e
reggitore dell'ordine ragionevole della res- publica, si come la divinità lo è
del cosmo. Ora, a quell'ordine e a quella misura si doveva convincere per altra
via. Non assunta dogma- ticamente alcuna posizione o concezione già data - ad
ogni posizione come tale si può opporre altra posizione, - si determina il
metodo del- l'opzione per una qual certa ipotesi, a seconda della sua
probabilità e del suo possibile successo in funzione di una certa concezione
che serva alla vita politica e associata (Accademici). Tale atteggiamento
scettico, rispetto alla struttura della realtà, portava Cicerone in una, volta
a volta, rigorosa discussione ed esposizione delle tesi opposte, ad assu- mere
quella certa tesi che servisse a quel certo scopo, attraverso una retorica
convinzione (De fìnibus, Tusculanae disp., De natura deorum), si che l'ordine e
la misura prospettati (ch'erano poi l'ordine e la misura genericamente stoici e
platonici) divenissero termini di volontà, azione per combattere chi volesse
rompere quell'ordine politicamente e giuri- dicamente costituitosi, in un
equilibrio sociale, che, d'altra parte, esclu- deva l'accettazione supina di un
ordine necessario che, alla fine, poteva portare all'indifferenza per tutto ciò
che avvenisse, appunto alla pigra ragione (De divinatione, De fato, De
otficiis). In effetto l'opera di Cicerone presenta costantemente due aspetti:
un Cicerone piu intimo, che, in fondo, non crede in nulla, angosciato - in
un'epoca in cui morire era facile, in cui le vecchie tavole dei valori erano
travolte - dall'idea della morte, che attraverso il successo e l'azione e
l'opera personale spera nella gloria, unica eternità ("breve è la vita che
da natura abbiamo ricevuto; ma se nobilmente la ren- diamo, essa lascia
sempiterna memoria. Se tale memoria non durasse piu della stessa vita, chi
sarebbe tanto folle da cercare, al prezzo delle piu grandi fatiche e dei piu
grandi pericoli, di raggiungere la lode e la gloria- supreme?... E cosi, in
cambio della. vostra condizione mortale avete ottenuto l'immortalità":
Filippiche: e sono le ultime parole di Cicerone), che delinea per sé e per gli
altri del suo gruppo, della sua classe, una specie di modus vivendi, un'etica
che si risolve in un giusto mezzo di tipo aristotelico, e per cui, appunto, la
virtu sta, di volta in volta, in un saper dominare se stessi e le cose con
misura, con distacco, in una convenienza che si rivela fin nel tratto, nella voce,
nel modo di vestire e di parlare, in un vivere civile, che si delinea alla fine
in un tipo di morale da "signori," e, perciò, per cosi dire, in un
"galateo"; e un Cicerone pubblico, uomo politico, orator, che, in
fun- zione della classe degli optimates, tende a difendere un tipo di res-
publica, e per cui, su di un piano retorico vale la pena di ricorrere anche ai
piu consunti t6poi dell'ordine e della misura del tutto, del- l'armonia dei
cieli, delle leggi stellari, dell'influenza degli astri (non si scordi che
Cicerone aveva. tradbtto parte del Timeo e i Fenomeni di Arato),.della funzione
civile degli àuguri, onde per il popolo servono la teologia poetica e la
teologia civile delineate da Varrone. Non a caso cosi Cicerone che, per altro
verso (e perché fosse possibile l'azione da parte di chi aveva le capacità di
governo, di con~ro al pericolo del tiranno o di chi assumesse potere
personale), negava la divinazione il fato, ponendo l'ordine e la misura come
termini di realizzazione, poteva sostenere invece nelle Leggi: Credo che
effettivamente esista la divinazione, che i Greci chiamano mantica). Lo Stato e
il popolo hanno sempre bisogno del con- siglio e dell'autorità degli
ottimati... La istituzione e l'autorità degli àuguri è di vitale importanza per
lo Stato, e dico ciò non perché io sia uno di loro, ma perché è di vitale
importanza mantenere questa· opinione... C'è un privilegio maggiore della
possibilità di interrompere una impresa d'interesse pubblico solo che l'àugure
dica: "Un altro giorno?" C'è cosa piu meravigliosa che potere imporre
le dimissioni di un console? Cosa vi è di piu religioso che poter dare o
rifiutare il diritto di presentarsi al popolo o alla plebe, che potere abolire
una legge ingiusta? (Con Cicerone, come con Platone,".commenta il
Farrington, "biso- gna sempre porsi la domanda: queste sono le parole del
legislatore o del filosofo?" (Scienza e· politica nel mondo antico,
tMilano); e prosegue: "questa era l'attività delle due piu rilevanti
figure di letterati (Varrone e Cicerone) nella Roma degli anni immediatamente
precedenti e seguenti alla morte di Lucrezio. Inoltre la loro elaborata teoria
sul problema di salvare la società conservando e inculcando la superstizione
non è un fenomeno isolato, ma è in armonia con la pratica del governo romano
testimoniata da Polibio e con la teoria politica formulata dai maestri stoici
della classe dirigente romana, dopo che Polibio e Panezio ebbero aperto allo
stoicismo il nuovo mondo d'Occidente.” Entro i termini della problematica
ciceroniana, sembra chiaro l'at- teggiamento costantemente polemico di Cicerone
nei confronti dell'epi- cureismo. Cicerone non combatte tanto l'ipotesi
epicurea quale possi- bile ipotesi con cui spiegare la pensabilità del reale,
quanto gli esiti a cui quell'ipotesi conduce sul piano politico-sociale,
particolarmente per quel che riguarda la tesi dell'ordine razionale e unico del
tutto, e la tesi della religiosità della legge naturale, messe iri forse dalla
filosofia di Epicuro, donde derivava anche la polemica di lui contro la cultura
ufficiale, contro la superstizione usata come strumento politico, ma
soprattutto la conclusione che l'uomo, ciascuno, è responsabile del pro- prio
mondo, della costruzione del rapporto umano, indipendentemente da elaborate
discussioni sul divino, sui processi conoscitivi, sulla dialet- tica e sulla
retorica, che sembravano finire in esercitazioni puramente scolastiche. Va,
dunque, ora, tenuta presente la forza rivoluzionaria dei mo- tivi
dell'epicureismo e cioè il deciso sganciamento dell'uomo da un ordine
precostituit.o e razionale per sé; il mondo umano costituito storicamente dagli
stessi uomini entro l'arco della vita umana (e non si scordi il motivo della
convenzionalità del diritto e della giustizia); la liberazione degli uomini da
preconcetti e pregiudizi religiosi e teologico-politici (da cui la polemica di
Epicuro contro un tipo di cultura e di politica); l'appello di Epicuro ad
intendere la natura per quello che la natura è, ascoltando la "voce delle
cose"; la raziona- lità dovuta alla stessa attività della ragione nella
costruzione del pro- prio mondo in un equilibrio e in una misura che sono
conquista e non dati; il risolversi della realtà, umanamente, nel linguaggio
(per cui, poi, in effetto, semanti.camente la logica epicurea poteva
coincidere, escluso che il segno evochi la cosa coincidendo con la cosa stessa,
con la logica stoica del tipo di quella di Zenone di Cizio). Non solo, ma di
qui anche, per i non addottrinati (Epicuro si rivolgeva a tutti, uomini e
donne, non barbari e barbari), l'appello di Epicuro alla semplicità del-
l'insegnamento, a dare quelle poche nozioni non contraddittorie e intui- tive
sulla costituzione della realtà che rendano capace l'uomo di pen- sare con la
propria testa, liberandosi da pregiudizi e paura, dal mistero della natura, di
cui solo pochi eletti possono parlare (altro aspetto della polemica di Epicuro
contro la cultura), e l'appello di Epicuro all'ami- cizia, all'isolarsi da un
certo mondo politico, in un rapporto di uomini, che, comprendendosi, trovino
nel con-vivere (amicizia) il significato di un mondo costruito dagli uomini
stessi,. in equilibrio e serena armonia (cfr. per quanto sopra, vol. 1).4 4
Degli Epicurei di Atene e scolarchi del giardino dopo Epicuro sappiamo, in
realtà, solo i nomi, e che seguirono e diffusero il pensiero del maestro. Ne
abbiamo l'elenco dal primo scolarca dopo Epicuro al 51 a. C., anno in cui,
sembra, l'Areopago di Atene concesse al romano Memmio di edificare sull'area
occupata dalla Scuola di Epicuro. Essi sono: Ermarco, Polistrato, Basilide,
Demetrio di Laconia, Apollodoro Tiranno del Giardino, Zenone di Sidone
(ascoltato da Cicerone), Gli esiti,
dunque, dell'ipotesi epicurea e ~ella propaganda epicurea preoccupano Cicerone.
Egli è preoccupato perché, spezzato il pregiu- dizio (politicamente utile) di
un ordine già dato, di una divinità che è legge e dell'immortalità dell'anima,
mediante un insegnamento fon- dato su poche e semplici nozioni - possibili di
essere comprese da tutti, - si poteva liberare il popolo dalla catena del
divino e dalla paura dell'aldilà, donde ne sarebbe derivata, disancorata da una
razio- nalità costituita, un'irrazionalità pericolosissima per quella
res-publica difesa da Cicerone: non a caso Cicerone insiste contro
gl'indifferenti dèi di Epicuro, messi "a riposo" (cfr. De nat.
deorum,), non pio elementi perturbatori dell'operare umano, e contro l'ipotesi
dell'incontro fortuito degli atomi e del clinamen (cfr. De nat. deorum; De
finibus), da cui secondo Cicerone deriverebbe la stessa irrazionalità del mondo
umano: "Come non dovrei meravi- gliarmi," esclama Cicerone, "che
vi sia un uomo capace di credere che elementi solidi e indivisibili, movendosi
di propria forza e aggregan- dosi a caso fra di loro, diano origine a questo
nostro mondo, pieno di tanta armoniosa bellezza? Chi crede possibile questo,
non capisco perché non creda possibile ançhe che, seminando alla rinfusa una
certa quantità di lettere dell'alfabeto, impresse in oro o in qualsiasi altro
Fedro (ascoltato da Cicerone), Patrone (scolarca). Cfr. oltre nel testo. Cosl,
poco o nulla sappiamo della prima diffusion~:~ dell'epicureismo in Roma, sicura
da prima del 173 a. C., se di quell'anno è l'espulsione da parte del Senato di
due epicurei venuti dalla Grecia Alceo e Filisco (cfr. Ateneo; Eliano, V.v.
hist.) e dei primi epicurei romani, che avrebbero diffuso la dottrina di
Epicuro in latino. Essi sono: Amafinio, Rabirio e Cazio, di cui non altro
sappiamo se non ciò che riferisce Cicerone. Cfr. oltre nel testo. Durante il 1
secolo a.C. furono in Roma e nel circolo epicureo, formatosi a Napoli e a
Ercolano, Filodemo di Gàdara e Silone. Nato a Gàdara, in Silia, nel 110 a.C.
cilca, morto dopo il 40, non oltre il 30 (Strabone), discepolo di Zenone di
Sidone, venuto a Roma, Filodemo entrò in dimestichezza di Pisone e con lui,
nella villa di Pisone ad Ercolano, fondò un vero e proprio eilcolo epicureo.
Tra i molti libri epicurei ritrovati in papili nella casa di Pisone ad
Ercolano, molti sono frammenti e testi dello stesso Filodemo. Sono pubblicati:
L'ordinamento dei filosofi (andato sotto il nome di Intlez Herculanensis,
comprendente un Indice degli Accademici, uno degli Stoici, uno dei Socrtllia);
Su Epicwo (llcpl 'Emxoòpou) i Sulla morte (llcpl &«v<iwu) i Sugli tln
(llcpl &c6iv) i Sulla religio- sitìj (llcpl ~lccç) i Sulla musica (llcpl
IJ.O~) i Sugli Stoici (llcpl -r6iv:E-rtn- x6iv); Sui segni (llcpl
cnJILII(c,)" X4l cnJILII~");.Atluersus Sophisttu. Molto poco sappiamo
di Silone, se non che avrebbe fondato, in Napoli, un vero e proprio cilcolo epicureo,
assai vivo durante la metl del 1 secolo a. C. Di lui parlano Cicerone che lo
dice uir optimus et tloctissimus e Vilgilio che lo avrebbe avuto maestro a
Napoli. Su di lui si cfr. Papiro Ercolanmse 312 pubblicato dal Cronert in
Colotes unti Menetlemos, Lipsia, 1906. Il Papiro ercolanense l 044 dA poi
alcune notizie biografiche di ·Filonide epicureo, vissuto nella prima metl del
1 secolo a.C., morto a Laodicea, e, perciò, detto di Laodicea, il quale avrebbe
diffuso in Oriente l'epicurei~mo, convertendo ad esso, me- diante il peso di
ben 125 ofiUScoli (~T«) il re Antioco Epifane. ] metallo, queste si
disporrebbero in terra in modo da comporre lcggi- bilmcnte il testo degli
Annali di Ennio. Non so davvero se il caso riu- scirebbe a tanto da formare un
solo verso. Ma se il concorso degli atomi è da tanto, che dà origine a un
mondo, perché non dovrebbe dare ori- gine anche a tante altre produzioni meno
faticose c meno complicate, come un portico, un tempio, una casa, una città? Mi
pare insomma che chi tanto infondatamente sragiona sul mondo, non abbia mai
get- tato un'occhiata alla meravigliosa bellezza dci cieli. Per me io rinuncio
ad ogni altro troppo elaborato tentativo di spiegazione; mi basta con- templare
con gli occhi la bellezza di tutto ciò che noi affermiamo sta- bilito dalla
divina provvidenza" (De_nat. deorum, Il, 37-38, 93-94, 98: ove va ricordato
che è Balbo a parl~re, esponendo la tesi stoica sostc- nua da Posidonio nel
Ilept.&e&v- Sugli dèi, - in contrapposizione alla tesi ecipurea sugli
dèi, esposta da C. Velleio sulla linea del IIept.&e&v - Sugli dèi -
dell'epicureo Fedro di Atene, nel I libro del De natura deorum). Non solo, ma
Cicerone era preoccupato anche perché il motivo epi- cureo dell'ordine c della
misura dovuti alla stessa attività umana, indi- pendentemente da ogni legge già
data e naturale, poteva portare alla rottura della legge costituita da parte di
uomini, che, avendone la capacità, tendessero ad assumere potere personale
(forse anche di qui la fama di Cesare epicureo), ed infine perché l'epicureismo
poteva dive- nire presso chi s'era nauseato della vita politica quale si
svolgeva in Roma, evasione da quella stessa politica, in conventicole di amici,
che sembravano tradire l'azione civile cui si appellava Cicerone, ma che, per
altro verso, potevano essere d'accordo con Cicerone, contro la tiran- nide
(come fu il caso dell'epicureo Cassio, che uccise Cesare). Sembra, in tal
senso, molto indicativo che Cicerone sostenga di non avere mai letto un rigo
degli epicurei latini che avevano diffuso la dot- trina epicurea tra il popolo,
affermando che sono troppo facili, rozzi, plebei (cfr. Va"o, 2; Tusc.
disp.); ch'egli non discuta·mai a fondo le tesi di Epicuro, apponendogli altre
tesi (ad esempio l'immortalità dell'anima, supinamentc accettata dal Pedone, il
motivo dell'ordine e della legge del tutto, dell'ordine e della perfe- zione
dei moti stellari, rivelanti la divinità che tutti accettano, consensus
gentium: cfr. Tusc. disp., I, 11 sgg.; De natura deorum, Il, 37 sgg.); ch'egli pur
ammiri la personalità e l'esempio della virtu di Epicuro ("e chi nega
ch'Epicuro sia stato un uomo buono, gentile, ben edu- cato? in queste
discussioni l'indagine verte sulle sue idee, non sulla sua condotta; lasciamo
alla frivolezza dei Greci codesta moda bizzarra di far della maldicenza sul
conto di quelli da cui dissentono nella ricerca del vero...; non solo, ma molti
Epicurei furono e sono al presente fedeli
133 nelle amtctzte, equilibrati e sen m tutta la vita...
ma...": D~ finibus); e che, infine, decisamente affermi che le posizioni
epi- curee e il loro linguaggio "dovrebbero essere proibiti da un c~nsor~
piuttosto che rifiutate da un filosofo" (D~ finibus). Le stesse ragioni
che muovevano Cicerone a condannare le tesi epi- curee, aveva mosso nel 173 o
nel 154 (a. seconda che il console ricordato, L. Postumio, sia quello del 173 o
quello del 154 a. C.) il Senato romano a espellere da Roma due epicurei venuti
dalla Grecia, Alceo e Filisco (cfr. Ateneo; Eliano, Var. hist.). "Per
avere introdotto costumi licenziosi," si legge in Ateneo: cioè dottrine
che, rispetto al costume romano, sembravano immorali. Entro questi termini può
essere significativo ricordare un testo della Bibbia, cioè un passo del Lib~r
sapientiae, composto circa in questa stessa età in am- biente
ebraico-alessandrino, in cui sono espressi gli stessi timori nei confronti
dell'epicureismo - o comunque di posizioni che con l'epicu- reismo potevano
essere affini per la loro inton~zione mondana - rela- tivamente, anche se per
altra via, al pericolo che per i costumi comporta la negazione dell'immortalità
dell'anima e l'annullamento del pregiu- dizio che Dio sia signore e legge del
tutto. Gli empi con i fatti e con le parole chiamarono a sé la morte, e cre-
dendola amica si consumarono e contrassero con lei alleanza: perché sono degni
di appartenerle. Essi, infatti, non giudicando rettamente, dissero fra di loro:
breve e noioso è il tempo della nostra vita e non v'è refrigerio alla fine
dell'uomo, e non si sa che alcuno sia tornato dall'inferno. Perché noi siamo
nati dal nulla e poi saremo come se non fossimo stati, perché il fiato delle
nostre radici è un fumo: e la parola è una scintilla che viene dal movimento
del nostro cuore. Spenta questa, il nostro corpo sarà cenere, e lo spirito si
disperderà come aura leggera e la nostra vita passerà come la traccia di una
nuvola, e si scioglierà come la nebbia battuta dai raggi del sole e sopraffatta
dal suo calore. E il nostro nome sarà dimenticato col tempo, e nessuno avrà
memoria delle nostre opere. Perché il nostro tempo è un'ombra che passa, e
finiti come siamo non si torna a capo, si mette il sigillo, e nessuno torna
indietro. Venite dunque e godiamo dei beni pre- senti, e profittiamo delle
creature, come della gioventU con sollecitudine. Empiamoci di vino squisito e
di unguenti: e non si lasci sfuggire il fior(della stagione. Coroniamoci di
rose prima che appassiscano: non vi sia pratò, per cui non passi la nostra
cupidità. Nessuno di noi sia escluso dai nostri sollazzi: lasciamo in ogni
luogo i segni della nostra allegria, perché questa è la nostra parte e la
nostra sorte (Libro della sapienza). In tal senso verrà sempre interpretato,
dagli avversari dell'epicurei- smo, il "piacere" epicureo e in tal
modo verranno giudicate le lorc riunioni amichevoli e conviviali, i loro
sodalizi di amici che, sappiamo si diffusero in Oriente e in Occidente. E
cosr sembra assumere un significato ancora maggiore la lotta degli ebrei di
Palestina contro Antioco Epifane, quando si pensa che probabilmente la
diffusione del- l'ellenismo in quel paese ad opera di Antioco, la sua lotta
contro. la superstizione ebraica (cfr. Maccabei, I) fu, in effetto, dovuta
all'epi- cureismo cui si era convertito il re Seleucida, se diamo valore ad un
frammento in cui si dice che Filonide di Laodicea, epicureo, era riuscito a
piegare, in Antiochia, il re Antioco all'epicureismo: "piegato
dall'aggre~sione di·almeno centoventicinque opuscoli, Antioco dovette
soccombere" (cfr. Bevan, The house of Seleucos; anche Farrington). Ad ogni
modo sappiamo, attraverso Cicerone, che circa nella se- conda metà del 11
secolo a. C., l'epicureismo, ad opera dei latini Amafinio, Rabirio, Cazio, si
era diffuso in Roma e in Italia, soprattutto presso il popolo (plebs, dice
Cicerone, che è termine preciso e che ha un suo significato giuridico). Sono,
appunto, i testi di questo epicu- reismo facile, plebeo, che evade da discussioni
tecniche, che non si preoccupa di dialettica e di retorica, sono questi i testi
che CICERONE finge di non aver mai letti, e nei quali ci si sarebbe impegnati,
attra- verso un'esposizione della fisica epicurea, a liberare gli uomini dalla
superstizione. Lo studio della sapienza, ovvero filosofia, è certamente antico
presso di noi [romani}, però non riesco a trovare nomi da citare per il periodo
ante- riore a Lelio e Scipione Emiliano. Quando questi erano giovani, mi ri-
sulta che furono mandati dagli Ateniesi, come ambasciatori presso il senato, lo
stoico Diogene e l'accademico Carneade; essi non si erano mai occupati di
politica, uno era di Cirene e l'altro babilonese: certamente non sarebbero
stati tolti al loro insegnamento e scelti per quell'incarico, se in quei tempi
certi nostri personaggi in vista non avessero dimostrato interesse per la cul-
tura filosofica. Essi però affidavano allo scritto gli altri loro studi, chi il
diritto civile, chi i propri discorsi, chi le memorie degli antenati: ma pre-
ferirono attendere a questa dottrina, che insegna a vivere bene ed è la piu
nobile di tutte le arti, con la loro vita piu che cori i loro scritti. Pertanto
quella vera e otti~a filosofia che, iniziata da Socrate, trovò finora i suoi
continuatori nei P~ripatetici ed anche negli Stoici che sostenevano le stesse
idee in modo diveJ1So, mentre gli Accademici facevano da arbitri nelle loro
controversie, non è rappresentata da quasi nessuna o da ben poche opere in
latino, sia perché l'impresa era grande e gli uomini troppo affaccendati, sia
anche perché pensavano che tali studi non potevano essere apprezzati da gente
del tutto profana. Frattanto, mentre quelli tacevano, prese la parola Gaio
Amafinio, e la plebs sotto l'influsso dei libri da lui pubblicati si rivolse
soprattutto a quella dottrina, sia perché era molto facile da capire, sia
perché le dolci attrattive del piacere erano invitanti, sia anche perché, -non
essendosi prodotto nulla di meglio tenevano quel che c'era. Dopo Amafinio molti
seguaci della medesima dottrina lo imitarono scrivendo molte opere, e inva-
sero tutta l'Italia; e mentre la miglior prova della grossolanità di quelle
idee sta nel fatto che sono cosi facilmente apprese e approvate dagli igno-
ranti, essi credono che questo confermi la verità della loro dottrina (Tusc.
disp.). C'è una categoria di persone che vogliono essere chiamate filosofi, e
si dice abbian scritto davvero molti libri in latino: io non li disprezzo· in
quanto non li ho mai letti, ma poiché·quegli stessi che li scrivono dichia-
rano apertamente di scrivere senza conveniente determinazione e ordinata
disposizione della materia e senza alcuna accuratezza né eleganza di stile, io
trascuro una lettura che non offre alcun diletto. Nessuno infatti, sia pur di
modesta cultura, ignora che cosa dicono e pensano i seguaci di quella tale
scuola. Perciò, poiché no!Y'si preoccupano essi stessi della maniera di
esprimersi, non capisco perché" debbano essere !ehi se non fra di loro che
hanno le medesime idee. In realtà, tutti leggono Platone e gli altri della
scuola socratica e tutta la serie dei filosofi che da questi derivarono, li
leg- gono anche. coloro che non accettano o. non si entusiasmano per quelle
teorie; ma quasi nessuno prende in mano Epicuro e Metrodoro, tranne i loro
seguaci. Allo stesso modo leggono questi Latini soltanto quelli che ritengono
giuste tali teorie (Tusc. disp.). Pertanto quei tali leg- gono i loro libri con
quelli del loro ambiente, e nessun altro li prende in mano se non coloro che
pretendono la libertà di scrivere allo stesso modo (Tusc. disp.). Amafinio e
Rabirio, non seguendo alcuna tecnica, trattano con stile volgare (vulgari
sermone) di ciò che cade sotto gli occhi di tutti. Non sanno definire nulla,
nulla dividere, nulla concludere con retta interrogazione: ritengono, infine,
che non vi sia alcun'arte, né per la parola, né per il ragio- namento... In
fisica, se approvassi Epicuro, cioè Democrito, potrei espri- mermi con piu
facilità di Amafinio. È, difatti, cosa grande, respinte le cause efficienti,
parlare del concorso fortuito dei corpuscoli (cosi chiamano gli atomi)?...
(Varra). Ogni volta che ci penso, mi fa spesso mera- viglia la stranezza di
alcuni filosofi [Epicurei J che ammirano la conoscenza della natura ed
esultando ringraziano chi per primo la scopri e lo vene- rano come un dio; si
proclamano infatti liberati per merito suo da gravi padroni, cioè da un terrore
continuo ed eterno e da un timore che giorno e notte li tormenta. Da quale
terrore? da quale timore? Quale vecchierella è tanto pazza da temere codeste
fole, che voi evidentemente temereste se non aveste studiato la scienza della
natura, e cioè i "templi acherontei nel profondo dell'Orco, luoghi pallidi
di morte, oscurati da tenebre?'' (Tusc. disp.). Su testimonianza dello stesso
Cicerone, l'Epicureismo, nelle sue linee di fondo, nella sua polemica contro un
certo tipo di cultura ("lo studio della natura non forma un tipo d'uomo
bravo a van- 136 tarsi e a straparlare e a sc10nnare quella
cultura che è tanto ricer- cata dai piu": Gnom. Vat., 45), nella sua
semplicità d'interpreta- zione della natura, opposta alla complessa
interpretazione platonico- stoica, si diffuse, nonostante la censura
senatoriale, in Roma e in Italia, particolarmente presso il popolo; tuttavia
non abbiamo suf- ficienti testimonianze e documenti per potere affermare il
successo politico che avrebbe avuto l'epicureismo presso quel popolo medesimo
in contrapposizione alla classe senatoriale e degli ottimati, in una ribel-
lione contro la superstizione e il timor degli dèi, imposto da chi aveva in
mano il potere, in un'interpretazione di tesi platoniche, aristoteliche e
stoiche. In effetto, a Roma, c'era un popolo (plehs), ma non esisteva un popolo
organizzato, cioè non esisteva un'educazione popolare, tale da dare al popolo
una certa ideologia. Si capisce perciò perché, in Roma e nel mondo latino,
piuttosto che l'epicureismo abbia avuto>Ìn ambienti popolari, piu successo
l'Orfismo, il Pitagorismo (che anzi proprio ora si sarebbero costituiti a
dottrine della salvazione dell'anima, mediante certe pratiche e riti), alcuni
aspetti mistico-irrazionali del platonismo di origine orientale. Tanto piu
chiaro si fa, allora, in Roma, al prin- cipio del 1 secolo a. C., sia di fronte
alla cultura ufficiale, sia di contro alle superstizioni proprie di certo
Orfismo e Pitagorismo, l'appello appas- sionato di LUCREZIO (si veda), la ·sua
interpretazione latina del "libro" epicureo (De rerum natura, ·in VI libri).
A tal proposito sembra, anzi, interessante ricordare che Cicerone, il quale
pare sia stato l'editore dell'opera di Lucrezio (o per lo meno rivide alcune
parti del poema, forse su invito del fratello Quinto e su proposta di Pomponio
Attico, il primo editore di Roma, cognato di Quinto), che del valore della sua
poesia parla al fratello in una sua lettera privata, forse quando mori Lucrezio
(Il, 9: Lucreti poemata, ut scribis, ita sunt: multis luminibus ingeni, multae
tamen artis"), mai, in tutta la sua produzione, faccia direttamente cenno
a Lucrezio (anche se per sottinteso piu di una volta), da un lato fingendo di
non avere mai letto i piu antichi epicurei latini (il che poi non è adatto
vero, se in una lettera a Cassio, Ad. fam., poteva scher- zosamente discutere
dei termini tecnici usati da quegli scrittori: e la lettera a Cassio è proprio
dello stesso anno in cui Cicerone scriveva le Tusculanae, in cui è detto,
appunto, della sua ignoranza di quei testi); dall'altro lato, cercando di
minimizzare l'opera di Lucrezio, non solo tacendone, ma cercando di ridurla a
un lavoro scritto per igno- ranti, non degno d'essere letto da uOmini di
cultura e inutile per il popolo, per il quale invece è necessaria la
"costante guida e l'autorità degli ottimati" (non sembra un caso che
proprio là dove Cicerone cerca di minimizzare il significato della fisica
epicurea, sostenendo che è tesi sragionevole e assurda, tenga presente,
mediante citazione indi- retta o chiaramente allusiva, proprio certi passi
dell'opera di Lucrezio). Tutto questo, in effetto, rovescia la prospettiva
dell'attività cicero- niana. Cicerone, in privato, poteva benissimo condannare
la super- stitio e la religio, che, tuttavia, ritiene utilissime per ordinare
lo Stato verso un certo modello; ma tende a ridurre la carica rivoluzionaria
del libro di Lucrezio, ad annullarne l'efficacia e il pericolo, relegan- dolo
tra le concezioni oramai superate, inconsistenti e da ignoranti, insistendo
sulla popolarità dell'epicureismo, sull'irrazionalità dell'ipotesi fisica degli
epicurei, sul fatto che pnì: essendosi diffuso in ambienti plebei non ha avuto
alcun successo politico. A ben guardare, qui ci troviamo di fronte ad altro: al
pericolo rappresentato da alcuni gruppi di seguaci dell'epicureismo, scaturiti
non dal popolo, ma da certi aristocratici, in contrasto con la politica di
Roma, che trovando nell'epicureismo una valvola di sicurezza e costruendosi,
insieme agli amici, mondi a parte e certo piu sereni e meno drammatici del
quotidiano mondo che si viveva in Roma, lontani da Roma, nelle proprie ville,
potevano destare il sospetto di congiurare, in quelle loro riunioni, contro la
res-publica, contro la morale ufficiale, in una vita - era l'accusa - dedita al
"piacere" e depravata, una volta che s'erano sganciati dall'ordine
del tutto (cfr. in particolare l'In Pisonem di Cicerone). Entro questo tes-
suto prende voce Lucrezio, cercando di ·rendere davvero popolare - e perciò
stesso pericolosissimo - quel verbo di Epicuro, che poteva vera- mente
diventare il principio di un'educazione del popolo, in maniera assolutamente
opposta a quella prospettata da Cicerone in funzione del- l'equilibrio e
dell'armonia legale della res-publica. Di sicuro sappiamo che sulla fine delu e
il principio del 1 secolo a. C. furono presso grandi signori romani alcuni
epicurei (Sirone, Filodemo di Gàdara), che altri furono ascoltati dai ricchi
giovani romani, che si formavano alla carriera, ad Atene. Ad Atene capiscuola
del "giardino" erano stati, dopo Epicuro, Ermarco, Polistrato,
Basilide, Demetrio di Laconia, Apollodoro (detto il "tiranno del
giardino": x~p«Wo~, kepotirannos), dei quali non sappiamo quasi nulla. Ad
Apollodoro suc- cessero Zenone di Sidcine (ascoltato da Cicerone, maestro di
Filodemo di Gàdara), Fedro (anch'egli ascoltato da Cicerone, e da cui Cicerone
riprende la tesi epicurea sugli dèi, svolta nel I libro del De na- tura deorum
), Patrone, capo del giardino, e dopo il quale non abbiamo piu notizie di
scolarchi epicurei ad Atene. Può essere a tale proposito interessante ricordare
che Cicerone proprio nel 51 scriveva a un certo C. Memmio - lo stesso a cui Lucrezio
aveva dedicato il De rerum natura? - per pregarlo, a nome di Attico e a ricordo
di Fedro e dell'amico Patrone ("cum Patrone epicureo mihi omnia sunt, nisi
quod in philosophia vehementer ab eo dissentio"), appellandosi anche al
fatto che per diritto il "giardino" apparteneva alla scuola di
Epicuro (cosi suonava il testamento di Epicuro), di non fare speculazioni
edilizie sul terreno del "giardino" da Memmio stesso comperato, anche
se l'Aeropago gli aveva dato il permesso (Ad. fam.). Evidentemente la Scuola
epicurea di Atene andò dispersa, dopo il 51. Cicerone sostiene ch'egli aveva
conosciuto Epicuro di cui cita libri e massime, attraverso Zenone di Sidone,
"corifeo" di Epicuro secondo Filone di Larissa (Cic., De nat. deorum)
e Fedro, anch'egli ripetitore del verbo epicureo ("di Fedro e di Zenone ho
seguito le lezioni, benché null'altro riuscissero a dimostrarmi tranne il loro
zelo e tutte le opinioni di Epicuro mi sono sufficientemente note": De
fin., l, 5, 16. Quando ero ad Atene ero assiduo alle lezioni di Zenone che il
nostro Filone soleva chiamare corifeo degli Epicurei e lo facevo per
suggerimento dello stesso Filone...": De nat. deor.). Non sap- piamo
quanto di nuovo, rispetto all'originario epicureismo, abbiano detto gli
epicurei di questo tempo. Senza dubbio Zenone, per quel che possiamo ricavare
da alcuni frammenti del suo discepolo Filodemo di Gàdara, approfondi e chiari
la genesi della conoscenza, secondo la linea epicurea, sottolineando il
significato ipotetico della condizione della pensabilità della realtà, in
quanto che a porre gli atomi si giunge per analogia prendendo le mosse
dall'analisi sperimentale delle cose stesse (cfr. Filodemo, Sugl'indizi e sul
modo di servirsene: 7te:pt a"rj(.LE:(Cùv xcxt 01)(.LE:~~ae:Cùv). Del
ragionamento per analogia, fondamento dell'indu- zione, cosi diceva Filodemo:
"Quando giudichiamo: 'poiché gli uomini che sono a nostra portata sono
mortali, tutti gli uomini sono mortali,' il metodo dell'analogia sarà valido
solo se assumiamo che gli uomini che non sono in condizione.di esserci
manifesti sono, sotto tutti i ti- spetti, simili a quelli che sono alla nostra
portata, sicché si deve assu- mere che anch'essi siano mortali. Senza questo
presupposto il metodo dell'analogia non è v.alido" (Degli indizi, Il, 25).
Di qui, forse, induttivamente e per analogia, l'ipotesi che l'incontro fortuito
degli atomi, donde nascono i possibili mondi e il mondo degli uomini
(gratuitamente, per cui allo stesso uomo è data la libertà di costruire il
proprio mondo umano), sia dovuto al clinamen.(sulla que- stione del
"clinamen," di cui non v'è traccia in ciò che oggi leggiamo di
Epicuro). Certo, Cicerone, subito dopo avere citato Zenone e Fedro, discute e
critica come un'assurdità il motivo del "clinamen," affermando che
tale motivo è l'aspetto piu nuovo - e se ci poniamo dal punto di vista
stoico-platonico, piu contraddittorio - dell'epicurei- smo, che per il resto
Cicerone - si come fa per l'epicureismo romano che riporta a tempi piu antichi
in cui ancora non era conosciuta a Roma la tesi stoico-platonica - tende a
riportare al piu antico demo- critismo (cfr. in particolare De finibus). Senza
dubbio l'insistenza di Cicerone sul termine "fato," l'insi- stenza di
Lucrezio sulla "catena necessaria," a cui si contrappone il
"clinamen," fa sospettare un'interpretazione del testo epicureo
dovuta alla polemica nei confronti del "fato" stoico, che, tuttavia,
era posi- zione già implicita nell'antiteleologismo di Epicuro. Nulla vieta,
perciò, di pensare. che il motivo del "clinamen," nei termini in cui
lo conosciamo attraverso LUCREZIO, Cicerone (piu tardi Diogene di Enoanda), sia
stato formulato, in una coerente interpretazione di Epicuro, proprio all'epoca
di Zenone, Fedro, Filodemo di Gàdara, tutti e tre in polemica contro il sistema
stoico e particolarmente contro la fata- lità che da esso derivava. Se i moti
tutti - dice Lucrezio - fossero concatenati, se il nuovo sem- pre con ordine
fisso sorgesse dal vecchio, e non si desse dai primordia, col deviare,
principio a nessun moto che rompa le leggi imposte dal fato, s{ che,
all'infinito, non segua una causa dall'altra, donde, io domando, qui in terra,
donde verrebbe mai ai viventi questo libero potere, sciolto dal fato, per cui
andiamo ognuno là dove ci conduce la nostra propria volontà? E Cicerone, dopo
avere esposto il tema del "fato," proprio degli stoici, oppone ad
esso, anche se polemicamente, il tema· del "clinamen" epicureo: Ma
Epicuro pensa di evitare la necessità del fato mediante la declina- zione
dell'atomo: oltre il peso e l'urto, vi è dunque un terzo movimento [e qui è
chiara la citazione da Luc:rezio: "Bisogna ammettere che esiste negli
atomi oltre la spinta e il peso, un'altra causa del moto e che di qui, dal
clinamen, ci derivi...": Lucrezio], allorch~ l'atomo devia dalla verticale
dello spazio il meno possibile (eltJchiston, dice): tale declinazione, se non
in termini propri, almeno in realtà, egli è costretto ad ammet- terla senza
causa, poich~ l'atomo non devia sotto l'urto di un altro. Come potrebbe infatti
urtare un altro, se sono tutti trasportati in linea retta dal peso, come vuole
Epicuro? E se l'uno non è mai spinto dall'altro, ne segue ch'essi neppure si
toccano. D'onde risulta, se l'atomo esiste e se declina, che declina senza
causa. Epicuro ha prospettato questa dottrina, temendo, se l'atomo fosse sempre
trasportato da un peso necessario e naturale, che non vi fosse alcuna libertà
in noi, eh~ la nostra anima sarebbe mossa solo perch~ costretta dal moto degli
atomi. Democrito, l'inventore degli atomi, ha preferito ammettere che tutto
avviene necessariamente, piuttosto che togliere agli atomi i loro movimenti
naturali (Cic., De fato). Certo il piu noto degli epicurei vissuti m Italia fu
Filodemo di Gàdara, che, se anche in circoli ristretti, fece conoscere
direttamente Epicuro, ne propagandò le idee, costitu1 una· vera e propria
comunità di amici di Epicuro, intorno al suo protettore Pisone (console, nemico
di Cicerone: cfr. In Pisonem), nella celebre villa di Ercolano, ove raccolse
una non indifferente biblioteca di libri epicurei. Filodemo, nato a Gàdara, in
Siria (ove sappiamo che mediante Filonide di Laodicea, che aveva convertito
Antioco Epifane all'epicureismo, s'era diffusa una forte corrente epicurea),
proba- bilmente venuto a Roma nel 78, alla morte del suo maestro Zenone di
Sidone (cfr. Strabone). Il Comparetti, da quando furono ritrovati i papiri
della villa ercolanense dei Pisoni, ha sostenuto che quei papiri dovevano
costi- tuire la biblioteca di Filodemo: gran parte sono opere dello stesso
Filo- demo, di cui molti testi sembrano, piuttosto che lavori destinati· al
pub- blico, veri e proprii appunti, schede (cfr. D. Comparetti, La villa erco-
lanense dei Pisoni, i suoi Monumenti e la sua biblioteca, Torino; Ch. Jensen, Die Bibliothek von
Herculanum, in "Bonner Jahrb.,"; R. Philippson, s. v. Philodemos, in
Pauly-Wissowa). Nella villa dei Pisoni, oltre la
biblioteca epicurea fu ritrovata una serie di statue e tra esse quattro busti
con iscritto il nome: Demo- stene, Epicuro, Ermarco epicureo, Zenone di Sidone.
Anche questo è indicativo, ed è. indice della presenza di una vera e propria
comunità epicurea. Intorno a Calpurnio Pisone, illustre nobile romano, la cui
figlia fu la moglie di Cesare, s'era formato, pernio Filodemo, un cir- colo
epicureo. Ed epicureismo significava, tenendo presenti i fondamenti della
dottrina, vivere umanamente, liberarsi dai pregiudizi, trovare, eva- dendo
dalla quotidiana vita politica e dagli affari, sereni rapporti di amicizia.
Dolce è guardare da terra - esclama Lucrezio - quando i venti scon- volgono
l'ampia distesa del mare, l'altrui gravoso travaglio; non perché faccia piacere
che qualcuno si trovi in sofferenze, ma perché è dolce scor- gere i mali di cui
siamo liberi. E dolce è assistere, senza che tu partecipi al pericolo, agli
aspri scontri di guerra in campo aperto. Ma nulla è pio dolce dello starsene
nei ben muniti luoghi, edificati dalla serena dottrina dei saggi, donde è
concesso guardare gli altri dall'alto, e vederli qua e là vagare, e sbandati
cercare la via della vita e manovrare con l'ingegno e far valere la propria
nascita e faticando sforzarsi a gara il giorno e la notte di giungere alla
ricchezza e di acquistarsi il potere. Oh tristi menti degli uomini, oh ciechi
petti1... Pure assai vivo diletto... è ristorar la persona alle· gramente tra
amici, con una spesa non grande, stesi su di un soflice prato, 141 lungo un ruscello corrente,
sotto le fronde di un alto albero specie se il tempo è bello e primavera
cosparge le verdeggianti erbe di fiori (II, 1-14, 29-34). E Filodemo,
indirizzandosi al suo Pisone, nella festa delle [cadi, dedicata a Epicuro, nel
ventesimo giornò di ogni mese, lo invitava nella sua modesta casa: Domani,
nella sua modesta casetta, canss1mo Pisone, all'ora nona ti invita l'amico
amante delle Muse, per il banchetto dell'annuale vigesima: se perderai
manicaretti e brindisi col vino di Chio, troverai in cambio amici sinceri e
ascolterai discorsi molto piu belli di quelli sulla terra dei Feaci (in Antol.
palatina). Sappiamo- fin dal tempo del primo epicureismo - di queste riu- nioni
tra amici, di come, non solo ad Atene, ma a Lampsaco, a Miti- lene, in Siria,
si fossero formate delle comunità epicuree (veri e propri tian), di come in
esse si trovasse un rifugio dalla quotidiana vita poli- tica e dalla cultura ufficiale,
intorno al nome di Epicuro, considerato l'umano dio della liberazione umana,·
la divina umanità che sostituiva i vecchi dèi paurosi o il fato divino l6gos,
in una umanizzazione della ragione e· della scienza (donde il prevalere della
fisica sulla aritmetica e la geometria). Di qui, entro queste comunità, il
culto di Epicuro. "Un dio, fu un dio...": dirà nel suo poema
Lucrezio. E lo stesso Epi- curo aveva affermato: "Agisci sempre come se
Epicuro ti vedesse"; e nel testamento aveva lasciato scritto: "Sia
festeggiato secondo il con- sueto il mio genetliaco ogni anno il decimo giorno
del mese di Game- lione e l'adunanza dei discepoli il ventesimo giorno di ogni
mese [la cosiddetta festa delle lcadi], stabilita in memoria mia e di Metro-
doro" (Diogene Laerzio, X, 18 sgg.). E su testimonianza di Plinio il
Vecchio (Nat. hist.) sappiamo che ancora in Roma, si celebravano queste feste:
"Epicurei vultus per cubicula gestant et circumfei:unt secum. Natali eius
sacrificant, feriasque omni mense custodiunt vicesima luna quas icadas
vocant" (sul culto di Epicuro cfr. A. J. Festugière, Epicure et ses dieux,
Parigi; anche P. Boyancé, L'épicurisme dans la société et la littérature
romaines, in "Bulletin Ass. Budé," Suppl. Lettres d'Humanité). E già
Epicuro aveva scritto a Meneceo: "Tutti i miei insegnamenti e tutti quelli
della stessa natura, meditali giorno e notte ed anche con un compagno simile a
te" (Lett. a Menec.); e aveva detto: "l'uomo sereno procura serenità
a sé e agli altri" (Gnom. Vat.). Con il commento dei Libri di Epicuro, con
tl suo approfondi mento di certi aspetti della dottrina epicurea,
particolarmente per ciò che riguarda le passioni e le condizioni della
conoscenza, Filo- demo istitui in Roma e ad Ercolano, appoggiato da Pisone, un
con- tubernium epicureo (come dirà Seneca: piu che la dottrina di Epicuro, fu
il suo contubernium a educare gli epicurei: Ep.), una comunità di amici il
"cui accordo tra loro," sosterrà Numenio, "era simile a quello
che deve regnare in una repubblica ben ordinata" (in Eusebio, Praep. ev.).
Secondo il De
Witt (Organisation and procedure in Epicurean groups, in "Class.
philology," ; Epicurean contubernium, in "Trans. and Proc. of the
Philol. Assoc.”), seguito dal Boyancé (cit.),
anzi, il llepl. 7t«pplJa(«ç (Sul libero parlare) di Filodemo chiaramente
indicherebbe l'attività di Filodemo volta a organizzare la scuola in forma
conventuale, costituendo un modello d'ideale vita politica, di libera vita associata,
da opporre alla politica imperante in Roma, sia pur come esigenza di crearsi
mondi a parte, rifugi, appunto, dalla tragica sorte, dall'inutile e assurdo
morire, che ogni giorno poteva colpire chi si dibatteva nelle lotte politiche
della Roma del tempo. Non a caso si deve a Filodemo (Herc.) la coniazione del
termine "quadrifarmaco" (-re-rp«<pcXp(.L«Xov: tetrafdrma- con) -
la medicina composta di quattro elementi - con cui egli indicava la funzione
liberatrice della filosofia epicurea, mediante la quale l'uomo si cura dal
timore della divinità (1. non si tema la divinità, che la divinità non si
occupa dell'uomo), dal tiinore della morte (2. non si tema la morte, ché quando
v'è l'uomo non v'è la morte, quando c'è la morte non c'è l'uomo), sapendo che
facile è il piacere (3. tieni presente la facilità del piacere), e che breve è il
dolore (4. tieni presente la brevità del dolore). Tutti e quattro gli elementi
si trovano approfonditi in Epicuro (cfr. in particolare Ep. a Menec.), ma è
senza dubbio assai indi- cativa la formulazione in massima da parte di
Filodemo, il puntare, ora, soprattutto, sull'aspetto terapeutico della
concezione epicurea della natura e sul rifugio ch'essa offre: sia nei convivi,
sia nelle libere discus- sioni fra amici, sia mediante poesia, con cui ci
creiamo dilettevoli mondi a parte. Tale il significato dato alla poesia da
Filodemo e tale l'epicu- reismo - non dottrinario - di Orazio, che sappiamo
aver frequen- tato il gruppo intorno a Pisone, e, se vogliamo, di Catullo e di
tutto il complesso dei poeti muovi. Sembra facile ora capire cosa inten- ·desse
Filodemo quando sosteneva il valore edonistico della poesia e della musica, si
come, per altro verso, di contro a Diogene di Babilonia (cfr. sopra), la
capacità mediante la retorica di costruire mondi umani, ché non scienza è la
retorica, ma un'arte pratica, cioè l'arte di agire (prasst) in un mondo che non
è già dato, ma è dovuto alla stessa atti- vità dell'uomo, rivelantesi
attraverso il linguaggio che ha, sempre, una realtà storica, si come la stessa
giustizia e il diritto (ch'era, poi, tesi squisitamente epicurea: cfr. I vol.).
Entro questi termini sembra,' cosi, assumere non poco significato l'ultima
parte del V libro del De rerum natura di Lucrezio, in cui, mediante Epicuro,
riprendendo l'antica linea che risale a Empedocle, ad Anassagora, a Democrito,
a Protagora, a certe posizioni sofistiche e socratiche, teofrastee, si
sottolinea con forza la storicità della natura e del mondo umano, di una natura
che scaturita dall'accozzo fortuito di infi- niti atomi, - sottolineiamo che
Lucrezio mai usò il termine "atomo," - s1 come ha dato luogo ad
infiniti possibili mondi, ha dato luogo al mondo degli uomini. E s1 come non
v'è perché al sorgere delle cose, se non gli ipotetici atomi-spérmata e il
vuoto, il peso e il "clinamen," cui si giunge attraverso l'analisi
delle cose, condizioni non contraddit- torie che rendono pensabile la
molteplice e viva realtà, senza ricorrere ad allotri e superiori principi
razionali, proiezioni a posteriori (si come gli dèi o il divino l6gos) delia
umana razionalità, anch'essa, in effetto, Il Poco sappiamo della vita di Tito
LUCREZIO Caro. Non sappiamo a che famiglia appartenesse, dove sia nato, quali
le date esatte della sua nascita e della sua morte. Seoondo San Gerolamo, che
probmilmente deriva dal perduto De viris illuslribtu di Svctonio, Lucri!Zio
sarebbe nato nel 95 a. C.; impazzito per avere bevuto un filtro amatorio, nei'
momenti di lucidi~ avrebbe scritto il,suo poema; si sarebbe suicidato. Donato,
invece, nella Viu di Virgilio, anch'egli derivando da Sv~ tonio, afferma che
Virgilio, prese la toga virile a sedici anni ncllo stesso anno in cui Lucrezio
mori.. Ad ogni modo, in una lettera di Cicerone al fratello, Quinto, che ~
senza dubbio del febbraio del 54, si legge un giudizio su Lucrezio relativo
alla pubblicazione del De rerum IIIIIUI'a che sappiamo essere avvenuta dopo la
morte di Lucrczio, ad opera di Cicerone stesso. C'~ chi ha sostenuto che
Lucrczio sia di Roma c chi della Cam· pania (un circolo epicureo era allora
fiorente in Napoli): in rea!~ non sappiamo, cosf come non si può dire se
Lucrczio appartenesse a nobile o a plebea famiglia. La gente Luac2:ia era
allora assai dillusa in tutte le classi, in tutta Italia. Senza dubbio il poema
di Lucrezio ~ incompiuto c ciò dovuto probabilmente alla•sua morte. Sulla
notizia di San, Gerolamo che Lucrczio sarebbe impazzito per un filtro amatorio
(certo tali pozioni erano molto in uso nella Roma del tempo), che avrebbe
scritto il poema nei momenti di lucidi~ alternati da momenti di cupa'
depressione c angoscia (alcuni testi del poema rivelano depressione, incubi
visionari,, allucinazioni, d'altra parte pre· senti anche in Epicuro:}, che si
sarebbe suicidato, si ~ molto discusso c fanwticato. Il De rerum n/llura, in
sci libri, formalmente incompiuto, fu dedicato da Lucrczio a Mcmmio. Sembra che
il Mcmmio di LUCREZIO sia Gaio Mcmmio, questore, pretore, che amante della
letteratura greca, non di quella romana, colto, intel- ligente, piacevole
conversatore, pigro c impaziente di lavoro intellettuale (cfr. Cicerone, Brutus},
oondussc con sé quando fu proprctorc della Bitinia alcuni poeti, tra i quali
Catullo. E sarebbe quello stesso Mcmmio che quattro anni piu wdi, esiliato da
Roma per brogli elettorali, ad Atene, ottenuto il diritto dall'Areopago di
costruire sull'arca ovc sorgeva la casa c il giardino di Epicuro, rifiutò a
Pauonc, allora scolarca del Giardino, il favore di non profanare quel luogo
sacro agli Epicurei (cfr. Cicerone, Ad fam.)] scaturita nel tempo, cosi, di
fatto, ci sono gli uomini. E se ipotetica- mente gli uomini scaturiscono da
incontri e particolari disposi~ioni di "semina," per cui dapprima si
può mitizzare una certa genesi del- l'uomo ancora non uomo, finché in una
qualche organizzazione dei "semi," come sono nati certi mondi e certi
animali, nella lotta per la vita oggi estinti, ed altri tipi di bestie, rimaste
bestie, nasce il primo mondo 1egli uomini, piu che di uomini ancora di
"be- stioni," viventi in istatc ferino, alla fine, sempre per una
qualche for- tuita aggregazione dei semi vitali, scaturisce la razionalità e,
ad un tempo, il linguaggio, e attraverso il linguaggio, questo o quel lin-
guaggio, l'uomo reale, e solo da allora la sua storia, il processo me- diante
cui è l'uomo che r;~.zionalizza la realtà. Perché cosi e non altri- menti? Non
sappiamo, risponde Lucrezio: "non è possibile sapere ciò che avvenne
prima, se non per quel tanto che il raziocinio ne scopre". L'unica ipotesi
è l'ipotesi epicurea, sostiene Lucrezio, me- diante la quale ci rendiamo conto
non solo del costituirsi sdrammatiz- zato della realtà, ma anche di come l'uomo
è uomo entro i termini della sua stessa realtà umana (ché prima del nascere e
di là dalla soglia del morire, è umanamente il nulla, è altra realtà) tutt'uno
di anima e di corpo, di come per rispondere alle proprie esigenze sono nate le
verità degli uomini, dalle verità dell'uomo· primitivo e ferino, vivente nelle
selve, alle verità dell'uomo razionale e sociale, che ha proiettato tali verità
oltre sé in cielo, perdendo alla fine se stesso (donde poi la superstizione del
divino signore, del divino che come padrone si occupa delle cose umane, la
superstizione dell'anima immortale, che avrà premi o castighi nell'aldilà). Al
modo erratico delle fiere, volgendosi il sole per molti lustri nd cielo,
menavano lunga vita... Stavano nei boschi, ndle caverne dei monti, nelle
foreste... Non conoscevano l'uso di costumanze e di leggi: ciascuno pren- deva
di proprio istinto la preda messagli innanzi dal caso, assuefattosi a vivere e
a campare da sé solo. Entro le selve all'amplesso Venere univa gli amanti... Si
procurarono in seguito capanne e pelli e fuoco e si ridusse la donna, congiunta
all'uomo, ad u·n solo connubio, e i padri videro nascere i propri figlioli...
Poi, con gesti e suoni inarticolati fecero capire il [loro] giusto... Ma chi
spinse gli uomini a foggiare con vari suoni il linguaggio fu la natura, e il
vantaggio produsse i nomi delle cose. Quasi allo stesso modo in cui l'impotenza
evidente a formulare la parola induce i bambini a gestire, come fanno quando col
dito segnano le cose evidenti: perché ciascuno capisce di che si possa
servire... Pensare che qualcuno abbia asse- gnato alle cose i loro nomi e che
di H gli uomini abbiano appreso i primi vocaboli, questo è un uscir di cervello
[cfr. in particolare il Cratilo di Platonel· Come poteva costui indicare tutto
con le voci, e modulare vari suoni, se, nel contempo, nessun altro era in grado
di farlo? E poi, da dove a costui venne l'idea del vantaggio, da dove ebbe, sin
dall'origine la facoltà di sapere ciò che voleva e di scorgerlo perfettamente
distinto, se fino allora nessuno aveva usato il linguaggio? E non poteva, uno
solo, piegare i molti e costringerli, vinti, a imparare di buon animo i nomi
posti alle cose; non si istruiscono i sordi né si convincono con la logica a
fare quanto debbono: e poi non lo soffrirebbero, né lascerebbero mai che troppo
a lungo ed invano voci dal suono inaudito rintronino loro le orecchie. Infine,
è proprio cosi strano che l'uomo, in cui voce e lingua erano in piena
efficienza, usasse per indicare le cose, varie secondo le percezioni, la
voce?... Se le diverse impressioni fan che le bestie, che pur non hanno la
parola, emettano voci diverse, quanto è piu ovvio che l'uomo abbia cosi, con le
varie voci, potuto iÌidicare la varietà delle cose! Lascia che lottando lungo
lo stretto sentiero dell'ambizione, si logorino a vuoto e sudino sangue, essi
che parlano per bocca d'altri, ed apprendono le cose piuttosto da ciò che
sentono, che dalla propria esperienza, oggi non meno di ieri, non meno d'oggi,
domani... Piu facile ora è capire come l'idea degli dèi si sia diffusa tra i
grandi popoli, e abbia stipato delle are sue le città, ed abbia indotto a
introdurre i sacri riti del culto, solenni, quelli che ancora oggi sono in auge
fra tanto progresso e in centri si grandi, onde ancora oggi negli uomini è
insito quello spavento che erige in tutta la terra nuovi delubri agli dèi, e vi
fa correre nelle festività tutti quanti. Sin da quei tempi, in effetti~ gli
uomini vedevano da svegli, ma piu nei sogni, col corpo mirabilmente ingrandito
numi d'aspetto stupendo. E poi che, a quanto appariva, essi movevan le membra
ed emettevano terribili voci, ap- propriate alla enorme forza e allo splendido
aspetto, a loro, dunque, per questo, attribuivano il senso e li facevano
eterni, giacché se ne rinnovava sempre la vista, e la forma restava sempre
immutata, e poi perché giu,di- cavano che, tanto forti com'erano, nessuna forza
potesse agevolmente sop- primerli. E giudicavano che avessero ben piu propizia
la sorte, perché il timore di morire non li affliggeva, e compivano - cosi
vedevano in sogno - molte e mirabili imprese senza che mai li prendesse
stanchezza alcuna. Scorgevano inoltre che i movimenti del cielo e le diverse
stagioni si avvicendavano con successione uniforme, e non potevano conoscere
per quali cause. Ne uscivano dunque affidando agli dèi tutto, e facendo che
tutto fosse guidato dal cenno divino. E posero in cielo le sedi e i templi dei
numi, perché si vedono evolv,ere la notte, in cielo, e la luna: la luna, il
giorno e la notte, ed i severi notturni segni, e le erranti notturne faci del
cielo, e i volanti fuochi, le nubi, le piogge, la neve, il sole, la grandine, i
venti, i fulmini, i rapidi fremiti e i minaccevoli vasti fragori. Ah, da quando
fece dipendere dagli dèi tali fatti, e vi aggiunse il fiero sdegno, infelice
umanitàl Da quel tempo quanti lamenti a lei stessa, quante ferite a noi, quali
lacrime ai nostri nipoti, essi non hanno partorito! Ed ostentar di girare,
velato, intorno ad un sasso, ed accostarsi agli altari tutti, e cader faccia a
terra davanti ai templi dei numi,.e alzar le palme, e del sangue di 146
numerosi quadrupedi sparger le are ed appendere voti su voti, codesto
pro- prio non è religione: ma religione è saper penetrare a cuore tranquillo i
fenomeni. Quando, in effetto, osserviamo i doni del firmamento immenso, e
l'etere immobile sopra le stelle che brillano, e ripensiamo al cammino che
fanno il sole e la luna, comincia allora a destarsi e a levare la testa nel
cuore oppresso dagli altri mali anche quella inquietudine, se per noi forse non
sia l'onnipotenza dei numi quella che volge con vario moto le candide stelle:
perché ci rende perplessi l'oscurità del problema, se ci sia stato un principio
generatore del mondo e sino a quando potranno durare le mura del cielo a questa
loro fatica del movimento affannoso: o se, per caso, non possano, scorrendo con
l'infinito volo del tempo, dotate d'eternità dagli dèi, sfidare invece le salde
forze del tempo infinito. D'altronde a chi non si agghiaccia l'animo per la
paura dei numi?... Sino a tal punto una occulta forza cal- pesta le umane cose,
e si vede che vilipende e beffeggia per proprio conto gli splendidi fasci e le
terribili scuri. Ma, prima assai che potesse foggiare col suono politi canti e
dar gioia agli orec- chi, l'uomo imitò con la voce il limpido gorgheggiar degli
uccelli, e il vento che sibila nei vuoti calami apprese ai campagnoli per primo
come soffiare nelle vuote canne. Impararono in seguito poco per volta i soavi
lamenti ch'escono dal flauto quando lo toccano con le dita, sonando, dal flauto
che si trovò dai pastori per i boschi impervi e le selve, e i monti e i luoghi
deserti durante gli ozi beati. Cos{ pian piano col tempo si manifesta ogni
singola cosa e il raziocinio la poeta al lume del giorno. Accarezzavano lo
spirito quei suoni e lo dilettavano...: hanno anche appreso a tenere distinti i
ritmi... Ma non è possibile sapere ciò che avvenne prima, se non per quel tanto
che il raziocinio ne scopre. L'uso ed insieme i continui sforzi dell'alacre
ingegno all'uomo che progrediva passo per passo insegnarono a poco a poco la
nau- tica, l'agricoltura, il diritto, l'arte di fare le fortezze, le strade, le
armi, e cose simili, gli agi e i conforti, quanti ve n'è della vita, la poesia,
la pittura e la ingegnosa scultura. Grandemente, in tal modo, il tempo svela
ogni cosa singola e il raziocinio la porta al lume del giorno. Perché
scoprivano che un vero prendeva luce dall'altro, finché con le arti non ebbero
raggiunto l'ultimo vertice. Questo, sembra, il motivo chiave dell'epicureismo
di Lucrezio, questo suo appello, di contro alla filosofia teologica ed ai
pericoli insiti in essa per il libero farsi degli uomini, per la stessa
comprensione della natura (vera religione è "saper penetrare a cuore
tranquillo i fenomeni": V, 1203), il suo appello all'esperienza e alla
ragione, all'umanizzazione della scienza, mediante cui l'uomo può creare il suo
mondo, conside- rare la natura per quello che la natura è, operando su di essa,
diremmo in una libera "inter-azione," per un fine che non è dato, ma
che è di volta in volta dovuto alla stessa razionalizzazione umana, operante,
con le tecniche, su di una realtà non già preordinata, ma spontanea e feconda
di tutte le possibilità. Questo il sentimento dell'epicureismo di Lucrezio, e
perciò la sua venerazione per Epicuro che "purgò gli animi con i suoi
precetti veridici, e al desiderio e al timore prescrisse un limite e fece
chiaro qual fosse il supremo bene a cui tutti tendiamo e additò per quale via
vi si può giungere diritti, con poca strada, onde è neces- sario che non i
raggi del sole, non le lucide frecce del giorno spazzino via questo terrore
dell'universo con le sue tenebre, ma la conosunza razion.ale della natura: sed
naturae species ratioque" (VI, 24 sgg.: ove va notato che gli ultimi tre
·versi tornano nei proemi ai libri l, Il, III, oltre che nel VI). E qualora si
tenga presente il modo con cui, da Varrone a Cicerone, si venivano recuperando
certi aspetti di Platone, di Aristotele, dello stoicismo, nella costruzione di
una religio, in funzione di una certa classe politica - anche se in efletto, e
Cicerone n;è testi- monianza, i loro autori credevano in altro, - in un'epoca
drammatica, in un'epoca in cui la morte eta davvero.sempre gratuitamente
presente, si capisce bene da un lato l'appello ad Epicuro salvatore ("
mentre l'umanità conduceva sulla temi una vita infame e abietta a vedersi, op-
pressa dal peso di una religione il cui volto mostrandosi dall'alto delle
regioni del cielo, minacciava i mortali con il suo orribile aspetto, per primo
un uomo greco [Epicuro] osò levare il suo sguardo mortale contro di essa e per
primo contro di essa insorgere: né lo trattenne ciò che si diceva degli dèi, né
i fulmini né il cielo con il suo rombo minac- cioso "); dall'altro lato
l'esigenza e il dovere di far conoscere a tutti il libro di Epicuro: Venere,
stringiti a Marte, mentre giace, con l'intatto tuo corpo, implo- rando,
inclita, per i romani una pacifica tregua; che con la patria turbata, né noi con
cuore tranquillo potremmo attendere all'opera, né per seguir tali cose,
l'illustre germe di Memmio [cui il poema è dedicato], negar potrebbe se stesso
alla salt~ezza di tutti. Né mi nascondo ch'è opera estremamente difficile
esporre in versi latini le ardue scoperte dei Greci, specie perché dovrò spesso
usare vocaboli nuovi - tanto il nostro lessico è povero, e cosi nuovo è il
soggetto. Eppure l'animo tuo e il gaudio, che mi prometto, di una soave
amicizia mi persuade che non debbo badare a fatiche di sorta, e che le notti
serene io vegli cercando con quale canto, con quali parole, ti faccia splendere
nella mente h vivida fiaccola, onde tu penetri a fondo i piu reconditi veri. E
veramente bisogna che non i raggi del sole, che non le lucide frecce del giorno
spazzino via questo terrore dell'animo con le sue tenebre, ma la razionale
conoscenza della natura: sed naturae species ratioque. E cosr non vanno
scordati del De rerum natura due altri punti fon- damentali. Bisogna tener
presente, innanzi tutto, l'insistenza ancora maggiore che non in Epicuro,
sull'atomo, condizione perché sia pensa- bile la realtl, non come atomo
geometrico o.matematico, ma come centro di vita, come seme vitale, onde in ogni
cosa è insito uno speciale potere: il che, non solo spiega meglio
l'affermazione prima che "nulla si genera dal nulla," cioè da una
pura quantità che all'infinito è zero, ma anche il fatto che le qualità si
costituiscono dal modo in cui le po- tenze seminali si organizzano e si
dispongono mediante gl'incontri. Viene da questo la paura che opprime gli
uomini tutti: scorgono in cielo ed in terra prodursi vari fenomeni, fatti, dei
quali non possono scor- gere punto le cause, e che riportano quindi alla
potenza di un dio. Ma se tocchiamo con mano che non può naseere nulla dal nulla,
allora piu chia- ramente sapremo comprendere quello che andiamo indagando:
donde: ogni cosa si generi e come ognuna si generi, senza l'intervento di un
dio... Se non vi fosse per ogni singola specie il suo germe, come si avrebbe
un'origine certa e distinta per gli esseri? Ma poiché viene ciascuno d'essi da
un germe specifico si forman là, di là balzano fuori alla luce del giorno dove
sono insiti i primi corpi e la loro materia, né può ciascuno prodursi da
ciascun seme, per questo: ché in ogni cosa è insito uno speciale potere. Perché
vedremmo prodursi di primavera la rosa-, d'estate il grano... se non perché
cofluendo, al tempo giusto, certi semi, erompe quanto si fa... dal fecondante
connubio... A poco a poco crescono gli esseri tutti, da un germe specifico. In
secondo luogo, bisogna tener presente la distinzione, nell•uomo, tra la forza
vitale (anima), che unisce le membra e ovunque è diffusa, e la sua
organizzazione in quella che diciamo razionalitl (animus), o mente, che,
insieme, costituiscono l'Anima, ch'era il modo d'interpretare epicureamente il
motivo di un tutto vitale e fe.. condo implicito nel motivo dell•anima mundi di
origine stoico-platonica. Come, negli esseri vivi, in ogni viscere suole
trovarsi un succo, un odore, un colore speciale; ma dall'insieme di tutti si
forma un solo organismo, si forma una sola essenza, cosf,_ commisti, il calore,
l'aria e la occulta potenza del vento, aggiuntavi quella nobile forza che a
loro compane il moto d'ini- zio, donde dapprima negli organi si desta il moto
del senso, che si cela riposta nelle tenebre dell'essere, e di cui nulla piu
addentro nel corpo a noi non s'immilla, diremmo, che è l'anima stessa
dell'anima tutta. E come, occulta, è.commista nel nostro corpo e negli arti
tutti la forza dell'animo e la potenza dell'anima perché risulta composta
d'atomi piccoli e rari, cosi, formata di minimi, ti si nasconde questa energia
senza nome, l'anima stessa di tutta l'anima, quasi, che domina nel corpo
intero. In tal guisa il vento e l'aria e il calore debbono, mischiati negli
arti, darsi reciproco slancio, e soggiacer gli uni agli altri, e sovrastarsi a
vicenda, cosf però che risulti di tutti un unico tutto, onde il calore ed il
vento e la potenza dell'aria, cia- scuno per sé, non distruggano il senso e non.lo
disgreghino, cos{ distaccati (III, 267-289). L'insistenza di LUCREZIO sulla
seminalità specifica degli atomi, sulla ricchezza potenziale di ogni seme e
sulla vitalità feconda d'onde si generano sempre infiniti mondi, questi mondi,
e tra essi il mondo degli uomini dà il metro di come LUCREZIO ha interpretato
Epicuro. Il ragionamento è lo stesso di Democrito fino a porre a condizione
della pensa- bilità della realtà gli atomi e il vuoto (cfr. I vol.): dalle cose
visibili, divisibili, agli atomi invisibili, elementi primi non piu divisibili,
ma, appunto perché tali (altrimenti giungeremmo allo zero, al nulla incon-
cepibile), si postula la condizione epicurea degli atomi-semi. Per il resto,
dal rapporto atomi vuoto, dalla spontaneità del movimento degli atomi,
precisato come "clinamen," al concetto del peso e del costi- tuirsi
delle cose e delle qualità, dei mondi e del mondo dell'uomo, da cui comincia -
perché è un fatto - la razionalità e l'opera dell'uomo, che è natura, nella
natura, in un unico processo, dalla concezione dell'anima, costituita di atomi
leggeri, tutt'uno con il corpo alla dottrina della sensazione e degli éidola,
alla conce- zione della mortalità dei mondi creati e della caducità del mondo,
alle possibili molte ipotesi su ciascun fenomeno celeste e al sorgere della
vita sulla terra (donde poi la storia del mondo umano, dall'uomo ferino
all'uomo razionale e padrone delle arti) (libro V), alla spiegazione dei
fenomeni meteorologici e dei morbi e delle epidemie, LUCREZIO segue la traccia
del De natura di Epicuro (di cui, ricordiamo, s'è trovata una copia in 37
libri, ad Ercolano, nella ~iblioteca della villa dei Pisoni). Ma, dietro,
sempre, rimane in Lucrezio la meraviglia della scoperta, che dovrebbe essere
chiara a tutti, che dovrebbe definitivamente scacciare ogni alambiccata
costruzione metafisico-teologica, ogni timore in una suprema legge, negli dèi o
in un astratto l6gos. Allorché si tenga questo per verità, si fa chiaro che la
natura, da sola, in tutto priva di despoti superbi e libera in tutto, agisce in
ogni sua cosa d'iniziativa propria, senza interventi di dio. Scientificamente,
cioè razionalmente, possibile l'ipotesi di Epicuro, ne vien fuori da un lato
che il fondamento della natura - natura na- turans - non è sottoposto ad alcuna
legge, ad alcuna necessità razio- nale a priori, a nessun proiettato rapporto di
causa ed effetto, ivi impli- cita la necessità di porre cause prime
(efficiente, formale, materiale, fi- nale), ma che l'ipotetico fondamento, cui
si giunge induttivamente per analogia, è una infinita ricchezza, una
fluidissima spontaneità; e, dal- l'altro lato, che la realtà quale è, quale si
costituisce (natura naturata), è ad un tempo la stessa natura naturans sempre
possibile di cangia- mento e di modificazioni qualitative (di qui il motivo del
farsi con- tinuo: II, 293-336), su cui è possibile operare (di qui l'inno a V
enere ge- nitrice, che apre il poema), ché, in effetto, atomi-semi, vuoto,
peso, clinamen, sono postulati, sono i fondamenti, ma non esistono: esiste la
natura; esistono gli infiniti mondi, le loro genesi, le loro storie, la genesi
degli animali, la loro evoluzione, la loro lotta per la vita, la loro
estinzione o la loro sopravvivenza, la genesi e l'evoluzione dell'uomo, e poi
la storia dell'uomo, da quando l'uomo è uomo, quest'organizzazione di semi che
ha dato luogo alla ragione; e ad un tempo, insieme, esi- stono i semi e le loro
connessioni e organizzazioni. Da un lato, come dietro le cose e i mondi quali
sono nelle loro organizzazioni, si vede mentalmente questo pullulare vitale,
instabile, di semi (atomi), il cui complesso. è ciò che LUCREZIO chiama
"materia," i loro incontri spon- tanei e infiniti (" clinamen
"), il loro organarsi, donde questo o quel mondo, questa o quella cosa,
questa o quella specie e qualità; dall'altro lato si vedono nascere le cose
stesse e i mondi, la spiegazione naturale e razionale delle cose, dei mondi,
dell'esserci naturale dell'uomo - in- dipendentemente da ogni miracolistico
intervento, - e da quella stessa vitalità (anima), nell'uomo, la mente,
!'animo, la razionalità che è un modo con cui si è venuta organando quella
vitalità. La razionalità stessa, perciò, è "storica," positiva, si
come i linguaggi e i costumi, le tecniche, mediante cui l'uomo istituisce il
proprio mondo, costituisce quell'equi- librio di anima e corpo,
quell'equilibrio tra uomini, che non ha nulla di già dato dietro le spalle, ma
è dovuto all'attività dell'uomo. La feli- cità dell'uomo non sta, dunque,
nell'adeguarsi a un ordine già dato, ma nel volere, di volta in volta,
quell'equilibrio e quella misura (il "piacere"), che è una sua
conquista, in una prosecuzione razionalizzata dell'opera della natura, che è
serenità, in una comprensione e in un rispetto della natura
("religio"), per cui, alla fine, la virtu sta proprio in questo
comprendere la natura, in questa critica della religione co- smica e dei miti,
in questa umanizzazione e razionalizzazione della scienza, mediante cui nella
costruzione della propria società, si effettua un'armonia, un giusto mezzo tra
anima e corpo; e in tale armonia con- siste il "piacere," di là da
ogni estetizzante "eroismo," oltre ogni edu- cazione basata sul culto
della virtus, degli exempla, dei mores maiorum. Si vede bene, cosi, come il
piacere e la misura lucreziano-epicurea non siano né la virtu eroica dello
stoico, né il "conveniente," il decoro, la "signorilità"
prospettate da Cicerone; Cicerone per il popolo, per la plebs voleva la
superstitio, l'ordine imposto dagli ottimati, m nome del divino e delle leggi,
o l'equilibrio dovuto alla ca- pacità di un uomo, di un princeps, di cui si
potesse dire che è l'incar- nazione della legge suprema, della legge cosmica, e
perciò stesso salvatore, correttore" dello Stato, mentre per un verso la
filosofia si risolve in retorica e, per altro verso, in forme consolatorie o di
edifi- cante conforto sacerdotale-religioso. Proprio di qui il conflitto tra
ciceronianesimo e lucrezismo, tra due concezioni che, alla fine, non ammettono
alcun discorso comune, si di- verso e opposto è il fondamento, l'ipotesi da cui
prendono le mosse l'uno e l'altro, ~ non in un punto, nella comune
consapevolezza di una disperata e drammatica situazione·storica, in un terror
della morte, che rende tutto vano, nell'un discorso risolta in u n coraggioso appello
all'uomo e alla sua razionalità, in un appello alla scienza, in un risolversi
dell'uomo entro il suo stesso mondo umano; nell'altro discorso, nella speranza
di un ordine proiettato retoricamente nei cieli, che si delineerà, poi, in una
salvazione che non dipenderà neppure dalla capacità umana di adeguarsi
all'eterno ordine della legge divina, ma sarà dovuta o a forze magiche e
irrazionali (certo neopitagorismo, gnosticismo, certo neoplatonismo e ermetismo
del 1-n sec. d. C.), o ad un gratuito intervento dello stesso dio, della
persona di Dio (primo cristianesimo). Per secoli, certo, si è taciuto di
Lucrezio, e perduto è andato, anche, il De rerum natura di Egnazio, che,
sembra, fosse un seguace di lui. Non va dimenticato, comunque, che ciò che noi ancora
leggiamo è quello che la stessa censura della storia ha salvato. Ad ogni modo,
a parte ii· rigo di Cicerone nella citata lettera al fratello Quinto, gli ac-
cenni di Cornelio Nepote (Biografia di Attico, 12), di Vitruvio (IX, Proemio,
41), di Ovidio (Am.; Trist.) e di Papinio Stazio (Silv., "docti furor
arduus Lucreti"), l'unica fonte bio- grafica è quella celebre.di Girolamo,
in cui si dice che LUCREZIO sarebbe morto suicida per pazzia a causa di un
filtro amoroso, e che avrebbe composto alcuni libri del poema durante
gl'intervalli della sua follia: "Titus Lucretius poeta nascitur: qui
postea amatorio poculo in furorem versus, cum aliquot libros per intervalla
insaniae conscripsisset, quos postea Cicero emendavit, propria se manu
interfecit anno ae- tatis XLIV" (Chron. Euseb., VII, 1). Non altro
sappiamo della vita di lui, e incerte sono anche le date della nascita e della
morte (cfr. sopra, Vita). Sembra che
Girolamo abbia usato per tali notizie il De viris illustribus di Svetonio, il
che darebbe attendibilità alla notizia. Certo i cristiani conoscevano bene il
De rerum natura (cfr. Arnobio, Lattanzio) e di esso discutevano in forma
polemica, sf come - in fondo per le stesse ragioni - il poema lucreziano era
stato discusso e minimizzato da Cicerone, il quale non poche volte afferma che
gli epicurei sragionano. Di qui a sostenere, ricostruendo la vita del poeta
all'uso dei biografi antichi, che Lucrezio era folle, il passo è breve. Non si
è forse detto (Vita Vergi/ii di Donato), ad esempio, che Virgilio, il cantore
dei campi, nacque in un maggese? (ed anche questa notizia di Donato non è forse
ricavata dal serissimo Svetonio?). In effetto, Lucrezio sembra che non abbia
avuto, sul piano della for- mazione di una paidèia popolare, alcun successo,
anche se certamente Lucrezio fu in polemica con il suo tempo e cercò di operare
almeno attraverso certi uomini (forse Memmio, Attico) che, per la loro posi-
zione, ne avrebbero avuto la possibilità. E proprio sotto questo aspetto non va
sottovalutata la polemica di Cicerone nei confronti dell'epicureismo, e, ancora
una volta, l'affermazione ciceroniana che gli argo- menti degli epicurei non
vanno discussi filosoficamente, ma eliminati con un decreto legge. È stato
detto - Farrington, - che "nel caso
di Lucrezio, il fatto essenziale è che in un'età in cui lo scrittore piu colto
(Varrone) e lo statista piu eloquente (Cicerone) erano d'accordo sulla utilità
d'ingannare il popolo in fatto di religione, egli rivolge le forze della sua
cultura e della sua eloquenza a sostenere l'opinione contraria. Manifestò
apertamente l'intenzione di fare quanto è possibile a un uomo per liberare la
mente umana dai vincoli della religione, e scongiurare i suoi compagni di non
macchiare la loro anima con quell'abominio." Eppure, non va sottovalutato,
accanto al Cicerone uomo politico e legislatore, la cui opzione per un certo
mo- dello filosofico e_ culturale assume un significato preciso quando lo si
veda in funzione di una certa politica e di una certa difesa, l'altro aspetto
di Cicerone, problematico e scettico, la funzione da lui data alla filosofia
come possibilità di proporre un ordine che è dover essere, e, alla fine, sia
pur per altra via, un rifugio dalla tristezza della vana vita quotidiana.Quella
decina d'anni fu ancora peggiore di quella in cui LUCREZIO scrive il suo poema,
ancora piu pericolosa. Si chiarisce allora come l'influenza lucreziana, insieme
a quella di Sirone e di Filodemo di Gàdara, si sia piuttosto sviluppata in
senso negativo, cioè in una giustifi- cazione dell'abbandono dalla vita
politica attiva, in un rifugio in con- venticole di amici, o nel crearsi mondi
a parte mediante la poesia. Sembra, perciò, di non poco interesse il fatto che
proprio coloro che sappiamo essere stati i maggiori epicurei romani sono morti
vittime delle lotte civili, o, a poco a poco, si sono tutti ritirati dalla
politica attiva. Poco o nulla sappiamo- dopo Amafinio, Rabirio, Cazio - dei
primi: T. Albucio, ritenuto un grecomane, che per un certo periodo fu
propretore per la provincia di Sardegna, e che, condannato per estor- sioni, si
rifugiò ad Atene, abbandonando ogni velleità politica, detto da Cicerone
"perfectus epicureus," (Brutus) e autore di scritti a carattere
epicureo; C. Velleio, senatore e tribuna della plebe nel 91, a cui Cicerone nel
De natura deorum fa difendere la tesi epi- curea; Tito POMPONIO Attico, di
nobilissima fa- miglia, compagno di studi di Cicerone'e, poi, sempre, suo amico
(ad Attico Cicerone dedicò il De amicitia e il De senectute, e a lui scrisse
moltissime lettere, raccolte in 16 libri), evitò la vita politica: per sfug-
gire anzi alle lotte interne, visse ad Atene e, tornato in Roma, rimase
neutrale durante le guerre civili, facendosi editore, il primo editore romano.
E cosi, lontano da Roma, ad Atene, dedito agli studi, visse un altro epicureo,
Lucio Saufeio, cdsf L. Calpurnio Pisone - intorno a cui, presso la sua villa di
Ercolano, s'era formato il notissimo circolo epicureo, avversatissimo da
Cicerone (cfr. In Pisonem), il quale a fosche tinte dipinge il suo gregge epicureo,
il suo porcino circolo, ma anche la sua semplicità di vita - che console e censore,
s'era adoperato per impedire la guerra tra Cesare e Pompeo, e rinnovò i suoi
sforzi per impedire nuove guerre civili, dopo il 43 definitivamente abbandonò
ogni azione, rifugiandosi nella sua villa di Ercolano, insieme agli amici
epicurei. Vibio Pansa, amico di Cicerone, tribuna e console, mori a Modena,
combattendo contro Antonio; L. Manlio Torquato, pretore, console, procon- sole,
senatore, pompeiana, si uccise nel 46; Statilio mori a Filippi; Cassio, che
insieme a Bruto, stoico, uccise Cesare, si suicidò a Filippi; Egnazio, seguace
di Lucrezio, che tenne in Roma una scuola di retorica e di grammatica,
abbandonò Roma e, insieme a Rutilio Rufo, si recò a Smirne. Papirio Peto è
posto da Cicerone (Pro Sestio) tra i combibones epicurei. "Ad uomini
tormentati dalle miserie di guerre civili atroci," ha scritto il Boyancé,
L'épicurisme, "dal crollo delle tradizioni ancestrali, la vita epicurea
offriva una specie di porticciolo e di rifugio. L'ambizione scatenata faceva
l'infelicità ad un tempo di coloro che n'erano presi e di coloro ch'erano
condannati a servire loro da stru- menti. Tale ambizione era gravida di scacchi
e di rischi mortali. Quanti pochi tra gli uomini illustri di questo tempo sono
in effetto pacifica- mente morti nel loro letto! Nessuno dei triumviri del
primo triumvirato, né Crasso ucciso in una guerra lontana, ove l'aveva
trascinato la sua ambizione, né Pompeo assassinato a Farsalo da un re
satellite, né Cesare crivellato di colpi in pieno Senato. Dei due piu grandi
avversari dei triumviri, l'uno, Catone, si era suicidato a Utica, l'altro,
Cicerone, do- veva esser messo a morte dai sicari di Antonio. Si comprende che
la vita non era mai apparsa piu minacciata nelseno stesso della città e mai
l'insegnamento di Epicuro sul timore della morte non era apparso piu attuale.
Né tanto piu, anche, era sembrato, in presenza delle incoe- renze e dei crimini
della storia, che gli dèi si disinteressassero degli uo- mini. O se ci
s'immaginava che intervenissero nei loro affari, quali mai dèi sarebbero stati!
Quali dèi crudeli e gelosi! Il messaggio di Epicuro si fece ascoltare in tale
atmosfera, in virtu di filosofi greci come Filo- demo o Sirone, in virtu anche
di Lucrezio." Non solo, ma se Lucrezio aveva sottolineato con forza
l'aspetto rivoluzionario dell'epicureismo, aveva anche tracciato il modello di
una "vita" epicurea, che, a parte i fondamenti dottrinari, si
avvicinava non poco al modello di "vita" stoico, sganciato anch'esso
dai suoi fondamenti dottrinari e rispondente, piu tardi, quando dopo Ottaviano
Augusto e Tiberio il principato si trasformò davvero in impero e in dispotismo,
all'esigenza di fuga dal mondo, per cui un Seneca potrà essere stoico
accettando in gran parte certi aspetti del modello di vita epicureo, mentre i
circoli epicurei, in Roma, assumeranno sempre di piu il carattere di chiese, di
isole, di rifugi. Aveva, dunque, cantato Lucrezio: E tu potresti, talora, dire
anche questo a te stesso: "O miserabile, chiuse gli occhi persino il buon
Anco, che fu migliore di te per tanti aspetti; e in gran numero di poi morirono
re, principi, gente potente che in mano ebbe le sorti di grandi popoli. Ed
anche colui [Serse] che un giorno apri per l'ampio mare una strada, e
sull'acqua fece passar le legioni... E il fulmine di guerra, lo Scipionide che
fu il terror di Cartagine, rimise l'ossa alla terra, come il piu vile dei
servi. Aggiungici i pensatori, gli artisti e quanti han seguito le Muse...
Finito il lume mortale, mori lo stesso Epicuro... Saresti dunque tu ch'esiti e
che ti crucci al morire?... Quando potessero gli uomini, al modo come
nell'animo sentono il peso che con la propria gravezza li opprime, cosi sapere
da che causa ciò avvenga, e donde la macina, direi, si grande del male ci sta
sul petto, vivrebbero non come i piu vivono oggi, che ignorano quello che
vogliono e non domandano di meglio che mutar sempre di luogo, come se fosse
possibile, cosi, deporre il fardello. Questi, venutogli a noia lo stare in casa,
esce fuori dai sontuosi palazzi e torna subito indietro, perché non trova
affatto che si stia meglio fuori. Quello, sferzando i puledri, corre di furia
alla villa come dovesse salvare il fabbricato che brucia, e già sbadiglia che
ancora non ne ha toccato la soglia, o casca morto dal sonno e cerca a letto il
riposo, oppure volta e rientra di gran carriera in città. A se stesso cosi
ciascuno sfugge; ma, contro voglia, a se stesso ciascuno resta legato, al sé
cui non si sfugge; e, com'è logico, lo odia, perché non vede il malato qual è
la causa del male. Se la vedesse, ciascuno, lasciata ogni altra faccenda, si
sforzerebbe anzitutto di penetrare la natura, perché v'è in giuoco lo stato del
tempo· eterno, non quello di un'ora sola, e la sorte in cui dovranno trovarsi,
per il tempo eterno che avanza dopo la morte, i mortali. E proprio per questo,
al principio del.secondo libro, Lucrezio aveva detto, delineando la possibile
vita del saggio epicureo: Dolce è guardar dalla riva, quando i venti
sconvolgono l'ampia distesa del mare, l'altrui gravoso travaglio, non perché
faccia piacere che uno si trovi a soffrire, ma perché scorgere i mali di cui
siamo liberi è dolce: e dolce è assistere, senza che si partecipi al rischio,
agli aspri scontri di guerra in campo aperto: ma nulla è dolce piu dello
starsene nei ben muniti luo- ghi che edificò la serena speculazione dei saggi,
donde è concesso guardare gli altri dall'alto. Tale, anche per le sempre piu
gravi vicende politiche, fu, dopo Lu- crezio, la linea su cui si posero i
gruppi degli epicurei della nuova generazione. A parte Orazio, particolarmente
interessante e indicativa sembra la doppia faccia di Virgilio, che, epicureo da
gio- vane (almeno come atteggiamento), vicino al circolo napoletano di Si- rone
e di Filodemo, si venne poi indirizzando a una visione del mondo e delle
vicende umane (anche se non dottrinariamente) di carattere stoi- cheggiante.
Nel V componimento del Cataleptqn, Virgilio, giunto a Napoli, dopo il suo
soggiorno a Roma, dove s'era iniziato agli studi di retorica, ed entrato in
contatto con Sirone e con quella scuola, di- chiara di avere volto le spalle
alle "ampullae rhetorum" (v. 1), a quella cultura che, in Roma,
doveva avviarlo alla carriera politica (inanis cymbalon iuventutis: v. 5), per
abbracciare, contro la "natio scholasticorum" (v. 4), gl'insegnamenti
di Sirone: nos ad beatos vela mittimus portus, magni petentes docta dieta
Sironis, vitamaue ab omni vindicabimus cura. Si era nel 45 a. C. Le Bw;oliche,
composte tra il 41 e il 39, se da un lato indicano ancora l'influenza epicurea
nell'ideale di una pacificante natura, in cui rifugiarsi ("Tityre, tu
patulae recubans sub tegmine fagi, silvestrem tenui meditaris musam
avena..:": l, l sgg.), dall'altro lato mostrano, di contro alla possibile
disperazione epicurea (il mondo umano lasciato a se stesso), la speranza
nell'immortalità çlel- l'anima, che porterà all'uomo una serenità piu alta,
l'esigenza di com- prendere la natura come un tutt'uno con l'uomo (con accenti
molto vicini all'anima mund; di Lucrezio, alla sua umanizzata e vi- vente
natura, ma già reinterpretata in senso stoico), onde nelle Georgiche (composte
su invito di Mecenate e di Augusto), e tanto piu, poi, nell'Eneide, riappare il
motivo della Provvidenza, della pietas, della purificazione dell'anima
immortale attraverso il do- lore e la morte, della speranza in un al di là in
cui saranno premi o pene (la descrizione dell'Ade orfico è in genere ricavata
dal VI del- l'Eneide), del destino di Roma, dell'imperium di Roma che, mediante
il suo princeps (il simbolico pio Enea), porterà pace, ordine e civiltà nel
mondo, compiendo la ragion d'essere, la legge del tutto: tu regere imperio
populos, romane, memento - hae tibi erunt artes - pacique imponere morem,
parcere subiectis et debellare superbos (Aen.). Se è, senza dubbio, vero, com'è
stato detto e si ripete che "il poeta partito da posizioni epicuree,
attraverso la meditazione del dolore come retaggio comune all'umanità, è giunto
ad intendere provvidenzialmente il destino e a ravvisare nel mondo la legge di
una superiore giustizia che è legge di superiore bontà" (L. Alfonsi, s. v.
in Enciclopedia filosofica), è altrettanto vero che non va scordata l'ascesa al
potere di Au- gusto, di quell'Ottaviano del quale già nelle Bucoliche Virgilio
aveva detto: "un dio, oggi, a noi dette questi ozt". Se il modello di
vita, assunto da Orazio, entro i termini dei rifugi epicurei, si scoloriva in
un atteggiamento di pacato intimismo e di sor- ridente umiltà (forse la celebre
dichiarazione di Orazio d'essere un "porco del gregge di Epicuro,"
Epist., l, 4, 16, va veduta nel significato che gli antichi davano a porco,
l'animale che si contenta di poco: cfr. Pla- tone, Repubblica; ma non va
scordato peraltro il Carmen saecu- lare), il modello di vita virgiliano finiva
in unl.accettazione del supremo ordine, dell'equilibrio nuovo, della rinnovata
pietas, della religio, voluti da Augusto, e identificantisi in lui - in un
compimento del cicero- niano ideale scipionico - correttore e salvatore della patria,
princeps della res-publica, pater patriae. 4. Politica e cultura all'avvento di
Augusto Cesare fu ucciso/ Dopo quattordici anni di nuove lotte terribili, di
proscrizioni e di gratuite morti, di alleanze e rotture, nel 30 a. C., dopo la
battaglia di Azio, Ottaviano rimase arbitro della situazione. Sembrò, certo,
che solo attraverso lui e la sua abile e privata politica fosse possibile
ricostituire l'equilibrio e l'armonia, avere la pace. Egli apparve cosi come un
patrono, protettore dei sudditi e, perciò, moderatore e princeps. Si sarà
veduta, in lui, non solo la possi- bilità di salvar(' la res-publica, ma, dando
ad Augusto il patronato uni- 157
versale, l'unica possibilità di una pax e di una libertas, anche se relati-
vissime, che pur erano molto, rispetto al terrore di prima. Paolo Frezza,
commentando come Augusto presenta il suo potere nelle Res gestae: (l l, Annos
undeviginti natus exercitum privato èonsilio et privata i m pensa comparavi,
pel" quem rem publicam [ a do ]minatione factionis oppressam in libertatem
vindica[vi]. - XXV 2. Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua et me
he[lli], quo vici ad Actium, ducem depoposcit. Iuraverunt in eadem ver(ba
provi]nciae Galliae Hispaniae Africa Sicilia Sardinia. In consulatu sexto et
septimo, p[ostquam bella civil]ia extinxeram, per consensum universorum
(potitus rerum omni]um, rem publicam ex mea potestate in senat[ us] populique
Romani arbitrium transtuli); e richiamando la cosiddetta lex de imperio
Vespasiani: ("la legge ricorda ad uno a uno i poteri straordinari
conferiti da senato e dal popolo a Vespasiano: ciascuno di questi poteri o
facoltà eran stati esercitati anche da Augusto: e il documento si riferisce a
questo fan. come precedente della concessione attuale"); ha finemente
sottolineato il duplice aspetto con cui si determina potere di Augusto e il
possibile conflitto tra il principe e le magistr ture della Città Stato, donde
l'esigenza da parte del legislatore di dete minare la "costituzionalità
del potere del principe: la sua commensur bilità con la conformazione dei
poteri costituiti ed attribuiti in ser all'ordinamento della città-stato"
(Frezza, Per una qualificazione is; tuzionale del potere di Augusto, in"
Atti e Memorie dell'Accad. Tosca.t di Scienze e Lettere la 'Colombaria'," Firenze).
Da un lato Augusto, privatamente salvatore della res-publica, del Stato-Città
(e, dunque, di tutte le sue magistrature), perciò stesso p· essere acclamato
patrono protettore, onde i cittadini si assoggettano lui come clienti;
dall'altro lato Augusto ritrasferisce le potestà su di assunte, con un atto di
sua volontà, all'arbitrio del senato e del popolo romano. Solo che Augusto,
proprio perché acclamato universalmeJ princeps e patrono (non particolarmente,
come nel caso del rappo cliente patrono) e ritrasferendo al Senato e al Popolo,
con un atto propria volontà, la potestà assunta, rimaneva arbitro dello Stato
proc mandosi ragion d'essere (heghemonikon, princeps) dello stesso Stato,
svincolava da ogni legame giuridico-istituzionale, e assumeva cosi in tutto il
potere, essendo egli cioè l'istituzionalità medesima, egli là del Senato e del
Popolo, con il suo potere esplicantesi attraverso il Se-. nato e il Popolo,
egli, appunto, princeps rei publicae. Con ciò, evidente- mente, la Città-Stato
cessava d'essere tale, mentre i cittadini cesseranno d'essere cittadini per divenire
sudditi e i magistrati magistrati pèr dive- nire via via funzionari dell'impero
e del sovrano. " La necessità che il principio polarizzatore delle
istituzioni dello Stato-Città, e il principio regolatore delle istituzioni del
principato, rima- nessero l'uno all'altro opposti, ed insieme la necessità di
ottenere da una sintesi dei due opposti principi, le soluzioni dei problemi in
cui si pre- sentava il contenuto della nuova esperienza dello Stato: questa è,
se non m'inganno, l'antinomia da cui si genera l'evoluzione storica del
principato, ed in cui si puntualizza il limite- della consapevolezza che gli
artefici dell'ordinamento nuovo ebbero dell'esperienza di cui essi stessi erano
i modellatori. Del quale ordinamento il carattere fonda- mentale è dunque la
duplicità. Da una parte il primordiale sistema istituzionale del potere del
principe, che si riassume nella elementare affermazione di un sol soggetto di
tutto il potere di fronte ad una totalità di sudditi, nella quale tende a
scomparire la differenza fra il suddito e il civis. Da un'altra parte il
raffinato. ma non piu autonomo, sistema istituzionale dello Stato-Città, in
cui, come in un prisma, il totale e totalitario potere del principe si scompone
in una molteplicità di settori di azione, di competenze, di limiti
istituzionali all'esercizio del potere medesimo... Lo sviluppo della storia del
principato, di cui la storia giuridica è un aspetto, si incarica di dimostrarci
che, a misura che il potere del principe si va consolidando come ordinamento,
ossia come sistema di rapporti costanti, lo Stato-Città, come soggetto com-
presente nella formula dell'equilibrio dinamico della costituzione del
principato... tende a scomparire. L'allontanamento dei cittadini dal-
l'esercito, e dei senatori dai comandi militari, l'accesso dei provinciali al
trono imperiale, e l'immissione sempre piu massiccia di provinciali nelle file
della classe dirigente, la formazione di una nuova solida gerar- chia di alti
ufficiali dell'impero, ai quali soltanto incombe la funzione di governo, agli
ordini del sovrano, sono, com'è noto, i fenomeni com- plementari del
progressivo scomparire del senato e della magistratura di Roma dalla direzione
politica dell'Impero" (Frezza). Ci siamo un momento soffermati, da un lato
sulla situazione psi- cologica che ha potuto determinare l'accettazione del
potere di Augusto, e, dall'altro lato, sulla stessa determinazione della
qualificazione istituzionale-giuridica del suo potere, perché sembra che tutto
questo possa servire a spiegare - attraverso le componenti culturali, di cui si
è veduto il confluire e l'intrecciarsi - il prevalere in quest'ultimo scorcio
di secolo, e ancora nel primo quarantennio circa del 1 d.C., di posizioni
stoico-platoniche, entro la linea che abbiamo visto svilupparsi con Cicerone, e
che esattamente rispon- devano e servivano a ben precise situazioni politiche,
particolarmente quali si erano venute determinando con il prevalere di Augusto
e con la sua linea tattica. Non sembra cosi un caso che Augusto riprendesse il
termine di princeps, che si proclamasse primus inter pares, proprio per il
motivo, che sopra abbiamo visto, di porre sé al di sopra (donde il titolo di
augustus) e al di là del Senato e del Popolo, assumendo in tal modo un potere
extra res-publica, per cui davvero si costituiva un'egemonia dei due termini e
delle magistrature, dei quali Augusto rimaneva l'egemone, il princ~tJs. Il
termine heghemonik_6n, già da Ci- cerone reso in latino con principatum, stava
a indicare, nelle posizioni stoiche di questo periodo, la ragione universale,
non come principio a ~ ma come atto unificante una molteplicità, secondo un
ordine, ed esplicantesi mediante diverse funzioni, onde si poteva dire che la
ragione del tutto (il 16gos) veniva a porsi prima inter pares, in sé
riassumendo le parti e dando alle parti. il loro giusto posto nell'or- dine del
tutto. E tale, si come Cicerone aveva fatto apparire l'Emi- liano, Augusto,
anche se con abile sottinteso, voleva fare apparire sé, ragion d'essere dello
Stato, principio d'ordine e di equilibrio, non uomo del senato e del popolo
(cui rende la res--publica), ma di ambedue cor- rettore e principe. E si badi -
anche questo è indicativo - che nei paesi ellenistici (non in Roma) Augusto veniva
chiamato basiléus, re, e ciò tanto piu si chiarisce quando si pensa al
significato che al re si era venuti dando nelle monarchie ellenistiche (cfr.
sopra). E cosi non è, forse, solo un caso che il filosofo di corte, assunto da
Augusto, suo consigliere e consigliere (una specie di confessore) della moglie
di Augusto, sia stato uno stoico, Ario Didimo di Alessandria (cfr. Diels,
Dox.). E qui è forse interessante riferire un estratto dell'Epitome di Ario
Didimo, riportato da Eusebio (Praep. ev.), in cui Ario Didimo, in sintesi,
delinea la concezione generica dello stoicismo: Chiamano dio l'intero cosmo con
le sue parti. E dicono che il cosmo è unico, limitato, vivente, eterno e
divino. In esso infatti sono contenuti tutti i corpi, e nessun vuoto esiste in esso.
~ chiamato cosmo non 5olo il qt~ale costituito da tutta la sostanza esistente;
ma anche ciò che secondo un'ordinata disposizione ha una struttura di tal
genere. Perciò, secondo la prima definizione, dicono che il cosmo è eterno;
secondo l'ordinata dispo- sizione, lo definiscono generato e mutevole secondo
infiniti periodi, passati e futuri. E la qualità costituita da tutta la
sostanza esistente è il cosmo eterno e divino. Ma è detto cosmo anche l'insieme
costituito di cielo, aria, 160 terra, mare e delle nature che sono
in ciascuno di questi elementi. t detto cosmo anche il domicilio degli dèi e
degli uomini, ovvero l'insieme costi- tuito (dagli dèi e dagli uomini), e dalle
cose che sono nate in vista di quelli. Infatti, a quel modo che diciamo città in
due sensi, come domicilio e come insieme degli abitanti e dei cittadini, cosf
anche il cosmo è come una città costituita di dèi e uomini, in cui gli dèi
hanno il governo e gli uomini sono i sudditi. Tra gli uni e gli altri v'è
comunione, perché partecipano della ragione, che è legge di natura. Tutte le
altre cose sono nate in vista di quelli. E in accordo con tutto ciò bisogna
ritenere che degli uomini si prenda cura dio che governa l'universo [si
confronti anche Platoae, Leggi.], che è benefico, buono, amante degli uomini,
giusto,, e che ha tutte le virtu. Perciò il cosmo è detto anche Zeus, essendo
per noi l'autore della vita (z~n). In quanto dio fin dall'eternità governa
tutte le cose ineluttabilmente con una ragione concatenata, è detto Fato. t
detto Adrastea,. poiché niente può sfuggirgli [apodidrtiskein]. t detto
Provvidenza, perché ha cura di ciascuna cosa secondo i singoli interessi.
Cleante credeva che· parte dominante [egemonica] del cosmo fosse il sole,
perché è il piu grande· degli astri e quello che massimamente contribuisce al
governo dell'universo,. dando origine al giorno, all'anno e alle altre
divisioni di tempo... Crisippo· identificò questa parte con l'etere purissimo e
semplicissimo, perché è il piu mobile di tutti gli elementi e trascina in giro
l'intera traslazione del' cosmo (Dossografi greci, a cura di L. Torraca,
Padova).. Certo bisogna tener presente che quando si dice stoicismo o plato-
nismo, o stoicismo platonico, o anche aristotelismo stoicheggiante o·
platonizzante, in effetto diciamo qualcosa di molto vago, se non inten-· diamo
una vaga visione d'insieme, uno sfondo culturale, ormai cristal-· lizzatosi ed
estremamente diffuso sia nelle scuole, sia in manualetti di. massime, sul tutto
e sulla vita pratica, circolanti presso il popolo, com'è· largamente
testimoniato. Tale visione d'insieme e legale di un universo• vivente, poteva
poi servire, sia sul piano del diritto e del potere poli- tico, sia sul piano
dei singoli insegnamenti e dell'avviamento nelle scuole, da un lato ad una morale
comune e religiosa, dall'altro lato alle tecniche formali del dire (grammatica,
retorica e dialettica) e alle sin- gole tecniche pratiche (le cosiddette
singole scienze); essa risulta compen- diata in manuali che, usando cognizioni
e notizie acquisite, assumono l'aspetto di repertori e di centoni. Se ciò si
vede bene, nel suo aspetto particolare, ad esempio nel tipo di geografia
descrittiva e umana di Strabone, a carattere enciclopedico e informativo, ove
non v'è piu nulla degli interessi mate- matico-scientifici che avevano mosso un
Eratostene e piu tardi Cratete di Pergamo e Agatarchide di Cnido, altr.ettanto
bene ci rendiamo conto di tutto questo anche dalle testimonianze e dai pochi
frammenti che poS5ediamo di Eudoro di Alessandria e di Ario Didimo. Vissuti
nella seconda metà del 1 secolo a. C., il primo piu vicino a forme platoniz-
zanti tipo Antioco di Ascalona (ad Antioco successero nello scolar- cato
dell'Accademia, mantenendosi sulla stessa sua linea, Aristone di Ascalona,
ascoltato da Bruto e da Cicerone, e Teomnesto di Naucrati), il secondo a forme
stoicheggianti (sembra che lo stoicismo ufficiale della scuola di Atene si sia
mantenuto, con gli scolarchi successi a Panezio, Mnesarco, Apollodoro di Atene,
Dionisio, Anti- patro di Tiro, sulla linea di Panezio), l'uno e l'altro hanno
scritto dossografie, opere filosofiche a carattere enciclopedico, commenti al
Timeo, di Platone, alle Categorie e ad alcune parti della Metafisica di
Aristotele (Eudoro: cfr. Simplicio, Schol. in Arist., 6la, 25; Plutarco, De
anim. procr. in Tim., III, 2; Alessandro, Metaph., 44, 23), epitomi (Ario
Didimo: cfr. Doxographi del Diels). Entro, appunto, questa concezione comune
platonico-stoica, con ve- nature proprie alla scepsi della nuova Accademia, in
senso ciceroniano (cfr. sopra: e Ario Didimo in Stobeo, Ecl.; Diels, Dox.), si
determinava un tipo di cultura enciclopedica, per cui poteva servire Aristotele
(partico- larmente i libri di logica, usati come introduzione all'arte del
retto ragionare, e i libri naturalistici, biologici, zoologici, meteorologici),
sr come Panezio o Posidonio, e, in specie, i commenti scolastici ai grandi
testi, e, insieme, le dossografie, le epitomi, le raccolte di questioni trat-
tate per problemi e divise per scuole, secondo un capostipite nella cui linea
si facevano rientrare i successori (tale metodo s'era diffuso, sul- l'esempio
di Teofrasto, tra il 111 e il u secolo a. C., mediante la Successione dei
filosofi: dtcx3o:x,~ -rClv cpr.ì.oaO<p(J)V, del peripatetico Sozione
originario di Alessandria, che aveva distinto due scuole, l'ionica e l'italica,
e che fu una delle fonti maggiori cui attinsero i compilatori posteriori, fino
a Diogene Laerzio). Un esempio di tali motivi è rappresentato dall'edizione che
delle opere scolastiche di Aristotele, ritrovate nel 133 a.C., a Scepsi (cfr.
sopra, I vol.), consegnate dagli eredi di Neleo al libraio Apellico (che dal
100 circa, portatele ad Atene, le offrf in pubblica lettura) requisite da Silla
nell'86 a. C., fece, insieme al grammatico Tirannione, Andro- nico di Rodi
(scolarca: dopo Critolao erano stati scolarchi Diodoro di Tiro ed Erimneo, dei
quali poco o nulla sappiamo). Basti, nel sen~ di cui sopra parlavamo, ricordare
quel che Porfirio dice del criterio usato da Andronico: "Egli divise le
opere di Aristotele e di Teofrasto in argomenti (1tpor:yjL«u(~), mettendo
insieme sotto titolo comune le specula~ioni che trattavano argomento affine
(-r~Ì4; o!x&tcxç 01to-&éaetç etç -rcxù-ròv auvcxycxyci>v) (Vita di
Plotino); e basti pensare all'ordine con cui si venne a costituire il corpus
aristote- lico (Organon, Fisica, De coelo, De genesi et corruptione, Meteorolo-
gica, De anima, Parva naturalia, libri sugli Animali, Metafisica, Etica
Nicomachea, Magna moralia, Etica Eudemea, Politica, Retorica, Poe- tica). Se da
un lato è chiaro l'intento di volere istituire il libro della scuola
peripatetica (altrettanto sintomatico è che proprio in quest'epoca venga edita,
a cura di Attico e di Dercillide, sulla linea dell'edizione di Aristofane di
Bisanzio, l'opera di Platone, divisa in tetralogie, da cui riprese poi
Trasillo, vissuto sotto l'imperatore Tiberio, il cui Corpus platonicum sarebbe
poi quello giunto fino a noi), dall'altro lato è chiaro l'intento di offrire
una enciclop.edia delle scienze unificate, in un unico sistema. E ciò non
significava affatto che, a cornice del quadro aristo- telico, della divisione
della filosofia (come cultura di fondo) in logica, fisica, etica, non potesse
servire la struttura generale dell'universo, entro i termini teologico-ontici e
del tutto vivente, dell'ultimo Platone, di certi stoici e dell'Aristotele di
alcune parti della Metafisica, oltre quello ch'era stato il platonismo, il
primo stoicismo, l'aristotelismo. Di qui, anche, l'importanza delle
introduzioni alle visioni totali di un cosmo ordinato e, perciò,
all'astronomia; e le relative sinopsi sco- lastiche. Edizioni di testi, dunque,
introduzioni generali, sillogi. Certo quel che colpisce, e che rivela tutto un
modo di pensare rispondente a certe precise esigenze, è ciò che si pubblica,
sono i testi che circolano e si commentano: Platone, Aristotele; il complesso
della visione stoica quale si era venuto conformando nel tempo; per altra via
si costrui- scono testi pitagorico-matematici, testi religiosi che vanno sotto
l'eti- chetta di testi orfici, particolarmente si commenta, e non è poco indi-
cativo, il Timeo di Platone, le Categorie di Aristotele, testi di astro- nomia;
mentre si vanno perdendo, o si accantonano, almeno ufficial- mente, le altre
linee che avevano costituito altre filosofie e concezioni. Non è forse senza
interes_se ricordare a tale proposito il nome di Boeto di Sidone (detto "
peripatetico, " per non confonderlo con Boeto di Sidone stoico), discepolo
di Andronico di Rodi, amico di Strabone, successo, sembra, alla morte di
Andronico nello scolarcato del Peri- pato di Atene. Egli avrebbe scritto una
serie di commenti, a carattere interpretativo e divulgativo, alle opere di
Aristotele, con particolare riguardo alle Categorie (cfr. Ammonio, In Cat.).
Fondamentàli testimonianze di tutto questo sono tre opere, di non alto valore
scien- tifico, L'introduzione ai fenomeni (Eta«y(J)yYJ et<; -.a ql«tV6fUV«),
composta tra il 70 e il 63 a. C., di Gemino di Rodi, la Teoria circolare dei
corpi celesti (Kux).~x1J.3-e:(J)pt« (l&-r&6:ip(J)v) di Cleomede, e,
infine, il De mundo (Ilept x6a(lOU), che andato sotto il nome di Ari- stotele e
inserito nel Corpus aristotelico, venne compilato tra la seconda metà del I
secolo a.C. (certo dopo l'edizione di Aristotele da parte di Andronico, e
dunque, dopo il 40 a. C.) e il I secolo d. C. (ri- sulta già noto nella
Dialexeis di Massimo di Tiro, la cui attività si svolse tra il 180 e il 190 d.
C., ma già contro di esso avevano polemiz- zato Taziano, morto nel 172 e
Atenagora, morto nel 177, mentre nel De mundo si rilevano chiare influenze di
alcuni testi di Filone l'Ebreo, vissuto tra il 25 avanti e il 40 dopo Cristo:
ma su tutto questo, e sulle varie tesi cfr. Festugière). I primi due testi sono
vere e proprie introduzioni scolastiche al- l'astronomia, ove, in effetto, non
v'è nulla di nuovo, ma dove colpisce il tentativo di inquadrare le descrizioni
dei fenomeni celesti (si badi che si resta sempre sul piano descrittivo) entro
una piu ampia conce- zione dell'universo, che è, poi, quella stoico-aristotelica,
con non pochi spunti ripresi dalla tradizione che proveniva dal Timeo
platonico, dal- l'Epinomide e, probabihnente, da alcune ricerche di Posidonio,
ch'era pur sempre un tentativo di razionalizzazione dell'Universo. Il De mundo
ha maggiori velleità, e si presenta come delineazione compiuta e sistematica
dell'ordine del tutto, una specie di libro sapienzale, in cui se da un lato si
sfruttano le conclusioni aristoteliche sul piano fisico-meteorologico (mondo
superiore, immobile e ordinato, regione sublunare corruttibile e disordinata,
etere quinto elemento, eternità del mondo), dall'altro lato si sfruttano certe
tesi stoiche (il pneuma, la Prov- videnza, Dio legge dell'universo, l'universo
come l'insieme del cielo e della terra con tutti gli esseri ivi contenuti), e
certe tesi platoniche (Dio principio, mezzo e fine), in funzione di una unità
sistematica, mediante cui si po~eva - sul piano di un Antioco - vedere in Ari-
stotele e nello stoi~ismo un compimento del platonismo. Sotto questo aspetto,
il De mundo, che si apre con un elogio della sapienza, per passare quindi a
descrivere la struttura dell'universo, i suoi elementi, le regioni di tali
elementi, i fenomeni propri a ciascuna regione, sostenendo l'unità ed eternità
del Cosmo, il suo ordine, la sua unica ragion d'essere, che è la stessa
divinità, trascendente (l'altis- simo) e immanente a un tempo, che tutto
governa e donde provengono tutti gli effetti, Dio, platonicamente principio,
mezzo e fine del tutto, poteva assumere, davvero, la funzione di libro di
scuola, ov'era, in linee chiare e facili, esposta quella cultura di fondo di
cui abbia,mo parlato. Altri punti del De mundo, ha sottolineato il Festugière,
avranno un gran posto nella letteratura teolo- gica dei due primi secoli
dell'Impero, e particolarmente nell'ermetismo, e cioè: l'eminente dignità di
Dio; l'unicità di Dio; la polionimia di Dio. Dirà Seneca. Gli Etruschi, antenati
dei romani, hanno riconosciuto lo stesso Giove, come noi, moderatore e guardiano
dell'universo, anima e soffio vitale del mondo, signore e architetto di tale
produzione, colui al quale ogni nome si addice. Vuoi chiamarlo Destino? Non
t'in- gannerai: da lui tutto dipende, egli causa delle cause. Vuoi chiamarlo
Provvidenza? Sarà detto bene: per suo consiglio si è provveduto ai bisogni di
questo mondo, s1 che nulla ne turba il cammino ed egli senza ostacolo svolge il
corso delle proprie azioni. Vuoi chiamarlo Natura? Non è errato: da lui tutto è
nato, il soffio di lui ci anima. Vuoi chiamarlo Mondo? Non avrai torto: egli è
questo Tutto che vedi, che penetra ciascuna delle sue parti, che è a fondamento
di sé e di tutto ciò che è in lui" (Naturales quaest., Il, 45). Aveva
detto Varrone: "Bisogna tener presente che tutti gli dèi e le dèe sono il
solo Giove, o che, come vogliono alcuni, tutte queste cose siano parti di Dio,
o che siano potenze di Dio, secondo l'opinione di coloro che fanno di Dio
l'anima del mondo. Tutta la vita universale è la vita d'uno stesso Essere
vivente, che contiene tutti gli dèi che sono po- tenze, membri, o parti"
(Agahd). Il De mundo si colloca, anche cronologicamente, tra questi testi di
Varrone e di Seneca, rispecchiando assai chiaramente la koinè cultu-
rale-politica quale si venne configurando tra la fine del 1 secolo a. C. e la
prima metà del I secolo d. C., e l'importanza, piu che scientifica
teologi~politica, assunta dagli studi di astronomia e di questioni na- turali,
che, per il resto, usando notizie acquisite, si delineano in ma- nuali di
volgarizzazione e in repertori scolasticamente utili, in summe di un sapere
ormai istituzionalizzato. E cosi sembra di non poco inte- resse il termine
architetto usato da Seneca per indicare la divinità, che se da un lato richiama
la moralità come architettura di aristotelica memoria, dall'altro lato dà il
significato esatto di questa visione misu- rata e normativa dell'universo, cui
ha da adeguarsi l'uomo e la società e l'opera stessa dell'uomo,
indipendentemente ormai, in una certa atmosfera culturale acquisita, da
dimostrazioni e da prove, valida, invece, come dato di fondo su cui poi
ciascuno deve svolgere il proprio mestiere, mettere a frutto le proprie
particolari cognizioni. E qui, in ispecie, pensiamo alla prima scuola
filosofica che si apri in Roma, proprio tra la fine del I secolo a.C. e i primi
anr1i del I d. C., fondata da Quinto SESTIO (si veda), cui successe, nella
direzione, il figlio Sesto (forse Sertius Niger, indicato da Plinio quale fonte
dei libri dodici, tredici, ventuno-trenta, trentadue-trenta- quattro, della
su.a Storia naturale) e, perciò, detta poi la "Scuola dei Sestii."
Breve fu la durata della Scuola. Per quel poco che sappiamo di essa, attraverso
Seneca, che, nel 18-20 d. C., fu discepolo di Sozione di Alessandria, aderente
alla Scuola dei Sestii; e di Fabiano Papirio, anch'egli della Scuola, e di cui
Seneca dice che non è filosofo cattedratico, ma vero filosofo all'antica (De
brevitate vitae) e per qualche testimonianza di Stobeo, possiamo -indicare la
Scuola come configurantesi entro i termini del piu generico stoicismo, che
soprat- tutto doveva servire da fondamento all'insegnamento etico, alla forma-
zione del cittadino, e da fondamento all'insegnamento di materie par- ticolari:
questioni naturali, politiche, retoriche, di medicina (ricor- diamo di Fabiano
i titoli pervenutici di alcune sue opere: Libri cau- sarum naturalium, De
animalibus, Libri t:ivilium), di cui abbiamo un esempio nell'opera di Aulo
Cor~elio Celso della Scuola dei Sestii. Celso, vissuto tra Augusto e Tiberio,
scrisse una grande enciclopedia, di cui non è rimasto che il volume De re
medica, già esso estremamente indicativo di un metodo e di un tipo di richlesta
(gli altri volumi erano dedicati all'agricoltura, all'arte militare, alla
retorica, alla filosofia e al diritto). Il De re medica (in otto libri) non è
affatto opera origi- nale - si pensa anche che sia la traduzione di un'opera
medica in greco, torse, secondo Max Wellmann, Celsus, in "Philol.
Untersuch.," Berlino, 1913, di un certo Cassio, andata persa - ma, a parte
il suo valore come fonte per la storia della medicina e delle scuole mediche, è
una preziosa opera divulgativa e descrittiva, che poteva servire non poco ad
una preparazione specifica, soprattutto per la sua precisione nella descrizione
dei sintomi delle malattie e dei mezzi di guarigione, tanto dietetici che
farmaceutici (V-VI: veri e propri trattati di farmacologia), degli interventi
chirurgici (VIi: è per la prima volta descritta l'operazione della cateratta) e
delle malattie delle ossa. D'altra parte non va qui scordato il medico
Asclepiade, di Prusa, in Bitinia, che nella prima metà del I secolo a. C.,
fbndò in Roma la prima, privata, scuola di medicina (pubblicamente una Schola
medicorum venne eretta in Roma solo nel 14 d. C.). Asclepiade, che aveva
studiato ed esercitato. in molte città di Oriente e in Alessandria, che aveva
risentito le influenze delle teorie di Erasistrato (cfr. I vol.), ritenne, ed è
ciò che qui interessa, che la dottrina epicurea degli atomi (da Asclepiade
detti 6nco1) e della formazione delle cose e loro costi- tuzione a seconda
della disposizione e organizzazione degli atomi stessi, fosse l'unica dottrina
che poteva permettere al medico di ope- rare sulla natura del corpo umano, ristabilendo,
di volta in volta, certi equilibri, o determinandone, mediante un'intelligente
esperienza, altri migliori, curando, appunto, "mediante la stessa
natura," soprat- tutto per mezzo della dieta, s(da ricostituire la
simmetria degli atomi mediante mezzi sicuri, rapidi, _piacevoli (cfr. Plinio il
Vecchio, Nat. hist.). Non è un caso, tuttavia, che Asclepiade, in epoca piu
tarda, al tempo in cui anche in medicina prevalse la teoria pneumatica, di
chiara ispirazione stoica, sia stato detto un ciarlatano (Plinio, Galeno), e
accomunato al suo discepolo Temisone di Laodicea, che abbandonata ogni teoria
generale, dette avvio alla cosiddetta scuola dei metodisti, assumendo come
metodo (donde il nome della scuola) l'osservazione, mediante cui determinare i
caratteri propri a ciascuna malattia, e fondandosi sulla "tensione"
dell'organismo rivelantesi at- traverso il battito del polso. Certo egli cercò
soprattutto di compiacere alla sua ricca clientela, mentre i medici piu seri,
da Eraclide di Taranto (principio del I a. C.) ad Apollonia di Cizio,
appartenuti ambedue alla scuola empirica, cercarono soprattutto di descri- vere
le acquisizioni da essi fatte mediante la pratica e la somma delle loro
esperienze, sottoposte a verifica, finché proprio al principio del I secolo d.
C., poco dopo la pubblicazione dell'opera di Celso, avremo che anche la
medicina si ispirerà, per lo stesso fondamento teorico dell'arte, per il
fondamento della fisiologia e della patologia, al sistema stoico (la scuola
pneumatica, rifacentesi ad uno scritto del Corpus hip- pocraticum, il De
flatibus, fu fondata cla Ateneo di Attalia). Ad ogni modo, se, come pare, gli
altri volumi dell'enciclopedia di Celso avevano gli stessi caratteri del volume
dedicato alla medicina, seml:>ra esattamente confermato quanto sopra
dicevamo. E ciò tanto piu risulta vero, quando pensiamo alla stessa attività
degli scienziati tra il I a. C. e il principio del I d. C., che, sempre meno
teorici, o meglio usando teorie già acquisite, appaiono soprattutto come dei
tecnici, dei meccanici, degli ingegneri, dei pratici, che perfezionano
strumenti e operano, a cominciare dai tecnici. di Alessandria (Ctesibio, Filone
di Bisanzio) a finire ai tecnici romani, costruttori di strade militari, di
monumenti, di porti, di fognature, di macchine belliche (cfr. l'Archi- tettura
di Vitruvio), rispondenti alle esigenze politiche, militari, urba- nistiche di
Roma (cfr. Prefazione di Vitruvio), al grande alessandrino Erone (vissuto nella
seconda metà del I secolo d. C.), anche se man- tenendo quella visione
d'insieme, quello sfondo culturale, quella cre- denza in un tutto ordinato e
architettonico, quale anche si rivela nel celebre De architectura del grande
tecnico e architetto VITRUVIO Pollione, vissuto tra il tempo di Cesare e di
Augusto e a loro legato. Vitruvio era convinto che la misura delle costruzioni
umane ("l'architettura è costituita: dall'ordinamento, che in greco si
dice -r&~r.ç, e dalla disposizione che i greci dicono 8t&.&eatc;; e
dal- l'euritmia, la simmetria, il decoro, la distribuzione detta in greco
o[xovo!J.(ot, l'ordine"; l, 2, l), deve essere adeguata alla misura del
tutto, espressione di una certa umana cultura e civiltà, di cui l'espres- sione
è l'architettura (cfr. Prefazione e I libro cap. 1), d'onde, anche per Vitruvio,
l'importanza di una cultura enciclopedica, non solo perché l'architetto possa
realizzare tecnicamente le proprie opere (per cui l'architetto deve avere
cognizioni di geometria, di prospettiva, di disegno, di meccanica, dei
materiali, dei climi, delle situazioni delle città, di storia, delle acque, e
cosf via), ma perché tale cultura sta a fondamento di ogni scienza, s1 come di
ogni consapevole opera umana. La scienza dell'architetto si accompagna a
molteplici conoscenze e a istruzioni varie... Essa nasce dalla pratica e dal
ragionamento (e.r fabrica et ratiocinatione). La pratica: è una continua e
minuziosa meditazione dd- l'uso, che si ottiene mediante le mani, con l'aiuto
di un q1,1alche genere di materia buona per essere plasmata. Quanto al
ragionamento: è ciò che può dimostrare ed esplicare, mediante la penetrazione
della ragione, le cose che si eseguiscono... Né l'ingegno senza la scienza, né
la scienza senza l'inge- gno può fare un compiuto artefice. L'architetto deve
essere letterato, abile nel disegno, istruito in geometria; deve conoscere le
leggende, deve avere con zelo ascoltato i filosofi, sapere di musica, non
essere ignorante di medicina, sapere le decisioni dei giureconsulti, conoscere
l'astrologia e le leggi dd cielo... Potrà, forse, sembrare curioso agli
inesperti che la natura possa approfondire e contenere nella memoria si gran
numero di scienze. Ma quando si saranno resi conto che tutte le scienze hanno
tra loro una connessione e uno scambio di contenuti, capiranno come ciò possa
facil- mente avvenire. La scienza universale (encyclios disciplina), infatti
come un sol corpo ~composta di queste membra. Cosi coloro che fin dalla tenera
età vengono avviati a conoscenze molteplici, riconoscono in tutte le branche
delle lettere gli stessi caratteri e le mutue relazioni di tutte le scienze,
donde giungono piu facilmente alla nozione di tutte le cose. Di Enesidemo sappiamo
molto poco. Sappiamo che nacque a Cnosso, nell'isola di Creta (cfr. Diogene
Laerzio) - secondo Fozio, Myriobiblon o Bibliotheca, sarebbe nato ad Egea;- che per un certo
periodo insegnò ad Alessandria (Aristocle, in Eusebio, Praep. ev.) - il che può
essere abbastanza interessante relativamente alla conoscenza che Filone di
Alessandria poteva avere del- l'opera di Enesidemo; - che dapprima seguace
dell'Accademia se ne sarebbe poi distaccato, ritenendo che in effetto i nuovi
accademici piu che accademici fossero degli stoici (Fozio, cit.): il che fa
pensare che, secondo anche la testimonianza di Sesto, Pyrrh. hipot., il quale
sostiene che Antioco di Ascalona aveva ridotto l'istanza scettica del-
l'Accademia a un neo-stoicismo, la polemica di Enesidemo e il suo polemico
prodamarsi pirroniano, per cui dette alla sua opera princi- pale il titolo
Discorsi pi"oniani, fossero rivolti proprio contro l'equi- voca posizione
di Antioco e la diffusione afilosofica del suo insegna- mento nella cultura
romana. Secondo Fozio, Enesidemo avrebbe dedi- cato i Discorsi pirroniani
"a un certo suo collega accademico, di nome Tuberone, romano di nascita, di
famiglia illustre, che aveva avuto ma- gistrature civili non volgari"
(Fozio, Myr.). A parte un Tu- 2 Di Enesidemo sappiamo che nacque a Cnosso,
nell'isola di Creta, che insegnò ad Alessandria, e che scrisse un'opera
intitolata Discorsi pi"oniani, di cui abbiamo un sunto nel Myriobiblon (o
Bibliotheca, Bt(3Àto~~x-~) di Fozio (Fozio dice Enesidemo nativo d.i Egea).
Fozio dice anche che Enesidemo dedicò la sua opera a un certo Tuberone, uomo
noto per famiglia e per cariche. Sulla questione dell'epoca in ctJi sarebbe
vissuto Enesidemo cfr. sopra nel testo. Altri titoli di opere perdute di
Enesidemo sono: Contro la saggezza, Intorno alla ricerca, Schizzo introduttivo
al pir- ronismo, Elementi, Prima introduzione. Si veda nel testo anche la
questione dei disce- poli di Enesidemo (Zeucsippo di Poli, Zeucsis, Antioco di
Laodicea, Apelle), insieme al problema della loro cronologia ed a quella di
Agrippa, di cui non abbiamo alcuna notizia biografica. berone piu antico,
della illustre famiglia conosciamo Lucio Elio Tu- berone, amico di Cicerone,
legato di Q. Cicerone (proconsole in Asia), culturalmente vicino all'ambiente
ciceroniano, e il figlio di Lucio, Quinto Elio Tuberone, che,' insieme con il
padre, fu pompeiano e avversario di Cesare, ma che, riconciliatosì con Cesare,
abbandonata la diretta vita politica, visse in Roma, occupandosi di studi
storici, fin verso la fine del 1 secolo. Nulla vieta di pensare che il Tuberone
cui fa cenno Fozio sia Quinto Elio, che, vissuto nel- l'ambiente ciceroniano,
poteva benissimo essere considerato accademico, ma che poi, anche per influenza
di Enesidemo, avrebbe potuto libe- rarsi dall'Accademia stessa, divenuta
eccessivamente dogmatica e stoi- cheggiante. In effetto, dal lucido sunto che
Fozio dà degli otto libri dei Discorsi pirroniani appare con chiarezza che la
polemica di Enesi- demo è soprattutto volta contro i qeo-accademici,
"stoici contro altri stoici" (Pozio, cit.), in un appello al
pirronismo, quale termine ideale di un piu serio e consapevole modo di ~osofare,
volto non tanto alla costruzione di una qualsivoglia concezione della realtà,
ma alla com- prensione critica delle capacità e delle possibilità umane, in uno
studio dei modi mediante cui l'uomo, ciascun uomo, a seconda della sua
situazione (fisica e sociale), costituisce una certa concezione che viene poi
spacciata per unica e vera. E di tale atteggiamento che, attraverso la polemica
nei confronti della Nuova~Accademia, va oltre la Nuova Accademia, in una
radicale e sistematica discussione di ogni cultura conformisticamente
cristallizzatasi, è testimonio anche Sesto Empirico, sulla fine del I I secolo
d. C. (" Antioco introdusse la Stoà nell'Acca- demia, talché si disse di
lui che nell'Accademia trattava la filosofia stoica": Pyrrh. hypot.).
Sesto Empirico, per altro, distinguendo tra scettici "piu antichi" e
scettici "piu recenti" (Pyrrh. hypot.), sostiene che spetta ai piu
antichi di avere classificato dieci modi (tropi) mediante cui non si può nòn
giungere alla "sospensione del giudizio", mentre spetta ai piu recenti
di averne clas- sificati cinque. E siccome altrove Sesto afferma (Adv. math.)
di avere esposto nelle lpotiposi pirroniane i dieci tropi "secondo
Enesidemo," si è di qui arguito che Sesto ponga Enesidemo tra gli scettici
piu antichi. Una testimonianza di Aristocle pone, invece, Enesidemo tra i
pensatori "recenti" (in Eusebio, Praep. ev.). Questo e la
constatazione che Cicerone non citi Enesidemo (un testo del Lucullus, X, 32,
tuttavia, è sembrato al Couissin, Le stoicisme de la nouvelle Académie, p. 263,
un accenno, anche ·se sprezzante, alla posizione di Enesidemo) hanno messo in
dubbio l'epoca in cui Enesidemo sarebbe vissuto (primo secolo avanti 180
o primo secolo d. C.?). Che CICERONE non citi Enesidemo è sembrato grave
a Zeller, il.quale sottolinea che CICERONE, molto vicino ai neoaccademici
Filone di Larissa, Antioco di Ascalona e a Lucio Elio TUBERONE, cui Enesidemo
dedica i Discorsi, avrebbe dovuto discutere il pirronismo di Enesidemo, mentre
invece afferma che il pirronismo era da tempo passato (De Oratore). Si può,
d'altra parte, far l'ipotesi che Cicerone, come non cita Lucrezio riducendolo
al piu an- tico epicureismo, cosi si sgombri il terreno da Enesidemo che
discute la validità scientifica del "probabilismo," mediante cui Cicerone
ri- prendeva la concezione generale dello stoicismo, riducendo Enesidemo ai piu
antichi pirroniani. Non solo, ma bisognerebbe essere sicuri che il Tuberone di
cui parla Fozio sia Lucio Elio e non, invece, il figlio Quinto Elio (Fozio non
precisa), perché in tal caso i Discorsi pirro- niani potrebbero essere stati
scritti dopo la morte di Cicerone. Quanto, infine, al "recente" di
Aristocle e all'"antico" di Sesto (ma, in fondo, quel "piu
antichi" è molto generico e sta ad indicare la conclusione di un processo
di sistemazione dei tropi scettici, rispetto ad altre piu recenti sistemazioni,
tanto è vero che Sesto non fa nessun nome, mentre cita, Pyrrh. hypot.,
Enesidemo per dire che suoi sono gli otto tropi mediante cui sovvertire i ragionamenti
intesi a spie- gare le cause, su cui si fonda la superbia dei dogmatici), si è
giusta· mente pensato che Enesidemo "avrebbe potuto apparire recente ad
Aristocle che lo raffrontava con Pirrone e antico a Sesto che lo raf- frontava
con filosofi a lui posteriori" (PRA, Lo scetticismo, Milano). I Discorsi
pirroniani sembra, dunque, che siano stati scritti nella seconda metà del 1
secolo a. C. Essi rinnovano, in un'atmosfera cul- turale, adagiatasi,
attraverso Antioco e Cicerone, in una generica con- cezione stoico-platonica,
accettata dogmaticamente come sfondo di una cultura comune e conformisticamente
scolastica, anche se posta da al- cuni come verità "probabile," una
corrente scettica (come atteggia- mento critico che " a ogni ragione
oppone una ragione di egual valore": Sesto, Pyrrh. hypot., l, 8,
"senza dogmatizzare, nel significato che altri dànno alla parola dogma,
cioè assentire a qualcuna delle cose che sono oscure e formano oggetto di
ricerca da parte delle scienze": Sesto), che non si sarebbe mai spenta é
che, secondo Diogene Laerzio, dopo Timone di Fliunte, avrebbe avuto i suoi
maggiori rappresentanti in Tolomeo di Cirene, Sarpedonte, Eraclide, dei quali
in realtà non sappiamo nulla (Eraclide sarebbe stato maestro di Enesi- demo: ma
quale Eraclide, il medico Eraclide di Taranto, il medico Eraclide di Eritrea?).
Ad ogni modo, ammesso ch'Enesidemo sia vissuto piu tardi, biso- gnerebbe allora
sostenere che prima di Filone l'Ebreo già vi fosse stato un pensatore che ha
ripreso e diffuso gli antichi argomenti di Pirrone e di Timone, in polemica
contro i neoaccademici e lo stoicismo gene- rico, contro il diffuso dogmatismo
scolastico. Egli,.tuttavia, traspor- tando questi elementi su di un piano
gnoseologico e logico, piu vicino a Carneade e ad Arcesilao che non a Pirrone,
avrebbe criticamente ordi- nato i tropi (dei cosiddetti tropi di Enesidemo in
Filone ne rintrac- ciamo almeno otto), mediante cui mostrare la necessità della
"sospen- sione del giudizio" (epochè), anche nei confronti del
"probabilismo," forse praticamente e politicamente utile, ma
teoreticamente e scienti- ficamente un compromesso, al servizio dello stesso
stoicismo, tropi, che come furono ripresi da Filone l'Ebreo, sarebbero stati
ripresi e organicamente sistemati da Enesidemo, anche se con un fine assai
diverso. In effetto, sia attraverso Filone l'Ebreo, sia attraverso il sunto che
degli otto libri dei Discorsi pirroniani dà Fozio, sia attraverso ciò che di
Enesidemo dice Sesto Empirico (anche Diogene Laerzio), ricaviamo che sulla fine
del I secolo a. C. e sul principio del I d. C., come da un lato si venivano
compilando le "summe" del sapere stoico, platonico, aristotelico, o
piu generici manuali ove si delineavano concezioni d'in- sieme, cosi,
dall'altro lato, si vennero ordinando in un complesso orga- nico gli argomenti
propri alla tradizione scettica, che, appunto, di con- tro alle evasioni ed
alle acritiche costruzioni di certo stoicismo plato- nizzante e
aristotelizzante, dimentico dei piu complessi e scientifici problemi di logica
e di gnoseologia, rappresenta l'aspetto piu scientifico e validamente
filosofico di quest'età. "In origine, lo Scetticismo mirava," ha
scritto il Robin, "alla salute nella saggezza; ma ·a poco a poco la sua
dialettica assunse un signi- ficato prevalentemente metodologico... Analisi
rigorosa e infaticabil- mente esauriente di tutti gli aspetti di un problema;
abilità dialettica senza pari; probità intrattabile di uno spirito ché rifiuta
d'ingannarsi da sé; risoluta ostilità contro la teoria e gli apriorismi di
qualsiasi genere; rispetto del fatto puro, insieme con la sollecitudine di
notarne scrupolosamente le relazioni e di utilizzarlo per la pràtica... In
origine il suo metodo era una discipìina morale, il cui fine era la
tranquillità dell'animo; in seguito, fu anche, e soprattutto, una disciplina
dello spi- rito scientifico. Mai si atteggiò a ribelle, né cercò lo scandalo;
l'umiltà del suo quietismo gli fece accettare la vita qual è; il suo rispetto
del fatto lo condusse a trattare i fatti collettivi, costumanze e leggi, alla
stregua di fatti naturali. Di fronte all'intolleranza dottrinale ed alla 182
tirannide dei pregiudizi di scuola, il suo atteggiamento critico
espresse uno sforzo audace per rendere autonoma la scienza, chiedendole di
applicarsi soltanto a detèrminare con rigore i suoi procedimenti tecnici, in
vista della pratica utile" (Robin, La pensée grecque et les origines de
l'esprit scientifique, Storia del pensiero greco, Milano). Tale il nerbo delle
argomentazioni di Enesidemo, che, di contro all'atteggiamento platonico-stoico,
cui con Antioco di Ascalona si era risolta l'Accademia di Arcesilao e di
Carneade, si appella al primo scetticismo pirroniano, anche se, in effetto, la
sua istanza critica assume un ben diverso colorito svolgendosi sul piano
dell'indagine critica delle condizioni che permettono il giudizio, in
un'analisi del linguaggio filosofico e in una discussione della liceità del
passaggio dal discorso umano (che può essere molteplice e di volta in volta
diverso) al discorso dd tutto. Non a caso Enesidemo ripercorre criticamente le
tappe su cui si fonda il "criterio" stoico. Innanzi tutto, pur
ammesso che i dati del giudizio siano la presenza alla coscienza delle
impressioni, proprio perché nulla giustifica l'affermazione che l'impressione,
l'apparire (fenomeno) alla coscienza di qual- cosa corrisponda ad una presunta
cosa in sé quale è in sé, né che l'una impressione sia piu vera dell'altra -
ogni animale, ogni uomo può avere impressioni diverse, anche a seconda della
sua costituzione fi- sica, -'- nulla giustifica che il giudizio, o come
affermazione o negazione di una rappresentazione - tenendo presente che ogni
rappre~ sentazione presa a sé non è un giudizio, per cui ciascuna non è né vera
né falsa, - o come discorso fra le rappresentazioni, corrisponda all'oggetto
che ci rappresentiamo o allo strutturarsi della realtà in rap- porti di
inerenza. Di qui scaturisce la critica sia alla logica propo- sizionale di tipo
stoico (in cui l'uso predicativo dell'essere sarebbe dovuto ad un rapporto di
identità) sia all'analitica di tipo aristotelico (in cui l'uso predicativo
dell'essere sarebbe dovuto;~ un rapporto di inerenza). I celebri dieci. tropi,
che sembrano elaborati da Enesidemo, sono diretti, appunto, a determinare che
le impressioni in quanto tali non sono giudizi, che è dubbio corrispondano
all'oggetto rappresentato, e che, pertanto, neppure servono come dati del
discorso, né in senso aristotelico, perché dovremmo prima ammettere un rapporto
di ine- renza reale tra il soggetto e il predicato, rispondenti a oggetti per
sé, né in senso stoico perché dovremmo prima ammettere che, almeno nel· l'uomo,
in tutti gli uomini, la rappresentazione a richiama sempre la rappresentazione
b e cos1 via. Dagli scettici piu antichi - scrive Sesto Empirico - sono
comunemente tramandati i dieci modi [tropi], per mezzo <{ei quali pare
effettuarsi la sospensione del giudizio [epochè], che chiamano anche, con
vocaboli sino- nimi, regole [16goi] e figure [t6poi]. E si riferiscono: l) alla
varietà che si nota negli animali; 2) alle differenze che si riscontrano negli
uomini; 3) alle diverse costituzioni dei sensi; 4) alle circostanze; 5) alle
posizioni, agl'intervalli, ai luoghi; 6) alle mescolanze; 7) alle quantità e
composizioni degli oggetti; 8) alla relazione; 9) al verificarsi continuamente
o di rado; IO) alle istituzioni, costumanze, leggi, credenze favolose e
opinioni dogma- tiche. Accettiamo questa serie dandole un.valore
convenzionale... Dicevamo essere la prima regola quella secondo la quale le
stesse cose non producono le medesime rappresentazioni sensibili, in
conseguenza della differenza degli animali. Questo lo deduciamo dal modo
differente del loro generarsi e dalla differente costituzione dei loro corpi...
Se le medesime cose appaiono dif- ferenti ai differenti animali, potremo, sf,
dire quale noi percepiamo l'og- getto; ma quale esso sia in realà, ci asterremo
dal giudicare (Pyrrh. hypot.; cfr. anche Filone l'Ebreo, De ebrietate; Diogene
Laerzio)... Il secondo modo, come dicevamo, riguarda le differenze che si
riscontrano negli uomini. Infatti, anche se, per ipotesi, si ammette che gli
uomini sono piu degni di fede degli anÌir'..ali, troveremo che si arriva alla
sospensione del giudizio pure per quanto si riferisce alle differenze che sono
tra di noi. Delle due parti di cui si dice che consta l'uomo, anima e corpo,
per l'una e per l'altra· noi differiamo l'una dall'altro... Pertanto è
necessario, anche in forza delle differenze che sono tra gli uomini, arrivare
alla sospensione del giudizio (Pyrrh. hypot.; cfr. anche Filone l'Ebreo, De
ebrietate; Diogene Laerzio). Terzo modo è quello che dicevamo riferirsi alla
diversità delle sensazioni. Che le sensa- zioni differiscano tra loro è
manifesto... Ciascuno dei fenomeni sensibili impressiona variamente. i nostri
sensi; cosi la mela ci si mostra liscia, profu- mata, dolce, gialla. t oscuto;
pertanto, se essa possieda, effettivamente, que- ste sole qualità, o se
possieda una qualità unica e.ci appaia differentemente in conformità della
differente costituzione degli organi del senso, oppure se possiede piu qualità
di quelle che app~ono, e alcune non cadano sotto i nostri sensi (Py"h. Hypot.;
anche Diogene Laerzio)•.. Il quarto modo è quello che si denomina dalle
circostanze (chiamiamo cir- costanze i diversi modi di essere). E diciamo
ch'esso va considerato nel fatto di trovarci in uno stato naturale o
innaturale, nell'essere svegli o addor- mentati, in rapporto all'età,
all'essere in moto o in quiete, all'odiare o amare, al versare nell'indigenza o
esser sazi, all'essere ubriachi o sobri, alle predisposizioni, all'essere
coraggiosi o paurosi, addolorati o contenti... Noi assentiamo maggiormente a
ciò che ci sta davanti e c'impressiona nel pre- sente, che a ciò che non ci sta
davanti... t impossibile dirimere questa discre- panza di rappresentazioni. E
invero, chi preferisce una rappresentazione a un'altra, una circostanza a
un'altra, o lo fa senza giudicare e dimostrare, o giudicando e dimostrando. Ma
non lo può fare n~ con l'intervento né senza l'intervento di un giudizio o di
una dimostrazione: in questo secondo caso non sarebbe degno di fede. Se recherà
un giudizio sulle rappresenta- zioni, lo farà, indubbiamente, sulla base di un
criterio. Ora questo criterio egli dir~ che è vero o falso; se falso, egli non
meriterà fede; se, invece, dirà che è vero, o affermerà che il criterio è vero
senza recare una dimostra- zione, oppure lo sosterrà in base ad una
dimostrazione. Se lo affermerà senza recare dimostrazione, non meriterà fede;
se in base a una dimostra- zione, sar~ assoll'tamente necessario che anche la
dimostrazione sia vera, se no, non meriter~ feè~. Ora dirà egli la vera
dimostrazione assunta per la conferma del criterio, in seguito a un giudizio o
senza di questo? Se senza, non meriterà fede; se in seguito a un giudizio, è manifesto
ch'egli dir~ di aver giudicato in base ad un criterio, del quale criterio
cercheremo la dimostrazione e il criterio di questa, poiché sempre la
dimostrazione, per essere confermata, avrà bisogno di un criterio, e il
criterio avrà bisogno di una dimostrazione, per essere dimostrato vero; né la
dimostrazione può essere vera, se non è preceduta da un criterio vero, né il
criterio può essere vero, se la dimostrazione non è riuscita, prima, a
convincere. Cosi, criterio e dimostrazione cadono nel diallele, in cui si
scopre che né l'uno né l'altra meritano fede: l'uno, infatti, attendendo
conferma dall'altra, e questa da quello, resta che entrambi non meritino,
ugualmente, fede. Se, pertanto, né senza dimostrazione e criterio, né in base a
questi può uno preferire rap- presentazione a rappresentazione, non sarà
possibile decidere tra le rappre- sentazioni sensibili, che sono differenti
secondo le differenti disposizioni. Talché, anche per quanto si riferisce a
questo modo, si arriva alla sospen- sione del giudizio sulla natura degli
oggetti esteriori (Pyrrh. hypot.; anche Filone l'Ebreo, De ebrietate; Diogene
Laerzio). Il quinto modo è quello che si riferisce alle posizioni,
agl'intervalli e ai luoghi; e invero, secondo ciascuno di questi, le stesse
cose appaiono differenti... Ora, poiché tutti i fenomeni si percepiscono in un
dato luogo, a una tale distanza, in data posizione, onde deriva una grande
differenza nelle rispettive rappresentazioni sensibili..., necessariamente,
anche per questo modo, riusciremo alla sospensione del giudizio (Pyrrh. Hypot..;
anche Filone l'Ebreo, De ebriet..; Diogene Laerzio, che dà questo tropo come
settimo)... Il VI modo è quello che si riferisce alle mescolanze, per il quale
si conclude che, poiché nessuno degli oggetti cade sotto i nostri sensi di per
sé solo, ma insieme con qualche altra cosa, forse è possibile dire quale sia la
mescolanza formata dall'oggetto esteriore e dall'altra cosa insieme a cui viene
percepito, ma non potremo dire quale sia l'oggetto esteriore nella sua realtà
pura... A causa delle mescolanz_e, i sensi non percepiscono quali siano,
esattamente, gli oggetti esteriori. E nemmeno l'intelletto, perché i sensi, sue
guide, lo ingannano. Ma forse lo stesso intelletto effettua una sua propria
mescolanza nell'intendere ciò che viene annunziato dai sensi (Pyrrh. hypot..;
cfr. Diogene Laerzio, che dà questo tropo come sesto)... Il settimo modo è
quello che si riferisce alla quantità e costituzione degli oggetti, intendendo
comunemente per costituzione, la composizione. Che anche per questo modo si sia
co- stretti a sospendere il giudizio intorno alla natura reale delle cose, è
manifesto. Per esempio, la raschiatura di corno caprino, guardata cosi sem-
plicemente, fuori del composto, appare bianca, guardata, invece, nel com- posto
del corno appare nera... Il rapporto quantitativo e costitutivo confonde la
percezione della realtà esteriore (Pyrrh. hY,pot.; anche Filone l'Ebreo, De
ebrietate.; Diogene Laerzio, che dà questo tropo come VIII)... L'VIII modo è
quello della relazione, e per esso in- feriamo che, tutto essendo relativo, noi
dovremo sospendere il giudizio sulla reale natura delle cose. Bisogna notare
che anche qui, come altrove, noi adoperiamo la voce "è," in luogo di
"appare," intendendo dire, appunto: "tutto appare in maniera
relativa." Ora questa relatività si afferma in due modi: in un primo modo
rìspetto al giudicante (poiché l'oggetto esterno e giuditato appare
relativamente al giudicante), in un secondo modo rispetto a quello che si
percepisce insieme con l'oggetto, come ciò che è a destra rispetto a ciò che è
a sinistra. Come tutto sia relativo, ab- biamo discorso anche precedentemente;
cosi, rispetto al giudicante, ab- biamo detto che ogni cosa appare cosi o cosi,
relativamente a questo ani- male e a quest'uomo e a questo senso e· a quella
tale circostanza. Rispetto a quello che si percepisce insieme con l'oggetto,
abbiamo detto che ogni cosa appare cosi o cosi relativamente a questa
mescolanza, a questo luogo, a questa composizione, a questa quantità e posizione.
Ma anche con ragio- namento proprio si può concludere che tutto è relativo, in
questa maniera. Ciò che è assoluto differisce da ciò che è relativo, oppure no?
Se non differisce è anch'esso relativo; se differisce, poiché tutto ciò che
differisce è relativo (si dice, infatti, che differisce relativamente a ciò da
cui diffe- risce), anche l'assoluto è relativo... Tutto appare relativamente a
qualche cosa. Ne segue che dobbiamo sospendere il giudizio intorno alla natura
delle cose (Py"h. hypot., l, 135-140; Filone l'Ebreo, De ebrietate, 186
sgg.; Diogene Laerzio, IX, 87-88, che dà questo tropo come decimo)... Il nono
modo è quello che concerne gli incontri continui o rari di una cosa... Le cose
rare paiono preziose, quelle abituali e abbondanti nient'affatto (Pyrrh.
hypot.; cfr. anche Diogene Laerzio, che dà questo tropo come nono)... Il decimo
modo, che ha attinenza, specialmente, con i fatti morali, è quello che si
riferisce agl'indirizzi, ai costumi, alle leggi, alle credenze favolose e alle
opinioni dogmatiche... Opponiamo ciascuna di queste cose, ora a se stessa, ora
a ciascuna delle altre. Per esempio, oppo- niamo costume a costume: alcuni
Egiziani tatuano i bambini, noi, invece no... Opponiamo legge a legge: presso i
Romani chi ha rinunciato alla sostanza paterna, non paga i debiti del padre,
invèce presso i Rodiesi li deve assolutamente pagare... Opponiamo indirizzo a
indirizzo (per indi- rizzo s'intende una scelta di vita o di altro) quando
l'indirizzo di Diogene contrapponiamo a quello di Aristippo, o quello dei
Laconi a quello degli ltalici. Opponiamo credenza favolosa a credenza favolosa,
quando diciamo che talora è Zeus che è denominato il padre degli dèi e degli
uomini, talora, invece, Oceano... Le opinioni dogmatiche (accoglimento di
qualche cosa, che sembra essere confermata da un ragionamento o da una dimo-
strazione) opponiamo le une alle altre, quando diciamo che, secondo alcuni, 186
uno solo è l'elemento delle cose, secondo altri, invece, infiniti
sono gli ele- menti; che per gli uni l'anima è mortale, per gli altri
immortale; ché per gli uni le cose umane sono governate dalla pro-. v1denza
degli dèi, per gli altri questa provvidenza non esiste. [Si opp~ngono poi
costumi a leggi; leggi a condotta; costumi a credenze favolose; costumi a opinioni
dogma- tiche, e cosi via]... Se tanta discordanza v'è nelle cose, non potremo
affer- mare quale sia nella su:~ rc::altà l'oggetto, ma solo quale esso appaia
in rap- porto a questo indirizzo, a questa legge, a questo costume, e in
rapporto a ciascuno degli altri fatti. Anche per questo è per noi necessario
sospen- dere il giudizio... (Pyrrh. Hypot.; anche Filone l'Ebreo, D~ ~bri~
tate; Diogene Laerzio, che dà questo tropo come quinto). Secondo Sesto Empirico
i dieci tropi possono, in effetto, ridursi a tre ("ci sono tre modi che
comprendono tutti questi: quello che di- pende dal giudicante - i primi
quattro, poiché ciò che giudica è ani- male o uomo o sensazione o si trova in
una qualche circostanza - quello che dipende dal giudicato - il settimo e il
decimo, - e un terzo che dipende da entrambi- il quinto, il sesto, l'ottavo e
il nono"), e, in ultima analisi, ad uno solo: "a loro volta questi
tre si riducono a quello della relazione, talché questo sarebbe il piu
generico: gli altri tre, invece, e i dieci, in questi compresi, specifici"
(Pyrrh. hipot.). I tropi di Enesidemo non hanno alcuna pretesa positiva.
"Abbiamo opposto ai dogmatici ragionamenti che paiono persuasivi, non per
assi- curare che siano veri..., ma per condurre alla sospensione, col fare
appa- rire l'uguale forza persuasiva di questi discorsi e di quelli dei dogma-
tici" (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot.). Attraverso essi Enesidemo constata
che ogni costruzione e ogni discorso che presumono d'essere "veri" e,
perciò, unici, basandosi su rappresentazioni, sempre relative e cangianti, e
che, dunque, non sono giudizi, ma puri enunciati, non sono in sé né veri né
falsi. Sono sempre costruzioni e discorsi, validi "storicamente,"
insignificanti e senza senso teoreticamente, donde l'im- possibilità di un
sapere assoluto. Tutta la difficoltà - insormontabile - sta nel dubbio che la
rappresentazione, o idea, che è tale in quanto sia "parola"
significante un'affezione, corrisponda a ciò di cui è rappre- sentazione e
parola, per cui, poi, lo stesso discorso, in quanto articola- zione di
rappresentazioni, è dubbio che corrisponda al discorso della realtà, tanto piu
che sia il "senso," fonte delle rappresentazioni, sia la
"ragione" (l6gos), intesa come attività unificatrice e giudicatrice
del complesso dei "veri" (enunciati), afferrante la
"verità," dovrebbero prima giustificare se stessi, trovare cioè in sé
il criterio per cui si può essere certi del "vero" e della
"verità." E qui va tenuto presente che la polemica si rivolge al
concetto che di "vero" era stato sostenuto dagli stoici, cioè nei
confronti del Vi!'ro inteso come munciato (incor- poreo), distinto dalla
verità, intesa come scienza avente in sé il com- plesso dei veri, e dovuta
all'attività egemonica (razionale), che è cor- porea (cfr. Sesto Empirico,
Pyrrh. hypot.). Resta, perciò, dubbia qualsiasi tesi sulla struttura della
realtà, e, pur a.ttunessa una qualsivoglia realtà, resta in dubbio sia il vero
sia la verità. L'uomo non ha altro mediante cui giudicare... se non il senso e
l'intel- letto...: solo che i sensi non comprendono gli oggetti esterni, ma, se
mai, solo le proprie af!ezioni, e la rappresentazione dunque sarà
dell'af!ezione del senso, che differisce dall'oggetto. E poi i sensi sono
impressionati i n modi opposti dagli oggetti: ora, ciò che è discorde e
contrastante non è criterio, ma ha bisogno esso di un giudice... (Sesto
Empirico, Pyrrh. hypot., II, 48, 73-74; Adv. math., VII, 346). E quanto
all'intelletto: donde saprà se le af!ezioni del senso siano simili agli oggetti
sentiti, non imbattendosi mai con oggetti esterni né rivelandogliene i sensi la
natura, ma solo le proprie af!ezioni?... Non solo, ma se neppure vede se stesso
esattamente, ma è in divergenza sulla propria essenza, il modo della
generazione, il luogo in cui è, come potrebbe comprendere con esattezza alcun
che d'altro?... Essendoci tante divergenze sull'intelletto..., se osiamo
giudicare con u n intelletto... togliamo via l'oggetto·della ricerca: se con
altro, non è piu vero che con l'intelletto s'abbiano a giudicare le cose
(Pyrrh. hypot.). Enesidemo, poi, propone anche le seguenti aporie. Se vi è
qualcosa di vero o è sensibile (atla31yt6v) o intelligibile (vo'l)'t'6v), o
intelligibile e sensibile, oppure né sensibile né intelligibile, né l'una cosa
e l'altra ad un tempo... Che non vi sia il sensibile cosi lo argomentiamo: dei,
sensibili alcune cose sono generi, altre, invece, aspetti singoli (c(3Tj); i
generi sono qualità comuni inerenti ai singoli oggetti, si come certe qualità
deij'uomo ineriscono ai singoli uomini e certe qualità del cavallo ai singoli
cavalli; gli aspetti sono proprietà dei singoli, come di Dione, di Teone, di
altri. Se, dunque, il sensibile è vero, ciò sarà af!atto comune ai molti, o
insito in ciò che è proprio,dei singoli; solo che non può essere né comune né
inerente alla proprietà, per cui il vero non è sc;nsibile. Inoltre, come ciò
che è visibile può essere compreso con la visione, e l'udibile è conosciuto con
l'udito, l'odorabile con l'odorato, cosi anche il sensibile si conosce con il
senso. Il vero non si conosce comunemente con il senso: il senso è infatti
arazionale (~Àoyo<;), e il vero non si conosce senza la ragione, onde il
vero non è sensibile. Ma neppure è intelligibile, ché nulla sarà vero dei
sensibili, il che è, di nuovo, un assurdo. Infatti, o l'intelligi- bile potrà
essere percepito comunemente da tutti o individualmente da alcuni. Ma non può
accadere che il vero sia percepito intelligibilmente da tutti in forma comune,
né da alcuni individualmente: non può essere in nessun modo compreso da tutti
comunemente e se compreso individual- mente da uno o da altri, ciò non è degno
di fede ed è oggetto di contestazione. Il vero, dunque, non è intelligibile. Ma
neppure è, ad un tempo, sensibile e intelligibile: il vero è o affatto
sensibile e affatto intelligibile, o in parte sensibile e in parte
intelligibile. Ma dire che il vero è affatto sen- sibile e affatto
intelligibile, è cosa che non può avvenire: i sensibili sono, infatti, in
contrasto con i sensibili, gl'intelligibili con gl'intelligibili, e, vice-
versa, i sensibili con gl'intelligibili e gl'intelligibili con i sensibili, e
sarà necessario se tutte le cose sono vere, che ogni cosa sia e non sia, sia
vera e sia falsa, per cui, di nuovo, bisognerà ritenere che sia un'aporia
affermare che parte del sensibile sia vero e che vero sia parte
dell'intelligibile. Ci si domanda, infatti, se sia non contraddittorio dire che
tutte le cose vere o tutte le cose false siano sensibili: sono ugualmente
sensibili e non una di piu l'altra di meno. E, cosi, ugualmente intelligibili
sono gl'intelligibili, e non uno piu l'altro di meno. Non solo, ma non tutti i
sensibili possono essere detti veri, né tutti falsi. Non vi è, dunque, il
vero... (Sesto Empi- rico, Adv. math., VIII, 40, 48). In altri termini, ogni
definizione (enunciato) e ogni discorso, che presumano significare l'essenza e
il discorso della realtà, sono, in e.ffetto, insignificanti, senza senso, sono
cioè non giudizi (di qui la "sospen- sione," l'epochè). Da questa
serie di argomentazioni (i dieci tropi, le aporie sul "vero"), che
Fozio (cit.), nel suo sunto dei Discorsi pi"oniani, dice facevano parte
dei primi tre libri, si vede bene come Enesidemo passi ad altre due serie di
argomentazioni: le prime volte a mostrare l'im- possibilità di giungere alle
cause per via indiretta, ossia mediante i segni, giungendo cioè a porre le
cause attraverso i fenomeni significanti quelle cause stesse, ché non v'è
criterio per cogliere la coincidenza tra significante e significato, ch'era,
com'è noto (cfr. I vol.), un grosso pro- blema a lungo discusso nella scuola
stoica ("nel quarto libro Enesidemo mette in discussione i segni delle
cose oscure...": Fozio, cit.); le seconde (che Sesto Empirico raccoglie in
otto trop•) volte a sovvertire i ragionamenti intesi a spiegare le cause per
via diretta ("nel quinto libro... propone argomenti per dubitare delle
cause, dicendo che nes- suna cosa è causa dell'altra...": Fozio, cit.).
Nell'una e nell'altra serie di argomentazioni è evidente la critica non solo al
passaggio proprio degli stoici dal logico all'antico, ma anche il passaggio dal
visibile all'invisibile proprio dell'ipotesi atomistica dell'epicureismo. Già
in Crisippo la dottrina dei segni si prestava a una doppia inter- pretazione.
Posto che l'impressione non è un puro calco che direttamente stampa nell'anima
l'immagine della cosa, ma che ogni rappresentazione è una modificazione, che ci
a.fferra a seconda della sua evidenza, e a cui diamo l'assenso, non tanto
perché corrisponde o meno all'oggetto (che già dovremmo conoscere per sapere se
corrisponda o no all'impressione). ma in quanto fortemente presente, ogni
rappresentazione è un segno, da un lato "rammemorante" una impres-
sione, dall'altro lato "rammemorante," data quella rappresentazione,
altra rappresentazione, che si lega alla prima (" rammemorativo è quel
segno che, osservato già insieme con il significato, per esserci dato insieme
con tutta evidenza... ci conduce al ricordo della cosa osservata insieme, che
ora non ci si dia con evidenza, com'è del fumo e del fuoco, vedendo una ferita
si dice che c'è stata una ferita": Sesto Empirico, Pyrrh. hypot.). Sotto
questo aspetto, la dottrina del segno poteva sfociare in una chiara "
logica proposizionale" e scientificamente in una ricerca fondata, appunto,
sui segni rammemorativi (come av- venne per l'indirizzo medico ~mpirico e
metodico, ai quali, piu tardi, si rifecero proprio gli scettici), ove la
veracità o meno del discorso non presume affatto significare il discorso stesso
della realtà. Non possiamo dire se già in Crisippo, ma; certo, subito dopo di
lui, nella scuola stoica la rappresentazione venne interpretata in quanto segno
indicativo dell'oggetto stesso, rispecchiante l'oggetto che ha provocato
l'impressione; non solo, perciò, lo stesso discorso significherebbe il di-
scorso della realtà, ma una impressione-rappresentazione verrebbe a
significare, per analogia, una verità nascosta di cui non si è avuta im-
pressione, una cosa oscura per natura, da cui, gradatamente si giunge a porre
cause e principi primi ("indicativo, invece, dicono il segno non osservato
insieme con la cosa designata in maniera evidente, ma che per la propria natura
e costituzione segnala ciò di cui è segno: cos~, per esempio, i movimenti del
corpo sono segni dell'anima": Sesto Empirico, Pyrrh. hypot.). È chiaro che
la critica degli scettici piuttosto che all'interpretazione del
"segno" come rammemorante, si rivolgesse al segno interpretato come
indicativo e significante da un lato la cosa per sé, dall'altro lato la causa e
la causa dèlla causa. Noi ~ dirà Sesto Empirico - non parliamo contro ogni
segno, ma solo contro l'indicativo, come quello che sembra essere state
inventato dai dogmatici (Pyrrh. hypot.)... Il segno indicativo è inconcepibile,
poiché dicono che è relativo al significato e-mdatore di esso. Se è rela- tivo
deve assolutamente esser compreso insieme con il significato, come il sinistro
con il destro, il sopra con il sotto, ecc. Se invece è rivelatore del
significato, deve assolutamente esser compreso prima di esso, perché,
conosciuto prima, possa poi condurci alla conoscenza della cosa resa nota da
lui. Ma è impossibile conoscere una cosa, che non può essere conosciuta prima
di quella, per mezzo della quale dovrebbe invece essere compresa: impossibile
quindi concepire un relativo, che sia anche rivelatore della cosa relativamente
alla quale si concepisce... Impossibile dunque concepire il segno indicativo...
(Pyrrh. hypot.).. Sembra che questa già fosse stata la critica di Enesidemo, se
Sesto Empirico (cfr. Adv. math.) può sostenere che Enesidemo a coloro che affermavano
che la causa si coglie non attraverso i sensi immediatamente, ma per analogia
attraverso i segni indicativi, rispon- deva che ciò è contraddittorio, posto
che la rappresentazione è dall'im- pressione, ché mai si può avere
rappresentazione di ciò di cui non vi è impressione; poiché, d'altra parte,
questa o quell'impressione non modifica tutti allo stesso modo, pur dando
valore al segno rammemo- rativo, resta in dubbio la sua universalità, su cui si
fonda la pretesa ch'esso segno indichi e significhi l'universalità oggettiva
delle conse- cuzioni. In realtà - obbietta lo scettico - il segno è solo un
fatto che ne ricorda un altro di cui è stato in passato il concomitante
(passato) o ce ne fa aspettare un altro (futuro) (cfr. L. Robin), senza
pretendere ad alcuna verità. Enesidemo, nel IV libro dei Discorsi pirroniani
cosi dice: se le rappre- sentazioni delle cose [fenomeni] ugualmente appaiono a
tutti coloro che sono stati ugualmente modificati e i segni indicano quelle
attuali rappre- sentazioni, è necessario che anche i segni appaiano a tutti
coloro che sono ugualmente modificati. Ma i segni non appaiono ugualmente a
tutti coloro ugualmente modificati, per cui i segni non sono segni delle
rappresenta- zioni (Sesto Empirico, A d v. math.). La critica scettica si
rivolge cosi all'illusione che l'argomentazione per analogia abbia validità
scientifica sul piano della verità oggettiva, si rivolge cioè alla gratuita
trasformazione di una constatata "conse- cuzione" in una concatenazione
causale risalente a ipotetiche cause prime per sé, agenti e costituenti la
realtà. Di qui gli otto tropi di Enesidemo mediante cui mettere in dubbio la
possibilità di passare dai dati dell'esperienza alla loro causa di cui non si
ha affatto espe- rienza, per, poi, viceversa dimostrare i dati mediante quelle
cause. Come enunciamo i modi della SO)ipensione del giudizio, cosi, anche,
alcuni espongono i · modi, per i quali, dubitando delle spiegazioni delle cause
particolari, si arresta la superbia dei dogmatici, dovuta, particolar- mente, a
queste spiegazioni. Enesidemo insegna a tal proposito otto modi, per i quali,
confutando qualunque dogmatica spiegazione di cause, egli crede di farla
apparire difettosa. E sono, secondo lui: quello per il quale il genere della
spiegazione della causa, aggirandosi tra le cose che non cadono sotto i sensi,
non ha una conferma palese dalle cose che cadono sotto i sensi; quello per il
quale, essendo largamente consentito di spie- gare in molte maniere la causa
cercata, alcuni la spiegano in una maniera sola; quello per il quale di fatti
che accadono ~on un ordine, adducono cause che non ammettono ordine alcuno;
quello per il quale, percependo come accadono le cose sensibili, credono di
aver percepito, anche, come accadano quelle che non cadono sotto i sensi,
mentre le cose che non cadono sotto i sensi, forse, si compiono in modo uguale
alle cose sensibili, e, forse, in modo non uguale, ma proprio e distinto;
quello per cui tutti, per cosf dire, spiegano le cause seguendo ce~e loro
proprie ipotesi intorno agli elementi primi, piuttosto che una via comunemente
ammessa e accettata; quello per cui spesso accolgono quello che si spiega con
le loro proprie ipotesi, tralasciando quello che è contrario ed ha la medesima
forza di persuasione; quello per cui spesso adducono delle cause che
contrastano, non solo con i fenomeni, ma anche con le loro proprie ipotesi;
quello per cui spesso, essendo ugualmente incerto e quello che sembra· apparire
in un dato modo e quello che è oggetto dell'indagine, sulla base di nozioni
incerte costruiscono le loro dottrine ugualmente incerte. Soggiunge, poi, che
non è impossibile che alcuni, nel rendere ·ragione delle cause, falliscano
secondo altri modi misti, dipendenti da quelli che abbiamo enumerali (Sesto
Empirico, Pyrrh. hypot.). Se mediante gli otto tropi, riferiti da Sesto come
propri di Enesi- demo, è messa in discussione la possibilità dell'inferenza
dall'effetto alla causa - ed è evidente qui la polemica non solo contro gli
Stoici, ma anche contro l'epicureismo e l'induzione aristotelica, - per cui si
giunge alla sospensione del giudizio anche relativamente alle cause, tanto piu
semplice diveniva ora la discussione che <;onduce al dubbio sulla
possibilità di spiegare gli effetti, partendo da cause che pur si sono
dimostrate puramente ipoteùche, di dimostrare che l'una causa possa pro- durre
un effetto e che, alla fine, il rapporto di causa ed effetto sia proprio della
stessa struttura della realtà e non dovuto ai rapporti ram- memorativi tra le
impressioni ricevute. Anche queste sembrano argo- mentazioni svolte da
Enesidemo, che Sesto Empirico, il quale appunto cita Enesidemo, approfondisce
(Adv. math.), insieme a tutta una serie di argomentazioni contro la
sillogistica aristotelica e la dia- lettica stoica (cfr. Pyrrh. hypot.; Adv.
math.; anche PRA (si veda)). Veniva di qui, infine, entro i termini della
sistemazione in un sol corpo delle argomentazioni degli scettici, la
problematica delineata da Enesidemo sulla possibilità di definire l'essenza del
Bene e delle con- dizioni che permettono una vita virtuosa (secondo Fozio,
cit., del bene e delle virtu Enesidemo parlava negli ultimi libri dei suoi
Discorsi pirroniani). Secondo Sesto Empirico (Adv. math.) Enesidemo
avrebbe escluso l'esistenza del Bene, almeno nel senso di un bene per sé quale
veniva definito dai dogmatici, sostenendo - come risulta da Diogene Laerzio,
IX, 107, e da Aristocle, in Eusebio, Praep. ev. - che il bene, non avendo una
sua essenzialità, consiste in uno stato d'animo dovuto alla sospensione del
giudizio (Diogene Laerzio), che determina un certo piacere (Aristocle, cit.).
Ipoteticamente possibile ogni discorso sull'essenza della realtà (tanto è
possibile dire che il fondo della realtà è costituito di atomi, quanto dire che,
al limite, sono da porre una materia passiva e un principio attivo),
ipoteticamente possibile ogni discorso sull'essenza dd Bene, teoreticamente è
da sospendere ogni giudizio sulla realtà e sul bene, cercando, piu umilmente,
di non ingannare se stessi e gli altri, ricon- ducendo l'indagine sul piano
umano, entro i limiti del mondo e del linguaggio umani. Le conclusioni di
Enesidemo tendono a mostrare non tanto che l'una o l'altra concezione
filosofica è falsa, ché, allora, si sarebbe dovuto delineare quale fosse la
"verità,• ma che tutte le concezioni si dimostrano alla fine
indimostrabili, cioè non giudicabili e perciò stesso senza senso, assurde,
contraddittorie, qualora pretendano d'imporsi, l'una o l'altra, come
"verità," e, quindi, su questo piano, inutili. Certo, entro questo
quadro, è difficile vedere come Enesidemo abbia potuto affermare che
l"'indirizzo scettico è una via che conduce alla filosofia eraclitea, in
quanto," commenta Sesto, "l'apparire dei fatti con- trari circa lo
stesso oggetto precede l'esistere di fatti contrari circa lo stesso oggetto, e
gli Scettici dicono, appunto, che fatti contrari appaiono intorno allo stesso
oggetto, mentre gli Eraclitei, partendo dall'appru;:ire, arrivano anche alloro
esistere" (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot.). Sesto, e si capisce, vede in
questo una contraddizione da parte di Ene- sidemo ed esclude assolutamente che
una posizione scettica p<)ssa sfo- ciare in una posizione di tipo eracliteo,
che, proprio perché pone a fondamento dell'essere il divenire e i contrari, è
anch'essa una posi- zione definitoria di una realtà non fenomenica e perciò è
una posizione dogmatica. Né Fozio, che riassume i Discorsi pirroniani, né
Diogene Laerzio, né Aristocle accennano a una fase eraclitea del pensiero di
Enesidemo. Di una posizione dogmatica di Enesidemo (l'anima sepa- rata dal
corpo e in esso infusa dopo la nascita, in senso stoico) parla Tertulliano (De
anima, 25). Certo un riflesso dell'eraclitismo scettico si trova in Filone
l'Ebreo, che sfrutta l'argomento dell'eraclitismo in funzione scettica,
ricavandolo, sembra, da Enesidemo. In realtà, di un presunto eraclitismo di
Enesidemo parla solo Sesto, che, nel testo sopra citato, dice solo che secondo
Enesidemo l'indirizzo scettico poteva ribal- tarsi in una posizione dogmatica
di tipo eracliteo, trovandovi un proprio fondamento ontico, e questo
sembrerebbe avvenuto piu che in Enesidemo nei seguaci di Enesidemo ("se
arrivassero all'asserzione che intorno allo stesso oggetto esistono fatti
contrari, partendo da qualcuna delle espressioni scettiche, per esempio
'nessuna cosa si può compren- dere,' oppure, 'niente do per certo,' potrebbe
essere vera la conclusione dei seguaci di Enesidemo. Solo che...": Sesto
Emp., Py"h. hyp.). Tuttavia Sesto, in altri testi, anche se. per
incidenza, dice come propria di Enesidemo una o altra tesi eraclitea (si veda,
ad esempio, A.dv. math.: "segaendo Eraclito, Enesidemo affermava che la
dianoia è fuori del corpo"; A.dv. math.: "seguendo Eraclito Enesi-
demo disse che il tempo è corpo... Cosi nella Prima Introduzione...";
A.dv. math.: "Enesidemo dice che per Eraclito l'essere è aria"),
alcune delle quali risultano però piu vicine allo stoicismo·che
all'eraclitismo, altre come piu proprie dei seguaci di Enesidemo. D'altra parte
lo stesso Sesto non discute quelle tesi eraclitee come facenti parte dì un sol
corpo di pensiero, ma, dicevamo, inciden- talmente, come testimonianze di
quello che poteva essere l'eraclitismo di Enesidemo. Non solo, ma Sesto non
dice mai che quelle tesi eraclitee fossero svolte da Enesidemo nei Discorsi
pi"oniani, mentre una volta accenna a un'altra opera di Enesidemo, per noi
perduta, la Prima Introduzione. Tutto ciò ha dato l'avviò a una lunga
discussione sull'eraclitismo eli Enesidemo e a una molteplicità di ipotesi. C'è
chi ha sostenuto che lo scetticismo di Enesidemo sarebbe sfociato in una
posizione dogmatica di tipo eracliteo, o ch'egli avrebbe trovato
nell'eraclitismo il fonda- mento dello scetticismo, e c'è chi ha sostenuto che
Enesidemo sia pas- sato da una prima fase eraclitea, anch'essa rivelataglisi
dogmatica a. una seconda fase accademica, per giungere infine a un accentuatC]
scettici- smo, alla "sospensione" definitiva, riallacciandosi alla
posizione car- neadiana. Certo, quest'ultima ipotesi (Sesto nelle lpotiposi
pi"oniane, l, 210, non dice affatto che Enesidemo sia passato dallo
scetticismo all'eraclitismo: cfr. sopra), sostenuta da Pra (al quale rimandiamo
anche per la minuta esposizione e discussione delle varie ipotesi sostenute:
dal Saisset, allo Zeller, al Diels, al Pap- penheim, all'Arnim, allo Hirzel, al
Natorp, al Patrick, al Goedeckemeyer, al Brochard, al Capone-Braga), è, forse,
la piu probante. In effetto nulla vieta di pensare che certe tesi eraclitee
siano state accettate da Enesidemo non nei Discorsi pi"oniani, ma in altra
opera, come appare da Sesto, la quale potrebbe essere stata composta da
Enesidemo in età giovanile. A parte l'episodio dell'eraclitismo, sembra; in
realtà, ch'Enesidemo, nella sua polemica nei confronti dei "dogmatici,"
abbia raccolto e sistemato gli argomenti e i tròpi già delineatisi attraverso
l'esposizione che della "sospensione del giudizio" aveva offerto
Clitomaco, il discepolo di Carneade, andando sino in fondo, cioè evitando - per
non cadere nel possibile dogmatismo della nuova Accademia - il
"probabile" e l'"ipotesi"; o l'opzione, per rendere
possibile l'azione e il discorso, di una qualche opinione, fondata sul criterio
della "probabilità" (dr. s<r pra), Enesidemo cosi poteva dichiarare
fallita ogni presunzione della filosofia, costretto, in effetto, a rimanere su
tutto in silenzio (afasia), in un ritorno, davvero, all'originaria posizione di
Pirrone, che, in realtà, veniva ad essere una critica ed un'analisi del
linguaggio. Duplice è- l'interesse che presenta, storicamente, la posizione di
Enesidemo: da un lato, sulla fine del 1 secolo a. C., egli, pienamente
innestandosi nell'atmosfera culturale di quel tempo, viene sistemando in un
corpo unico il complesso dei tropi, delle aporie, dei problemi, propri delle
posizioni scettiche, che probabilmente s'erano'già venuti delineando con
Tolomeo di Cirene, che avrebbe ripreso le-fila della posizione scettica
rifacendosi ad Arcesilao (Diogene Laerziò, IX, 115); dall'altro lato, entro i
termini di una certa cultura, oramai, cristallizza- tasi, divenuta patrimonio
comune, comune concezione, dogmaticamente accettata, Enesidemo mette in crisi,
proprio attraverso la sua stessa sistemazione, quella cultura, quella coni:ezione
di fondo. Preso a sé Enesidemo non ha l'importanza che viene ad avere, se
considerato entro i termini della cultura quale si er,a venut:t determinando
tra la fine del 1 secolo a. C. e il principio del 1 d. C. E ciò tanto piu
sembra esàtto. quando si tenga presente che Enesidemo non fu un fenomeno
isolato. Innanzi ttttto sappiamo ch'egli ebbe dei seguaci (ai seguaci di Ene-
sidemo, senza farne il nome, accenna anche Sesto Empirico). Di essi fa il nome
Diogene Laerzio (Zeucsippo di Poli, Zeucsis, Antioco di Laodicea): non piu che
il nome, perché per il resto Dio- gene li allinea tutti sul piano della
posizione di Enesidemo, volti tutti, cioè, alla sistemazione dei tropi mediante
cui giungere alla sospensione del giudizio, alla constatazione che ogni
proposizione che presuma indicare un'essenza o un ne~so di essenze è un non-giudizio,
basandosi soltanto sull'esperienza, o meglio sul fenomeno. ' Di Zeucsippo di
Poli, nella Locride, non sappiamo nulla. Di Zeucsis, suo seguace, che avrebbe
conosciuto l'opera di Enesidemo, Diogene Laerzio (IX, 106) dice che' scrisse
un'opera intitolata Duplici discorsi (titolo significativo, già usato, non a
caso, da un sofista del v secolo a.C.}, che testimonierebbe un'attività simile
a quella di Enesidemo, in una raccolta di ragioni pro e contro questioni
molteplici, mediante cui eli- mina~e ogni pretesa di giungere all'affermazione
di un'unica verità, e che richiama la definizione data da Sesto Empirico dello
scetticismo: 195 Lo
scetticismo esplica il suo valore nd contrapporre i fenomeni c le percezioni
intellettive in qualsiasi maniera, per cui, in seguito all'ugual forza dei
fatti e delle ragioni contrapposte, arriviamo, anzitutto, alla sospen- sione
del giudizio, quindi, all'imperturbabilità (Py"h: hypot.). Di Zeucsis fu,
a sua volta, seguace Antioco di Laodicea e di lui un certo Apelle che avrebbe
composto un libro, intitolato Agrippa ("Apdle, nd suo Agrippa, e Antioco
di Laodicea, pongono solo i feno- meni": Diogene Laerzio). Sappiamo
inoltre che la fonte da cui attinge Diogene Laerzio, per ricostruire il
pensiero di Timone di Fliunte, fu il grammatico Apollonide di Nicea (dr.
Diogene), che compose un commento ai SiUi di Timone dedicato all'imperatore
Tiberio. Anche questa è una notizia interessante, che dimostra la dif- fusione
del rinnovato scetticismo sul principio dd I secolo d.C. e che può essere
indicativa dd periodo in cui vissero e operarono i seguaci di Enesidemo. Come
sembra (dr. A. Goedeckemeyer, Die Geschichte des griechischen S!(eptizismus,
Lipsia; anche PRA (si veda)), Zeucsis e Antioco di Laodicea furono contemporanei
di Apollonide di Nicea; infatti, da un lato, Diogene Laerzio (IX, 116) subito
dopo Antioco cita Apelle autore di un'opera su Agrippa, e dice che seguace di
Antioco di Laodicea fu Menodoto di Nicomedia, che, medico, rifacendosi allo
scetticismo dette un fondamento scientifico e metodico alla medicina, in un
atteggiamento strettamente empirico, riallacciandosi ai medici della tradizione
empirica, vissuti, appunto, nel I secolo d. C., e dall'altro lato sappiamo
anche che Menodoto visse tra 1'80 d.C. e il 150 circa. Cosi, evidentemente,
Apelle dovrebbe avere scritto la sua opera entro queste date, per cui dovremmo,
anche se approssimativa- mente, collocare l'attività di Agrippa (già noto e che
deve avere avuto un'importanza di primo piano sul rinnovato scetticismo, se
Apelle de- dicò al suo pensiero un'opera) sulla metà del I secolo d. C. Sesto
Empirico non cita mai il nome di Agrippa, anche se ne rife- risce i cinque
tropi, che sappiamo essere stati da lui formulati attraverso quanto ne dice Diogene
Laerzio (IX, 88-89), che, per altro, attinge nel- l'esposizione dei cinque
tropi, a Sesto Empirico. In realtà Agrippa - ddla cui vita, nascita, luogo di
origine, insegnamento, nulla sap- piamo - non avrebbe aggiunto niente di nuovo
alle linee fondamen- tali dell'atteggiamento scettico che tra Enesidemo e
Agrippa si venne ordinando e, soprattutto, si venne costituendo in un appello
alla criticità della ricerca, in un netto rifiuto della filosofia intesa come
concezione universale, in una programmatica indagine mediante cui la filosofia
viene intesa come metodologia delle condizioni che permettono un pos- sibile
sapere. Sotto questo aspetto si capisce perché Sesto, pur esponendo i cinque
modi di Agrippa, o meglio delineando i momenti mediante cui si sono venuti
istituendo gli argomenti principali della posizione metodologica, non faccia il
nome di Agrippa, e parli, invece, di scettici piu "recenti" rispetto
ai "piu antichi," delineando l'arco entro il quale, da Enesidemo ad
Agrippa, lo scetticismo ha assunto la sua fisionomia di empirismo
critico-logico. I. cinque tropi di Agrippa prendono, in tal senso, un
particolare rilievo, ché, con estrema chiarezza, riassumono e sistemano tutto
il lavorio di precisazione dei modi con cui rimettere in discussione le conclusioni
di una concezione, frutto di tutta una cultura e di una tradizione, con cui
rimettere in discussione ogni soluzione metafisica. "Tali modi gli
Scettici piu recenti espongono, non già perché respin- gano i dieci, ma per
confutare, con maggior verità, con questi e con quelli, la temerità dei
dogmatici" (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot.). Gli Scettici piu recenti
tramandano questi cinque modi della sospen- sione del giudizio: quello che dipende dalla discordanza; quello
che rimanda all'infinito; quello che dipende dalla relazione; l'ipotetico; il
diallele. · Il modo che dipende dalla discordanza è quello per cui troviamo che
intorno a una cosa proposta esiste una discordia insolubile, nella vita e nei
filosofi; onde, non essendo in grado né di preferire né di resping::re nessuna
opinione, finiamo col sospendere il giudizio. Il modo per il quale si cade
nell'infinito, è quello in cui ciò che si reca a prova della cosa pro- posta,
noi diciamo che ha bisogno, a sua volta, di prova, e questo~ a sua volta, di un'altra
prova, all'infinito; si che non avendo noi da dove comin- ciare
un'argomentazione, ne consegue la sospensione del giudizio. Il modo che dipende
dalla relazione è quello in cui diciamo che l'oggetto ci appare cosi o cosi, in
rapporto al giudicante e al resto che insieme con esso oggetto viene.
percepito, e ci asteniamo dal giudicare quale esso sia real- mente. Si ha il
modo ipotetico, quando i dogrp.atici, rimandati all'infinito, cominciano da
qualche cosa che essi non concludono per via di argomen- tazione, ma pretendono
di assumere, cosi semplicemente, senza dimostra- zione, per una concessione.
Nasce il diallele, quando ciò che deve con- fermare la cosa cercata, ha
bisogno, a sua volta, di essere provato dalla cosa cercata: allora, non potendo
assumere nessuno dei due per concludere l'altro, sospendiamo il giudizio
intorno ad ambedue (Sesto J!.mpirico, Py"h. hypot.). Il commento piu
pertinente sui cinque tropi di Agrippa è quello di Sesto Empirico, che merita
il conto di riportare, insieme ai due tropi che Sesto dice elaborazione ultima
dovuta sempre agli ~cettici piu recenti. Dice, dunque, il testo relativamente
ai cinque tropi:Che ogni ricerca si possa ricondUrre a questi tropi, lo
dimostreremo brevemente cosi. La cosa proposta o è sensibile o è intelligibile:
qualunque essa sia, v'è intorno ad essa discordanza. Infatti alcuni afferJBjllO
che solo il sensibile è vero, altri, solo l'intelligibile, altri, in parte il sensibile,
in parte l'intelligibile. Ora che si dice? che questa discordanza è solubile o
insolubile? Se insolubile, affermiamo che bisogna sospendere il giudizio, ché
intorno a ciò in cui v'è insolubile dissenso, è impossibile pronunciarsi. Se
solubile, domandiamo sulla bl!se di che si risolverà. Cosi, per esempio, il
sensibile... si giudicherà sulla base di un sensibile o di un intelligibile? Se
sulla base di un sensibile, poiché appunto la nostra ricercà verte sui
sensibili, anche questo avrà bisogno di altra cosa che lo comprovi. Se anche
questa è seJ:lSibile, a sua volta, essa pure avrà bisogno di un'altra cosa che
la comprovi, e cosi all'infinito. Che se il sensibile dovrà essere giudicato
sulla base di un intelligibile, poiché anche sugl'intelligibili vi è
discordanza, anche questo intelligibile avrà bisogno di giudiziQ e Ji prova. E
sulla base di che sarà provato? Se sulla base di un intelligibile, si ricadrà,
ugualmente, nell'infinito; se sulla base di un sensibile, poiché a prova di un
sensibile è stato assunto un intelligibile, e a prova di Wl intelligibile è
stato assunto un sensibile, si induce il diallele. Se, poi, colui che con noi
disputa, per fuggire questa difficoltà, credesse di assumere, per concessione,
e senza dimostrazione, qualche cosa, a dimostrazione di ciò che segue, farà
capo al modo ipotetico, che non può dare risultato. E invero, se colui che
suppone merita fede, noi, anche, supponendo il contrario, non saremo meno degni
di fede. Se, poi, colui che suppone, suppone qualche cosa di vero, lo renderà
sospetto assumendolo per ipotesi, senza accompagnarlo con una argomentazione;
se qualche cosa di falso, il pun- tello dell'argomentazione sarà marcio. Che se
il supporre giova in qualche modo per provare, supponga egli senz'altro ciò che
è oggetto dell'indagine, e nòn qualche altra cosa, per mezzo della
quale··argomenti quello su cui vette il discorso. Se; invece, è assurdo
supporre quello che è oggetto d'in· dagine, sarà assurdo supporre, anche, ciò
che lo trascende. Che poi tutti i sensibili siano, anche, relativi, è chiaro:
sono, infatti, relativi al senziente. Dunque, è manifesto che qualunque cosa
sensibile ci sia proposta, è facile ricondurla ai cinque modi. Alla stessa
maniera si ragiona per l'intelligibile. Se si dice che la discordanza è
irrisolvibile, ci si concederà che bisogna sospendere su di essa il giudizio.
Se si tenterà di risolverla, e lo si farà in base a un intelligibile,
spingeremo il ragionamento all'infinito; se in base a t:n sensibile, al
diallele: poiché essendo, a sua volta, il sensibile oggetto di discordanza, né
potendo esso in base· a un sensibile venir giu- dicato (ché, per tal modo, si
cadrebbe nell'infinito), avrà bisogno di un intelligibile, come l'intelligibile
di un sensibile. Chi, poi, in conseguenza di ciò, assumesse qualche cosa per
ipotesi, metterà, nuovamente, capo all'as- surdo. Ma anche relativi sono
gl'intelligibili: ché si dicono intelligibili relativamente all'intelligenza, e
se fossero, in realtà, tali, quali si dicono, non ci sarebbe discordanza di
opinioni. Dunque anche l'intelligibile è 198 stato ricondotto ai
cinque modi. Perciò è necessario che assolutamente si sospenda il giudizio
intorno alla cosa proposta... Tramandano anche due altri modi di sospensione.
Perché, tutto ciò che si comprende, o pare essere compreso di per sé, o si
comprende in base ad altro... Ora, che nulla si comprenda di per sé, dicono
evidente dal disaccordo tra i fisici su tutte le cose sensibili e
intelligibili: disaccordo indirimibile, non potendo noi valerci di criterio, né
sensibile né intelli- gibile, per essere ciascuno, quale che pigliamo, non degno
di fede, perché controverso. Perciò neppure da altro ammettono che si possa
comprendere alcunché. Ché se l'altro, da cui si comprenda, abbisognerà sempre
d'essere compreso da altro, si mette capo al diallele o all'infinito; se invece
si volesse assumere alcunché come compreso di ·per sé, e da esso comprendere un
altro, s'oppone il non poter nulla comprendersi di per sé, per le ragioni già
dette (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot.). "Agrippa," scrive PRA (si
veda), "nei confronti di Enesidemo, presta meno attenzione agli aspetti
analitici della discordanza ed ha una mag- giore preoccupazione sistematica;
egli è mosso principalmente da un intendimento di sintesi e, si direbbe, di
deduzione. Muove dalla ricerca delle maniere tipiche fondamentali in cui può
tentarsi la fondazione di un sistema dogmatico, nel tentativo non soltanto di
abbracciare nella sua critica il maggior numero possibile di posizioni
dogmatiche stori- camente definite, ma anche di includere quelle future e
possibili. La sistematica della sospensione insomma obbedisce in Agrippa a
criteri molto piu rigorosi e universali che non in Enesidemo. Agrippa ha anche
conservato qualche cosa dei tropi di Enesidemo; ha infatti con- siderato la
questione della discordanza esistente sia nella filosofia che nella vita (tropo
primo da raffrontare col secondo di Enesidemo) come anche la questione della
relatività (tropo terzo da raffrontare con l'ot- tavo di Enesidemo); già nella
formulazione di questi tropi appare la maggiore vigoria di Agrippa, la maggiore
incisività e comprensività della sua delineazione; entrambi i motivi conservati
sono tali che di fronte ad essi si può essere già indotti alla sospensione; ma
siamo qui soltanto ad un primo passo della considerazione sistematica della
sospensione; bisogna vedere come i dogmatici, superando questo punto, si
accingano alla costruzione dei loro sistemi e quali tipi di giustifica- zione
essi siano soliti addurre di essi; bisogna vedere, anzi, in quante diverse
maniere sia possibile a un dogmatico tentare la giustificazione del suo
sistema. Ora queste maniere, secondo Agrippa, sono tre: o una giustificazione
che risultando apparentemente autonoma, finisce per svolgersi in due direzioni:
o verso un processo all'infinito o verso una ipotesi iniziale; oppure una giustificazione
che, rinunciando all'auto- nomia, ricorre alla eteronomia, aprendosi
inesorabilmente verso il dial- 199
lde. Se pertanto il dogmatico non vorrà accogliere il rilievo degli infi-
niti contrasti che si verificano nella filosofia e ndla vita, e vorrà pro-
cedere oltre, si troverà nella necessità di avviarsi per una di queste tre
strade: processo all'infinito, ipotesi gratuita, diallde; ed ognuna di queste
tre strade conduce alla sospensione dd giudizio. In tal modo Agrippa ha
abbozzato una sistemazione delle condizioni formali del dogmatismo, in termini
non empirici, ma universali. La paJ;"te forse piu importante dd suo
discorso è quella che mostra il dogmatico, di- remo cosi, in azione, alla
ricerca della strada su cui fondare il suo sistema: la pri!Da tappa è
costituita dal riconoscimento eventuale che il contrasto, da cui si muove, non
è dirimibile; la seconda tappa è costi- tuita dal tentativo di fondare il
sensibile sul sensibile e l'intelligibile sull'intelligibile (processo
all'infinito per la sostanziale omogeneità dei termini su cui si vorrebbe
costruire la prova); la terza tappa è data dal tentativo di fondare il
sensibile sull'intelligibile e l'intelligibile sul sensibile (diallele ed
eterogeneità dei termini su ~ui si vorrebbe gio- care per la prova); la quarta
tappa finalmente è data dal tentativo di uscire sia dal processo di rinvio
omogeneo, sia da quello a. diallele, mediante l'assunzione, senza dimostrazione
di una ipotesi; e questa quarta tappa si ricongiunge alla prima, in un circolo
dal ·quale il dog- matico non ha via di uscita. Agrippa ha pertanto articolato
la sua sfi- ducia nella costruzione dogmatica, prospettando tutte le forme
fonda- mentali in cui essa poteva organiizarsi; tale sfiducia si è venuta cosi
differenziando ed è diventata rispettivamente: affermazione del con- trasto,
vanità dell'allargamento su terreno omogeneo a sfere sempre piu larghe
d'un'affermazione che, allargandosi, non perde la sua arbi- trarietà; vanità
del cosiddetto processo logico o dimostrativo, con la persuasione che esso non
è mai altro che un circolo, senza alcun pro- gresso possibile; vanìtà
dell'evidenza e sua relatività. L'istanza critica espressa in questi termini da.Agrippa
risulta dunque piu ampia, pi6 forte, pi6.organica e precisa di quella espressa
da Enesidemo; Agrippa è riuscito a staccarsi con maggior sicurezza dalla
considerazione con- tingente; di questa o quella posizione dogmatica, per
inv.::stire pi6 diret- tamente il dogmatismo nella sua generalità". Di non
poca importanza è poi ricordare che, entro i termini Enesi- demo-Agrippa,
1'indirizzo scettico che si viene costituendo in metodo, si incontra con
l'indirizzo della medicina empirica. Certamente separati in principio
(l'indirizzo medico teorico e l'indirizzo medico empirico, in contrasto tra di
loro, risalgono a Ippocrate: sappiamo già il significato filosofico e
metodologico che la medicina assunse proprio dai tempi di lppocrate: cfr. I
vol.). Probabilmente la denominazione • medici teorici" (loghil(6t), 200
risale a un'opera in sei libri del medico Eraclide di Taranto, del
I se- colo a. C., intitolata La scuola empirica. Eraclide di Taranto, che fu
discepolo di Tolomeo di Cirene, con il quale, sembra, si sia, di contro
all'Accademia, restaurato l'originario pirronismo, avrebbe metodologi- camente
fondato l'indirizzo empirico della medicina, rifacendosi a Filino di Cos,
Serapione di Alessandria, Glaucia di Taranto e Apollonio il Vecchio. Serapione
- scrive Celso - primo fra tutti professò che la medicina non ha nulla a che
fare con la scienza razionale, ponendola soltanto nella pratica e nelle scienze
sperimentali... Coloro che prendono il nome di em- pirici, a motivo
dell'esperienza, tengono conto delle cagioni manifeste, come necessarie; e però
sostengono essere ozioso disputare intorno alle cause occulte e alle funzioni
•naturali, essendo la natUra incomprensibile. Non potersi poi comprendere è
chiaro per le discordi opinioni di coloro che ne hanno discorso, non avendosi
potuto ottenere consenso in tale que- stione, né tra filosofi, né tra gli
stessi medici. Se si considerano le ragioni, tutte possono sembrare probabili;
se si considera la cura, ciascuno vanta le sue guarigioni: non è perciò
possibile negar fede alla disputa o all'au- torità di alcuno (Celso, De re
medica, l, proemio). Anche se non possiamo dire se l'Eraclide, maestro di
Enesidemo, di cui parla Diogene Laerzio (IX, 116), sia Eraclide di Taranto,
certo è che dopo Eraclide ed Enesidemo l'indirizzo scettico e l'indirizzo della
medicina empirica s'influenzarono vicendevolmente, finché con Meno- doto i due
indirizzi confluirono in un unico metodo di ricerca scienti- fica. Sappiamo che
dopo Eraclide di Taranto, proseguirono sulla sua linea, durante la prima metà
del 1 secolo d. C., Diodoro che compose un'opera intitolata Questioni
empiriche, Lico di Napoli, Zopyro di Alessandria, Archibio, Apollonio di Cizio
e un certo Zeucsis. Il Robin (Pyrrhon et le scepticisme grec, Parigi;
anche PRA (si veda)), tenendo presente
il sunto che dell'opera intito- lata Dictyaca di Dionigi di Egea, vissuto sulla
fine del 1 secolo d. C., offre Fozio (Myriobiblion), in cui
"dialetticamente," d4:e Fozio; su di una stessa: questione di
medicina si avanzano cin- quanta argomenti pro e contra, e ricordando che
Diogene Laerzio nel- l'elenco dei seguaci di Enesidemo pone uno Zeucsis, detto
dai "piedi a squadra" (goni6pus), dicendolo autore di un'opera inti-
tolata Duplici discorsi, in cui evidentemente si mettevano in discus- sione
varie opinioni con il metodo dei pro e dei contra, suppone che lo Zeucsis
medico sia da identificare con lo Zeucsis scettico. Non sa- premmo certo dire.
Certo è che la vicinanza tra medici empirici e indirizzo scettico, senza dubbio
chiarissima in Menodoto, è indicativa dell'atteggiamento metodologico assunto
nel I secolo d. C. dallo scet- ticismo, di contro alla filosofia verbosa, in
una precisazione di quelli che sono i limiti e le possibilità della ricerca,
che non può non svol- gersi, per essere utile e scientificamente valida, sç non
sul piano umano, nella determinazione di nessi e rapporti che si possono
cogliere solo entro i termini dei "segni rammemorativi," ragionando
sui dati del- l'esperienza, donde i tre punti fondamentali del metodo empirico
della medicina, del resto già presenti nel tripode empirico di Serapione di
Alessandria: autopsia (osservazioni e ricerche del medico fatte in per- sona),
historie (raccolta sistematica delle osservazioni fatte ~a altri medici),
mimesi o, se vogliamo, semiotica (dall'un segno di una ma- lattia, simile ad
altro segno, determinare volta per volta il quadro cli- nico della malattia e
il rimedio pratico da adottare), indipendente- mente dallà ricerca di cause
fondate sù concezioni generali e filosofiche (su cui si fondavano i medici
dogmatici), per cui poteva servire la polemica e l'appello all'autonomia del
discorso scientifico, mai chiuso in una dottrina definitiva, sempre aperto a
nuova ricerca (sképsis), de- lineati dall'indirizzo del neo-scetticismo, che,
pur per polemica rifa- cendosi al primo scetticismo di Pirrone e di Timone, assume
di fronte alla cultura quale si era venuta configurando tra la fine del I
secolo a. C. e il principio del I d. C~ ben altro atteggiamento piu
strettamente logico-metodologico. La conclusione sull'insignificanza e
l'illogicità di qualsiasi discorso, che voglia significare il discorso del
reale (quale ch'esso si creda dimostrare che sia), poneva in·crisi tutta una
cultura acquisita, la fiducia nei risultati di certe scienze (fisica,
astronomia) e perciò stesso i fondamenti di un'educazione enciclopedica; si
rivelav, inoltre, la presunzione di poter stabilire quella stessa educazione su
basi precostituite, in un passaggio gratuito dal logico all'ontico, richiamando
ad una consapevolezza critica che spezzasse ogni istitu- zionalizzazione del
sapere. Certo, pur discusse criticamente le possibilità umane di cogliere (di
là da ciò che si presenta nella rappresentazione dei sensi e della ragione e in
ciò che mediante l'attività soggettiva si viene costruendo) l'essenza delle
cose e la ragion d'essere del tutto, il discorso della realtà, negato che sul
piano ontologico si possa dire il "vero," che perciò non esistono né
il vero né la verità, proprio nella negazione di un qualsiasi passaggio dal
logico all'ontico, restava fissata e presupposta l'esistenza di una realtà,
ignota e oscura, oltre le possibilità dell'umano discorso e dell'umana
comprensione, ma senza dubbio essa, in quanto realtà, se. afferrabile,
fondamento della verità e della condotta della vita. Si sarebbe potuto, sul
piano scettico, andare piu in là: una cosa è giungere a negare la possibile
conoscenza della realtà (il· che presuppone già una realtà: materia, anima,
Dio), altra cosa, non presupponendo alcuna realtà, vedere come si pongono,
discorrendo, le realtà. In altri termini, giunti alla sospensione del giudizio
sulla realtà, si sarebbe po- tuto, rovesciando il discorso, fermi restando gli
argomenti scettici nei confronti del dogmatismo, vedere come si costituisce la
realtà attra- verso il giudizio stesso, come, attraverso il giudizio, e la storia
dd giu- dizio, si costituisce questa o quella fisica, questa o quella
matematica, questa o quella condotta di vita: non vere se si presuppone una
realtà - sia pur ignota e acatalettica, -vere se si possono vedere, nel tempo,
come costruzioni, in cui si annulla la dualità soggetto-oggetto. Di fatto ciò
non avvenne. Di. fatto il richiamo, fondamentale, dello scet- ticismo a una piu
approfondita consapevolezza critica, si risolveva, nelle sue conclusioni
estreme, da un lato in un'esatta dimostrazione che ogni pretesa filosofica a
significare la realtà è un non-giudizio, una proposizione senza senso,
dall'altro lato in una assoluta "sospen- sio~e dd giudizio," ché,
accantonando la realtà (e perciò presuppo- nendola) e negando verità e
significanza a ogni giud,izio - proprio perché ritenuto sul piano della realtà,
- portava alla negazione di qualsivoglia "fisica" o di qualsivoglia
ipotesi che potesse rendere pen- sabile e costruibile la realtà (donde.anche la
critica al cosiddetto dogmatismo dell'ipotesi epicurea),.e; per le stesse
ragioni, l'accanto- namento, nell'imperturbabilità, raggiunta appunto con la
"sospensione del giudizio," di ogni tipo dì condotta morale, onde
l'accettazione, in una rinnovatasi pigra ratio, di qualsiasi costume
storicamente de- terminatosi ("lo scettico, senza preconcetti dogmatici si
attiene all'os- servanza della vita comune, e, perciò, nelle cose opinabili si
mantiene impassibile, e in quelle che sono di necessità mediocremente
patisce": Sesto Empirico, Py"h. hypot.). Tutto ciò non solo dimostra
l'influenza del neoscetticismo, ma sembra anche spiegare in che senso,
accantonata appunto la pretesa di cogliere mediante i sensi o la ragione
l'essenza della realtà e la verità, ma sempre presupposta la realtà, si tentino
altre vie che possano giustifi- care la presenza di quella realtà umanamente
ignota e nascosta, che permettano, anche se su altro piano, di cogliere quella
realtà, o di es- serne còlti; la realtà allora, sciolta da ogni razionalità,
poteva benissimo essere intesa come assoluta trascendenza, oltre i sensi e la
ragione, essa stessa fonte di razionalità, o come assoluta libertà e perciò
assoluta persona, e su essa e per essa conformare la propria condotta· di vita
(di qui il prevalere dell'esperienza detta religiosa). D'altra parte, le
possibili vie imboccate, a cominciare da quella assunta da Filone l'Ebreo, che
ebbe poi grandissi1,11a influenza, non si possono vedere bene, se non si
tenga presente anche la storia di Roma e dei paesi assog- gettati a Roma,
particolarmente dalla morte di Tiberio (!/ d.C.) ìn poi, soprattutto per ciò
che riguarda la pOlitica individuale e assoluti- stica dei singoli imperatori e
la situazione sociale, o, gia prima con Filone l'Ebreo, la situazione storica
in cui, con l'avvento dell'Impero, s'era trovato; in Alessandria,
n·"popolo ebreo.•l. Cultura e crisi politica al principio del l secolo d.
C. Il corso dd 1 secolo d.C. presenta, evidente, una crisi morale, che, ad un
tempo, risponde ad una piu profonda crisi politica e sociale. Se le strutture e
la potenza dello Stato romano rimangono forti, se la sua cultura
istituzionalizzatasi apparentemente risponde ai fini dd- l'Impero quale si era
costituito con Augusto, in effetto, da Tiberio in poi, i contrasti interni si
fecero sempre piu drammatici. Alcuni impe- ratori giustificarono
il proprio potere assoluto mediante la propria pro- clamazione a divinità
(onde la loro simpatia per certi culti e misteri orientali, dalle religioni di
Iside e &rapide, a quelle di Cibele, di Attis, di Sabazia e di Mitra) ed il
loro contrasto, in particolare, con lo Stoicismo, in cui si vedeva la
concezione di uno Stato universale e di.un diritto, l'opzione per una condotta
di vita e per una cultura che pote- vano minare la politica stessa dei singoli
imperatori. Sono dati precisi. Già con Tiberio fu bandito da Roma lo stoico
Attalo e messo a morte, perché repubblicano, Cremuzio Cordo ("egli lodava
Bruto e diceva C. Cassio l'ultimo dei romani": Tacito, Annali.), mentre CALIGOLA
fa uccidere Giulio Cano, e Seneca, perseguitato da Claudio, fin! poi per
uccidersi sotto Nerone, mentre venivano mandati a morte Trasea Peto, anch'egli
ritenuto emulo di Bruto (Tacito, Ann.) e Rubellio PLAUTO (si veda), accusato,
come riferisce Tacito, d'esser seguace della "arrogante setta degli
Stoici, che rende turbolenti e desi- derosi di disordini." Musonio Rufo e
Cornuto vennero esiliati. Nel 71, sotto Vespasiano, tutti i filosofi vennero
espulsi da Roma, mentre Dione Crisostomo, ancora insegnante di retorica,
scriveva il Discorso con- tro i filosofi, "peste della città e dei
governi," e DOMIZIANO espulse di nuovo da Roma i cultori di filosofia
preoccupato per gli effetti della retorica, qualora questa non rimanesse sul
piano pura- mente scolastico, di esercitazione. Il potere, d'altra parte, si
restringeva sempre piu nelle mani di pochi, cultura e retorica dovevano servire
ai funzionari dello Stato (e appunto per essi si apriranno in Roma e nei suoi
domini le scuole, che verranno poi sempre in for~pa maggiore controllate
dall'imperatore), le popolazioni divennero sempre piu povere e la schiavitu
strumento economico, mentre in tutto l'Impero schiavi e militari circolano,
provenienti dai paesi piu diversi, recando con sé esperienze, culti e culture,
religioni diverse. Cosf, entro tale atmo- sfera generale, entro i diversi
sostrati sociali in cui ci si muove, a seconda anche dell'imperatore e della
sua corte entro la quale per sorte si vive, si capisce come la filosofia
potesse soprattutto esser coltivata, da un lato come guida alla vita, rifugio,
consolazione, dall'altro lato come rifles- sione su esperienze religiose, quale
indice di salvazione, di liberazione dal guaio di esser nati uomini. Di qui,
sempre, entro l'ambiente greco romano, fin dal principio del 1 secolo d. C., la
ripresa di certi asP-C=tti dello stoicismo, del pitagorismo, del platonismo
stoicheggiante, e, in altri sostrati sociali, il recupero di suggestioni
magiche, teurgiche, oracolari, di certe posizioni che si configurano nel
cosiddetto gnosticismo, il costituirsi, accanto al commento dei libri del
passato (Platone, Aristotele), dei testi ermetici, orfici, il riapparire dei
misteri, e, infine, non ultima, la suggestione del Cristianesimo. Sotto questo
aspetto, la critica scettica, fin da Enesidemo, sembra abbia avuto una notevole
influenza e funzione. Ad esempio, proprio rifacendosi a Enesidemo (o almeno ad
argomentazioni scettiche che furono poi sostenute da Enesidemo), dando a lui
ragione nei confronti dei superbi ed atei dogmatici, un Filone l'Ebreo poteva
rimettere in discus-- sione il problema della verità, ma inserendosi, sotto
tutt'altro aspetto, in tutt'altra esperienza e tradizione, delineando il motivo
della "rivela- zione," mediante cui, poi, recuperare certi motivi
della vecchia cultura. Per altra via, un Seneca, in una situazione politica
cangiata, entro i ter- mini di una crisi di una cultilra, poteva, proprio
riallacciandosi alla pole- mica scettica, trovare i fondamenti della condotta
della vita in uno stoi- cismo, che, in realtà, non ha piu nulla a che fare con
lo stoicismo della scuola. In certe esperienze religiose di origine orientale
si cercò, di là dalla ricerca razionale, di fronte al suo fallimento, di
trovare il fonda~ mento della vita e della propria salvazione. Pur accettando
l'istanza scet- tica, pur convinti che inafferrabile è l'essenza e la struttura
della realtà, si accantonava anche la via dell'ipotesi probabile, utile a
determinare di volta in volta, non solo una possibile fisica, ma una possibile
condotta di vita, cui convincere (com'era stato il caso di Filone di Larissa e
di Cicerone), e per cui era necessaria una retorica in senso ciceroniano. Essa
avrebbe avuto bisogno però di un foro, di una piazza, di un'assem- blea, Ove
fosse stato possibile discutere e convincere, foro e piazza che 230 non
esistevano piu (non si scordi che molti filosofi, un Seneca, ad esem- pio,
sotto Caligola, un Giunio Rustico, sotto Domiziano, furono perseguitati o
condannati a morte, per certi loro discorsi pubblici). La retorica perciò si
venne trasformando di nuovo in esercitazione o in tipo di inse- gnamento
scolastico, come si vedrà bene in Quintiliano, il cui ciceronia- nesimo sarà
estremamente istituzionale (non a caso l'autore del Dialogo degli oratori,
attribuito a Tacito, ma certo contemporaneo di Quinti- liano, poteva sostenere
che la verace efficacia della retorica si era venuta perdendo con il prevalere
del dispotismo). E cos{ si capisce ché insieme alla retorica, entro l'ambito
scolastico,.si sviluppassero discussioni di grammatica e di dialettica; da qui,
soprattutto, il commento dei libri logici di. Aristotele, la cui applicazione
poteva, poi, essere ben lontana dai contenuti aristotelici, tanto che il
commento ai libri della logica aristotelica poteva incontrarsi, formalmente,
con certi aspetti della logica stoica. Per altro verso, invece, si poteva far
di nuovo viva l'istanza cinica e l'ultima retorica rimasta: la presentazione·di
esempi, di modelli di vita. 2. Astronomia e astrologia al principio del l
secolo d. C.: loro esiti. Manilio Particolare interesse assume ora, entro
questi termini, il delinearsi della interpretazione, in chiave
stoico-platonica, dei molti aspetti con cui erano penetrate nel mondo
occidentale - fin da Platone con certezza - le concezioni
astronomico-teologiche di origine orientale, ove non vanno scordati i nomi di
Beroso, di Asclepiade Mirleano, l'opera dello pseudo Nechepso-Petosiride,
attraverso i cui scritti sappiamo che circolarono già dal secondo secolo a. C.,
in ambiente alessandrino molti dei piu impres- sicmanti motivi magico-astrologici.
Sul piano delle concezioni astrono- miche, è abbastanza facile scorgere, fino
a:l principio del I secolo d. C., due grandi linee, che, por, nel corso del I
secolo, vennero fondendosi, dando luogo a esiti piu strettamente magici. Da un
lato vediamo Ia linea, scaturita dall'interpretazione dei movimenti, dei
significati e fini delle stelle, che risale ai secondi pitagorici, al Timeo e
all'Epinomide (in cui chiara appare la sostituzione del vecchio culto degli dèi
olimpici con il nuovo culto degli astri, manifestazione dell'ordine e delle
leggi della suprema ragione divina) e che prosegue con l'interpretazione clean-
tea del logos spermatikos, che, fuoco supremo, si realizza attraverso i fuochi
e le luci stellari (Inno a Zeus), con i Fenomeni di Arato e poi con i manuali
di origine stoica sui segni celesti e sulle influenze delle stelle sulla terra.
Dall'altro.lato vediamo la linea scaturita dallo sforzo di rendersi conto dei
movimenti stellari in ter~ini razionali, "salvando i fenomeni," e
che, se anche d'origine pitagorico-platonica, venne svolgen- dosi su di un
altro piano, su di un piano fisico in traduzione geometrico- matematica, perché
fossero possibili calcoli e misure, e in ipotesi che rendessero conto degli
apparenti errori, indipendentemente dal ricercare supreme ed allotrie ragioni
(e pensiamo qui ad Eudosso di Cnido, Era- clide Pontico, e poi ai grandi
astronomi di Alessandria, fino a.Ipparco di Nicea e, almeno parzialmente, a
Posidonio, nel suo tentativo di "fami- liarizzare l'universo"). Si
capisce bene, d'altra parte, come a quella che dicevamo la linea
platonico-stoica potessero servire i calcoli e le misure deil'altra linea, che
determinando, appunto mediante i calcoli, la neces- sità dei movimenti, le
risultanti dei loro rapporti e cosi via, razionaliz- zava e rendeva possibile
la divinazione, giustificando la necessità entro cui si scandiscono il ritmo e
l'ordine divini. Anche se indirettamente ed in forma alquanto sospetta,
sappiamo che Posidonio (cfr. sopra) cercò di inquadrare certi risultati fisici
e matema- tici entro i termini dell'ipotesi fisica dello stoicismo. Secondo
Simplicio (In Phys Arist., Diels), che riprende un testo di Ge- mino (Epitome
dei Meteorolog•), riportato da Alessandro Filopono, Posi- donio, occupandosi
del sole e degli astri, ne avrebbe determinato il movi- mento, valendosi del
metodo geometrico e matematico. Egli cioè avrebbe considerato pesi, grandezze e
tempi di movimento, per formulare ipotesi che servissero a spiegare i fenomeni
del cielo, ad esempio l'irregolarità del movimento del sole (cfr. Simplicio,
Fisica di Arist., cit.). Sembra, anzi, che Posidonio per spiegare ed illustrare
i moti degli astri abbia costruito una sfera. (cfr. Cicerone, De natura deorum:
"La sfera, che re- centemente ha costruito il nostro caro amico Posidonio,
riproduce in ogni sua rivoluzione gli stessi fenomeni relativi al sole, alla
luna e ai cinque pianeti che avvengono ogni giorno e notte in cielo: chi
dubiterà, ve- dendo tale sfera, ch'essa è dotata di una ragione perfetta?").
D'altra parte, se la sfera rendeva conto delle apparenze e permetteva calcoli e
misure, non permetteva di rendere ragione dei movimenti stessi. Biso- gnava per
ciò, sostiene sempre Simplicio, rifacendosi a Posidonio, "muo- vere dai
principt generali delle qualità del movimento, dal principio della
7tOL'Jj'rLX1j 8uvcx(Lr.t;, determinando l'essenza del cielo e degli astri"
(Sìm- plicio, Fisic. Arist., cit.). Ora, accanto all'ipotesi stoica,
probabilmente formulata da Cleante, secondo cui la ragion d'essere del tutto è
un prin- cipio attivo, un fuoco vitale, ragione seminate che ovunque si
diffonde, costituendo un tutto necessariaemnte ordinato, "ragione, unica
di tutti, che si svolge e vive per l'eternità," "comune ragione che
in tutti pene- tra, ugualmente toccando il grande [sole] e i minori lumi"
(Inno a Zeus), non vanno scordate le ipotesi aristotelica ed epicurea. Se da un
lato Aristotele, nella sua sistemazione cosmologica, era ricorso all'ipotesi di
un primo motore immobile, dall'altro lato Epicuro, di contro al teleologismo
platonico-aristotelico, aveva sostenuto l'impos- sibilità, sul piano
sperimentale, di formulare qualsiasi ipotesi generale, sottolineando, di contro
all"'unica spiegazione," il valore delle "molte- plici
spiegazioni." "I segni dei fenomeni celesti ce li forniscono i feno-
meni che accadono presso di noi e che si vede bene come e dove acca- dono, e
non i fenomeni celesti stessi, che possono avvenire in molte maniere"
(Epicuro, Lettera a Pitocle). Entro i termini di un meccanicismo casuale si
eliminava ogni necessaria determinazione, ci si liberava dal concetto della
provvidenza divina. "E non si chiami in causa la natura divina... Se non
si farà cosi, ogni indagine sulle cause dei fenomeni celesti sarà vana, come è
avvenuto a certuni che ignorando il metodo delle possibili spiegazioni caddero
in vuote argomentazioni, perché credevano al metodo dell'unica
spiegazione" (Epicuro, Lettera a Pitocle). Proprio di contro alla tesi
epicurea - di cui sappiamo le preoccu- •pazioni che suscitò per i suoi esiti
politici, sganciando l'uomo e le cose da ordini precostituiti, da una ragion
d'essere universale, per cui e cieli e mondi e uomini apparivano scaturiti a
caso, onde si accusò Epi- curo di sragionevolezza e di empietà di contro a
Epicuro, dunque, sembra che Posidonio abbia avanzato l'ipotesi del tutto
animato e vi- vente, secondo la tesi della "simpatia universale."
Egli si sarebbe cosi riallacciato, · relativamente agli ordini e ai movimenti
stellari, a certi testi del Timeo e dell'Epinomide, interpretati mediante la
concezione fisico-animistica di Cleante e di Arato, in una visione cosmologica
in cui poteva rientrare anche la sistemazione aristotelica, una volta che il
motore immobile, Dio, non fosse piu concepito come un concetto, una condizione
logica, ma come forza attiva, l6gos spermatik6s, che non esiste se non nel suo
manifestarsi, e di cui, fin dalle stelle, cominciando dal sole, tutte le cose
sono aspetti e determinazioni. Si vede bene cosi come Achille Tazio, discutendo
il significato dei Fenomeni di Arato, interpretasse la tesi posidoniana come
l'unica ipo- tesi valida da potersi sostenere contro l'ipotesi degli Epicurei,
secondo cui gli astri non sono affatto animati ("Posidonio polemizza con
gli Epicurei, i quali negano che gli astri siano animati, perché racchiusi nei
corpi. Secondo Posidonio non sono i corpi a racchi.udere le anime, ma le anime
i corpi, ché le anime son come la colla che tiene unita se stessa e le cose di
fuori": Achille Tazio, Isagoge in Phaen. Arati, 13, ed. Maas). Sotto
questo aspetto, dando ad anima il significato di forza, di calore vitale,
organizzante, sembra chiaro in che senso si potesse, sia pur analogicamente,
spiegare il movimento in sé ponendo, al limite, un 233 princip10 di vita, una forza
attiva, non a caso.detta fuoco, inesistente in sé se non appunto nella sua
stessa estrinsecazione. I movimenti de~li astri costituiscono perciò ·gli
stessi moti d,ell'intelligenza divina, e gli astri sono essi stessi fuoco
(secondo Stolieo Posidonio scriveva che gli "astri sono a&JL«.&ei:ov,
corpo divino, fatti di etere splendente e infuo- cato, mai in.quiete, ma sempre
in movimento circolare": Stobeo, Ecl.), corpi divini, come fuoco è Dro,
onde tutte le cose, avendo ciascuna la propria ragione seminale, il proprio
fuoco, la propria luce, la propria anima, sono, sia pur ìn gradi sempre piu
affievoliti, riper- cussioni e riflessioni dei fuochi, delle luci siderali. Già
qui si saldano le due linee di cui sopra parlavamo, e..se da un lato ·si
ren<;leva possibile lq sfruttamento. dei risultati geometrico-mate- matici,
dall'altro lato si potevano rendere razionali le suggestioni di certa magia
astrologica, di origine sacerdotale, che si era venuta dif- fondendo attraverso
i cosiddetti Caldei, per cui, in fine, al vecchio impe- rativo "vivi
secondo natura," si poteva sostituire l'imperativo "vivi secondo le
stelle," secondo la tua stella, ché ciascuno, ·concepito' sotto il
riflesso di un certo fuoco stellare, in una certa situazione e congiun- zione
di stelle, assume per riflesso quel fuoco, quella figura siderale, ha il suo
destino che è destino divino, comprensibile da parte di chi conosce l'ora
(oroscopo) delta ct>ncezione e.Ja posizione delle stelle, e sa, seguendo il
moto delle stelle, fare i giusti calcoli, prendere le giuste misure, ché
l'istante della nascita determina quello della morte: "Na- scentes
morimur, finisque ab origine pendet";. "Fata regunt orbem, certa
stant omnia lege" (Manilio, Astronomicon, IV, 16, 14; cfr. Cumont, Les
religions orienta/es, Parigi). Da un lato, dunque, di contro alla libertà di
Epicuro che fa l'uomo responsabile del suo morido, lanciato in una infinità·di
mondi, si tende, "familiarizzando" l'universo, di ricondurre
l'universo a una sola unità e a una sola legge, di cui, "microcosmo"
nel "cosmo," l'uomo è parte in una cospirazione di parti in funzione
del tutto ("simpatia"); dal- l'altro lato, entro i termini di questa
concezione, si tende, recuperando calcoli e misure dell'astronomia, recuperando
la simbolica dei numeri e la geometria dei pitagorici, a· razionalizzare il
costituirsi e il destino di tutte le cose, compreso l'uomo. Si veniva cosi:· a
delineare la possibi- lità di uria scienza della. natura e di una teologia
scientifica, che risol- veva in sé l'aspetto pragmatico-magico di molte
credenze astrologiche diffuse dai cosiddetti Caldei, ed ove si poteva
considerare la stessa divi- nazione e predizione del futuro non solo rispetto
all'universo, ma all'uomo, come frutto di una serie di conoscenze e' come vero
e proprio possesso di un complesso di tecniche. Abbiamo di proposito lasciato
nel vago l'apporto delle. credenze astrologiche, delle pratiche magiche, delle
superstizioni religiose, di certe concezioni e misteri, provenienti
dall'Oriente, proprio perché tutto questo è estremamente vago, e perché, in
realtà, non possediamo docu- mentazioni precise. Possiamo dire solo questo, che
con il termine Caldei, sia in Roma sia in Grecia (in Grecia fin dal tempo di
Platone) si sole- vano indicare quei sapienti, indipendentemente ormai dalla loro
ori- gine, che soprattutto sfruttarono sul piano del sapere da un lato, almeno
in principio, concezioni astronomiche di origine babilonese, dall'altro lato
gli esiti che tali concezioni potevano avere sul piano della divina- zione e
della previsione basate sui fenomeni celesti (cfr. Diodoro Siculo, Il, 29
sgg.). Che naturalmente molti di costoro, giuocando sulle superstizioni
popolari, fossero rimasti quei tali mendicanti, sacerdoti imbroglioni e
indovini di cui parla Platone (cfr. Repubblica), è certo, come risulta da non
poche testimonianze. D'altra parte è senza dubbio vero che notevole, entro
l'àmbito di tali ricerche astrologiche, fu l'influsso di certe religioni
(pensiamo qui particolarmente al maz- deismo e al mitracismo) e di certe
raccolte relative alle influenze delle piante, delle pietre, degli astri, di
provenienza orientale (da Ostane, da Zarathustra), diffuse in Egitto da
Petosiride (sembra di lui un'opera di astrologia del n secolo a. C.: cfr.
Catai. codd. astrologorum graec.) e da Beroso, sacerdote babilonese di Bel,
autore di Babi- lonicà, dedicati ad Antioco I Sotèr, ad un tempo interprete di
antiche teorie babilonesi. Ricordiamo qui, per la sua vicinanza con certe
concezioni stoiche (e perché è un chiaro indice di come sia difficile distinguere
provenienze e separazioni precise) la dottrina, di origine siriaca, dei grandi
cicli annui che si scandiscono sulle rivoluzioni celesti dando luogo al
concetto dell'eternità divina che, operando mediante le stelle e le loro
influenze, è onnipotente su cose, uomini, popoli (cfr. Catai. codd. astro/.
graec.). "Il primo postulato dell'astrologia caldea è che tutti i fenomeni
e gli avve- nimenti di questo mondo sono necessariamente determinati dalle in-
fluenze siderali. I cangiamenti della natura come le disposizioni degli uomini
sono fatalmente soggetti alle energie divine che risiedono nel cielo. In altri
termini, gli dèi sono onnipotenti; sono i padroni del Destino che sovranamente
governa l'universo. Tale nozione della loro onnipotenza appare come lo sviluppo
dell'antica autocrazia che si rico- nosceva ai Baal. Costoro erano concepiti ad
immagine di un monarca asiatico, e la terminologia religiosa si compiaceva di
sottolineare l'umiltà dei loro servitori rispetto ad essi. Non Si trova in
Siria nulla d'analogo a ciò che esisteva in Egitto, ove il prete riteneva di
poter costringere i suoi dèi ad agire ed osava perfino minacciarli" (F.
Cumont, Les reli- gions orienta/es dans le paganisme romain). Sotto questo
aspetto, non vanno dimenticate le
suggestioni di certi rituali egiziani, che me- diante la precisione delle
parole sacre incantano ed obbligano le potenze superiori, donde il valore dato
alle parole evocatrici e a certi gesti dd rituante, di cui non pochi lasciti
ritroviamo in quei testi che poi riflui- rono nel Jilorpo ermetico (cfr. Boll,
Sphaera; Cumont; Festugière, cit., vol. I), mentre per altra via si poté intra-
vedere la possibilità d'inventare tecniche mediante cui operare su quella
stessa fatalità astrologica, spezzandone la catena (donde, poi, nel n se- colo
d. C., la teurgia e la magia scientifica). E cosi, entro quest'àmbito della
astrologia, va ora sottolineata l'importanza che vengono assu- mendo, non pìu
in senso mnemonico, non piu solo lasciti di totem e dì primordiali magie
amuletiche, le figure delle stelle (la vergine, i gemelli e cosi via) e le
figure delle stelle di provenienza persiana, in un insieme di animali
fantastici (la cosiddetta "sfera barbarica"),-donde, poi, l'aspetto
mimetico della magia, l'imitazione della figura e della ragione del proprio
astro. Tutti questi aspetti, in principio senza dubbio separati, di prove-
nienze diverse, operanti in ambienti sacerdotali, sulla fine del I se- colo a.
C. vengono diffondendosi - non sembra un caso la polemica di Filone l'Ebreo nei
confronti dei Caldei che riducono il divino al complesso delle stelle, s(come
non è un.caso l'ironia degli scettici, già fin da Carneade, nei confronti delle
pretese dell'oroscopia, - vengono laicizzandosi e, interpretati in chiave
stoica, si risolvono in una vera e propria teologia razionale, scientifica, nel
tentativo di una spiegazione della fatalità. Sotto questo aspetto si vede bene
come l'astrologia sul principio del 1 secolo d. C. potesse penetrare e fosse
accettata in Roma nell'ambiente stoicheggiante di Augusto e di Tiberio.
Testimonianza precisa di questo incontro di tradizioni diverse astro- logiche,
interpretate e sistemate entro i termini dello stoicismo, sembra essere il
poema in cinque libri (Astronomicon) di Manilio,l composto l Nulla ~ stato
tramandato della vita di M. Manilio. Ch'egli sia vissuto ed abbia composto il
suo poema A.stronomicon, in 5 libri, tra Augusto e Tiberio lo si oonget- tusa
da alcuni accenni che si ritrovano nella sua stessa opera. Nel proemio vi ~ un
chiaro accenno ad Augusto, si come di Augusto anoora vivo Manilio parla nel
libro II, affermando che il Capricorno rifulse nel giorno in cui Augusto
uaoque. t ricordata la disfatta di Varo, avvenuta nel 9 d. C., come avvenimento
recente. Nel IV libro si accenna chiaramente a Tiberio come da poco succeduto
ad Augusto. Nel V libro, infine, sembra si accenni all'incendio del teatro di
Pompei, avvenuto nel 22 d. C. Poich~ il V libro appare chiaramente interrotto
si ~supposto che Manilio sia morto, appunto, nel 22. A proposito degli
interessi per un certo tipo di questioni astronomiche occorre qui fare il nome
di C. Giulio Cesare Germanico, nato nel 15 a. C. da Nerone Claudio Druso ~anico
e da Antonia Minore, adottato nel 4 d. C. da Tiberio contemporaneamente, a sua
volta, adottato da Augusto, morto nel 19 d. C. Uomo di ampia cultusa, autore di
contra il 9 e il 22 d. C., a Roma, in un riconoscimento, talvolta commosso e
pieno di stupore di fronte alla fatalità del tutto, dell'architettura del-
l'Universo e della sua razionalità (del cui scandirsi fatale incarnazione è
l'imperatore: si vedano gli accenni ad Augusto, e a Tiberio), in una netta
contrapposizione allo sconcertante e libero costituirsi degli infi- niti mondi
epicurei, alla libera mater, feconda e libera materia da cui tutto liberamente
si genera, di lucreziana memoria (non a caso alla struttura esterna del poema
di Lucrezio si avvicina in antistrofe il poema di Manilio). Sorge ogni astro
secondo la propria luce e osserva un ordine preciso nel suo nascere e nel suo
tramontare. Nulla v'è di piu meraviglioso, in s1 gran massa, che questo
razionale ordine e il fatto che ogni cosa obbedisce a leggi fisse... Chi
potrebbe credere che tutto questo avvenga senza· uo nume e che il mondo sia
stato creato da minime particelle [gli atomi], unite alla cieca? Non è opera
del caso, questa, ma ordine che proviene da un nume possente (Manilio).
Difficile è dire, relativamente alla costruzione che dell'Universo offre
Manilio, sia per l'aspetto piu propriamente geografico, sia per quello piu strettamente
astronomico, quanto egli si sia servito delle opere di Posidonio - in
par.ticolare, si è detto, delle Meteore, del Protreptico, dell'Oceano. - Certo,
abbastanza evidentemente si rintraccia la linea che va dal Timeo,
all'Epinomide, ai Fenomeni di Arato, in una inter- pretazione genericamente
stoica, in chiave teologica. Ma v'è di piu: in Manilio è indubbia una traccia
di motivi astrologici di origine orien- tale. In un codice Angelico (grec. 29,
sec. xv, c. 120: cfr. Cumont, Cat. cod. astrol., VI, p. 188; F. Boll, Sphaera,
p. 53), è esposta una dot- trina di Asclepiade Mirleano (del 1 sec. a.C.: cfr.
B.A. Miiller, De Asclepiade Myrleano, p. 22) sulle costellazioni della sfera
barbarica e sull'influsso che tali costellazioni hanno sugli uomini nati sotto
di esse, dottrina che ritroviamo in Manilio (V, 262 sgg.); non solo, ma, se-
condo Firmico Materno (Proemio), alcuni motivi Manilio li avrebbe ripresi dagli
scritti di Nechepso e Petosiride; in realtà in un frammento di Nechepso e
Petosiride (Riess) ritroviamo proprio gli stessi motivi trattati da Manilio
sulla Fortuna e l'oro- scopo, risolti mediante la disposizione dei segni
siderali, i dodekate- moria, le sorti dei dodici luoghi. Ma ciò che piu
colpisce è la sistema- medie in greco e di epi8fammi in latino e in 8fCCO,
ottimo oratore, Germanico libera- mente rielaborò iJIOeDli di Arato: abbiamo
700 versi del rifacimento dei Fenomeni, modifi· c:ati in funzione delle nuove
scoperte in campo astronomico; e circa 200 versi di un'oJ)era sempre di argomento
astronomico, probabilmente un rifacimento di Prognostica da inclu- dere nei
Fenomeni, a loro completamento.
237 zione del tutto entro i termini di un ordine razionale,
di cui appunto tutto - dai cieli, alle influenze stellari, ai conflitti tra le
costellazioni - è rivelazione, manifestazione di una unica ratio gubernans. In
tal senso, già notevole come indicazione, è una pur breve traccia della
struttura e del contenuto del poema, che, per la morte dell'autore (22 circa d.
C.), rimase interrotto (il V libro è incompiuto): I libro: forma e origine del
mondo, i quattro elementi (fuoco, aria, acqua, terra), posizione della terra
nel cosmo; cielo, zodiaco, asse del mondo, stelle artiche, natura delle
costellazioni, distanza tra lo zodiaco e la terra, grandezza delle dodici parti
dell'eclittica, circoli paralleli, meridiani, oriz- zonte, eclittica, via
lattea. - Il libro: dodici segni zodiacali (~cf>3tot) loro na- tura, loro
posizione, loro subordinazione ai dodici dèi (Minerva, Venere, Apollo, Mercurio,
Giove, Cerere, Vulcano, Marte, Diana, Vesta, Giunone, Nettuno), loro dominio
sulle membra umane, rapporti reciproci tra di loro, amicizia e discordia nelle
costellazioni, simile a quella che v'è sulla terra, influssi dei sidera cognata
su chi è nato sotto di essi, dodel{atemoria, gli otto luoghi. - III libro: le
dodici sorti, tra cui la Fortuna che determina le loro combinazioni coi dodici
segni, oroscopia, i segni tropici (Cancro, Capricorno, Ariete, Leone). - IV
libro: figurazioni dei segni zodiacali, a seconda delle quali si determinano i
costumi, la condotta, il destino degli uomini, sistema geometrico dei decani,
in una ripartizione ternaria dei segni zodiacali; sorgere dei segni, località
ordinate sotto il potere dei do- dici segni (geografia astrologica),
conflagrazione universale, cosmo e micro- cosmo (l'uomo). - V libro: sistema
del sorgere degli astri (paranatéllonta), visione ordinata del tutto, anche nel
conflitto degli astri, ché su tutto do- mina una piu profonda ragione, in un
solo scandirsi, in cui l'universo appare fatto sul modello dello Stato
augusteo. "Non è opera del caso, questo, ma ordine che proviene da un nume
possente"; "questo dico e questa ragione, che tutto governa, trae
dalle eterne stelle gli esseri animati della terra". E l'uomo, microcosmo
nel cosmo, poiché l'anima umana emana dagli astri, essi stessi fuoco del divino
fuoco, principio di vita del tutto, attra- verso la contemplazione
dell'universo e delle sue leggi, dispiegamento del divino e della sua fatalità,
l'uomo può, ripercorrendo le ragioni del tutto, accettare il proprio fato,
serenamente. "Soltanto nell'uomo di- scende Dio e vi alita e vi ricerca se
stesso. Chi potrebbe conoscere il cielo se non per dono del cielo? Chi potrebbe
trovare Dio, se non chi è parte lui stesso, di Dio?". Lo sforzo di Manilio
appare consapevolmente rivolto a risolvere su di un piano razionale la
fatalità, a far rientrare tutto nell'ordine, siste- mando in unità e ragione,
in un unico impero, i diversi aspetti con cui era penetrata in Roma l'asttologia
e l'oroscopia, ch'egli svuot~ del 238 suo mordente magico e
operativo. Sotto questo aspetto non sembra un caso che il discorso intorno alle
stelle e alla loro fatale influenza (se vo- gliamo astrologia) si risolva entro
i termini di una descrizione delle "leggi" degli astri (astronomia),
manifestazione del divino ordine e della divina ragione, non
"nascosti," non "volontari," e sui quali perciò non v'è
alcuna possibilità di operare, nessuna possibilità mediante evocazioni di
modificarne la volontà, ché la divina ragione è tutta rivelata a chi sappia
contemplarla: Lo stesso Dio non vieta al mondo il volto del cielo e i suoi
aspetti e il corpo svela, e sempre volgendosi s'imprime e si offre perché possa
essere ben conosciuto, perché a chi contempla insegni come si muova e lo
costringa ad osservare le sue leggi. Lo stesso mondo gli animi nostri chiama
alle stelle, né soffre che i suoi legami rimangano nascosti, poiché svelati
essi sono. Chi mai potrà credere ch'empio sia conoscere quello che ci è concesso
di contemplare? Non disprezzare le tue forze perché sono in un piccolo corpo:
ciò che vale è immenso. Sf come poche quantità d'oro valgono piu di molti
cumuli di bronzo, sf come il diamante, un punto di pietra, è ancor piu prezioso
dell'oro, sf come la piccola pupilla ha la capacità di abbracciare il cielo
tutto, e minimo è ciò che gli occhi vedono, mentre guardano le massime cose;
cosi la sede dell'animo, posta sotto il tenue cuore, domina per tutto il corpo
da un angusto limite. Non chiedere la quantità della materia, ma considera le
potenze che la ragione domina, non il peso: tutto la ragione vince - ratio
omnia vincit. Fata regunt orbem, certa stant omnia lege. Divinità svelata il
Tutto, il discorso sugli astri, incarnazioni delle leggi, diviene $Cienza,
studio dellç. rifrazioni e riflessioni dei lumi stel- lari: la stessa oroscopia
e divinazione divengono calcolo, studio di rapporti geometrici e matematici. Di
qui il recupero di molti aspetti della sistemazione della cosmologia di origine
pitagorica (con particolare rife- rimento al fuoco), che si vien componendo con
la cosmologia della fisica stoica, in una strutturazione dell'universo che
poteva essere benissimo quella offerta dal sistema aristotelico. In Manilio,
effettivamente, c'è in forma quanto mai massiccia, l'esito di uno degli aspetti
della fisica e della teologia stoiche, in una sistema- zione, manualistica, dei
momenti con cui si erano venute determi- nando, in linee diverse, le ricerche
astronomico-astrologiche. E tale esito è la matematizzazione del fatalismo in
una coraggiosa consequenzialità - che sembra essere la novità che Manilio si
gloria di introdurre in Roma, - che se toglieva ogni possibilità sia alle cose
che agli uomini, senza alcuna preoccupazione per i problemi impliciti nella
soluzione di una universale casualità, cosi presenti e acuti· in Crisippo e
ancora in Cicerone (cfr. De divinatione), giustificava,' per altro verso, il
signi- ficato dell'impero di Augusto e di Tiberio, di quell'impero che appa-
riva realizzazione della ragion d'essere del tutto, di quella ragione che il
tutto ordina, fatalmente governando. Sotto questo aspetto di non poco momento
sembrano i versi con cui si apre il poema maniliano: Mi accingo, in poesia, a
derivare dal cosmo le divine arti e lç stelle consapevoli del fato che rendono
diversi i casi degli uomini, secondo celeste ragione: e, primo, con nuovi
carmi, commuovo l'Elicona e le selve che ondeggiano pei verdeggianti vertici,
recando inconsueti sacri- fici da nessuno mai prima ricordati. Ma tu, Cesare,
principe e padre della patria, che reggi questo mondo obbediente ad auguste
leggi e che assumi la dignità di Dio in una terra che ti si è affidata come a
un padre, dammi animo, dammi forze per cantare tema sf alto. E, sempre sotto questo aspetto, altrettanto
indicativi sembrano i versi, sottolineati dal Farrington (Scienza e politica
nel mondo antico), che si trovano sulla fine del V libro, con cui s'interrompe
il poema, ché, appunto, conclusasi la sistemazione del- l'universo in un ordine
fatale, in cui ai gradi e alle gerarchie stellari corrispondono i gradi, le
gerarchie, i privilegi della società terrena, Manilio esclama: Ma se fosse
stata concessa al popolo che costttutsce la maggioranza, una forza
proporzionata al suo numero, tutto l'universo sarebbe andato in fiamme. Entro i
termini di tale necessità, di tale ferrea causalità, l'astrologia e la teologia
scientifica, potevano da un lato risolvere io ìina disperata accettazione
consapevole l'inesorabile situazione umana, in un'adeguazione, da parte di ciascuno,
al giuoco delle proprie sorti; dall'altro lato esse sembravano, dal punto
prospettico di chi aveva io mario il potere - essendo nato in una felice
congiunzione stellare - giustificare agli occhi dei piu quel potere stesso,
rompendo il quale si sarebbe rotto con- tro la medesima ragione divina. E non
era, questo, argomento di per- suasione politica da scartare, mentre era ancora
da scartare l'esito opposto alla fatalità, cioè la possibilità, presupposta una
volonta nelle stdle e perciò stesso nella divinità, di operare mediante culti e
simboli, rituali e tecniche su queste volontà, modificandole. Se, dunque,
ancora al tempo di Augusto e di Tiberio si videro di malocchio, da parte della
classe al potere, certi riti e culti d'origine egiziana, si capisce, invece,
l'importanza data all'astrologia caldea, in- terpretata in chiave
stoico-platonica, l'importanza data alla divinazione, l'introduzione nelle
corti degli astrologi, di chi, sapendo fare i calcoli, poteva giustificare
certe azioni, anche una cèrta politica. È stato finemente sottolineato (Cumont)
che se un Destino irrevocabile s'impone, nessuna supplica può cangiarne la
volontà; il culto è inefficace e le preghiere non sono altro, per riprendere
un'espres- sione di Seneca, che le "consolazioni di un animo ammalato, ché
irre- vocabilmente il fato consuma il proprio diritto [ius suum, ove assume un
suo particolare significato il termine diritto], né può essere smosso da alcuna
preghiera" (Nat. quaest.). "E, senza dubbio, alcuni adepti
dell'astrologia, come l'imperatore Tiberio, accantonano le prà- tiche
religiose, persuasi che la Fatalità governa tutte le cose ('circa deos ac
religiones neglegentior, quippe addictus mathematicae plenu- sque persuasionis
cuncta fato agi': Svetonio, Tiberio, 66)...Si erige a dovere morale l'assoluta
sottomissione alla sorte onnipotente, la gioiosa rassegnazione all'inevitabile,
e ci si accontenta di venerare, senza chie- derle nulla, la superiore potenza
che regge l'universo... Le masse, tut- tavia, non s'elevarono a quest'altezza
di rinuncia" (Cumont). È vero, ma non bisogna schematizzare. In realtà qui
si pone un problema meno semplice. L'altro aspetto dell'astrologia, la
possibilità di operare sul destino e sulle cose, sugli dèi, anche se già da
tempo presente in certi culti d'origine egiziana o in sistemazioni fisiche che,
recuperando suggestioni magiche sul potere di piante, di pietre, di colori~ si
muovevano sul piano dell'atomismo seminale (vedi sopra, Bolo di Mende), si
viene diffondendo in forma laicizzata in epoca pio tarda, dalla seconda metà
circa del n secolo d. C. in poi; e, sempre in epoca pio tarda si diffondono, di
con- tro all'accettazione di un inesorabile fato, anche quei culti e riti egi-
ziani, quei culti mitriaco-solari, che spezzavano la razionalità e la cau-
salità, propagati proprio da certi imperatori (la cui politica e il cui
fondamento di potere erano ben diversi da quelli di Augusto e ancora di
Tiberio). E allora duplice diviene la questione, considerata storica- mènte. La
magia e il suo diffondersi in ambienti popolari se dapprima può essere
indicazione di una sia pur inconsapevole rivolta alla impo- sizione di un
inesorabile fatalismo, viene poi accolta da certi imperatori proprio in
contrasto con quella visione causale e necessaria di un tutto che limitava, e
non poco, il loro assoluto ed arbitrario potere, onde certi ritorni ad un
naturalismo razionalistico-teologico hanno il sapore di una ribellione a
precise situazioni storiche, in un appello ad un tipo di moralità in
contrapposizione ad altri, ove l'opzione per una certa concezione (la stoica,
come sarà per Seneca) ripropone la possibilità di una scelta entro un complesso
di condizioni date, di mosse date, ma pur sempre possibili; mentre, per· altro
verso, la razionalizza- zione di certe forme teurgiche, mimetiche,
alchimistiche, la cui linea si vede bene da Plotino a Proclo, assume un
significato in un tentativo scientifico di risolvere il rapporto uomo-necessità
e fatalità del tutto, in un serio accantonamento della teurgia magica e irrazionale.
Infine, se teniamo presente l'aspetto piu strettamente matematico-logico del-
l'astrologia, in uno sforzo di risolvere in calcoli e misure i rapporti tra le
stelle e delle stelle con la terra, donde la possibilità della divina- zione e
dell'oroscopia in termini scientifici, per cui, liberata dal suo alone
sacerdotale, l'astrologia assume il carattere di un'ipotesi fisico- matematica
in termini causali, ci rendiamo conto del perché Vettio Valente (n sec. d. C.)
dicesse che "l'astrologia è la regina delle scienze" (Anthologiarum libri,
ed. Kroll, Berlino), e perché, ancora una volta, astrologia e astronomia
potessero risolversi in unità con Claudio TOLOMEO, il grande sistematore dei
risultati dell'astronomia (Almagesto) e dell'astrologia (Tetrabiblos). A tal
proposito, anzi, come indicazione del significato scientifico dato allo studio
degli astri, per determinarne le leggi e la loro influenza necessaria sul mondo
e sugli uomini, mediante calcoli geometrico-mate- matici, sembra interessante
riferire le seguenti parole del Cumont: "Se i teorici [da Carneade in poi,
i cui argomenti furono ripresi, ripro- dotti e sviluppati sotto mille forme dai
polemisti posteriori: gli uomini che muoiono insieme in una battaglia o in un
naufragio sono tutti nati in uno stesso momento avendo avuto la stessa
sorte?...] non giun- sero a dimostrare la falsità dottrinale
dell'apostelesmatica, !~esperienza doveva provarne il vano sforzo. Senza dubbio
numerosi hanno dovuto essere gli errori e provocare crudeli disillusioni.
Avendo perduto un bambino di quattro anni, al quale era stato predetto un
brillante de- stino, i ~uoi genitori "stigmatizzano nel suo epitaffio il
'matematico mentitore la cui gran fama ha preso in giro ambedue' (Corp. iscr.
lat.). Ma nessuno pensava di negare la possibilità di tali errori. Abbiamo dei
testi in cui gli stessi facitori di oroscopi spiegano candi- damente e
dottamente come si sono ingannati, per non aver tenuto conto di un dato del
problema (cfr. Palco in Cat. codd. astr.), e, nel u secolo, Vettio Valente
amaramente si lamenta dei detestabili imbroglioni, che, erigendosi a profeti
senza una lunga preparazione necessaria, rendono odiosa o ridicola l'astrologia
che osano invocare (Vettio Valente, V, 9: Cat. codd. astr., V, 2, p. 32, ed.
Kroll). Bisogna ricordarsi che l'astrologia non era solo una scienza
(~LO"t'ijtJ.TJ), ma anche una tecnica(~), come la medicina" (Cumont).
La figura di Demetrio «cinico" Giunti a questo punto sembra difficile
parlare in termini esatti di stoicismo, di platonismo, di pitagorismo, ché
ognuna di queste conce- zioni, in effetto, serve oramai non piu che ad evocare
certi principt istituzionalizzati, certe scelte e opzioni in favore di
problematiche e di esi- genze assai diverse, per cui veniamo ad avere, sia pur
sotto il nome di Pitagora, di Platone, o di alcuni Stoici (anche se certi testi
sono real- mente ricalcati da testi platonici o stoici) posizioni che, se
davvero vo- gliamo rendercene conto, meglio sarebbe spogliare di quelle
etichette, riferendoci volta a volta a questo o a quel Platone, a questo o a
quello stoico (sottolineando quali testi di Platone o di stoici o di Aristotele
o della tradizione pitagorica sono sfruttati) filtrati attraverso questa o
quella figurazione storica. Non solo, ma ancora piu difficili appaiono tali
schematizzazioni quando si pensa che in realtà le stesse scuole (l'Accademia,
il Liceo, la Stoà) sono venute meno, o sussistono per inerzia. Di scolarchi
della Stoà, dopo Antipatro di Tiro non abbiamo piu notizia, se non, sotto
Adriano e Antonino Pio, di un certo Coponio Massimo; nel I I secolo d. C., di
Aurelio Eraclide Euripide e di Giulio Zosimiano; nel m secolo di Ateneo,
Miwnio, Calliete. Poi basta. Lo stoicismo con tutto il suo complesso
dottrinario costituitosi nei secoli è divenuto altro. E cosi, dopo Teomnesto di
Naucrati, fiorito nel 44 circa a. C., poco o nulla sappiamo di scolarchi veri e
propri dell'Accademia (Ammonio di Egitto, vissuto sotto Nerone, maestro di
Plutarco di Cheronea; Cal- visio Tauro, vissuto al tempo di Adriano e di Antonino
Pio; Attico, vissuto sotto Marco Aurelio: il discorso si farà diverso per la
scuola Alessandrino-romana, per quella Siriaca e di Pergamo, e per la scuola di
Atene e di Alessandria). E lo stesso va ripetuto per il Peripato. Di non poca
importanza è sotto questo aspetto la testimonianza dello stesso Seneca,2 che se
da un lato denuncia il fatto che piu non 2 Nato a Corduba, in Spagna, nel 4-3
a. C., da Anneo Seneca, letterato di fama, retore, storico dell'eloquenza, e da
Elvia, donna di cultura, particolarmente interessata di studi filosofici, Lucio
Anneo Seneca, fu condotto a Roma, ancora bambino, da una zia materna, moglie di
Vitrasio Pollione, che fu in seguito prefetto d'Egitto per sedici anni, dove
soggiornò anche Seneca. Dei due fratelli di Seneca, il maggiore, Marco Anneo
Novate, che adottato dal retore Giunio Gallione, ne prese il nome, percorse la
carriera consolare e fu console e proconsole deii'Acaia (dopo la mone del
fratello Lucio, al quale era legato da profondo affetto, si uccise: a lui Seneca
aveva dedicato il De ira, il De vita beata e il perduto De remediis
fortuitorum); il fratello minore, Mela, di cui Seneca parla poco, ebbe per
figlio il poeta Lucano. Da giovinetto Lucio Anneo Seneca ebbe a soffrire non
poco per la cagionevole salute, minacciata anche esistono le vecchie scuole, dall'altro lato -
sia pur riprendendo un motivo ciceroniano, ma per altro fine - confessa che
egli, in realtà, non è né stoico, né platonico, né altro, in senso stretto.
dalla sua continua applicazione negli studi. In Roma ascoltò dapprima Sozione
di Alessandria e Sestio il Giovane, poi Attalo, Papirio Fabiano ~ il cinico
Demetrio. Su consiglio del padre che temeva per la salute del figlio, che preso
dagl'insegnamenti di Sozione si era dato ad una "vita pitagorica"
eccessiva, e che temeva che il figlio fosse accusato di pratiche occulte, Lucio
Ann~ Seneca si dedicò alla carriera oratoria ed a quella politica. Nominato
questore., anche per aiuto della zia, Seneca entrò in Senato ove fu ammirato
per la sua eloquenza e sapienza. Una sua troppo libera orazione in Senato
irritò l'imperatore Caligola, che avrebbe voluto sopprimerlo. Seneca · si salvò
per intercessione di una favorita dell1mperatore, la quale sostenne eh'era
inutile uccidere un uomo già vicino alla morte per malattia. Ritiratasi dalla
vita politica attiva, Seneca rimase in contatto con la corte imperiale,
godendo, come egli stesso confessa (Cons. aJ Hellliam), di potenza, di onori,
di denaro. Si legò allora di amicizia con Giulia Livilla, figlia minore di Germanico,
sorella di Caligola. Fu proprio la sua amicizia per la dignitosa principessa,
che mai volle adulare l'imperatrice Messalina, moglie dell'imperatore Claudio,
che rovinò Seneca. Messalina, gelosa di Giulia, per l'influenza ch'ella aveva
sull'imperatore Claudio, riuscl a far sospettare Giulia di adulterio, tanto da
farla cacciare da corte e, poco dopo, da farla uccidere. Seneca fu coinvolto in
·questa losca faccenda. Forse si disse di lui ch'era stato amante di Giulia.
Seneca fu da Claudio condannato al- l'esilio e relegato in Corsica. Nove anni
durò l'esilio di Seneca. Egli ne fu richiamato dopo la morte di Messalina, da
Agrippina, figlia di Germanico, nuova impe- ratrice. Tornato a Roma, Seneca fu
assunto da Agrippina in qualiti di precettore e, poi, di consigliere del figlio
Domizio che Agrippina aveva avuto da un suo precedente matrimonio con Gn.
Enobarbo. Domizio, fatto sposare ad Ottavia, figlia di Claudio c di Messalina,
e adottato dall'imperatore Claudio, fu contrapposto dalla madre Agrip- pina,
per la successione al trono, a Britannico, figlio legittimo di Claudio c di
Messa- lina. Morto Claudio nel 54, avvelenato, a quanto sembra, da Agrippina,
Domizio, col nome di Nerone, sal! al trono imperiale (nel 55 Nerone fece
uccidere Britannico). Seneca, insieme a Burro, prefetto del pretorio, si
sforzò, e in parte riusc!, d'indirizzare, su di un piano di onesti e di
dirittura morale e politica, l'azione del giovane impe- ratore, sottraendolo
all'infausto potere della madre. In effetto Seneca fu la reale guida della
politica imperiale. Dopo la tragica fine di Agrippina, fatta uccidere dal
figlio, Nerone si sottrasse sempre di piu alla benefica influenza di Scneca,
nel suo desiderio di un potere assoluto. Lo stesso Senato, d'altra parte, si
oppose a molte delle propOste di riforma, tra cui una finanziaria a favore del
popolo, avanzate da Seneca. G~ Seneca era stato attaccato dai suoi nemici,
attraverso Suillio che lo accusava di avere accumulato in quattro anni esose
ricchezze, di essersi incamerate erediti estorte a vecchi incapaci, di avere
usato usura sulle province c sull'intera Italia. Seneca riuscl a far esiliare
Suillio nelle isole Baleari. Una chiara risposta a tali accuse l'abbiamo nel De
vita beata. Dopo la morte di Burro c'è chi ha sospettato per veleno
propinatogll da Nerone, - Scneca, avendo compreso che ogni suo tentativo
sarebbe ormai fallito, che la sua stessa vita era in pericolo, offerte le sue
ricchezze all'imperatore, gli chiese, ad un tempo, di abbandonare la corte.
Nerone rifiutll sia le ricchezze sia le dimissioni di Seneca, che, ruttavia, si
ritirò a vita·allatto privata, accantonando ogni lusso e fasto e vivendo,
soprattutto in campagna, dedito solo agli srudi e a scrivere. Dopo la morte di
Burro e l'allontanamento di Seneca, sempre piu scellerato c terribile divenne
il governo di Nerone'. Si ordi allora una congiura, di cui a capo fu il nobile
Calpurnio Pisone. Vi aderirono cavalieri, senatori, soldati, donne, tra cui
l'eroica liberta Epicari. Sembra che Seneca, sia pur conoscendo la cosa, non
abbia avuto alcuna parte attiva nella congiura. I congiurati avevano intenzione
di liberani di Nerone e di nominare in sua vece Pisone. Ci fu anche chi pensò a
Scneca come 244 I rami della grande famiglia filosofica si
appassiscono per mancanza di polloni. Le due Accademie, l'antica e la nuova,
non hanno piu pontefice che le continui. In chi ritrovare la·tradizione e la
dottrina pirroniane? L'illustre, possibile imperatore. Scoperta la congiura,
molti dei suoi aderenti furono condannati a morte: tra essi Calpurnio Pisone e
Plauzio Laterano. Anche Sencca accusato di segreti accordi con Pisone - fu
condannato a morte. La sua morte fu esempio di grandezza morale, l'ultimo
appello di Sencca. Era l'anno 65 d. C. Anche se molte, non tutte le opere di
Sencca sono pervenute. Alcune sono andate perse (Ad Gallionem fratrem de
remediis fortuitorum, ricordato da Tertulliano, di cui, nel Medioevo, si fece
una rielaborazione dallo stesso titolo; De matrimomo, di cui si serv{ San
Girolamo 'per comporre l'epistola Ad /ouinianum; Villl paJris; Edortationes e
De officiis di cui fece uso nel VI secolo Martino di Brancara per la sua
Formula honestae vitae o De quattuor virtutibus); di altre abbiamo frammenti o
parti (orazioni fatte in lode di Messalina, per Plauzio Laterano; discorsi
composti per Nerone ai pretoriani, al Senato, in onore di Claudio, forse anche
quello al Senato per giustificare la morte di Agrippina; poesie, epigrammi; De
immtllura morte, Quomodo amicitia continenda sit, De superstitione dialogus; probabilmente
i Mora/es libri philosophiae non sono un'opera a si: andata persa, ma una
citazione per indicare il complesso delle opere morali; De motu terrarum, De
situ lndiae, De situ et sacris Aegyptiorum, ' De forma mundi). Nel Medioevo
andarono sotto il nome di Seneca florilegi e raceoolte di sentenze (De copia
verborum, ricavato dal De officiis e dalle Lettere a Lucilio; Monita Senecae,
Liber de moribus, Proverbia Senecae, ricavati dalle opere morali di Sencca; in
reald i Proverbia, costituiti di 149 sentenze in ordine alfabetico da N a Q,
derivano dal Liber de moribus, e furono redatte per proseguire le Sentenze, in
ordine alfabetico· da A a N, di Publio Siro). Quintiliano divide le opere di
Seneca in Orationes, Poemllla, Epistulae, Dialogi. Nei Oialogi Quintiliano
faceva rientrare tutte le opere filosofiche, anche quelle non a carat- tere
dialogico, tranne le Epistulae ad Lucilium. La tradizione manoscritta, invece,
ha raccolto sotto il titolo di Dialogi i seguenti scritti: De prouidentia, De
constantia sapientis, De ira libri tres, A d Marciam de consolatione, D e uitll
bealll, De otio, De tranquillitllle animi, De brevitllle uitae, Ad Polybir<m
de consolatione, Ad Helviam matrem de consollllione. Conosciuta gi~ da San
Girolamo e da S. Agostino, senza dubbio apocrifala corrispondenza tra Seneca e
San Paolo, composta da un cristiano; come apocrife sono le Notae Senecae. ln
ordine approssimativamente cronologico le opere di Seneca pervenute sono:
Consolatio ad Marciam (certo posteriore ·all'avvento al trono di Caligola,
sembra. sia stata composta tra il 37 e il 40; 'è scritta per consolare Marcia,
figlia dello stoico Cremuzio Cocdo, che, accusato da Sciano di lesa maesd per
avere parlato nei suoi Annali con troppa libem, per sfuggire alla condanna, si
suicidò; Marcia ottenne da Caligola di pubblicare gli Annali del padre, epurati
delle parti pericolose; madre di due figlie e di due figli, Marcia restò
profondamente depressa per la morte dei due maschi, particolarmente del
secondo, Metilio; la Consolatio è composta, appunto, per dare conforto a Marcia
colpita dalla sventura della morte di Metilio); De ira (com- posto certo sotto
Caligola, sembra che lo serino, in tre libri, mutilo dell'inizio del primo,
dedicato al fratello Anneo Novato, sia stato pubblicato subito dopo la morte di
Caligola; è un'analisi minuta e precisa delle umane passioni, di cui la piu
funesta è l'ira); Comolatio ad Helviam (probabilmente del 42 o 43, per
consolare la madre, rimasta vedova, dal dolore per l'esilio del figlio in
Corsica); Consolatio ad Polybium (mutila del principio, composta tra il 43 e il
44, in Corsica, per conso- lare il potente liberto di Claudio, Polibio, che
avrebbe potuto farlo tornare dall'esilio, del dolore per la morte di un
fratello); Epigrammi (alcuni scritti durante l'esilio in Corsica); De
bretJitate vitae (sembra dal ritorno dall'esilio; dedicato a Paolino, prefetto
dell'annona, forse il padre di Pomponia Paolina che sarla seconda moglie di
Seneca;· il tema fondamentale dello serino è la "tesi che a torto gli uonini
si ma impopolare, scuola di Pitagora non ha ti'Ovato rappresentante alcuno.
Quella.dei Sesti, che la rinnovava con un vigore tutto romano, seguita alla sua
nascita con entusiasmo, è già morta. Di contro, quale cura, quali sforzi perché
il nome di un sia pur minimo pantomimo non vada per- duto! (Nat. quaest.). Chi
ci ha preceduto non dev'essere nostro padrone, ma nostra guida. La verità è
aperta a tutti e non è possesso di nessuno: molto n'è rimasto ancora per i
futuri (Epist.). Che male c'è a utilizzare· i filosofi lagnano della brevità
della vita, perch~ sono essi che la rendono tale sciupandola con una
prodigalità insensata in occupazioni vuote e inutili, ivi comprese per alcuni
le ricerche erudite, e nel compiacere alle loro passioni e ai loro vizi");
De elementi~~ (indirizzato a Nerone da poco imperatore, sembra sia stato
scritto tra il 55 e il 56; secondo il Pr~c, poco coovincentemente, sarebbe
stato composto nel 54-55: l'opera è stata divisa in 2 libri; nella prima parte
si discute il valore della clemenza, particolar- mente opportuna per un
sovrano; nella seconda parte - pervenuta mutila - si defi- nisce la clemenza,
distinguendola dalla misericordia, compassione, e dalla venia, per- dono); De
constantia sapientis (dedicato ad Anneo Sereno, prefetto tligilum; non si sa
esattamente quando sia stato scritto, certo tra il 55 e il 58; vi si dimostra
che il saggio non può ricevere n~ in;,.;a n~ eontumeli{l); De beata t1ita
(sembra del 58, perché nella risposta ali"accusa che i filosofi non conformano
la propria vita alle teorie sostenute, si è veduta una risposta alle accuse
rivolte da Suillio contro Seneca; è giunto mutilo dell'ultima parte; vi si
disegna il ritratto del saggio ideale ed il conflitto mocale, proprio del
saggio reale); De otio (scritto nel 62 circa, è giunto mutilo della prima e
dell'ultima parte; vi si difende la tesi dell'opportunità di riti- rarsi dalla
vita politica attiva, qualora i casi lo.rendano necessario); De wanquillitate
animi (dedicato a Sereno, fu composto nel 62 o nel 63; è una precisa disamina
dell'uomo conBitto morale, e del conflitto tra vita attiva e vita
contemplativa, tra otium e negotium); De twotlidentia (certo ·dell'ultimo
periodo, fu forse scritto nel 62 o nel 63; è dedicato a Lucilio, scrittore,
probabilmente autore del poemetto Aetna; Seneca, abbandonàta la questione che
il mondo non sottostà al caso ma è retto dalla Provvidenza, qui tenta
dimostrare che il corso del tutto è retto da una legge eterna, per rispondere
meglio alla domanda di Lucilio perché se il mondo è retto dalla Prov- videnza,
tanti guai càpitano agli uomini buoni; il centro dello scritto s'impernia sulla
tesi che non vi sarebbe vita morale senza conBitto e senza ostacoli); De
bene/ieiis (dedicato ad Ebuzio Liberale, in 7 libri, è dell'ultimo periodo
della vita di Seneca, probabilmente del 62 i libri I-IV, del 63-64 i libri V-VI
e il VII, che è chiaramente un completamento; vi si discute a fondo, attrave~so
l'esame di chi davvero sia bene- ficante e chi beneficiato, il rapporto
servo-padrone); Natfll'ales ()uaestiones (ne sono rimasti 7 libri degli 8 che
doveva contenere; sono dedicate a Lucilio e furQno com- poste tra il 62 e il
64, il libro VI certo dopo il 63 perché vi si ricorda il terremO(o di Pompei
avvenuto in quell'anno; accanto a una descrizione dei fenomeni naturali non
poche volte Seneca cerca d'inquadrare l'opera mediante riflessioni morali);
Epi- stulae morales ad Lueilium (sono 124 lettere, divise ora in 20 libri,
scritte all'amico Lucilio; rappresentano forse la piu alta opera di filosofia
morale del pensiero romano). Notissime sono le tragedie· di Seneca: Hercules,
Troades (o Hecuba), Phoenissae (o Thebais), Medea, Phaedra (o Hippolytus),
Oedipus, Agamennon, Thyestes, Her- cules Oetaeus. Citiamo infine il Ludus de
morte Claudii, da Dione chiamato Apol(oloeynthosis, l'inzueeamento di Claudio,
ossia la consacrazione della zucca (alla deificazione, apo- theosis, di
Claudio, decretata dal Senato, Seneca, in questa sua satira· menippea, com-.
posta in prosa e· in versi, rispondeva che, in effetti, era quella la
deificazione di una zucca: lo scritto è del 54 circa). delle altre scuole nella
misura in cui sono nostri? (De ira). - Non mi lego ~ nessuno dei maestri
stoici: ho anch'io diritto di giudicare (De vita beata). - Non mi sono dato la
legge di non far nulla contro il detto di Zenone o di Crisippo..., ed eco
possiamo farci dei comandi di Epicuro in mezzo al campo di Zenone (De otio).-
Possiamo discutere con Socrate, dubitare con Carneade; riposarci con Epicuro,
vin- cere l'umana natura con gli Stoici, oltrepassarla con i Cinici (De brev.
vit.). - Non mi sono alienato nessuno: di nessuno io porto il nome (Epist.). -
Non parlo con te la lingua stoica...; permettimi di usare parole comuni (Ep.).
- Le anime piu celebri costituiscono una vera e propria famiglia; scegli quella
in cui vuoi entrare (De brev. vit.). In realtà l'opzione di Seneca per certi
aspetti dello Stoicismo, il suo gusto per commosse rievocazioni di esempi di
uomini, vissuti e morti da uomini, per la delineazione di certe figure di
pensatori, le cui con- cezioni siano state coerentemente vissute (Epicuro,
Demetrio cinico), assumono un senso ed un significato di validità, qualora se
ne veda la genesi in certe situazioni precise entro i termini della tormentata
vita di Seneca, che ha vissuto e operato in un periodo e in un ambiente
estremamente tormentato e drammatico. Sembra cosi di potersi rendere contò del
significato dato da Seneca alla "filosofia," intesa non come
"concezione" o scienza per sé, ma come cultura, come riflessione cri-
cica, formatrice, attraverso la stessa attività del pensiero, della persona
umana - diremmo non come "filosofia teoretica" né come
"filosofia della morale," ma essa stessa filosofia come moralità -
educatrice e, perciò, liberatrice, consolatoria. "La filosofia non sta nelle
parole, sta negli atti: forma e plasma l'anima, dispone la vita, regola le
azio9i;... senza di lei nessuno pu~ vivere intrepidamente, nessuno
senz'affanni" (Ep. a Luc.). "Pur concedendo a Posidonio d'aver
portato un gran contributo alla filosofia, non posso ammettergli che la
filosofia abbia trovato le arti di uso co- mune, né saprei darle la gloria dei
mestieri fabbrili... La sapienza sta piu in alto, non delle mani maestra, ma
delle anime" (Ep. a Luc). Il pensiero di Seneca e, in conclusione, il suo
àppello a una vita ra- gionevole (non eroica - gli eroi si ammirano e si
presentano come esempi, - non puramente passionale, cioè non riflessa) non è
scaturito né da un'esercitazione scolastica anche in filosofia ci perdiamo in
cose inutili, impariamo per la scuola anzi che per la vita (Ep. a Luc.) - né
dal gusto per una costruzione non contraddittoria, o perfettamente
corrispondente ad analisi logiche e linguistiche, ma da una continua riflessione su esperienze di
vita: dalla presenza, nella vita, del dolore, della paura, da una o da altra
precisa situazione umana, in un certo ambiente, in una certa ora, dalla
riflessione sulla propria vi- gliaccheria, dall'esperienza - vivissima in
Seneca - che l'uomo è non un tutt'uno, ma un insieme di linee spezzate,
contraddittorie. Di qui l'impossibilità di presentare la concezione di Seneca
sul tutto e sulla realtà come rispondente o meno a una precostituita •
filosofia>" estraendo dalle opere di lui - ognuna delle quali risponde
a situazioni precise e individuabili nel tempo, onde andrebbero lette
cronologicamente - una specie di sentenziario morale, unico e valido sempre.
Tutta questa folla che litiga nel foro - scriveva Seneca in una delle sue prime
opere, la Consolazione a Marcia, - che si (diverte] nei teatri e prega nei
templi, cammina verso la morte a passi piu o meno· rapidi: un solo cenere
eguaglierà le cose che ami e che veneri e quelle che disprezzi. Questo
significa il famoso detto che figura tra gli oracoli pitici: "Conosci te
stesso." Che cosa è l'uomo? Un fragjle vaso che si può rompere a qual-
siasi scossa, a qualsiasi colpo: non è necessaria una grave tempesta per
distruggerti: dovunque andrai a sbattere ti infrangerai. Che cosa è l'uomo? Un
corpo debole, fragile, nudo, senza difese naturali, bisognoso del soc- corso
altrui, esposto a tutte le ingiurie della sorte... Da quando vediamo la prima
volta la luce, entriamo nel cammino della morte e ci andiamo avvicinando alla
mèta fatale... Niente è piu fallace della vita umana, niente è piu insidioso:
nessuno sarebbe disposto ad accettarla, se non gli venisse data quando non è
ancora in grado di capire... (Cons. a Marcia). E che? Pretendo di essere un
saggio - esclama Seneca in un'altra delle sue prime opere, la Consolazione alla
madre Elvia;- nient'af- fatto. Se avessi il diritto di professarmi tale direi
che non sono infelice. Io non sono un saggio - dirà ancora Seneca ne La vita
felice, venti anni dopo circa - e non lo sarò. Esigi dunque da me non che stia
alla pari con i migliori, ma che sia il migliore dei malvagi: a me basta
togliere qual- cosa ogni giorno dai miei vizi e rimprover~rmi i miei errori.
Non sono giunto alla perfetta sanità morale e neppure vi giungerò...: io vivo
spro- fondato in difetti di ogni genere (De vita beata). La riflessione di
Seneca si muove, sempre, da si.tuazioni singolari e precise, da fatti di
esperienza o da determinate impressioni e condizioni psicologiche: dal
tentativo di consolare una madre per la perdita del suo bambino (Ctmsolatio ati
Marciam) a quello di consolare sua madre Elvia per il dolore ch'essa prova per
l'esilio cui, per avvenimenti politici, è stato costretto, lui, Seneca
(Ctmsolatio ad Helviam); dal compromesso di aecattivarsi Po- libio - liberto di
Claudio - che può farlo rientrare dall'esilio in Corsica, consolandolo per la
morte di un suo fratello (Ccmsolatio ad Po- lybium); alla riflessione
sull'assurdità dell'ira (De ira, com- posta, contro Caligola, certo dopo la
morte di lui, 41, in cui Seneca, denunciando la disumanità dell'ira, vede in
essa gran parte dei mali della storia, il velen~ che spezza i rapporti umani e
scioglie la società: "finché viviamo tra gli uomini rispettiamo
l'umanità!"); alla riflessione sulla brevità della vita {De brevitate
vitae, di dopo il ritorno a Roma dall'esilio) e su quella che può essere una
vita compiuta (De vita beata, posteriore all'esilio, quando ancora Seneca
esercitava la sua funzione di consigliere di Nerone); al tentativo di delineare
per Nerone lo schema di una ideale condotta di vita politica in nome della
società umana (De clementia, del 55, poco dopo l'avvento di Nerone); alla
riflessione sul proprio fallimento poli- tico che lo ha costretto a ritirarsi
dalla vita politica attiva {De constantia sapientis, De otio, De tranquillitate
animi, De beneficiis, De provvi- dentia); all'ultima meditazione sulla natura e
sul divino (Natura/es quaesticmes, in VII o VIII libr); in un continuo
approfondimento e colloquio di sé con sé che diviene educazione, costruzione di
sé, liberazione e perciò stesso discorso con altre anime, educazione e
liberazione degli altri: insieme; ogni volta ricominciando da capo, discendendo
ogni volta agli inferi della propria coscienza, in un ·sempre aperto conflitto
morale (di qui la stessa forma dialogica di alcune opere di Seneca - Ccmsolatio
ad Marciam, Ccmsolatio ad Polybium, Consolatio ad Helviam, De provi- dentia, De
constantia sapientis, De vita beata, De otio, De tranquillitate animae, De
brevitate vitae, De ira, - che non è solo artificio retorico, e che assume il
suo significato piu alto, di ragionamento insieme e di avviamento, nelle
bellissime Lettere a Lucilio). Seneca, certo, non fu un predicatore. L'opera
sua è l'opera di un ~orno tormentato e tormentante, vissuto in un'epoca
tormentata, in mezzo a gente (la corte di Caligola e di Claudio prima, di
Nerone poi) estre- mamente complicata, di là dal bene e dal male, almeno
secondo i vecchi parametri. Sotto questo aspetto Seneca rappresenta davvero la
coscienza di una certa situazione storica, la crisi di un certo complesso di
valori, dando voce, appunto, e senso a tutta un'epoca, anche se, di volta in
volta, egli ha preso le mosse da particolari situazioni, da singolari com-
promessi e dubbi. Parlando in termini di retorica, diremmo che le
"tesi" di Seneca sono la conclusione delle "ipotesi"
ch'egli, di volta in volta, ha posto in discussione. Non va intanto scordato
che Lucio Anneo Seneca era 249
figlio di un celebre uomo di lettere, oratore, storico dell'oratoria,
Anneo Seneca di Cordova. Oratore era anche un suo fratello, Marco Anneo
Novato,(adottato dal senatore Giunio Gallione, ne assunse il nome), che fu
console e proconsole dell'Acaia (a lui Seneca dedicò il De ira, il De vita
beata, il De remediis fortuitorum, perso, citato da Tertulliano, Apol., 50). La
madre di Seneca, Elvia, fu donna di cultura, particolar- mente interessata alla
filosofia. Ella avviò il figlio a tali studi. Seneca, da bambino, giunto a Roma
dalla Spagna - dov'era nato nel 34 a. C., a Cordova - insieme a una zia
materna, moglie di Vitrasio Pollione - prefetto per sedici anni dell'Egitto,
dove per un certo periodo fu anche Seneca, - se da un lato s'interessò
vivamente per gl'insegnamenti prima di Sozione di Alessandrja e di Sestio il
giovane e poi di Attalo, di Papirio Fabiano e di Demetrio cinico, dall'altro
lato, spintovi soprat- tutto dal padre - che temeva per·la salute cagionevole
del figlio, il quale preso dagl'insegnamenti del pitagorico Sozione conduceva
un'ec- cessiva morigerata "vita pitagorica," e per i pericoli che in
quel tempo correvano i pitagorici, sospetti di pratiche occulte, - si dedicò
alla car- riera oratoria ed a quella politica. Nominato questore, anche per
aiuto della zia ("dalle -sue braccia fui condotto a Roma, per le sue
affettuose e materne cure ritornai alla salutè dopo una lunga malattia, per la
mia elezione a questore ella usò la sua influenza, e lei, che non trovava
neanche l'ardire di· parlare e salutare ad alta voce, per amor mio vinse la sua
timidezza; né la sua vita ritirata, né il suo riserbo campagnolo in mezzo a
tanta sfrontatezza femminil!!, né l'indole sua pacifica e solitaria,
l'arrestarono: e per me essa divenne ambitiosa": Cons. ad Helv.), Seneca
entrò in Senato, ove fu ammirato per le sue capacità oratorie. "Narra
Dione Cassio che nell'anno 39 d. C. Seneca, 'uomo che i romani tutti del suo
tempo ed altri molti superava per sapienza,' corse pericolo di morte non per
alcuna sua colpa, ma perché in Senato, al cospetto di Cesare (Gaio, detto
Caligola), aveva pronunziato una bella orazione. Ma il principe, pur avendone
decisa la morte, lo risparmiò cedendo ai consigli di una favorita la quale
assicurava che Seneca, preso da consunzione, sarebbe morto fra poco (cfr. Dione
Cassio). L'aneddoto di Dione è oscuro: ma esso nasconde una qualche dignitosa azione
del giovane senatore, che invano chiederemmo quale sia stata alla meschina e
acrimoniosa testimonianza di quello storico. [La principale testimonianza sulla
vita di Seneca è quella di Tacito: Tacito parla di Seneca con piu avveduto
criterio, senza predilezione, con un certo studioso riguardo delle fonti piu
ostili e con la sospettosità propria della sua indole. La narrazione di Dione è
inquinata dalla palese avversione che egli nutre per Seneca e dalla meditata ed
infida malignità delle fonti cui attinge. Perdute sono le Storie civili di
Plinio, nemicissimo a Seneca, ed è per- duta l'opera di Fabio Rustico, che
Tacito ricorda come lo storico a Seneca piu favorevole, Annali, XIII, 20; poche
notizie si ricavano da Svetonio]. Sarebbe infantile credere che una condanna a
morte fosse solo dovuta al malumore invidioso di Gaio per una bella orazione di
Seneca; un imperatore di Roma, fosse anche Caligola, non può condan- nare a
morte un senatore per un successo oratorio, quando questo non sia pure un
successo politico; e Seneca dovette allora parlare molto, anzi troppo
liberamente in quel consesso a cui invano piu tardi cercò di restituire la
perduta e mai piu ripresa dignità. Seneca si vendicò inesorabilmente di
Caligola che in tutte le opere ci presenta come il tipo del piu miserabile e
bestiale tiranno (cfr. De ira; Ad Helv.; Ad Polyb.; De tranq. an; De brev.
tlita; De const. sap.; De benef.; Nat. quaest., pref.)" (C. Marchesi,
Seneca, Messina). Seneca, allora, abbandonò l'azione diretta, mediante
l'avvocatura, e abbandonò la pubblica carriera politica, sia per il pericolo
corso, sia perché si rese conto che molto piu efficace sarebbe stata in quella
certa si- tuazione politica la sua azione, mediante altro tipo di convinzione.
Sotto questo aspetto sembra chiaro in che.senso si possa dire, che, in realtà,
Seneca non abbandonò né la vita politica né l'oratoria. Ogni sua opera, anzi,
fu un'intelligentissima e abilissima orazione, in un'ana- lisi minuta e
concreta delle passioni umane, nel tentativo di indirizzare, entro i termini di
una precisa concezione dell'uomo e della natura umana, coloro cui si rivolgeva,
fosse pure se stesso, ad essere uomini sul serio tra uomini, sapendo, d'altra
parte, sia per esperienza personale sia conoscendo a fondo uomini e cose del suo
tempo, quanto complicato, difficile, non umano ---conflitto di passioni,
spezzato, non tutto un blocco - sia l'uomo. Vicinissimo a Cicerone, soprattutto
nell'intenzione di operare mediante la parola su di un certo gruppo di uomini
in fun- zione di un certo ideale politico e di un certo ideale di uomo, nel ri-
tenere la filosofia cultura con cui formare l'uomo, liberarlo dalle sue paure,
dal timor della morte, renderlo uomo (si veda, ad esempio, il topos della
filosofia salvatrice, della filosofia senza di cui nessuno può vivere da uomo,
senza affanni, senza il terrore della morte: Cicerone, Tusculanae disp., V, 2,
5-6; Seneca, Ep. a Luc., 16, 3; da cui anche il topos della consolatio), in uno
sforzo e in una fatica con cui l'uomo costituisce sé razionalmente, volta a
volta, in una conquista personale (donde l'avvicinamento di Seneca ad Epicuro);
Seneca è da Cicerone lontanissimo nel modo di intendere la funzione retorica
dena filosofia, ché altra è venuta ad
essere la situazione.politica, l'ambiente, gli uo- mini su cui operare, altro
l'impegno. Sottilissimo studioso delle passioni umane, Seneca che, su sua con-
fessione, aveva sentito profondamente la lezione di Sestio il Giovane, di
Sozione, di Fabiano Papirio, di Demetrio, che vide attraverso Cali- gola e
Claudio far lentamente naufragio quella respublica, delineata da Cicerone,
apparentemente realizzata da Augusto, per ciò che gli fu possibile, tentò di
formare sé e gli altri come uomini: uomini che po- tessero, in un reciproco
rispetto costituire una verace res-publica, in una misura ed armonia, poste
come dover essere. Di qui i due motivi su cui s'intreccia tutta la meditazione
di Seneca: da un lato una descri- zione dell'uomo - triste, infelice,
combattuto, impaurito degli altri, e perciò desideroso di prevalere sugli
altri, ma che anche fugge da se stesso; - dall'altro lato l'uomo quale dovrebbe
essere, vincitore di ~ in quanto conflitto di passioni,
"con-vinzione" di passioni, in una mi- sura che dovrebbe essere la
stessa razionalità, in ciò eguale agli altri uomini, ciascuno a suo modo, in
un'armonia e ordine che ci trascende dal di dentro, che si pone come dovere da
realizzare, e che trova il suo fondamento in una ideale razionalità del tutto.
Già in tal senso si ve- dano le prime due opere di Seneca, la Consolatio ad
Marciam, del 39, e il De ira, dedicata al fratello Novato. Scrive Seneca nella
Consolatio ad Marciam: "A ciascuno viene dato ciò che gli era stato
promesso: i fati seguono il loro corso e non aggiungono né tolgono mai nulla a
quanto una volta per tutte hanno stabilito... Da quando vediamo per la prima
volta la luce, entriamo nel cam1nino della morte. I destini compiono la loro
opera"; e nel De ira: "Perché non mettere ordine in codesta tua breve
vita e renderla tranquilla per te e per gli altri? [L'uomo irato è un folle,
chi non sa porre ordine in sé, chi non scopre sé in quanto ragione, cioè
misura, è uomo rotto nelle passioni, è in realtà non uonto]...Fin tanto che
respiriamo, finché viviamo tra gli uomini, rispettiamo l'umanità." Di qui,
anche, due altri motivi dell'atteggiamento senechiano. Una qual certa
contraddizione tra l'ordine del tutto stoicamente scandentesi in una necessità
fatale, che fa si che ogni aspetto della realtà sia là dove è bene che sia, in
un'adeguazione della ragion d'essere di cia- scuna cosa alla ragione d'essere,
all'egemonico del tutto, e la possibi- lità da parte umana di adeguarsi
volontariamente a quell'ordine. Posto che tutto è fatale, che tutto è come deve
essere, anche le passioni, anche l'uomo disarticolato e spezzato nella sua
molteplicità, non possono es- sere, nell'ordine, se non come sono. Non si vede
bene perciò come l'uomo possa - se già nell'ordine non è scritto - da folle, da
sragionevole, da groviglio di passioni, passare all'ordine, rendersi conto,
rea- lizzarsi secondo ragione, come cioè possa passare dal male al bene; e
anche come, la società rotta, ove predominano queste o quelle passioni, dove
predominano questi o quegli uomini, possa trasformarsi in società, come
riconoscimento dell'eguale per tutti ordine sociale, fatto a mo- dello del
presunto ordine sociale del tutto. 2) Un conflitto sempre presente in Seneca,
tra quel mondo assoluto e come posto dietro le spalle, tra un dovere assoluto,
per cui è esclusa ogni possibilità d'azione onde il "saggio" stoico
resta avulso da ogni società umana, fuori di qualsiasi sfera d'azione, - è
esclusa ogni possibilità di convinzione, di educazione, è escluso lo stesso
conflitto morale; e quello stesso ordine e misura, quella uguaglianza, cui si
giunge, non in quanto data, e in quanto ad essa ci si adegui per via puramente
conoscitiva, ma in quanto essa si scopre, si pone attraverso lo stesso
conflitto morale, nell'atto in cui ciascuno oltrepassa _la lotta delle
passioni, componendo le pas: si~ni stesse, in un ordine che non c'era prima, ma
che, appunto, si troya "nuovo," attraverso la stessa riflessione. La
filosofia perciò non è filosofia della morale, ma filosofia morale, che
prospetta, non piu dietro le spalle, ma dinanzi agli occhi, termine di realizzazione,
l'ordine e la razionalità della stessa natura. Tale razionalità, dunque, non è
piu un dato, ma una "invenzione," che permette sia la comprensiòne
delle oscillazioni e dei conflitti, sia, attraverso il dialogo e la riflessione
comune, la composizione della plu- ralità delle ragioni, l'avviamento, la
possibilità della convinzione, in una sempre rinnovantesi apertura. Entro un
certo tipo di cultura - l a koiné culturale stoico-platonica, di cui abbiamo
parlato, ancora vi- vissima in Roma al tempo della giovinezza di Seneca, tra
Augusto e Tiberio, - entro i termini di una precisa situazione sociale,· quale
si era determinata tra la fine dell'impero di Tiberio e il periodo in cui
ebbero in mano le sorti di Roma Caligola, Claudio e quella terribile donna che
fu Agrippina, in tale conflitto stanno il mordente e il signi- ficato della
morale senechiana. Non solo, ma anche sembrano emergere di qui molte delle
oscilla- zioni di Seneca, sia entro i limiti della sua concezione, sia, per
altro verso, relativamente all'ambiente e agli uomini per i quali Seneca ha
scritto, fino, pare, a giungere, talvolta, ai piu gravi compromessi in
funzione, certo, del tentativo di modificare se stesso e gli altri. E quando si
dice altri, bisogna pensare non ad astratti altri, ma a questo o quel- l'amico,
in questa o quella situazione: al fratello Novato, cui sono dedicati i l De
ira, i l De vita beata; a Sereno, cui sono dedicati i l De constantia
sapientis, il De otio, il De tranquillitate animi; a Paolino, cui è dedicato il De brevitate vitae; a
Ebuzio Liberale, cui è dedicato il De beneficiis; a Lucilio, cui sono dedicati
gli Epistolarum moralium libri e le Natura/es quaestiones; e, per altro verso,
soprattutto quando Seneca fu maestro e consigliere di Nerone, a Nerone per il
quale Seneca scrisse il De clementia, l'anno dopo l'avvento di Nerone al
potere, dal quale dipendevano quegli altri. Non a caso nel Proemio del De
Clementia, Seneca fa dire a Nerone: "Sono io che decido della vita e della
morte delle genti; il destino e la condizione di tutti sono nelle mie mani;
quel che la. Fortuna spartisce a ciascun mortale, lo fa conoscere per, bocca
mia; al mio responso è subordinata la letizia delle città e dei popoli; nessuna
regione è prospera se non per mia volontà, se non per mio favore... Caduta e
nascita delle città si decidono nel mio tribunale." Sapendo usare certe
tecniche, co- noscendo la psicologia di Nerone, si tentava di realizzare in
altro modo quello Stato e quella società entro la quale e per la quale Seneca
operava. Certo, ogni situazione implica dei compromessi e delle tecniche
d'azione diverse, pur di realizzare, anche approssimativamente, certi fini. Di
qui, nel tentativo di educare all'ideale "saggio" stoico, il trasfor-
marsi del rigidismo della morale stoica, posta, appunto, non piu come dato, ma
come "inventio," dovuta alla stessa capacità (propria del- l'uomo) di
costituirsi come ordine razionale, per cui ciascuno può, co· gliendo i propri
limiti, le proprie condizioni, senza dubbio dati, entro questi, realizzare se stesso,
conoscendo la propria natura, volta a volta scegliere le proprie mosse, anche
se esseJ nelle loro possibilità, sono date. Se chi latra contro la filosofia,
dirà come il solito: "Perché parli da forte piu di quanto da forte tu non
viva? Perché fai la voce sommessa davanti al piu potente e stimi il denaro uno
strumento necessario o ti turbi per un danno ricevuto e piangi alla notizia che
ti è morta la moglie o l'amico, e ti preoccupi del tuo buon nome e ti offendi
delle chiacchiere malevole? Perché i tuoi fondi sono coltivati piu di quanto
non richiedano le necessità naturali? Perché non ceni conforme alle regole che
predichi? Perché le tue suppellettili sono cosi eleganti? Perché in casa tua si
beve del vino che ha piu anni di te?... Perché hai fatto piantare alberi che
da- ranno solo ombra? Perché tua moglie porta alle orecchie il reddito di un
ricco casato? Perché i tuoi giovani servi sono vestiti di abiti preziosi? Per-
ché in casa tua è un'arte quella di servire a tavola e l'argenteria non è disposta
come viene a caso, ma il servizio è cos{ accurato, e ha persino uno scalco
specializzato?..." Se vuoi rincarerò la dose dei rimproveri e mi muoverò
piu rimbrotti di quel che immagini: ma per ora ti rispondo: "lo non sono
un.saggio e non lo sarò. Esigi dunque da me non che stia alla pari con i
migliori, ma che sia migliore dei malvagi: a me basta togliere qualcosa ogni
giorno dai miei vizi e rimproverarmi i miei errori..." "Però,"
tu dirai, "in un modo parli e in un altro vivi." Questo rimprovero, o
mali- gni, o nemici dei piu virtuosi, fu già mosso a Platone, a Epicuro, a
Zenone: tutti quelli predicavano di vivere non come essi stessi vivevano, ma
come avrebbero dovuto vivere. Parlo della virtU, non di me, e quando mi scaglio
contro i vizi, comincio dai miei: quando potrò, vivrò come dovrei. Continuerò a
lodare non la vita che conduco, ma quella che so che bisognerebbe condurre;
continuerò ad adorare la virtU e a seguirla, se pure arrancando a una bella
distanza... (De vita beata). Di qui anche un'altra apparente oscillazione di
Seneca: da un lato l'esigenza propria del "saggio" stoico di
ritirarsi dalla.,vita mondana, dall'altro lato l'esigenza, anche a costo di
venir meno alla rigidezza del- l'unica virtu stoica, di operare nel mondo, di
modificare, attraverso la parola, l'esempio, anche il compromesso, la societa
di fatto. Nella sua altezza, nella sua comprensione che tutto è come deve
essere, che tutto è bene e che perciò non vi è nulla da fare, il
"saggio" da tutto mona- sticamente si ritira, non piu uomo tra
uomini. Solo che cosi: egli viene, alla fine, a disprezzare tutti,
nell'orgogliosa affermazione che, tranne il saggio, il resto dell'umanità è
folle, sragionevole. In un'evasione da questo mondo, per il saggio tutto è
indifferente. Ma era qui implicita una grave contraddizione, di cui Seneca
chiaramente si rende conto. Il pericolo della "vita stoica" è
ch'essa: si risolve in una "pigra ratio," e che nel riconoscimento
che tutto è indifferente, che il solo saggio è razionale, di là dalle passioni,
in realta, alla fine, non si com- prende piu che tutto, proprio perché è come
deve essere, perché è na- tura, è bene (o meglio, in sé né bene né male), e,
perciò, che nulla è disprezzabile, nulla indifferente. Se Tizio o Caio, io
stesso, siamo piu presi dall'una cosa che dall'altra, patiamo (amiamo o odiamo)
una per- sona piu di un'altra, spezzati in tante ragioni o passioni, ché le
pas- ~ioni sono, per cosi dire, ragioni in libertà - saremo avari o eccessiva-
mente generosi,.irosi, violenti, vili, ecc. - in modi esclusivi ed univoci;:erto,
su di un piano polemico, possiamo dire a Tizio o a Caio, a me >tesso, che
quelli che si ritengono beni, quell'esclusiva ricchezza, quel- l'esclusivo
amore o odio, sono indifferenti. Eppure quei beni che in sé non sono né beni né
mali, neppure sono indifferenti se considerati sul piano del conflitto morale.
Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso Seneca possa dire che il bene e
il male stanno in noi e tocchi a ciascuno di comporre se stesso in unità. Non
solo, ma un altro peri- colo, proprio dello stoicismo è che il richiamo a
vivere secondo la ra- gione universale, venga, in conclusione, ad annullare
l'affermazione, sempre stoica, che; ciascuno viva secondo la sua ragione, cioè
secondo ciò che, sia pur nell'ordine totale, a ciascuno compete. L'annullamento
della propria ragione nella ragione universale porta a non vivere piu secondo
una ragione, a non comprendere piu alcuna ragione, e, perciò, al di- sprezzo
per cose e uomini, in un atteggiamentò piu cinico che stoico. In realtà, per
Seneca, comprendere cose e uomini, comprendere che ciaseun uomo nasce in una
certa condizione e situazione che non dipen- dono da noi, comprendere che
l'uomo è non unità, ma molteplicità, implica non una mèra contemplazione di un
ordine astratto, ma la volontà di un ordine che si scopre attraverso la stessa
riflessione, at- traverso il faticoso tentativo di porre in sé misura, di volta
in volta, cogliendo la propria misura entro i nostri limiti e le nostre
condizioni, per cui quell'ordine si rifà nuovo ogni volta come termine di
realizza- zione, per ciascuno, entro le proprie condizioni e limiti, diverso.
Di qui l'esigenza senechiana di agire, di inserirsi, almeno finché ciò è
possibile, è utile, non controproducente, in una certa situazione umana,
scegliendo di volta in volta i propri mezzi di azione, per avvicinare sé e gli
altri, ciascuno per ciò che gli compete, a quell'armonia sociale, specchio
della ragion d'essere del tutto, entro cui, una volta rovesciati i terriùni,
ognuno non perde se stesso, in un ideale reciproco rispetto, in cui consiste la
virtU, cioè l'eccellente realizzazione di ciascuno in quanto uomo, e perciò la
piu genuina tranquillitas, onde, appunto, la virtu, insiste Seneca, è premio a
se stessa (recte facti fecisse merces est: Ep. a L.; cfr. anche De clementia).
L'appello di Seneca ad essere se stesso, a non essere presi dalle sin- gole
passionì univocamente, a costituire sé e a scoprire sé razionalità, implica
l'allontanamento dalla folla, dalla massa degli uomini, ché vi- vere la vita
degli altri, della folla, significa perdere se medesimi, vivere ancora una
volta secondo passione, in un annullamento nell'anonimo, entro i termini di
un'abitudine, significa non vivere socialmente (e folla può anche voler dire un
ristretto gruppo di gente). Il che non significa affatto ritirarsi nel deserto:
significa anzi, per quel che è possibile, per quel che le circostanze e il
destino concedono, tentare di sciogliere gli altri in persone, essere utili
agli altri, quando gli altri ne abbiano bi- sogno, senza di cui, in realtà,·
non c'è verace società, poiché fin quando v'è folla, v'è solitudine assoluta.
Non solo, ma l'appello ad essere se stessi significa anche tentare di
realizzare un'autèntica vita associata, nel reciproco rispetto, ché ogni uomo,
pur diverso dall'altro, quanto piu è se stesso, è uguale all'altro in quanto
uomo (per cui, sotto questo aspetto, non vi sono né servi né padroni);
significa, finché è possibile, agire e modificare, attraverso il consiglio e la
parola, su ·chi abbia in mano il potere per avviare lo Stato terreno ad
uniformarsi alla Città celeste (De otio). Altrimenti, quando tale azione può
diventare inutile e controproducente, lo stesso ritirarsi da:lla vita politica
in atto insieme agli amici può essere l'indicazione del modello di un'auten-
tica vita politica. Ritirati in te stesso quanto puoi l - esclama Seneca,
scrivendo a Lucilio, negli anni del suo costretto abbandono della vita politica
diretta. - Tratta coloro che ti potranno fare migliore, accogli coloro che tu
puoi fare migliori; sono vantaggi reciproci codesti, e gli uomini mentre
insegnano, imparano. Il desiderio vanitoso di fare brillare il tuo ingegno non
ti porti in mezzo al pubblico per leggere e dissertare. Ti consiglierei di
farlo se tu avessi merce degna di codesta gente; non vi è nessuno che ti possa
intendere: uno, forse, o due. Ma, dirai, per chi allora ho imparate tante cose?
Non temere, non hai perduto l'opera tua se le hai imparate per te stesso '(Ep.
a Luc.). Chi non ha sollecitudine per alcuna cosa, sa vivere per se tesso. Ma
chi ha fuggito gli uomini e gli affari, che le delusioni hanno allontanato dal
mondo, chi non ha saputo resistere alla vista degli altri pio felici, chi come
animale timido e inerte si è nascosto per paura, costui non vive per sé, ma,
turpitudine suprema, per il ventre, il sonno, la libidine: non vivere per
nessuno è non vivere neppure per sé (Ep. a Luc.). E quando Seneca sperava,
forse, ancora di potere attwamente agire, cos{ scriveva nel De tranquillitate
animi: Ecco quale deve essere la condotta del saggio: quando la fortuna pre-
vale e gli toglie la possibilità di agire, non volga subito le spalle e non
fugga senza le armi cercando un nascondiglio, quasi ci fosse un luogo in cui la
fortuna n~tn·possa raggiungerlo, ma si dia ai pubblici affari con maggior
misura e scelga un'occupazione nella quale possa ancora essere utile alla
città. Non può fare il soldato: aspiri alle cariche civili. Deve vivere da
privato: faccia l'oratore. Gli è stato imposto il silenzio: giovi ai cittadini
con la muta assistenza. È pericoloso persino entrare nel foro: in casa, agli
spettacoli, nei banchetti, si comporti da buon compagno, da fedele amico, da
convitato temperante. Gli sono inibiti i doveri del cittadino: adempia quelli
dell'uomo. Per questo, noi [stoici], con animo grande, non ci siamo rinchiusi
dentro le mura di una sola città, ma uscimmo al con- tatto dell'orbe intero, e
dichiarammo nostra patria il mondo, per potere dare alla virto uri can:tpo pio
vasto d'azione. Ti è stato precluso il tribu- nale e ti si interdicono i rostri
e i comizi? Volgiti a guardare quale distesa di ampi spazi si allarghi dietro
di te, e quanta folla di popoli: per grande che sia la porzione che ti
precluderanno, te ne rimarrà sempre una pio grande... Combatti con la voce, con
l'incitamento, con l'esempio, con l'anima. Anche con le mani tagliate trova
modo di soccorrere i suoi chi 1 ~siste e aiuta con il grido. Tu fai qualcosa di
simile: se la sorte ti ha allont-.'lato dalle prime posizioni della vita pubblica,
tieni duro lo stesso e aiuta cvn la tua voce, e se qualcuno ti comprime
la gola, resisti ancora e aiuta col silenzio. Non è mai inutile l'opera di un
buon cittadino. Lo si ode, lo si vede. Con lo sguardo, con il cenno, con la
costanza silenziosa, con l'ince- dere stesso egli serve... Credi poco utile
anche l'esempio di colui che vive bene nel proprio ritiro? La cosa di gran
lunga migliore è, anzi, alternare il riposo con gli affari, ogniqualvolta la
vita attiva sia preclusa o da circo- stanze fortuite o dalle condizioni della
città. Tutte le vie non saranno mai sbarrate al punto che non vi sia spazio per
un'azione onesta. Puoi forse trovare una città piu misera di Atene quando i
Trenta Tiranni la stra- ziavano?... Eppure là, tra il popolo, c'era Socrate, e
consolava i padri pian- genti ed esortava coloro che disperavano della
repubblica e minacciava ai ricchi, timorosi per i loro beni, il lontano castigo
della loro perniciosa ava- rizia, e offriva un grande esempio a· quanti lo
volevano imitare, cammi- nando libero tra i trenta despoti. Tuttavia Atene
stessa uecise in carcere quell'uomo, e la libertà non seppe sopportare la
libertà di colui che aveva impunemente sfidato una schiera di tiranni. ·Questo
perché tu sappia che, anche quando lo Stato è oppresso, l'uomo saggio ha
occasione di mostrarsi, ma anche quando è prospero e felice poiché regnano la
crudeltà, l'invidia e mille altri vizi. A seconda dunque della situazione
politica, nel modo che la fortuna lo consentirà, o ci espanderemo o ci
raccoglieremo in noi stessi, ma comunque ci muoverc;mo, e non ci intorpidiremo,
paralizzati dal timore. ·Anzi, sarà vero uomo colui che, quando i pericoli lo
minacciano da ogdi parte, e le armi e le catene gli risuonano d'intorno, non
lascerà spezzare dall'urto la sua virtU e non la celerà: seppellirsi non è
salvarsi. Diceva bene, mi sembra, Curio Dentato, quando affermava che preferiva
essere morto che vivere da morto: il peggio dei mali è togliersi dal numero dei
vivi prima di morire. Ma, se ti imbatterai in un momento della vita pubblica
meno facile, dovrai fare in modo di rivendicare piu tempo al ritiro e agli
studi e, come durante una navigazione pericolosa, ti dirigerai subito a un
porto, e, senza aspettare che gli affari ti congedino, te ne staccherai spon-
taneamente. Dovremmo poi esaminare anzitutto noi stessi, quindi i compiti cui
stiamo per accingerci, infine le persone per le quali e con le quali li
svolgeremo. Per prima cosa è necessario valutare noi stessi, perché quasi
sempre ci sembra di potere piu di quello che in realtà possiamo (De
tranquillitate animi). Non a caso, di qui, quando davvero fu preclusa a Seneca
l'azione diretta negli affari ddlo Stato, l'avvicinamento ad Epicuro, l'appello
di Epicuro all'amicizia, di contro alla falsa politica in atto, a quell'Epi-
curo di cui Seneca dice (Ep. a Luc.) che piu che la dottrina fu il suo
contubernium a educare gli epicurei, in una comunità di amici il "cui
acooi:do tra loro era simile a quello che deve regnare in una repubblica bene
ordinata" (Numenio, in Eusebio, Praep. ev.); e va sottolineato che sempre
piu spesso ritorna il nome di Epicuro nelle opere scritte, appunto, al tempo
del suo forzato ritiro (De oiio; De bre- vitate vitae, Epistole a Lucilio).
Ancora da. vecchio, Sen;:ca ricordava i suoi primi maestri, confes- _sando
l'enornit: impressione che i loro discorsi, la loro vita, il loro esempio,
avevano fatto su di lui fanciullo e giovinetto. Quando udivo Attalo parlare.:ontro
i vizi, contro gli errori, contro i mali della vita, spesso sentivo compassione
dell'umano genere e stimavo sublime quel filosofo, piu alto di ogni altez~a
umana. Egli si proclamava re, ma piu che re egli mi sembrava:! Egli che poteva
chiamare i re a dar conto della loro condotta. Quando poi cominciava a
raccomandare la po- vertà, e·a dimostrare che, tutto quello che va oltre il
nostro bisogno, è un peso inutile a portarsi, spesso avrei voluto uscire povero
dalla scuola. Quando cominciava a schernire i piaceri, a lodare la castità, la
sobrietà, la purezza.della mente che si astiene non solo dagli illeciti, ma
anche dagli inutili piaceri, veniva la voglia di mettere un limite alle
esigenze della gola e del ventre. In me, caro Lucilio, qualcosa è rimasta,
poiché a tutti quegli inse- gnamenti ero andato con grande entusiasmo;
senonché, tornato alla vita cittadina, poco rimase di tanti bei propositi...
Poiché ho cominciato a dirti con quanto maggiore entusiasmo comin- ciai da
giovane lo studio della filosofia che non lo continuai da vecchio, non
mi'vergognerò di confes5àrti quale amore mi abbia ispirato Pitagora. Sozione
diceva per quale ragione Pitagora si astenesse dalle carni e per quale ragione
poi se ne astenne ·Sestio. I motivi di tale astensione sono diversi per l'uno e
per l'altro, ma per l'uno e per !;altro degni di ammira- zione. Sestio credeva
che per alimentarci ne abbiamo abbastanza, anche senza ricorrere a versare
sangue e che l'uccisione delle bestie volta alla sod- disfazione dei nostri
gusti, diventa una scuola di crudeltà.'.. Pitagora, invece, parlava ·di una parentela
esistente tra tutte le cose e dei rapporti delle anime trasmigranti da una in
un'altra forma. Secondo lui, nessun'anima si an- nienta... Sozione, dopo aver
esposto queste dottrine con ampiezza di argo- menti, "non credi,"
soggiungeva, "che le a~ime sono distribuite in diversi corpi, e che quella
da noi chiamata morte altro non è che un'emigrazione? Non credi che in questi
animali domestici o selvaggi o abitanti nelle acque viva un'anima, che altra
volta appartenne a un uomo? Non credi che nulla va distrutto in questo mondo e
che si tratta solo di un cambiamento di luogo? e che non solo i corpi celesti
si volgono per determinate orbite, ma anche gli animali vanno soggetti alle
loro vicende, e che le anime sono spinte per i loro cieli? Questa fede l'hanno
avuta uomini grandi. Pertanto sospendi il tuo giudizio e lascia indeciso tutto
il problema. Se le cose dette sono vere, astenendoti dalle carni ti sarai
serbato innocente, se false, sarai stato un uomo frugale. Che ci perdi a
prestarvi fede? Ti avrò tolto il cibo dei leoni e degli avvoltoi?". Spinto
da questi discorsi, incominciai ad aste- nermi dalle carni e dopo un anno non
solo non trovavo difficolt~ in. questa oratica, ma Ci sentivo gusto. Mi pareva
di ave!e la mente piu svelta, sebbene oggi non saprei dirti se tale fosse
realmente. Vuoi sapere come fu ch'io smisi quest'uso? la mia gioventu cadde nei
primi anni dell'impero di Tiberio, quando i culti stranieri erano oggetto di
persecuzione e l'astinenza dalle carni di alcuni animali era considerata come
indizio di partecipazione a quelle superstizioni (Ep. a Luc.). Di Fabiano
Papirio, oratore e giurista, vissuto sotto Augusto e Tiberio, sempre attraverso
Seneca sappiamo che dalla retorica passò alla filosofia pitagorica,
interpretata in chiave stoica (Ep. a Luc.), che famoso per vita et scientia
(Ep. a Luc.), condusse una vita da vero "stoico," ritenendo che piu
alta di ogni erudizione (De brevitale vitae) fosse l'educazione dell'anima, cui
serve da un lato l'esempio della propria vita, dall'altrouna sobria eloquenza
(Ep. a Luc.), cht non deve trasformarsi in insegnamento di tipo profes- sorale,
ma determinarsi in una persuasione psicologica e morale. Egli non fu, esclama
Seneca (De brevit. vie.) "f;losofo cattedratico, ma vero filosofo
all'antica." Attraverso la figurazione che ne dà Seneca - non abbiamo
altre fonti, - di Fabiano Papirio, di Sozione di Alessandria, di Attalo è dif.
ficile dire se siano stati pitagorici o stoici. In realtà, ora, il termine
stoico sta ad indicare piu un atteggiamento di vita che non una dot- trina;
atteggiamento di vita che si fonda su di una concezione generale che assume
pochi principi, facili a raggiungere analogicamente, e che potevano essere
desunti da certe volgarizzate posizioni, ch'erano state effettivamente ela~rate
entro la scuola stoica: un principio attivo e pas- sivo (Dio e la materia),
dalla cui tensione scaturisce l'articolarsi e il co- stituirsi in ordine di
tutta la realtà, di cui ogni aspetto è un momento dd divino IOgos (si confronti
sopra la silloge di Ario Didimo). In tal senso, comunque, potevano essere
interpretate anche certe pagine di Platone e di Aristotde (cfr. in tal senso
Ep. a Luc.). Non solo, ma entro questi termini, poco importava essere
platonici, o aristotelici, o stoici in senso stretto; o meglio, lo si era, per
quel che il termine stoicismo, pitagorismo, platonismo evoca in funzione di un
tipo di vita da contrapporre al comune modo di vivere irriflesso. Tipico
esempio di tale atteggiamento fu l'amico di Seneca, Demetrio, del quale Seneca
non poco senti l'influenza. Demetrio, contemporaneo di Seneca, fu detto •
Cinico." ~ stato soste- nuto ch'egli piu che cinico sarebbe stato stoico,
per la sua fede in un or- dine provvìdenziale, a cui, abbandonando le cose di
questo mondo (indifferenti tutte), l'uomo ha da adeguarsi, in una lieta
sopportazione del dolore e delle avversità. Per ciò che in realtà si può
ricostruire del pensiero di Demetrio, attraverso le uniche fonti che abbiamo su
di lui, cioè Seneca (De beneficiis; Epi.rt. a Luc; De providentia) ed Epitteto
(Dissert.), possiamo dire che Demetrio fu "cinico" nel senso in cui,
portando alle conseguenze estreme la logica di Zenone di Cizio,
"cinico" era stato Aristone di Chio. In altri termini, Demetrio,
proprio attraverso lo studio della logica stoica, si rese conto
dell'impossibilità del passaggio dal discorso umano ad un presunto
discors~della realtà, per cui la realtà, presa in sé, resta sempre al di fuori
di. noi, e per cui unica realtà è quella umana, o meglio quell'ordine che
scaturisce dall'egemonia delle passioni e per mezzo di cui l'uomo si libera
dalle passioni stesse; egli, perciò, poteva, ma.solo su di un piano indicativo,
postulare, simile all'ordine che la ragione stessa costituisce, un ordine
supremo é provvidenziale, presen- tando se stesso, di volta in volta, come
esempio di saggio, di uomo libero, appunto, dalle passioni, dalle adulazioni di
quella ch'era la quo- tidiana vita della Roma._di Caligola, di Claudio e di
Nerone. La natura ha fatto nascere Demetrio in questi nostri· tempi per dimo-
strare ch'egli non può essere corrotto da noi, mentre noi non possiamo essere
educati da lui, uomo perfetto nella sua saggezza, anche s'egli per primo lo
nega, assolutamente coerente nel suo modo d'agire, di un'elo- quenza adeguata
ai piu forti pensieri, senza ornamenti, senza faticosa ricerca d'espressione,
ma che con superba fieqezza, nella foga della ispirazione, persegue
l'esposizione di idee personali. Se a Demetrio la Provvidenza ha dato simile
costume e talento, lo ha fatto perché alla nostra generazione non mancassero:
il modello né rudi lezioni. Se un qualche dio offrisse a Demetrio i nostri beni
in assoluta proprietà, ma a condizioni che non ne potesse far dono, egli,
certo, li ripudierebbe, dicendo: "No, non mi lego ad un simile peso, di;c.."ui
non potrei sbarazzarmi, né l;lscio che il mio essere, da tutto s~a'nciato,
affondi nel profondo pantano delle ricchezze. Perché offrirmi il male di tutti?
Che neppure accetterei per farne dono, ché molte cose vedo le quali sarebbe
ingiusto dare... Lasciami libero, lascia ch'io prenda queste altre ricchezze,'
le mie •vere ricchezze: il regno ch'io conQsco è il regno della sapienza,
grande, sicuro; io, cosf tutto posseggo, tutto ciò che anche gli altri possono
avere..." (De benefieiis). Quando C. Cesare gli volle far dono di 200.000
sesterzi, li rifiutò ridendo... In tale occasione Demetrio ebbe una parola· di
sublime grandezza, parola dettata dalla sorpresà allorché vide Gaio [Caligola]
abbastanza pazzo da credere di potere a tal ·pre~zo cambiare un'anitna come la
sua. "Se era deciso a provarmi," disse, "non sarebbe stato
affatto di troppo per simile esperienza, l'offerta dell'impero" (De
benefieiis). Demetrio, i l migliore degli uomini, si accompagna sempre a me, ed
io, trascurando la compagnia dei grandi porporati, converso pieno di
ammirazione per quel seminudo. E come non ammirarlo? Mi sono accorto che nulla
gli manca. Qualcuno può disprezzare tutto; invece ad avere tutto nessuno ci
riesce. La via piu breve per arrivare alla ricchezza è quella di disprezzarla.
Quanto al nostro Demetrio, egli vive, non come chi disprezza ogni cosa, ma come
chi ne lascia ad altri il possesso (Epist. a L.). Non a caso, sotto questo
aspetto, furono ritenuti "stoici;" e tali si proclamarono, uomini
come Trasea Peto ed Elvidio Prisco, difensori del Senato, assertori della
libertas della Res-publica, tantò che l'uno, Trasea Peto, sotto Nerone,
l'altro, Elvidio Prisco, sotto Vespasiano, ci rimisero la vita. L'accusa contro
Trasea Peto fu ch'egli faceva parte di "quella setta che ha generato un
tempo i Tuberone e i Favonio, nomi odiosi anche all'antica repubblica; essi
vogliono la libertà per sovver- tire gli ordinamenti dell'impero. Invano avrai
tolto di mezzo Cassio, se sopporterai di vedere crescere in potenza gli emuli
dei Bruti... Egli non ha mai fatto sacrifici propiziatori per la salute del
principe o per la sua divina voce; da tre anni non ha piu posto piede nella
Curia... Egli non attende ormai che agli affari dei suoi clienti... Un tale
atteg- giamento è già un'opposizione nel nome di un partito: secessio iam id et
pars est (Tacito, Annali). E Tacito, narrando il momento della morte di Trasea,
alla presenza di Demetrio, cosi dice: Trasea, allora, esortò i presenti, che si
abbandonavano a pianti e a lamenti, a ritirarsi in gran fretta per non correre
il pericolo di compro- mettere la propria sorte con quella d'un condannato...
Come il sangue sprizzò fuori, Trasea, spargendolo sul terreno, fece avvicinare
il questore e "libiamo," disse, "a Giove liberatore. Tu, o
giovane, guarda e fai che gli dèi tengano lontano da te l'infausto presagio.
Sei, per altro, nato. in tempi l).ei quali è pur necessario rinvigorire lo
spirito con esempi di fermo corag- gio." Dette queste parole, poiché la
lentezza della morte gli recava atroci tormenti, volse gli occhi a Demetrio...
(Annali). Da Attalo a Fabiano Papirio, da Demetrio a Trasea Peto, si vede bene
l'arco del significato assunto dal termine "stoicismo": esempio di
vita ordinata e misurata, adeguantesi ad una postulata ragio!l d'essere, ad un
postulato ordine del tutto, ancora al principio dell'Impero, oppo- sizione
politica, esempio di una vita libera, da Caligola in poi. Entro i termini
estremi di quest'arco si muove lo "stoicismo epicureo" di Seneca. Se
egli, appunto, da un lato attraverso Sozione, Attalo, Fabiano Papirio, e per
altro verso attraverso Demetrio poteva delineare quella che avrebbe dovuto
essere la vita ideale dell'uomo, in una particolare accezione (non teoretica)
dello stoicismo, dall'altro lato, rendendosi conto che ogni concezione vale per
quello che essa ha di successo, in certe ben precise situazioni, cercò, finché
gli fu possibile, di convincçre a quell'ideale, operando su amici, e,
soprattutto, ripetiamo, su Nerone. Formatosi entro i termini di un generico
"stoicismo" di sfondo, Seneca si servi di tale concezione per
formulare quello che avrebbe do- vuto essere l'"uomo ideale" e, per
altra via, lo Stato e la società ideali, indipendentemente dai piu gravi
problemi teoretici, impliciti nei vari aspetti assunti dalla posizione stoica.
Se altra fosse stata la prima edu- cazione di Seneca, egli avrebbe potuto
benissimo accogliere, in funzione della sua polemica morale, anche l'ipotesi
epicurea. In realtà Seneca non si preoccupa affatto di quella che sia la
struttura in sé della realtà, rendendosi conto anzi - vicinissimo in questo a
Demetrio - di come tale questione, dibattuta nelle scuole, sia divenuta una
questione logico- grammaticale, e come proprio le analisi logiche, in gran
parte condotte proprio dagli stoici e dagli scettici, abbiano portato a
dimostrare l'im- possibilità di ogni passaggio dalle parole alle cose. Ora,
puntando sulla scolastica distinzione della filosofia in fisica, logica, etica,
Seneca taglia via la fisica come scienza a sé - su questo piano egli si riduce
a una pura descrizione dei fenomeni fisici e delle opinioni: cfr. N aturales
quaestiones - assumendo quella "fisica" che poteva apparire meno
contraddittoria quale fondamento di una certa etica, fondandosi su di una
logica che rendesse conto che lo stesso ben pensare è ben vivere, per cui vita
etica è ad un tempo vita logica. Seneca rifiutava cosi quella logica che tutto
risolvendo in sé, in una mèra realtà di parole, si pre- cludeva ad ogni
significato e senso delle cose, sofisticamente. Di qui, sembra, la polemica di
Seneca nei confronti del diffuso neo-pirronismo e dello stesso stoicismo
logico, che davvero potevano finire nel silenzio e nell'inazione, anche se, su
di un piano conoscitivo, egli accettava la sospensione del giudizio sui fondamenti
primi (decreta) della realtà, se non quando questi potevano servire alla
formazione di una vita misu- rata. e razionale, a determinare certi modi di
vivere (praecepta). Sia pur detto fra parentesi, non sembra senza interesse che
Seneca, con linguag- gio giuridico, chiami decreta i principi stessi su cui
legalmente si costi- tuisce la realtà, e praecepta, appunto, le norme del
vivere, i cui limiti sono determinati dai decreta (cfr. Ep. a L.). Cosi, ad
esempio, dopo avere a lungo discusso, molto acutamente e con molta precisione,
sul significato di -rò ISv, tradotto in latino con essentia e con quod est, e
su come si debbono assumere i termini genere e specie, e dopo aver fatto vedere
il significato di genere, specie, quod est, idea, idos, in Platone, in Aristotele,
in alcuni Stoici (cfr. Ep. a Luc.), cosi esclama Seneca, rivolgendosi a
Lucilio: Dirai: "A cosa possono giovarmi codeste sottigliezze?" Se lo
chiedi a me, nulla. Ma come un cesellatore distrae e solleva gli occhi a lungo
intenti e affaticati, e, come si suole dire, li ristora, cosf noi dobbiamo di
quando in quando concedere riposo al nostro animo e dargli nuove. forze con
't!ualche.divertimento. Ma pur questi divertimenti non siano ozio: anch'essi,
se saprai profittarne, potranno offrirti qualche utilid... çhe còsa meno con-
tribuisce alla trasformazione dei costumi,.::be i problemi avanti trattati?
Come mi possono rendere migliore le idee platoniche?.Che posso cavare da esse,
per infrenare le mie passioni? Eppure basta anche questo,. che Pla- tone nega
la realt~ di tutto ciò che ·è soggetto ai nostri sensi, e ci infiamma e ci
attira. Dunque noi abbiamo da fare con fantasmi, che solo per qualche tempo
offrono una certa apearenza, ma non hanno né stabilita né solidiù... Rivolgiamo
l'animo a auello che è ~erno..; (Ep. a Lue.). E ancora, nella lettera 65 a
Lucilio, dopo avere discusso il motivo delle cause, esponendo la tesi degli
Stoici,· Seneca afferma: • Dicono gli Stoici che nella natura due sono gli
elementi, da cUi nascono tutte le cose, la causa e la materia; la materia è
inerte, pronta a tutto ciò che se ne '-:uol fare, immobile se nessuno la muove:
la causa, invece, cioè la ragione, dà forma alla materia, la elabora a suo
piacere e ne trae le opere sue; bisogna, dunque; che vi sia· il principio onde
una cosa è fatta e il principio che la fa, questo è la. causà, quello la
materia;... le cose tutte sono il risultato dell'elemento.paziente e della
forza ·agente; per gli Stoici l'uniça causa è la. forza agente" (Ep. a
Luc.); discutendo Aristotele dichiara che quattro sono le cause per Aristo-
tele: la materiale, l'efficiente, la formale, la finale,; di Pla- tone, poi,
dtce che: • aDe quattro cause Platone ne aggiunge una quinta, che chiama idea,
ed il modello che l'artefice ha tenuto di fronte a sé nell'eseguire l'opera,
che aveva deliberato di fare; non ha importànza poi se questo modello egli
l'abbia avuto sotto gli occhi fuori. di sé, oppure concepito nella suà
immaginazione e tenuto cos{ presente: que- sti esemplari di tutte le cose Dio
li ha in se.stesso, e di tutte le cote che deve fare abbraccia il numero e la
misura: egli è pieno di tutte queste misure, da Platone chiamate idee,
iJlUilOitali~ immutabili, instan- cabili; cinque sono dunque, come dice
Platone, le ç.ause: quella di che, quella da che, quella in che, quella su che,
queU::"pr.r· che; fi.òalmente quella che da tutte queste deriva"
(id., f5, t-.ill). Seneca, dopo aver concluso che pio semplice è ridurre tutta
la folla -delle cause ad t-..na sola, a ciò senza di cui nulla è, causa prima pc:l
ciò ed oi>erante, Dio, • poiché quelle che avete messo innanzi non sono
molte e singole caUse, ma dipendono insieme da una sola, da quella che
opera" (id., 65, 12), cosi, alla fine dice: Ed ora pronuncia la tua
sentenza, o, co~'è piu comodo in simili. pro- blemi, di' pure che non ci vedi
chiaro e rimandaci a nuove indagini. Mi dirai: "Che gusto è il tuo ·a
perdere il tempo in siffatli problemi, che no ti liberano da nessuna passione,
che non scacciano dal tuo animo nessuna cupidigia?• lo, in verità, dò la
preferenza a quei problemi che rendono tranquillo l'animo e all'esame di me
stesso e soltanto dopo mi occupo di questo Universo. Neppur ora io sciupo, come
credi, il mio tempo; poiché tutte le discussioni di tal genere, se non sono
spezzettate, se non si disper- dono in queste vane sottigliezze, innalzano e
sollevano l'animo... E la filo- sofia conforta l'anima con la contemplazione
della natura, innalzandola dalla terra alle regioni celesti... Tale
contemplazione non poco contribuisce a liberare l'animo: sicuramente l'Universo
consta della materia e di Dio, il quale stando in mezzo ad esso lo governa come
signore e come guida.•. Quel posto che tiene Dio nel mondo, lo tiene nell'uomo
l'anima... Siamo perciò forti contro i casi della sorte... Che è la morte? O la
fine o un paS- saggio. Di non esistere piu non temo, perché è lo stesso che non
aver comin- ciato ad esistere; né di passare altrove, perché in nessun luogo
potrò stare cos(a disagio (Ep. a Lue.). Le Lettere a Ludlio sono tarde, di
quando già Seneca era stato cO- stretto ad abbandonare la vita politica e
sempre pi6 profonda in lui s'era fatta, è stato detto, la "nausea dd
secolo,• ma, certo, ancora qui, l'opzione per una divinità reggitrice del
tutto, l'ipotesi che tutto pro- venga daii'Uno (Dio), uno Che non è se non nel
suo realizzarsi in atto nell'ordine dell'Universo, in una interpretazione
stoica del Timeo di Platone ("Dio è la mente dell'Universo, è tutto ciò
che vediamo e tutto ciò che non vediamo: egli solo è tutte le cose•: Natur.
quaest., praef.), per cui Dio non è nessuna cosa, ma essendo la ragion d'es-
sere di tutte, tutte le trascende, avendo in sé tutte le forme, unità e
molteplicità ad un tempo, Uno e intelletto e anima (sotto questo aspetto si può
parlare, accanto a uno stoicismo epicureo di Seneca, di un suo stoicismo
neoplatonico); ancora nelle tarde Lettere a Ludlio e nelle tarde Questioni
naturali, tale ipotesi resta consapevolmente tale, ipotesi: cioè. credibile in
quanto utile a vivere da uomini, speranza e non con- clusione scientifica, ché
su tale piano, in realtà, l'analisi della logica e del linguaggio, dovrebbero
anzi portare a SQSpendere ogni giudizio. Anche gli uomini piu grandi ci
lasciarono opinioni, non soluzioni defi- nitive, ma problemi da risolvere...
Certo perdettero molto tempo in chiacchiere e cavilli e in sottigliezze
sofistiche, inutili esercizi dell'ingegno. Noi facciamo dei nodi, intrecciamo
parole a doppio significato per darne poi la soluzione. Abbiamo poi tanto tempo
da impiegare? Sappiamo morire? Bisogna attendere con tutte le forze della
nostra mente a guardarci dalle insidie non delle parole, ma delle cose. Che mi
vai facendo distinzione tra vocaboli affini, che possono trarre in inganno
soltanto in una disputa? Il nostro errore è intorno alle cose e su queste mi
devi illuminare (Ep. a L.). Non filologia è la filosofia (Ep. a Luc.), non
cavilli di parole, 265
capziose dispute, di cui se arrivo a scoprire il segreto del giuoco, non
mi ci diverto piu (Ep. a Luc., 45, 8). Nessuno pnò vivere felice, se guarda
solo a se stesso, se tutto fa convergere al proprio vantaggio: bisogna tu viva
per il tuo vicino, se vuoi vivere per te. Questo vincolo sociale, che unisce
gli uomini tra di loro e che attesta esservi una legge che abbraccia tutto il
genere umano, se è osservato con diligenza scrupolosa, giova mol- tissi~o anche
a mantenere quella piu stretta società, che è l'amicizia, e della quale ti
parlavo. Colui che sente di avere molte cose in comune con un altro, solo
perché questi è un uomo, avrà tutto in comune con l'amico. Questo, ottimo
Lucilio, vorrei che sapessero insegnarti codesti cavillatori: quali sono i miei
doveri verso un amico, quali verso un uomo qualunque, anziché in quanti modi
possa esprimersi il concetto di amico e quanti signi- ficati abbia la parola
uomo... Invece mi si storce il senso delle parole e mi si dànno delle sillabe
staccate. Ah sf, se non avrò costruiti arguti sillogismi e raccolto entro una
falsa conclusione una menzogna scaturente da una premessa vera, non potrò
distinguere quello che devo seguire da. quello.che devo sfuggire. Mi vergogno,
a questa età, di divertirmi a scherzare in ma- teria cosf grave! Mus (topo) è
una sillaba; il topo (mus) rode il formaggio; dunque la sillaba rode il
formaggio. Ammettiamo ch'io non riesca a scio- gliere questo nodo: qual
pericolo mi sovrasta da simile ignoranza? Senza dubbio c'è da temere che
qualche volta prenda due sillabe nella trappola o che, se sarò trascurato, un
libro mi mangi il formaggio, a meno che non sia piu ingegnoso quest'altro
sillogismo: mus (il topo) è una sillaba: la sillaba non mangia il formaggio:
dunque il topo (mus) non mangia li formaggio (Ep. a Luc.). Si può, certo, dire
per il I secolo ciò che, acutamente è stato detto per il xv secolo - senza
dubbio, per alcuni aspetti e situazioni storiche vicino al I d. C. - essere
falso che la filosofia vada cercata nelle opere dei suoi maestri ufficiali,
ossia nei commenti di Aristotele e non nei dialoghi morali, nei trattati
politici, nelle discussioni sulla poesia e cosi di seguito. In realtà, "la
ricerca filosofica delle scuole era giunta al limite di un tecnicismo
esasperante, ·che attraverso una raffinatezza estrema arrivava si a un culmine,
ma senza possibilità di sortl!. La per- fezione di una logica che sostituiva i
suoi calcoli e i suoi segni alla realtà dell'esperienza si esauriva in una
conclusione. E quando la via è chiusa, il ritorno alle origini, ai principt, e
la ricerca di altre dire- zioni, si impongono... Il rivolgersi a campi diversi
da quello logico e fisico, ossia al mondo dell'esperienza morale e artistica;
il ritorno dalle esasperazioni teologiche - di una teologia ridotta a
dialettica - alla ricchezza della carità, dell'amore come diretto contatto con
Dio: ecco le caratteristiche di un momento culturale ben definito" (GARIN
(si veda), Cultura filosofica toscana e veneta del secolo X V,
"Rinascimento," Firenze). Tale, mutando quel che è da mutare,
l'esperienza di Seneca, assai vicino, per altra via, di fronte alle chiusure
del diffuso scetticismo, nella ricerca di nuove direzioni, che premevano, alla
problematica di Filone l'Ebreo, e a quella che, già dal tempo di Seneca, si
delinea in una ripresa di certi motivi platonici, pitagorici e stoici, anche se
diverse furono le conclusioni di Seneca. <:;ondannato, fin dalla nascita,
alla morte, disperso nei suoi fantasmi, che sono, nell'immediatezza, le cose e
le passioni, preso da questo o da quel fantasma, s1 come un folle che si fissa
su una o altra delle infinite immagini che lo costituiscono, sempre perciò
deluso, sempre nel terrore d'essere sopravanzato da altri, chiuso nelle sue
stesse parole, dolore, disperato, determinato dalla nascita a una o ad altra
situazione, schiavo dei propr~ fantasmi, re o servo che sia, tutti schiavi,
illusione tutto, l'uomo, per chi appunto si sia reso conto ch'egli è nulla di
fronte al tutto ("chiunque esso sia, o dio possente tra tutti o ragione
incor- porea, artefice di tante meraviglie, o divino spirito diffuso con uguale
intensità per tutte le cose, le piu grandi come le piu piccole, o infine fato e
immutabile concatenazione di cause tra loro connesse": Conso- latio ad
Helviam), l'uomo desta un'infinita pietà. Ma proprio questa uguaglianza
universale degli uomini, molteplici e diversi, per quanto molteplici, diverse,
disarticolate sono le umane passioni e gli umani fantasmi, è il fondamento
comune· per cui, attraverso l'educa- zione di sé (la filosofia in senso
senechiano, che non è sapienza), sco- prendo sé come ragione, cioè come
capacità di con-vincere la passione, l'uomo si libera da sé, costruendo se
stesso uomo ("difendi il posto che ti ha assegnato la natura; quale
chiederai: quello di uomo": De constantia sapientis), in un rapporto
articolato con gli altri uomini, costituendo una societas, che rivela e postula
ad un tempo l'or- dine razionale del tutto, in una comune razionalità, che
rende tutti - quanto piu ciascuno è se stesso, quanto piu misuratamente, cioè
razionalmente, compie ciò che gli è proprio - uguali, per cui alla pietà si
sostituisce il rispetto, che è rispetto dell'altro, non tanto per ciò che egli
è, ma per quello che può essere. Cosa sacra è l'uomo all'uomo. Come comportarci
con gli uomini? Quali precetti daremo? Di non spargere il sangue umano? quanto
poco è non nuocere a chi dovresti giovare! porgere la mano al naufrago,
mostrare la via allo sperduto, dividere il pane con l'affamato? Per dire tutto
ciò che va fatto ed evitato..., eccoti una formula del compito dell'uomo: tutto
quel che vedi, che contiene il divino e l'umano, è tutt'uno; noi siamo tutti
mem- bra di un grande corpo. La natura ci generò parenti, dandoci una stessa
origine e uno stesso fine. Essa ci ingenerò un mutuo amore e ci fece socie-
voli... E quel verso: "Son uomo, nulla di umano ritengo estraneo a
me" 26i (Terenzio,
Heautantimorumenus, l, 54], ci sia nel cuore e sul labbro. Abbia- molo in
comune: siamo tutti nati. La nostra società è tale quale una volta di pietre,
che cadrà, se le pietre non si appoggiano a vicenda e cosf si sosten- gano (Ep.
a L.}. La riflessione su se stesso, sul proprio dolore,. sull'uomo conflitto di
passioni, disperso in una molteplicità di se stessi e di fantasmi, se da un
lato porta alla pietà, dall'altro lato, attravero questa, porta a com- prendere
che l'uomo, mediante se stesso, in quanto capacità di realiz- zarsi secondo
ragione - cioè in una misura che è conquista e libera- zione, - si libera da sé
essendo davvero sé. Tra i molti magnifici detti del nostro Demetrio, questo...
mi risuona e vibra tuttora nell'orecchio: niente -dice -m i pare piu infelice,
che colui cui nessuna avversità mai sia capitata; poiché non ebbe modo di
provare se stesso (De provitlmlia). Hai passato la vita senza lotta: nessuno
saprà mai quel che avresti potuto. Neppure tu stesso. Occorre la prova per
conoscersi (De prov.). Per non adirarti con i singoli individui, a tutti devi
perdonare, all'intero genere umano concedere indulgenza... n saggio sa che
nessuno nasce saggio, ma tale diventa... Pertanto il saggio, sereno ed equo
verso gli errori, non è nemico, ma correttore dei colpevoli... Non è da uomo di
senno odiare chi erra, altrimenti odierebbe se stesso... Quanto è piu vasta la
norma morale che q11ella giuridica? Quante cose non esigono la pietà,
l'umanità, la liberalità, la giustizia, la fede, che restano tutte fuori della
legge?... Piu misurati ci farà il guardare dentro di noi, se ci chiederemo: non
ho forse io stesso fatto alcun che di simile? Non ho mai peceato? Posso io
condannare codeste colpe? (De ira). Solo attraverso il peceato si giunge
all'innocenza (De clemmlia, l, 6). Chi è passato attraverso questa esperienza,
chi ha coscienza che l'uomo può realizzare sé non piu in forma dispersa, ma
coerentemente, sa che il suo ufficio, il suo dovere è di consolare, attraverso
la medita- zione sul dolore, sulle passioni, sulle sitlgole esperienze, sulle
illusioni, l'uomo disperato (cfr. le Consolaziont) e di avviare sé e gli altri,
pro- spettando quale dovrebbe essere il saggio, a tale saggezza, agendo, entro
i limiti delle proprie possibilità, perché si realizzi quella societtu che
libera e fa dell'uomo un uomo rispettoso ~ell'altro, della comune ragione,
specchio della postulata universale ragione di essere, mediante cui si
costituisce la res-puhlica cosmica, il cosmico Impero. Di qui la distinzione
senechiana tra sapienza e filosofia: la sapienza è un ideale, la filosofia uno
strumento, riflessione sulle proprie espe- rienze di vita e, ad un tempo, per
ciò, liberazione dalle proprie unila- teralità, convinzione e persuasione,
retorica verace e consolazione, imVC- 268 gno sociale, da
distinguere nettamente dalle arti dette liberali, utili, ma nella loro
unilateralita, non tali da formare l'uomo virtuoso (cfr. Ep. a L.). Sembra
chiaro, ora, in che senso da un lato Seneca descriva l'uomo qual è di fatto, in
questo mondo, in questa situazione politica, e, dal- l'altro lato, accanto alle
indicazioni mediante cui l'uomo può liberarsi da questo suo attuale non essere
uomo, prospetti l'uomo quale dovrebbe essere, di volta in volta disegni il
ritratto del saggio, del sapiente, dd- l'uomo consapevole di sé, misura,
coerenza di sé con sé (constantia tra- duce Seneca l'homologhla zenoniana), e
prospetti l'ideale rod~, l'ideale impero universale, che, a sua volta, si
scopre adeguato alla postulata ragion d'essere del tutto, per cui, infine,
accanto all'uomo quale dovrebbe essere, si pone la divinita qual è, in quanto
termine di realizzazione, dovere e impegno. In ogni suo scritto Seneca, o per
accenni o rievocando l'esempio di celebri figure o di proposito, disegna e
prospetta il ritratto di quello che deve essere l'uomo, il "saggio" -
anche nelle Tragedie, in cui il personaggio di Ercole assume la funzione
dell'eroe stoico (cfr. R. Che- vallier, Le milieu.rtoiden à Rome au r siècle
après J.-Ch., in "Bulletin de l'Association Budé," Suppl. Lettres
d'humanité). Basti qui ricordare alcuni passi del De con.rtantia sapientir ed
una pagina della Lettera 66 che sembra riepilogare i peculiari tratti del
sapiente. Gli Stoici, che hanno scelto la via piu degna per un uomo, non si
curano che essa sembri piacevole a coloro che la iniziano, ma che al piu presto
li liberi e li conduca sull'alta vetta, che si innàlza al di sopra di qualsiasi
tiro d'arco e domina persino la fortuna... Libertà è sollevare l'animo al di
sopra delle ingiurie, rendersi capaci di ricavare solo da noi stessi le nostre
gioie, e staccarsi dalle cose esteriori, per non passare la vita
nell'inquietudine come fa l'uomo che teme il riso e la lingua di tutti (De
constantia sap.). Tale il saggio: un animo, che vede il vero, esperto nd
conoscere quello che si deve fuggire e quello che si deve cercare, che delle
cose fa stima non secondo l'opinione generale, ma secondo il loro valore
intrinseco, che osserva tutto l'Universo e ne fa oggetto delle sue meditazioni,
sentinella vigile dei propri pensieri e dei propri atti, grande e impetuoso
nella giu- stizia, sordo ugualmente alle minacce e alle adulazioni, inconcusso
nella buona come nell'avversa fortuna, superiore a tutte le contingenze e a
tutti gli accidenti, ~issimo e ben regolato nella sua compostezza e nella sua
forza, sano e semplice, imperturbato e intrepido, che non si piega per vio-
lenza, che non si inorgoglisce e non si abbassa per vicende di fortuna: un tale
animo è la virtU in persona; questo sarebbe il suo volto, se si presen- tasse
sotto un'unica forma e in un insieme tutta intera si mostrasse. Del resto essa
offre molti aspetti, che si manifestano secondo i diversi casi della vita e le
diverse attività. Il som,mo bene non può decrescere, né alla virtu è concesso
andare indietro; ma assume qualità' diverse secondo la natura degli atti che
sta per compiere (Ep. a L.). E non dire, come dici di solito, che questo nostro
sapiente non lo si trova in nessun luogo. Noi non ci foggiamo una gloria vana
per l'ingegno_ umano e neanche vagheg- giamo il fantasma ideale di un essere
inesistente: come lo descriviamo, cosf l'abbiamo prodotto e lo produrremo, di
rado forse e uno solo a lunghi "inter- valli di tempo: del resto io mi
domando se Marco Catone [uticense]... non superi addirittura il nostro modello...
(De constantia sap.). Ora, come Seneca delinea due uomini, l'uomo qual è e
l'uomo quale dovrebbe essere (donde, per altro verso, si costituisce il
conflitto della vita umana), cosi egli, per la prima volta chiaramente, parla
di due Stati, di due res publicae, la Città degli uomini quali sono e la Città
degli uomini quali dovrebbero essere, in una prospettiva dello Stato
universale, specchio, appunto, dello Stato cosmico, per il quale il saggio deve
lavorare, in nome del diritto naturale c che può costituire un saggio e giusto
cosmo statale. Convinciamoci che esistono due res publicae: l'una grande e
veramente publica, che comprende gli dèi e gli uomini, e nella quale non siamo
con- finati in questo o in quell'angolo, ma misuriamo con il sole i confini
della nostra città; l'altra è la res publica a cui ci ha iscritto la condizione
della nostra nascita (potrà essere quella di Atene o di Cartagine o di
qualsiasi altra città) e non abbraccia tutti gli uomini, ma solo determinati
uomini. Taluni lavorano contemporaneamente per ambedue gli Stati, il grande e
il piccolo, altri solo per il piccolo, altri infine solo per il grande. Questo
Stato piu grande possiamo servirlo anche vivendo ritirati, e forse anche
meglio, ricercando che cosa sia la virtu; se una sola o parecchie; se siano la
natura o lo studio a rendere buoni gli uomini; se questo insieme di terre, di
mari e di tutto ciò che sta tra i mari e le terre, sia unico, o se la divinità
ne abbia disseminati altri del genere nell'Universo; se la materia da cui
nascono tutte le cose, sia una sola e compatta, oppure diffusa e con parti di
vuoto mescolate alle solide; dove risieda la divinità; se contempli inerte o
muova la sua opera; se l'avvolga dal di fuori o sia immanente al tutto; se il
mondo sia immortale o da considerare tra le cose caduche e nate solo per un
certo tempo. Chi riflette su questi problemi, quale servizio rende alla
divinità? Evita che la sua opera rimanga senza testimoni. Noi siamo soliti dire
che il sommo bene consiste nel vivere secondo natura. La natura ci ha generati
per ambedue i compiti: per contemplare e per agire,. (De otio). Senza l'azione
non esiste contemplazione (De otio). Di qui, per una via pio universale e meno
legata all'esistenza di una certa classe che non quella di Cicerone, di coptro
alla tirannide, di contro al conformismo dettato dalla paura, il richiamo di
Seneca al motivo del cosmopolitismo stoico e al diritto naturale, fondamenti di
una res publica umana, e, nei confronti dell 'imperatore, alla concezione
stoico-platonica del monarca filantropo, per cui l'essere imperatore è un
dovere. Ma di qui anche il delinearsi del motivo del tirannicidio; con il
conseguente richiamo a Cassio, e del suicidio politico, donde la sempre
maggiore esaltazione della figura di Catone Uticense, e su di un piano di
diritto naturale, se non di diritto positivo, la proclamazione dell'abolizione
della schiavitu. Poche righe prima del testo del De otio sulle due Repubbliche
- ricordiamo che il De otio, insieme al De constantia sapientis e al ·De
tranquillitate animi, è dedicato ad Anneo Sereno, che dalle Lettère a Luci/io,
sappiamo essere morto da non moltissimo tempo, Lettera 63, per cui si pensa che
le tre operette siano del 61-62 circa: degli anni in cui Seneca fu costretto ad
abbandonare la sua diretta influenza su Nerone, - Seneca scriveva: Epicuro
dice: "il saggio non si accosterà alla vita pubblica a meno che non
intervenga una situazione particolare." Zenone dice: "egli si
accosterà allaita pubblica se non interverrà qualcosa ad impedirglielo." -
Qui seguirò il parere degli stoici... perché la questione di per se stessa
vuole che io segua la loro opinione: seguire sempre il parere di uno solo è
proprio della fazione, non del Senato [nel momento in cui Seneca scriveva il De
otio è questa una frecciata abbastanza indicativa]. - Epicuro, dunque, vuole
l'otium di proposito, Zenone, se interviene un motivo [è anche questo un
richiamo assai significativo alla posizione di Seneca]. E i motivi possono
essere molti: se lo Stato è troppo corrotto perché ci si possa trovare rimedio,
o se è oppresso dai mali, il sapiente non si sforzerà inutilmente e non spre-
cherà se stesso senza poter servire a nulla. Se avrà poca autorità e poca forza
e lo Stato lo respingerà, se la salute gli sarà di ostacolo, come non metterebbe
in mare una nave in avaria, come non si arruolerebbe essendo infermo, cosi non
intraprenderà un cammino che sa già impraticabile. Cosi anche colui che è
ancora nuovo di esperienza e non si è ancora esposto alle tempeste, può
rimanere al riparo e darsi subito allo studio... In realtà ciò che si esige
dall'uomo è che serva agli uomini: se è possibile a molti, altri- menti a
pochi, altrimenti ancora a se stesso. Infatti, rendendosi utile agli altri,
egli agisce nell'interesse comune: come chi si rende peggiore non nuoce solo a
sé, ma anche a tutti coloro che avrebbe potuto giovare essendo mi- gliore, cosi
chiunque fa del bene a se stesso giova per ciò solo anche agli altri, perché
viene costruendo un essere che potrà riuscir loro di giovamento (De otio). È questo
un testo piuttosto importante, perché chiarisce ancora una volta il senso con
cui Seneca assume certe posizioni stoiche, il
significato dato da Seneca alla filosofia come riflessione sulle proprie
esperienze, attraverso cui ci modifichiamo e ci costruiamo uomini, pro-
spettando Ja possibilità di realizzare l'uomo quale dovrebbe essere in rapporto
con gli altri uomini, in funzione di una res publica hominum, cui giovano, a
seconda delle istituzioni e per esse, modi diversi di azione, sia pure il ritiro
dall'azione, o la presentazione di certi esempi di vita; ma anche perché in
esso è molto chiaramente indicata la vita morale come problematica, come
conflitto, COII}e dilacerazione della coe- renza stessa, ché talvolta la
coerenza sta nell'incoerenza, e perché qui, molto chiaramente, Seneca presenta
il proprio caso, la sua stessa espe- rienza e problematica, come la
problematica dell'uomo, quale che sia la situazione in cui ciascuno, sempre,
viene· a trovarsi: ciascuno, sempre, in una sua certa situazione storica
diversa. Già dal tempo della questura e dei suoi primi discorsi in Senato,
Seneca fu tenuto in conto di pensatore e di parlatore di razza, il maggior uomo
di cultura che avesse Roma in quel tempo. Dopo il pericolo corso per la sua
libera orazione in Senato, salvatosi per intervento di una favo- rita di
Caligola, Seneca dovette certo comportarsi con molta prudenza e tatto (dirà piu
tardi nel De constantia sapientis: "Talvolta anche, per sdegno contro i
potenti, sveliamo i nostri sentimenti con eccesso di libertà! Ma non è libertà
il non tollerare nulla: questo anzi è un errore"), se riusc{ a mantenere
un posto di non poca importanza presso la corte, particolarmente legato di
amicizia con Giulia Livilla, figlia minore di Germanico, sorella di Caligola. Egli
allora godette, senza dubbio, come lui stesso confessa nella Consolatio.alla
madre Elvia, di potenza, di onori, di danaro. Ma fu proprio la sua amicizia per
la dignitosa principessa, che mai volle adulare l'imperatrice Messalina, che,
nel41, rovinò Seneca. Messalina, gelosa della bellezza di Giulia, e
dell'influenza che Giulia aveva sull'imperatore Claudio, riusc{ a fare
sospettare di adulterio Giulia, tanto da farla cacciare da corte, e, poco dopo,
da farla condannare a morte. Seneca fu coinvolto in questa losca montatura:
forse si disse di lui ch'era stato amante di Giulia. Certo è.-:he Seneca, a
causa di Messalina, fu condannato all'esilio e venne rele- gato in Corsica
(•Non frutti di autunno né spighe d'estate né ulivo d'inverno; mai di primavera
l'ombroso ristoro di un ramo: non pane né un sorso d'acqua né il fuoco per
l'ultimo ufficio. Due cose sole son qui: l'esilio e l'esule": Epigramma,
II, Haase). Fu durante l'esilio che Seneca scrisse la Consolatio alla madre
Elvia, che è, ad un tempo una consolatio a se stesso, e la Consolatio a
Polibio, in cui Seneca, con molta dignità, fa il tentativo di farsi richiamare.
Uccisa Messalina, nel 48, assurse a potenza Agrippina, figlia di Germanico, che
da un suo matri- monio con Gn. Enobarbo aveva avuto un figlio, Domizio.
Agrippina, mediante sporche trame, riusd, morta Messalina, a farsi sposare, nel
49, dall'imperatore Claudio, suo zio. Agrippina, allora, fece revocare l'esilio
di Seneca, per farlo tornare a Roma, in qualità di precettore del figlio
Domizio.:t storia nota. Agrippina riusd, dopo loschi delitti, a far spo- sare
il figlio Domizio con Ottavia figlia di Claudio e di Messalina, e, quindi, a
fare adottare da Claudio Domizio, divenuto suo genero, con- trapponendo, per la
successione al trono, Domizio a Britannico, figlio legittimo di Claudio e di
Messalina. Con il nome di Nerone, Domizio passa far parte della gente Claudia. È
data a Nerone, che non aveva ancora compiuti quattordici anni, la toga virile.
Agrippina aveva richiamato Seneca dall'esilio, in parte per fare cosa grata al
pub- blico che riteneva ingiustamente condannato da Messalina un uomo di gran
valore, in parte perché sperava, legandolo a sé, di averlo consigliere delle
sue trame politiche e perché educasse il figlio a seconda dei suoi intenti.
Nota è la fine di Claudio, fatto, forse, avvelenare in segreto da Agrippina e
note la proclamazione di Nerone a imperatore e la fine di Britannico fatto
uccidere da Nerone. ~Seneca fu lontano da tali intrighi. Tacito che non si
arresta, non che dinanzi alle colpe, dinanzi <?-i sospetti delle colpe, non
ne fa menzione: ed egli attinge con preferenza alle fonti storiche piu ostili a
Seneca. Seneca, che Agrippina revocò dall'esilio per averlo consigliere delle
sue trame poli- tiche e maestro di Nerone, restò maestro di Nerone; consigliere
di Agrippina era un uomo in tutto degno di lei, il liberto Pallante. Quale
fosse in quelle circostanze il contegno di Seneca non sappiamo. Sappiamo però
che piu tardi, morto Claudio e proclamato Nerone imperatore, Agrippina, che già
si credeva sovrana assoluta dell'Impero, dovette su- bito accorgersi che il suo
ambizioso edificio era crollato: chi l'aveva abbattuto era Seneca"
(Marchesi, cit., p. 30). Non pare si possa essere cosf ottimisti come il
Marchesi, ma certo è che furono quelli, gli anni in cui Seneca, godendo di un
certo ascendente sull'animo del giovanis- simo Nerone (d'altra parte invidioso
dello strapotere della madre), avendo cosf, insieme ad Anneo Burro, prefetto
del pretorio, uomo misu- rato ed essenzialmente onesto, in mano la possibilità
di dirigere in un certo senso lo Stato, si adoperò a migliorarne le condizioni,
ad avviare Nerone ad essere principe nel senso stoico di moderatore, di guida,
di egemonico di una res puhlica hominum. Sotto questo aspetto assumono un loro
preciso significato le pagine violentissime di Seneca contro il tiranno
(particolarmente Caligola, già chiaramente discusso nel De ira) e l'operetta,
morto Claudio, contro il principe inetto, burattino, strumento di macchinazioni
(Claudio, appunto, cosf sarcasticamente e comicamente descritto nel Ludus de
morte Claudii, da Dione chiamato Apokolocynthosis, l'inzuccamento di Claudio,
cioè la consacrazione della Zucca: alla deificazione, apotheosis, di Claudio,
decretata dal Senato, Seneca rispondeva che, in effetto, era quella la
deificazione di una zucca). Se le pagine, sparse in tutta l'opera di Seneca,
contro Caligola e lo scritto contro lo sciocco e inetto Claudio, tendono a
dimostrare quello che un imperatore non deve essere, il De cle- mentia, scritto
per Nerone, l'anno dopo la sua assunzione all'Impero, quando era consigliere
politico e ministro, rappresenta da un lato il tentativo di delineare quello
che l'imperatore deve essere, dall'altro lato, com'è stato detto (Marchesi),
"il programma postivo di un vero uomo di Stato." Ben consapevole di
precise situazioni, di non trascurabili ostacoli, di condizioni, in cui
"si fanno cose che ottengono approvazione e che poi vengono punite"
(De clementia}, in cui "una persona non può andare a un pranzo con animo
lieto, sapendo che persino nel brindare ha bisogno di controllare ogni
parola" (De clem., l, 36}, nel De clementia Seneca opera con estrema
cautela, ma sempre in funzione di realizzare, entro i limiti del possibile, uno
Stato armonico, ove vada salvo il rispetto umano, la possibilità di costituire
una res-publica hominum, mediante l'opera politica e riformatrice, interna ed
estera, di Nerone ("Un saggio non farà l'elemosina s1 come la maggior
parte di coloro che vogliono passare per compassionevoli; ma tutto ciò che darà
lo darà come uomo che fa parte agli altri di beni comuni a tutti": De clementia).
Ciò che piu ha colpito del De clementia è stato in genere il suo aspetto
formale, l'apparente adulazione di Seneca che presenta un Nerone potentissimo
autocrate che, consapevole della sua enorme potenza, sa usarla a fin di bene,
per costituire una società ordinata, e che consapevole della sua funzione di
principe - in senso augusteo - in cui si assomma la nostra comune umanità,
opera secondo il principio del monarca filantropo, con demenza, che Seneca
chiaramerite distingue dalla misericordia (compassione) e dalla venia
(perdono}, identificandola con la giustizia sociale. In realtà bisogna tener
presente che il De clementia fu scritto quando Nerone aveva diciotto anni
appena e che molti dei delitti, fino allora avvenuti, erano stati opera di
Agrippina. Presentare Nerone sotto la veste del principe giusto e filantropo
clemente (quando ancora vivissimo era il ricordo in Roma della ip.clemenza di
Caligola e di Claudio, e il timore per Agrippina), dell'uomo consapevole del
suo dovere di sovrano in funzione di una giustizia sociale, fu, proprio nei
confronti del giovane e ambizioso Nerone, una mossa politico-retorica
estremamente abile, un impegnare Nerone ad un'azione che fosse in contrasto con
la pericolosissima linea seguita da Agrippina. In effetto Nerone, nei primi
cinque anni del suo regno, si dimostrò clemente, moderatore degli abusi,
accortissimo in politica finanziaria, nel tentativo di sollevare le classi meno
ricche limitando gli abusi fiscali, fino a giungere alla proposta
dell'abolizione di tutte le imposte dirette (proposta che fu bocciata dal
Senato: una delle poche volte che il Senato seppe opporsi, rivendicando, per
timore di perdere le proprie ricchezze, la sua libertà). Non solo, ma Nerone si
dimostrò rispettoso delle pre- rogative del Senato e delle procedure
giudiziarie, mentre cercò di risol- vere, in favore dei libecci, il problema
della schiavitu. "Intorno a quel tempo, si discusse in Senato"-
scrive Tacito- "circa l'arroganza dei libecci e si insistette nel chiedere
che fosse data ai patroni la facoltà di revocare la libertà a coloro che si
erano resi colpevoli di ingratitudine. Non mancavano i fautori di questo
provvedimento, ma i consoli non osarono prenderne l'iniziativa all'insaputa del
principe, al quale, tut- tavia, notificarono il consensodel Senato a tale
disposizione. Nerone era incerto se dovesse farsi promotore di questa proposta,
poiché discordi erano i pareri dei pochi intorno a lui; alcuni si indignavano
perché l'irriverenza accresciuta con la libertà si era scatenata a tal punto
che ormai i liberti godevano gli stessi diritti dei patroni, ne discutevano da
pari a pari le opinioni... [Ci fu chi fece la proposta di revocare a tutti i
liberti la libertà]... Altri, invece, pensavano che la colpa dei pochi dovesse
esser di rovina soltanto a loro e che non era il caso di meno- mare i diritti
di tutti, poiché era evidente che la classe dei liberti era ormai diffusissima.
Da essa in gran parte venivano le tribu urbane, le decurie, i dipendenti delle
magistrature e dei sacerdozi, ed anche le coorti arruolate in Roma; non diversa
origine avevano moltissimi cava- lieri e parecchi senatori, tanto che, se si
fossero posti a parte i liberti, sarebbe stata manifesta la scarsezza di uomini
liberi. Ben a ragione gli antichi, pur ponendo una gerarchia di ordini sociali,
avevano conside- rato la libertà come un bene di tutti... Poiché prevalsero
tali opinioni, Cesare rispose per scritto al Senato, ordinando di dar corso ai
processi contro i liberti caso per caso..., ma che non si prendesse alcun
provvedi- mento generale di deroga..." (Tacito, Annali). Tacito non fa il
nome di chi sostenne di rispettare la libertà dei libecci, sottintendendo che
per natura siamo tutti schiavi e tutti liberi. Certamente il consigliere che
decise Nerone a favore dei liberti fu Seneca, ché alcune espressioni riferite
da Tacito sono molto vicine a quelle sene- chiane, che leggiamo sia nel De
beneficiis sia nella Lettera 47 a Lucilio. Ho provato molto piacere a sentire
da quelli che vengono di costf che tu tratti i tuoi schiavi molto
familiarmente, e ciò conviene alla tua saggezza e alla tua educazione. Sono
schiavi? Uomini sono. Schiavi? Sono compagni di tetto. Schiavi? Umili amici.
Schiavi? Compagni di servitu, se consideri che la Fortuna ha ubTUale potere su
di essi e su di noi... Quanti di questi schiavi non hanno alla loro mercé il
padrone di una volta... Va ora a disprezzare un uomo di tale fortuna, quando.tu
stesso potresti cadere in quello stato, nel momento stesso che lo disprezzi!
Non voglio cacciarmi in un argomento troppo vasto e venire a ragionare intorno
~ modo come si debbono trattare gli schiavi, verso cui ci mostriamo tanto
superbi, crudeli, arroganti, Tuttavia in poche parole ti dico: "Comportati
verso gli umili come vorresti che si comportassero i grandi verso di
te..." Ti sbagli, se credi che io sia per respingere alcuni perché sono a
piu vile opera addetti, come per esempio quel mulattiere o quel bifolco: non li
giudicherò dal loro mestiere, ma dai loro costumi. I costumi ognuno se li dà
egli stesso, i mestieri li distribuisce il caso... Quel che di servile può aver
loro attaccato il commercio con persone volgari, sarà corretto con la compagnia
di persone piu educate. L'amico, caro Lucilìo, non cercarlo solo nel foro o nel
senato... Ma è uno schiavo! Che importa, forse è libera l'anima sua._ Mostrami
chi non sia schiavo: uno lo è della libidine, l'altro dell'avarizia, l'altro
dell'am- bizione, tutti della paura... Nessuna schiavit6 è piu spregevole di
quella che si abbraccia volontariamente... Qualcuno dirà ora che eccito gli
schiavi alla rivolta e tento d'intl~bolire l'autorità dei padroni per aver
detto: nutrano per i padroni piu reverenza che paura... (Ep. a Luc.). In queste
ultime parole sembra di rintracciare l'eco del ricordo della seduta del 56.
Senza dubbio piu preciso è il ricordo di quella seduta e l'approfondimento
della questione nel De benefiçiis. Nel De beneficiis, scritto nel 56 circa, l'anno,
appunto, in cui Seneca nel Consiglio di Corte difese i liberti di contro agli
interessi del Senato e di contro a chi soste- neva che lo schiavo essendo tale
per natura non pu~ acquistare alcun diritto verso il padrone né alcun titolo di
benemerenza, Seneca dice: Sostenere che uno schiavo non può in nessun caso
esser benefattore del padrone, significa ignorare il diritto umano. Ciò che
importa è il senti- mento, non la condizione giuridica di colui che dà. A
nessuno è preclusa la virtU: a tutti è accessibile, tutti ammette, tutti
invita, liberi, liberti, schiavi, re, esiliati: essa non ha preferenze né per
case né per censi, si contenta dell'uomo nella sua nudità... t un errore
credere che la servit6 penetri in tutto l'uomo: la parte migliore ne è intatta.
L'anima è interamente libera. La fortuna ha consegnato al padrone solo il corpo
(De beneficii$). Noi abbiamo tutti la stessa ~rigine. Nessuno è piu nobile di
un altro, se non chi abbia ingegno piu retto e piu adatto alle buone arti.
Coloro che espongono nel vestibolo le immagini degli antenati e gli alberi
genealogici sono piuttosto noti che nobili. Per gradini, o splendidi o oscuri,
ciascuno di noi risale a una sola origine... Chi oserà chiamare schiavo
qualcuno quando egli stesso è schiavo della libidine o della gola, anzi servo
comune di tutte le femmine adultere?... (De beneficiis). [E nella lettera 31,
11, ancora Seneca scriverà: "Esser virtuoso è possibile tanto ad un cava-
liere romano, quanto a un liberto, quanto a uno schiavo." "Ma che
signi- 276 fica cavaliere, liberto, schiavo? Sono parole nate o
dall'ambizione o dal- l'ingiustizia. Da ogni angolo della terra è possibile
slanciarsi verso il cielo" j. L'appello di Seneca al sovrano, finché gli
fu possibile, e la sua influenza diretta - entro i termini di un'abile
convinzione, per riuscire ad un qualche successo - si mossero nel tentativo di
determinare una· giustizia civile- obbedienza formale alle leggi. stabilite nel
tempo dalle città terrene, - valida nella misura in cui sia capace di far proprio
il contenuto di fraterna uguaglianza e di comunione umana che è proprio della
giustizia naturale (cfr. E. Garin, Giustizia, in "Revue internati~ naie de
philosophie”). A parte le reali intenzioni di Nerone.e i compromessi, cui,
volta a volta, possa essere addivenuto Seneca, certo è che il motivo fondamen;
tale di Seneca è stato quello di rendere gli uomini consapevoli di sé, esseri
razionali, ove per "ragione" si intende non un dato, ma la capa- cità
comune a tutti, che ci fa tutti uguali, di riflettere sulle proprie esperienze
umane, attraverso cui essere ciascuno se stesso in rapporto agli altri, non piu
passioni unilaterali, ma articolazione e società, ché tale è l'uomo in quanto
razionalità. E questo, per Seneca, deve essere l'impegno dell'uomo, di ciascuno
per quanto a ciascuno compete, cia- scuno consapevole dei propd limiti e
perciò, entro questi, delle proprie possibilità. Se sotto questo aspetto sembra
chiaro in che senso Seneca interpreti l'affermazione stoica, che la virtU
consiste nel vivere secondo ragione" e coerentemente, altrettanto chiara
appare la dialettica senechiana tra la tesi che l'uomo è tale in quanto viva
socialmente e la tesi che l'uomo è tale in quanto fugga la folla, donde, per
altro aspetto, deriva la dialettica tra l'affermazione che siamo tutti schiavi
e l'affermazione che sianlo tutti liberi; in conseguenza, se da un lato, sia
pure come· estrema ratio politica, come esempio, quando non sia piu possibile
vivere da uomini, né avviare - anche attraverso i pio gravi compr~ messi,
sacrificando se stesso, ad essere liberi - è valido il suicidio, dall'altro
lato suprema forma di viltà è il suicidio in quanto fuga dal proprio impegno
umano, dal proprio essere sociale, atto unilaterale, e, ·perciò, irrazionale.
Infelice, sei schiavo degli uomini, schiavo delle cose, schiavo della vita: una
servitU è la vita, se manca la virtU del morire (Ep. a Luc.). Pensare alla
morte: chi dice questo, comanda di pensare alla libertà. Chi ha imparato a
morire ha disimparato a servire: è al di sopra di ogni potere, certo al di
fuori. Quale carcere, guardia o catenaccio c'è piu per lui? ha libera la porta
(Ep. a Luc.). Chiedi quale sia la via alla libertà? Qualsiasi vena del tuo
corpo (De ira). Ma anche quando la
ragione induca a farla finita, non si deve prendere la spinta all'impazzata e
di corsa. L'uomo forte e saggio non deve fuggir... dalla vita, ma uscirne. E
soprattutto eviterà quella passione troppo comune..., l'inconsulta inclinazione
a morire, che spesso prende anche uomini generosi e di fiera indole, spesso
gl'ignavi e gli abbattuti; gli uni disprezzano la vita, gli altri non ne
reggono il peso (Ep. a Luc., 24, 24-25). Talora, anche se vi siano cause
incalzanti, bisogna, sia pur con tormento, richiamarsi alla vita per amore
degli altri... È grandezza d'animo riattaccarsi alla vita per amore degli
altri, e spesso i magnanimi l'hanno fatto... Chi non tenga conto della moglie o
dell'amico, per restare ancora in vita..., non è un forte (Ep. a Luc., 104,
3-4). Alcune delle proposte di riforma sociale, suggerite da Seneca, ebbero
successo, altre no. Non sappiamo esattamente quale sia stata la parteci-
pazione di Seneca nella drammatica lotta per il potere tra Agrippina e Nerone,
culminata, com'è noto, con l'uccisione, ordinata da Nerone, di Agrippina. Certo
è che dopo la morte di Agrippina, Nerone ascoltò sempre di meno Seneca, e dopo
la morte di Burro - fatto avvelenare, sembra, da Nerone,- sostituito con
l'inetto Fenio Rufo e con il terri- bile Tigellino, Seneca non ebbe piu alcuna
voce e fu costretto a ritirarsi, anche se ufficialmente Nerone respinse le sue
dimissioni e non volle che Seneca gli facesse dono delle sue ricchezze (si
confronti il colloquio tra Seneca e Nerone riferito da Tacito: Annali).
"La morte di Burro rese vano ogni influsso di Seneca, perché i piu saggi
consigli non avevano piu lo stesso potere, ora ch'era venuta meno, per cosi
dire, l'altra guida del principe e Nerone era spinto dalla sua inclinazione
verso i peggiori elementi. Costoro cominciarono subito ad attaccare con varie
accuse Seneca, affermando che voleva aumentare ancora le sue ricchezze, che
aveva già accumulato in modo eccessivo per un privato, e dicendo che faceva di
tutto per attirare a sé le sim- patie dei concittadini, osando quasi
primeggiare di fronte al principe... e sostenendo che le cose buone
dell'lmpero.erano dovute a lui..." (Tacito, Annali). "Seneca si
allontanò dalla vita politica, facendo rare apparizioni in città, come se fosse
trattenuto in casa a causa della salute cagionevole, o perché occupato negli
studi di filosofia" (Tacito, Ann.). Furono questi gli anni del De otio,
del D~ tranquillitate animi, del De prQtlidentia, del De beneficiis, delle
Naturales quaestiones, e delle Epistulae mora/es ad Lucilium. In realtà Seneca,
attraverso la sua opera, proponendo se.stesso come esempio di problematica
morale e di dubbio (conloquor tecum, unQ scrutabimur: Ep. a L.), proponendo la
vita come conflitto e dia· lettica, sia pur per altra via proseguiva nel suo
insegnamento. "Anche quando lo Stato è oppresso, l'uomo saggio ha
occasione di mostrarsi. A seconda della situazione politica, nel modo che la
fortuna lo consen- tirà, o ci espanderemo o ci raccoglieremo in noi stessi, ma
comunque ci muoveremo e non c'intorpidiremo, paralizzati dal timore" (De
tran- quillitate animi). Ciò che si esige dall'uomo è che serva agli uomini: se
è possibile a molti, altrimenti a pochi, altrimenti ancora a se stesso"
(De otio). Particolare interesse assumono ora, anche relativamente alla situa-
zione e allo stato d'animo di Seneca in quest'epoca, le Naturales quae-
stiones. Chi vada ripercorrendo i vari motivi della riflessione senechiana,
senza volere costruire un ben ordinato sistema di Seneca, si rende sem- pre
meglio conto che la ricerca di lui si muove tutta entro l'àmbito del mondo
degli uomini: da un lato nel riconoscimento che l'uomo è limite, dolore,
disperazione, groviglio di unilaterali passioni, molteplicità; dal- l'altro
lato nel riconoscimento che l'uomo si rivela a se stesso, attraverso la
riflessione sulle passioni, sui propd fantasmi, su se medesimo, capa- cità di
rendersi consapevole di sé, di costituire sé come ragione, cioè come
possibilità di con-vinzione delle passioni, in un ordine che è misura e
coerenza, di volta in volta, misura e coerenza sociali, per cui la rifles-
sione medesima (filosofia) costituisce l'uomo come misura, istituisce un
costume (mos) che è, ad un tempo, costume sociale, come rispetto e dovere,
consapevolezza del proprio compito, entro i propd limiti (mora- lità). Sotto
questo aspetto si vede bene perché, in fondo, a Seneca non interessasse
chiudersi in una o altra sistemazione apparentemente scien- tifica, in una o
altra ben definita e definitiva concezione dell'Universo e della Natura- una
avrebbe potuto essere l'ipotesi epicurea,- se non perciò che l'uno o l'altro
aspetto di una o di altra concezione potevano servire a rendere conto della
formazione morale e sociale dell'uomo. Cosi, l'opzione di Seneca per l'aspetto
piu semplice di certo stoicismo di scuola - tutta la realtà scaturisce quale
deve essere dalla tensione del principio attivo e di quello passivo,
costituendosi in un ordine, per cui ciascuna cosa assume un suo perché, una sua
ragione entro i termini della ragion d'essere universale, la natura naturante-
si determina non come dato a priori, ma come scoperta, attraverSQ la stessa
scoperta (mediante la riflessione su se stessi) dell'uomo come razionalità. In
tal senso la ragion d'essere del tutto si pone piu come ipotesi che come dato,
come termine che si coglie attraverso noi stessi e che, perciò, ci trascende
dal di dentro. E qui, in realtà, il discorso si fa diverso da quello stoico -
se mai piu vicino, forse, a quello di Panezio e di Posidonio, - anche se ven-
gono riprese certe argomentazioni, certi t6poi stoici, che, poi, non solo sono
degli stoici (ad esempio, accanto alla riflessione su se stessi, la riflessione
sul tutto che si rivela ordinato e scandito in leggi, da cui l'ipotesi di una
suprema legge che provvede a tutto); e il discorso si fa quello di alcuni
stoici, nel senso che quell'ordine, quella legge del tutto, quella stessa
provvidenza non sono posti su di un piano antico, ma, ripetiamo, su di un piano
etico, cioè si rivelano e si scoprono attraverso la stessa riflessione etica,
divenendo termini di speranza, non di dimo- strazione scientifica. Altro è
perciò il piano della fisica, altro quello della logica. E se da un lato la
riflessione etica prospetta l'uomo come razionalità, mediante cui l'uomo si
libera da se stesso passioni, frantumi e fantasmi; dall'altro lato rende
consapevole l'uomo dei suoi stessi limiti, della sua condizione estremamente
infelice e determinata, consapevo- lezza senza di cui, comunque, non vi sarebbe
moralità, ma ancora una volta passione e tracotanza. Compromettere la realtà ad
un ordine già dato e necessario, sostenere che tutto è già fatalmente
costituito, sarebbe stato negare la stessa possibilità della vita morale, la
possibilità di ren- dersi consapevoli di sé, di educarsi e di correggersi; si come
sarebbe stato un negare la moralità, la stessa esperienza umana, sostenere la
libertà, la mancanza di un qualsivoglia limite, di una qualsivoglia con-
dizione. Non a caso su di un piano ontico e fisico, anche relativamente
all'immortalità o no dell'anima, Seneca non conclude mai, sospende il giudizio,
ponendo le varie tesi come ipotesi; mentre sul piano di una quotidiana
esperienza chiarisce che Jòuomo è limite, è chiusura, è nulla di fronte
all'immensità dell'infinito Universo; solo che, appunto, tale sentirsi nulla,
tale riflessione sulla propria miseria, sulla infinita natura che circonda e
schiaccia l'uomo, fa sorgere nell'uomo - e anche questa è un'esperienza- la
consapevolezza di sé come capacità, entro i propri limiti, di costituirsi
razionalmente, cioè moralmente. Se da un lato, dunque, poteva scrivere in una
delle sue prime opere (Consolatio ad Marciam): '"Liberazione di ogni
ambascia è la morte: piu in là non si estende l'umano dolore. Essa ci ripone in
quella pace nella quale fummo prima di nascere_, La morte non è né bene né male:
quello può esser bene o male che è qualche cosa; ciò che per se stesso è nulla
e ogni cosa riduce in nulla non ci rimette a fortuna: non può esser misero chi
è nulla"; se ancora molto dopo scriveva: '"Non v'è differenza alcuna
tra il non nascere e il morire; ché uno è l'effetto: non essere" (lAt. a
Luc.); '"l'anima lascia questa vita per una vita migliore, destinata a
rimanere nella calma luminosa delle cose divine; oppure esente da ogni
incomodo, si ricongiungerà alla sua natura e ritor- nerà nel gran tutto"
(lAt. a Luc.); dall'altro lato, posto che la realtà della vita umana ha i suoi
termini tra la nascita e la morte, giunto alla fine della sua vita, Seneca
scrive: '"Mi compiacevo l'altro giorno di pensare, anzi di cr~d"~
all'immortalità dell'anima, e credevo volentieri alla opinione dei grandi
uomini che di una cosa tanto consolatrice ci danno piuttosto la promessa che
non la prova: e mi abbandonavo a tanta speranza, dabam me spei tantam"
(Lett. a Luc.). Entro questi stessi termini, l'indagine sulla natura non ~ per
Seneca un'indagine mediante cui determinare principi che rendono pensabile,
cioè scientificamente conoscibile, la realtà, ma è meditazione sulla natura;
mediante cui liberarsi dalle umane distrazioni e dispersioni, mediante c;UÌ
rendersi conto di quanto misero, nullo, piccolo, sia l'uomo quoti- diano, tutto
preso dalle sue passioni, dai suoi fantasmi. E, ancora una volta, tale visione
della natura, infinita, ordinata nelle sue leggi, che smaga l'animo dell'uomo,
avvia l'uomo a scoprire sé come ragione, a postulare che tutto sia retto da
un'infinita ragione, passando analogi- camente dal noto all'ignoto. Se ti vuoi
persuadere che la natura ha voluto essere contemplata e non solo guardata,
pensa al luogo che ci ha assegnato: ci ha posti nel suo centro, offrendoci la
visione completa dell'universo; e, per rendergli agevole la contemplazione, non
solo ha creato l'uomo eretto, ma perché potesse seguire gli astri dal loro
sorgere al loro tramontare ·e volgere il suo viso a seconda del moto
dell'universo, gli ha dato un capo rivolto verso il cielo e un collo
flessibile. Poi, facendo ruotare i segni zodiacali (sei durante il giorno e sei
durante la notte), ha dispiegato dinanzi all'uomo tutta se stessa, per ispi-
rargli, attraverso la visione delle cose che gli offre, il desiderio di contem-
plare anche le altre. Infatti noi non scorgiamo tutte le cose né le vediamo
nella loro giusta grandezza, ma il nostro sguardo si apre la via all'investi-
gazione e· riesce a gettare le fondamenta del vero, cos{ che la ricerca può
passare dal noto all'ignoto e concepire qualcosa di piu antico ancora del
mondo... (De otio). E anche questa è una spertmza e un'esperienza. Una speranza
in quanto l'ordine e la razionalità si pongono come un bene da realizzare; una
esperienza in quanto la scoperta della presenza in sé della propria
razionalità, la capacità di porre in sé misura e armonia ~ tanto lontano
dall'essere un fatto umano, che si rivela come presenza di un valore super
umano. Tale il Dio di Seneca: da un lato la ragion d'essere del tutto, del
tutto nella sua totalità razionale e ordinata, in senso stoico; dall'altro
lato, la possibilità nell'uomo di costituirsi razionalmente, lo stesso sorgere
della coscienza come consapevolezza di sé, dei propri limiti ed entro questi
del proprio impegno. Di qui, da una parte, U rifiuto dell'ipotel!i fisica di
Epicuro, che smarrisce l'uomo nel caso, dal- l'altro lato l'appello epicureo ad
un annullamento dell'uomo nell'eterno riposo del nulla. Certo, a tale
concezione di Dio, immanente e trascendente a un tempo, Seneca chiaramente
giunse nell'ultimo periodo della sua medi- tazione, anche se fin dal principio
poneva come ipotesi la tesi stoica di un tutto frutto della tensione del Logos (Dio),
principio attivo, e della materia (quantità, principio passivo). Nelle ultime
opere, dal De bene- ficii.r alle Lettere a Lucilio alle Questioni naturali,
sempre piu Seneca insiste sull'esperienza del divino in noi, inteso come la
stessa coscienza, e sulla meditazione intorno ai fenomeni della natura (donde
le Quae-.rtione.r natura/es, che per il resto sono una descrizione di fenomeni)
che, di là dalla nullità dell'uomo, rivelano la presenza di una suprema e
provvidente divinità. ~ sembrato cosi che in Seneca vi sia un'oscillazione tra
due conce- zioni di Dio: un Dio inteso come natura naturan.r, mente
dell'Universo, tutto ciò che si vede e non si vede, rettore e custode
dell'Universo, signore e artefice di quest'opera, al quale ogni nome conviene
(cfr. Nat. quae.rt., praef.), sempre in atto ed entro cui si svolgono in pro-
cesso circolare tutte le vicende delle cose, il nascere e il perire, neces-
sariamente; e un Dio trascendente, esigenza e speranza, posto oltre la natura.
Certo è che la meditazione su Dio di Seneca non è una teologia, né una rivelazione
da.parte di Dio come lo sarà nel çristia- nesimo. Si capisce, comunque, in che
senso Seneca abbia avuto un'enorme influenza sui pensatori cristiani, tanto che
di lui essi potranno dire, Seneca.raepe no.rter; mentre, per altra via, si
scrisse una serie di lettere che si finse essere un epistolario tra Seneca e
San Paolo. "Tra la filosofia di Seneca e la religione di S. Paolo,"
ha scritto Marchesi, "è un abisso; per Seneca l'uomo redime se stesso con
l'opera della ragione, per San Paolo si lascia redimere da Dio nell'abbandono
della fede; nel Cristianesimo Dio è il salvatore degli uomini, nella dot- trina
di Seneca l'uomo è il salvatore di se stesso... Per Seneca è la.rapientia che
distrugge ogni culto positivo, vale a dire ogni supersti- zione, con lo
spietato· esercizio della ragione. Dicono che Seneca sia tanto vicino al
Cristianesimo coloro che, dimenticando del Cristianesimo l'essenza
positivamente religiosa, giudicano soltanto attraverso alcune formule vaghe di
moralità e di umanità... [Chi sa quale sarebbe stato] il giudizio di Seneca, se
accanto al seggio di suo fratello Gallione in Corinto [che doveva giudicare
Paolo] avesse sentito annunciare da San Paolo che Gesu era il Cristo morto e
risuscitato per affrancare gli uomini dalla legge del peccato e della
morte" (Marchesi). In realtà la problematica senechiana sul divino è un
altro aspetto della meditazione di Seneca sull'esperienza morale dell'uomo. Su
questa linea sembrano particolarmente interessanti e indicativi due testi di
Seneca: l'uno relativo all'indagine scientifica, in cui chia- ramente appare
come Seneca, nettamente distingua il tipo della ricerca scientifica dal tipo
della: ricerca filosofica (il tipo della ricerca scientifica.si fonda
sull'ipotesi e sulla descrizione del fenomeno, lasciando aperta la possibilità
di altre ipotesi, di altre ulteriori ricerche; la ricerca filo- Sofica, invece,
si fonda sulla meditazione di se stessi, ed è strumento per costruire se
stessi, attraverso la meditazione stessa, per cui, appunto, la filosofia non è
né la fisica né la logica, né la matematica, ma è da un lato moralità e
dall'altro lato consolatio, o, sotto questo aspetto, con- vinzione, cioè
retorica e politica); l'altro testo relativo alla meditazione sulla natura come
capace di liberare l'uomo dalle sue ostinate illusioni, in una rivelazione a sé
del divino come esigenza e presenza di una mancanza, che è la scoperta della
stessa consapevolezza e della razio- nalità, della possibilità umana della
constantia. Nel primo testo, che si trova nelle Naturales quaestiones, discu-
tendo sulla natura delle comete, dopo aver esposto l'ipotesi di Epigene,
seguace di Aristotele, secondo il quale le comete si formano come una specie di
fuoco trascinato in alto da un vortice, e l'ipotesi di Apollonio di Mindo, suo contemporaneo,
secondo cui le comete sono astri sepa- rati come il sole e la luna, e dopo aver
rifiutato l'ipotesi di certi stoici secondo i quali le comete son fiamme
improvvise, Seneca, che in parte propende per l'ipotesi di Apollonio di Mindo,
cosi conclude: Perché dovremmo sorprenderei se un fenomeno cosmico tanto raro
come quello delle comete non può venire inquadrato nell'àmbito di leggi
regolari, e se non ne possiamo conoscere né l'inizio né la fine, poiché esse
compaiono a intervalli di tempo tanto grandi?... Giorno verrà che le cose ancor
celate a noi trarrà alla luce il tempo e la diligenza di piu lungo corso di
secoli; a cosf grande ricerca non basta una sola età... Molte cose ignote a noi
sapranno le genti delle età future... (Nat. quaest.). Nel secondo testo, cui
àlludevamo, dice, invece, Seneca: Quando ci saremo sollevati alla vera
grandezza [la grandezza della natura], quante volte vedremo marciare degli
eserciti a vessilli spiegati, e la cavalleria, come fosse gran cosa, ora
lanciarsi in esplorazione all'avan- guardia, ora riversarsi alle ali, potremo
ripetere volentieri: "Va il nero sciame pei campi" [Virgilio,
Eneide]; evoluzioni di formiche sono le nostre: nessuna differenza è fra esse e
noi, tolta l'estrema esiguità del loro corpo. Su di un solo punto noi
navighiamo e combattiamo e stabiliamo i nostri imperi, minimi imperi, anche se
avessero per limite i due oceani; sopra di noi sono gli spazi grandi, che
l'anima solo può possedere. t tanto l'errore dei mortali che alcuni di essi
guardano il mondo, questo miracolo di bellezza, di armonia e di bontà, come un
prodotto fortuito, in balla del caso, e perciò tumultuoso in mezzo ai fulmini,
alle nubi, alle tempeste e a tutti gli sconvolgimenti della terra e
dell'atmosfera: e non è solo pazzia
283 dd volgo codesta, ma di uomini che hanno professato la
sapienza. Alcuni, pure ammettendo l'esistenZa di un'anima umana previdente e
moderatrice, credono che questo grande tutto, del quale anche noi siamo parte,
è privo di intdligenza ed è mosso dal caso o dalla natura ignara di· quello che
fa [ove è evidente i l rifiuto ddl'ipotesi fisica dell'epicureismo]...
Osservare queste cose [se vi sia un dio che abbia fatta la materia o se l'abbia
soltanto adoperata, se l'idea preceda la materia o la materia l'idea, se Dio fa
tutto ciò che vuole, oppure no, se dalle nubi del grande artefice escano opere
difettose non per difetto dell'arte ma della materia ribelle all'arte e cos{
via], osservare. queste cose, studiarle, vegliare su di esse, è oltrepassare i
limiti della mortalità e trasferirsi a pi6 alto destino; e se nessun altro
frutto rica· veremo da codesti studi, ci basterà soltanto sapere che tutto è
angusto allor- ché avremo misurato Dio (Natura/es quaest., praef.). E cos{ Seneca esclama in una Lettera
a Luci/io: Non c'è bisogno d'innalzare le mani al cielo, né pregare il custode
dd tempio che ci lasci accostare alle orecchie del simulacro, perché meglio ci
esaudisca: vicino a te è Dio, con te, dentro di te... Un sacro spirito risiede
entro di noi, osservatore e custode della nostra malvagità e bontà; e nella
Lettera 73, 16: Ti meravigli che un uomo vada verso gli dèi?.Dio va verso gli
uomini, anzi, pi6 propriamente, viene negli uomini: nessun'anima senza Dio è
vir- tuosa. Semi divini sono diffusi negli umani corpi (Miraris hominem ad deos
ire? Deus ad homines
venit, immo quod est propius, in homines ve- nit: nulla sine deo mens bona est.
Semina in corporibus humanis divina
dispersa sunt...). Dopo la morte di Burro e l'allontanamento di Seneca, sempre
piu scellerato e terribile divenne il governo di Nerone. Le ucci- sioni e i
delitti si susseguirono alle uccisioni e ai delitti. Si ordf allora una
congiura. Capo di essa ne fu Calpurnio Pisone. Vi aderirono "a gara
senatori, cavalieri, soldati e anche donne, tanto accesi da odio contro Nerone,
quanto da simpatia per C. Pisone" (Tacito, Ann., XV, 48). La delazione di
un liberto e la debolezza di due congiurati che non seppero resistere allo
spavento delle torture - mentre la liberta Epicari, torturata, eroicamente si
uccise piuttosto che parlare - fece scoprire la congiura. Ci fu chi rivelò che
capo della congiura era Pisone - si pensava anzi, se la cosa fosse andata, di
proclamare Pisone impe- ratore - e si aggiunse anche il nome di Seneca,
"forse per procurarsi il favore di Nerone che odiava Seneca e che cercava
ogni mezzo per sopprimerlo" (Tacito, Ann..). Sembra, comunque, che una
parte dei congiurati avesse realmente pensato a Seneca piuttosto che a Pisone
come possibile imperatore. Non sappiamo niente di un'azione diretta di Seneca.
Di fatto sappiamo che Seneca, accusato di accordi con Pisone, fu condannato a
morte, come a morte furono condannati Calpurnio Pisone e Plauzio Laterano. Era
l'anno 65 d. C. Nerone comandò di andare da Seneca con l'ordine di morire...
Seneca, impavido, chiese che gli portassero le tavole del testamento e, poiché
il centurione rifiutò, si volse agli amici dichiarando che, dal momento che gli
si impediva di dimostrare la sua gratudine, lasciava a loro la sola cosa che
possedeva e la piu bella, l'esempio della sua vita. Se avessero di questa con-
servato ricordo, avrebbero conseguito la gloria della virtU come compenso di
amicizia fedele. Frenava, intanto, le lacrime dei presenti ora col sem- plice
ragionamento, ora parlando con maggior energia e, richiaD'laJI.dO gli amici
alla fortezza dell'animo, chiedeva loro dove fossero i precetti della saggezza,
e dove quelle meditazioni che la ragione aveva dettato per tanti anni contro la
fatalità della sorte. A chi mai, infatti, era stata ignota la ferocia di
Nerone? Non gli rimaneva ormai piu, dopo avere ucciso madre e fratello, che
aggiungere l'assassinio del suo educatore e maestro. Come ebbe rivolto a tutti
queste parole ed altre dello stesso tenore, abbracciò la moglie e, un po'
commosso dinanzi alla sorte che in quel momento si com- piva, la pregò e la
scongiurò di placare il suo dolore e di non lasciarsi per l'avvenire abbattere
da esso, ma di trovare nel ricordo della sua vita vir- tuosa dignitoso aiuto a
sopportare l'accorato rimpianto del marito perduto. La moglie dichiarò, invece,
che anche a lei era stata destinata la morte, e chiese la mano del carnefice.
Allora Seneca, sia che non volesse opporsi alla gloria della moglie, sia che,fosse
mosso dal timore di lasciare esposta alle offese di Nerone colei che era
unicamente diletta al suo cuore: "Io ti avevo mostrato," disse,
"come alleviare il dolore della tua vita, tu, invece, hai preferito
l'onore della morte: non sarò io a distoglierti dall'offrire un tale esempio.
Il coraggio di questa fine intrepida sarà uguale per me e per te, ma lo
splendore della fama sarà maggiore nella tua morte." Dette queste parole,
da un solo colpo ebbero recise le vene del braccio. Seneca, poiché il suo corpo
vecchio e indebolito dal poco cibo offriva una lenta uscita del sangue, si
recise anche le vene delle gambe e delle ginocchia, e abbattuto da crudeli
sofferenze, per non fiaccare il coraggio della moglie e per non essere
trascinato egli stesso a cedere di fronte ai tormenti di lei, la indusse a
passare in un'altra stanza. Anche negli estremi momenti non essendogli venuta
meno l'eloquenza, chiamati gli scrivani, dettò molte pagine, che testualmente
divulgate tralascio di riferire con altre parole. Pertanto Nerone, non avendo
alcun rancore personale contro Paolina, moglie di Seneca, dette l'ordine
d'impedirne la morte perché non si accre- scesse l'odiosità della sua ferocia.
All'imposizione dei soldati, i servi e i liberti legando le braccia trattennero
il sangue a lei che non sappiamo se di tutto ciò avesse o no la sensibilità...
Visse ancora pochi anni, conservando sacra
memoria del marito, nel volto e nel corpo bianco di quel pallore che era segno
palese della vitalità perduta. Seneca, frattanto, protraendosi la morte lenta,
pregò Anneo Stazio da lungo tempo amico suo e famoso per l'arte medica, di
propinargli quel veleno [cicuta] già da tempo provveduto, col quale si facevano
morire gli Ateniesi condannati i~ pubblico giudizio. Avutolo, lo trangugiò
invano perché il gelo aveva già invaso le membra e il corpo era ormai
refrattario all'azione del veleno. Alla fine, entrò in una vasca piena d'acqua,
spruzzandone i servi piu vicini a lui\~ dicendo di fare con quel liquido
libazione a Giove liberatore. Fu portato poi in un bagno a vapore dove mori
soffocato. Fu cremato senza alcuna solenne cerimonia funebre, come aveva
prescritto nel suo testamento, quando ancora nel pieno della ricchezza e della
potenza aveva dato disposizioni intorno alle sue ultime volontà (Tacito,
Annali). E non molto tempo prima della sua condanna, certo dopo la sua caduta
in disgrazia, quando si era ritirato da quella vita politica che non era piu
politica e per la quale non c'era piu nulla da fare, se non con l'esempio di
una verace vita ragionevole e perciò stesso, per altro verso, di una verace vita
politica, cosi scriveva Seneca a Lucilio (Lett.), quasi concludendo il suo
discorso, la sua riflessione in cui consiste la stessa moralità: Vicino al
momento della prova, vtcmo a quell'ultimo giorno che deci- derà di tutti i miei
anni, cosf veglio su me stesso e mi parlo. Fino a oggi, dico, non ho fatto
nulla di sicuro né con gli atti né con le parole, indizi lievi e ingannevoli
dell'animo. Alla morte affiderò il mio profitto. Pertanto io mi preparo
coraggiosamente a quel giorno in cui, messo da parte ogni artificio, giudicherò
di me stesso, e farò vedere se il mio coraggio era nel cuore o sulle labbra, se
fu simulazione o commedia la mia sfida gettata alla fortuna. Non conta nulla la
stima degli uomini: essa è sempre dubbiosa ed è accordata tanto al vizio quanto
alla virtu; non contano gli studi di tutta la vita: la morte sola è il giudice
nostro. Le dispute filosofiche, le dotte conversazioni, i precetti della
sapienza non dimostrano la vera forza dell'animo: anche gli uomini piu vili
hanno linguaggio da ero~. Le opere tue appariranno solo all'ultimo tuo sospiro.
Accetto questa condizione: non temo il tribunale della morte (Lett.). Per chi non si affidi a semplicistiche e
nette distinzioni manuali- stiche nel delineare la formazione della cultura nell'arco
di tempo che va dalla seconda metà del I secolo agli inizi del m secolo d. C.,
sembra difficile insistere su precise posizioni, diverse le une dalle altre,
chiara- mente distinguibili per èaratteristiche proprie. Parlare di
"neopitagorismo, " di platonismo medio, di stoicismo cinicheggiante,
di gnosticismo, di ermetismo e cosi via, come di blocchi avulsi da un comune
terreno e da comuni reciproche influenze, che non si scandi- scono nel tempo e
non rispondono a comuni esigenze, è falsare il signi- ficato di una viva
cultura, di problemi concreti, niente affatto cristallizzati, quali, invece,
appaiono a noi nella noia di una tradizione scola- sticizzatasi. Non solo, ma
altrettanto fuorvianti sono le stesse denomi- nazioni indicative: platonismo,
stoicismo, pitagorismo. Tali denominazioni non indicano nulla: se mai possono
evocare uno o altro aspetto di uno o altro platonismo o stoicismo o pitagorismo
determina- tisi storicamente. Sappiamo che se già in Platone vi sono molti
Platone, se già in Aristotele vi sono molti Aristotele, molti sono stati poi,
dopo Platone e dopo Aristotele, i platonismi e gli aristotelismi, s1 come
molti, nel tempo, sono stati gli stoicismi, per non parlare dei modi diversi
con cui ha giuocato la leggenda di Pitagora. Dopo Platone e dopo Aristotele, di
Platone e di Aristotele si sono andati riprendendo, volta a volta, quegli
aspetti che piu rispondevano a certe esigenze e problematiche, in funzione di
concezioni che con Platone e Aristotele, considerati sto- ricamente, non avevano
piu nulla di comune. Abbiamo veduto quale Platone e quale Aristotele abbiano
potuto tener presenti certi stoici e come quegli stessi aspetti di Platone o di
Aristotele si siano potuti trasfigurare, in interpretazioni che a loro
volta sono venute trasfigurando le
originarie posizioni stoiche (si ricordi, ad esempio, la storia dell'Accademia
profilata da Filone di Larissa ·e la storia dell'Accademia profilata invece da
Antioco di Ascalona: cfr. sopra). Abbiamo cos1 veduto come sul piano del
tentativo - d'altra parte già implicito nell'ultimo Platone - di rendere
pensabile l'Essere, costitUito dal mondo delle idee, si sia sciolto l'Essere
stesso in quantità misurabile e traducibile in termini numerici: di qui, pio
tardi, si è potuto rico- struire tutta la realtà scandendola in numeri e figure
geometriche. E se questo, per un verso, è stato detto • pitagorismo," per
altro.verso quello stesSo pitagorismo, nel suo tradurre le leggi del tutto in
numeri, ha potuto servire sia all'astronomia di. tipo stoico sia allo stesso
stoicismo, nella sua interpretazione fisico-matematica del Timeo di Platone (si
cfr., per esempio, già èicerone, Rep,ubblica, I, 15). Per altra via, la critica
acuta e inesorabile delle condizioni, che rendono possibile il ragionare umano,
portava a mettere in dubbio l'adeguazione dell'intelletto e della cosa -
condizione prima perché sia possibile la conoscenza delle strut- ture ddla
realtà in quello che la realtà è, e ch'era stata, sia pur in via ipotetica, la
tesi prima di Platone, - in una precisa dimostrazione che ogni concezione del
tutto è opinabile e controvertibile. Non si scordi, qui, la linea che va da
Arcesilao a Carneade, i quali, non a caso, inter- pretano il platonismo nel suo
aspetto problematico e aporetico, socrauco; e piu ancora la linea che va da
Enesidemo ad Agrippa. Poiché, in fondo, gli stessi scettici presuppongono
l'esistenza di una realtà per sé, oltre le possibilità umane, si vede bene di
qui, in oppo- sizione al neo-pirronismo che finiva con l'estraneare l'uomo
dalla realtà, involgendolo in un puro giuoco di parole, dove tutto è giuoco di
parole, la ripresa di certi motivi platonici, pitagorici, aristotelici. Cos(,
renden- dosi conto della validità ddla critica scettica, si accetta quella
realtà presupposta, giungendovi, per analogia, in termini logici, cioè optando
per quelle concezioni che appaiono meno contraddittorie e piu capaci di dare
una forma e un senso alla vita (da Antioèo di Ascalona ad Ario Didimo a Seneca,
che hanno potuto essere a un sempò stoici e platonici). Oppure, sempre entro i
termini di un platonismo e di uno stoicismo di sfondo, che accetta la
concezione di un tutto ordinato e scandentesi in ben fisse e precise leggi, la
v~sione degli astri e dei mondi regolati da leggi e cos1 via, che è oramai un t&pos,
cui poteva servire certo primo Aristotele ç> certo Aristotele fisico,
interpretato in chiave stoica (si ricordi lo pseudo aristotelico De mundo), si
poteva sostenere che, proprio perché l'uomo è incapace e limite, proprio perché
l'umana ragione resta sul piano umano, è quella stessa verità trascendente che
scende all'uomo, che all'uomo si rivela (si pensi a Filone l'Ebreo e, per altro
verso, ancora a Seneca). Oppure, ancora - certo in ambienti piu popolari, meno
intellettual- mente scaltriti - abbiamo il recupero di Pitagora mago e
taumaturgo, di quello che il Dodds ha detto il Pitagora sciamano, egli stesso
consi- derato piu che anima in senso greco (forza vitale e unifiéatrice), anima
divina, personale, trascendente, che si incarna di volta in volta in uo- mini
che, esprimendo perciò il verbo di Pitagora, essi medesimi novelli Pitagora, si
presentano come salvatori, facitori di miracoli, profeti. D'altra parte va
sottolineato che entro questi termini, entro questa esigenza comune, non è
neppure un solo aspetto dell'interpretazione di Platone né un solo aspetto
dell'interpretazione del pitagorismo né di Aristotele che vengono assunti. A
seconda delle difficoltà, nel tenta- tivo di spiegarsi la realtà e il suo
significato in funzione dell'umano vi- vere e della umana condizione, a seconda
degli stessi ambienti nei quali e per i quali si cerca di operare, delle
tradizioni, delle polemiche in ari ci si viene a trovare, ci si appella a uno o
altro aspetto delle inter- pretazioni di Pitagora, o di Platone o di
Aristotele. O ci si rifà all'ul- timo Platone dialettico (Teeteto, Parmmide,
Sofista, Filebo), puntando su di una certa interpretazione dell'Essere Uno che
si costituisce in una molteplicità; o al Plat~me interpretabile come avente
posto una relazione con l'Uno, con il divino in termini intuitiv~, mistici. O
ci si appella al pitagorismo pi6 strettamente matematico,· capace di rendere
conto in ter- mini numerici e di misure (in ciò razionali) della stessa visione
plato- nico-stoica di un universo uno e inolteplice a un tempo, sia esso poi
do- vuto all'atto proprio di un Dio trascendente e che tale resta o di un Dio
che tale si costituisce e si riconosce nello stesso costituirsi della realtà
tutta; oppure ci si rifà a un pitagorismo interpretabile come spiegazione della
stessa "platonica" unione mistica mediante il motivo della purifi-
cazione delle anime divine, distinte e altre dai corpi, dalla materia, in un
conflitto fra.i due principi del Bene e del Male, dal quale si sfugge se,
ele.tti dal dio, si compiono certi esercizi (ascen), si· conduce una certa vita
("vita pitagorica"), cos1 che non poco suggestivi divengono certi
misteri orientali e l'interpretazione in questa chiave dei misteri greci
(dionisismo e orfismo) e di quelli egiziani, insieme agli aspetti cultuali
operativi dell'astrologia. Di qui la presentazione di esempi di "vita pi-
tagorica," di esempi di vita ascetica, oppure di uomini che sostengono di
essert Pitagora reincarnato, che compiono miracoli e cos{ via. Ma anche, di
qui, in ambienti a pi6 alti livelli, attraverso la ripresa del pita- gorismo
matematico-geometrico, del platonismo dialettico, dell'Aristo- tele protrettico
e di certe parti piu platoniche della Fisica e della Meta- fisica, ma anche
degli aspetti piu formali della logica (Categorie, Topici, Primi tmaliticr),
che, innestandosi ad alcune parti della logica stoica, po- tevano servire da
esercizio e introduzione, da avviamento alla visione platonico-stoica, insieme
agli aspetti piu teologici e ontici della fisica stoica, si fa il tentativo di
oltrepassare il mondo umano, per giustificare proprio quel mondo umano che le
correnti critico-scettiche ed epicuree abbandonavano a se stesso: le une
chiudendo l'uomo nelle sue stesse parole, negandogli ogni contatto e senso
della realtà e della vita; le altre dando all'uomo una responsabilità paurosa,
in una rivolta al di- vino ch'era, pur sempre, una rivolta alle autorità
costituite, in un am- biente, in cui, di fatto, non v'era un popolo, in quanto
mancava il concetto e la coscienza della sua realtà, o meglio altra n'era la
coscienza. Sono, questi, motivi assai diffusi, tra il I e il 11 secolo d. C.,
che si intrecciano e si trovano talvolta giustapposti in uno stesso autore. Non
solo, ma di essi già chiara traccia si ha, come abbiamo veduto, in Filone
l'Ebreo, che certo sfruttava una tradizione interpretativa ormai cristal-
lizzatasi; in certi testi magico-astrologici e magico-alchimistici di ori- gine
egiziana; in testi che costituiranno poi il corpus ermetico; nell'in-
segnamento della Scuola romana dei Sestii (tra pitagorica e stoica); nel
diffuso metodo allegorico, nella diffusissima simbolica dei numeri e nelle
molte pratiche magico-terapeutiche (cfr. sopra). In altra sede sarebbe ora il
caso di riportare tutta una serie di testi (da Cicerone, da Ario Didimo, da
Manilio,. da Filone, da Seneca, da passi astrologici e chimici certamente del I
a. C.) per confrontarli con tutta un'altra serie di testi ripresi da Moderato
di Gade (I d. C.), da Nicomaco di Gerasa (I d. C.), dall'autore dei Theologumma,
dalla Tavola di Cebete (opera attribuita al pitagorico Cebete di Tebe, scolaro
di Socrate, in cui si dà un'interpretazione allegorico- simbolica di tono
pitagorico-stoico delle raffigurazioni dipmte in un quadro), da Apuleio, da
Plutarco, da Numenio di Apamea. Vedremmo coincidenze impressionanti, ma soprat-
tutto ci renderemmo conto di come una certa tradizione culturale, par-
ticolarmente formatasi tra il 11 e il I secolo a. C. (vedi sopra), sfruttando e
ritagliando testi pio antichi (Platone, Aristotele, il •pitagorismo" pla-
tonico-matematico, lo stoicismo di tipo Cleante - si veda in tal senso Antioco
di Ascalona), giuochi ora, tra il I e il 11 secolo d. C., in fun- zione di una
comune esigenza, ma in un approfondimento e sviluppo dell'uno e dell'altro
motivo, a seconda non solo dei livelli sociali, ma anche della formazione
culturale dell'uno o dell'altro autore e dell'am- biente in cui ciascuno si _è
venuto a muovere. Entro questi limiti si possono, forse, riprendere i termini
pitagorismo e stoicism in senso molto lato,- qualora con l'uno e l'altro
termine ci si riferisca a pio motivi, confluenti, ad ogni modo, in una comune
concezione, diversificantesi relativamente ai modi di intendere lo strutturarsi
della realtà. Cos(possiamo anche dire pitagori••anli e platonizzanti quelle
posizioni che, nel tentativ(\ di rendere pensabile la intuita ragion d'essere
del tutto, sulla scia della antica interpretazione di Speusippo e di Senocrate,
traducono il discorso del reale in termini numerici e geometrici, donde tutta
una simbolica di numeri. Solo che in tal caso, ed è molto indicativo, in realtà
non ci si riferisce diretta- mente alla figura di Pitagora, ma al Pitagora
quale avrebbe risuonato in Filolao ed Archita, da cui avrebbe, a sua volta,
ripreso Platone (par- ticolarmente il Platone del Timeo) e da Platone poi certe
posizioni stoiche e lo stesso Aristotele. Non a caso già dal 1 secolo a. C., a
parte la notevole diffusione ch'ebbe il Timeo, erano circolati testi sotto il
nome di Archita di Taranto (De mundo, De principio, De ente, De intel- lectu et
sensu, De sapientia: cfr. framm. in Stobeo, Ecl.; Giamblico, Protr.), di Onato
di Crotone (De deo et divino: cfr. fr. in Stobeo, Bel., l, l, 39 W.), e un
opuscolo Sull'anima del mondo, attribuito a Timeo di Locri, che è, senza
dubbio, un'inter- pretazione stoica del Timeo di Platone, e molte altre opere
andate sotto il nome di Pitagorici antichi, che vennero raccolte dal re Giuba
II di Numidia (si confronti Cicerone, Rep.
e la sintesi di Antioco di Ascalona). Si vede bene come, in questa direzione
"pitagorismo," "platonismo," "stoicismo,"
potevano servire a rendere conto di una visione ordinata e armonica della
realtà, tale, appunto, in quanto possibile d'essere mi- surata (razionalizzata)
e per cui. i numeri divenivano i simboli stessi delle cose, la ragion d'essere
della realtà, e dove assumeva un suo si- gnificato scientifico l'astrologia e
la divinazione, lo studio delle rifrazioni dei lumi stellari (da cui anche gli
studi di ottica e di diottrica), lo studio di tecniche, mediante cui operare su
quei numeri stessi, sulle anime- n!Jmeri, sui dèmoni-numeri, interpretati come
leggi intermedie tra la suprema ragion d'essere (la monade) e il costituirsi
delle cose sensibili, in un ordinamento (di diade in diade) della informe
materia (appunto perché informe, essa non numero, non ragione, non essenza). E
qui si ripresentava il grosso problema dell'eternità del mondo uno nell'unità
di Dio sempre in atto, ove i cangiamenti sono interni a ciascuna realtà
nell'ordine del tutto -per cui in effetto nulla cangia, - o del mondo le cui
qualità si scandiscono nel tempo attraverso la·tensione qualificante del
principio primo, che agisce, mediante il realizzarsi dei modelli in atto in
lui, sulla informe materia, da cui il processo del mondo e una degradazione del
mondo fino al limite materia, l'ostacolo che resta e su cui, perciò, si può
operare. Entro questi termini ci si rende conto della polemica tra coloro che
sostengono l'interpretazione del tutto in chiave stoico-aristotelica (ove forse
giuocava ancora una certa tesi di Panezin) e coloro che sostengono la tesi del
mondo che ha una realtà 291
temporale, in un conflitto tra il principio attivo e la materia informe e
pura quantità dalla cui tensione si costituiscono in gradi le qualità,
pensabili in quanto numerabili, numeri che divengono le stesse leggi
dell'esserci fisico, geometrico delle cose, oppure in quanto costituirsi di
cose, rifrazioni del principio divino, anime divine, in una graduazione fino al
limite materia (stoicismo interpretato in chiave platonico-pitago- rica: forse
con influenze di Posidonio). Sotto questo secondo aspetto sembrano evidenti il
significato e l'im- portanza dati alla magia operativa da un lato e, dall'altro
lato, interme- diario il filosofo, che in sé rivive l'anima di Pitagora, egli
dèmone, l'im- portanza data all'insegnamento purificatorio, incantatorio,
terapeutico, in funzione degli incolti, sui quali piu facile è, mediante certe
tecniche, operare una purificazione, sapendo giuocare sulle forze occulte,
nervose (demoniache e divine), o sulle diete e abitudini di vita, sulle
incanta- gioni musicali, danzatorie, e cultuali. E si badi che in questo
secondo caso, invece di rifarsi al pitagorismo razionale, a un modo
d'interpretare il Timeo, risalendo ad Archita e a Filolao, ci si rifà
direttamente a Pitagora, o meglio al Pitagora della leggenda (che sembra già
risalire alla perduta Vita di Pitagora di Aristotele), alla "Vita di
Pitagora," di Pitagora "sciamano," anima personale che s'incarna
di volta in volta, che si allontana per certi periodi dai oorpi, che compie
miracoli, di Pitagora, in realtà, medico e iatrosofista, sr come lo fu
Empedocle, a cui, appunto, ora, Pitagora viene avvicinato (cfr. I vol.). Non a
caso - sotto questo secondo aspetto - fino dal I secolo a. C. erano circolati
un De Pythagora, un De IIÌrtute e un De pietate attribuiti a Theano (d. SudoJ,
Stobeo), la leggendaria sc6lara di Pitagora/ mentre si scri- vevano versi,
sostenendo ch'erano dello stesso Pitagora. Basti, qui, rileg- gere i 71 versi
dei Detti aurei (Xpua« ~).: Onora anzitutto gli dèi, come vuole la legge e
rispetta il giuramento. Onora quindi gli eroi gloriosi e i geni terrestri,
agendo in conformità delle leggi. Abbi rispetto per i tuoi genitori e per
quanti maggiormente ti sono legati da parentela. Fatti amico di chi è migliore
di te per virt6... La Potenza abita vicino alla Necessità. Sappi ciò e abituati
a dominare le seguenti pas- sioni: il ventre, il sonno, la lussuria, l'ira...
Sii giusto nell'agire e nel par- lare... Non ti comportare sconsideratamente.
Sappi che è destino di tutti 1 Ricordiamo qui anche un De virtulibus del 1 sec.
d. C.,. scritto sotto l'inftucnza di Antioco di Ascalona, attribuito a Theagcs
(cfr. in Stobco, Ecl.); un De pnulenlia et felicilllte (cfr. in Stobeo, D.),
attribuito a Critone; un De animi lrtmquillilllte attribuito a lpparco (Stobco,
Ed.); un De virtute, attribuito a Mctopo di Sibari (Stobeo, Ed.); un De re
publica c un De felicitate (Stobeo, Ecl.) attribuiti a Ippodamo di Turii; un De
vita (Stobeo, Ecl.) attribuito a Eurifamo.] morire. Le riccb,ezze sappi ora
acquistarle, ora perderle••• Non si deve tra- scurare la salute del corpo, ma
bisogna essere moderati nel bere, nel man- giare, negli esercizi. Chiama misura
quella che non ti nuocer~. Abituati a una vita semplice... Ottima è la
moderazione... [Attraverso una vita ordi- nata e misurata ci si colloca] sulle
orme della divina vimi: sf, per colui che alla nostra anima rivelò la
tetraJc.tys, fonte dell'eterna natura... Cono- scerai che in tutto c'è una
uguale natura, s{ che nulla tu speri d'impossibile e nulla ti sfugga... Saprai
che gli uomini soffrono per mali ch'essi stessi si procurano: infelici, che
avendo vicini i beni, non li vedono e non li odono. e pochi sanno come liberarsi
dai mali... Oh padre Zeus, ceno tu potresti libe- rare tutti da molti mali, se
a tutti mostrassi qual è il loro Dèmone [la pro- pria condizione]. Ma tu stai
di buon animo, perché divina è la stirpe degli uomini, ai quali la natura,
svelando i suoi misteri, mostra ogni cosa. E se tu in pane apprenderai queste
cose, conseguirai ciò che io ti prescrivo, e guarirai e libererai l'anima da
questi travagli. Astienti dai cibi di cui -ti parlai; nelle purificazioni e
nella liberazione dell'anima agendo con giwti- zia, e considera ogni cosa
ponendo in alto la ragione, ottima guida. Che se, lasciato il corpo; giungerai
al libero etere, sarai ·un dio immonale e incorruttibile, non piu un mortale.
Cosi, d'altra parte, apriva il suo Commmto ai D~ti aurei Ierocle di Alessandria
(metà del v secolo): "La filosofia è purificazione e perfe- zione della
vita umana; purificazione dalle affezioni della bruta ma- teria e del corpo
monale; perfezione in quanto restituisce all'uomo la beatitudine propria della
vita e lo riconduce a farsi simile alla divinità (7tpbç ~v.k(«V
6tJ.o(6>atV~" Sembra, infine, interessante ricordare che questo secondo
aspetto della ripresa pitagorica, in funzione educativa e precettistica, a cui
poteva servire anche la CII vita platonica" e CII stoica" -
interpretata in senso purificatorio-terapeutico, - soprattutto lo troviamo
nelle aree, di- remmo, culturalmente depresse, piu che nella vecchia Grecia, in
quei paesi ove la cultura si manteneva ai livelli delle classi superiori. 2.
Tra platonismo e pitagorismo. Da Alessandro Poliistore allo pseudo- OC'ello.
Moderato di Gades e NiC'oma&o di Gerasa Rintracciamo, cosi, una netta linea
che risale al I secolo a. C. circa, a carattere piu strettamente
razionalistico-matematico, in una inter- pretazione di motivi platonico-stoici,
in funzione di una comprensione logica del tutto, dell'unica divinità. Tale
linea - a parte il fiorire dd complesso di trattatelli pseudo pitagorici cui
abbiamo fatto cenno - si scandisce dal pitagorico Alessandro Poliistore di Mileto,
vissuto nel 293 I secolo a.
C., che compose un'opera sui Simboli pitagorici é una Successione dei filosofi
(sfruttata da Diogene Laerzio), al trattatello Sulla natura del Tutto (mpl Tijç
-rou 1tor.vròç cpoaewc;); opera senza dubbio di scuola, certo composta nel I
secolo d. C., attribuita al pitagorico Ocello lucano, i cui scritti sarebbero
stati conosciuti da Platone attraverso Acchita (è dimostrato che le lettere che
Platone e Acchita si sarebbero scambiate e da _cui si rileva la notizia
dell'interesse di Pla- tone per Ocello, furono messe in circolazione; e che non
senza significato è il voluto accostamento tra Pla- tone e i pitagorici Archita
e Ocello). L'operetta dello pseudo-Ocello si può, per altro verso, avvicinare al
De mundo dello pseudo-Aristotele. In ambedue le opere troviamo lo stesso sforzo
di risolvere in ter- mini razionali l'unità e molteplicità dell'Universo in una
sola unità in cui giuocano - come abbiamo già veduto per il De mundo - motivi
stoici, aristotelici, platonici. Opera divulgativa, il trattatello Sulla natura
del Tutto riproponeva in termini drastici la questione dell'Uno tutto, tutto in
atto, aristotelicamente, o l'altra questione dell'Universo tempo e gradualità.
Entro questi termini si svolgerà la linea del "pita- gorismo
platonico" e del "pitagorismo aristotelico," in realtà tra di
loro molto piu vicini, nel comune sfondo stoico, di quanto possa sem- brare a
prima vista, anche se talvolta di contro all'unità che tutto risolve in sé si
opporrà una realtà ribelle, una materia, che spieghi di contro al razionale e
al comprensibile, e per ciò stesso Bene, l'irra- zionale, l'incomprensibile,
cioè l'assurdo, il Male, portando ad estreme conseguenze il rapporto
Intelligenza-Necessità del Timeo platonico e la morale tensione stoica tra
azione e passione, in cui consiste la virtu come fatica e pena, ed ove è senza
dubbio presente una certa ispira- zione del dualismo iranico (cfr. poi
Plutarco). Dice, dunque, Alessandro Poliistore, secondo quanto riferisce Dio-
gene Laerzio: Alessandro, nelle Successioni dei filosofi afferma di aver
trovato anche queste cose nelle Memorie pitagoriche. Principio di tutte le cose
è la mo- nade: dalla monade nasce la diade infinita, che sottostà come materia
alla monade che è causa; dalla monade e dalla diade infinita nascono i numeri;
dai numeri i punti; da questi le linee, da cui le figure piane; dalle figure
piane le figure solide; da queste i corpi sensibili, i cui elementi sono quat-
tro: fuoco, acqua, terra, aria che mutano e si svolgono per il tutto, e da
questi risulta il cosmo animato, intelligente, rotondo che contiene al centro
la terra anch'essa rotonda e abitata... Nel cosmo v'è luce e tenebra in parti
uguali, e caldo e freddo, e secco e umido; quando prevale il caldo v'è l'estate,
quando il freddo l'inverno (quando il seeco la primavera e quando l'umido
l'autunno); se il freddo e il caldo sono in equilibrio si hanno le parti piu
belle dell'anno... L'aria che è intorno alla terra è immobile e mal- sana e
tutto quanto è in essa è mortale; ma l'aria altissima è in eterno moto e pura e
salubre e tutto quanto è in essa è immortale e perciò divino. n sole e la luna
e gli altri astri sono divinità, ché in essi prevale il caldo che è causa di
vita. Vi è affinità tra uomini e dèi, per il fatto che l'uomo partecipa del
caldo; ed è questa la ragione per cui la divinità è nostra provvidenza. Il fato
governa il tutto e le parti... Tutta l'aria è piena di anime, ritenute dèmoni
ed eroi, da cui sono mandati agli uomini i sogni e i segni di malat- tia e di
salute e non solo agli uomini, ma anche alle greggi e a tutte le altre bestie.
E per essi si fanno le purificaziorii e i sacrifici apotropaici e ogni specie
di divinazione e vaticini e simili... La virtu, la sanità fisica, ogni bene e
la divinità sono armonia; perciò anche l'universo è costituito secondo armonia.
Anche l'amicizia è uguaglianza armonica... La purità si consegue con i riti
della purificazione (Diogene Laerzio). Nell'opuscolo Sulla natura del Tutto
dello pseudo-Ocello si pone che il tutto è sempre in atto e che il nascere e il
perire delle cose è interno all'ingenerato ordine dell'Universo, in una
trasmutazione degli elementi. Tutto è perciò calcolabile e riducibile a leggi
che co- stituiscono la stessa espressione in atto della Legge suprema, in una
tensione tra principio attivo e passivo, che molto chiaramente indica
l'ispirazione stoica di origine paneziano-aristoi:elica, risolta in termini
pitagorici: A me sembra che il tutto non sia stato prodotto e che sia
ingenerato... Chiamo complesso (6Àov) ciò che viene detto tutto ('rò 1tiv).
l'ordine nella sua totalicl (-rò x6cr (J.OV). Esso è l'insieme compiuto e
perfetto della na- tura e di tutte le essenze. Nulla è al di fuori di lui. Se
qualcosa esiste, esiste in lui· e con lui. Comprende tutti gli esseri diversi,
gli uni come parti, gli altri come produzioni accidentali. Ne segue che le cose
contenute nel mondo hanno afli.nicl e accordo con lui. Il mondo, invece, non ha
alcuna aflinità e alcun accordo con se stesso; tutte le altre cose sussistono,
avendo una natura non perfetta in sé, avendo ancora bisogno di legame con le
cose che esistono fuori di loro, come gli animali con la respirazione, la vista
con la luce... t nel tutto o nell'universo che ha luogo la generazione e la
causa della generazione... [Entro l'Uno tutto, monade, si distinguono le diaài,
le quali si risolvono neWuno stesso, costituendo comunque le parti
dell'universo e la loro opposizioneJ•.. Tutto ciò che è, sarà, ché la natura è
sempre da un lato attiva e in moto, e, sempre, dall'altro lato, passiva e in
riposo; sempre da un lato governa, sempre, dall'altro, è governata... [Entro
tale universoJl'uomo, in ciò che lo riguarda, deve essere considerato come
avente un rapporto diretto con la struttura dell'Universo stesso, sf ch'essendo
parte di una famiglia, di una città, e soprattutto del mondo, deve supplire a
ciò che sta per venire meno, se vuole adeguarsi alla società, alla
politica 295 e alla
divinità... [Di qui, in tale adeguazione alla politèia cosmica, ove tutto è
armonia e misura, la virtU intesa come rapporto sociale, misura e armonia]
(Ocello, ed. Harder). Entro questi termini assumono un particolare inteiesse le
pagine di Sesto Empirico (Adv. math., X, 260-284) sul significato del numero,
ove, certo, Sesto si riferisce alla corrente platonico-pitagorica di que-
st'epoca, tesa a interpretare in termini numerici (razionali) i termini
componenti la realtà e la ragion d'essere del tutto, per cui era neces- sario
postulare l'identità tra quelli che sono i modi di funzionare della ragione
umana (anima) e le leggi (traducibili in numeri), ragion d'essere delle cose, a
loro volta risolventisi nella ragion d'essere dd tutto (l'uno o divinità), per
cui l'uomo, avendo in sé il divino numero dell'anima, può ricostruire e percorrere
il discorso matematico della realtà, fino a identificarsi, intuitivamente, con
quell'uno tutto che è il divino, divenendo appunto simile a Dio, nel suo
tendere all'ugua- glianza divina (7tpÒç ~v &&tcxv 6!Lo(waLv). Tale
sembra, attraverso i frammenti che possediamo dei suoi Com- menti pit;agorici
(ITu&otyopLxotl axoÀot(), in undici libri (in Porfirio, Vita Pythagorae,
48-51; in Simplicio, In Phys; Arist., 25 Diels; in Stobeo, Ecl.), la posizione
di Moderato,2 nato a Gades (Cadice), vissuto nel 1 secolo d. C., parente di
Giunio Moderato COLUMELLA, il celebre autore del De rustica. Molto finemente
Moderato di Gades pot~va rendere pensabile il rapporto stoico, principio attivo
(spirito) e principio passivo (materia), risolvendo i due principt fisici
(forze) in principi aritmetico-geometrici. Egli cosr interpretava la ma- teria
(certo aveva presente il Timeo di Platone) non come realtà per sé, ma come
spazio,.cioè come indefinita estensione logica, condizione perché sia pensabile
ogni possibile costruzione, la cui altra condizione è la qualificazione, la
misurabilità, ci~ la numerabilità. Si vede bene cosr come per Moderato sia
possibile il discorso intorno all'ineffabile Uno tutto, solo se esso viene
simbolicamente indicato come un· numero, matrice di tutto il numerabile, esso
di là dall'essere e dall'essenza, per cui esso è potenzialmente tutto. Tale,
anche secondo Moderato di Gades che raccolse in undici libri i plaeita dei
Pitagorici, il significato della dottrina dei numeri... Poiché, con li Iberico,
nato a Cadice, Moderato, parente di Giunio Modetato Columella, autore del De re
rustica, visse a Roma. Scrisse in greco un'opera in undici libri, intitolata
Commenti Pitagorid (Ilu&cxyopucotl axo>.cd), di cui sono rimasti alcuni
frammenti in Porfirio (Vita Pytllag.}, Simplicio (In Pllyt.}, Stobeo (Ed.).] il
discorso, è impossibile spiegare con chiarezza i principi primi, difficilissimi
sia ad essere compresi sia ad essere espressi, ci si rifugiò nei numeri per
rendere piu esplicita la tesi pitagorica. Si imitarono cosi gli studiosi di
geo- metria e i grammatici. I grammatici, infatti; per esprimere gli elementi e
le loro possibilità ricorrono ai segni e sostengono che questi sono i primi
elementi dell'apprendere. Eppure essi dicono, poi, che quei segni non sono gli
elementi, ma che mediante quei segni si possono conoscere i veri ele- menti. Lo
stesso fanno gli studiosi di geometria: incapaci di esprimere con parole le
forme incorporee, si valgono delle figure disegnate. Essi dicono, ad esempio,
che questo che disegnano è un triangolo, solo che non intendono questo
triangolo qui, che si vede con l'occhio fisico, ma quello espresso da questa
figura, concepibile mediante essa, e mediante cui la mente può rap-.
presentarsi il concetto del triangolo. IIl medesimo esempio si trova nella
pagina sopra citata di Sesto Empirico, Adv. Math.] Lo stesso fecero i
Pitagorici in relazione alle forme prime... Non potendo espri- mere in parole
le forme incorporee e i principi primi, fecero appello alla dimostrazione
mediante i numeri. Essi cosi chiamarono uno il concetto di unità, identità,
uguaglianza, causa della cospirazione delle cose, della loro simpatia e
conservazione dell'universo, che si comporta sempre nel mede- simo modo,
secondo ·una stessa legge. Uno è, difatti, ciò che si trova nei particolari e
che esiste in quanto unità e cospirazione delle parti, parteci- pando della
causa prima (Porfirio, Vita di Pitagora). D'altra parte, l'unità o identità o
uguaglianza (simbolicamente in- dicate con uno), senza di cui non potremmo parlare
di nulla (ciascuna cosa è tale in quanto è una), non sarebbero senza
l'alterità, la differenza, la distinzione (simbolicamente indicate con due),
per cui ciascuna cosa è una (non potremmo dirla una, se non la opponessimo ad
altra). Chiamiamo, invece, due i l dualistico concetto di diversità, disugua-
glianza, divisibilità, mutabilità, cangiamento. E tale è, appunto, la natura
della dualità nelle cose particolari... Infine, poiché esiste in natura
qualcosa che è fornito di principio, di mezzo e di fine, che è uno e due, a
tali forme e nature attribuirono il numero tre, per cui qualsiasi cosa avesse
un ter- mine medio veniva detto triforme, tre, ovverossia perfetto (Porfirio,
Vita di Pitagora). Poiché, dunque, l'uno non è senza il due, e la dialettica dei
due termini è il tre, l'Unità (Monade), proprio in quanto potenzialmente tutto,
non è se non in atto, cioè se non si pone come altro da sé, di fronte a sé
(diade), per cui entro l'Unità si pone - in immagine sotto l'Unità che la
contiene- la monade seconda, l'Unità della molteplicità, il mondo delle forme
intelligibili, delle Idee. In sé non reali né l'uno né il due, le due Monadi
sono in quanto presenti all'anima, terza unità che logicamente segue dalla
prima e dalla seconda monade, e che, perciò, partecipa della Unità prima e
della unità-molteplicità (intelli- gibili). Termine medio l'Anima, iQ essa
s'incentra l'Universo: volta da un lato verso le specie e attraverso queste
verso l'Uno tutto, dal- l'altro lato, davvero coglie l'Unità prima, in quanto
m'Scorre l'Uno mediante le forme, cioè in quanto si volge alla molteplicità
che, co- stituendo il discorso delle forme, è la sensibilità, la figurazione,
la cui condizione è lo spazio informe, l'estensione pura, la materia, essa
stessa dunque essenziale in quanto nell'intelligibile, esistente non per sé, ma
come riflesso (ombra) della materia che è ndl'intelligibile. Anche se filtrata
attraverso Porfirio, sembra ora di notevole inte- resse la testimonianza di
Simplicio sul motivo dell'Uno-Intelletto-Anima- Materia, secondo Moderato di
Gades. Moderato, seguendo i Pitagorici, dichiara che l'Unità (1tpé;)-rov lv) è
al di sopra dell'Essere (-rò c!vatt) e di ogni essenza (1t«aatV oùatatV),
mentre il secondo uno (-rò 3è 3e:U-rcpov lv), in cui consiste ciò che è [che è
in quanto è definito] e l'intelligibile (&tep l<JTt -rò ~V't'c.>ç ~v
xatl VO'Yj't'6v), dice essere la specie (-ra ct3YJ); il terzo uno, infine, egli
sostiene consistere nel principio vitale (-rò ljiuxtx6v), che partecipa
dell'uno e della specie, mentre la natura che viene dopo questa, costituita dai
sensibili non parte- cipa piu dell'uno e degli intelligibili, ma, per dire
cos{, di essi si adorna, ombra riflessa della materia che è negli
intelligibili, materia ch'essendo del primo non essere è solo quantità, per cui
si trova ancora pi6 in basso (~a xat-r' l!Lql«atv ixctv(J)v xcxoa!Llja&ott,
Tljt; lv atÙ't'o'Lç GÀYJt; -rou IL~ ~not; 7tp6>-r(J)t; lv -réj) 1toaéj)
~not; oGaY)t; axtata!L« xatl frt ~ov ~(X ~YJxutatt; xatl ci1tò -roU-rou).
Anche Porfirio, nel secondo libro de La materia, riproponendo la tesi di
Moderato, ha scritto che "volendo la ragione mona- dica (6 b.ltati:ot;
Myot;), come dice Platone, costituire da se stessa la genera- zione degli
esseri, stabiH la quantità di tutte le cose (-rljv 1tOa6't'YJ't'at 1tM(J)V),
come privazione di se stessa, privandola appunto della sua razionalità e
intelligibilità. Moderato ha chiamato ciò quantità amorfa, indistinta, senza
figura, atta a ricevere forma, distinzione, qualità, e cos{ via. Sembra, egli
dice, che Platone abbia dato piu nomi a questa quantità, dicendola ricetta-
colo informe e invisibile e 'riluttante al massimo a partecipare dell'intelli-
gibile,' afferrabile a stento 'con un regionamento bastardo' e cos{ di se-
guito. Tale quantità, dice Moderato, e tale specie (c!3ot;), intuite come pri-
vazione della ragione monadica, di ciò che abbraccia in sé tutte le ragioni
degli esseri che sono, è,esempio della materia dei corpi, che, diceva Mode-
rato, i Pitagorici e Platone chiamavano quantità, ma che in effetto non va
intesa come quantità intelligibile (-rò 6>t; c!3ot; 1toa6v), ma come
privazione, dispersione, estensione e cos(via, come deviazione dell'essere e,
perciò, male, in quanto fugge dal bene..." (Simplicio, In Phys., Diels). In
realtà tutto sempre in atto, logicamente l'Unità vivente è affer- rabile entro
i termini di una Unità-alterità in cui ripercorrere i mo- menti logici, che si
possono scambiare in simboli numerico-geometrici: unità (uno), alterità (due),
unità dell'alterità, anima (tre), numerabilità che implica l'indefinita
quantità, l'idea dell'estensione non definita (ir- razionale), perché sia
possibile la misurazmne (materia-spazio), cioè i termini geometrici,
costituenti, mediante i loro rapporti, figure piane e solide, i corpi, che possono
dunque cangiare, comporsi e ricomporsi, ma le cui essenze restano sempre i
numeri. \ Sembra ora opportuno sottolineare il significato di due motivi, che
si ricavano da Moderato, il cui sviluppo avrà grande importanza nella storia
dell'interpretazione da un lato del rapporto Essere-Uno e Intel- ligibili,
dall'altro.Jato della materia. Posto che l'Essere, in quanto fon- damento e
ragione (causa) di tutto non può non essere che Uno, l'Uno in quanto tale è al
di là dell'esistere e delle essenze, egli causa delle essenze e delle
esistenze. L'Uno perciò ha in sé tutte le possibilità. Entro questi termini,
riprendendo il concetto della monade pitagorica e il discorso delle idee-numeri
di Speusippo e di Senocrate, sembrava potersi risolvere l'aporia del Parmenide di
Platone. Certo, dopo il Parmenide e il Teeteto, anche Platone (Sofista, Filebo)
suggerisce la possibilità di interpretare l'Essere non piu come una massiccia
realtà, ma come unità dialettica, cm:Ìle pensiero uno che è tale in quanto
discorso esplicantesi, per cui le stesse idee tutte potenzialmente nel-
l'uno-pensiero, sono in quanto guise (e proprio per questo non piu idee nel
senso, ad esempio, del Pedone), leggi - traducibili perciò in numeri - della
esplicazione stessa del Pensiero. Una simile interpreta- zione del Parmenide -
Teeteto - Sofista - Filebo, filtrata attraverso il motivo della monade-diade,
sviluppato dai pitagorici del I secolo a. C., e il motivo del l&gos
spermatik6s stoico, rendeva pensabile la ragion d'essere del tutto, il divino
uno che ha potenzialmente in sé, se cosr vogliamo dire, il mondo intelligibile
(mondo delle idee, perciò non piu inteso come a sé, idee qualità accanto a idee
qualità, indiscorribili). Le idee, dunque, appunto perché tutte nell'Uno,
nell'Uno-pensiero, nel- l'Uno-pensiero sono- qualora si assuma logicamente
l'Uno come a sé, condizione prima - indiscernibili. Proprio perché capacità di
dare forma, sono, nell'Uno, informi. Esse sono solo in quanto esplicazione
dell'Uno, che non è se non in quanto esplicazione, se non in quanto alterità.
Sotto questo aspetto sembra esatta la tesi del Dodds secondo cui con Moderato
di Gades si avrebbe una prima interpretazione neo- pitagorica del Parmenide. di
Platone, della quale vi sarebbero tracce in una correzione che Eudoro di Alessandria
(fine del I secolo a.C.: cfr. sopra) fece di un passo di Aristotele (Metafisica)
discutendo delle cause di Platone. Dice Aristotele: "le specie sono cause
delle altre cose,. s1 come delle specie è causa l'uno" (-rcì: ycì:p d31)
't'OU -n m'" othr.ot 't'O~ ~or.ç, 't'O~ 3'et3ea'v 't'Ò l.v). Secondo
Alessandro di Afrodisia (In Metaphis., ed. Hayduck), Eu- doro avrebbe corretto
cos1: "delle specie e della materia cau,sa è l'Uilo" ('ro~ 3'e:t3eaLv
-rò lv X«l 't'7j 6>..n). Il Dodds, concludendo, vede nel- l'Uno di Moderato
di Gades l'origine dell'"Uno" neoplatonico (Dodds, The Parmenides of
Plato and the. origin of the Neoplatonic ((One, in "Class. Quart.).
Bisogna qui aggiungere che una volta risolto l'Uno platonico nell'assoluta
monade che ha in sé tutte le possibilità (il mondo intelligibile), la stessa
interpretazione della ma- teria quale si trova nel Timeo, si imposta su di un
piano diverso: anche la materia cioè poteva non piu essere considerata come
realtà a sé informe, ma come uno degli intelligibili dell'Uno. L'essenza
materia si poteva considerare come l'idea estensione, la forma dell'informe,
condizione della realizzabilità delle forme, la cui esistenza diviene l'om- bra
riflessa dell'idea materia. Che tale interpretazione del rapporto Uno-mondo
delle idee di Pla- tone fosse interpretazione diffusa, o almeno una delle
possibili interpretazioni che circolavano., è testimoniato, oltre che da Filone
l'Ebreo, da Seneca, che, proprio perché la riferisce con un. semplice accenno,
accanto ad altre interpretazioni, la fa intendere come tesi abbastanza nota.
Dice Seneca: il mondo delle idee è "il modello che ha avuto l'artefice
davanti a sé nell'eseguire l'opera, che aveva deliberato di fare. Non ha
importanza poi se egli questo mo- dello l'abbia avuto sotto gli occhi fuori di
sé, oppure concepito nella sua immaginazione e tenuto cosi presente. Questi
esemplari di tutte le cose Dio li ha in se stesso, e di tutte le cose che deve
fare abbraccia il numero e.la misura: egli è pieno di tutte queste figure, da Platone
chiamate idee, immortali, immutabili, instancabili" (Lett. a Ludlio, 65,
7). Non solo, ma sempre in Seneca troviamo anche la possibile in- terpretazione
della materia intesa non come realtà a sé, bens1 come realtà dovuta allo stesso
Dio (cfr. Natura/es quaestion~s, l, Praej., 16) motivo, d'altra parte, presente
in Filone l'Ebreo, come già abbiamc veduto, anche se in Filone sia il mondo
intelligiliile sia la materia sonc dovuti ad un atto di volontà di Dio persona.
E allora, la testimonianu di Simplicio, che riferisce la testimonianza di
Porfirio sulla materia quale è intesa da Moderato di Gades, assume una sua
prospettiva sto- rica abbastanza notevole e sembra chiaro in che senso Moderato
possa dire che la materia esistente non è realtà per sé, non partecipa in
quanto assunta per sé né dell'uno né degli intelligibili, ma è ombra ri- flessa
della materia che è negli inteUigibili, e in che senso Eudoro cor- 300 regga la frase aristotelica,
affermando che l'uno è causa degli intelli- gibili e della materia. Entro
questi termini si trasforma qui sia il concetto platonico di materia amorfa, di
puro ricettacolo a sé, di madre che accoglie in sé tutte le cose (cfr. Timeo),
sia il concetto aristotelico di materia intesa come soggetto (u7toXE((Uvov)
(Fisica; Metaf.), o anche come potenza (dr. Platone, Timeo; Aristotele,
Metaf.), sia il concetto stoico di materia sostanza prima (dr. Diogene Laerzio,
VII, 150) intesa come quantità passiva (Diogene L.) su cui si esplica l'azione
qualificatrice del principio attivo;. o meglio, pur mantenendosi il concetto di
materia soggetto, potenza, quantità, essa in quanto pensabile (non con un
ragionamento bastardo), cioè in quanto avente essere, non può non essere che
risolta nell'uno stesso, divenendo materia intelligibile, idea di estensione,
condizione, insieme agli altri intelligibili, dell'uno, che non è tale se non
nella sua stessa esplicazione e discorso (Uno--Intelletto- Anima-Materia), per
cui non c'è piu bisogno di prendere la materia come realtà per sé, come ente irrazionale
opposto all'ente razionale. Vera e propria introduzione a una teoria dei
numeri, nei termini di quelli che erano stati i risultati della matematica
greca è l'Introdu- zione aritmetica, •ApL&(L7JTLX~ &taqwylj, dell'arabo
Nicomaco di Ge- rasa,8 vissuto a cavallo del I-II secolo d. c. (Nicomaco nel
suo Ma- nuale di armonia cita Trasillo, scrittore di cose musicali vissuto
sotto Tibcrio, mentre Cassiodoro nel De artibus ac disciplinis liberalium lil-
terarum, c. IV, Migne Patr. lat., vol. 70, p. 1208, afferma che Apuleio di
Madaura, vissuto nel n secolo, tradusse in latino la diligente espo- sizione
della disciplina aritmetica di Nicomaco di Gerasa). L'intento di Nicomaco di
Gerasa è volto a determinare su di un piano logico le condizioni che permettono
l'arte di combinare i numeri (non a caso il titolo della sua opera
fondamentale, di cui pos- sediamo due libri, è intitolata •ApL&(L7JTLX~
Elacxywylj, cioè lntrodu-?:ione alfarte dei numen). Come Euclide definisce il
punto, quale con- dizione e termine di qualsivoglia costruzione geometrica,
cos1, indipen- dentemente da ogni raffigurazione geometrica (sensibile),
Nicomaco, definito il numero, deduce tutte le ·possibili combinazioni dei
numeri da quell'unica definizione di numero ("numero è molteplicità rac-
BDiNicomaco,v~nellas econda metà del1secolo, nato a Gerasa, sappiamo molto
poco. Della sua lntroduaio arithmetic11 sono rimasti due libri; intero è perve-
nuto il MtmUIIle di amioni11; delle sue altre opere (Theologi11 arithmetic11,
lntrodUt:tio lfeometl'i~~e, lntrodUt:tio 111tronomi~~e) non sono rimasti che
frammenti. Nicomaco scrisse anche una Vitti di PiiiiKor•, una Vitti di
Apollonia di TilltJII e un trattatello Sui riti egisitmi.] chiusa entro
term1ru, o un ms1eme di unità, o un flusso, X,U!J.«, di quantità, costituito di
unità; la prima divisione del numero è il pari e il dispari": lntr.
an"tm., l, VII). Tale deduzione, o meglio ex-plica- zione della
molteplicità implicita nell'unità si determina in un perfetto giuoco di
combinazioni e separazioni di numeri, di rapporti e propor- zioni, per
giungere, infine, attraverso tale costruzione, risultante dd discorso logico
tradotto in simboli numerici, a ricostruire la realtà entro questi stessi
termini, ove i principt, impliciti nell'unico principio (unità), divengono,
appunto, gli stessi principi logici, simbolicamente assunti come numeri.
L'importanza storica di Nicomaco di Gerasa consiste da un lato nella
sistemazione, in un sol corpo dottrinario, dei risultati, sparsi nel tempo, del
sapere aritmetico - di qui lo sfruttamento deÌle sco- perte matematiche da
Archita a Filolao e via di seguito, entro la linea dei cosiddetti pitagorici,
per essi intendendosi, in fondo, i matematici;- dall'altro lato nel non
indifferente sforzo di presentare un possibile tipo di ragionamento, un tipa di
logica (matematica) che poteva, in via ipotetica e simbolica spiegare -
indipendentemente dal ricorrere alle figurazioni geometriche - le essenze non
corporee, cioè le leggi su cui si scandisce il ritmo della realtà. Nicomaco
risolveva in tal modo le aporie implicite nell'Unità posta dal Parmenide di
Platone, in un discorso aritmologico che spiegava, per altro, ·1o stesso
snodarsi dal- l'Uno del discorso del tutto in termini geometrici (sensibili),
svelando cosi il mito del Timeo (1, 2, l; II, 18, 4), puntando sul significato
dato al numero nell'Epinomide (1, 3, 5; dove si cita Epinomide: "ogni
figura, ogni sistema numerico, ogni composizione armonica, sf come l'accordo di
tutte le rivoluzioni astrali, necessariamente rivelano, a chi apprende tutto
questo seguendo il vero metodo, la loro unità, e tale unità si manifesterà
quando rettamente si apprenda, mai per- dendo di vista l'unità medesima: a chi
rifletta apparirà, infatti, che un solo naturale vincolo articola tutti i
fenomeni; chi altrimenti intra- prende tali studi dovrà invocare la
fortuna..."). Non solo, ma per altra via, posta la possibilità della
predicazione qualora appunto si risol- vano in numeri le condizioni stesse del
pensare, Nicomaco poteva, come chiaramente risulta dal primo paragrafo del I
libro della Intro- duzione aritmetica (I, l, 3, ove gli elementi immutabili si
avvicinano non poco, nell'esser presentati come una lista di categorie, alle
categorie di Aristotele), interpretare numericamente le categorie di
Aristotele, identificandole con le stesse condizioni del discorso aritmetico dd
tutto. E ciò tanto pio è chiaro quando.si tenga conto che le dieci categorie si
potevano assumere come l'interpretazione logico-discorsiva della de- cade o
tetrakt'Ys (quaternaria) pitagorica (cfr. I volume), in un giuoco di
proporzioni, mediante cui riannodare le dieci condizioni su cm s1 svolge
l'universo (cfr. II, 22 e 1-22). La tetrak.t'Ys veniva rappresentata in una
figura avente 10 punti messi in forma di triangolo che ha quattro punti per
lato.-:\, la cui somma l + 2 + 3 + 4 è uguale a 10. La tetrak_t'Ys cosf,
racchiudendo in sé i numeri delle tre propor- zioni musicali (ottava 2: l;
quinta 3: 2; quarta 4: 3) e delle quattro specie di enti geometrici (punto =l;
linea= 2; superficie= 3; solido= 4), veniva ad essere la condizione di tutte le
cose (non si scordi che in questo periodo circolava un libro sulle categorie
che si diceva scritto da Archita. Su tutto questo si veda F. E. Robbins e L.
Ch. Karpinski, in
Nicomachus of Gerasa, Introduction to Arithmetic, Nuova York, 1926, pp. 94-5). L'aspetto della traduzione in termini
sensibili-formali delle essenze numeriche-incorporee dei loro rapporti e
combinazioni, sembra, per quel poco che ne sappiamo, che Nicomaco l'abbia
studiato nella sua Introduzione geometrica (cosf almeno appare da una citazione
dello stesso Nicomaco, in Intr. aritmetica). Se da un lato, dunque, Nicomaco di
Gerasa, nell'Introduzion~ aritmetica, ha determinato le condizioni di un discorso
della realtà in termini di essenze puramente intelligibili, nell'Introduzione
geometrica avrebbe determinato le condi- zioni perché ·sia possibile il
discorso della realtà sensibile. Ci rendiamo conto in tal modo di come Nicomaco
di Gerasa potesse identificare {sin dalla prefazione alla Introduzione
aritmetica) il divino - per Dio s'intende ciò senza di cui nulla è - con il
numero. Se nel numero, in quanto unità (monade) sono implicite tutte le possi-
bilità (forme), l'uno è suprema ricchezza, onnipotenza, da cui tutto si
dispiega, esso fondamento e causa di tutte le forme della realtà, dei loro
rapporti e proporzioni. In tale senso, dunque, Dio e numero-unità coincidono,
sf come coincidono l'unità del pensiero che si dispiega nel suo discorso matematico-numerico
e l'unità divina che si dispiega nel discorso della realtà. D'altra parte, in
un testo dei Theologumena arithmeticae se non è di Nicomaco, sembra almeno
derivare da lui, si sostiene che Dio è come un "seme che ha in sé la
possibilità di tutte le cose" (xatl 6·n "t'Òv 3e6v q>Y)aLV 6
N'XO!LatXoç.qj ~~oov<XS'!q>otp!J.O~e,v, mtep!Lat"t'U (Wçmt<XpxoV"t'atn<XVTat"t'eXh
.qjq>6ae'6V"t'at (Theol. arithm., ed. Ast, p. 4), sf come la monade,
l'uno o seme di tutta la possibile costruzione logica della realtà. Sembra,
cos{, che se da un lato mediante il discorso aritmologico e il discorso
geometrico, Nico- maco tendeva a risolvere su di un piano puramente logico
l'Uno del Parmenide e il mito del Timeo, dall'altro lato poteva rientrare entro
la medesima spiegazione la tesi stoica del “logos spermatikos”. Il divino principio
attivo, da cui tutto deriva, poteva benissimo assumere il signi- ficato
dell'unità potenza, perdendo, certo, nella traduzione in numero- unità, il suo
valore di forza (spirito) fisica e spontanea (donde, poi, da parte di alcuni
interpreti di Platone la polemica contro il materialismo degli stoici, con il
conseguente problema della materia, principio oppo- sto, dunque, all'immateriale
Uno divino). In realtà, platonismo (Parmenide, Timeo, Epinomide), pitagorismo
(aritmologia e geometria), stoicismo (il principio che ha in sé tutte le
possibilità che portava a interpretare il mondo delle idee platoniche come
forme potenzialmente tutte presenti in Dio, in quanto ragion d'essere), si
venivano ad incon- trare in unico sistema, nella possibilità di una teologia
logico-aritmo- logica (Theologumma arithmeticae) cui servivano da introduzione,
ma anche da dimostrazione, la teoria aritmetico-geometrica, la teoria musi-
cale (abbiamo un Manuale di armonia di Nicomaco), lo studio dei rapporti delle
leggi stellari (possediamo di Nicomaco alcuni frammenti di una Introduzione
alrAstronomia). In altri termini, le vecchie disci- pline platoniche in
funzione dell'educazione del filosofo: geometria (piana e solida), aritmetica,
teoria musicale, astronomia, venivano siste- mate, dando la precedenza
all'aritmetica, entro cui sono implicite la teoria musicale, la geometria e
l'astronomia, quale avviamento alla comprensione scientifica del divino, cui,
per altro, potevano servire, sul piano pratico, dei rapporti umarii, della
propaganda e convinzione, la grammatica, ·la dialettica e la retorica.
Pitagora- scrive Nicomaco nella prefazione all'Introduzione aritmetica-
definisce la sapienza conoscenza e scienza della verità implicita nella realtà,
concependo la scienza, sicura e immutabile comprensione di ciò che sta a
fondamento (,moxe;(!U'/OV) e di ciò che nell'Universo permane sempre identico a
sé e non cessa mai d'essere, neppure per poco. Tali sarebbero gli immateriali
(!u>.at), quelli cioè per la cui partecipazione ciascuna cosa omo- nima, e
perciò nominabile, è detta, assumendo per questo una sua realtà (-r63c n) (l,
1-2)... Poich~, dunque, della quantità (7t6aov) un aspetto è veduto in se
stesso, non avendo alcuna relazione ad altro, come pari, dispari, numero
perfetto·e cosf via, e un altro aspetto è concepibile in fun- zione di altro e
in relazione ad altro, come doppio, maggiore, minore, uno e mezzo, uno e un
terzo e cosf via, evidentemente due dovranno essere i metodi scientifici
mediante cui esaminare a fondo la quantità: il metodo aritmetico che ha per
oggetto la quantità in se stessa, e la teoria musicale che ha per oggetto la
quantità relativa. Ancora: quanto alla grandezza (7tYJÀ(xov), poiché l'una è in
quiete e immobile e l'altra in un movimento di translazione, di conseguenza due
sono le scienze che studieranno con esattezza la grandezza: la geometria ciò
che è immobile e quieto; l'astro- nomia (atpa.LpLx-lj, sfairiché), ciò che si
muove circolarmente. Senza queste è impossibile trattare con esattezza le forme
dell'essere o scoprire la verità nelle cose, nella cui conoscenza consiste la
sapienza. Senza di queste, insomma, è impossibile filosofare rettamente.
"Come il disegno contribuisce con la tecnica alla retta teoria, cosi le
linee, i numeri, ·gli intervalli armonici e le rivoluzioni dei cieli,
coadiuvano l'apprendimento del ragionamento scien- tifico (A6yov aocp6v),"
come dice il pitagorico Androcide [autore di uno scritto Sui simboli, come risulta
dai Theologumena arithm., ed. Ast, p. 40. Sono quindi citati Archita,
Sull'Armonia, in Diels; e 1'Epinomide.]. Tali studi [geometria, aritmetica.
astronomia, teoria musicale] è chiaro che assomigliano a scale e a ponti che
consentono alla mente umana il passaggio dai sensibili e dagli opinabili agli
intelligibili e agli scibili, e da quelli che sono i primi consueti nutrimenti
infantili, fisici e sensoriali, ci permettono il passaggio aWinconsueto e a ciò
che è estraneo ai sensi. Orbene, quale delle quattro discipline metodologiche è
necessario apprendere per prima? Quella che per natura precede le altre,
evidentemente è per diritto principio e fondamento e ha, rispetto alle altre,
la funzione di madre. E questa è l'arte dei numeri [aritmetica], e non solo
perché... preesisteva nella mente del Dio archetipo come ordine cosmico ed
esemplare, mirando al quale, come a un disegno e a un archetipo, il demiurgo
dell'universo ordina le opere materiali e fa in modo ch'esse realizzino i
propri fini; ma anche perché è prima per natura in quanto implica in sé le
altre discipline, senza esserne implicata. Pitagorismo, educazione e retorica.
Apollonio di Tiana nella rico- struzione di Filostrato di Lemno e il trattato
su "Il Sublime" Gia entro questi termini, se passiamo all'aspetto
predicatorio-tera- peutico, usato piu che in funzione scolastica in funzione
educativa, si vede bene l'importanza data alle figure e alle leggendarie vite
di Pita- gora e di Platone, e alla presentazione di esempi di vita (non a caso
lo stesso Nicomaco di Gerasa scrisse una Vita di Pitagora e una Vita di
Apollonio di Tiana, insieme ad un trattato sui Riti egiziam). In realtà, e ce
n'è buon testimonio Seneca, già con Nigidio Figulo (cfr. sopra) e poi,
soprattutto, con la Scuola dei Sestii (cfr. sopra), certe suggestioni
pitagoriche - almeno in Roma - erano usate in funzione educativa. Basti
ricordare che Sozione di Alessandria, della Scuola dei Sestii, dopo avere
cercato di mostrare, per incitare alla frugalità e a una vita misurata, che
l'anima è immortale, che essa imparenta tutti, uomini e animali, per cui nulla
va distrutto, che non si tratta che di cambiamento di luogo, riprendendo i
vecchi t&poi pitagorici della trasmigrazione delle anime e quelli
platonico- stoici, per cui non solo i corpi celesti si volgono per determinate
orbite, 305 ma anche gli
animali vanno soggetti alle loro vicende e che le anime sono spinte per i loro
cieli, concludeva: "Se le cose dette sono vere, astenendoti dalle carni ti
sarai serbato innocente, se false, sarai stato un uomo frugale. Che ci perdi a
prestarvi fede?" (Seneca, Lett. a Luc.). E qui viene spontaneo il richiamo
ai Versì aurei dello pseudo-Pitagora (cfr. sopra), o ai Sacri discorsi (r a.
C.), o all'Inno al numero. Assunta una certa dottrina - e particolarmente
suggestiva per la sua sacralità e misteriosità poteva essere l'ipotesi
pitagorica della po- tenza del numero, chiara agli iniziati, cioè a chi vi si
era introdotto mediante la geometria, l'aritmetica, ·la musica, l'astronomia, -
essa serviva, mediante appunto suggestioni, sacri discorsi, tecniche terapeu-
tiche, sapientemente usate (magiche agli occhi dei piu) ad avviare i piu ad una
certa condotta di vita, cui potevano servire certi riti e certa liturgia.~ in
tal senso assai indicativa la difesa che Apuleio (n sec. d. C.) fece di se
stesso contro l'accusa d'essere un mago. Mago si:, egli dirà, se per mago si
intende sacerdote, chi abbia studiato, chi, conoscendo le leggi e la ragion
d'essere degli avvenimenti, sappia a fondo le leggi del rito, le regole dei
sacrifici, le teorie del culto. Mago no, se per mago si intende "in senso
volgare (more vulgan) chi abbia commer- cio con gli dèi immortali, e mediante
l'incredibile forza dei suoi incan- tesimi sappia fare tutto ciò che
vuole" (Apuleio, Apologia, 26). Certo, agli occhi del volgo, un uomo che,
conoscendo certe tecniche, riesca, ad esempio, a far ri.tornare in sé chi sia
caduto in catalessi, evidente- mente viene preso per un uomo soprannaturale,
per risuscitatore di morti. Entro questi termini va considerata, almeno nel I e
ancora al principio del n secolo d. C., la linea di coloro che si appellano al
nome e alla figura di Pitagora, come è il caso di Apollonio di Tiana. Ma in
funzione educativa, nel tentativo di curare le anime, di dare una forma e un
senso alla disperata vita degli uomini, tutti uguali per natura, ci si poteva
anche appellare ad altre concezioni - la stoica, ad esempio, in modo assai
generico, - prospettando, difronte all'impossi- bilità umana di oltrepassare i
limiti e le costruzioni della propria ra- gione, la fede nell'imperscrutabile
mistero di una divinità che tutto ordina per il bene. E qui, come di fatto fu,
potevano incontrarsi sia pitagorici come Apollonia di Tiana, sia cinici come
Demetrio (non a caso Demetrio, oltre che di Seneca, fu amico di Apollonia), sia
stoici come Musonio Rufo ed Epitteto (di cui è celebre la vena cinica, ravvi-
cinabile al cinismo stoico di un Aristone di Chio), in una comune oppo- sizione
sia nei confronti della quotidiana vita unilaterale e passionale del volgo, sia
nei confronti del modo di vita delle classi superiori e degli imperatori, che
concepiscono il potere in modo personale e individuale. Il discorso si farà
diverso da Nerva a Marco Aurelio, con il quale sembrò realizzarsi l'antico
ideale stoico del re filosofo. La presentazione della vita di Apollonia •
vissuto nel I secolo d. C., nato a Tiana, in Cappadocia, educato a Tarso,
scolaro, sembra, di Eutidemo di Fenicia e di Eusseno di Eraclea, la dobbiamo
alla Vita, in otto libri, che di lui scrisse, nel m secolo d. C., Flavio
Filostrato di Lemno, su invito dell'imperatrice Giulia Domna, moglie di Set-
timio Severo, alla cui corte Filostrato, dopo avere insegnato ad Atene sulla
linea neo-sofistica, venne accolto. Non va scordato che Filostrato di Lemno, su
sua stessa confessione, si pone tra i neo-sofisti - si deve anzi a lui la
distinzione tra sofistica antica e "nuova sofistica," che Filostrato,
autore di una Vita dei Sofisti, fa cominciare nel I secolo d. C. con Dione di
Prusa. - Filostrato per "sofistica" intendeva la capacità di
suscitare, attraverso la conoscenza delle tecniche retoriche e del pub- blico
cui si doveva parlare, certi affetti e di sopirne altri, indipenden- temente da
qualsiasi contenuto, in una precisa coscienza del valore tera- peutico della
parola e della sapiente descrizione della vita di certi per- sonaggi, che
possano incantare e meravigliare, e servano da avviamento, rispondendo a
esigenze proprie di certe mentalità, ambienti, situazioni. Se, come è oramai
chiaro, la Vita di Apollonia rientra nel genere del romanzo biografico
ellenistico, essa, d'altra parte, mutando quel che è da mutare, cioè la
mentalità dei possibili lettori, le loro mutate esi- genze, vuol essere un
saggio di alta retorica, un encomio del tipo del- l'Encamio di Elena di
gorgiana memoria. Filostrato insiste con forza nel sostenere che Apollonia non
fu un mago, nel senso volgare, che le sue doti taumaturgiche, i suoi miracoli,
l'avere egli guarito e resusci- tato, le sue previsioni e cosi via, perfino il
suo essere riapparso dopo morto a un tale, in sogno, per dimostrargli che
l'anima è immortale, non sono frutto di magia operativa, ma della sua
"sapienza," si come di sapienza e· non di magia furono frutto le
azioni miracolose com- piute da Pitagora, da Anassagora, da Democrito, da
Empedocle, sa- pienza che rivela il divino, o meglio la possibilità dell'uomo
che vivendo puro fa si che la propria anima, scintilla divina, appunto perché
divina, conosca le leggi e le ragioni della divinità. Apollonio - scrive
Filostrato - entrò nella via battuta da Pitagora, ma nella sua ricerca della
sapienza vi è un carattere ancora piu divino, ed egli si 4 La Suda attribuisce
ad Apollonia di Tiana una Vita di Pitagora (dr. anche Porfirio e Giainblico:
cfr. "Rhein. Mus.”), un Inno a Mnemosine, un Testamento, lni•iazioni,
Sacrifici (cfr. Eusebio, Praep. ev.), Oracoli, Lettere. è sollevato ben al di
sopra dei re del suo tempo [non si scordi che anche Se- neca, parlando di
Attalo, sottolineava - Lett. a Luc. - ch'egli era al di sopra di qualsiasi re,
e cosf, sempre parlando di cinici, dirà Epitteto - Diatribe]. Nonostante egli
sia vissuto in un'epoca né troppo lontana né troppo vicina alla nostra, in
realtà non si conosce ancora quale sia stata la stia filosofia... Alcuni,
avendo egli avuto rapporti con i maghi di Babilonia, i Brahamani dell'India e i
Gimnosofisti dell'Egitto, pensano che sia stato un mago, e che la sua saggezza
non sarebbe stata che una forma di violenza.:a. una calunnia che deriva dal
fatto ch'egli è mal conosciuto. Empedocle, Pitagora stesso, Democrito, hanno
frequentato i maghi, hanno detto molte cose divine, eppure non se n'è fatto
ancora degli adepti della magia. Platone fece un viaggio in Egitto, riprese
molto dai sacerdoti e dagli indovini di quel paese, se ne servi come un pittore
che dopo aver preso un abbozzo vi mette di suo ricchi colori, é tuttavia non si
è fatto di Platone un mago, sebbene nessun uomo sia stato come lui, a causa
della sua sapienza, oggetto d'invidia. Anche se Apollonia ha presentito e previsto
piu di un avvenimento, non lo si può accusare d'essersi dato alla magia,
altrimenti bisogna rivolgere la stessa accusa a Socrate, al quale il suo dèmone
ha fatto spesso prevedere l'avvenire, ad Anassagora di cui si rife- riscono
parecchie predizioni... Tutto ciò che ha fatto Anassagora non v'è difficoltà ad
attribuirlo alla sua alta sapienza. Per Apollonia, invece, non si vuole che le
sue predizioni siano effetto della sua sapienza, e si sostiene.-:be tutto
quello che ha fatto, l'ha fatto per magia. Non posso sopportare tale errore,
divenuto volgare. Ecco perché mi sono proposto di dare qui dettagli precisi
sull'uomo, sui momenti in cui ha pronunciato certe parole o ha fatto certe
azioni, infine sul genere di vita che ha valso a questo sapiente la famadi un
essere al di sopra dell'umanità, di un essere divino (Vita tli Apollonio, I,
2). Vivrò da pitagorico, disse Apollonia, ancora giovinetto al suo maestro
Eusseno. "Grande impresa," rispose Eusseno, "ma da dove
comincerai? ". "Farò come i medici," disse Apollonia, "la
loro prima cura è di purgare: prevengono cosf le malattie o le
guariscono." A partire da quel momento non si nutri piu con carni..., si
nutrf di verdure e·di frutta, dicendo che tutto qò che dà la terra è puro...
Camminò a piedi nudi, non si vesti che con abiti di lino..., si lasciò crescere
i capelli e divenne assiste-nte dd medico Esculapio... (Vita tli Ap.).
Filostrato di Lemno ha certo tenuti presenti alcuni dati reali della vita di
Apollonio: la sua educazione a Tarso, il suo soggiorno a Ege presso il tempio
di Esculapio, la sua vita e il suo insegnamento itine- ranti. Apollonio avrebbe
soggiornato in Babilonia, poi in India presso i Brahamani, quindi in Ionia, in
Grecia, a Roma, al tempo delle per- secuzioni di Nerone contro i filosofi, poi
in Spagna, ancora in Grecia, in Egitto, dove si sarebbe incontrato con
l'imperatore Vespasiano, in Etiopia, dove avrebbe conosciuto i gimnosofisti.
Allontanato da Roma per ordine di Tigellino, perseguitato da Domiziano, sarebbe
sparito sotto Nerva. Abilmente giuocando su questi dati, sui racconti dei
miracoli operati da Apollonia, sulle sue previsioni, sulle conoscenze ch'egli
avrebbe avuto dei vari tipi di religione orientali e occidentali, sui suoi
presunti contatti con tutti i re dei paesi visitati - in Babilonia con il re
Vardano; in India con il re Fraote; presso i Brahamani con il loro supremo
sacerdote !arca; in occidente, sotto Nerone, con Tigellino e con Domiziano il
tiranno da cui venne perseguitato: assai indi- cativo sembra che, invece, con Vespasiano
e con Tito sarebbe entrato in relazione di maestro e di iniziatore, -
Filostrato ha costruito la vita semplice di un saggio, di un curatore e
guaritore di anime, di un uomo a contatto col divino per la sua purezza di
vita. "Egli ha voluto," cosf Filostrato conclude la Vita di
Apollonia, "che, conoscendo la nostra natura, lietamente si vada verso il
fine che ci hanno fissato le Parche". Non va per altro scordato che la
Vita è stata scritta da un retore del m secolo, preoccupato di far colpo su di
un certo ambiente, su cui Filostrato sapeva quanto poteva giuocare il
meraviglioso e il sublime. Entro i termini delle discussioni sulle tecniche
retoriche si era avuto uno spostamento dalla retorica intesa come dimostrazione
e fondata soltanto sui fatti e sulle argomentazioni credibili (n(a-rEtt;), come
fu il caso della retorica oSOstenuta da Apollodoro di Pergamo (ancora con
Cecilio di Calatte e il suo contemporaneo Dionigi di Alicarnasso, si proclamava
soprattutto l'importanza della disposizione e dell'armonia délle parole, della
metafora, in stretta osservanza e imi- tazione dei classici), alla retorica
affettiva, per cui si sa giuocare sulle passioni, convincendo non mediante
argomentazioni razionali, ma con l'entusiasmo, la passione, l'emozione, suscitando
la meraviglia, come fu il caso.della retorica proclamata dall'avversario di
Apollodoro di Pergamo, Teodoro di Gadara. Entro l'àmbito culturale e sociale,
entro i termini di diffuse esigenze morali e religiose, proprie del I e del n
secolo, si capisce come al di fuori delle scuole e dell'insegnamento ufficiale
della retorica (rappresentato in forma istituzionalizzata e scle- rotizzata da
Quintiliano) abbia prevalso l'insegnamento e la tesi di Teodoro di Gadara. Di
un discepolo di Teodoro, Ermagora di Temno, sembra che sia il trattatello Sul
sublime (nepl G~J~ouç), un tempo attri- buito a Cassio Longino (retore) e a
Dionigi di Alicarnasso (in un codice vaticano si scoprf che già gli antichi non
sapevano se fosse di Dionigi o di Longino: mentre prima si era letto che Il
sublime era di Dionisio Longino, nel codice vaticano si legge di Dionisio o di
Longino; sulla vessata questione dell'attribuzione si veda ora anche Russell,
Introd. a Loginus, On the sublime, Oxford). Contro la tradizione della retorica
in senso aristotelico (rappresentata ancora da Cecilia di Calatte) il Sublime
insiste sul pathos, si come, di contro alla retorica intesa come avviamento
all'ordine sociale e poli- tico in senso stoico (si pensi a Diogene di
Babilonia), all'utile morale, il Sublime insiste sullo straordinario, il
meraviglioso, il sublime appunto. "Veramente ammirevole è.rempre, per gli
uomini, lo straordi- nario" (35, 5). "Il fine della fantasia poetica
è la sorpresa, mentre quello dell'oratoria è l'evidenza: entrambe comunque
ricercano il pate- tico e il concitato" (15, 2), insieme alla grandezza
del discorso. E l'evidenza, in campo oratorio, la si ottiene non "a
capriccio, procedendo anzi con metodo, usando certe tecniche da cui far
scaturire il sublime (già definito da Teofrasto come uno dei possibili stili
retorici). Bisogna su~citare grandi pensieri, facendo innamorare di ciò di cui
si vuol persuadere. Di qui l'importanza data alla passirme e all'entusia- smo.
Grandi pensieri e passioni si suscitano mediante certe appropriate figure del
pensiero e dell'espressione, mediante l'altezza dell'elocu- zirme e la scelta
di un argomento tale da costituire una composizirme (crov&eatt.;), che,
ispirando i piu alti pensieri, vada oltre il quoti- diano vivere, creando mondi
di superiore grandezza (sublimi), velando cosi gli artifici retorici. Se il
Sublime dello pseudo-Longino rispose all'esigenza di certi retori posti·
difronte a un certo pubblico, la Vita di Apollrmio di Filo- strato risponde
esattamente all'esigenza di altri argomenti mediante cui, suscitando il
meraviglioso e il sublime, trasportare il lettore in una vita sublime, sospesa
tra la realtà e il mistero. E qui bisogna ricordare che Filostrato scrisse
anche gli Eroici, un dialogo sui geni e le ombre della guerra di Troia, in cui
ancora piu scoperto è il gusto per lo "straordinario," e dove, per
altro verso, si presentano gli eroi del passato, si come nella Vita di
Apollonia si presenta la figura di Apollonia. Non solo, ma è altrettanto
interessante sottolineare che l'autore del Sublime, nel 1 secolo, d'accordo con
l'autore del Dialogus de oratorihus (forse Tacito) e con Seneca, sostiene che
la decadenza della oratoria.e della letteratura, il prevalere in certi ambienti
della pura imitazione, l'aver ridotto l'eloquenza all'applicazione di fredde
regole, è frutto della situazione politica attuale, della perdita della
libertà, del conformismo generale e della mancanza di alti e nobili ideali per
·i quali battersi. "Allo stesso modo che - se è vero quel che si dice - le
gabbie in cui si allevano i Pigmei, chiamati nani, non solo impediscono ai
rinchiusi la crescita, ma anche contraggòno loro la lingua per la museruola
posta intorno alla bocca, cosi anche la ~chiavitu, sia pur la piu legit- tima,
potrebbe qualificarsi gabbia dell'anima e comune prigione di tutti" (44,
5). Di qui, non solo l'importanza data al "sublime" come stile, ma
all'arte come capacità di chi altamente senta, di suscitare mediante immagini,
di là da argomentazioni logico-matematiche, rap- presentazioni di cose e di
persone che riescano a convincere pio di ogni ragionamento. Se entro
quest'àmbito si vede bene nel giro di un secolo e mezzo, in mutate condizioni
d'animo, la funzione assunta dalla retorica di certi neosofisti, intesa al
"sublime,".rompendo contro la vita quotidiana, mediante il miracoloso
e il meraviglioso, si capiscono gli intenti della esercitazione retorica e
romanzesca della Vita di Apollonio scritta da Filostrato di Lemno. Non a caso,
perciò, Filostrato di Lemno deve avere scelto la vita di Apol- lonio di Tiana.
Anche se molte cose sono state da lui inventate, certo una qualche tradizione
popolare, giuocando sui dati reali e sulle reali azioni di Apollonio, doveva
avere trasmesso, idealizzata, la figura reale del Tianeo. In effetto,
un'attenta lettura della Vita di Apollonio ci presenta un Apollonio non tanto
filosofo di professione, quanto maestro di vìta, maestro itinerante, che,
assunto a modello Pitagora, del quale sembra che abbia scritto una Vita, ed
Empedocle - iatrosofisti e medici - esperto di tecniche mediche e incantatorie,
di certi tipi di religioni orientali, con le sue parole, con i suoi atti "
sublimi," presenta se stesso in "stile sublime," dando agli
altri, ai piu che vivono o entro i ter- mini di una conformistica morale
corrente o entro i termini di una religiosità fatta di superstizioni, di
sacrifici, la "purga" adatta, per prevenire o curare i pio dalla loro
malattia morale-religiosa. Sotto que- sto aspetto sembrano non poco
interessanti da un ·Iato i continui rap- porti che, si dice, Apollonio avrebbe
avuto con re e signori dì paesi, fino allo scontro con Nerone e Domiziano, e,
dall'altro lato, l'acco- stamento con figure come quella di un Demetrio cinico,
e il'suo insi- st~re, come risulta anche da fonti diverse da quelle di Filostrato,
con- tro la superstizione, contro la religiosità ridotta a sacrifici e a puri
rituali, il che, d'altra parte, era stato, nella stessa epoca circa, uno dei
maggiori punti d'impegno dell'insegnamento di Seneca. Secondo Euse- bio,
Apollonio di Tiana cosf scriveva in una sua opera tramandata sotto il titolo
Sui sacrifici: lo credo che si osservi il culto conveniente alla divinità, e
che solo cos{ all'uomo è concesso averla propizia e benevola in qualsiasi
circostanza, se al Dio che diciamo Primo e che è Uno e separato da tutte le
cose e che dobbiamo riconoscere superiore a tutti gli aii.ri, non si immolino
vittime, non si accendano lampade, non si consacri alcuna delle cose sensibili.
Dio non ha bisogno di alcuna.cosa... Con lui adopera solo la parola migliore,
cioè quella che non esce dalle labbra, e da lui, che è il migliore degli
esseri, invoca i beni mediante ciò che in noi v'è di migliore: l'intelletto,
che non ha bisogno di nessun organo... (Eusebio, Praep. evan.). E in una
lettera, che, tra le molte apocrife, sembra proprio di Apol- lonia, si legge:
Se gli dèi non hanno bisogno di vittime, cosa si dovrà fare per avere i loro
favori? Credo si debba avere l'animo ben disposto a beneficare gli uomini, per
quanto è possibile, secondo i loro meriti... (Ep., 26).. Su piani diversi, ma
in situazioni simili, Seneca, Demetrio, Musonio Rufo, Apollonia di Tiana (il
nuovo Pitagora) potevano "benissimo incontrarsi. E cosi non è un caso che
piu tardi, quando la figura del Cristo si era oramai cristallizzata, nel IV secolo,
!erode Sossiano di Biti- nia potesse sostenere che Filostrato, nella sua Vita
di Apoll~nio, aveva voluto mostrare come accanto ai Vangeli era possibile fare
l'encomio della tradizione che aveva costruito la figura di Apollonio, e come
accanto all'encomio di Cristo si poteva scrivere l'encomio di Apollonio (il
Cristo pagano), l'uno e l'altro vicini nelle stesse intenzioni puri- ficatorie
popolari · (Porfirio, anzi, giunse, nella sua opera Contro i Cristiani, ad
opporre la figura di Apollonio a quella di Cristo, soste- nendo che Apollonio
rappresentava il vero Salvatore), mentre altri, i cristiani, potevano tentare
di recuperare Seneca - arrivando a co- struire un epistolario tra lui e San
Paolo,. - ed Epitteto, di cui non poche volte fu detto ch'era cristiano.
Interessantissima è la narrazione, da parte di Filostrato, dell'am- biente e
dell'atmosfera politica, della corruzione morale e religiosa, in Roma, al tempo
di Nerone, quando, si dice, vi fu anche Apollonia. D~ questa narrazione viene
fuori un Apollonia moderatore di co- stumi, che propone se stesso quale esempio
di vita misurata e saggia, simile alla figura e all'atteggiamento di Demetrio,
quale risulta anche da Seneca. E ne viene fuori pure una delineazione della
"filosofia" intesa come riflessione morale, come avviamento a
restituire l'uomo a se stesso, alla propria dignità e libertà, alla propria
razionalità, cJoè al divino, in opposizione alla corruzione imperante, in gran
parte dovuta all'atteggiamento dell'imperatore. Entro questi termini, anzi, lo
stesso Filostrato spiega la paura che l'imperatore e i suoi accoliti sentivano
nei confronti della "filosofia": un controllo coraggioso del loro
ope- 312 rato, un'azione seducente sul Senato da un lato e sul
popolo dall'altro lato, e quindi un'attività antipolitica, antistatale,
antireligiosa. A parte Seneca, abbiamo già accennato a illustri vittime della
poli- tica imperiale, e alla preoccupazione da parte del governo romano nei
confronti di certe prese di posizione, ritenute, a torto o a ragione, frutto di
tesi filosofiche interpretate o come magico-demoniache e distruggitrici dei
culti religiosi correnti, o, nel richiamo, particolar- mente da parte stoica,
all'antico concetto della res-publica romana in senso scipionico-ciceroniano,
come estremamente pericolose per la isti- tuzione imperiale, a carattere
assolutistico-personale. Entro questi ter- mini, in una ancor forte
oscillazione sul concetto d'impero, al suo fondamento giuridico, e al
fondamento giuridico-istituzionale del po- tere - se l'imperatore debba essere
tale per discendenza o per elezione, se il potere sia sempre del Senato e del
Popolo romano facenti capo all'Augusto, o se l'Augusto è egli lo Stato, il re
divino in senso orien- tale - si vede bene lo scontro tra il lento e faticoso
costituirsi della istituzione imperiale e, di volta in volta, anche a seconda
dell'impera- tore, del ·suo contrasto con il Senato, certe nette prese di
posizione, rappresentate da certe concezioni, o cinico-popolari o
stoico-senatoriali. E se con "filosofi" s'intese indicare maghi e
indovini e cinici, con "filosofi" s'intese anche indicare coloro che
per un verso o per l'altro si opposero alla politica imperiale, soprattutto con
il loro atteggia- mento, con l'esempio della loro condotta; e questi, lo
fossero o no, vennero indicati con il nome di stoici, e furono soprattutto
personalità romane, uomini politici, gente di governo. Ricordiamo qui, ancora
una volta, i casi clamorosi di TRASEA (si veda) Peto -- condannato a morte da
Nerone -- e di Elvidio Prisco, genero di Trasea Peto: Elvidio Prisco, questore
dell'Acaia, tribuno della plebe, per il suo atteggiamento apertamente
antimperiale, è bandito da Roma; rientrato in Roma sotto Gaiba, accusa il
delatore di Trasea Peto; pretore, fortemente si oppose alla politica di
Vespasiano, per cui venne di nuovo esiliato e, poi, condannato a morte. Ma,
entro questa linea, non vanno scordati i casi di Rubellio Plauto che, per la
sua opposizione al governo di Nerone, venne condannato a morte, accusato da
Tigellino "di far parte dell'arrogante setta degli stoici, che rende
turbolenti e desiderosi di disordini" (Tacito, A nn.); di Borea Sorano
(console designato nel 52, proconsole d'Asia), che venne accusato presso Nerone
perché amico di Rubellio Plauto, e che è condannato a morte insieme alla figlia
Servilia accusata di pratiche magiche; di Egnazio Celere, condannato a
morte da Vespasiano. E cosf non è poco
indicativo che Vespasiano, dopo la condanna di Elvidio Prisco, abbia nel 71
bandito da Roma tutti i filosofi, tranne Musonio Rufo, a suo tempo cacciato da
Nerone, insieme a Cornuto, fatto rientrare da Gaiba; e che Domiziano abbia
fatto uccidere Materno per le sue coraggiose parole contro i tiranni, Giunio
Rustico perché aveva composto un elogio di TRASEA Peto da lui ritenuto un santo
(t&p6v) e di Elvidio Prisco, e lo stesso figlio di Elvidio, allontanando di
nuovo da Roma tutti i filosofi, mentre circa mandava a morte Erennio Senecione,
perché aveva scritto una vita di Elvidio Prisco. È, anzi, dopo tali avvenimenti
- ed anche questo è indicativo - che il retore Dione di l>rusa, detto
Crisostomo (dal- l'aurea bocca), che pur aveva detto i filosofi "peste
della città e dei governi," si converti alla filosofia, con particolar
propensione per la tesi stoico-platonica e cinica, mentre Plinio il giovane
riconosceva il valore della opposizione da parte dei filosofi, ammirandone il
coraggio (cfr. Epist.). Tale sembra, in effetto, la funzione assunta dalla
"filosofia", particolarmente a Roma e nel mondo dominato da Roma,
soprattutto dal tempo di Nerone a quello di Domiziano, quale che poi fosse la
dottrina di 'Sfondo scelta a fondazione di una certa attività moralizzatrice:
la stoica, la platonica, la pitagorica, la cinica; o meglio, nessuna delle
quattro come tali, ma l'una o l'altra entro l'accezione che abbiamo visto
sopra, indipendentemente da scuole e tradizioni precise. Sembra chiaro, allora,
l'appello di tutti, da Seneca ad Apollonio, da Demetrio a Musonio Rufo a
Epitteto, alla fraternità, alla benevolenza, l'appello all'abbandono della vita
dispersa e di ciò che era divenuta la vita politica, il richiamo a conoscere se
stessi, il continuo ricordo di Socrate (si veda,' ad esempio, Seneca, De
tranquilli- late animi). Entro questa atmosfera a'Ssumono un loro particolare
significato l'insegnamento di Musonio Rufo, tutto volto - sul piano di un gene-
rico stoicismo di sfondo - a formare l'uomo virtuoso, e la robusta, coraggiosa
personalità e la problematica morale di Epitteto. A tale proposito, per meglio
intendere quella che fu una conce- zione stoica di sfondo, merita il conto
ricordare Lucio Anneo Cornuto, nato a Leptis, vissuto a Roma, contemporaneo e
amico di Musonio, maestro di Persio Fiacco, dopo la morte del quale si fece
edi- tore delle Satire di lui, e di M. Anneo Lucano, nipote di Seneca, fatto
uccidere da Nerone, che, nella Farsalia, non poche volte rivela motivi stoici.
Cornuto, insieme a Musonio, fu esiliato da Nerone.. Sappiamo ch'egli fu uomo di
cultura, che scrisse in greco e in latino opere letterarie, tra cui famose
alcune sue interpretazioni di Virgilio, insieme a un De figuris sententiarum e
314 a un De enuntiati011e vel de ortographia, e opere di retorica
precetti- stica, tra cui una dal titolo Arti retoriche (TéxvocL pYJ-rOptxoc().
Egli scrisse anche un'opera contro le categorie di Aristotele e un Escurso di
teologia greca {'E7tt8po!J.1J -rwv xoc-rclt ~v 'EJJ..'I)vtx~v 8-eoÀoylocv
7totpoc8e:8o(Lévwv), l'unica opera di lui conservatasi. Nel suo complesso assai
prolissa, monotona e, certo, di non aÌto significato, l'Epidramè ha un suo
particolare valore come documento, da un lato, proprio nel suo essere un
manuale divulgativo e un com- pendio di opere precedenti sulle divinità del
pantheon greco - allego- ricamente interpretate entro i termini della teologia
fisica stoica, - della diffusione di quella che dicevamo la generica concezione
stoica di sfondo (certa terminologia cristallizzata è molto indicativa); dal-
l'altro lato, del modo in cui venivano recuperate le antiche divinità m
funzione della ratio physica stoica. Basti un esempio: Il cielo tutto intorno
avvolge la terra e il mare e tutto quel che si trova sulla terra e nel mare...
Come noi siamo governati dall'anima, cosi lo è l'Universo; anche l'Universo ha
un'anima che lo avvolge, e questa viene detta Zeus, soprattutto perché egli
vive nel tutto, ed è causa di vita ai viventi; per questo si dice anche che
Zeus su tutto regna, sf come si po- trebbe dire che pure in noi l'anima e la
natura ci governano... (Epidromè, ed. Lang). Da quel poco che conosciamo di
Musonio Rufo,5 ricaviamo ch'egli soprattutto si volse all'insegnamento, inteso
come preparazione al ben vivere, come cura per i malati dell'anima, come
formazione dell'uomo G Discendente di una famiglia equestre, ongtnaria di
Volsini (Bolsena), C. Mu- sonio Rufo nacque intorno al 30 d. C. Lo troviamo in
Asia Minore, dove aveva seguito Rubellio Plauto, ch'egli assisté quando
Rubellio Plauto fu eostretto a togliersi la vita per ordine- dell'imperatore.
Rientrato in Roma, è, in seguito alla congiura di Pisone, condannato
all'esilio, insieme al suo amico Cornuto, c confinato nell'isola di Gyaros
(Cicladi). Richiamato a Roma da Gaiba, visse abbastanza serenamente sotto
Vespasiano. Espulso anche da Vespasiano, che pur lo aveva risparmiato da una
precedente espulsione, Tito lo richiama in Roma dove sembra che sia morto non
piu tardi del 102. Soprattutto dedito all'insegnamento, pare che Musonio non
abbia lasciato alcuno scritto. Del suo insegnamento orale restano appunti e
frammenti: apoftegmi, brevi trattazioni filosofiche (cfr. Plutarco, Aulo
Gellio, Epitteto in Arriano, Stobeo); lezioni vere e proprie (Stobeo) (si
vedano ora raccolte da Hense, M: Rufi Reliquiae). Sembra che la fonte comune da
cui sono state tratte le citazioni da Musonio, sia un volume di lezioni di lui,
composto da un certo Lucio, e le citazioni che di Musonio fece nel suo
insegnamento orale, il discepolo di Musonio, Epitteto (Arriano raccolse
l'insegnamento di Epitteto). Di un'opera intitolata Memorabili tli Musonio,
composta, a quanto pare da Valerio Pollione di Alessandria, del tempo di
Adriano, non resta alcuna traccia. Falsa è ritenuta una lettera di Musonio
indirizzata a Pancratide. onesto
(k.alol(agathos), la cui cultura e riflessione morale lo rende misurato e
rispettoso di se stesso e degli altri: "in realtà, pratica di virtuosità è
la filosofia, e non altro" (tpù.oaotp(cx xatÀox&:ycx3-~ 4CM"tv
bt~'t"')3euatç xcxt oòa~ l'"pov) (M. Rufi Reliquiae, IV, 10, ed.
Hense). Dedito al solo insegnamento, sembra che Musoruo non abbia scritto niente.
Di lui possediamo apoftegmi, brevi trattazioni filosofiche, brevi lezioni:
alcuni apoftegmi sono riportati da Arriano che li avrebbe ripresi dalle parole
di Epitteto; altri, insieme a vere lezioni, si tro- vano in Aulo Gellio, in
Plutarco, in Stobeo. La fonte principale di tali citazioni - particolarmente
lunghe quelle. riferite da Stobeo - sembra sia uno scritto di un certo Lucio,
fiorito sotto Adriano, seguace di Musonio, che ne avrebbe ripreso e sistemato
le lezioni. Nessun ricordo resta di un libro intitolato Memorabili di Musonio,
scritto da un certo Pollione, dell'età di Adriano. Grande fu l'influenza
dell'insegnamento di Musonio Rufo sui con- temporanei, particolarmente su
alcuni uomini della classe superiore di Roma, cui lo stesso Rufo apparteneva,
che, dall'insegnamento di Musonio, traevano il fondamento ideologico alla loro
opposizione poli- tica, come fu per Rubellio Plauto (Musonio è presente alla
sua morte), Borea Sorano, Minucio Fundano. E se per l'aspetto etico- sociale
molto risenti lo schiavo Epitteto dell'insegnamento di Musonio, per la
concezione del sovrano ideale, da opporre al sovrano attuale, quale, ad
esempio, Domiziano, molto risenti dell'insegnamento di Musonio l'oratore Dione
di Prusa, mentre profonda fu l'influenza di Musonio nel tratteggiare l'ideale
del saggio (uomo o donna), misu- rato, di buone maniere, dal tratto signorile,
in un sapiente distacco, come almeno ci è presentato da Plinio il giovane, che
descrive il saggio atteggiamento del suo maestro Artemidoro, genero di Musonio,
e dello stoico Eufrate di Tiro (cfr. Plinio, Epist.). Tante sono - scrive
Plinio - le qualità che primeggiano e rifulgono in Eufrate, da essere notate e
ammirate anche da gente mediocremente colta. Egli discute con sottigliezza,
solidità, bella forma e sovente raggiunge quell'elevatezza e pienezza di
espressione che sono proprie di Platone. Ricco, vario, soprattutto persuasivo,
è· il suo parlare: si aggiunga un'alta persona, un nobile aspetto, capelli
abbondanti, una candida barba fluente, le quali cose se possono essere
considl."rate casuali e di poco conto, gli conciliano tuttavia grande
venerazione. Nessuna rozzezza nel modo di vestire, nessuna durezza nel tratto,
una grande serietà; trattare con lui ispira rispetto, non timore. Una grande purezza
di vita e pari affabilità: egli persegue i difetti, non gli uomini, e coloro
che sbagliano non li punisce, ma cerca di correggerli. Senza dubbio ritrattino
di maniera - divenuto oramai un t&pos - esso sembra, comunque, riflettere
abbastanza bene quale fosse l'ideale dell'uomo per bene, per una società per
bene, in un mondo piuttosto per male. Musonio Rufo, cavaliere romano,
discendente da una famiglia equestre di Volsini (Bolsena), nacque nel 30 circa.
All'indo- mani della congiura di Pisone, venn!! da Nerone mandato in esilio a
Gyaros (piccola e impervia isola delle Cicladi). Tacito annota: "Lo
splendore del nome fu la ragione perché fossero banditi Verginio Flavo e
Musonio Rufo, l'uno perché affascinava i giovani con l'elo- quenza, l'altro con
i precetti della filosofia" (Ann.). La breve annotazione di Tacito è assai
indicativa. Essa conferma che l'insegna- mento di Musonio, per quanto dato con
molta misura, in particolare ai giovani, poteva da un lato apparire, nella sua
concezione di quello che ha da essere l'uomo, un rimprovero continuo
all'imperatore, e dall'altro lato nella delineazione di quello che deve essere
il sovrano, non tale se non è a un tempo uomo sul serio, cioè filosofo, una
ripresa del vecchio ideale stoico dello Stato, da opporre allo Stato attualt;.
L'estremo conservatorismo e i precetti di Musonio, ispirantisi, come dicevamo,
a un originario e vago stoicismo di sfondo (uno l'universo, manifestazione
della divina ragion d'essere," per cui tutto si trova là dove è bene che
sia in una necessaria catena, fatalmente scandentesi), il suo continuo invito
alla purezza della vita, all'amore reciproco, perfino al rispetto di norme
igieniche (in tal senso vanno · presi certi suoi inviti alla frugalità,
all'astensione dalle carni e cosi: via, che· hanno fatto parlare di un suo
pitagorismo, o, per certa sua rigidità, di ci- nismo), assumono un loro
mordente e una loro portata di rivolta, qua- lora si consideri l'ambiente e gli
uomini in mezzo ai quali e per i quali Musonio ha operato. Posto che "filosofia"
è cultura e consapevolezza di sé, dei propri limiti e perciò stesso delle
proprie possibilità entro quei limiti, e che dunque essere filosofo significa
attuare pienamente la propria nai;Ura di uomo, in forma eccellente, esser
filosofo vuol dire essere virtuoso, per cui tutti, in quanto tutti siamo
uomini, siamo cioè esseri che hanno la capacità di essere ragionevoli, tutti
abbiamo per natura, cia- scuno per ciò che gli compete, la possibilità di
essere virtuosi, il seme della virtu, O"ltép!J.ot &.pe:rijt; (II, 7-8,
Hense). Dovere dell'uomo è, quindi, ragionare, cioè sviluppare tale.~eme, che a
tutti è ugalmente comune, onde tutti hanno il dovere d'essere
"filosofi," gli uomini come le donne, i poveri come i ricchi, i
sudditi come i sovrani (VIII). Avviare gli altri a filosofare, tale il dovere
del saggio, di fronte a chi, preso dall'immediatezza sensibile, preso dall'una
o dall'altra cosa, vive nella passione, è disperso, non è se stesso. E per
questo, per avviare gli altri a pensare, a rendersi chiare le prPPrie idee,
Musonio riteneva non necessari né molti discorsi né molte dottrine, ma,
soprattutto, l'esempio da un lato, e, dall'altro lato, l'esercizio, cioè
l'insegnare e l'imparare a ragionare (logica), mediante cui ci si forma uomini.
Di qui la tesi fondamentale di Musonio, che venne poi sviluppata e
approfondita, in un richiamo all'antico stoicismo, tipo quello di Ze- none di
Cizio e di Aristone di Chio, da Epitteto. Posto che, entro i termini della
tradizione stoica - in un'accettazione piu dommatica che riflessa - in natura
tutto è bene, ché tutto è momento necessario del realizzarsi dell'unica
ragione, il problema grosso consiste, allora, nel risolvere il rapporto
necessità universale e capacità, nell'uomo, in quanto ha in sé un seme di
ragione, di adeguarsi o meno, liberamente, a quell'ordine e a quella necessità.
Ancora una volta si ripresentava il vecchio problema implicito in una coerente
posizione stoica: il pro- blema del fato e, quindi, di conseguenza, il problema
·se all'uomo è dato, almeno entro certi limiti, il potere di agire, se v'è una
zona su cui potere operare, anche se tale possibilità, rendendosene consapevoli
(e sarebbe già questa un'attività propria), consiste nell'accettare lieta-
mente l'ordine stesso del tutto, tutto ciò che avviene. La virtu (bene)
consisterebbe, dunque, nel sapere usare. la ragione, il vizio (male) nell'esser
preso dalle cose, nel dare alle cose e ai sentimenti un valore unilaterale,
disordinato, nello sragionare, per cui tutte le cose sono indifferenti, considerate
dal punto prospettico della ragione, in rela- zione a ciò che nel vizio è detto
bene, che nel vizio fa piacere. Ne deriverebbe perciò, entro i termini del piu
antico stoicismo, che ogni azione essendo positiva, la differenza tra virtu e
vizio sta non in ciò che facciamo, ma nel come agiamo, o meglio nel come
accettiamo, nell'intenzione (vedi Zenone, Cleante, Crisippo). Si ammetta che
tutta la realtà si costituisce mediante la ragion d'essere del tutto secondo
una necessità, e che, perciò, tutto è bene, o meglio come deve essere, in sé né
bene né male e che tale è la natura; si ammetta anche, come dato di esperienza,
che l'uomo da un lato è passione, cioè è di volta in volta preso da questa o da
quella rappresentazione, che si accavallano in lui, trascinandolo
indifferentemente, in opposte dire- zioni, per cui l'uomo è incoerente, e non
da lui dipendono le cose, e che dall'altro lato, invece, ha la capacità di
coordinare quelle passioni, di non essere piu preso da questa o da quella, ma
di costituire sé in unità e coerenza, valutando le stesse rappresentazioni in
un ordine per cui ciascuna nel discorso si colloca dove è bene che sia; ne
segue che non incoerentemente si può concludere che la libertà umana con-
siste, appunto, in questa sperimentata capacità di vivere secondo ragione, o
meglio in questa esperienza di una capacità di scelta tra l'essere preso da
questa o quella rappresentazione, e l'agire, pur sempre entro i medesimi dati,
rendendosi conto, attraverso il discorso e un retto ragionare, delle stesse
passioni, che, in quanto comprese, ricollo- cate nel loro giusto posto, cessano
di essere passioni, in un'unica vita secondo ragione. In tale direzione sembra
si debba interpretare l'ap- pello alla r~gione e al vivere filosoficamente da
parte di Musonio, e, soprattutto, un frammento - va detto che è un testo
ricavato da un'opera Sull'amicizia di Epitteto, andata perduta, - in cui
Musonio sostiene che bisogna saper distinguere tra ciò che è in potere nostro
(~q/ ~fL'i:v) e ciò che non lo è (oùx ~q:/ ~fL'ì:v)(cfr. Hense). In nostro
potere è il sapere usare le rappresentazioni, da cui la giusta valutazione
delle cose, e perciò la liberazione dalle passioni, dalla vita dispersa,
dall'amore unilaterale per questa o per quella cosa, che, in questo senso,
rimanendo incomprese e, dunque, altre da noi, restano non in nostro potere.
Sembra cosf chiaro perché per Musonio, onori cariche e cosf via non siano beni,
perché non siano beni i piaceri immediati, tutto ciò che è dovuto alla vita
dispersa, esteriorizzata, ma che l'unico bene in cui consiste l'unica libertà
possibile, e perciò l'unica virtu e felicità, stia in ciò che dipende da noi,
cioè nel saper pensare, nel vivere secondo ragione, nel nostro modo di
atteggiarsi nei con- fronti della realtà, nel cui atteggiamento consiste
l'esperienza della volontà come-intenzione. Se in tale interiorizzazione della
realtà e degli avvenimenti, se in tale capacità di valutare rettamente cose e
avvenimenti, consiste la comprensione, il vivere filosoficamente,
virtuosamente, l'insegnare agli altri a sviluppare la razionalità, quel seme di
virtu che è proprio a tutti per natura, è dovere del saggio, dell'uomo. In
questo senso Musonio indirizzò tutta la sua vita, in questo sentire
l'insegnamento come dovere, sia nei confronti dei giovani, sia degli adulti,
che in quanto presi dalle passioni, in realtà sono non uomini, sono come
ammalati che hanno bisogno di cure. E in un mondo quale fu quello di Roma tra
Caligola, Nerone e Domiziano, si capisce che Musonio vedesse ovunque amma- lati
gravi, per i quali erano necessarie drastiche medicine, per avviarli ad essere
razionali. Di qui il suo appello al bene comune, al rispetto per l'uomo in
quanto possibilità d'essere razionale. Per ciò egli sotto- linea l'importanza
che gli ·schiavi siano trattati non come cose ma come uomini, che come cose e
strumenti di piacere non siano considerate le donne, bensf come
"uomini," e·che quindi il matrimonio non sia solo un contratto, ma
anche un valore, da cui la condanna dell'uso di abbandonare i figli non
desiderati ("meglio tanti fratelli che tanto denaro," esclama una
volta). Se tali debbono essere gli uo-
319 mini, se non v'è società senza reciproco rispetto,
fondato sul ricono- scimento di una.possibile comune razionalità, tanto piu
dovrà essere virtuoso, cioè "filosofo," chi ha in mano il governo
dello Stato, l"'uomo regio" (~cxaLÀLxÒç &vl)p), sosteneva
Musonio, come appare da una sua lezione andata sotto il titolo Anche i re
debbono studiare filosofia. Per Musonio non si tratta tanto di delineare quale
debba essere il sapere proprio dei sovrani, nel senso in cui tale questione è
trattata nel Politico di Platone, quanto di mostrare che il sovrano giusto è il
sovrano che sia "filosofo," cioè.virtuoso sf come tutti gli altri
uomini. "Ammesso che funzione dell'uomo regale è di sapere reggere bene le
nazioni o le città e d'essere degno di governare gli uomini, chi, chiediamo,
piu del filosofo saprebbe reggere bene una città, o chi piu di lui sarebbe
degno di governare gli uomini? Poiché, se veramente è filosofo, sarà saggio,
misurato, magnanimo, capace di rendersi conto di ciò che è giusto e di ciò che
conviene, di effettuare le sue decisioni e di reggere a dure fatiche". Dopo
la morte di Nerone, Musonio, che anche durante l'esilio nell'isola di Gyaros aveva
continuato il suo insegnamento rivolto a tutti coloro (e furono molti), che
attirati dalla sua fama erano andati a trovarlo, fu richiamato a Roma
dall'imperatore Gaiba. Dopo gli effimeri governi di Gaiba, Otone, Vitellio, è
noto che Vespasiano, nel tentativo di riportare l'impero alla pace, s'ispirò a
un governo simile a quello di Augusto. Se cosf dapprima non vide di malocchio
soprattutto certe posizioni stoiche, di cui sembra che par- ticolarmente
apprezzasse quella di Musonio, in un secondo momento, allorché l'opposizione di
Elvidio Prisco, che pur sempre vedeva nel- l'Imperatore non il princeps, ma il
tiranno, un governo personale, parve ispirarsi proprio a tesi stoiche e
ciniche, Vespasiano, ritenendo estrema- mente pericolosi gl'insegnamenti stoici
per l'unità dell'Impero, nel 71 bandf tutti i filosofi tranne Musonio, che,
tuttavia, allontanò pi6 tardi, nel 75. Sotto Tito, che riprese la politica
pacificatrice del padre, cercando di dare all'Impero anche un fondamento
ideologico, Musonio venne richiamato a Roma. Altre notizie di lui non si hanno.
Proba- bilmente morf prima del bando dei filosofi, ordinato nel 94 dal fratello
e successore di Tito, Domiziano, che deCisamente si volse ad un ~ccentramento
di tutto il potere nelle proprie mani. Tra i pensatori e i maestri che furono
costretti ad abbandonare Roma, vi fu il piu intelligente e solido discepolo di
Musonio, Epitteto.., il Diflicile è precisare le date della vita di Epitteto.
Se nella Suda si legge che Epitteto visse lino all'avvento di Marco Aurelio, la
aonologia del suo editore Arriano porterebbe a spostarne la nascita in epoca un
po' piu antica. Nato nel 320 [Egli non si spostò molto né dalla
concezione né dal tipo di insegna- mento di Musonio. Epitteto, come Musonio,
non pretese mai di dare ).m'esposizione sistematico-scolastica di una certa
dottrina. Di volta in volta, prendendo spunto da domande di discepoli o da
quesiti posti da chi si recava da lui, dal saggio, per averne consigli, si
intratteneva in discussioni brevi e serrate, ove ogni volta, sia pur da punti
di vista diversi, si ripresentano gli stessi motivi - alcuni àei quali
riprendono, portati alle estreme conseguenze, quelli prospettati da Musonio -
approfonditi nelle loro varie facce, in un atteggiamento rocratico, al quale
non poche volte Epitteto si richiama. Specchio fedele delle con- versazioni di
Epitteto, di questo suo modo di insegnare attraverso la rappresentazione viva
della formazione di un certo ragionamento, at- traverso il dialogo e la
discussione, in situazioni precise, in un concreto e vivo rapporto di uomini
vivi tra uomini vivi, è il complesso degli appunti che un seguace di Epitteto,
il ·generale romano Arriano di Nicomedia, ha raccolto e, poi, pubblicato
(sembra che Arriano abbia, di volta in volta, stenografato le conversazioni del
maestro). Dice lo stesso Arriano nella lettera prefatoria alla sua raccolta,
dedicata a Lucio Gellio: Non ho redatto i discorsi (Myo') di Epitteto come si
potrebbe redigere materia di tal genere e neppure li· ho pubblicati, io che
dico di non averli redatti. Ma tutto quello che ho sentito dire da lui,
trascrivendolo, per quanto fosse possibile con le stesse parole, ho cercato di
serbarmelo per il futuro a ricordo (~o!Lvi)!L«-rct) del suo pensiero e dd suo
libero parlare. Quindi, com'è naturale, tali note hanno l'andamento di quel che
uno dice all'altro per bisogno spontaneo e non di quel che si potrebbe redigere
per destinarlo in futuro a lettori. In tale forma, dunque, io non so come,
contro la mia volontà e a mia insaputa, capitarono in pubblico. Per me, certo,
non ha im- 50 circa, a Jerapoli, nella Frigia meridionale, schiavo, forse
figlio di schiavi, giovane fu condotto a Roma, dove fu servo di Epa&odito,
liberto di Nerone. Ancor prima d'essere liberato da Epa&odito, Epitteto
ebbe il permesso di ascoltare le lezioni di Musonio Rufo, probabilmente dopo il
secondo ritorno di Musonio dall'esilio, al tempo dell'imperatore Tito. Epitteto
ricordò sempre Musonio come suo unico maestro. Sembra che dall'SO in poi
Epitteto, ormai libero, abbia tenuto in Roma le sue lezioni, finché è espulso
da Roma su decreto di DOMIZIANO, insieme a tutti i filosofi, matematici e
astrologi. Epitteto si ritirò a Nicopoli, in Epiro, dove prosegui il suo
insegnameuto, fino alla morte. Epitteto non scrisse nulla. Le sue lezioni,
dialoghi, discorsi, consigli, commenti di testi, trascritti da Arriano di
Nicomedia, suo discepolo, al tempo di Nicopoli, furono poi pubblicati da
Arriano subito dopo la morte di Epitteto, in un complesso di libri andati sotto
il nome di Diatrib~. Arriano compone anche una specie di summa delle massime
capitali di Epitteto, andata sotto il nome di Enchiridion o Manuale. Frammenti
ci sono pervenuti per opera di Auto Gellio, di Marco Aurelio, di Arnobio, di
Stobeo. Sulla questione delle Diatribe sulle altre possibili raccolt e
dilezioni di Epitteto confronta sopra il testo. ] portanza se apparirò un
redattore incapace; per Epitteto, poi, ancora meno, se taluno avrà a disdegno
il suo linguaggio, giacché si vedeva chiaramente che, anche parlando, niente
altro cercava se non di eccitare al meglio i suoi ascoltatori. Se, quindi, per
lo meno a tal fine riuscissero questi discorsi (>.Oyo~), otterrebbero, io
penso, quel che debbono ottenere i discorsi dei filo- sofi: altrimenti,
sappiano quelli, nelle cui mani essi giungono, che, quando Epitteto li
profferiva, l'uditore di necessità provava i sentimenti ch'egli voleva fargli
provare. Se poi da sé non riescono a tal fine, forse ne sono io la causa, forse
è destino che sia cosf. Addio. Non sappiamo quale titolo abbia dato Arriano
alla sua raccolta. Egli nella lettera citata usa due termini: Discorsi (l6got)
e Memorie (Hypamnimata). La tradizione ha dato all'opera il titolo di Diatribe
(à~or.-rp~~or.(). Solo che molti autori antichi che parlano di Diatribe di
Epitteto, parlano anche di Dissertationes (dialécseis), di Hypam- némata, di
Omilie, di Apomnemoneuta, di Scholai (cfr. Aulo Gd- lio; Marco Aurelio,
Ricordi; Fozio, Bibl., in Comm. Enchiridion, ed. Schenkl, test. VI; Simplicio,
Comm. Enchir., ed. Scenkl, test. III; Damascio, ed. Schenkl, test. IV). Fozio
sostiene, inoltre, che Arriano avrebbe scritto otto libri di Diatribe di
Epitteto e dodici libri di Omilie (conversazioni). Senza dubbio la raccolta di
Arriano (dia- tribe) quale è giunta (in 4 libri) è mutila. Aulo Gellio parla di
un quinto libro; l'Enchiridion o il Manuale (l'altra opera di Arriano, che è
una specie di summa dei motivi fondamentali delle Diatribe) contiene molti
passi e motivi che non hanno riscontro nei quattro libri che leggiamo, cos{ come
un frammento di Stobeo (fr. l, in Stobeo, Ecl.), testo certamente estratto
dalle Diatribe, non corrisponde a nessun passo dei nostri quattro libri. Posto,
dunque, che l'opera originaria di Arriano fosse in piu di quattro libri (otto o
do- dici), ci si è chiesti se gli autori antichi indicassero con gli altri
titoli (Omilie, Hypomnimata, Apomnemoneuta, ecc.) altre opere o redazioni
diverse, o le stesse Diatribe. Non abbiamo una documentazione tale da poter
essere certi. Si resta sempre nel campo delle ipotesi (per le varie discussioni
e ipotesi, cfr. J. Souilhé, Introduzione a Epict~te, Entretiens, coli.
"Belles Lettres," Parigi). L'opinione, oggi, maggiormente diffusa -
sostenuta da Upton, Epicteti quae supersunt Dissertationes, II, Londra, p. 4, -
è che sotto i numerosi titoli riferiti dalla tradizione ~i indicas- sero non
opere diverse di Arriano, ma sempre la raccolta che ha poi assunto il titolo di
Diatribe. "Se si pensa alla libertà con cui gli antichi citavano le loro
fonti, non ci stupiremo che una sola raccolta sia stata indicata in tanti modi,
tenendo inoltre presente che molte copie erano già circolate prima che l'autore
ne consentisse lui stesso la pub- blicazione... D'altra parte, i termini
8Lcx-tpL~-Ij, ax_oì..1j,.8L<Xì..e!;Lt;, O(LLÀ(cx hanno significati molto
prossimi e sono spesso usati come sinonimi" (Souilhé). Il dubbio resta, se
mai, per i dodici libri delle Omilie, citati da Fozio, accanto agli otto libri
delle Diatribe e all'En- chiridion. Certo i frammenti che troviamo in Stobeo
dovevano far parte dei libri perduti delle Diatribe. Ad ogni modo è molto
indica- tivo, in quanto è già un'interpretazione del significato del pensiero
di Epitteto, del suo modo e del fine d'insegnare, che abbia prevalso il titolo
Diatribe. Il termine diatriba, che in origine era sinonimo di dialogo o di
discorso, in senso educativo (cfr. già in Platone il termine usato per indicare
i discorsi di Socrate ai suoi concittadini: Apologia, 37d; Clitofonte), si
allargò poi a significare tanto dialogo, trat- tato morale non dialogico,
lezione, dissertazione su argomenti diversi (di retorica, di musica,.di
matematica, di fisica), quanto predica e soprattutto predica di tipo popolare
(in questo senso, con i cinici, il termine assume un significato tecnico). Ad
ogni modo, sia che con diatriba s'intendesse la discussione e il dialogo in
senso socratico, sia la dissertazione e la lezione su argomenti diversi, sia la
predica popo- lare, la diatriba ha sempre indicato un rapporto diretto e
concreto tra maestro e discepoli, indipendentemente da qualsiasi forma di
insegna- mento professorale, sistematico, in organizzazione scolastica. In
altre parole con diatriba s'intendevano le riunioni - e quindi, poi, anche il
luogo di tali riunioni, in questo senso detto schola- presso un qualche
pensatore dal quale ci si recava come da maestro e consigliere, capace di
dirigere il dibattito, di far pensare, di formare la personalità, in un libero
rapporto, anche se, naturalmente, il maestro indirizzava a una sua certa
concezione, ma non appunto esponendo in forma sistema- tica e dogmatica una
precisa dottrina. Sotto questo aspetto, relativa- mente alla raccolta degli
insegnamenti di Epitteto, riferiti da Arriano (anche la divisione in libri è
accidentale, estrinseca, ché in ogni libro, anche se da punti di vista diversi,
ritornano gli stessi motivi, facenti tutti perno su due fondamentali: quel che
dipende e quel che non di- pende da noi; e la problematica della libertà), il
titolo che ha prevalso, Diatribe, è esatto. Esso sta già ad indicare ciò che,
in effetto, Epitteto intendeva con filosofia: capacità, attraverso un retto
insegnamento, di sviluppare in forma corretta la comune ragione, mediante cui
l'uomo forma se stesso uomo, per cui sapiente è chi sa pensare, e poiché saper
pensare significa ad un tempo saper vivere, la filosofia non è tanto
descrizione della realtà, o scienza, ma moralità; la filosofia perciò non è
normativa, ma formatrice nel suo determinarsi come appello, che non dà
contenuti, ma si richiama al vivere secondo ragione, mediante certe tecniche
retoriche che 5<: da un lato si rifanno ·ai dialogo socr~ tico, ·dall'altro
lato si determinano in una dis'cussione che finge il dibat- tito giudiziario o
conflitti di idee tra personaggi di un dramma (il che era proprio della diatriba
popolare). Quando costretto ad allontanarsi da Roma per decreto di Domiziano,
che bandiva tutti i filosofi, matematici astrologi, giunse a Nicopoli (la città
della vittoria,. in Epiro, fondata da Augusto in ricordo della vittoriosa
battaglia di Azio), ove apri una nuova scuola, divenuta presto un centro di
discussioni ("diatriba"), dove moltissimi si recavano per avere
consigli o sciogliere dubbi morali (le Diatribe e il Manuale rispecchiano
questo periodo del suo insegnamento), Epit- teto aveva quarantaquattro anni
circa. Già uomo nel pieno della ma- turità, portava con sé sia l'esperienza del
mondo di Roma tra Nerone e Domiziano ("non è troppo sicura l'occupazione
del filosofo, special- mente ora, a Roma": Diatribe), sia
l'approfondimento e il ripensamento dell'insegnamento del suo maestro Musonio
Rufo. Epit- teto era nato intorno al 50, ad Jerapoli, la città santa, centro
della religione di Cibele, nella Frigia meridionale. Schiavo - c'è chi ha
sostenuto che il s~o stesso nome, epitteto, indicasse la sua condizione di
schiavo, - figlio di schiavi, almeno secondo un'antica iscrizione (in Schenkl,
Epict. Diss.), Epitteto fu condotto a Roma ancora giovanetto e comperato da
Epafrodito, liberto di Nerone, che faceva parte delle guardie del corpo
dell'Imperatore, e che aiutò Nerone a suicidarsi (Svetonio, Nerone; Domiziano).
Rimaniamo incerti sulle diverse notizie trasmesseci intorno ai rapporti tra
Epitteto ed Epafrodito. Prepotente nei confronti dei propri schiavi, Epafrodito
si sarebbe divertito a tormentare anche Epitteto. Si narra (Celso, Ori- gene,
Gregorio Nazianzeno) che giunse un giorno a spezzargli una gamba. "Questa
gamba si spezzerà," avrebbe commentato Epitteto, mentre Epafrodito lo
tormentava: " T e l'avevo detto che si sarebbe spezzata," avrebbe concluso
Epitteto, còme se non si trattasse del proprio arto, ma di urta dimostrazione
sulla causa e l'effetto (cfr. Celso, in Origene, Contro Celso). Troppo
stoico-cinico è questo aneddoto per non avere il sapore di ricostruzione a
posteriori, per delineare la figura di Epitteto stoico, che si sapeva zoppo fin
dalla gioventu (cfr. Simplicio, in Schenkl). La Suda, invece, molto meno
pittorescamente, riferisce che l'infermità di Epitteto era dovuta ai
reumatismi. Certa resta, invece, l'importanza ch'ebbe per Epitteto l'esperienza
del rapporto servo-padrone, in un'ap- profondita meditazione sul significato
della libertà e su ciò che dipende o no dall'uomo. Entro questi termini va
veduto il rapporto Epitteto- Epafrodito. E, forse, anche l'aneddoto della gamba
spezzata e della impassibilità di Epitteto tende ad interpretare tale rapporto,
non su di un piano personale, ma, prendendo le mosse da un'esperienza con-
creta (il fatto d'essere schiavo), su di un piano etico-metafisico. In effetto,
sul rapporto necessità-libertà, realtà.che è quella che è, ineso- rabile, da
cui dipendiamo - e che per ciò ci è estranea e, qualora la si comprenda,
indifferente - e riflessione sulla umana capacità, nella consapevolezza dei
nostri limiti e della nostra non libertà, di poter determinare un nostro modo
di vita che dipende da noi, qualora si sappia ragionare, non facendosi prendere
dai fantasmi, onde tutti siamo ad un tempo servi e padroni, a seconda
dell'atteggiamento che assumiamo nei confronti delle cose, su tale rapporto si
è svolto e approfondito il pensiero di Epitteto. E, probabilmente, proprio
queste prime discussioni, che Epitteto ebbe con Epafrodito (e traccia di esse
è, appunto, l'aneddoto della gamba), spinsero Epafrodito a permettere ad
Epitteto, ancor prima di concedergli la libertà, di frequentare Mu- sonio Rufo.
Senza dubbio, nell'insegnamento di Musonio, Epitteto trovò chiarita gran parte
della sua problematica umana. "Quando Musonio parlava - dirà ancora a
distanza di tempo Epitteto, - noi, seduti accanto a lui, credevamo davvero,
ognuno per sé, che qual- cuno gli avesse parlato· dei nostri difetti: cosf
fortemente egli era legato alla realtà, cosf vividamente poneva davanti agli
occhi di ciascuno le sue debolezze. ~ una clinica, uomini, la scuola di un
filosofo: non si deve uscirne gioiosi, ma pieni di dolori..." (Diatrib~).
E fu a Musonio ch'egli dovette l'impostazione stoica della sua medita- zione,
tenendo soprattutto conto da un lato di Zenone di Cizio (l'indagine sul retto
pensare che è, ad un tempo, retto vivere), e, dall'altro lato, di Crisippo (il
problema del rapporto fato-libertà), che lo ripor- tavano all'altro aspetto del
problema logico e del problema della li- bertà (essere se stesso), impostato
dai cinico-socratici (Antistene, Ari- stone di Chio, ove.di Aristone non va
dimenticata la tesi del giuoco delle parti). Basta scorrere le Diatrib~ per
rendersi conto che tra gli au- tori pio citati sono Zenone di Cizio e Crisippo,
che di Cleante si citano i versi sul Fato, che non si accenna affatto a Boeto, a
Panezio, a Posidonio, che si sorvola su Archedemo e Antipatro, mentre non poche
volte è citato Diogene di Sinope, Socrate, Antistene, Platone socratico,
Senofonte. Sembra, anzi, che accanto alle discussioni, ai con- sigli, ai
dialoghi con i.suoi uditori, suscitati di volta in volta da singole domande, da
singole questioni poste sul tappeto (Diatrib~), Epitteto svolgesse nella sua
scuola, a Nicopoli, vere e proprie "lezioni," ch'egli cioè leggesse e
commentasse testi, di Zenone e particolarmente di Cri- sippo (dice il
BonhOffer, Di~ Ethik d~s Stoikers Epicta, che il •libro sacro," heiliger
Kod~:c, di Epitteto era l'opera di Crisippo,
mentre il Bruns, De schola Epicteti, pp. 3 sgg., finemente sottolinea
contro la tesi dello Zahn, Der Stoìk_er Epik_tet u. sein V erhaltnis zum
Christentum, p. 37, secondo cui Epitteto avrebbe tenuto solo conferenze e
dialoghi, che i termini OCVotyLyv6laxe:LV e OCv<iyvCliO"!J.ot, piu
volte usati nelle Diatribe per indicare un modo di insegnamento, non sono
sinonimi di 3~a3otL, ma significano, mantenendo il loro valore originario, la
lezione, la lettura o prelezione e l'esplicazione dei testi). Sulla linea,
dunque, dello soicismo cinico piu che su quella dello soicismo in chiave
platonica, Epitteto svolse il suo insegnamento in un impegno essenzialmente
educativo. Probabilmente sviluppo di un motivo proprio di Musonio, è l'insi-
stere di Epitteto sull'educazione come formazione dell'uomo, me- diante
l'educazione a sapere correttamente pensare, che lo riporta, appunto, a Zenone
di Cizio e a Crisippo. Tutti gli uomini, in quanto animali razionali, hanno una
comune ragione, hanno le stesse guise, gli stessi modi, che, formalmente, sono
condizioni del comune pen- sare. Tali modi, tali guise o principi, su cui si
fondano i discorsi, tali prenozioni {7tpoÀ~IjieLç, prolép,seis) o idee prime,
proprie di tutti, e su cui tutti siamo d'accordo, e sulle quali non siamo in
contraddizione, sono, in quanto non contraddittorie, rappresentazioni sempre
vere. La contraddizione, il falso, e perciò il disaccordo, nascono
nell'applica- zione delle "prenozioni" ai casi particolari. Le
prenozidni sono comuni a tutti gli uomini, e prenozione non con- traddice a
prenozione. Chi di noi in realtà non ammette che il bene è utile, e anche
desiderabile, e che in ogni circostanza si deve ricercarlo e seguirlo? Chi di
noi non ammette che il giusto è bello e conveniente? Allora, quando sorge la
contraddizione? Nell'applicare le prenozioni ai casi particolari: quando uno
dice: "Ha agito bene, è valoroso" e l'altro "No, ma è
dissennato. Ecco in che modo gli uomini si contraddicono tra loro. Certo
Giudei, Siri, Egiziani e Romani, non si contraddicono sul fatto che la santid
va sti- mata sopra tutto e perseguita in ogni occasione, ma sulla questione se
è conforme a santid o no cibarsi di carne suina... L'educazione filosofica con-
siste nell'apprendere ad applicare le prenozioni naturali ai casi particolari
in maniera congruente a natura e, per il resto, nel distinguere tra le cose,
quelle che dipendono da noi e quelle che non dipendono da noi (Diatr. l, 22,
1-4, 9-10): Né vere né false le rappresentazioni prese a sé (ogni oggetto si
determina e assume realtà nella rappresentazione, e, perciò, nel suo esser
detto, donde l'importanza di tener sempre conto dei nomi, s{ che l'un nome non
evochi altra rappresentazione, e non derivino al discorso la contraddizione,
l'equivoco e il paralogismo sofistico), rappresentazioni anche le nozioni
morali, il vero e il falso stanno nel discorso, cioè nel giudizio. D'accordo,
sotto questo aspetto, con i cinici (Antistene) e con gli scettici, ma entro i
termini della soluzione della logica di Zenone di Cizio (che permette la
predicazione: logica pro- posizionate), Epitteto può sostenere che la
"ragione" è un "sistema di rappresentazioni diverse"
(Diatr.). "Per questo," aggiunge Epitteto, "compito del
filosofo, il piu importante e il primo, è sag- giare le rappresentazioni e
distinguerle e nessuna accogliere che non sia stata saggiata" (Diatr.).
"Cominciamo con la logica allo stesso modo che, per misurare il grano,
cominciamo con l'esaminare la misura. Se, infatti, non determiniamo dapprima
che cosa è il moggio, se non determiniamo dapprima che cosa è la bilancia, come
potremo piu misurare o pesare qualcosa? E nel nostro caso, se non conosciamo
con esattezza e precisione il criterio delle altre cose, criterio grazie al
quale le conosciamo, ne potremo conoscere qualcuna con esattezza e precisione?
Com'è possibile?... Compito della logica è discernere ed esaminare il resto, e,
si potrebbe dire, il misurarlo e pesarlo. Chi l'afferma? Solo Crisippo, Zenone
e Cleante? E Antistene non l'afferma? Chi ha scritto che l'osservazione dei
termini è l'inizio dell'educazione filosofica? [cfr. Diogene L.] E Socrate non
l'afferma? Di chi scrive Senofonte [Mem.] che incominciava
dall'osservazione dei termini, quale fosse il significato di ognuno?"
(Diatr.). Irragionevole e folle, e, dunque, passionale, schiavo, è chi vien
preso, di volta in volta, da questa o da quella r!lppresentazione, chi non sa
connetterle, rendendosi conto delle proprie rappresentazioni, e obbiet- tivarle
in un discorso vero, dominando cosf le rappresentazioni stesse. Su questa
linea, perciò, si capisce come Epitteto ritenga incoerenti anche gli scettici,
i quali per negare valore di obbiettività a qualsiasi ragio- namento (tutti,
sul piano del vero, possibili perché arbitrari, nessuno piu vero dell'altro,
oò3~ (LWOV), ricorrono ad un ragionamento che può convincere della loro tesi in
quanto non viene meno alle co- muni condizioni che rendono verace un
ragionamento, e gli epicurei, relativamente alla loro tesi che l'uomo è felice
qualora viva non so- cialmente, ché, anche essi, per sostenere questo si
servono di ciò che vogliono togliere (la socialità, cioè il discorso stesso)
(cfr. Il, 20). Le proposizioni vere ed evidenti, sottolinea Epitteto, le
adoperano di necessità anche quelli che le contraddicono: anzi la prova piu
grande dell'evidenza di un'affermazione.è, si può dire, il fatto che sia
trovata necessaria e utilizzata da quello stesso che la contraddice"
(Diatr.). Se formalmente, dunque, vi sono delle condizioni comuni e neces-
sarie (prenoziom) che permettono il discorso, il discorso verace e quel
discorso che, trovando il suo contenuto nelle rappresental:ioni, connette l'una
all'altra le rappresentazioni in un sistema, ove le une e le altre
rappresentazioni si articolano in 11:on contraddizione con le condizioni
stesse. Sapere pensare, dunque~ e a questo deve avviare l'educazione
filosofica, consiste da un lato nel ricercare e sistemare le prenozioni,
dall'altro lato nel sapere usare le proprie rappresen- tazioni (xpljar.<;
cpcxvrcxat&v ), mediante cui ci liberiamo dalla pas- sione e dalla
unilateralità, in una obbiettivazione che ci dà la misura e il valore delle
cose, indipendentemente da come esse apparivano nella prima immediata
rappresentazione (opinione). La particolare struttura dell'intelletto ci mette.in
grado di non ricevere le impronte delle cose, soggiacendo ai sensibili, ma
anche di fare una scelta di esse, di sottrarre, di aggiungere, di comporne
altre da noi, di passare dalle une alle altre che in qualche modo sono affini
(Diatr.). E se tutti gli animali hanno rappresentazioni, la differenza tra
l'animale irrazionale e l'animale razionale (l'uomo) è che mentre l'ani- male
irrazionale usa le rappresentazioni che lo attraggono e lo spin- gono ad agire
(mangiare, bere, riposare, accoppiarsi, compiere ciascuno quante altre cose
rientrano nell'ambito del proprio agire: Diatr.), l'uomo non solo usa le
rappresentazioni, ma ha anche la capa- cità di rendersene conto, di
comprenderne l'uso, liberandosene e, perciò, sapendo agire razionalmente. Il
che non significa, che, dunque, l'uomo non deve mangiare, bere, riposarsi,
accoppiarsi e cosi via, ma che deve rendersene conto, collocando ogni rappresentazione
e affezione al suo giusto posto, sapendo quello che ciascuna vale. E se
l'animale irrazio- nale realizza pienamente sé in quanto vive secondo le sue
rappresen- tazioni-passioni, l'uomo realizza sé, vive secondo natura, in quanto
comprendendo l'uso delle rappresentazioni, costituisce sé razionalmente e,
perciò, comprende sé e gli altri, ponendo sé e gli altri e le cose al loro
giusto posto, nòn facendosi prendere piu dall'una che dall'altra cosa, piu
dall'uno istinto che dall'altro. Questa è quella ch'Epitteto chiama
contemplazione (8-Ec.>p(cx), che consiste, appunto, nella com- prensione, in
una visione (&ec.>p(cx) obbiettiv.a di un sistema di rap- presentazioni,
che è "intelligenza (1tcxpcxxoÀoò&eau;) e tenore di vita conforme a
natura: badate dunque a non morire senza aver contem- plato queste realtà"
(Diatr.). ("Filosofare consiste nell'esa- minare e nel considerare le
norme" che permettono il pensare verace e per ciò necessario e universale,
·comune a tutti gli esseri razionali: "usare tali norme, una volta
conosciute, è dovere dell'uomo dabbene": Diatr.) Certo, il modo come si
costituiscono le rappresentazioni, com'esse vengono sussunte dalle
"prenozioni," se le prenozioni, sia pur for- malmente, siano vere e
proprie idee innate, quali siano i modi con cui si articolano correttamente tra
di loro le rappresentazioni, tutto questo è appena accennato da Epitteto.
Probabilmente, per quel che sappiamo, tali questioni egli le doveva
approfondire ed esporre nelle "lezioni," e poiché, per sua stessa
testimonianza, sappiamo che leggeva testi di Zenone e di Crisippo, diremmo che
tecnicamente Epitteto doveva esporre la logica entro i termini di
Antistene-Zenone-Crisippo. D'altra parte ciò che piu interessava Epitteto era,
mediante la logica, avviare gli altri ad essere uomini, a non vivere
unilateralmente e pas- sionalmente. E questo fu soprattutto il compito delle
diatribe. E cos(dalle diatribe non riusciamo a sapere quale fosse la concezione
epitte- tiana dell'Universo, se non ch'egli analogicamente, tenendo presente il
fatto che la ragione è attività unificatrice che costituisce il tutto in un
unico discorso, riprendendo l'ipotesi dello stoicismo antico - ancora qui
Zenone e Crisippo - sosteneva che il tutto è come un unico di- scorso, retto da
un'unica ragione, s(come fosse una "città sola." Questo mondo è una
città sola, come pure la sostanza di cui è stato composto, e cosi una sola è la
necessità di un movimento periodico e di un ritirarsi di alcune cose dinanzi
alle altre: queste si disperdono, quelle spuntano, queste rimangono nello
stesso posto, quelle si muovono. Tutte le cose sono piene di amici, in primo
luogo di dèi, poi di uomini intima- mente uniti per natura tra loro: e bisogna
che alcuni rimangano insieme tra loro, che altri se ne vadano, che alcuni
godano di chi rimane con essi, che gli altri non si addolorino di chi se ne va
(Diatr.). Tutte le cose formano un'unità... (Diatr.). Uomo sono, parte del
tutto, come l'ora è parte della giornata. Debbo giungere come l'ora, e, come
l'ora, scomparire (Diatr.). In questo senso Epitteto è molto preciso: uno
l'universo nella sua totalità, una la ragion d'essere del tutto e la sua
sostanza, il cangia- mento, il nascere e il morire, avvengono entro la stessa
unità del tutto. Mietere le spighe significa la distruzione delle spighe, non
dell'Universo, si come il cader delle foglie, o il seccarsi del fico e
l'appassirsi dell'uva. Si tratta, in tutti questi casi, di mutamenti da uno
stato precedente in uno diverso: non distruzione ma ordinata disposizione e
amministrazione. Quale è l'andar via dal proprio paese, un piccolo mutamento,
tale è la morte, un mutamento piu grande, ma non da ciò che è al presente,
verso il nulla, ma verso ciò che al presente non è. "Non sarò piu
allora?" No: ma sarai una cosa diversa da quella di cui al presente il
mondo ha bisogno. Perché anche tu nascesti non quando hai voluto, ma quando il
mondo ebbe bi- 329 sogno
(Ditur.). "Vai!" dove? Non in luoghi terrificanti, ma là donde sei
venuto, verso amici e parenti, verso gli dementi naturali. Quanto fuoco era in
te, ritornerà in fuoco, quanto era terra in terra, quanto aria in aria, quanto
acqua in acqua. Non c'è Ade, non Acheronte, non Cocito, non Piriflegetonte, ma
tutto è pieno di dèi e di potenze divine. E chi è in grado di riflettere su ciò
e guardare il sole, la luna, gli astri e prendere diletto dalla terra e dal
mare non è abbandonato piu di quaDJ:o sia senza aiuto... (Diatr.). Dalla
constatazione che la ragione è attività unificatrice e sistema di rappresentazioni-oggetti,
Epittéto passa a poter sostenere che, dunque, la stessa struttura su cui si
titma la realtà è attività unificatrice, me- diante cui tutto ha un suo posto,
tutto avviene come deve avvenire, fatalmente, ma, perciò stesso,
provvidenzialmente ("di ogni cosa che accade nel mondo è facile lodare la
provvidenza, purché si abbiano queste due qualità, la capacità di vedere nel
loro insieme i singoli av- venimenti e il sentimento della riconoscenza...
Dalla struttura dei ~ari prodotti siamo soliti riconoscere che sono
indubbiamente opere di un artista, e non costruite a caso e gli oggetti
visibili, e la visione e la ·luce non lo rivelano(... E la particolare
struttura dell'universo che ci mette in grado di non ricevere semplicemente le
impronte delle cose soggiacendo ai sensibili, ma anche di fare una scelta tra
esse... Tutto questo non fa pensare ad un supremo artista?": Diatr.).
Tutto, dÙnque, nel suo esserci, nel suo nascere e perire, nella sua sostanza, è
come parte di un organismo vivente, ha una sua funzione e una sua ragione. Si
capisce, cosi, come Epitteto possa identificare la divinità (ancora una volta
intesa come ciò senza di cui nulla è, la condizione del tutto) con la ragione, dandone
la stessa definizione: quale è la natura di Dio? è intelligenza, scienza, retta
ragione. Solo qua, dunque, assolutamente, èerca l'essenza del bene"
(Diatr.). Ora, se la ragione era stata definita "sistema di
rappresentazioni diverse," e se le rappresentazioni sono impressioni che
in quanto com- prese si costituiscono come abbietti, non in una semplice
recezione delle impronte, ma mediante l'intelletto in una scelta, sottrazione,
somma, composizione di esse, Dio, in quanto ragione e intelligenza, si
costituisce come "sistema di oggetti diversi," e perciò come attività
unificatrice che sceglie, somma, sottrae, compone, per cui tutto deriva da lui,
tutto in lui ha la sua funzione, e tanto piu l'uomo che scopre sé come ragione,
come capacità non solo di usare le rappresentazioni, ma di saperle usare
("ti abbiamo dato una parte di noi," fa dire Epitteto a Zeus,
"questa facoltà impulsiva e repulsiva, desiderativa e avversativa, in una
parola la facoltà che sa usare le rappresentazioni. Solo quel che è piu
importante di tutto, e che domina il resto, gli dèi l'hanno fatto dipendere da
noi, e, cioè, il retto uso delle rappresenta- zioni:. le altre cose non le
hanno fatte dipendere da noi": Diatr.). Qui, sembra, la chiave per intendere,
relativamente all'uomo, da un lato la concezione di Epitteto su ciò che non
dipende e su ciò che dipende da noi (dr. particolarmente Diatribe, I, l e
Manuale, 1), dal- l'altro lato sul fato, sul tutto, che è quello che è, e sulla
libertà; sul non comprendere, sull'essere presi dai dati, dalle impressioni,
asistemati- camente (irrazionalmente), per cui siamo schiavi, soggetti, e, non
in- tendendo, non sapendo usare, scegliere le rappresentazioni, applicare
correttamente le prenozioni, siamo scelti; e sulla comprensione che è libertà,
liberazione dall'errore, accantonamento di ciò che non di- pende da noi,
avvicinamento a Dio, scelta. E se pur tutto resta quello che è, se pur ciascuno
resta quello che è, l'uomo, almeno, per sua natura, in quanto •ragione,"
pur rimanendo quello che è, può essere scelto o scegliere, può essere padrone o
schiavo: "quel che è piu importante di tutto, e che domina il resto, gli
dèi l'hanno fatto dipendere da· noi, e, cioè, il retto uso delle
rappresentazioni" (Diatr.); e tale è il fine dell'uomo: l'uomo deve
terminare là dove termina nei nostri riguardi la natura, ed essa termina nella
teoria e nell'intelligenza e in un tenore divita conforme alla natura"
(Diatr.}. Bada, dunque, alle rappresentazioni, vigila su di esse. Non è poco
ciò che va custodito: si tratta del rispetto, della lealtà, della tranquillità,
d'una condizione d'animo scevra da passioni, da dolori, da timori, da
turbamenti, in breve, della libertà... Sono libero e amico di Dio, s{ che gli
obbedisco spontaneamente. Niente di tutto il resto devo acquistare, non il
corpo, non gli averi, non le cariche, non la reputazione, in una parola,
niente. E Dio, poi, neppure vuole che io l'acquisti. Se voleva, quei beni li
avrebbe fatti per me: ora, invece, non li ha fatti... Custodisci il bene che è
tuo in ogni occasione: il bene di tutto il resto, secondo quanto t'è concesso,
nei limiti voluti dalla ragione, e di questo solo contèntati. Se no, sarai
infelice, di- sgraziato, soggetto a impedimenti e a ostacoli... (Diatr.).
Epitteto prende le mosse da una constatazione: se da un lato è vero che l'uomo
è un complesso di rapprc.sentazioni, dall'altro lato è altrettanto vero che
l'uomo ragionando scopre sé come ràgione, che ha in se stesso, nel suo stesso
svolgersi, il criterio della propria vali- dità - "la sola facoltà
raziocinante, prendendo se stessa a oggetto di studio, comprende se stessa, la
natura, la potenza, il valore che ha venendo in noi": Diatr., - e scopre
sé come capacità di ob- biettivare e articolare e sistemare le sue stesse
rappresentazioni; finché è solo un insieme disordinato di
rappresentazioni-impressioni, l'uomo è passivo e dominato; allorché,
ragionando, ordina e sistema è egli a dominare, rendendosi conto del valore di
ogni cosa, che tutto ha nel discorso un suo posto, che alcune cose sono in
nostro dominio e altre no. Le cose sono di due maniere; alcune in poter nostro,
altre no. Sono in poter nostro l'opinione, il movimento dell'animo,
l'appetizione, l'avver- sione, in breve tutte quelle cose che sono nostri
propri atti. Non sono in poter nostro il corpo, gli averi, la riputazione, i
magistrati, e in breve quelle cose che non sono nostri atti. Le cose poste in
nostro potere sono di natura libere, non possono essere impedite né
attraversate. Quelle altre sono deboli, schiave, sottoposte a ricevere
impedimento, e per ultimo sono cose altrui. Ricordati che se tu reputerai per
libere quelle cose eh sono di natura schiave, e per proprie quelle che sono
altrui, t'interverrà di trovare quando un osta- colo quando un altro, essere
affiitto, turbato, dolerti degli uomini e degli dèi... Per tanto, a ciascuna
apparenza che ti occorrerà nella vita, innanzi a ogni altra cosa avvezzati a
dire: questa è un'apparenza, e non è punto quello che mostra di essere. Di poi
togli· ad esaminarla e farne saggio con quegli espedienti chè tu sai, e prima e
massimamente vedere se appartiene alle cose che sono in nostra facoltà, ovvero
a quelle che non sono... (Manuale). Gli uomini sono agitati e turbati non dalle
cose, ma dalle opinioni ch'essi hanno delle cose... t da uomo, non addottrinato
nella filo- sofia l'addossare agli altri la colpa dei travagli suoi e propri,
da mezzo addottrinato l'addossarla a se stesso, da addottrinato non darla né a
se stesso né agli altri (Manuale). Evidente è, per Epitteto, che tale duplice
modo d'essere dell'uomo, irrazionale e razionale, dominato e dominante, che
tale situazione tragica dell'uomo - "cosa altro sono le tragedie se non la
narrazione in verso epico di quel che provano uomini affascinati dagli oggetti
esterni? Diatr., - è dovuta, per natura- ed è un'esperienza- alla possibilità
stessa dell'uomo di voler ragionare oppure no, ad un'opzione dell'uomo,
possibile certo solo allorché l'uomo si rende conto ch'egli è ragione, cioè
giudizio (ma è, appunto, in tale rendersi conto, che non è una deduzione, che
consiste la libertà; di qui per Epitteto l'importanza dell'insegnamento della
logica e della dialettica e la·sua repugnanza contro coloro che imparano
filosofia per ornamento o per professione). In altri termini, ogni uomo, in
quanto scopre sé come ragione, può scegliere tra l'essere schiavo o l'essere
padrone, tra vivere passionalmente (contro natura) o vivere secondo ragione, in
un'armonia e giudizio delle passioni stesse (secondo natura). In tale senso
Epitteto sostiene che la stessa ragione, in quanto discorso è or- dine, è
scelta, o, se vogliamo, volontà (7tpo1X(p&atc;, proairesis), si come,
analogicamente posto Dio come ragione del tutto, Dio è volontà in quanto
ragione, cwe m quanto giudizio, e non come persona (libertà assoluta) in senso
cristiano, si come talvolta si è voluta interpretare la divinità epittetiana. È
il tuo giudizio che ti determina necessariamente, e cioè la scelta (pro-
airest) che forza la proairesi. Se Dio avesse assoggettato a impedimento o
necessità, o da parte sua o da parte di altri, il frammento del suo essere che
ha staccato da sé per dare a noi, non sarebbe piu Dio né piu si prenderebbe
cura di noi, come deve... Se vuoi sei libero; se vuoi, non bia- simerai alcuno,
non accuserai alcuno, tutto accadrà secondo la volontà tua e, insieme, di Dio
(Diatr.). Nessuno può credere che una cosa gli sia utile senza sceglierla? No.
E com'è che [Medea] dice: "SI, bene intendo quali mali sto per fare, ma il
mio corruccio supera la mia ragione"? (Euripide, Medea]. Perché proprio
indulgere al suo corruccio e vendicarsi dello sposo ella ritiene piu utile che
salvare i figli. Ma si è in- gannata! Mostrale chiaramente che si è ingannata e
non lo farà: ma fino a quando non glielo mostri, che cosa può seguire se non le
apparenze? Niente. Perché allora irritarti con lei, se si è sviata, l'infelice...
(Diatr.). L'essenza del bene ["nell'intelligenza, nella scienza, nella
retta ragione... cerca l'essenza del bene": Diatr.] consiste in una qual
certa proairesi [in un certo qual modo di atteggiarsi], il male in una qual
certa proairesi. Che sono, allora, le cose esterne? Oggetti coi quali venendo a
contatto la persona morale realizzerà il proprio bene o il ·proprio male. Come
realizzerà il bene? Se non dà importanza agli oggetti. Perché, se i giudizi
sugli oggetti sono retti, fanno la persona morale buona, se storti e stravolti,
cattiva (Diatr.). La libertà e la scelta o volontà di Epitteto non è né
arbitrio né li- bertà in senso assoluto, ma atto razionale che in quanto tale,
in quanto giudizio e obbiettivamente, è, appunto, proairesis. D'altra parte,
proprio il fatto che l'uomo può scoprire sé come ragione, che, a sua volta,
tale si scopre e si giudica ragionando (cfr. Diatr.), fa si che si possa porre
come in atto una ragione che ci trascende dal di dentro, sempre in atto
compiuta in se stessa (Dio). Perfetto dunque Dio in quanto ragione, la ragione
umana, aspetto o frammento di quella divina, non è perfetta come la divina, per
cui mentre tutto è in possesso di Dio, non tutto è 'in possesso dell'uomo, se
non il rendersi ragione, il comprendere ("si deve organizzare il meglio
possibile quel che dipende da noi e di tutte le altre cose usare come esige la
loro natura; come esige la loro natura? come Dio vuole": Diatr.), che,
distaccando l'uomo dalle sue stesse rappresentazioni immediate e unilaterali, gli
fa intendere e valutare da un lato ciò che è in suo possesso (il pensare che è
ad un tempo scelta e volontà) e, dall'altro lato, ciò che non è in suo possesso
(il nascere e il morire, avere questo o quel corpo, esser nato maschio o
femmina, da questi o da quei genitori, servo o libero, storpio o diritto, in
questo secolo o in altro, ricco o povero e cos(via). E allora, quelle ste~se
cose che non sono in nostro possesso, a cui tendiamo finché re- stano
rappresentazioni asistemate, in libertà (alogiéhe), onde appaiono beni, per cui
le desideriamo o da esse rifuggiamo (passioni), nell'atto che le intendiamo
divengono mali se desiderate, ma, in quanto com- prese per ciò che sono, né
beni né mali (indifferentt). Questo, sembra, il significato, riallacciandosi a
Zenone, a Crisippo, ad Aristone di Chio, dell'aspetto "cinico" dello
"stoicismo" di Epit- teto. Va qui, d'altra parte, tenuta presente
l'affermazione di Giovenale, secondo cui la diffidenza, in quest'epoca, tra
cinicj e stoici, consiste in una differenza di classe sociale, in una
distinzione di "tunica" piu che di modo di atteggiarsi: "Stoica
dogmata... a Cynicis tunica distantia" (Satire); e va tenuto presente un
capitolo del III libro delle Diatribe, in cui si delinea quella che dev'essere
la figura ideale del saggio, del cinico (dell'uomo che per nascita non ha
nessuna posizione sociale o che riconosce che la sua unica posizic;>ne è
appunto quella del "saggio"), ma non interpretato secondo il clichl
del cinico giullare, di quelle molte figurine di filosofi popolari di cui parla
efficacemente Dione Crisostomo ("dei cosiddetti Cinici v'è gran numero
nella città;... ai crocevia, negli angiporti, all'ingresso dei templi, questi
uomini radunano e traviano schiavi e marinai ed altra simile gente,
snocciolando scherzi e grande varietà di pettegolezzi e di arguzie volgari: in
realtà essi non fanno alcun bene, ma gran male•: Dione, Oraz.). In effetto, il
"cinico" che ha presente Epitteto (forse Demetrio: dr. sopra) è lo
stoico di stretta osservanza, l'uomo che, consapevole di non avere una sua qual
certa. posizione sociale - come, ad esempio, fu il caso di Epitteto, - realizza
veramente se stesso, ché altro egli non possiede, in quanto mostra agli altri,
anche col suo modo esteriore di vivere, che è un simbolo (privo di tutti quelli
che si dicono beni: casa, famiglia, affetti), cosa significa essere libero, ai
ricchi e ai poveri, ai potenti e ai deboli, indicando a tutti, e in ciò
consiste la sua parte - il che non significa che ~utti debbano assumere la·sua
parte,- che tutti, essendo ciascuno a suo modo, possono essere liberi in quanto
accettino, comprendendola, la propria parte. Nella comprensione razionale che
tutto - uomini e c~e - è quale dev'essere, ciascuno al suo posto, il cinico non
propende piu per una cosa o una persona piu di un'altra, onde, sotto tale
prospettiva, tutto è per il cinico indifferente, tutto e tutti vanno né
condannati né esaltati, ma compresi. Sotto questa prospettiva si vede bene come
Epitteto potesse dire. Abbi cura di ricordare a te medesimo il vero essere di
ciascheduna cosa che ti diletta o che tu ami o che ti serve ad alcun uso,
incominciando dalle piu piccole. Se tu ami una pentola, dirai a te stesso: io
amo una pentola; perciocché se ella si spezzerà, tu non avrai però l'animo alterato.
Se tu bacerai per avventura un tuo figliuolino o la moglie, dirai teco stesso:
io bacio un mortale; acciocché morendoti quella donna o· quel fanciullino, tu
non abbi però a turbarti (Man.). Chiunque avverte in maniera evi- dente che per
l'uomo misura di ogni azione è l'apparenza... non si adirerà con nessuno, non
si irriterà con nessuno, non ingiurierà.nessuno, non bià- simerà nessuno, non
odierà né offenderà nessuno (Diatr.). Chi 'vuole divenire cinico non basta si
metta la "divisa" del cinico (mantello corto, bisaccia e mazza), ma
deve "purificare la parte ege- monica dell'anima e disporre una tale linea
di condotta: ora la ma- teria con cui ho da fare è la mia mente, come il
falegname ha il legno, come il calzolaio ha il cuoio: mio compito è il retto uso
delle rappresentazioni. Il povero corpo non ha nessun rapporto con me: le sue
parti neppure. La morte? Venga quando vuole, sia di tutto il corpo, sia di una
parte. L'esilio? E dove mi possono cacciare? Fuori del mondo, no davvero. E
dovunque andrò H c'è il sole, H la luna, H le stelle, i sogni, i presagi, i
colloqui con gli dèi. Però, pur avendo raggiunto tale perfezione, il vero
cinico non se ne può con- tentare, ma deve sapere d'essere stato inviato da
Dio, in qualità di messaggero, _per mostrare agli uomini, che, in rapporto al
bene e al male si ingannano e cercano l'essenza del bene e del male là dove non
è, e non badano dove è... In realtà il cinico è esploratore di cosa è amico
agli uomini, di cosa nemico, e, quindi, condotta un'esplorazione accurata, deve
venire ad annunciare la veri~, senza essere sbigottito dalla paura... Perciò,
all'occorrenza, egli deve potersi levare in piedi e, salito sulla scena
tragica, pronunciare le parole di Socrate [Platone, Clitofonte, 407 a-h]:
'Ohimé, uomini, dove vi lasciate trascinare?'; che fate, disgraziati?
V'aggirate, come ciechi, di su e di giu; v'incam- minate per un'altra strada
dopo avere abbandonato la vera, cercate altrove ciò che rasserena e rende
felici, dove non esiste, e non prestate fede a un altro che ve lo mostra.
Perché cercarlo nelle cose esterne? Dov'è che siamo liberi? Nel giudizio. Coltivate
allora questa cosa, prendetevi cura di essa, cercate qui il bene. E come è
possibile che viva sereno chi non possiede niente, chi è nudo, senza casa, senza
focolare, sordido, senza schiavi, senza città? Ecco, Dio vi ha mandato uno che,
a fatti, ve ne dimostri la possibilità. 'Guardatemi: sono senza casa, senza
città, senza beni, senza schiavi: il mio giaciglio è la terra: non ho moglie,
non figli, non una casetta, ma la terra soltanto e il cielo e un solo
mantelletto. Eppure, che mi manca? Non sono senza dolori? non sono senza
timori? Non sono libero? Quando uno di voi mi ha visto fallire nei miei
desideri, quando cadere nelle mie avver- sioni? Quando ho biasimato Dio o uomo,
quando ho rimproverato qualcuno? Forse uno di voi mi ha visto accigliato? Come
tratto quelli che vi mettono paura o meraviglia? Non come schiavi? Chi, veden-
domi, non ritiene di vedere il suo re e il suo padrone?' Ecco le parole degne
di un cinico, eccone il carattere, eccone il proposito (Diatr.). Se la
delineazione dell'atteggiamento del cinico è la delineazione di una figura
ideale di uomo, che giuoca la sua parte, compiendo il suo dovere, ciascuno,
·ognuno rimanendo al posto che natura gli ha dato, può, entro i suoi limiti,
attuare se stesso, compiere il suo dovere, non unilateralmente (nell'esclusiva,
ad esempio, maniera cinica), per cui su di un piano piu largo, l'aspetto cinico
di Epitteto si risolve di nuovo entro i termini della morale e della misura
stoiche. Deriva di qui un altro motivo fondamentale del pensiero di Epitteto,
quello della libertà, su cui, accanto al motivo del saper usare le rappresenta-
zioni e al motivo della conseguente distinzione tra ciò che dipende da noi e
ciò che non dipende, Epitteto ha piu insistito (nelle Diatribe il termine
"libero" e il termine "libertà" sono usati ben 130 volte:
cfr. Oldfather, Epiktctus), in una precisa determinazione della libertà come
libertà da e non COII)e libertà di. Mediante la logica e l'appello ad
esercitarsi nello studio di come funziona la ragione ("ai piu sfugge che
Io studio dei ragionamenti amfibologici e ipotetici, e ancora di quelli che
procedono mediante in- terrogazione, e, in una parola, di tutti i ragionamenti ·di
questa ma- niera, è in relazione al dovere": Diatr.), da un lato la
raziona- lità scopre il tutto come un ordinamento e un sistema di rappresenta-
zioni e, dall'altro lato, la razionalità, in quanto ci trascende dal di dentro,
si pone come ordine e sistema del tutto, onde tutto è come deve essere, tutto è
parte in funzione di un fine che è la stessa razio- nalità (la divinità).
Posto, dunque, che in questo tutto l'uomo, sco- prendo sé come razionalità, e,
perciò, come figlio di Dio, avente sempre in sé un aspetto della divinità, può
scegliere tra il vivere preso dalle sue rappresentazioni e passioni,
indiscriminatamente, e il vivere se- condo la sua stessa natura (che è, dunque,
un dovere), cioè razional- mente, ne deriva la doppia considerazione epittetiana
della realtà e della condizione umana. Se uno riuscisse a compenetrarsi in modo
convenìente di questo pensiero, che veniamo da Dio tutti, e tra i primi, e che Dio
~ padre degli uomini e degli dèi, credo che nulla di ignobile o di meschino
sarà desiderato da lui... Ma poiché al momento della generazione sono mescolati
insieme questi due elementi, il corpo comune con gli animali, la ragione e
conoscenza comune con gli dèi, altri inclinano a quella parentela infelice e
mortale, pochi a questa divina e beata... Che sono, infine? Un misero omuncolo
e miserabile è il mio corpo. Ma pur essendo miserabile hai un elemento
superiore al miserabile corpo. Perché, dunque, allontanando tal cosa ti at-
tacchi a questo? (Diatr.). Non sai che piccola parte sei rispetto al tutto?
Questo secondo il corpo; mentre secondo la ragione non sei peg- giore né
migliore degli dèi: che la grandezza della ragione non si misura in lunghezza
né in profondità, ma in pensieri. Non vuoi, dunque, dove sei uguale agli dèi,
ivi porre il bene? (Diatr.). Guarda chi sei. Innanzi tutto un uomo, cioè· un
uomo che non possiede niente piu impor- tante della proairesi, ma a lei
subordina il resto, e tale volontà possiede libera da schiavitU e da
soggezione. Osserva, dunque, da chi ti distingui per la ragione.·Ti distingui
dalle bestie selvagge, ti distingui dalle pecore. Non solo, ma sei cittadino
del mondo e parte di questo mondo, non delle ultime ma delle prime, perché puoi
comprendere il governo divino e riflettere sulle conseguenze. Quale allora è la
funzione del cittadino? Di non avere nessun interesse personale, di non
prendere decisioni su nessuna cosa quasi fosse isolato, bensf di agire come la
mano o il piede, che se ragionassero e com- prendessero l'ordine naturale,
giammai altrimenti si muoverebbero o desi- dererebbero o si contrapporrebbero
al tutto. Per ciò ben dicono i filosofi che se l'uo~o virtuoso prevedesse il
futuro, coopererebbe alle malattie, alla morte, alle mutilazioni, perché si
renderebbe conto che tutto questo gli è stato asse- gnato dall'ordinamento
universale e che è piu importante il tutto della parte, la città del
cittadino... (Diatr.). Di fatto l'uomo, come tutte le cose, come ogni
avvenimento è quello che è, né buono né cattivo; ognuno, come ogni cosa,
nell'economia dell'Universo, nel giudizio divino, riceve una sua parte, piccola
o grande che sia, è passivo, è apparentemente un'isola abbandonata a se stessa,
tirato di qua e di là dalle passioni, per cui tutto è vano, tutto, sotto questa
prospettiva, disprezzabile (in tale rappresentazione della realtà e dell'uomo
il linguaggio di Epitteto è senza dubbio quello cinico; tutto è già dato, nulla
è da fare, onde cade ogni speranza, la capacità di sperare che le cose possano
essere diverse da quello che sono, libere; mondo senza poesia, donde la
tristitia stoica). Solo che, per altro verso, se attraverso la ragione, la cui
scoperta è non una deduzione, ma un'esperienza viva che si rivela mediante lo
stesso ragionare, l'uomo ha la capacità di giudicare, cioè di scegliere, ordi-
nando e obbiettivando, cogliendo ogni rappresentazione-oggetto per quella che
è, l'uomo si libera dalle passioni, dall'errore, dall'assumere una
rappresentazione per quello ch'essa non è. Sotto quest'altra prospettiva,
quella stessa realtà che fino a che resta estranea, incompresa, è male,
disordinata, irrazionale, si trasfigura in una realtà buona, desiderabile,
amata, in un amore ordinato, nell'unico amore per l'unità di Dio, rimanendo
perciò indifferenti tutte quelle rappresentazioni" che condurrebbero ad
una vita unilaterale, dominata da questa o da quella rappresentazione
(interessi esclusivi per gli onori, per la salute, il corpo, per la vita dei
nostri cari e degli altri uomini, dimenticando ch'essi sono mortali, sf come
rompibile è una pentola di coccio, e cosf via), che, appunto, per ciò,
seguitano a non dipendere da noi. In realtà, per Epitteto non si tratta tanto
di due modi di essere, ma di due modi prospettici di considerare la stessa
realtà. Nel primo caso, pur facendo e considerando le stesse cose siamo
determinati, agiamo fatalmente, siamo agiti (irrazionalità); nel secondo caso,
pur facendo e considerando le stesse cose, siamo, non subiamo. Nel primo caso
non ci solleviamo dalla vita di cose tra cose, nel secondo caso, obbiettando e
scegliendo, giudicando, ci solleviamo alla vita razionale, alla vita divina. Da
un lato tutto è necessario, dall'altro lato, pur rimanendo tutto necessario
abbiamo la possibilità (e in questa possibilità consiste la libertà) di
valutare quella. stessa necessità, per cui non la subiamo, ma riconoscendola la
vogliamo. "Tu non devi cercare che le cose pro- cedano a modo tuo, ma
volere che vadano cosf come fanno, e bene starà" (Manuale). "Se vuoi,
sei libero; se vuoi non biasimerai alcuno, non accuserai alcuno, tutto accadrà
secondo la volontà tua e, insieme, di Dio" (Diatr.). Si capisce allora
come, sotto que- sto aspetto, per Epitteto ragionare sia volere, libera
accettazione di una realtà che è quella che è, voluta dalla stessa razionalità
in cui consiste la divinità (sulla libertà in particolare si confronti la piu
lunga delle diatribe, la prima del IV libro). Gli uomini sono agitati e turbati
non dalle cose, ma dalle.opinioni che hanno delle cose (Man.). L'essere zoppo
s{ è impaccio della gamba, ma non della disposizione dell'animo (Man.). Quando
tu vedi qualcuno che pianga o per la morte di alcun suo congiunto o per la
lontananza di un figliuolo o perdita della roba, guarda che l'apparenza non ti
trasporti in guisa che tu pensi che questo tale, a cagione delle cose
estrinseche, patisca alcun male vero. Ma tu distinguerai teco stesso
subitamente e dirai: questo è tribolato e afflitto, non dall'accaduto, poiché
questo medesimo non dà niuna tribolazione a un altro, ma dal concetto ch'egli
ha dell'accaduto (Man., XVI). Ricordati che colui che rampogna o percuote, non
offende esso, ma l'opinione che si ha che ·questi cotali offendano. Sicché
quando tu ti senti montare la collera contro uno, pensa che la tua propria
immagi- nazione è quella che ti sprona all'ira, e non altri (Man.). Sopporta e
astienti (framm. X, in Aulo Gellio, Noct. Att.). Si chiarisce cosi la dottrina
epittetiana dell’apparenza (fantasia) (cfr. Man.), mediante cui Epitteto
sottolinea cosa significhi la distin- zione tra ciò che dipende e ciò che non
dipende da noi. In altri ter- mini, la nostra lnancanza di libertà dipende da
una comprensione inadeguata delle cose, da ricondursi ad una nostra
comprensione imprecisa. Possiamo avere una cognizione delle cose che è una
cognizione fantastica, apparente. Se, per esempio, si stabilisce un errato
rapporto causale, la nostra stessa attività, tesa a ottenere certe risonanze,
in rela- zione a quell'apparenza si svolgerà in maniera errata e infelice
(cfr., ad esempio, Diatribe), per un errore che è un errore pro- spettico. Si
vede bene, di qui, come la distinzione tra esteriorità (ciò che non dipende da
noi) è interiorità (pensiero, volontà e cosi via) consiste nel non comprendere
e nel comprendere. Se, come sostiene Epitteto, il vero sta nel giudizio, in una
scelta per cui tutto si costi- tuisce in un sistema di rappresentazioni,
l'essere delle cose, l'essere di tutto è nel giudizio, e quindi nello stesso
discorso, in noi, e, qui, esten- sivamente e per analogia, in Dio.
L'esteriorità, ciò che non dipende da noi, sta nell'incomprensione, in qualcosa
che resta per sé, sganciato, no~ giudicato (irrazionale) e che, dunque, ci
domina. Non si tratta di due realtà, ma: di due nostri modi diversi di
atteggiarsi nei confronti della stessa realtà. Le cose comprese, proprio in
quanto com- prese, divengono nostre, anche se, appunto perché comprese, ci ren-
diamo conto che non dipendono da noi (l'avere questo o quel corpo, l'essere
bello o brutto, maschio o femmina, ecc.). E allora, compren- dendo, sappiamo
anche quale, nella grande commedia del tutto il cui supremo regista è Dio, è la
nostra parte (grande o piccola), realiz- zando bene la quale, tutti, ciascuno
per ciò che gli compete (ed in questo consiste la nostra libertà: cfr. Diatr.),
siamo uguali, schiavi o re, uomini o donne, grandi o piccoli uomini,
socraticamente, rendendoci con ciò davvero utili agli altri e a sé. E cosi
quanto piu si ama se stessi, cioè la razionalità, tanto piu si amano gli altri,
si vuole sé e gli altri come fini. Sovvengati che tu non sei qui altro che attore
di un dramma, il quale sarà breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a
costui piace che tu rappresenti la persona di un medico, studia di
rappresentarla acconcia- mente. Il simile se ti è assegnata la persona di uno
zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si aspetta
solamente di rappresentare bene quella qual si sia persona che ti è destinata:
lo eleggerla si appartiene ad un altro (Man.). Se il pilota ti chiama, corri
tosto alla nave senza voltarti, lasciata stare ogni cosa (Man.). Questi i
motivi fondamentali del pensiero di Epitteto (e questi sono i motivi che in
breve, in forma gnomica, Arriano ha riepilogato e sistemato nel Manuale,
riprendendoli dall'opera maggiore, le Diatribe). Di qui, d'altra parte,
l'importanza data da Epitteto all'insegna- mento, inteso come insegnamento a·
saper ragionare, mediante cui liberare gli uomini dal loro vivere da schiavi,
delineando, infine, un vero e proprio processo attraverso il quale, dallo
studio della logica e dalla scoperta del modo di funzionare della ragione, si
giunga con essa - in cui, dunque sta il bene - a quella misura e dominio delle
passioni in cui consiste l'uomo verace, simile a Dio (cfr. Diatr..). Innanzi
tutto, per Epitteto, la funzione della ragione è di calcolare i nostr.i
desideri, s(da distinguere quelli che davvero lo sono, in quanto dipendono da
noi, da quelli che ci attirano in quanto abbiamo calco- lato male, scambiando
ciò che non dipende da noi per ciò che dipende da noi (in realtà, questi
ultimi, compresi, cessano di essere desideri, divenendo i loro oggetti
indifferenti, ché nessuna cosa la quale non dipenda da noi, che sia,
cl1tpoadpnov - aproaireton, - può essere de- siderata). In secondo luogo,
obbiettivati i desideri, che consistono nel- l'esigenza di realizzare ciò che
dipende da noi, la ragione, mediante l'educazione filosofica, ordinando e
scegliendo, determina quale delle nostre inclinazioni (6p!L-IJ), o delle nostre
repulsioni '(clfOP!LiJ) è con- veniente o meno; indicando di volta in volta ciò
che conviene, quali sono perciò i nostri doveri (xoc.&;;xov), onde sappiamo
come agire, come realizzare bene la nostra parte, sia nei confronti degli altri
che di se stessi ("da uomo pio, da figlio, da fratello, da padre, da
citta- dino": Diatr.). In terzo luogo, infine, la ragione sarà capace,
dominati i desideri o le avversioni, le inclinazioni o le repulsioni, indi-
rizzando s{ che ciascuno giuochi come deve la propria parte, di vedere sé come
sistema di "rappresentazioni," in una comprensione del tutto, che è visione
(teoria) pacata del tutto; in una accettazione in cui con- siste la piu
profonda religiosità (in tale tripartizione della filosofia il maggiore storico
di Epitteto, il Bonhoffer, ha veduto l'aspetto piu originale di lui, che non si
trova né negli stoici antecedenti, né in Musonio, né nei cinici: Epictet u. die
Stoa; cfr. anche Souilhé). Non dovremmo, mèntre vanghiamo, o ariamo, o
JÌlangiamo, cantare l'inno a Dio? "Grande è Dio, percM ci ha largito
strumenti adatti a lavo- rare la terra: grande è Dio, perché ci ha dato le
mani, la gola, il '\lentre, perché ci fa crescere senza che ce ne accorgiamo,
perché ci fa respirare mentre dormiamo." Questo bisognerebbe cantare in
ogni occasione e can- 340 tare l'inno piu sublime e piu divino che,
cioè, egli ci ha dato la facoltà di comprendere tali cose e la via retta per
usarle. Ebbene? Poiché la maggior parte di voi è cieca, non era necessario che
ci fosse chi tenesse questo posto e in nome di tutti cantasse l'inno a Dio? E
che cos'altro posso io, vecchio storpio, se non inneggiare a Dio?· se fossi un
usignolo, compirei la mia parte di usignolo, se cigno, quella di cigno. E
invece sono un essere ragionevole: devo inneggiare a Dio. Ecco la mia parte: io
la compio e non diserto il mio posto, per quanto mi è concesso, e anche voi
esorto a cantare questo stesso canto (Diatr.). - Mi basta poter levare le mani
a Dio e dirgli: "le facoltà che ho ricevuto da te per comprendere il tuo
governo e seguirlo non le ho trascurate: non ti ho disonorato, per parte mia.
Guarda come ho usato i sensi, come le prenozioni. Ti ho mai biasimato? sono
stato scontento di qualche avvenimento o l'ho desiderato altrimenti? ho mancato
alle mie relazioni con gli altri? Ti ringrazio di avermi fatto na- scere, ti
ringrazio di quanto mi hai dato: il tempo che ho usato le tue cose mi basta.
Riprendile e assegnami il posto che vuoi: perché erano tutte tue. tu me le hai
date" (Diatr.). Epitteto mori a Nicopoli, da cui non si era piu mosso dal
giorno del suo arrivo, esiliato da Roma. A Nicopoli, ove visse_ solo, tutto
dedito all'insegnamento, egli godette di gran fama, rispettato e onorato da
tutti. Solamente da vecchio avrebbe preso con sé una donna, perché lo aiutasse
ad all~vare un orfano che aveva adot- tato (Simplicio, In Epicteti Enchiridion,
Schenkl). Che il suo insegnamento sia stato un insegnamento di vita - basato,
certo, su di una precisa concezione - e non un insegnamento strettamente
scolastico, è dimostrato anche dal fatto che dei suoi moltissimi disce- poli e
ascoltatori - a parte Arriano che fu con lui per molti anni a Nicopoli, e che
probabilmente pubblicò le Diatribe e il Manuale subito dopo la morte di
Epitteto - nessuno fece professione di filosofo, se non un certo Jerocle
stoico, autore di un'Etica e di Filosofumena (se ne vedano i frammenti in
Stobeo, Ed.). Va, d'altra parte, osservato che dopo l'uccisione di Domiziano,
la politica dei principi, relativa al fondamento del potere dell'Impero, venne
cangiando, tanto che si delineò la possibilità di assumere a fondamento
ideologico la tesi politica dello stoicismo, sia sul piano politico sia sul
piano piu strettamente giuridico. Già questo vediamo con l'imperatore Cocceio
Nerva, il quale cercò di riaccattivarsi il Senato e con i suoi successori
Traiano e ADRIANO (si veda), che con l'istituzione ufficiale del Consilium
principis svuotò gran parte del potere del Senato, avviando l'Impero ad una
vera e propria unità statale, non piu esclusivamente personale. Sembra perciò
non un caso che anche l'imperatore Adriano si sia recato a Nicopoli a chiedere
consigli al celebre saggio Epitteto (cfr. Spartiano, Vita Hadriani).Difficile è
dire se Dione di Prusa 1 in Bitinia, detto dall"' aurea bocca"
(crisostomo), sia stato uno stoico, un cinico, un platonico. Egli fu, senza
dubbio, un grande retore, il primo e, forse, il maggior rappresentante di
quella corrente che Filostrato di Lemno definirà neo-sofistica. Uomo di cul-
tura, aggiornato nelle varie correnti di pensiero del suo tempo, seppe, di
volta in volta, sfruttare i motivi piu vari e le piu varie tesi, in fun- zione
di un suo principio, che chiaramente traspare da tutte le sue Orazioni: la
cultura come elevazione morale, attraverso cui in un con- sapevole distacco
dalle "verità," -in una misura faticosamente raggiunta, e perciò in
una comprensione delle "ragioni" umane, determinare nella vita
sociale e nella stessa pratica di governo le norme riconosciute come virtu
nella vita privata: quella misura, appunto, che, di volta l Nato a Prosa, in
Bitinia, ricco e intelligente, colto in filosofia e in retorica, Dione, detto
per la sua eloquenza "crisostomo" (dall'aurea bocca), venne presto a
Roma. Esiliato da Roma, su decreto di Domiziano, proibitogli anche il soggiorno
in Bitinia, condusse fino al 97, morte di Domiziano, vita oscura e peregrina.
Reintegrato nei suoi diritti, Dione dapprima soggiornò nella sua patria, poi
tornò in Roma. Fu in rappono e contatto diretto con Traiano e con gli uomini
della sua eone, servendo come meglio poté gl'interessi di Prosa, ove piu e piu
volte si recò. Come risulta da una lettera di Plinio il Giovane a Traiano (ad
Traian), Dione era a Prosa. Poi ne sappiamo piu niente. Mori, probaoilmente,
cittadino romano, con il cognome di Cocceiano. Tutta la sua opera è raccolta in
un insieme di 80 orazioni (l.6yoL), comprendente discorsi realmente
pronunziati, trattati morali, filosofici, politici, in forma di discorsi. Fuori
della raccolta rimangono un'opera Sui Geti, una In favore di Omero contro
Plalone, e due scritti di critica: Contro i filosofi e A Musonio.
Particolarmente interes- santi sono le cosiddette orazioni diogeniche, le
quattro Sul regno, la XXXII (Agli Alessandrim), le due Tarsiche, l'Olimpica, la
Boristmica e l'Euboica. in volta, si concreta come cortesia e generosità,
benevolenza e perdono, rispetto per la verità e l'onestà (cfr. Sinclair, cit.,
p. 420). Discendente da una famiglia di elevata condizione, Dione, quando
ancora viveva a Prusa, partecipò alla vita politica del suo paese, usando la
sua eloquenza e la sua arte in aiuto dei propri amici (cfr. Oraz., 46, 8).. A
Roma, dove giunse ancora giovane, si legò di amicizia con gli uomini piu in
vista della città e, sembra, anche con l'imperatore Tito. Dato il suo modo di
intendere la cultura e il conseguente modo di intendere la politica e la vita
sociale come misura e intelligente equi- librio, si capisce, in principio, il
disprezzo di Dione, in Roma, per i "filosofi" cinici e stoici in
particolare, per il loro atteggiamento di opposizione nei confronti del
governo, ch'egli doveva vedere come rottura di quell'ideale vita sociale,
libera e spregiudicata, ch'egli, nella sua posizione ellenistica, riteneva di
potere attuare entro i termini delle antiche poleis greche. In realtà, Dione
non poteva sopportare, com'egli stesso dice, i cosiddetti cinici, quei
perdigiorno della filosofia, che si trovano ovunque nella Città ("ai
crocevia, negli angiporti, all'in- gresso dei templi, questi. uomini radunano e
traviano schiavi e marinai e altra simile gente, snocciolando scherzi e grande
varietà di pettegolezzi e di volgari arguzie. In tal modo essi non fanno
alcunché di bene, anzi un gran male": Oraz.). Ma quando, su decreto di
Domiziano, fu colpito, come tanti altri filosofi, accu- sati di complotto
contro lo Stato, dalla relegatio in perpetuum, e per quindici anni fino alla morte
di Domiziano dovette, in esilio, girovagare, senza potere neppure mettere piede
nella natia Bitinia (il p'restigio da lui goduto in Bitinia avrebbe potuto
essere pericoloso per Domiziano), travestendosi, assumendo falsi nomi, pur di
proseguire nel suo insegnamento e di tentare la pacificazione tra le città in
lotta tra di loro, e venne scambiato per quei tali "filosofi" ch'egli
aveva di- sprezzato e nei quali aveva veduto la peste per l'armonia delle
città, Dione nella sua lotta contro il tiranno, comprese il significato sia
del- l'opposizione cinica sia dell'opposizione stoica al governo, rendendosi
sempre meglio conto che proprio il sistema di governo tipo quello di Domiziano,
da Dione accomunato a quello di Nerone e·di Caligola, spezzava ogni possibilità
di vita politica e sociale. È stato detto che Dione si converti: allora alla
filosofia. In effetto Dione rimase quel grande avvocato ch'egli era.
Approfondile proprie idee circa le condizioni che possono permettere una vita
comune, sia tra privati cittadini, sia tra città e città, sia tra città e città
e il governo centrale - e in tal senso, entro i termini della nuova situazione
politico-sociale, Dione è davvero ravvicinabile ai sofisti antichi, - cercando
di determinare il significato 8 di cosa voglia dire vivere bene
(il bene) e cosa vivere male (il male), proponendosi conseguentemente il
vecchio problema se l'esilio sia dav- vero un male o se il male consista nel
non saper vivere razionalmente. E cosi egli si trovò sulla linea, sullo
axii!J.IX,delle discussioni proprie degli stoici e dei cinici suoi
contemporanei (cfr. Oraz.). Nella tormentosa strutturazione e
costituzionalizzazione dell'Im- pero, che soffriva, relativamente alla
fondazione del suo potere di fronte al Senato e al popolo di Roma, dell'equivoco
con cui, con Augusto, era nato, la grave esperienza di Domiziano portò i suoi
successori, già con Cocceio Nerva, piu sensibilmente con Traiano e con ADRIANO
(si veda), in maniera ancora piu approfondita con Antonino Pio e Marco Aurelio,
a definire - se non il grosso problema dell'ereditarietà o dell'elezione; in
questo periodo risoltosi con l'adozione, che fu, in fondo, un compromesso - la
fun- zione del principe e la funzione stessa dello Stato, in un assolutismo in
cui l'imperatore non è né un tiranno né un padrone, né un monarca di tipo
orientale, ma il supremo magistrato dell'imper9. Di qui, sia pure per ragioni
politiche, la sempre piu ampia provincializzazione, lo slargamento della
cittadinanza, l'apertura del Senato, che perde sempre di piu il suo potere di
classe di una Città-Stato, a uomini di origini diverse - per cui il Senato
assume sempre piu la forma di un organo consultivo, - fino alla logica
conseguenza della constitutio antoniniana con Caracalla. È stato detto che la
provincializzazione e quel che è stato spesso chiamato 'imbarbarimento'
dell'im- pero - non sono conseguenze di una poco avveduta politica di Adriano e
dei suoi successori, ma piuttosto il necessario effetto dell'inclusione in uno
stato unitario, sotto il governo dell'Urbs, di genti di varia cul- tura. Nel
vasto organismo dell'impero si è svolto uno scambio di ele- menti etnici e
culturali, nel quale le civiltà superiori hanno assimilato forme diverse di
cultura e nello stesso tempo si sono trapiantate in altre sedi, arricchendosi e
rinvigorendosi di nuove energie. Il processo iniziatosi nell'età ellenistica
prosegue su scala maggiore, favorito dal- l'unità politica e amministrativa. E
diventa quindi sempre meno soste- nibile il principio augusteo della preminenza
dell'Italia sulle provincie: già Cesare aveva decisamente impostato una
politica intesa· ad assimi- lare i sudditi ai cittadini. Piu conservatore - per
principio o per pru- denza politica - e meno aperto allo spirito cosmopolitico
ellenistico, Augusto ha svolto una politica contraria al livellamento; ma ha
pure avvertito che un ampliamento dell'impero avrebbe di necessità compro-
messo il sistema gerarchico da lui fondato. Non solo le vicende mili- tari, ma
già le esigenze della vita economica suggeriscono ai suoi suecessori una
diversa politica, qual era del resto segnata dagli ideali filosofici del tempo
e dai sempre piu intensi scambi culturali nell'àrn- bito dell'impero" (G.
Pugliese-Carratelli, La crisi dell'impero nell'età di Galliena, in "La
Parola del Passato”). Sotto questo aspetto, già con Traiano, sembra chiaro in
che senso gli imperatori del n secolo abbiano ascolato soprattutto le voci
dell'op- posizione stoica, che potevano dare loro le condizioni che ne
giustifi- cassero il potere. "La maggioranza di ·coloro che avevano
avversato il governo dei Flavii non erano ostili al principato in sé, ma il
loro atteggiamento nei riguardi di esso corrispondeva piuttosto a quello di
Tacito. Essi lo accettavano, ma desideravano che fosse il piu pos-sibil- mente
vicino alla ~atarJ..e:(at stoica e il piu possibilmente diverso dalla
tirannide, identificata con la tirannide militare di Caligola e di Nerone in
particolare e con quella di Domiziano. Con l'ascensione di Nerva e di Traiano
si concluse la pace tra la massa della popolazione dell'im- pero, e
specialmente le classi colte della borghesia cittadina, e il potere imperiale...
Ciò che avvenne fu un nuovo adattamento del potere im- periale alle condizioni
reali, non una riduzione di esso" (M. Rostovzev, Storia economica e
sociale dell'Impero romano, Firenze). Non fu, perciò, un caso che, poco dopo la
morte violenta di Do- miziano, Dione di Prusa sia stato reintegrato nei suoi
diritti civili e che, dopo aver soggiornato qualche tempo nella sua città, ove
par- tecipò attivamente alla vita politica di quella municipalità, sia
rientrato in Roma chiamatovi dall'imperatore Traiano, divenendo alla fine cit-
tadino romano e consigliere e propagandista delle idee politiche del-
l'imperatore, soprattutto nei paesi greco-orientali, dividendosi tra Roma e
Prusa.Dione, attentissimo alla situazione politica del suo tempo, si rese conto
che per rendere possibile la convivenza (d'altra parte necessaria) tra le
esigenze di libertà e di autonomia delle antiche "p6leis" greche (che
Dione sempre difese: cfr. le Orazicmi bitiniche) e la città di Roma, bisognava
che da un lato le città greche accettassero il potere di Roma e che, dall'altro
lato, Roma fondasse il suo impero, non sul potere personale e tirannico di una
città sulle altre, ma su di un potere capace di rendere uno lo Stato, in
un'armonia di "nazioni," mediante cui ciascuna si articoli all'altra,
a somiglianza dell'ordine co- smico, retto in unità per sua stessa natura da un
unico principio, ragion d'essere del tutto (e tale avrebbe dovuto essere, sia
pure per analogia, l'imperatore). Di qui il passo a prospettare come possibile
Stato, rispondente alla natura, e perciò vero e divino, la "politèia
regale" di tipo stoico, eiabaratasi tra la fine del 1 secolo a. C. e il 1
d. C., era breve e tale che poteva servire ai nuovi intenti politici e
giuridici di.Traiano. Padre e benefattore (1tcx-rljp xcxt e:ùe:pyé't"rjt;
), non padrone (8e:m6't"rjt; ) dei suoi governati, l'imperatore, scelto in
quanto uomo di ragione e perciò non dio, ma simile al dio supremo, ragione
d'essere del tutto, egli opera in accordo col Dio, assumendo il suo potere come
un dovere, in un'attività che è fatica (7tovot;) e non piacere (~8ov-lj),
realizzando in armonia i diversi compiti cui ciascuna città, ciascuna classe,
ciascun cittadino - che non va perciò ritenuto schiavo, ma libero - sono
chiamati, circondato da amici e consiglieri (il Senato), da uomini virtuosi,
che partecipino alla cura degli affari dello Stato (cfr. Sul regno, orazz.
1-3). Un "sapiens," un "filosofo" dovrebbe essere il vero
uomo di governo, personificazione della ragione vivente del tutto, ma poiché
ciò accade di rado, un sapiens sia almeno chi consiglia il principe (cfr.
Oraz.), a meno che - e sa- rebbe ideale - il principe non si circondi, per
legge e non a suo ar- bitrio, di un organismo permanente di filosofi,
costituenti un consiglio del principe (cfr. Or'az., 49, 7-9). Senza dubbio
Dione riprese il motivo del re filantropo, e non solo certe tesi stoiche, che
nella delineazione di uno Stato ideale egli poteva sostenere ispirarsi al
discorso platonico (l'unica costituzione perfetta, ove ragione e legge sono
tutt'uno, è la politèia degli dèi del cielo, in cui ciascuno fa bene Ciò che
gli compete e a modo suo, senza interferire nell'attività àltrui in una
reciproca collaborazione in funzione del tutto: cfr. Oraz., 36, Boristenica, ma
anche la concezione di sfondo, genericamente stoica, di cui abbiamo par- lato,
quale, ad esempio, appare dallo pseudo-aristotelico De mundo che Dione sembra
abbia avuto presente (cfr. Sinclair, cit., p. 422): un dio unico, ragion
d'essere o natura che ha la potenza (86vcxJ.Lr.ç) di costituire il tutto in un
cosmo, in un ordine, avendo nell'una mano sole, luna, stelle, e, nell'altra,
aria, acqua, terra e fuoco, ponerìdo equilibrio tra le forze contrastanti, si
che ciascuna cosa attui ciò che le è proprio, in una equa distribuzione delle
parti (laoJ.LoLpt~), e, per ciò stesso, in un equo governo (6J.L6voL~),
specchio di quello che, dunque, ha da essere un impero universale, retto da
un'unica potenza razionale. Tale, per analogia - e che di analogia si tratti lo
dichiara lo stesso Dione: cfr. Oraz., 36, - deve essere lo Stato degli uomini
ov~ ~imile sia l'im- peratore a quella che nell'universo è la divinità, e ove
ciascuno - e in ciò tutti sono uguali - sia libero di attuare pienamente ciò
che gli compete, in una reciproca collaborazione, in funzione del tutto, che
non sarebbe senza la giusta distribuzione. delle parti, s{ che appunto l'impero
somigli al cosmo, sia un'eucosmia. •Questa," racconta ai suoi concittadini
Dione, riferendo un suo discorso ai Boristeni, abitanti 11 presso
il Mar Morto, "questa è la teoria dei filosofi. Essa indica una buona e
amichevole comunità di dèi e di uomini; essa chiama a partecipare alla legislazione
e alla cittadinanza non tutte indiscriminata- mente le creature viventi, ma
coloro che posseggono ragione e intel- letto. Essa offre un'organizzazione
sociale di gran lunga migliore e piu giusta di quella stabilita dagli Spartani,
secondo la quale non è permesso agli Iloti diventare cittadini di Sparta:
naturale motivo per cui essi sono sempre pronti a ribellarsi" (Oraz.).
Tutto ciò non è nuovo. La novità è che tutto ciò divenga ora la base su cui si
viene fondando ideologicamente l'impero da Traiano a Marco Aurelio, e che ciò
abbia voluto e approva.to Traiano. E questo risulta non solo dalle Orazioni l e
11 di Dione (non a caso egli scri- vendo intorno al104, pur non nominando
Traiano, dice: "Della divina e benedetta costituzione che ora vige,
conviene che io parli con il mas- simo rispetto"), ma anche dal fatto che
queste orazioni, dette dinanzi a Traiano, sembra che per ordine di Traiano
siano state piu volte ripetute da Dione nelle maggiori città dell'Oriente, e
che in gran parte esse coincidano con il Panegirico di Traiano scritto da
Plinio; in quegli stessi anni circa. Nel mutamento di indirizw governativo, da
parte imperiale, in un'adeguazione alle reali esigenze soprattutto delle ZQOe
greco-orien- tali, e in un venire incontro all'opposizione, ch'era poi un
rafforza- mento del potere imperiale, nella trasformazione dell'Impero in Stato
unitaiio e in una sempre maggiore esautorazione del Senato, che non è piu il
Senato-classe, quale poteva essere ancora al tempo di Augusto, Dione Crisostomo
ebbe, certo, non poca importanza. 'E la sua impor- tanza sta soprattutto
nell'avere, riprendendo motivi sparsi, coordinato quei motivi e delineato il
tipo di Stato upitario e universale, che se da un lato poteva servire alla
politica di Roma, dall'altro lato salvava certe autonomie e libertà dei paesi
soggetti, dando, ad un tempo, un significato e un fondamento giuridico al
potere e alla figura dell'Impe- ratore. Come il divino regge il tutto in unità,
secondo legge, per cui re è stato detto il tutto (lo si personifichi in Zeus, o
sia chia- mato Uno), ché tutto, secondo ragione e per sua stessa natura,
distri- buisce come è bene che sia, cosi uno è l'imperatore, reggitore, che
tutto distribuisce, secondo legge, come è bene che sia, non despota privato,
ma, egli incarnazione della stessa ragion d'essere dell'impero, non uomo
privato, ma egli stesso Io Stato, per il quale deve sacrificare i propri
interessi individuali, per cui la vita dell'imperatore ed ogni sua azione è
fatica e dovere. Tutto questo, certo, può suonare assai retorico, ma fu questa,
senza dubbio, la linea su cui si posero gli imperatori da Traiano ad Adriano,
da Antonino Pio a Marco Aurelio. E ciò risulta non solo dal Pan~girico di
Plinio, ma anche, sulla via indicata da Dione, dalla celebre Orazion~ ai Romani
di Elio Aristide (originario della Misia), che, due ger.erazioni piu t:r'rdi,
non scrive piu dell'imperatore regnante, ma abilmente cerca di mostrare il
valore di tutto il sistema politico di Roma, oramai affer- matosi, che concilia
il prinCipio della Città-Stato classica con il prin- cipio dell'imperialismo.
"Vostra scoperta (~~pov dlp1J(J.Ct) è stato il sistema politico
dell'impero" (A Roma); "Tutti coloro che vivono sotto il vostro
impero, e con ciò io intendo l'intero mondo ('quello che era noto come il
confine della terra, quello stesso è ora semplicemente il muro del vostro
giardino': 26), voi li avete divisi in due gruppi: i governanti e i governati.
Tutti coloro, in qualsiasi località, che sono piu colti, di migliore famiglia,
piu influenti, voi li avete fatti vostri pari per cittadinanza e perfino per
parentela, e gli altri li avete assog- gettati a loro. Né.il mare né alcuna
vasta distesa di terra possono impe- dire a uno di diventare cittadino romano;
nessuna distinzione c'è in questo tra Europa e Asia; tutto è alla portata di
tutti. Nessuno che sia idoneo a una carica e in cui si possa avere fiducia è
straniero. Si è stabilita una universale democrazia mondiale sotto un unico e
ottimo dominatore e organizzatore, e tutti confluiscono come a un comune luogo
di raduno cittadino nel venire a ottenere soddisfazione alle loro varie
richieste" (A Roma). Tutto ciò proveniva da parte imperiale e
rappresentava la propa- ganda dell'Impero, in una trasformazione dello Stato
delineatosi con Augusto, in uno Stato imperialistico. E non pochi, certo,
furono coloro che seguitarono a vedere in Roma la conquistatrice (fa dire
Tacito a Galcaco, nella Vita di Agricola: questi romani, questi "raptores
orbis," dove fanno piazza pulita, "ubi solitudinem faciunt,"
questa chiamano pace, "pacem appellant") e molti furono gli stessi
romani che pur riconoscendo la "missione del loro impero nella diffusione
del buon ordine, sentivano duramente quanto profondo fosse il divario tra
quanto proclamavano di fare ~ quanto facevano in realtà" (H. Fuchs, Der
geistig~ Widerstand g~g~n Rom, Berlino; cfr. anche Sinclair, rit.). Ciò non
toglie che la nuova politica impe- riale, abilmente propagandata, se da un lato
ha subito l'influenza di una certa concezione, anche nel modo di vita e di
condotta degli impe- ratori, che - per politica· o per intima convinzione -
hanno saputo giuocare la propria parte (pensiamo ad Adriano, a Antonino Pio e
in particolare a Marco Aurelio), abbia, dall'altro lato, fortemente influen-
zato alcuni aspetti della stessa cultura quale" si viene configurando nel
u secolo. Entro quest'àmbito, se ci rendiamo conto del significato politico
della cessazione da parte degli imperatori delle persecuzioni.nei con- fronti
dei filosofi, sembra anche chiaro perché gli imperatori si siano adoperati per
aprire, sia in Roma sia nei maggiori centri culturali del- l'Impero, scuole
pubbliche, ove i maestri erano stipendiati dallo Stato. Già Vespasiano aveva,
per primo, istituito, in Roma, due cattedre "ufficiali, una di retorica
latina [il cui primo titolare fu Quintiliano], l'altra di retorica greca, alle
quali era annesso uno stipendio annuale di centomila sesterzi, prelevati dal
fisco imperiale" (Svetonio, Vesp., 18); Adriano, su consiglio della madre
Plotina, che sembra avesse simpatie per l'epicureismo, dette facilitazioni
legali alla comunità epicurea di Atene (lscr. Gr.,); Marco Aurelio, infine,
istitu(ad Atene con sovvenzioni prelevate dal fisco imperiale, cinque cattedre:
una di retorica, una di filosofia platonica, una di filosofia stoica, una di
filo- sofia aristotelica e una di filosofia epicurea (lo stipendio dei filosofi
era di sessantamila sesterzi all'anno, quello del retore di quaranta- mila).
Dal terzo secolo in poi, ·il controllo da parte imperiale sulle scuole, non
solo su quelle istituite dallo Stato, ma anche su quelle municipali, si fece
sempre piu pressante. Con Giuliano "questo inter- vento fin(col divenire
regola generale; egli decide che nessuno potrà insegnare, se non dopo essere
stato approvato da un decreto emesso dal consiglio municipale e debitamente
ratificato dall'autorità dell'impera- tore (Cod. Theodos.); il quale si
assumeva cos(un diritto di vigilanza sull'insegnamento in tutto l'Impero... La
decisione si colle- gava a tutta una politica religiosa; ma, privata del suo
spirito anti- cristiano, conservò il suo vigore sotto i successori di Giuliano,
come testimonia la sua inserzione nel Codice Teodosiano; soltanto con Giu-
stiniano sarà soppressa, come inutile, l'esigenza della sanzione impe- riale -
Cod. Just., 10, 537" (Marrou, cit., p. 403). - Intanto, anche per la
maggiore possi- bilità concessa alle varie tendenze, sia pure nell'istituzione
di cattedre che avevano il compito di preparare, mediante la diffusione della
cul- tura sia in Occidente che in Oriente, i futuri funzionari dell'Impero, in
una comune concezione e fede in un ordine universale - comunque poi si
ritenesse che a quella visione si potesse giungere, - si è cercato, per un
verso o per l'altro, recuperando certe tradizioni piuttosto che altre - ove non
vanno dimenticati i luoghi di origine e la formazione dei singoli autori, - di
sistemare in unità motivi molteplici e diversi, esperienze e concezioni e
culture. greche, orientali, romane, in funzione di una cultura, anch'essa davvero
imperiale. Plutarco di Cheronea Un'analisi delle opere di Plutarco di
Cheronea,2 in Beozia, volte contro gli stoici (Le contraddizioni degli stoici,
Sulle nozioni comuni: contro gli stoici, Gli stoici si espri- 2 Nato a
Cheronea, in Beozia, nel 46 circa, da una facoltosa e severa famiglia,
Plutarco, compiuti i primi studi in patria, si recò ad Atene dove ebbe a
maestro Ammonio di Alessandria, vissuto sotto Nerone e Vespasiano, che lo avviò
al plato- nismo, all'aristotelismo e, sembra, all'interesse per i misteri
egiziani e greci. Nella sua piena maturità Plutarco farà di Ammonio
l'interlocutore principale della E di Delfi, riferendo una conversazione
avvenuta l'anno in cui Nerone venne in Grecia (E di Del/i,). Dopo il suo
soggiorno ad Atene, Plutarco fu ad Alessandria, in Asia, certo piu volte a
Roma, dove entrò in contatto con le maggiori personalità della poli- tica e
della cultura e dove fu particolarmente benvoluto dall'impe- ratore Vespasiano.
A lui si legarono di amicizia e in parte ne seguirono la concezione, Q. Soccio
Senecione, console, che molto contribui alla vittoria di Traiano sui Daci (a
lui Plutarco dedicò le Vite parallele, il De profectibus in virtute, le
Quaestiones conviviales); C. Minucio Fundano, senatore, console proconsole
d'Asia al tempo di Adriano, uomo di cultura, con particolari simpatie per il
platonismo e il pitagorismo (Piutarco ne fece il maggiore interlocutore del De
cohibenda ira); Favorino d'Arles (cfr. dopo), a cui P1utarco dedicò il De primo
frigido, facendolo inoltre interlocutore delle Quaestiones conviviales. Come
suo scolaro Plutarco ricorda anche un certo Lucio Tirreno pitagorico. Rientrato
presto in patria visse tra Cheronea e Delfi. Ebbe missioni politiche, fu
arconte di Cheronea, e dal 95 in poi sacerdote delfico. Fu nominato cittadino
onorario di Atene. Celebre, Plutarco mori nel 125 circa. Il catalogo di
Lamprias (detto cosi perché attribuito al figlio di Plutarco, il cui nome, come
quello del nonno era Lamprias; in realtà il catalogo ~ del m-rv secolo) enumera
200 opere di lui: molte di esse non sono autentiche, mentre altre, riconosciute
auten- tiche non vi sono comprese. Con il tempo le opere di Plutarco sono state
divise in due gruppi: Le Vite parallele (46 biografie accoppiate di un greco e
di un romano, piu 4 isolate); Opere morali (vi ~ raccolto, impropriamente,
tutto il resto della produzione di Plutarco, dagli scritti a carattere
filosofico morale a quelli filosofico religiosi, pole- mici, critici,
filologici, pedagogici). Essendo impossibile enumerare gli scritti contenuti
nelle Opere morali in ordine cronologico, seguiamo qui l'ordine tradizionale,
mettendo tra parentesi le opere di cui si discute l'autenticità o che sono
certamente apocrife e che vanno oggi sotto la denominazione di scritti dello
Pseudo Plutarco: De educatione puerorum libellus, De audiendis poetis, De recta
audienda ratione, De adulatore et amico, De profectibus in virtute, De
inimicorum utilitate, De amicorum multitudine, De fortuna, De virtute et vitio,
Consolatio ad Apol/onium, De sanitate praecepta, Coniugalia praecepta, Septem
sapientium convivium, De superstitione, Regum et imperatorum apophthegmata,
Apophthegmata laconica, Antiqua instituta laconica, Lacaenarum apophthegmata,
De mulierum virtutibus, Quaestiones romanae, Quaestiones graecae, (Collecta
parallela graeca et romana), De fortuna Romanorum, De Ale:randri Magni fortuna
aut virtute, De gloria Atheniensium, De lside et Osiride, De E delphico, De
Pythiae oracu/is, De defectu oraculorum, Virtutem noceri poue, De virtute morali,
De cohibenda ira, De tranquillitate animi, De fraterno amore, De amore probis,
Animine an corporis affectiones sint peiores, An vitiositas ad infelieitatem,
sulficiat, De garrulitate, De curiositate, De cupiditate divitiarum, De vitioso
pudore, De invidia et odio, De se ipsum citra invidiam laudando, De sera
numinis vindit'ta, De fato, De genio SOt"ratis, De e:rilio, Consolatio ad
u:rorem, Convivalium disputationum libri not'em, Amatorius liber, Amatoriae
narrationes, Cum principibus philosophandum esse, A d prineipem ineru- ditt~m,
Anseni Res pub lit ' agerenda sit, Pra e u p t agerenda e Rei publicae, De
uni11s in Repubblit'a dominatione, populari statu et paut"orum imperio, De
vitando aere alieno, (Deum oratorum vitae), De comparatione Aristophanis et
Menandri Epitome, De 15 mono in maniera piu assurda dei poat) e
contro gli epicurei (Contro Colote, Non potersi t1it1ere gioiosamente secondo
Epicuro, Del t1it1ere nascosto), chiarisce, meglio di una lettura diretta e
isolata delle sue opere piu celebri, il significato del platonismo e del
pitagorismo di Plutarco, la sua interpretazione di un aspetto di Platone,
formatasi entro i termini di una precisa atmosfera culturale. Troppo spesso una
lettura isolata, e ritagliata da tutto un contesto, delle opere piu note di
Plutarco ha dato luogo a retoriche ricostruzioni di un Plutarco che rivive in
un ultimo canto del cigno il significato piu profondo del misti- cismo e della
teologia dell'antica Grecia, in una consapevole malinconia per la sua prossima
fine e per cui non a caso ci si sofferma sulla famosa narrazione plutarchea ove
viene drammaticamente annunciato: Il gran dio Pan è morto! (De dt:fectu
oraculorum). I due gruppi di opere polemiche di Plutarco nei confronti dello
stoicismo e dell'epicureismo sembra siano state composte al tempo della prima
formazione di lui ad Atene, sotto la guida di Ammonio di Ales- sandria, maestro
all'Accademia, al tempo di ~erone (di Ammonio non altro sappiamo se non ciò che
dice lo stesso Plutarco, cioè ch'egli dava di Platone un'interpretazione molto
"plutarchea,"· in funzione di una coerente costruzione religiosa). È
già questo un dato assai indicativo e i due gruppi di opere vanno storicamente
esaminati non solo per ricavarne una serie di preziòsissime testimonianze sul
pensiero stoico e su testi e concezioni di singoli stoici, s{ come sul pensiero
epicureo, ma anche perché, attraverso esse, da un lato si rileva un metodo di
indagine e di discussione e, dall'altro lato, quale fosse l'intenzione e quali
fossero alcune soluzioni di Plutarco. A tali soluzioni, anzi, egli giunse
attraverso la di~ussione delle varie testi stoiche cd epicuree, di cui, volta a
volta, cerca mostrare la contraddittorietà interna c perciò stesso la non
vcracità c la necessità di assumere altra posizione, vera perché non
contraddittoria, che è per lui quella platonico-pitagorica. Il che, per altro,
non 'gl'impedisce di recuperare qùci motivi stoici cd epicurei cd aristotelici
che non sembrano in contraddizione nell'àmbito di un platonismo, interpretato
in chiave religiosa c tale da spiegare esperienze c credenze religiose di
origine orientale (egiziana e iranica), Herodoli mtdipilale, Quaestiones
tlllhlrales, De facie in orbe lutu~e, De primo frigido, Aqu " " ipis
sit ulilior, De solenia ammalium, Brwu ralione fili, De carnium esu, Plt#onicae
quaesliones, De animae procrealiotte in Timaeo Plt#onis, De re/1f'BfUUIIÌU
stoicorum, Stoicos absurdiora poni~ dicere, De commumbw notims advvnu Stoicos,
Non posse suviter vivi secundum Epiewri decreta, Advernu Colotna, De lt#enta
vivendo, De musica. Alquanti frammenti di opere perdute sono pervenuti (cfr. in
vol. Vll Moralia, ed. Bernardakis, Lipsia). Certamente apocrifi sono
l'lruiÌif4tio Traiam, il De fluviis, il De vita et poesia Homm e il De placitis
philosophorum libri quinque. riconducendole ad una VISione unitaria, nei termini
della patria religione delfica, della paidèia greca, per riprendere le parole
dell'Epino- mide platonica, a proposito dell'assunzione nel sistema platonico
delle scoperte in campo astronomico degli studiosi di oriente. Senza dubbio
Plutarco ignora le posizioni stoiche piu recenti e il loro significato
politico, mentre nella sua polemica si serve particolar- mente delle piu note
tesi stoiche ed epicuree, divenute, ormai, entro l'àmbito delle scuole di
Atene, t6poi di esercitazioni, discussi secondo il metodo proprio della media e
della nuova Accademia (sappiamo, per altro, che nell'Accademia si erano
compilate antologie di passi stoici, raccolti come testi di discussioni: ma,
certo, come risulta da altre opere di lui, Plutarco conosceva direttamente i
testi dei grandi Stoici'). Si tralascino pure le piu minute discussioni
attraverso cui Plutarco vuoi dimostrare che ogni tesi stoica è in
contraddizione con se stessa e che perçiò è.assurda, contro il senso comune,
pur se pronunciata in nome delle "comuni nozioni," che assurda, ad
esempio, è la tesi stoica che una è la realtà e ad un tempo molteplice, che
l'Uno dio, spirito vivente, è ad un tempo ciò che dà individualità e qualità a
tutte le cose, per cui il divino non è ed è tutte le cose, onde dio è ad un
tempo immor- tale in quanto dio e mortale in quanto cose, che tutte si
distrugge- ranno nella conflagrazione universale e cosi via; si tralasci anche
la discussione antiepicurea, che si fonda sul vecchio luogo comune che
inaccettabile è la tesi epicurea perché spiega la nascita della realtà da un
atto assolutamente libero, cioè non razionale e perciò inspiegabile; ad ogni
modo ciò che piu colpisce della confutazione plutarchea, in particolar modo nei
confronti degli stoici, è ch'egli, accantonando l'aspetto piu fine dello
stoicismo, cioè il motivo del t6nos che su di un piano strettamente logico
risolve in unità la dialetticità della natura - e, per ciò stesso, non tenendo
conto che su di un piano altrettanto razionale, l'altra soluzione possibile era
l'ipotesi epicurea - vede come contraddittorio il tentativo stoico di mediare
nell'unità della natura gli aspetti molteplici della natura stessa, là
risolvendo il bene e il male, che io realtà non sono che errori di prospettiva,
gli istinti e la ragione, come ragion d'essere degli istinti stessi. Ciò che
Plutarco viene accan- tonando, e che gli scettici mettono, invece, in primo
piano, è che le due concezioni, l'epicurea (effettivamente antiplatonica,
antiaristotelica e antistoica) e la stoica (non a caso, dopo l'ipotesi di
Cleante, passibile d'essere interpretata come un'interpretazione naturalistica
della conce- zione platonica, o come un approfondimento dd!'Aristotele
interprete di Platone) si potevano considerare, in realtà, come le due tesi piu
convincenti, l'una e l'altra razionali, anche se su due piani diversi. Di qui
si poteva giuocare tra le due posizioni (la platonico-aristotelico-stoica e la
epicurea) contrapponendole tra di loro, contrapponendo -come dirà Sesto
Empirico: Ipotiposi Pirr., I, 8..:.... ragioni a ragioni, o in una sospensione
del giudizio sul piano metafisico, o in una assunzione del probabile in
funzione retorico-politica. Plutarco, invece, punta sulla presunta
contraddittorietà di mediare i due piani, senza con ciò annullare la divinità
una nella molteplicità, e senza fare della molteplicità altrettanti momenti-
dell'unica forza divina, riducendosi cosf il divino a fisicità e a tempo, e
risolvendo con ciò il male nel bene, o facendo sf che il male altro non sia che
un errore logico e che tutto avvenga e sia come deve avvenire e come deve
essere. Egli cosf ritiene di poter risolvere la questione, mantenendo la
dualità, in una interpretazione - attraverso il mistero egiziano di Osiride-lside-Tifone
e il dualismo zoroastriano, intesi allegoricamente di certi testi di Platone,
non a caso i piu equivoci del Timeo e alcuni delle Leggi su l'anima buona e
l'anima malvagia, che ancora oggi sono stati avvici- nati al dualismo iranico.
Sincero o meno, certo si è che Plutarco ha teso ad assumere entro i termini dell'antica
paidèia religiosa dell'ari- stocratico Apollo Delfico i motivi e le esperienze
religiose orientali (egi- ziane e iraniche), rimaste, se non ignote
(tutt'altro!), non risolte in una concezione pacificante. Plutarco, cosf,
sfruttando le prime pagin_e del Timeo sull'antica sacerdotale sapienza
egiziana, delle Leggi sulla dualità tra principio del bene e principio del
male, dell'Epinomide sulla ripresa delle scoperte astronomiche dei barbari, ìn
funzione della reli- gione delfica, riprende e lancia la leggenda del Platone
egiziano e del Platone orientale, che avrebbe risolto in termini razionali gli
aspetti piu oscuri della religiosità, donde, per altro, attraverso Platone, l'in-
terpretazione simbolico-allegorica dei riti e dei culti dei misteri egi- ziani,
in un continuo riferimento ai misteri e alla mitologia dei greci (cfr.
particolarmente De Iside), per cui potev~ servire anche gràn parte della
simbolica dei numeri di origine pitagorico-alessandrina, e, nel-
l'interpretazione del significato degli dèi e dei loro nomi, l'allegorismo di
origine stoica. Bastino alcuni esempi: Gli stoici asseriscono che lo spirito
che feconda e alimenta è Dioniso, quello che percuote e distrugge è Heracles,
quello che riceve è Ammon, quello che pervade la terra e i suoi frutti è
Demetra e Kore, quello che pervade il mare è Posidone. Gli Egizi, combinando
con queste interpreta- zioni naturalistiche taluni elementi dottrinali derivati
dall'astronomia, cre- dono che Tifone significhi il mondo solare, e Osiride
quello lunare... Al diciassette del mese cade la morte di Osiride, secondo il
mito egi- ziano, cioè quando il plenilunio si rivela nella massima compiutezza.
Perciò i Pitagorici chiamano questo giorno "barriera" e, in generale,
hanno un 18 aborrimento estremo per questo numero, perché il
numero diciassette si frappone tra il sedici, quadrato, e il diciotto,
rettangolo, oblungo non equi- latero - alle quali figure soltanto accade di
avere i perimetri uguali in valore numerico alle superfici ~ pone una barriera
tra l'uno e l'altro, e li distingue tra loro e, precisamente, rompe la
proporzione di uno e un ottavo, diviso come è in disuguali intervalli... I
Pitagorici esprimono le loro cate- gorie con una grande varietà di termini: per
essi il Bene è l'Uno, il De- terminato, il Costante, il Diritto, l'Impari, il
Quadrato, l'Uguale, il Destro, il Luminoso; il cattivo invecè è la Diade,
l'Indefinito, il Movimento, il Curvo, il Pari, l'Oblungo, il Disuguale, il
Sinistro, l'Oscuro. - Inoltre i Pitagorici adornarono anche numeri e figure con
denominazioni di dèi. Chiamarono, i~fatti, il triangolo equilatero col nome di
Atena, nata dal vertice [capo di Zeus], e Tritogenia, poiché esso è diviso da
tre perpendicolari tirate dai suoi angoli. Il numero uno lo chiamano Apollo...
Il due lo chiamano contesa e audacia; il tre giustizia... La cosiddetta
"tetraktys," cioè il trentasei, costi- tuisce, com'è fama diffusa, il
"piu alto giuramento" e ha ricevuto il nome di "mondo,"
poiché è formato dai primi quattro numeri pari e dai primi quattro numeri
dispari sommati insieme... (De lside). Sotto questo aspetto, nel tentativo di
conciliare in una sola reli- gione delfico--apollinea la religione ellenica con
certi aspetti delle reli- gioni di oriente (non va, per altro, scordato che
Plutarco dal 95 circa in poi fu, in Cheronea, sacerdote a vita del tempio
dell'Apollo delfico e che certi tentativi di pacificazioni religiose in una
coinè potevano, tra l'altro, essere anche un servizio reso al nuovo indirizzo
della poli- tica imperiale: indicativo è che Plutarco sia stato onorato da
impera- tori quali Traiano e Adriano), sembra che Plutarco abbia, in funzione
di tale accordo, ricostruito e allegoricamente interpretato da un lato la
religione egiziana di lside e Osiride (De lside), dall'altro lato abbia cercato
di mostrare il significato riposto dell'Apollo delfico (De E apud Delphos),
degli oracoli (De Pythiae oraculis; De d4ectu oraculorum), ed abbia, in tale
chiave, interpretato, come dicevamo, certi testi del Timeo (De animae
procreatione in Timaeo) e delle Leggi, accanto alla ricostruzione di un Platone
sacerdote-filosofo della religione delfica. Sembra ora non poco indicativo, a
testimonianza di quanto sopra abbiamo detto, sottolineare il ·seguente passo
del De lside: "Questo nostro trattato è inteso a conciliare appunto la
credenza religiosa degli Egizi con questa nostra filosofia." (37la).
Plutarco ha ricostruito il mito egiziano di Osiride-Iside-Tifone, insistendo
nell'affermazione che il mito egizio va assunto in maniera
allegorico-simbolica, si come gli aspetti cultuali e rituali in cui sono
impegnati i suoi sacerdoti. 19 Iside è dea eletta per sapienza e
davvero amante di sapienza - filosofa, - come il nome stesso vuole perfino
indicare, dea alla quale intelligenza e conoscenza si addicono nel piu alto
grado. A dir vero, lside è parola ellenica e parimente Tifone; costui è nemico
alla dea, gonfio e borioso, come il ·suo nome stesso esprime, per ignoranza e
illwione; riduce a brandelli e disperde la sacra scrittura, che la dea invece
raccoglie e ricompone e affida agli ini- ziati, poiché il processo di
divinizzazione, che avviene mediante un tenore di vita costantemente saggio...
avvezza a sopportare gli inflessibili rigori dei riti liturgici nel tempio.
Finalità di tali liturgie è la conoscenza di Colui che è Primo, è signore, è
realtà intelligibile, di colui che la dea ci invita a cercare, poiché egli è
accanto a lei, in intima comunione. Il nome stesso del tempio promette
apertamente conoscenza e intelligenza dell'essere; ri· sponde al nome di
Iseion, a indicare che noi sapremo la verità dell'essere allorché ci
accosteremo, con atteggiamento di ragione e di pietà, ai riti sacri della dea. Allorché,
dunque, ascolterai i miti che gli Egizi narrano sugli dèi - vagabondaggi,
smembramenti e tante altre vi· cende del genere - tu, o Clea [sacerdotessa a
Delfi, cui Plutarco dedica il De lside; a Clea è dedicato anche il Mulierum
virtutes], devi ricordare quanto siamo venuti dicendo e non credere che il
fatto cos{ raccontato sia realmente avvenuto nella maniera in cui viene
tramandato. Tali, a un di presso, sono i punti capitali del mito... Ecco, qui
c'è qualcosa che non ho bisogno di menzionarti: se gli Egiziani hannò tali
opinioni e rife- riscono tali racconti su ciò che per natura è bea~o e
incorruttibile (in accordo con il quale dev'essere conformato il nostro
concetto del divino), nella con· vinzione che si tratti di fatti e di eventi
realmente accaduti, oh, allora "bisognerebbe davvero sputare e tergersi la
bocca" [in Trag. graec. fragm.], per usare la parola di Eschilo. E, in
verità, tu stessa detesti tali per· sone che serbano ancora opinioni cosi
abnormi e barbariche sugli dèi. Che però tali miti non somiglino affatto a
quelle vaghe fantasticherie e.a quelle vane favole, quali gli scrittori di
versi e di prosa traggono da se stessi a guisa di ragni, tessendo e stendendo
le loro malferme primizie letterarie, e che al contrario serrino in sé
esposizione di dubbi e di esperienze,.tu lo capirai da te stessa. Proprio come
gli scienziati dicono che l'iride risulta dal fenomeno di riBessione del sole e
deve le sue varie gradazioni di colore al nostro sguardo, che si ritira dal
sole e si volge alla nube, cos{, parimenti, il mito, per noi di quaggiu, non è
altro che riBesso di una verità superiore, che torce il pensiero umano in una
direzione sensibile. Tanto accennano velatamente i loro sacrifici. Il mito
egizio, perciò, va compreso come contrapposizione tra il divino principio
dell'ordine e del bene (nella coppia Osiride-lside), l'Apollo delfico, e il
principio del male e del disordine (Tifone), l'ele- mento titanico, e in una
salvazione dell'anima allorché essa, vincendo il male, e conoscendo il divino,
come Iside raccoglie in sé e conserva l'unità dispersa del Dio, in
un'aspirazione da parte del sacerdote d'Iside 20 (il filosofo)
alla sapienza di Iside e al suo amor femminile ad essere posseduta dal Dio
(Osiride) e al suo desiderio di raccogliere in unità Osiride spezzato e
frantumato dal male. Plutarco, quindi, dopo avere avvicinato tale significato
del mito egiziano alla mitologia iranico- caldea e a certi testi - distaccati
dai loro contesti - della filosofia greca, particolarmente si rifà a due passi di
Platone, la pagina 35 a del Timeo e la pagina 896d delle Leggi: Platone, in piu
luoghi, quasi nascondendo e velando il suo pensiero, chiama i due principi
antagonistici "Identità" e "Alterità" [Timeo]; ma nelle
Leggi, allorché era già molto avanti negli anni, si espresse non piu per enimmi
e per simboli, ma concretamente, con termini precisi, affermando che il mondo
non è mosso in virtu di una sola anima, ma, pro- babilmente, ad opera di piu
anime e, in tutti i casi, da non meno di due: delle quali una è quella che produce
il bene, e l'altra, antagonista alla prima, è artefice di tutto ciò che è
t:ontrario; egli lascia, altresf, sussistere anche una terza, che è una natura
in certo senso intermedia, la quale non è priva di anima, di ragione, di moto
spontaneo, come alcuni credono, ma dipende ed è sospesa ad entrambe, e aspira
all'anima migliore, perennemente, e la brama e la persegue. Dimostrerà tutto
questo il seguito del nostro trattato, inteso a conciliare appunto la credenza
religiosa (teologia) degli Egizi con questa nostra filosofia. t un fatto che il
divenire e la composizione di questo nostro universo risultano dalla mescolanza
di forze antagonistiéhe, che non sono, però, equi- librate esattamente,· perché
la prevalenza appartiene alla forza del bene; non è, tuttavia, ammissibile che
la torza del male perisca del tutto, dal momento che essa è, in gran parte,
innata nel corpo del mondo, e, pure in gran parte, nell'anima dell'universo, in
un duello perenne con la potenza del bene. Ebbene, nell'anima intelligenza e ragione,
vale a dire ciò che fa da guida e signoreggia su tutto quanto si ha di meglio,
si identifica con Osiride. Cosf nella terra, nel vento, nell'acqua, nel cielo,
negli astri, ciò che è ordinato, stabilito, sano, come si rivela attraverso le
stagioni, le temperature, e i cieli, tutto questo è emanazione di Osiride e
immagine riBessa di lui. Tifone, per contro, è la parte dell'anima soggetta a
passioni, è l'elemento titanico, e irra- zionale e volubile; ed è la parte
dell'elemento corporeo che è mortale e mor- bosa e torbida, come si rivela
attraverso le cattive stagioni e le intemperie e gli oscuramenti di sole e le
scomparse di luna; cos{ si manifestano le esplo- sioni e le turbolenti rivolte
di Tifone. Tutto ciò è espresso altres{ dal nome con cui chiamano Tifone: Seth,
che significa: ciò che tiranneggia, ciò che violenta. Se, dunque, secondo
Plutarco t. ripugnante alla ragione risolvere tutta la molteplicità nell'unità
del principio attivo che implica una pas- sività su cui operare, la quale
passività deve perciò essere senza forma (materia), per cui, alla fine, si nega
sia il divino principio sia la realtà 21 molteplice, ché, pres1 m
sé, vengono a non essere piu né il pnnc1p10 attivo e qualificante né l'informe
pura quantità; e se altrettanto ripu- gnante è l'ipotesi epicurea che spiega la
nascita degli infiniti mondi, l'esistere, mediante un principio inspiegabile,
irrazionale; l'unica pos- sibilità è porre a fondamento del tutto da un lato si
un principio attivo, l'essere uno, come condizione della pensabilità del reale,
ma dall'altro lato anche una materia che non sia senza forma, poiché altrimenti
essa sarebbe nulla e lo stesso dio sarebbe perciò causa di nulla, oppure dando
egli forma e qualità alle cose che sono, tra cui è anche il male, dio, per
definizione essere e perfezione, sarebbe causa del male. In verità, le origini
dell'universo non vanno poste nei C<?rpi inanimati, come vogliono Democrito
ed Epicuro. E neppure fanno da artefice di una materia non qualificata e non
differenziata, come vogliono gli stoici, un'unica ragione e un'unica
provvidenza superna, esercitante il dominio su tutte le creature. Fatto sta che
è impossibile che qualcosa cattiva, per piccola che sia, entri nell'esistenza,
là dove Dio è causa di tutto; ed è ugualmente impossibile che qualcosa di
buono, là dove Dio è causa di nulla... Di qui, ancora, questa antichissima
sentenza, che da teologi e legislatori trapassa in poeti e filosofi, senza che
se ne sappia la prima fonte; essa ha con sé una fede ferma e indelebile e non solo
nella storia e nelle tradizioni, si anche nei riti e nei sacrifici, diffusa
dappertutto tra i b:rrbari e tra i Greci: che, cioè, l'universo non è già
librato, per sola virtU meccanica, di per se stesso, senza un intel- letto,
senza una ragione, senza un pilota; né poi v'è una sola ragione che domina e
regge, per cosi dire, con timone e con docili redini. No. Al con- trario, la
natura ci offre tante esperienze, e tutte miste di mali e di beni, o, meglio,
essa in una parola, non ci dà nulla, quaggiu, che sia "puro"; né,
d'altra parte, c'è un custode di due grandi vasi che, alla maniera di una
dispensiera, distribuisca a noi i nostri scacchi e i nostri successi in
mistura; ma è accaduto - quasi risultato di due opposti principi e di due forze
antagonistiche, una delle quali ci guida lungo un diritto cammino a destra,
mentre l'altra ci fa girare alla rovescia e indietro - che la nostra vita. sia
complessa, e cosi pure l'universo... Perché quèsta è la legge di natura, che
nulla entri nell'esistenza senza una causa, e, se il bene non può fornire una
causa per il male, allora segue che la natura debba avere in se stessa la fonte
e l'origine particolare, distinta, del male, proprio come ne ha una, tutta sua,
del bene. Tale è il pensiero dell'umanità e dei suoi piu nobili sa- pienti.
Questi, infatti, credono che vi siano due principi divini, quasi rivali tra
loro: l'uno artefice dei beni, l'altro dei mali. E c'.è chi chiama il primo,
migliore, dio; e l'altro, dèmone; cosi per esempio, il mago ZOroastro, di cui si
narra che vivesse cinquemila anni prima della guerra di Troia. Ebbene, questi
chiamava il primo Horomazes, l'altro Arimanios; e spiegava, poi, che l'uno
rassomigliava, nel campo sensibile, alla luce piu che ad altro elemento; e
l'altro, per contro, alle tenebre e all'ignoranza; e che tra l'uno e l'altro,
intermedio, era Mitra, chiamato perciò dai Persiani "Mediatore" I
Persiani poi moltiplicano racconti favolosi sui loro dèi... I Caldei dichia-
rano che, tra i pianeti ch'essi chiamano dèi tutelari della stirpe, due sono
benefici, due malefici, e gli altri tre, intermedi, sono buoni e cattivi ad un
tempo. Le credenze dei Greci in proposito sono ben note a tutti (De Iside). Le
citazioni e le pezze di appoggio di Plutarco sono molto indica- tive, molto ben
collocate e fatte al momento opportuno. Si capisce cosi come, per altro verso,
egli, nel suo tentativo di far rientrare le religioni egiziana e persiana - in
un'interpretazione simbolico-allegorica dei loro miti e delle loro credenze,
simile sotto parecchi aspetti a quella operata sui testi ebraici da Filone
l'Ebreo - entro i termini della reli- gione delfica, puntasse, si come Filone,
su Platone interpretato in chiave teologico-religiosa. Non solo, ma nella
chiara esigenza di Plu- tarco di costituire una possibile pace culturale nella
convinzione di un'unica sacerdotale pia philosophia, di contro al naturalismo
stoico e di contro a quella che sembra, per chi assuma a fondamento della
realtà un principio razionale e intelligente, l'irreligiosità e l'assurdità degli
epicurei (simili, alla fine, nel loro ateismo, o meglio nel loro credere gli
dèi indifferenti, a coloro che, per ignoranza, in una loro volgare religiosità,
temono il divino e i dèmoni, ove va sottolineato che il ter- mine tradotto con
"superstizione" è in greco timore della divinità, 3etat30tt!Lov(cx:
cfr. Plutarco, De superstitione), si capisce anche come egli si riferisse da un
lato al concetto piu generale ed elastico del divino di Platone e dall'altro
lato, invece, a certi singoli testi di Platone tratti dal Filebo, dal Timeo,
dalle Leggi. Tali testi, interpretati a ritroso, cioè entro· una linea
costituitasi dopo Platone, potevano servire, ap- punto, all'intento di
Plutarco, dando un fondamento filosofico, cioè convincente in quanto razionale,
a quello che Io stesso Plutarco dice il buon senso, il comune senso religioso
di tutti gli uomini, che, se non educato, degenera o nell'ateismo o nella
superstizione (cfr. De superstitione). Non dobbiamo pensare che gli dèi siano
diversi tra loro, da popolo a' popolo; che siano, cioè, dèi barbari e dèi greci
o dèi australi e dèi settentrio- nali. No, ma come il sole e la luna e il cielo
e il mare· sono comuni a tutti, mentre sono chiamati da chi in un modo e da chi
in un altro; cosf, pari- menti, le fhrme del culto e le denominazioni, diverse
le une dalle altre, a seconda delle varie costumanze, sono, pur sempre,
espressione di un'unica razionalità, che le ha tutte nobilmente ordinate, e di
un'unica Provvidenza, che veglia su di esse, e di potenze ancillari preordinate
su tutte. Di piu, gli uomini si avvalgono di simboli consacrati- e chi ricorre
a simboli oscuri e chi ricorre a simboli piu trasparenti - guidando il pensiero
sulla strada 23 pcrigliosa che conduce al divino. Alcuni, infatti,
vanno completamente fuori strada c s'ingolfano nella superstizione
(3etat30ttjLOV(at); altri sfuggono, per cosf dire, da quel pantano che ~ la
superstizione, ma.piombano, d'altro canto, come in un dirupo scosceso:
l'ateismo. Ecco pcrch~, in questa ma- teria, occorre soprattutto che noi
adottiamo, come guida sacra in tali misteri, le ragioni che derivano dalla
filosofia c consideriamo santamente, ad una ad una, le tradizioni c le
liturgie; sf che... non erriamo interpretando in un differente spirito quel che
i costumi religiosi stabilirono nobilmente sui sacrifici e le feste. [Tutti,
comunque, ammettono che bisogna far risalire ogni cosa a una ragione] (De
/siJe). Solo che, rifiutata l'interpretazione stoica della materia, Plutarco si
ritrova di fronte alla difficoltà di opporre' all'essere che è, un essere che
in quanto opposto all'essere o è essere come l'essere, uno con esso, o è non
essere, cioè non è. A meno che, di nuovo, non si ricorra, in un'interpretazione
del Timeo, a porre come condizioni logiche, da un lato il divino, principio
ordinatore, e, dall'altro lato, una quantità neu- tra (materia) come
possibilità di assumere tutte le forme, non logica- mente deducibile e di cui,
per riprendere l'espressione platonica, non si può discorrere se non con un
"ragionamento bastardo." ·Plutarco cosi viene accostando testi
platonici assai equivoci, in cui Platone sa benissimo di avanzare delle
ipotesi, tanto è vero ch'egli imposta la questione su di un piano
"'descrittivo," cioè mediante il mito, e in Pla- tone rispondenti a
momenti diversi e a p~oblematiche diverse, e li risolve in una sola
interpretazione. Si delinea cosi l'interpretazione di Platone da parte di
Plutarco e la sua costruzione: l. Il divino principio, l'essere che è, il bene
(l'Apollo delfico, luce e armonia, corrispondente all'Osiride egiziano e
all'Horomazes zoroastriano): Errano i nostri sensi, per ignoranza dell'essere
reale, a· dar essere a ciò che appare soltanto. Ma allora che ~ l'essere reale?
L'eterno. Ciò che non nasce. Ciò che non muore. Ciò in cui neppure un attimo di
tempo può introdurre cambiamento. Qualcosa che si muove e che appare simultaneo
con la materia in movimento, qualcosa che scorre perpetuamente c irresistibil-
mente come un vaso di nascita c di morte: ceco il tempo! Persino le parole
consuete, il "poi," il "prima," il "sarà,"
l'"accadc" sono la spontanea con- fessione del suo non-essere.
Infatti, ~ ingenuo e assurdo dire "~" di qualcosa che non ~ entrato
ancora nell'essere, o di qualcosa che ha già cessato di essere... Di contro,
dire dell'Essere che ~. "Esso fu" o "Esso sarà" ~ quasi un
sacrilegio. Tali determinazioni, invero, SQno flessioni e alterazioni di ciò
che non nacque per durare nell'essere. Ma il dio -occorre dirlo? -
"~"; ~. dico, non già secondo il ritmo del tempo, ma nell'eterno, che
~ senza moto, senza tempo, senza vicenda; e non ammette ~~ prima n~ dopo, né
futuro né passato, né età di vecchiezza o di giovinezza. Egli è uno e
nell'unità del presente riempie il "sempre": ciò che in questo senso
esiste realmente, quello "è" unicamente: non avvenne, non sarà, non
cominciò, non finirà. Occorre, allora, che nel modo ora spiegato i fedeli
rivolgano al dio il saluto e l'invocazione: Tu sei (d,e~), o anche, per Zeus,
Ct>me alcuni antichi dicevano: "Sei Uno" [Tu sei,. ei: tale
l'interpretazione che Plu- tarco dà dell'epsilon, della "e," iscritta
sul frontone del tempio delfico, dopo avere, d'altra parte, sottolineato le
possibili interpretazioni che, giuocando in chiave platonico-pitagorica si
possono dare di epsilon, inteso come la lettera, indicante in greco, il numero
cinque: i cinque accordi dell'armonia; i cinque intervalli melodici; i cinque
mondi - terra, acqua, aria, fuoco, etere; - la pentade - punto, linea,
superficie, altezza = tetrade o solido, piu anima = pentade o essere vivente; -
i cinque generi del Sofista: l'ente l'identico, l'altro, il movimento e la
stabilità: "Taluno, a quanto sembra, precorse Platone nello scrutare tali
cose e quindi consacrò al dio la ~:;, segno e simbolo del numero che esprime
la. realtà. Del resto, Platone aveva ben compreso che persino il Bene si
rivelava in cinque forme (nel Filebo): prima è la moderazione; seconda, la
proporzione; terza, l'intelligenza; quarta, le conoscenze, le arti, le opinioni
vere sull'anima; quinta, il piacere, ove mai esista, puro e immune da ogni
mescolanza con il dolore." Sintesi di tutto ciò, la E sembra simbolizzare
per Plutarco l'Essere Uno del dio; il solo dio è, tu sei: cfr. De E Delph.].
"Sei Uno," poiché la divinità non è moltitudine, come ognuno di noi, congerie
svariata e intruglio di infinite ibride passioni. Al contrario, l'Ente vuoi
essere uno, come l'Uno vuoi essere ente. Se l'es~re ammettesse un altro,
questi, naturalmente, differirebbe dal primo, e pertanto entrerebbe nel
divenire, cioè nel non essere: perciò sta bene al dio il primo dei nomi e éosl
pure il secondo e il terzo: Apollo, in- fatti, per cosi dire, rifiuta la
pluralità e nega la molteplicità; leios vuoi dire.che è uno e solo; quanto a
Febo, è certo che cosi gli antichi chiamavano tutto ciò che fosse puro e
casto... (De E Delph.). - Ma Osiride, il dio, in se stesso, è lontanissimo
dalla terra, incontaminato, incorruttibile, puro da ogni materia che soggiaccia
alla distruzione e alla morte. Alle anime umane, fino a che, quaggiu, sono
imprigionate dai corpi e dalle pas- sioni, non è dato partecipare del dio, se
non rispettando quel limite in cui sia dato loro giungere a un'oscura visione
di lui,.per via di pensiero, attraverso la filosofia (De lside); 2. La materia,
neutra in quanto potenza (la nutrice platonica; l'Iside egiziana). Il principio
attivo come disordine (non materia, in sé né buona né cattiva), bens1 attiva
(l'anima malvagia delle Leggi di Pla- tone; Tifone egizio; l'Arimanios
wroastriano): Iside, in verità, è il principio femminile della natura ed è
suscettibile di ricevere ogni forma di generazione, in quanto è chiamata da
Platone "nutrice 25 e ricettacolo comune" [Timeo,
49e-5la], e da molti altri è chiamata con una infinità di nomi, per il fatto
ch'essa, in virtu della ragione,' volge e rivolge se stessa, accogliendo ogni
tipo di forma e di idea. Essa ha un innato Eros verso colui che è il primo e
supremo signore di tutte le cose, il quale si identifica con il Bene, e lo
brama e lo persegue [Osiride]. Fugge, invece, e respinge la porzione che deriva
dal male, perché essa, serve, si, a entrambi qualç spazio e materia, ma inclina
sempre piu facilmente verso l'essere mi- gliore e offre a lui la possibilità di
generare da lei stessa, e di impregnarla di effiuvi e di somiglianze, di cui
ella gioisce e si rallegra, fecondata com'è e fatta pregna di tali generazioni.
Generazione, infatti, non è altro che l'im- magine dell'essere nella materia; e
il divenire è un'imitazione dell'essere. Ecco perché il loro mito non è fuori
strada, allorché narra che l'anima di Osiride è eterna e che il suo corpo fu
molte volte smembrato e annientato a opera di Tifone, e che lside andò errando
e ne fece ricerca e riuscf,di nuovo a ricomporlo... (De lside). Platone chiama
la materia con il nome di Penuria, bisognosa com'è, di per se stessa, del bene
e pregna di lui ed eternamente bramosa e partecipe di lui... Allorché, dunque,
diciamo "materia," non dobbiamo essere tratti dalle opinioni di
alcuni filosofi [gli stoici] e pensare a un certo corpo inanimato e indifferenziato,
inerte e inattivo di per se stesso. Fatto sta che noi chiamiamo l'olio
"materia del pro- fumo," l'oro "materia della statua"; e
questi non sono privi di ogni difie- renziazione. Persino riferendoci all'anima
e al pensiero dell'uomo, noi Ii consegniamo, quale materia di conoscenza e di
virt6, alla ragione affinché li.adorni e li armonizzi; e taluni hanno
dichiarato che l'intelletto è la sede delle idee [cfr. Aristotele, De anima] e,
quasi, la massa, in cui si esprime una immagine•della realtà intelligibile [cfr.
sopra Moderato di Gades; oltre, Albino, Epitomè: "L'idea è in rapporto a
Dio il suo atto intel- lettivo," IX, 1]... lside gode di una eterna
partecipazione del dio primor- diale e gli è vincolata nell'amore di tutto ciò
che in lui è buono e bello, e che, pertanto, non gli resiste..., e perciò essa
è sempre attaccata strettamente a lui e sta costantemente intorno a lui, piena
e pregna delle sue parti piu nobili e pure (De lside). Le vesti di lside son di
colore screziato, perché la potenza di lei riguarda la materia, la quale si
trasforma in ogni cosa e tutto accoglie, luce e oscurità, giorno e notte, fuoco
e acqua, vita e morte, principio e fine. La veste di Osiride, invece, non ha
sfumatura di ombre, né screziatura di colori, ma solamente un llllico fondo,
tutto sem- plice, la pura luminosità. Infatti il principio non ronosce
combinazione; e il primordiale e l'intelligibile sono privi di mescolanze (De
Iside, 382c). Il principio, l'Essere, che è, dunque, nella sua iafinita
ricchezza e pienezza tutta in atto, non si depaupera né si risolve nella realtà
ordinata e qualificata che da lui si genera, si come, secondo Plutarco, avviene
per il dio stoico. Plutarco, perciò - e di qui deriva la sua interpretazione
del Timeo, - doveva sostenere che la materia non ~ pura quantità, assolutamente
passiva, ma è esistenza, potenzialità di 26 assumere forme e
qualita, e in tal senso è povertà e desiderio, essa come la donna che si
trasforma nelle sue generazioni, nelle quali tut- tavia non si esaurisce né si
risolve il "padre," che, preso in sé, resta altrettanto ricco e
fecondo, privo di mescolanze. Dio da un lato (Padre), materia dall'altro
(Madre), il mondo e i mondi (Plutarco sostiene che possono essere cinque: cfr.
De defectu oraculorum; De E Delph:) sono il figlio. "La migliore e piu
divina natura consiste di tre parti: l'intelligibile, la materia e il risultato
di entrambi, che gli Elleni chiamano cosmo. Orbene, Platone fu solito chiamare
la parte intelligibile con il nome di idea o modello esemplare o anche 'padre';
la parte materiale con il nome di 'madre' e 'nutrice,' e anche 'sede' e 'posto'
di generazione; e il risultato di entrambi 'prole' e generazione [Timeo]"
(De lside). Solo che, posta cosi la questione, e spiegati certi miti religiosi
con altri miti e immagini; desctittivamente posti il divino essere e accanto,
ab aeterno, la corporeità, il materiale su cui si opera la generazione; ammesso
pure che i due termini siano aristotelicamente le condizioni della nascita del
mondo che è generazione (tempo); posto che il divino, in quanto per- fezione è
bene e che la materia in quanto mancanza e neutralità non è né bene né male; o
si ammette che tutto in quanto generazione dovuta al principio divino è bene,
che pur non risolvendosi nelle cose, essendo le cose simiglianti a lui, resta.il
termine cui tutto aspira, in un unico amore;·oppure, poiché la presenza del
male è inspiegabile (ché nel momento in cui si spiega il male, trovandone la
ragione è anch'esso bene), va posto, accanto alla pura intelligibilità e alla pura
corporeità, un terzo principio, un'attività inspiegabile e perciò irrazio-
nale, fonte appunto del male. È meglio dire con Platone che la sostanza, la
materia di cui il mondo è composto, non è stata prodotta, ma era da ~mpre
sottoposta al Demiurgo affinché questi la disponesse e ordinasse a propria
simiglianza entro i limiti che alla materia sono possibili... Dio non ha
generato né la tangibilità e la resistenza dei corpi, né la façoltà
immaginativa e motrice delle anime, ma, avendo trovato i due principt, quello
oscuro e tenebroso (materia) e quello agitato e i"azionale, ambedue
indeterminati e privi della perfezione con- veniente, li ordinò, li regolò, li
armonizzò, producendo il piu bello e il piu perfetto degli esseri viventi...
Coloro che attribuiscono alla.materia e non all'anima quella
"necessità" di cui si parla nel Timeo e quella
"infinitezza" e "incommensurabilità" di piu e di meno, di
difetto e di eccesso, di cui si parla nel Filebo, come intenderanno poi ciò che
Platone asserisce, cioè che la·materia è senza forma e senza figura, priva di
ogni qualità e di potenza propria, simile a quegli olt inodori che i profumieri
adoperano per le· tinture? È impossibile che Platone postuli come causa e
principio del male ciò che in se stesso è inqualificato, inerte, indeterminato
e che lo chiami "infinitezza brutta e malefica" e anche "ne-
cessità spesso ribelle e riluttante a Dio..." Si tratta bensf di un
principio disordinato e infinito che si muove da sé e muove e che Platone in
molte occasioni ha chiamato "necessità" e nelle Leggi decisamente,
"anima sregolata e malvagia (De animae procreatione in Timaeo)... Bisogna
dunque rendersi conto che l'una anima non è stata fatta da Dio e non è l'anima
del mondo, ma una potenza di movimento spontaneo e perpetuo di cui l'impulso e
lo slancio, senza proporzione né regola, sono sottomessi all'immaginazione e
all'opinione; e che la s~conda Dio stesso l'ha armonizzata mediante i numeri e
le proporzioni convenienti e, una volta costituita, l'ha elevata al grado di
reggente del mondo generato. L'anima, dunque, non è tutta opera di Dio, ma
porta in sé, innata, la parte del male. Là dove Tifone piomba ad impadronirsi
delle piaghe estreme, ivi dobbiamo figurarci lside in atteggiamento di suprema
tristezza e in espressione luttuosa, alla ricerca dei resti e delle membra
sbranate di Osiridi:: ella li compone e serra al petto e nasconde tali
reliquie, dalle quali essa porta alla luce di nuovo le cose nasciture e le fa
sorgere da se stessa (De lside). Il timore di Plutarco a risolvere stoicamente
la divinità nel costi- tuirsi dello stesso universo, lo porta, interpretando
certi passi plato- nici, a porre la divinità come il complesso in atto e
compiuto (perfetto), e perciò senza divenire e mancanze (incorporeo) di tutto
ciò che ha essere, cioè che ha forma, per cui, appunto, il divino è essere: il
divino, dunque, pura intelligibilità, è in atto tutte le forme (idee), in
quanto la sua intellezione - egli intellezione in atto - è tutte le passibili
forme. Se tale è l'essere che è, esso, in quanto eterno e perfetto, è oltre
l'esistere ("Pure si va cianciando di emanazioni del dio e di trasfor-
mazioni tali che il dio si risolverebbe in fuoco con l'universo intero e poi,
di nuovo, si contrarrebbe, quaggiu, e si distenderebbe via via in terra e mare
e vento e animali ed entrerebbe nelle forme paurose di viventi e delle piante;
tutto questo, anche a udirlo, è empietà!"- chiara è l'allusione agli
stoici -: "Al contrario, di ciò che entrò, comunque, nell'esistenza
cosmica Dio serra insieme la compagine e domina la naturale debolezza corporea,
che è volta, di per sé, all;l distruzione... Per dio non si dà mai
scardinamento dall'essere e trapasso": De E Delph.). L'esistenza è,
accanto all'essere (coeterna dell'es- sere, in quanto come l'essere condizione
del reale) la materia - la éor- poreità come indefinita potenzialità, - che,
tuttavia, non assume essere, non assume forme, se non si definisce, se non
presuppone l'essere, se non ha, quindi, per sua natura desiderio di ciò che le
manca; essa perciò tende all'essere, ad assumere forme, per cui il divino, egli
rimanendo esso stesso immobile e in atto, è ad un tempo presupposto e termine
dell'aspirazione del tutto. Evidentemente, dunque, rifiutando la tesi stoica
della materia pura passività e ·senza qualità, bisognava porre, accanto
all'essere - principio e fine - e all'esistere - materia- potenza - una terza
condizione, un principio vitale, senza di cui la materia sarebbe restata pura
passività. L'anima come vitalità è, dun- que, una terza condizione, che se da
un lato spiega la tendenza del- l'esistere ad assumere essere, costituendosi
come anima del mondo in quanto si modella sull'intellegibile (razionalità),
dall'altro lato può ren- dere conto dell'affermazione di sé come individualità,
che aspirando a sé e non all'essere uno, che serra insieme il tutto
intelligibile al divino, si determina come non-essere, come ribellione a Dio,
come frantumazione dello stesso Essere che è uno, ordine e bene, si deter- mina
cioè come irrazionalità (male). Il divino, dunque, come pura intelligibilità e
come essere è, ad un tempo, principio e fine, mentre la materia, esistente e
vivente, è da un lato tendenza all'essere, al bene, e, dall'altro lato, nella
stessa affermazione di sé, negazione dell'essere, conflitto, male, in una serie
di gradi viventi, che, posto appunto il divino come termine ultimo di
aspirazione, vanno all'infinito in una serie che si scandisce da una minor
somiglianza al dio (mondo ter- restre e sublunare) a una sempre maggior
somiglianza a lui (mondo celeste, dèmoni buoni), per approssimazione e in un
perenne conflitto.· È un fatto che il divenire e la composizione di questo
nostro universo risultano dalla mescolanza di forze antagonistiche, che non
sono, però, equi- librate esattamente, perché la prevalenza appartiene alla
forza del bene; non è, tuttavia, ammissibile che la forza del male perisca del
tutto, dal momento che essa è, in gran parte, innata nel corpo del mondo, e,
pure in gran parte, nell'anima dell'universo, in un duello perenne con la
potenza del bene. Ebbene, nell'anima, intelligenza e ragione, vale a dire ciò
che fa da guida e signoreggia tutto quanto vi ha di meglio, s'identifica con
Osiride [il divino)... Tifone, per contro, è la parte dell'anima soggetta a
passioni, è l'elemento titanico, e irrazionale e volubile... (De lside).
Certamente, H, nel cielo e negli astri perseverarono immobili le ragioni
supreme delle cose e le forme e tutto ciò che proviene dal dio; per contro,
quaggiu, quel che è disseminato tra gli elementi soggetti alle leggi
fenomeniche - terra, mare, piante, viventi in generale - si dissolve, si
corrompe, va perfino sotterra... (De ]side). Il principio della fecondità e
della con- servazione della natura è attratto verso di lui e verso l'essere,
mentre il principio dell'annientamento e della distruzione è dissolto da lui,
verso il non essere. Perciò, essi chiamano lside con un nome che deriva da
"slan- ciarsi" (hlestaz) con sapienza e dall"'essere
mosso," appunto perché essa consiste in un movimento animato e sapiente...
(De lside). È bene esigere che nessuna cosa inanimata si:t superiore a ciò che
è animato e 29 nessuna cosa priva di sensibilità sia superiore al
senziente... Non nei colori, né nelle forDie esteriori, né in levigati pannelli
è presente il divino: tutto ciò che non partecipa né può, di sua natura,
partecipare alla vita ha una porzione di onore, inferiore a quella dei morti.
Per contro, la natura, che vive e vede e ha da se stessa la sorgente del
movimento e una conoscenza tale da saper distinguere quel che è suo e quel che
le è estraneo, ha saputo attrarre su di sé un etBuvio e una poézione di
bellezza da parte di colui che è saggezza, "in virtU del quale è governato
l'universo," secondo l'espres- sione di Eraclito (De lside). Entro questi
termini sembra chiaro come Plutarco - nel suo ten- tativo di giustificare sotto
il segno di un'unica concezione religioso- filosofica gli aspetti diversi delle
credenze religiose' ellenistiche ed orien- tali, le quali ultime. egli vede
sintetizzate da un lato nei misteri egizi di Osiride-lside, dall'altro lato
nella teologia zoroastriana - possa riprendere e giustificare, nel quadro della
sua teologia e cosmologia, le credenze nei dèmoni, nelle capacità divinatrici e
profetiche delle anime, in una, infine, descrizione di quella che è,
nell'universo, la posizione dell'uomo, e di quale ha da essere il suo fine. Uno
l'universo nella sua totalità, posti come ter~ni estremi l'Essere e la materia
e tra l'uno e l'altro, nell'aspirazione della materia all'essere, la genera-
zione - unica realtà effettuale, la cui durata costituisce il tempo - dalle
forme piu basse - all'infinito - e inanimate, alle forme piu alte - al-
l'infinito, verso l'Essere, termine ultimo - ve animate, nel perenne conflitto
della vitalità, che in quanto tale è tensione ad essere e nel suo determinarsi
e affermarsi è negazione dell'essere; entro l'universo uno, si.viene ad avere
un'infinita scala di generazioni, di forme viventi, di anime, per un lato volte
al limite, all'oscurità, alla corporeità, per l'al- tro lato volte all'essere,
alla luminosità, al divino. Di qui l'afferma~ zione plutarchea che entro l'Uno
universo, piu di uno possono essere i mondi, piu di una le condizioni delle
anime, da anime-limiti, oscure - corporei~à, tra cui l'uomo nella sua
condizione terrestre - ad anime piu luminose, meno limitate, ma non per questo
meno reali, viventi, operanti, i cosiddetti dèmoni, ad esempio, e oltre ancora
gli dèi, fino alla purezza assoluta del divino. Coloro che sostengono che
Platone, avendo ammesso un elemento come substrato delle qualità sensibili che
noi chiamiamo materia o natura, ha liberato i filosofi da molte e gravi
difficoltà, dicono una cosa giusta: allo stesso modo mi sembra che difficoltà
ancora piu numerose e gravi siano state superate da coloro che pongono tra dèi
e uomini, la specie dei dèmoni, ritrovando cosi in certo modo un legame che ci
congiunga e ci unisca a Dio. E poco importa che questa dottrina provenga dai
Magi della setta di Zoroastro, o con Orfeo dalla Tracia, o dall'Egitto, o dalla
Frigia (De defectu oraculorum). C'è chi ammette il trapasso, sia da corpo a
corpo, sia da anima a anima: cosi, per esempio, la terra diventa acqua; l'acqua
aria; e l'aria, nell'ascen- sione propria della sua natura, si tramuta in
fuoco; allo stesso modo, nel.:ampo delle anime elette, è ammesso il passaggio
da uomini a eroi; da eroi a dèmoni. Tuttavia, solo poche anime appartenenti al
grado demo- nico, purificate dopo lungo volgere di tempo, mediante la virtu,
riescono a partecipare completamente della divinità. Al contrario, talune, non
riu- scendo a dominare se stesse, scendono dal grado superiore e indossano di
nuovo corpi mortali e traggono una vita senza luce e fievole come un'esa-
lazione... In realtà, piu lungo o piu corto che sia il tempo determinato o non,
in tutti i casi si avrà sempre la dimostrazione voluta, attraverso testi-
monianze sapienti e antiche, che esistono, cioè, alcuni esseri, quasi al con-
fine tra gli dèi e gli uomini, i quali sono soggetti alle passioni mortali e
alle mutazioni fatali. È giusto, secondo il costume dei padri, che noi con-
sideriamo costoro dèmoni e li veneriamo con questo nome. Senocrate, amico di
Platone, propose a simboli di questa concezione le figure dei triangoli. Al
divino confrontò, per immagine, l'equilatero; al mortale lo scaleno; l'iso-
sede, infine, al demoniaco. Il primo è uguale in tutto e per tutto; il secondo,
del tutto disuguale; l'ultimo, uguale per un verso, disuguale per l'altro:
proprio come la natura dei dèmoni, che partecipa a un tempo della passione del
mortale e della virtu del dio. Ma la natura stessa offerse immagtru e
simiglianze visibili: cioè degli dèi, con il sole e con gli astri; dei mortali,
con le meteore, le comete e le stelle cadenti...; natura mista e figura di
dèmone è essenzialmente la luna, la cui rivoluzione concorda con questo genere
demoniaco, in quanto essa si mostra ora calante, ora crescente, ora
cangiante... Figuratevi, ora, di sottrarre e portar via l'aria ch'è in mezzo
tra la terra e la luna: naturalmente l'unità e la coesione del tutto risulte-
rebbe spezzata dal fatto che ci sarebbe, nell'intervallo, uno spazio vuoto e
slegato. Allo stesso modo, chi non ammette la categoria demonica toglie ogni
continuità e relazione tra il mondo degli dèi e quello degli uomini, elimina
gli esseri che, al dire di Platone, esercitano una funzione di inter- preti e
di ministri; ovvero essi ci co~ringeranno a sconvolgere e a turbare ogni cosa,
facendo entrare il dio nelle passioni e nelle cose umane e traen- dolo alle
loro necessità... Noi, invece, non vogliamo dar retta per nulla a coloro che
negano la divina ispirazione agli oracoli e la divina compia- cenza.per le
cerimonie e i riti; ma neppure vogliamo credere che, in tali cose, il dio si
giri e rigiri e si presenti direttamente e si affaccendi lui stesso. Piuttosto,
facciamo risalire tali riti oracolari a coloro ai quali giustamente la cosa
compete, voglio dire ai ministri degli dèi, che sono, per cosf dire, i loro
famuli e segretari; noi crediamo che il mondo tutto sia percorso da dèmoni,
alcuni volti a sorvegliare i sacrifici agli dèi e i riti misterici, altri in
funzione di vendicatori di tracotanze e di crimini [ed è su questo motivo che
si svolge, di contro alla provvidenza stoica, la provvidenza plutarchea: cfr.
De sera numinis vindicta]•.. Certo, come tra gli uomini, anche tra i dèmoni
esistono differenze di valore, perché in alcuni l'elemento passio- nale e
irrazionale ha lasciato, come un residuo, un avanzo ancora fievole e
indistinto, in altri invece persiste in dose considerevole e inconsumabile (De
defectu oraculorum). Se da un lato la soluzione del significato da dare ai
dèmoni chia- risce quanto sopra dicevamo, e cioè la concezione plutarchea di
una realtà vivente, che, in un conflitto di forze, si scandisce in gradi, fino
a ordinarsi, sempre pio razionalmente, a imitazione dell'Essere su-,premo, puro
intelligibile, presupposto e fine; dall'altro lato, i testi sui dèmoni e sulla
loro funzione, hanno un notevole interesse storico. Sono una testimonianza
precisa non s~lo della presenza di credenze oracolari, astrologiche, magiche,
quali si erano venute diffondendo, in particolare dall'Egitto, fin!> dal
11-1 secolo a. C., e alle quali abbiamo già sopra accennato, ma anche del
tentativo che ora si fa di rendere conto delle stesse esperienze vitali che
stanno a fondamento di quelle credenze. La teoria plutarchea dei dèmoni non è
nuova: già ne tro- viamo tracce in Alessandro Poliistore, nei Physik,à kài
Mystikà dello pseudo-Democrito, nelle Rivelazioni di Nechepso e Petosiride
(cfr. so- pra), in alcuni testi alchimistici che rifluiscono nei testi del
corpo erme- tico (certo su Plutarco, come testimonia anche il suo interesse per
Osiride-Iside, ha avuto una forte influenza il motivo ermetico di Thot-Ermes,
lo scriba e interprete di Osiride: non a caso Plutarco si fa interprete del
significato riposto dei sacri riti e miti egiziani e persiani). Ciò che,
tuttavia, interessa sottolineare è l'interpretazione di Plutarco, il suo
risolvere le forze occulte in forze naturali, reali, in conflitto, ponendo il
divino (la razionalità) come termine ultimo di aspirazione. E allora, come da
quel conflitto si determina la scala degli esistenti, dalle prime
qualificazioni oscure (corporeità) alle meno oscure (corpi viventi, animati, di
cui l'uomo è il piu alto)., agli astri, alle piu luminose anime incorporee,
maggiormente vicine al divino (i dèmoni: reali, tanto quanto reali sono il
corpo, l'anima umana e via di seguito); cosi si giunge all'uomo, aspetto della
realtà, in cui si sperimenta la presenza dello stesso conflitto, l'urto delle
stesse forze vitali, lo stesSo determinarsi e costituirsi da un lato in corpo e
vitalità (anima) e dal- l'altro lato in razionalità, in aspirazione all'ordine
e.al divino (perciò l'anima non muore con il corpo, perché la morte può essere
interpre- tata come eliminazione dell'oscurità). E allora il conflitto e la
capacità di equilibrare il conflitto medesimo, se da un lato spiegano la divi-
nazione, i sogni profetici ela possibilità, mediante certi riti (tecniche), di
entrare in rapporto con gli spiriti, con le anime che sono i dèmoni, dall'altro
lato spiegano come quei dèmoni stessi siano presenti, com'essi operino, come
servano di mediazione tra l'uomo e la divinità. Non solo, ma, per altro verso,
v'è in Plutarco, di contro al fatalismo stoico, per il quale diviene
impossibile da parte umana operare sui dèmoni, e di contro a certe forme
magico-popolari secondo cui si può diretta- mente operare sulle divinità,
indicata, sia pur in un solo accenno, la via, che verrà sviluppata in ambiente
neoplatonico e nel commento agli oracoli caldaici, la quale rende possibile,
attraverso il conflitto delle forze, la tensione tra le anime, la
razionalizzazione di se stessi. Di qui anche, in un rapporto tra le anime,
simili tra loro, l'azione sulle forze demoniache, e, mediante certi riti e
tecniche, che Plutarco non a caso lascia ai competenti ("facciamo risalire
tali riti oracolari a coloro ai quali giustamente la cosa compete": De
def. orac.), l'evocazione degli spiriti, e, quindi, l'avvicinamento al divino,
in una salvazione che consiste nella "conoscenza" ed in cui sta per
Plutarco la religiosità che non sia "superstizione" (e qui sono senza
dubbio presenti, accanto a motivi ermetici, motivi che possiamo dire gnostici,
se è vero che si può parlare, ad esempio per Filone l'Ebreo, di gnosti- Cismo
giudaico). La nostra natura morale inaridisce e invecchia nell'attività
dell'igno- ranza. Un riposo muto, una vita inerte dedicata all'ozio consumano
non soltanto i corpi, ma anche le anime... Le facoltà naturali degli· uomini
che ntm si muovono... appassiscono e invecchiano innanzi tempo... Credo che gli
antichi abbiano dato all'uomo il nome di "phos" (luce), poiché è
insito in ciascuno di noi, per analogia alla !uce, un intenso desiderio di
conoscere e di essere conosciuto. Alcuni filosofi sostengono che la luce abbia
una sostanza identica a quella dell'anima [Filone l'Ebreo?: cfr. sopra], e tra
le altre argomentazioni adducono che niente l'anima rifugge piu dell'igno- ranza,
e che essa respinge tutto ciò che è oscuro e che rimane turbata dalle tenebre,
in cui trova timore e inquietudine, ma che la luce è per lei cos{ dolce e
desiderabile, che di nessuna cosa ch'essa naturalmente ama può godere quando
sia nell'oscurità, lontana dalla luce... (De latenter vivendo). L'accenno alla
sostanza dell'anima come luce, è, purtroppo, un solo accenno, che, se piu ampio
avrebbe potuto chiarire molte questioni sull'origine della metafisica della
luce e sulla conseguente discussione relativa all'influenza delle luci
stellari, a loro volta riflessi della lumi- nosità divina. Ad ogni modo, entro
l'àmbito di una ricostruzione del pensiero di Plutarco, l'accenno alla luce è
interessante in quanto serve a meglio comprendere la posizione che viene ad
assumere l'uomo, nei gradi in cui si scandisce la realtà nella sua aspirazione
all'Essere, non a caso detto, con un'immagine, pura luminosità: "Le vesti
di lside sono di colore screziato, perché la potenza di lei riguarda la
materia, la quale si trasforma in ogni cosa e tutto accoglie, luce e
oscurità... La veste di Osiride [del divino], invece, non ha sfumature di
ombre, né screziature di colori, ma solamente un unico fondo, tutto semplice,
la pura luminosità" (Dc lsidc). La divinità, dunque, è rappresen- tata
come pura luminosità senza ombre e colori, mentre la realtà è tale, esistente,
visibile, in quanto non è né pura tenebra (il nulla) né pura luminosità
(altrettanto invisibile, accecante), ma ombra e luce, in una serie di gradi che
vanno al limite dalla tenebra e dall'oscurità (corporeità) alla luminosità pura
(divinità), scandendosi in un com- plesso di oscurità (corporeità) e di luce
(anima). E perciò l'uomo, di fatto corpo e vitalità (anima), da un lato
affermazione di sé per esi- stere, ma, dall'altro lato, nel suo stesso
affermarsi, negazione dell'essere, l'uomo, in tale sua tensione e, perciò, in
tale sua aspirazione all'essere come pienezza, alla luce, viene ad essere come
lo specchio - in pic- colo - dell'universo stesso. Si ripete cosi: in lui il
conflitto tra luce e oscurità, tra sé come corporeità e animalità (anima) e sé
come capacità di ordinarsi, di porre equilibrio, di costituirsi come
razionalità. Anzi, è proprio nell'atto in cui l'uomo scopre sé come
razionalità, che si rivela e si coglie, intuitivamente, la razionalità divina,
la pura lumi- nosità. Aspirazione al divino, la capacità intellettiva e
razionale si sco- pre in noi - oltre l'anima - come la presenza del divino, e,
perciò, da un lato come possibilità di ordinare e.guidare le nostre forze vitali
e, dall'altro lato, come esigenza di perdersi nella sua unità, in un amore per
Dio (entusiasmo), che scaccia da sé ogni timore per lui (superstizione) o ogni
indifferenza nel rimanere chiusi nella propria individualità (ateismo,
epicureismo): "Quando l'anima crede e pre- sume che il dio sia presente,
respinge via da sé dolori, timori, inquie- tudini e con la gioia si eleva sino
all'ebbrezza, al riso e all'esaltazione" (Non pom: suaviter vivi...,
llOlc-f; si confronti anche il motivo del- l'cbbrictà di Filone l'Ebreo: Dc
cbrictatc). Molti sostengono giustamente che l'uomo è un essere composto, ma
hanno torto quando pensano che sia composto soltanto di due principi: difatti
quando considerano l'intelletto (vouc;) come una parte dell'anima, errano non meno
di coloro che ritengono l'anima una parte del corpo. Di quanto l'anima è
superiore al corpo, di tanto l'intelletto è migliore e piu divino dell'anima.
L'unione dell'anima e del corpo produce la facoltà irra- zionale e passionale,
quella dell'intelletto e dell'anima produce la ragione; la facoltà irrazionale
e passionale è principio di piacere e di dolore, quella dell'intelletto e
dell'anima di virtU e di vizio. Di queste tre parti, la terra forma il corpo,
la luna forma l'anima, il sole dà origine all'intelletto (Dc 34
facie in orbe lunae). Le anime posseggono sempre i loro poteri, ma li
posseggono piu deboli quando sono mescolate ai corpi...; tuttavia alcune anime
talora fioriscono e riacquistano quella loro potenza nei sogni e al momento
della morte, sia perché allora il corpo si purifica o subisce una modificazione
favorevole, sia perché l'anima, essendo la parte razionale e meditativa
liberata e svincolata dalle cose presenti, si dirige con la parte irrazionale e
immaginativa verso le cose future... (De defectu oraculorum). Anche se molte
sono le oscillazioni del pensiero di Plutarco, se molte volte egli è equivoco
relativamente al concetto del divino e sul rapporto tra il divino e la realtà,
vivente nel conflitto tra le due forze, nella tensione tra la forza
disgregatrice, individualizzante e la forza organizzatrice e ordinatrice, certo
l'aspetto piu appariscente del suo pensiero, accanto a quello di conciliare in
una sola religiosità razionale (delfica) le molte esperienze religiose, vive e
operanti al suo tempo, è il suo rovesciamento dello stoicismo, che spiega anche
il significato e il limite della trascendenza del divino plutarcheo. Posto, di
contro allo stoicismo, che il divino non si risolve nella molteplicità del
reale, ma che il divino si pone come il presupposto dell'ordine e della razio-
nalità co.ndizione dunque dell'essere delle cose, esso metaforicamente è il
"padre"; e posto, perciò, che la materia e la corporeità, viventi per
la tensione di forze vitali (anime), tendono all'essere, Plutarco poteva - ed
in questo. consiste il rovesciamento dello stoicismo e il suo ap- pello a
Platone - da un lato prospettare il divino come termine di realizzazione (in
tal senso trascendente) di tutta la realtà, non annul- lando l'essere nella
esistenza, dall'altro lato poteva sostenere che dalla tensione tra le _due
forze si realizza, o può realizzarsi, un ordine, in cui si rivela per
imitazione la presenza del divino. Plutarco cos(, di contro al fatalismo stoico
e al casualismo epicureo, poteva sostenere, sul piano umano, un qual certo
volontarismo e dinamismo, fonda- mento della vita morale, che non avrebbe luogo
senza conflitto e se l'uomo e il resto non fossero altro che momenti della
necessaria manifestazione della divinità. Sotto questo aspetto sembra chiaro in
che senso Plutarco ponga l'intelletto non come una parte dell'anima, ma come
rivelazione della presenza del divino in quanto razionalità, cioè in quanto
capacità ordinatrice e unificatrice, che si pone come dovere e come bene, che
si coglie,- attraverso il conflitto stesso. Tale la ragione per cui Plutarco,
interpretando un passo della Vll lettera di Platone, afferma che
l'intelligibile si coglie attraverso il con- flitto, nell'atto in cui scoprendo
sé come razionalità, si scopre sé come pensiero, cioè come unità di discorso e
come dominio in unità di noi stessi, m quanto molteplicità di passioni.
"L'intuizione di ciò che è intelligibile, luminoso e puro è come un lampo
che brilla, e l'anima può coglierlo e vederlo una volta sola. Perciò Platone
[Convito] e Aristotele [Alex.] chiamano con il nome di epoptica questa parte
della filosofia, poiché coloro che mediante la ragione hanno oltrepassato le
varie_opinioni di ogni specie, si elevano di colpo a quel Principio primo,
semplice e immateriale _e toccando direttamente la verità pura che irraggia da
esso raggiungono, come in una iniziazione, il fine della filosofia" (De
lside). L'unità del discorso in cui si scandisce il ritmo della realtà, che
assume essere in quanto si adegua all'unità dell'Essere, per cui l'Essere
trascende la realtà, appunto perché ragion d'essere in atto del tutto, unità in
atto del tutto, unità in atto delle forme - metaforicamente luminosità senza
ombre, non discorribile - si coglie intuitivamente e, perciò, subito si perde -
non a caso Plutarco dice che è come un lampo e che si vede una volta sola; -
esso, dunque, resta da un lato.:ome ricordo, e, dall'altro lato, come
desiderio, come termine cui si aspira, oggetto d'intelletto, pura
intelligibilità. E allora, non risolta la realtà nella manifestazione
dell'essere, l'essere si pone come condizione dell'esserci e come dover esser, per
cui, colto l'essere, attra- verso l'educazione e l'esercitazione del pensiero,
esso diviene il bene, e poiché la realtà, e l'uomo, momenti dell'aspirazione
all'essere, nel conflitto tra la forza organizzatrice e la forza disgregatrice,
sono sgan- ciati dall'essere stesso, nell'uomo, in quanto centro del conflitto,
nel- l'atto che intuitivamente coglie l'essere, si postula la possibilità di
rea- lizzarsi da un lato come capacità (virtu) di vedere la ragion d'essere
delle cose, cogliendole in ciò che esse sono nel loro ordinarsi secondo il
modello divino, indipendentemente dalla relazione ch'esse hanno con l'uomo
stesso (l6gos teoretico, la cui corrispondente virtu è la "sapienza,"
sofia), dall'altro lato come capacità di realizzarsi, tenendo presente il
modello divino, armonizzando e ordinando in unità (ragio- nevolmente) le
passioni e gli istinti (ragione pratica, la cui virtu è la "prudenza,"
fr6nesis). L'uomo, cioè, in quanto intuizione di sè come ragione, che lo
trascende dal di dentro e che si pone come valore da rea- lizzare, da un lato
coglie sé come capacità di contemplare (vita teoretica, scienza), dall'altro
lato come capacità, mediante la ragione, di ordinare e di indirizzare la
propria animalità (anima vegetatìva e anima sen- sitiva, corrispondenti
all'anima "concupiscibile" di Platone; anima irascibile), il proprio
aspetto irrazionale (se stesso cioè come conflitto e frantumazione) di volta in
volta sapendo comportarsi giustamente, secondo una giusta misura (giusto
mezzo), in un'armonia e medietà di passioni, non in una negaziDne delle passioni,
in cui consistono le virtu etiche (vita pratica). "La virtu morale
differisce dalla virtu con- templativa in questo: ch'essa ha per materia le
affezioni dell'anima e per forma la ragione" (De virtute morali, 1). Anche
sul piano etico, coerentemente, la posizione di Plutarco e il suo rifarsi da un
lato a Platone e dall'altro lato ad Aristotele, è in funzione antistoica, o
meglio in funzione di una interpretazione di Platone e di Arsitotele, diversa
da quella stoica, e tale che gli permetta di mostrare che la virtu è
insegnabile (cfr. Virtutem doceri posse) e che la moralità non consiste solo in
un corretto uso della ragione. Vi sono alcuni filosofi [Zenone di Cizio,
Crisippo] che si trovano d'ac- cordo nel considerare la virtu come
un'affezione, come un abito della parte superiore dell'anima, prodotto dalla
ragione, o piuttosto come la ragione stessa, invariabilmente fissa ai suoi
retti principi. Essi non credono che in noi sia una facoltà sensitiva e
irrazionale, diversa per natura dalla ragione. Questa parte dell'anima, ch'essi
chiamano egemonica e intelligenza, diviene, dicono, vizio o virtu, a Seconda delle
modificazioni che prova nelle sue affe- zioni ed abiti. Essa non ha nulla di
irrazionale... Essi sostengono che la passione stessa sia ragione, ma corrotta
e depravata dai giudizi falsi e per- versi che la trascinano fuori di sé.
Questi filosofi sembrano aver tutti igno- rato che ciascuno di noi è in realtà
un essere doppio e composto. O meglio essi parlano di una sola duplicità, di
una sola composizione; quella che risulta dall'unione dell'anima con il corpo;
ma non si sono accorti che la stessa anima è in qualche modo composta di due
nature diverse; che la sua parte irrazionale è come un secondo corpo unito alla
ragione, da intimi e necessari legami. Pitagora, invece, sembra aver conosciuto
questa seconda composizione... Platone ha veduto con la massima evidenza che
l'anima del mondo non è un essere semplice, uno per natura, senza composizione;
ma ch'essa è un mescolarsi del principio dell'identico e di quello dell'altro
[in un conflitto tra l'anima buona e l'anima malvagia]. L'anima umana che altro
non è che una porzione di quella del mondo, formata su numeri e propor- zioni
uguali a quelli dell'anima cosmica, non è né semplice né senza affe- zioni.
Essa ha due facoltà: una che si adegua al ragionevole ed all'intelli- genza,
per sua natura atta a dominare l'uomo ed a governarlo; l'altra, irr'azionale,
sregolata, sede delle passioni e degli errori, ha bisogno d'essere retta da una
facoltà superiore. [La parte irrazionale si divide in concupi- scibile e
irascibile]... Aristotele ha fano un grande uso di questi principi, soprattutto
della distinzione tra razionale e irrazionale... Orbene, i costumi, per darne
qui un'idea, sono una qualità della parte irrazionale; e si chiamano cosi
perché questa qualità, impressa dalla ragione in questa parte dell'anima, è
dovuta· all'abitudine. La ragione non vuole distruggere interamente le
passioni, il che non sarebbe né possibile né utile, ma solo infrenarle entro
giusti limiti, dando cosf luogo alle virtu morali, che non operano affatto
l'annientamento totale delle passioni (apatia) ma le regolano e le moderano.
Tali virtu sono il frutto della prudenza (jr6- nesis), che riconduce ad una
disposizione equilibrata e giustamente misu- rata l'attività naturale delle
passioni (De virtute morali). L'appello di Plutarco all'aspetto formale
dell'etica aristotelica, il suo puntare sulla moralità come conflitto, sul bene
e sul male come capacità di sapere o meno, di volta in volta, costituirsi
secondo misura oppure no, nettamente respingendo sia l'accettazione passiva di
ciò che avviene, riconducendo ogni avvenimento ad una superiore ragione da cui
tutto dipende (fatalismo stoico), sia l'esigenza, in un mondo ove tutto avviene
a caso, di ritirarsi in conventicole di amici (epicurei- smo: cfr. De latenter
vivendo), sembra rendere esattamente conto del modo con cui Plutarco si è
rifatto a Platone, dandone un'interpreta- zione dinamica, sottolineando,
appunto, tutti quei motivi da cui pare che Platone intenda il mondo dell'Essere
non come un dato, ma come un dovere essere. Si capisce cos(perché Plutarco
perfino sul piano cosmologico - non a caso egli punta sulla natura come
potenzialità - interpreti il Timeo in termini rovesciati rispetto
all'interpretazione stoica, sottolineando che, sia pur posto il divino quale
condizione dell'essere del tutto, delle forme delle cose, non è il divino che
si tra- duce ed è nell'esistenza del mondo, ma è il mondo che, vivente di forze
opposte, si adegua e tende, ascende, dai gradi piu oscuri ai piu luminosi, al
divino, pura intelligibilità, pura luminosità. In tale stoicismo rovesciato,
indipendentemente dal divino, che resta a sé, termine di realizzazione e di
amore, e in tale insistenza sulla vita- lità della natura e sull'esigenza
dell'uomo (la quale, per l'uomo, intuito il divino, diviene un dovere) di
dominare se stesso, di costituirsi come ordine e misura, a simiglianza di Dip,
molti dei motivi relativi alla natura restano quelli stoici (il motivo della
simpatia, il motivo della tensione tra un principio attivo e un principio
passivo, donde si genera e si costituisce il ritmo in cui si scandisce la
realtà). Sul piano umano resta, particolarmente, il motivo della filantropia e,
conseguentemente, i motivi del piu recente stoicismo, come da parte del saggio
l'impegno a operare sempre in funzione di una pacificazione politica, in nome
di una superiore armonia, di un superiore equilibrio delle "ragioni"
mediante cui le società si adeguano alla misura divina, e l'aspirazione
plutarchea a che gli stessi governanti e sovrani siano consigliati e ammaestrati
dai saggi (cfr. Mu.sonio, Anche i re debbono studiare filosofia). Di qui anche
l'importanza data alla cultura mediante cui sviluppare quei semi.di virtu che
sono propri di ogni anima (cfr. sopra Musonio; Plutarco, De educatione
puerorum), cultura che, entro i limiti del possibile e delle varie condizioni
economiche, Plutarco vorrebbe fosse data a tutti ("Tutti i genitori
debbono sforzarsi di dare ai propri figliuoli la piu perfetta educazione;
coloro che non sono sufficientemente liberi si limiteranno a ciò che la loro
fortuna permet- terà di fare. De educ. puer.). Cos(, anche sul piano politico,
l'ap- pello di Plutarco è un appello a una possibile pacificazione, mediante la
cultura e la conoscenza, simile alla pacificazione da lui sostenuta
relativamente alle religioni, una possibilità d'incontro tra le tradizioni
delle antiche p6leis e la realtà di fatto che è l'Impero di Roma. Entro
quest'àmbito Plutarco si muove con molta cautela. Egli riconosce la supremazia
di Roma ("in questi tempi moderni, ogni guerra ellenica, ogni guerra
esterna è fuggita e svanita di mezzo a noi; le nazioni hanno solo tanta
indipendenza quanta ne concedono i nostri padroni": Precetti politici,
824c) e come estremamente limitata sia oramai la pos- sibilità di usare l'arte
politica per i cittadini delle provincie elleniche ("ai nostri giorni,
quando non è piu compito delle città condurre guerre o abbattere tiranni o
negoziare alleanze, quali funzioni politiche restano e quali modi di eccellere
nello Stato? Id., 850a). Entro questi limiti, tuttavia, Plutarco tende a
mostrare la funzione che può ancora avere, sul piano di una socialità ed
eticità intesa ari- stotelicamente, e che perfettamente s'inquadra nei termini
della sua concezione religiosa e della sua interpretazione di Platone, una doppia
azione politica, mediante cui attuare ·la natura umana (sembra chiaro in che
senso Plutarco sottolinei l'antico ideale dell'uomo, tale non in quanto
individuo, ma in quanto animale politico: cfr. Se un vecchio debba governare lo
Stato, 791c), da un lato in modo tale che ciascuno attui, per ~iò che gli
compete, il suo dovere politico entro i limiti della propria Città e,
dall'altro lato, in relazione con il governo di Roma, salvaguardando
nell'armonia dell'Impero le libertà delle proprie p61eis. "Quali funzioni
politiche restano, dungue, nei nostri Stati? Restano gli affari civili da
istruire nei tribunali, le missioni presso l'imperatore, tutte cose che
richiedono un uomo attivo e ad un tempo fermo e pru- dente; in una città vi
sono poi molte istituzioni utili, ma obliate, che conviene rimettere in piedi;
e poi si possono suggerire e attuare riforme (Precetti politici, 805a). N o n
solo, ma, anche, attraverso il proprio esempio,.si deve mostrare cosa voglia
dire essere uomo dav- vero, oltrepassando i singoli nazionalismi, per indicare
come in r.-altà si tratti non di istituzioni o di regimi politici, ma di uomini
("Benevolenza e collaborazione: sono questi i principi che Plutarco
apprezzava di piu. Lo stesso ordinamento a coppie dato da lui alle sue Vite parallele,
ponendo accanto quella di un Greco e quella di un Romano, mostra ch'egli voleva
che i due popoli fossero considerati comple- mentari l'uno dell'altro, non
avversi, e che teneva a sottolineare come entrambi avessero prodotto uomini
famosi nella storia": Sinclair). Non di istituzioni o di regimi politici
si tratta, appunto, ma di volgere l'uomo, attraverso l'educazione e la
filosofia, a farsi simile a Dio, s1 che l'uomo salvandosi mediante la conoscenza,
si pre- pari a ritrovare la propria patria, sollevandosi dalla terra al cielo,
fin da questa terra che è, in effetto, terra d'esilio: •esiliato sulla terra,
io stesso vado errando in questo luogo di miseria; quando Empedocle parla cos1,
non è per sé solo, ma per nòi tutti che afferma essere noi esiliati e stranieri
nel mondo" (De ezilio, 17). Retorica e scetticismo. Favorino di Arles e
Licinio Sura. La « scepsi" e le scienze. Le •questioni." Medicina e
metodo da Menodoto f l Sesto Empzrico Già con Dione Crisostomo si vede bene il
significato del delinearsi di una corrente sofistico-retorica che, avendo
centro in Roma, politica- mente si irradia nei paesi greco-orientali
dell'Impero. Sia pur ora in una situazione politica mutata, rispetto a quella
che sta a.cavallo tra la seconda metà del I secolo a. C. e il principio del I
secolo d. C., ma sempre tesa a una giustificazione dell'Impero, ci rendiamo
conto di come s; po- tesse, su di un piano scettico, assumeado·posizioni
pirroniane, rifarsi al significato politico di posizioni simili a quella di
Cicerone, o, meglio, di un Filone di Larissa, in una dialettica discussione dei
pro e dei contra, onde, discutendo ogni posizione, giungere ad optare per
quella meno incoerente, piu verosimile, politicamente piu utile e adatta alla
vita. Sulla linea di Dione Crisostomo, del quale sembra sia stato discepolo,
tale atteggiamento fu particolarmente assunto da Favorino Arletano (nato ad
Arles).A Roma fin dal principio del n secolo, dove fu iscrittò all'ordine
equestre, in rela- zione con i maggiori centri di cultura (fu ad Atene, a
Corinto, in Asia Minore, dove tenne discorsi e conferenze), amico di Plutarco,
che gli. dedicò il De primo frigido e lo fece interlocutore delle Quaestiones
con- viviales, am;co di Frontone e di Aulo Gellio, Favorino si preoccupò
soprattutto di rimettere in discussione la coerenza dei vari sistemi filo-
sofici, da un lato chiarendone il significato, dall'altro ponendoli l'uno
all'altro di fronte in dialettica opposizione. Egli, cos1, sembra - dei suoi
moltissimi scritti, tutti in greco, non rimangono che alcune ora- zioni e
diatribe, e pochi frammenti, di cui uno, recentemente scoperto, 8 Sulla vita di
FAVORINO di Arles non abbiamo altre notizie se non quelle date sopra nel testo.
abbastanza esteso sull'Esilio, -
nelle sue opere si proponeva di esporre gli aspetti piu salienti delle varie
tesi filosofiche, in forma divulgativa, dando, inoltre, gli strumenti perché
fosse possibile, difesa l'una e l'altra posizione, dimostrarne la
contraddittorietà interna.·Di qui, accanto ai Memorabili, in 5 libri, alla
Storia varia, in 24 libri (come appare dai frammenti che ne possediamo, nei
Memorabili, da cui ha ripreso anche Diogene Laerzio, Favorino riferiva gli
aneddoti fioriti, nel tempo, sui principali filosofi del VI-IV secolo a. C.;
nella Storia varia gli aspetti piu appariscenti delle tradizioni culturali: il
titolo di due frammenti con- servati è già abbastanza indicativo: I. filosofi
che hanno fatto qualche scoperta importante per la storia della cultura; Gli
accusatori dei filo- sofz), ed accanto ad alcuni scritti divulgativi e polemici
(Sulle idee, La filosofia di Omero, Su Platone, Su Socrate e la sua arte
erotica, Sul modo di vivere dei filosofi, Su Plutarco e lo stato d'animo
delfAcca- demico, Alcibiade, Contro Epitteto) ed eruditi (Un compendio di Pam-
file: compendio di uno scritto grammaticale, composto da una certa Pamfile), le
opere fondamentali di Favorino: una in 10 libri, su l tropi pirroniani (in cui,
appunto, si davano gli strumenti, i modi o tropi me- diante i quali dimostrare
l'incoerenza delle varie filosofie, in una ri- presa dei tropi di Enesidemo),
l'altra in 3 libri su la La fantasia cata- lettica, in cui si rimetteva ancora
una volta in discussione. la possibilità, sostenuta dagli stoici e su cui si
fondava la loro gnoseologia, del pas- saggio dalle strutture della ragione alle
strutture della realtà, ed in cui Favorino sosteneva che nulla è afférrabile
(xa."fCXÀ'1)m6v) in sé, ma che ogni rappresentazione è sempre una nostra
rappresentazione. Pirroniano dunque, Favorino accoglieva, su di un piano
retorico la tesi neo-acca- demica di Cicerone, mediante cui, discutendo i pro e
i contra, determi- nare alla scelta della tesi piu verosimile, piu probabile,
praticamente utile, che, sembra, consisteva, secondo Favorino, nell'ipotesi
aristotelica sul piano fisico e logico (scientifico) e in quella
stoico-platonica sul piano etico-politico. Che la posizione scettica, presa
come metodo, potesse assumere un suo particolare significato sul piano
retorico, in funzione politica, me- diante cui convincere a una certa
concezione, sia pur assunta come ipo- tesi, è chiaro. Ma è altrettanto chiaro
in che sen:so lo scetticismo meto- dologico abbia avuto una funzione
preponderante, durante il u secolo, nel processo dell'indagine scientifica. Se
da un lato, entro i termini della retorica, la discussione di· tutte le
concezioni di sfondo poteva ser- vire per determinare una certa visione (sia
essa la stoica, la platonica, l'aristotelica, o meglio nessuna di esse presa in
sé) e a quella convin- cere in un abile uso delle tecniche retoriche;
dall'altro lato, entro i ter- mini di un effettivo sapere (e tale è il
significato di scienza, già molto bene indicato da Seneca: cfr. sopra), la
scepsi, intesa come ricerca cri- tica, costituiva le basi delle possibili ipotesi,
non contraddittorie e perciò veraci, mediante cui spiegare i fenomeni naturali.
In altri termini, anche in questo campo, si presentano innanzi tutto
descrittivamente le varie ipotesi che sui fenomeni naturali si sono avute nel
tempo, insieme a una descrizione dei fenomeni stessi, per poi, contrapponendo
l'una ipo- tesi all'altra, vedendo di ciascuna i pro e i contra, dare la
soluzione piu probabile, determinandone le ragioni (cause) non contraddittorie.
C'è, a tale proposito, una testimonianza assai indicativa di Plinio il Giovane
in due sue lettere a Licinio Sura. Di Licinio SURA sappiamo che nacque in
Spagna, che fu amico di Marziale, che fu tre volte console, vicinissimo
all'imperatore Traiano, per il quale scrisse discorsi e che ebbe grande
autorità. Sappiamo, inoltre, che, uomo di notevole cultura, interessato ai piu
vari movimenti cultu- rali del suo tempo si preoccupò, da un lato di rendere
conto di quei movimenti nella loro funzione politica, dall'altro lato, in uno
studio comparativo delle varie ipotesi sui fenomeni naturali, di discutere i
pro e i contra di ciascuna soluzione. Plinio, appunto, scrivendo a Licinio
Sura, nella prima lettera (Lettere familiari), gli descrive il feno- meno
dell'abbassamento e dell'alzamento dell'acqua che tre volte al giorno
regolarmente avviene nel corso di una corrente che si getta, dalla parte della
sponda orientale, nel ramo comasco del Lario.("ti porto dalla mia terra
natale, a mo' di regaluccio, un problema degno della tua ben nota, profonda
erudizione") e dopo avere avanzato cinque ipo- tesi che servono a spiegare
il fenomeno, ne lascia a Licinio Sura la di- scussione e la possibile soluzione
("esamina tu le cause, tu lo puoi, che producono un effetto cosi
strano"). Nella seconda lettera (Lett. fam.), Plinio chiede all'amico
Licinio Sura se ritiene che i fantasmi esistano oppure no ("vorrei sapere
se gli spettri esistano e se tu ritenga abbiano una propria fattezza e una
potenza divina, oppure siano senza consistenza e realtà e ricevano apparenza
solo dalla nostra paura") e gli riferisce una serie di racconti intorno a
storie di fantasmi. Partico- larmente interessante - anche come testimonianza
su di un certo tipo di credenze e come indicazione di fatti che su altri piani
si tentava di spiegare - è l'aneddoto sulla bella e comoda casa di Atene nella
quale nessuno voleva piu abitare perché la notte ci si sentiva - "nel
mezzo del silenzio della notte si udiva un suon di ferraglia e... uno strepito
di catene da lontano prima, poi piu da vicino, quindi appariva uno
spettro..." - e sulla quale il proprietario mise un affittasi in cui si
offriva la casa a modico prezzo, nel caso "qualcuno, ignorando cosi gran
guaio, volesse affittarla o acquistarla";.la casa fu presa dal filosofo
Atenodoro, che, messo in avviso dal modico prezzo, informatosi, aveva saputo
del fantasma; Atenodoro, pur cercando di distrarsi, assorbendosi tutto nello
studio, senti ugualmente il rumor di catene e vide lo spettro, ma, senza farsi
prendere dal terrore, gli andò dietro finché, nel cortile, il fantasma
improvvisamente svani; segnato il punto, Atenodoro il giorno dopo fece scavare,
su ordine dei magistrati, nel luogo ove il fantasma era sparito: là trovarono
ossa e catene: raccolte le ossa e sepolte a spese della città, "la casa
non fu piu visitata dai Mani, sepolti, secondo i riti." Plinio cosi
conclude la lettera: "Ti prego perciò di volere aguzzare l'ingegno. L'ar-
gomento è degno che a lungo e a fondo tu l'esamini: e neppure sono io indegno
che tu mi apra i tesori della tua scienza. E anche se tu,.come sci solito,
esaminerai il pro c il contro, vedi però di giungere a una conclusione piu
decisiva, per nop lasciarmi in sospeso e nell'incertezza, poiché la ragione del
mio consulto fu il desiderio che cessasse ogni dubbio." Le due lettere di
Plinio hanno un valore documentario di non poca importanza. Molto chiaramente
mostrano le due facce di un unico me- todo di lavoro: a) descrizione di
fenomeni quali si sono registrati ed esposizione delle varie ipotesi
esplicative, indipendentemente da discus- sioni: a tale esigenza di
aggiornamento e di conoscer.za delle varie ipo- tesi, base da un lato per una
preparazione culturale generale e, dal- l'altro lato, per una discussione che
portasse oltre e proponesse ulteriori e piu convincenti ipotesi, hanno risposto,
in quest'epoca, le molte storie e oucstioni naturali, in cui è raccolto di
tutto, e anche le storie delle v2.rie concezioni, insieme alle isagogc, alle
vite dei filosofi, agli aneddoti fioriti su di loro, in un ordinamento per
questioni, per scuole, per di: scendenze (lavori tutti, sotto questo aspetto,
estremamente oggettivi, la cui funzione storiografica è chiarissima e il cui
maggior monumento sono Le vite,.le opinioni, gli apoftegmi dci filosofi celebri
di Diogene Laerzio, che scrisse sul principio del m secolo); b) sulla base dei
dati reperiti - sia mediante il lavoro storiografico sia per nuove esperienze
dirette e personali - confronti e discussioni delle varie ipotesi, da cui si
determinano nuove ipotesi. Entro quest'àmbito, entro i termini di tale ricerca
metodologica, che ha le sue piu lontane origini nel tipo di ricerca proprio
della scuola di Aristotele, si assumono a contenuto di indagine i diversi piani
di feno- meni: dai fenomeni naturali e dalla possibilità di una loro
calcolabilità (fisica, astronomia, astrologia, matematica) ai fenomeni piu
strettamente appartenenti alla natura umana (esperienza religiosa, ivi compresi
i fatti extralogici, miracolosi e straordinari; psicologia; e via di seguito).
E poiché sia per l'una ricerca che per l'altra, sul piano della discussione
delle varie ipotesi avanzate, nella determinazione dei pro e dei contra, si
trattava di precisare le condizioni che permettono una discriminazione e perciò
la possibilità o meno di un giudizio, l'indagine stessa di- viene, innanzi
tutto, studio del giudizio, cioè ·"logica." Di qui, sul piano
scientifico, si vennero chiaramente determinando due vie, a seconda che
l'indagine sulla capacità del giudizio sfociasse o nell'impossibilità di
qualsivoglia giudizio - si pensi alla corrente della medicina empirica, che
trovò il suo fondamento nella tesi piu stret- tamente scettico-pirroniana da
Menodoto a Sesto Empirico, - oppure, rifacendosi alla scuola peripatetica,
fiorita in Alessandria, assumesse come veraci quei principi che per la loro non
contraddittorietà permet- tessero un discorso non contraddittorio, entro cui
sistemare e ordinare tutto il sapere relativo a certi contenuti (si pensi
all'opera medica di Galeno e all'astronomia e astrologia di Tolomeo). Ma di qui
anche, su di un piano piu strettamente scolastico e culturale, la discussione
delle tesi e delle soluzioni presentatesi nel tempo sulle singole questioni,
rag- gruppate in questioni di logica (dialettica e retorica), di fisica, di
etica, e in questioni relative al fondamento del tutto (teologia), accettate o
re- spinte a seconda se ritenute logicamente giustificabili. Si vede bene,
cosi:, come i maestri si volgessero, in tale presentazione delle varie tesi e
so- luzioni al commento e all'interpretazione di testi di Platone, di Aristo-
tele, degli Stoici, degli Epicurei e usassero in funzione dell'una e del-
l'altra interpretazione, nella discussione dei pro e dei contra, nel deter-
minare venice l'una ipotesi piuttosto che l'altra, soluzioni e strumenti non
poche volte accolti dalle stesse posizioni che vengono criticate e re- spinte,
cercando di spiegare entro questi termini anche esperienze nuove, visioni e
concezioni che provenivano non dalla tradizione greco-romana, ma dalle
esperienze religiose dei paesi orientali, in particolare dal- l'Egitto, dagli
ebrei come dai cristiani, dalla Siria. Entro questi termini sembra chiaro anche
come si sia formata da un lato quella soluzione che va sotto il nome di gnosi e
dall'altro lato si sia venuto costituendo il complesso dei libri ermetici,
insieme, per altro verso, alle sintesi che pro- vengono dai commentatori di
Platone, e alle interpretazioni di una certa logica intesa come strumento e
introduzione, che proviene da al- cuni commentatori della logica di Aristotele
e degli Stoici, il piu delle volte usata come introduzione a intendere il
fondamento ultimo del tutto interpretato in termini platonici (e qui ha
principio la formazione del medievale "Platone teologo" e
"Aristotele logico"). Giova, d'altra parte, ricordare ora che già
dalla fine del 1 secolo a. C.,.con Enesidemo, lo scetticismo si era delineato,
di contro ad ogni assun- zione dogmatica, come atteggiamento
critico-metodologico, in un'analisi precisa, da un lato dei modi o tropi
argomentativi, dall'altro lato delle condizioni e dei limiti del discorso, e
che nell'arco di tempo che va da Enesidemo ad Agrippa, l'indirizzo scettico si
era venuto incontrando con l'indirizzo della medicina empirica, finché con
Menodoto di Nicomedia i due indirizzi confluirono in un unico metodo di ricerca
scientifica (da Enesidemo ad Agrippa e Zeucsis; per essi e per i tre momenti
fondamentali del me- todo della medicina empirica, autopsia, historie, mimesis,
che ebbero non poca influenza sul modo della ricerca in generale, si confronti
sopra). È noto che nel campo della medicina si sono determinati tre indi- rizzi
fondamentali: l) l'indirizzo dei medici teorici (Xoyutot), fin dal m secolo a.
C., tra cui con Ateneo di Attalia, vissuto sotto Ner0ne, e i suoi discepoli
Agatino di Sparta e Archigene di Apamea, vanno posti i cosiddetti
"pneumatici" (cfr. sopra); 2) l'indirizzo dei me- dici
"metodici," che, iniziatosi con Temisone di Laodicea e il celebre
Asclepiade di Prusa (o di Bitinia), è proseguito con Tessalo di Tralle (vissuto
sotto Nerone), e Sorano di Efeso (vissuto nel n secolo, sotto Traiano e
Adriano); 3) l'indirizzo dei medici empirici, che, ufficialmente iniziatosi con
Filino di Cos, prosegui, in una sempre maggiore precisazione dell'in- dagine
metodologica, con Serapione di Alessandria (n sec. a. C.), Apol- lonia il
Vecchio, Glaucia di Taranto, Eraélide di Taranto e nel I sec. d. C., con il
celebre oculista Demostene Filalete, con Diodoro, Lico di Napoli, Zopyro di
Alessandria, Archibio, Apollonia di Cizio, Zeucsis, Dionigi di Egea, Antioco di
Laodicea, e tra il I e il u secolo, con Menodoto di Nico- media. I
"teorici" fondavano la loro filosofia e patologia entro il quadro
della concezione stoica, rifacendosi al "pneuma"; i
"metodici", invece, pur rifacendosi all'esperienza, sostenevano esser
necessario, per non trovarsi di fronte a una infinita serie di dati muti,
collegare quei dati stessi ragionevolmente: tale tesi fu sostenuta da
Asclepiade di Prusa e da Sorano di Efeso, il piu grande ginecologo
dell'antichità, autore di un trattato Sulle malattie delle donne e sulle
malattie acute e croniche, insieme agli altri due medici piu famosi prima di
Galeno, Rufo d'Efeso, specialista in anatomia - Sui nomi delle parti del corpo
umano -, studioso della circolazione sul sangue - Sul polso -, della patologia
delle vie urinarie - Malattie dei reni e della vescica - e Areteo di
Cappadocia, sintomatologo e patologo - Sulle cause e i segni delle malattie
acute e croniche. Nella polemica contro i "teorici" e contro i
"metodici," con Menodoto la medicina empirica trovò nella metodologia
scettica il suo fondamento teorico. Senza dubbio l'atteggia- mento di Menodoto
fu soprattutto polemico nei confronti degli altr: due indirizzi medici, forse
anche per ragioni di supremazia profes· sionale, come malignamente fa intravedere
Galeno (De subf. emp., 63-64, in Deichgraeber, Die griechische
Empirill_erschule) parlando di lui e della sua fama. E fu, appunto, per
dimostrare che i "dogmatici" erano nel falso e che nel falso erano
anche i "metodici," il cui atteggiamento nei confronti della pura
empiria, sostenuta dagli "empirici," era effettivamente assai
convincente (la raccolta dei soli dati, se non ragionati e connessi e perciò
discriminati, implica l'inutilità e il silenzio dei dati stessi), che Menodoto
assunse le argo- mentazioni degli scettici, respingendo di essi la soluzione
"probabi- lista," ch'era in fondo la soluzione dei
"metodici," mediante cui far vedere che relativamente ad ogni ipotesi
di spiegazione generale è necessario sospendere ogni giudizio, anche sulle
possibili ipotesi che i metodici traggono dall'analisi dei dati, costituendo
dei quadri clinici entro cui determinare volta a volta le cause delle malattie.
In realtà la polemica di Menodoto è volta a dimostrare l'illecità, sul piano
scientifico, del passaggio dai dati e dall'analisi e. confronti di essi (o
direttamente osservati dal medico, ciascuno in sé e in relazione ad altri dati
e feno- meni, in cui consiste l'autopsia; o, data l'impossibilità che un solo
me- dico possa osservare da sé un gran numero di dati, normali e eccezio- nali,
raccolti dalle osservazioni di altri medici, quali si sono svolte nel tempo, in
cui consiste l'historie) alle ·ragioni, cui, oltrepassando i dati, si giunge,
per via analogica, usando poi le ragioni per spiegare i dati. Menodoto si
rendeva finemente conto che cosi si vengono ad avere due piani, distinti e non
interdipen<)enti, il piano delle esperienze e il piano delle ragioni, per
cui le stesse "ipote~i" dei metodici divengono alla fine simili a
quelle dei "teorici," e altrettanto aprioristiche. Il fervore
polemico di Menodoto contro le posizioni dei "teorici" - c h e
trovano il loro fondamento oltre l'esperienza nelle concezioni del tutto di
tipo platonico, stoico, aristotelico - e contro le posizioni dei
"metodici" - che si fondavano sul motivo del "probabile,"
in maniera altrettanto dogmatica, - sembra abbia condotto Menodoto fino alla
di- struzione della medicina come scienza (paradossalmente, ma coerente- mente,
egli giungeva fino a negare che il medico abbia un fine, anche quello che
Ippocrate e Diocle di Caristo sostenevano essere il movente del vero medico,
l'amore per l'uomo, la filantropia) (cfr. in K. Deich- graeber, Die griechische
Empirikerschule: eine Sammlung der Fragmente und Darstellung der Lehre,
Berlino). In effetto Me- nodoto, rifacendosi alle istanze della scepsi
pirroniano-enesidemiana, e rifiutando ogni teorizzazione, riconduceva con
chiarezza l'indagine umana entro i suoi limiti leciti, l'esperienza, senza con
questo, come ri- sulta dallo stesso Galeno - che pur non aveva grandi simpatie
per Me- nodoto, ma che lo usa per riferire sul metodo della medicina empirica:
cfr. Galeno, Sulle sette, De subfiguratione empirièa; anche Deichgraeber,-
rimaner fermo a una mèra enumerazione di fatti o di casi. Se da un lato lavoro
serio e proficuo è non uscir fuori dal- l'esperienza, non ricorrere
all'analogia, dall'altro lato esperienza significa non raccolta di dati accanto
a dati, non enumerazione all'infinito, ma confronto di dati, osservazione del
loro ripetersi, secondo una certa co- stanza, oppure no, si che sulla base di
dati-rappresentazioni, segni "ram- memorativi" e non
"indicativi" di strutture in sé o di cause segrete (accanto
all'autopsia e all'historie, si pone in tal modo la cosiddetta mimesis), si
possa, in un calcolo dei dati, in ricordi di simiglianze e dissimiglianze,
determinare una certa sintomatologia, in una "descri- zione"
(schizzo, ipotiposi) di un complesso di fenomeni, che non pre- sume affatto di
essere una definizione. Che tale sia stato il metodo della medicina empirica e
che il problema grosso sia stato quello di giustifi- care la validità
dell'esperienza, di contro a chi sosteneva che l'esperienza si annulla in se
stessa, in un ammasso di fatti che non dicono nulla, per cui lo stesso
empirismo finisce in dogmatismo, è testimoniato da Cassio - da non identificare
con il Cassio medico di Tiberio, - scettico, particolarmente antistoico,
contemporaneo di Menodoto, il quale si rife- risce a Menodoto nella critica al
principio dell'" analogia" (cfr. Diogene Laerzio; Galeno, De
subfigur. emp., 40, 13), e da un con- discepolo di Menodoto, Teoda di Laodicea
(Diogene Laerzio). Teoda ràccolse le Tesi capitali della medicina empirica,
scrivendo inoltre un libro su Le sei parti della medicina e una Introduzione
alla medicina, sostenendo che l'esperienza non è affatto una mèra raccolta di
dati, ma è un metodo, che non implica affato l'oltrepassamento dell'esperienza
stessa, né un pàssaggio, per analogia, dal noto all'ignoto, ma un pas- saggio,
nel ricordo, dal simile al simile, ché i fatti stessi non sono noti in sé,
presi ciascuno per sé, ma si fan noti mediante il ricordo di altri
fatti-impressioni, in un discorso coerente per sé, ma che non presume affatto
alla verità (cfr. Galeno, De subfig. empir.). In tal senso, evidentemente,
l'indirizzo della medicina metodica si poteva identificare con l'indirizzo
della medicina empirica, rimanendo valida l'abbiezione dei "metodici"
nei confronti dei puri empirici, e· definitivamente assu- mendo l'indirizzo
"metodico-empirico" l'istanza metodologica e logico- linguistica
dello scetticismo, come ben si vede attraverso Sesto Empi- rico, vissuto tra la
fine del II e il principio del m· secolo, discepolo del medico Erodoto di Tarso,
che, secondo Diogene Laerzio, era successo a Menodoto, ed era stato in rapporto
con Teoda e Teodosio, autore, sembra, di un Commento alle Tesi Capita/t' di
Teoda e di Capitoli scettici, del quale non sappiamo altro se non che fu medico
empirico e di poco piu giovane di Teoda (cfr. Diogene L.; Suda). Scrive,
dunque, Sesto: Poiché alcuni affermano che la setta dei medici empirici
s'identifica con la filosofia scettica, è bene sapere che, se quella setta
empirica afferma reci- samente la incomprennbilità dei fatti oscuri [~ questo
un dogma] né è identica allo Scetticismo, né sarebbe consentaneo per lo
Scettico accogliere quell'indirizzo. Piuttosto, secondo me, potrebbe seguire
quello che si chiama metodico: quest'unico, infatti, tra gli indirizzi medici,
sembra non affermi nulla temerariamente intorno ai fatti oscuri, ma, senza
presumere di dire se siano o non siano compensibili, segue i fenomeni, e da
questi prende ciò che sembra giovare, conformandosi alla maniera degli
Scenici... Tutto ciò, credo, che viene detto dai metodici si può ridurre alla
necessità delle affezioni, quelle che sono secondo natura e quelle che sono
contro natura. (Diciamo che lo scettico non dogmatizza, non nel senso in cui
prendono ·questa parola alcuni, per i quali, comunemente, è dogma il consentire
a una cosa qualunque, poiché alle affezioni che conseguono necessariamente alle
rappresentazioni sensibili assente lo scettico: lpolip, Pi"). Si aggiunga
che comune ai due indirizzi è anche la mancanza di dogmi e l'in- differenza
nell'uso delle parole (diciamo, ad esempio, "valore" senza annet-
tere a questa parola nessun sottile significato, nel suo senso semplice in
rapporto al verbo "valere": l, 9; e cosi lo scenico non dice
"tutte le cose sono false" perché insieme con la falsità di tutto il
resto affermerebbe che falsa è anche la propria affermazione... Nelle sue
espressioni, lo scettico esprime quello che a lui appare, e rivela la propria
affezione senza osser- vazioni dogmatiche, nulla categoricamente affermando
circa le cose che sono fuori di lui). E invero, come lo Scenico adopera, senza
pre- sunzione dogmatica, la espressione "nulla.dò per certo," e
l'altra "nulla comprendo," come ·si è detto, cosi anche il
"metodico" dice • comunanza," "si riferisce" e simili,
cosi semplicemente. Cosi, anche, assume la parola "indicazione,"
senza presunzione dogmatica, in luogo di "guida," verso quelli che
sembrano essere i provvedimenti consentanei, sulla base di quelle che appaiono
essere affezioni secondo o contro natura... Congetturando da questi e altri
fatti simili, si deve dire che l'indirizzo medico metodico ha, piu che gli
altri indirizzi medici, una certa affinità con lo Scetticismo, s'in- tende,
comparativamente agli altri, non in modo assoluto (lpotip. Pi"). 4.
Inurpretazioni di Platone e di Aristotele nel II secolo a) Platonismo,
pitagorismo e aristotelismo. Gaio, Albino, Apuleio. Attraverso Plutarco si
delinea abbastanza bene una certa esigenza e uno dei possibili modi di
interpretare alcuni testi di Platone, anche per dare una forma e un fine all'azione
dell'uomo, che, nel conflitto delle forze che lo agitano, una volta sganciato
dall'Essere, il quale si pone teoreticamente come condizione dell'esistere,
praticamente come modello da realizzare, è libero di adeguarsi all'Essere, o,
rimanendo dilacerato 48 nel conflitto, di restare nella
molteplicità, frantumato nelle proprie pas- sioni, succubo dell'anima malvagia.
Plutarco, certo, ha ritagliato dai molti e complessi testi di Platone, un
aspetto preciso, senza dubbio pos- sibile, qualora quegli stessi testi vengano
isolati da altri, e cioè quel- l'aspetto che può appunto interpretarsi in senso
etico-religioso, nel senso che l'Essere, ciò che dà forma, ragione e
significato alla realtà, si pone come dover essere, come termine di
realizzazione della realtà tutta. Se l'appello a Platone si delinea nella
confutazione contro l'aspetto natu- ralistico e fatalistico dello stoicismo e
contro l'aspetto rinunciatario del- l'epicureismo, certi motivi aristotelici
potevano, invece, essere ripresi come una approfondita interpretazione, sul
piano logico-metodologico, dello stesso Platone (il mondo delle idee tutto in
atto in Dio, forma delle forme, condizione e principio, causa prima e, ad un
tempo, fine ul- timo, motore immobile, donde l'affermazione che, in realtà, per
Platone il mondo delle idee è tutto presente nell'intellezione sempre in atto
di Dio; oppure i due aspetti della realtà fisica, il mondo celeste e
intelligente:: il mondo sublunare, che si potevano interpretare come i due
termini in tensione dell'ascesa al divino; oppure ancora l'aspetto formale del-
l'etica aristotelica; o, infine, la teoria delle sostanze seconde senza di cui
non sarebbero gl'individui, che in realtà si risolvono e si perdono in =tuelle
forme universali). D'altra parte, poiché, come sappiamo, Aristotele non si
esaurisce in questo, e poiché, p\,lntando su una o altra opera di lui, si
poteva interpretare Aristotele come il filosofo che nega la prov- •idenza, lo
stesso dio, pura condizione logica, l'immortalità dell'anima e ma sua
sostanzialità, e, conseguentemente, i dèmoni e gli oracoli, il 3losofo che
risolve il fine dell'uomo entro i termini della stessa uma- lità, che.al
filosofare come impegno etico-religioso, mediante cui dare una forma alla
propria vita, sostituisce il filosofare come studio delle:ondizioni che
permettono di pensare la realtà e le possibili forme di vita, in una raccolta
di dati (historle); l'appello a Platone, entro i ter- mini che abbiamo veduto,
portava a confutare e a rifiutare questi ul- timi aspetti dell'aristotelismo.
Se l'appello a Platone e all'uomo socratico, impegnato nella ricerca di sé e
perciò nel fare i conti con l'essere, risponde, nella crisi di una cultura,
all'esigenza di prospettare un complesso di valori (in quanto valori, non dati
di natura) per i quali merita vivere, la rilettura di Pla- tone, il commento,
nelle scuole, dei suoi testi, portava da un lato, a seconda della confutazione
nei confronti dello stoicismo e dell'epicu- reismo, a sottolineare certi
aspetti delle opere di Platone piuttosto che altri, respingendo ad un tempo
quei motivi di Aristotele a cui abbiamo sopra fatto cenno; dall'altro lato,
all'esigenza scolastica di presentare in un sistema compiuto e coerente il
pensiero di Platone, suddiviso nei 49 capitoli divenuti oramai
canonici: teologia, fisica, -logica, etica, politica. Di tali lavori scolastici
d'insieme (introduzione a una lettura di Pla- tone ed esposizione del suo
sistema ricavato da un sapiente ritaglio di testi dei dialoghi, ove
maggiormente viene usato il Timeo, che appa- riva come il piu sistematico e
l'opera di Platone in cui Platone aveva risolto le aporie del Parmenide e del
Teeteto, attraverso il Sofista e il Filebo) non restano che poche tracce, se
non per l'Epitomè o Didasca- lico di Albino di Smirne, per l'anonimo
commentario del Teeteto e per la Dottrina di Platone di Apuleio di Madaura.
L'Epitomè di Albino e la Dottrina di Platone di Apuleio + sono due 4 Albino,
vissuto nel 11 secolo, fu scolaro, a Pergamo, del platonico Gaio. Di Gaio, che
pur dovette avere una notevole autorità, sappiamo pochissimo, se non le scarse
notizie trasmesseci dai suoi discepoli Albino, Apuleio, e l'autore del Commento
al Teeteto. Le lezioni platoniche di Gaio sembra che siano state pubblicate da
Albino, in nove libri, sotto il titolo Schizzi della dottrina di Platone.
Tornato a Smirne, sua patria, Albino vi tenne scuola. Autore di un Prologo a
Platone (E~yc.>~ ctç TOU I!MTc.>YOç f)lf)Àov: cfr. il testo a cura del
Freudenthal, in "Hel- lenist. Studien," III) e di una Epitom~ o
Didascalico della filosofia platonica, Albino ebbe grande influenza
nell'interpretazione del Platonismo. L'Epitomè fu attribuita ad un certo
Alkinoo. In realtà ciò fu dovuto ad un errore di lettura paleografica, a causa
della confusione che in scrittura minuscola v'~ tra {3 e x. Si è oramai
convinti che Albino e Alkinoo siano la stessa persona. L'Epitomè si divide in
tre parti: Introduzione; La dialettica; Teoria e contemplazione dell'Essere,
fisica; Morale; Conclusione. Diverso per famiglia, formazione, carriera (non maestro
di scuola) fu l'altro disce- polo di Gaio, Apuleio. APULEIO, di cui ~ incerto
il prenome Lucio, nacque a Madaura, nel dipartimento di Costantina. Compiuti i
primi studi a Madaura, Apuleio si ·recò a Cartagine ove frequentò le scuole di
grammatica e di retorica. Venne -quindi ad Atene dove coltivò le scienze
filosofiche. Forse a Pergamo ascoltò Gaio. Certo sub{ l'influenza di Albino
(molte sono le concordanze tra il suo De Platone eiusque dogmate e l'Epitomè di
Albino). Durante il suo soggiorno in Grecia si fece iniziare a molte religioni
di mistero, studiando a un tempo poesia, musica, astronomia, scienze naturali.
Per queste ultime, in particolare, tenne presente le relative opere di
Aristotele e della scuola aristotelica, che non a caso rielaborò in l:itino.
Dopo avere a lungo viag- giato in Asia Minore, Apuleio si recò a Roma dove
svolse attività di avvocato, difen- dendo, con successo, molte cause. Tornato
in patria, durante un viaggio da Madaura ad Alessandria, si ammalò ad Oea
(Tripoli), dove fu costretto a trattenersi. Ad Oea entrò in dimestichezza con
Lolliano Avito, proconsole d'Africa e là ritrovò un giovane amico conosciuto ad
Atene, Sicinio Ponziano. Sicinio Ponziano era il figlio maggiore di Pudentilla,
vedova da molti anni di Sicinio Amico. Secondo lo stesso Apuleio, Sicinio
Ponziano lo convinse a sposare la madre, che desiderava rifarsi una famiglia.
La donna era di una diecina di anni piu anziana di Apuleio, di circa quaranta
anni, non 6ella, ma assai ricca. Ebbe allora nemici i parenti del primo marito·
di Pudentilla, i quali avevano pensato di spartirsi i beni della vedova.
Dimostratasi falsa l'accusa che Apuleio avesse ucciso Ponziano, ch'era nel
frattempo morto a Cartagine, i parenti del secondo figlio giovinetto di
Pudentilla, Sicinio Pudente, accusarono Apuleio di avere costretto la donna al
matrimonio usando filtri e incantesimi magici. Apuleio, trascinato in tri-
bunale, davanti al proconsole romano Claudio Massimo, energicamente si difese,
con successo, dall'accusa di magia. La difesa, pronunciata, nel 158 circa, ~
giunta a noi - certo dallo stesso Apuleio rielaborata e sviluppata - sotto il
titolo Apologia ossia Pro se de magia liber. Prosciolto da ogni aceusa di
magia, Apuleio si ritirò a Cartagine, dove, per la sua eloquenza, per le sue
brillanti conferenze, per la sua capacità di parlare 50 opere di
grande importanza per una ricostruzione storica del plato- nismo nel u secolo:
se da un lato indicano un preciso modo di inter- pretare Platone, dall'altro
lato chiariscono non solo un metodo di la- voro, ma spiegano anche come per
presentare un pensiero di Platone - nel suo complesso interiormente coerente -
che abbraccia tutti i rami del sapere (filòsofìa), si sia potuto, per alcune
parti (la logica in parti- colare) ricorrere a certi aspetti della logica di
Aristotele, reinterpretata attraverso l'elaborazione formale-linguistica della
logica del primo stoi- cismo, in un recupero di Aristotele in funzione
platonica. Scrive Albino, aprendo la sua Epitomè: Ecco quale potrebbe essere
l'esposizione delle principali dottrine di Platone (rc";)v xup~Cù't'CXTCùV
ll:>..IX't'Cùvoc; 30"(!J.tX't'CùV 't'OL«U't"7j 't'~ &v
3~ataxotÀ(« yivo~'t'o). La filosofia è un'aspirazione [cfr. Platone,
Definizioni, 414b; Buti- demo, 275a] alla sàpienza (l>pEç~ aocp(atc;), o, se
si vuole, lo scioglimento dell'anima che si allontana dal corpo, quando ci
volgiamo all'intelligibile e alla verità [cfr. Pedone, 67d, BOe; Rep., 521c];
la sapienza (O'ocp(«) è la scienza (br~OTf)!Ll))delle divine e delle umane
cose... (Epitomè, l, l). E cosf conclude l'opera Albino: Queste nostre
delineazioni bastano per servire di introduzione (daatyeù"'{'fj) allo
studio della dottrina di Platone (dc;· TY)v llM't'Cùvoc;
30"(!J.«'t'01toLL«V e:tp-i'ja.&at~)Alcune si presentano, forse, bene
articolate, altre invece mancano di ordine c di articolazione logica; ad ·ogni
modo questa nostra esposizione permetterà di esaminare le altre dottrine di
Platone e di trovarne la spie- gazione (Epitomè). E dopo avere delineato la vita
di Platone e la sua formazione, scrive Apuleio: In questo nostro trattato
cerchiamo di far conoscere le meditazioni, o, come si direbbe in greco, i dogmi
formulati da questo grande filosofo, per indifferentemente in latino c in
greco, saÌl in grandissima fama, tanto che ancora vivente gli furono erette
statue, c fu nominato oratore ufficiale della città. Mori a Cartagine nel 180
circa. Delle molte opere di Apuleio sono rimaste: i Florida (un'antologia di
discorsi, (XIm- posta di ventitré pezzi), l'Apolo6ia (Pro se de ma6ia), il De
deo Socratis, il De Platone eituque dogmatis (in tre libri), il De mundo
(riclaborazione del De mundo dello pscudo- Aristotclc), le Metamorphoses l. XI
(il capolavoro di Apulcio: un romanzo in cui si narrano le avventure di un
giovane, un ceno Lucio, greco, che trasformato in asino per magia, ritorna uomo
con l'aiuto della dèa Isidc). Degli scritti perduti si ricordano i seguenti
titoli: De arboribus, De re rustica, Medicinalia, Astronomica, De arithmetica,
De musica, Quaestionn conviviales, De Republica, Eroticos, Epitome
historitlrum, Herma- goras. Sembra, infine, che Apuleio abbia tradotto in
latino il Pedone cd alcune opere di Aristotele. utilità del genere umano, in
fisica, in morale, in dialettica. Cosf, com'egli giunse per primo a coordinare
tra di loro le tre parti costitutive della filo- sofia, anche noi parleremo
separatamente di ciascuna di esse, cominciando da quella parte della filosofia
che ha per oggetto la natura (Apuleio, La Dot- trina di Platon~). Se l'intento
estrinseco di Albino e di Apuleio è evidente (presenta- zione in un ordine
sistematico delle fondamentali dottrine di Platone, che serva da introduzione,
isagoge, allo studio del pensiero platonico), altrettanto evidente è il loro
intento intrinseco nello scrivere una "mono- grafia" su Platone:
avviamento, attraverso Platone, ad una filosofia si- stematica, tale che non
contraddittoriamente renda conto, in un solo sapere, dei limiti e dei fini
dell'uomo, in funzione di un'unica visione pacificante, ove ciascuno, consapevole
di sé, socraticamente, attuando se stesso, realizzando sé si possa salvare
facendosi simile al divino. "La vi- sione contemplativa (.&ewp(at)è
l'attività della mente (!vtpyeLOt -rou vou)," dice Albino con termini
aristotelici, "che concepisce gl'intelligibili; l'azione è l'atto di
un'anima ragionevole (>.oyLxlj) che agisce, interme- diario il corpo.
L'anima contemplante (&wpouaat) il divino e le nozioni a lui relative si
dice essere un'anima ben disposta, e tale modo d'essere dell'anima è quel che
si è chiamato pensiero (q~p6V1Jau;), che, si potrebbe dire, non in altro
-consiste se non nel farsi ·simile al divino (oòx ~upov et7toL &.v TL<;;
e!vat~ njç 7tpÒç TÒ &L"ov Ò!J.oL6>a&:wç)" (Epitom~,II, 2).
Ed Apuleio scrive: "La filosofia fino. al tempo di Platone divisa in tre
sezioni, fu da lui riunita in un sol corpo. Egli dimostrò che queste di- verse
parti erano mutualmente indispensabili l'una all'altra; e che non solo esse non
erano in contrasto, ma che, anzi, l'una serviva all'altra. Infatti, benché
avesse attinto a diverse scuole questi elementi della scienza filosofica, e
cioè: quel che riguarda la natura ad Eraclito, la logica a Pitagora, là morale
a Socrate; di tutti questi membri distaccati egli seppe tuttavia fare un sol
corpo, ed appunto in questo consiste la sua originalità... Orbene, tale visione
sistematica ha una grande utilitl per il genere umano. Vogliate scuotere e
agitare Platone: ciascuno, onorandosi di appli- carlo a se stesso, lo trae
dalla parte che vuole" (Montaigne, II, 12). Nelle parole di Montaigne è
implicita un'osservazione storica di primo piano, e cioè che, appunto, non
esiste un "platonismo," ma tanti "platonismi," ciascuno,
almeno in parte, effettivamente platonico, ciascuno avendo assunto a Platone,
uno o altro aspetto, a seconda della propria esigenza. Ad ogni modo, entro i
termini di una comune problematica, l'impostazione delle opere platoniche di
Albino e di Apuleio, serve non poco ad illuminare le tracce che abbiamo delle
altre opere su Platone, degli 52 altri commenti ai dialoghi
platonici che fiorirono lungo il II secolo, e, ad un tempo, a chiarire, per
altro verso, il significato dei commenti a certe opere precise di
Arislotele,·da parte dei peripatetici del I secolo d. C. fino ad Alessandro di
Afrodisia (seconda metà del II secolo). Innanzi tutto sembra chiaro che, quali
che siano le interpretazioni del pensiero platonico e, di volta in volta, la
funzione data all'esposi~ zione e sistemazione in un unico corpo dottrinario
della filosofia di lui, il primo lavoro sul complesso dei dialoghi platonici e
sulle "filosofie" scaturite dalle molteplici interpretazioni del
pensiero platonico (da quelle di Speusippo e Senocrate a quella di Aristotele,
da quella di Arcesilao e di Carneade a quelle di certi stoici, di Antioco di Ascalona,
di Cice- rone e di Eudoro) sia stato, appunto, un lavoro di sistemazione e di
enucleazione, simile al lavoro che si svolgeva per le altre filosofie, per
presentare dell'una o dell'~ltra un corpo dottrinario coerente e compiuto. Vediamo
una serie di lavori che raccolgono insieme, in un sol corpo, le argomenta-
zioni degli scettici, culminanti nella grande opera di Sesto Empirico, le
Ipotiposi pi"()fliane, e come c'incontriamo in una serie di sillogi del
pensiero stoico, particolarment-e difficili, dati i tanti tipi di.stoicismo da
Zenone in poi, per cui tali sillogi del pensiero stoico il piu delle volte
presentano un corpo dottrinario stoico che non ha piu nulla a che fare col
pensiero dell'uno o dell'altro stoico, come si vede bene nella presentazione
che dello stoicismo farà Diogene Laerzio nel VII libro delle Vite; cosi avviene
per Platone, per il corpo platonico e per il com- plesso delle interpretazioni
di. lui, ove, puntando su di uno piuttosto che su di un altro dei molti aspetti
del platonismo, ciascuno dei quali poteva rispondere ad una piuttosto che ad
altra esigenza, si poteva cavarne un tipo di filosofia piuttosto che un altro,
pur usando, ritagliati, testi tratti da tutti i dialoghi, in una ripresa o in
un rifiuto dell'interpretazione che di Platone avevano dato Aristotele o gli
stoici. Se ricordiamo ora il significato che, ad esempio, nel campo medico
avevano assunto le raccolte delle ipotesi e delle tesi, in un tutt'uno che
costituisse il com- plesso del sapere medico, ed a cui, nella descrizione di un
certo com- plesso di fenome~i, raccolti sotto un sol quadro clinico, si dava il
nome di ipotiposi, schema di un qualche sapere (il che presuppone un corpo di
dottrine sparse, un insieme di libri, ove è depositato un certo sapere, dal cui
commento e dalla cui discussione, trarre il "libro"), sembra chiaro
non solo l'intento scolastico di queste opere e commenti plato- nici, ma anche
il loro intento filosofico, l'importanza da essi data al- l'auctoritas. E ciò,
ad esempio, è denunciato non solo dalle opere di Al- bino e di Apuleio, ma
anche dal titolo che fu dato a un corso di lezioni su Platone (opera·, andata
perdut~), tenuto da Gaio a Pergamo, che, raccolto e pubblicato in 9 libri da
Albino, che di Gaio fu discepolo, ebbe appunto il titolo di lpotiposi delle
dottrine platoniche (l'1to-ru1twaeLc; 7tÀ«'r6>VLx&v 3oy(.UX-r6>v; ove
va sottolineato che non è forse un caso che si dica platoniche e non di
Platone). Gaio, vissuto nella prima metà del I I secolo, insegnò a Pergamo,
dove ebbe scolari Albino (metà n secolo), Apuleio (nato nel 125 circa, morto
nel 180) e l'anonimo autore del Commentario al Teeteto. Attraverso il Prologo a
Platone (probabilmente un estratto di un'opera maggiore: cfr. J. Freudenthal,
Hell. Stud., 3, Berlino) e l'Epitomè o Didascalico di Albino (l'Epitomè fu
ritenuta un tempo opera di un certo Alkinoo: si è oggi dimostrato che Alkinoo
non è mai esistito, e che al posto di Alkinoo va letto Albino; l'equivoco fu
dovuto a un errore materiale, alla confusione in scrittura minuscola tra ~ e x,
risalente al IX secolo: cfr. Freudenthal, op. cit.; P: Louis, lntroduction à
l'Epitomè di Albino, Parigi, 1945, p. xm), ed attraverso La dottrina di Platone
di Apuleio sembra si possa precisare, facendolo risalire a Gaio, un certo tipo
di interpretazione e di sistemazione di Platone. A parte la riduzione del
pensiero platonico ai tre aspetti divenuti canonici della filosofia: teoria
(contemplazione dell'essere: della. teoria, la parte che si occupa delle cause
prime e immobili, di tutte le cose divine si chiama teologia; quella che studia
il movimento degli astri, le loro rivoluzioni e ritorni periodici, e il
costituirsi del cosmo, è la fisica; quella che utilizza la geometria e le altre
scienze analoghe è la matematica: cfr. Albino, Epìt., III, 4); pratica (studio
di quali debbano essere le regole dei costumi, l'amministrazione di una casa,
il modo di governare e sal- vare lo Stato: la prima di queste attività si
chiama etica, la seconda economica, la terza politica: cfr. Albino, Epit., III,
3); logica (analisi dei ragionamenti, detta dialettica, in quanto studio di
come è che si deve ragionare; cfr. Albino, Epit.); ciò che piu colpisce,
nell'in- terpretazione del pensiero di Platone sulla linea indicata da Gaio è
lo sforzo continuo di rendere non contraddittorie, cioè dimostrabili, e per-
ciò razionalmente accettabili, con metodo aristotelico (l'Aristotele dei
Topici, dei Secondi Analitici e del De lnterpretatione: cfr. sopra I volume) le
tesi platoniche esposte in funzione di una visione uni- taria del tutto (il piu
delle volte mettendo in forma, sillogizzando, testi effettivamente di Platone,
ricavate, ad un tempo, in un sapiente montaggio, da dialoghi diversi). Sembra
chiaro cosi perché l'esposi~ zione di quella parte della filosofia platonica il
cui oggetto è lo studio di quale debba essere un corretto pensare, venga
strutturata con il linguaggio e nei termini di alcuni dei libri logici di
Aristotele. Per Albino, anzi, lo studio del retto pensare (ch'egli ricava da
Aristotele) sarebbe stato il punto di partenza di Platone, per avviare a
comprendere da un lato i principi e le cause prime del tutto, dall'altro lato
il posto che nell'ordine del tutto ha da assumere l'uomo, nei confronti di quel
tutto e nei confronti degli altri uomini. E per altro verso Apuleio, dopo avere
esposto nel I libro della sua Dottrina di Platone la "filosofia
naturale" e nel II la "filosofia morale," dedica il III alla
logica ricavando tutto ciò che dice- perfino gli esempi- dal De lnter-
pretatione di Aristotele, tanto che si è dubitato che il libro III sia davvero
di Apuleio. La questione, forse, si fa piu chiara quando si pensa a quello che
fu il lavoro di Aristotele nei confronti dell'ultimo Platone. Quali che siano
state le soluzioni di Aristotele, certo è che quella di Aristotele fu, almeno
in principio, una delle possibili inter- pretazioni della tematica platonica,
che - prendendo le mosse dal- l'interpretazione metodologica del Platone del
Teeteto, del Parmenide e del Sofista - tendeva a risolvere le aporie platoniche
- essere uno e idee, idee separate, rapporto tra l'uno e i molti, tra
l'impossibilità di pensare le forme senza contenuti, e i contenuti senza forme
- in uno studio sistematico di quelle che sono le condizioni logiche che
permet- tendo un tipo di discorso non contraddittorio risolvessero quelle
aporie stesse, assumendo come vera quell'ipotesi che non fosse piu oppugna-
bile. Aristotele giunse dove giunse, ma intanto il suo metodo d'inter-
pretazione e di discussione dialettica delle ipotesi, per determinare i principi
non piu discutibili da cui trarre discorsivamente ciò che in essi è implicato,
poteva servire all'analisi delle tesi platoniche per ren- dere giustificabile,
cioè razionalmente deducibile, e per ciò stesso con- vincente, quello che
sembrava l'intento fondamentale di Platone ed in particolare il punto cruciale
e piu equivoco del pensiero platonico, il rapporto essere-idee,
unità-molteplicità, che, assunto in termini aristo- telici, si poteva ritener
risolto da Platone nel Timeo. b) l commentatori di Aristotele: Alessandro di
Ege, Aspasia, Adra- sto di Afrodisia, So'Sigene, Ermino, Aristocle di Messene.
A tale propo- sito, anzi, non va dimenticata qui l'influenza che tra il I e il
11 secolo, aveva avuto l'edizione del corpus aristotelicum dovuta ad Andronico
di Rodi, che dette luogo, in un progressivo accantonamento delle prime opere di
Aristotele, ad una serie di commenti e di. introduzioni ad una lettura di
Aristotele. Purtroppo dei commentatori del 1 secolo e di alcuni 6 Su Andronico
di Rodi si veda sopra. Ad Andronico di Rodi, che, successo a Erimneo, fu
scolarca del Liceo, in Atene, tsuccessero: sul 45 circa, Cratippo di Pergamo;
sotto Augusto, Xenarco di Seleucia, che insegnò anche ad Ales- sandria e a
Roma;, Menefilo;, Aspasio, Ermino, Alessandro di Damasco, Aristocle di Messene,
Sosigene. Della loro vita non sappiamo niente di preciso. del n non sono
rimaste che testimonianze e la precisazione di quali opere di Aristotele hanno
commentato. Ma sono già indicazioni assai interessanti. Di Alessandro di Ege,
vissuto nel I secolo, che sembra sia stato tra i precettori di Nerone (cfr.
Suda, s.v.), sappiamo che compose un commento alle Categorie di Aristotele, in
cui ne sosteneva il significato formale linguistico, assumendole quali
condizioni di possibili giudizi e fondamenti logici della possibilità del
reale, determinando la struttura dell'universo (e in tal senso sembra abbia
commentato il De coelo). Di ASPASIO sappiamo che commenta le Categorie, il De
lnterpretatione, il De coelo, parti della Metafisica e l'Etica Nicomachea (di
quest'ultimo commento è rimasto un frammento: in Commenl. in Arin. graeca,
Berlino). Di Adrasto di Afrodisia, fiorito, come sembra, nella prima metà del n
secolo,. ritenuto dagli antichi uno dei maggiori interpreti di Aristotele, sappiamo
che scrisse un'opera per delineare quale doveva essere l'Ordine degli scritti
di Arinotele (cfr. Galeno, in Gercke, Pauly-Wissowa, R.E.) e che sosteneva
doversi porre al principio di tali scritti, a mo' di introduzione e quale
condizione me- diante cui comprendere la via metodologico-logica attraverso cui
Aristo- tele giunge a determinare la propria posizione, le Categorie e i
Topici, mentre, per altro verso, usando il metodo di Aristotele commentava il
Timeo di Platone (cfr. Porfirio, In Ptol. harm., ed. Wallis, Opera malh.) e
dava un quadro generale, entro questi termini, del sapere astro- nomico fino a
Ipparco di Nicea (cfr. Teone di Smirne, Conoscenze matematiche utili a una
lettura di Platone). Di Sosigene, vissuto nel II secolo, sappiazpo che commentò
la logica di Aristotele, cercando, a quanto pare, di renderne conto in termini
matematico-formali, risolvendo quindi in termini geometrici la teoria delle
sfere e della visione. Anche Erminio, vissuto nel u secolo, discepolo di
Aspasio, commenta particolarmente i libri logici (Categorie, De
lnterpretatione, Analitici primi, Topia), sostenendone il valore formale. Cosi,
sembra, sottolineando la contraddizione che v'è nel porre Dio motore immobile e
il movimento dato da esso al tutto, Erminio interpretava, nel suo commento alla
Fisica, il dio aristotelico come condizione logica, l'atto primo cui tutto
aspira, per cui bisogna supporre non Dio che muove, ma la realtà tutta che si
muove, in quanto ha in sé un'anima: ed Erminio sosteneva che tale era il significato
dell'anima mundi del Timeo di Platone. 56 Su questa linea non
sembra perciò un caso che il siciliano Aristocle di Messane (u secolo) potesse
sostenere, come appare dai frammenti (in Eusebio, Praep. ev.) rima- stici dalla
sua Storia della filos_qfia, che tra Platone e Aristotele v'era un perfetto
accordo (cfr. Alessandro di Afrodisia, De anima, Il, 110, 5-113 ed. Bruns), e
che l'aristotelismo si poteva delineare come l'in- terpretazione logica del
platonismo (del resto, pare, tesi già soste- nuta fin dal I secolo a.C. sulla
scia di Antioco di Ascalona, e in chiave stoica, da Eudoro, da Ario Didimo, da
Aristone di Aless;m- dria, che commentò gli Analitici e le Categorie e da
Alessandro di Ege, del I secolo d. C., anch'egli commentatore delle Categorie).
Cos{, anche gli aristotelici del 1 e della prima metà del II secolo tendono a
una interpretazione e familiarizzazione dell'universo, in una visione unica del
tutto, a cui doveva servire la filosofia, intesa, ora, come scienza delle
scienze, avente il suo criterio nell'analisi dei discorsi, per cui non a caso
al complesso dei libri logici di Aristotele fu dato il nome di "stru-
mento" (6rganon). E ciò, per quel che ne sappiamo, è denundato dall'in-
teresse per certi libri logici (Topici, Categorie, Secondi analitiet) e per la
Fisica e il De coelo di Aristotele, messi accanto al 'fimeo dì Platone. At-
traverso lo studio dei "luoghi" argomentativi si cercava di
determinare le possibilità del discorso scientifico - indipendentemente da uno
o altro contenuto - che poteva dar luogo a deduzioni, linguisticamente cor-
rette (donde la ripresa della genesi del discorso qual'era stata formu- lata
dai primi stoici, per rendere possibile la predicazione), sulla strut- tura e
l'ordinamento del tutto, che si poteva, perciò, interpretare in chiave stoica
(vedi De mundo dello pseudo:Aristotele) e in chiave pla- tonica, risolvendo il
mondo delle idee - il punto piu problematico di Platone - in intellezioni in
atto della stessa sostanza una, cioè del divino, il quale non è in quanto sia
qualcosa, ma in quanto ragion d'essere in atto del tutto, cui tutto per
esistere deve conformarsi, per cui l'essere è presente nelle cose in quanto
forme e tutte le trascende m quanto forma delle forme (ed è perciò incorporeo).
c) Il «platonismo11 di Albino. Teone di Smirne. Entro questi ter- mini si fa
chiara la soluzione dell'aporia platonic~ uno-idee, idee-cose molteplici, di
cui già troviamo traccia fin dal I secolo a.C., ma che nell'Epitomè di Albino ha
la sua formulazione piu esatta, e nella maniera che diverrà poi tipica di una
certa tradizione platonica. Dopo avere discusso gli elementi e le funzioni
della dialettica, distinguendone le varie parti (divisione, definizione,
analisi, induzione e sillogismo, significato del linguaggio), e, dopo
aver determinato attraverso essa le condizioni delle singole scienze
(aritmetica, geo~etria, stereometria, astronomia, musica) mediante cui giungere
ai primi principi e cause, condizioni non piu dialetticamente oppugnabili, da
cui dedurre tutta la struttura e il costituirsi dell'universo, dice, dunque,
Albino: Dopo di che, seguendo il nostro piano, bisogna parlare dei principi e
dei precetti della Teologia. Prendendo le mosse da questi primi problemi,
passeremo ad esaminare l'origine del mondo e di qui giungeremo all'origine e
alla natura dell'uomo. Parliamo innanzi tutto della materia [{));'): il ter-
mine è ripreso chiaramente da Aristotele]. Platone le dà i nomi di "porta-
impressioni" (èx!l4yei:ov), "ricettacolo universale,"
"nutrice," "madre;· "spazio," (xwpat), sostrato
incapace di sentire e che non è afferrabile se non con un ragionamento bastardo
[cfr. Timeo]. La sua funzione propria è di ricevere i frutti di ogni nascimento
e di avere il compito di una nutrice che tutti li accoglie nel suo seno e ne
prende tutte le forme, nonostante essa, per sua natura, sia senza figura, senza
qualità e senza forma... [appunto per poter ricevere tutte le forme]. La
materia perciò non è né corporea né incorporea: essa è un corpo solo virtualmente,
sf come si può dire del bronzo che è virtualmente una statua, poiché non ha che
da ricevere una certa forma per essere una statua [evidente riferimento ad
Aristotele: Metafis.; Fisica] (Epitomè,). Oltre alla materia, che costituisce
un primo· principio, Platone ne ammette altri: uno consiste nei paradigmi, cioè
nelle idee, l'altro nel padre e causa di tutte le cose, cioè Dio. L'idea, in
rapporto a Dio, è l'intellezione di lui stesso (la·n 8è ~ t8éat 6>c; (Ùv
7tpÒç.8-eòv v61jatc; otÙ-rou); in rapporto a noi è il primo intelligibile; in
rapporto alla materia, la misura; al mondo sensibile, il paradigma;
relativamente a se medesima, allorché si esamina, è l'essenza (oùa(ot)....Le
Idee sono le operazioni eterne e perfette in sé della intellezione divina. E
che le idee siano lo si può stabilire cosi: posto che Dio è una mente o un
essere pensante, egli l}a dei pensieri e tali pensieri sono eterni e
immutabili: se còsf è, le Idee sono. D'altra parte, se la materia non può
misurarsi da sé, è necessario ch'essa trovi tale misura altrove, in qualcosa di
piu eccellente, e di non materiale: ammesso l'antecedente ha da esserci il
conseguente: le idee dunque esistono e sono misure immateriali. Non solo, ma se
il mondo quale è non esiste in virtu di una causa fortuita, è stato fatto non
solo di un qualcosa, ma anche da qualcosa e mediante qualcosa. E ciò mediante
cui è stato fatto, cosa è se non l'Idea? Le Idee dunque esistono.... Di qui
anche il terzo principio che Platone considera come quasi inesprimibile. Noi
possiamo tuttavia afferrarlo grazie al seguente ragionamento: se gli
intelligibili sono e se non cadono sotto i sensi né par- tecipano del mondo
sensibile, ma ai primi intelligibili, i primi intelligibili sono in senso
assolutlo, sf come sono i prirlli sensibili. Ammesso questo, si deve ammettere
anche tutto ciò che ne consegue. Dato che gli uomini sono un complesso di
impressioni sensibili tanto che perfino quando si propongono di concepire
l'intelligibile, vi mescolano qualche apparenza sensibile, come l'idea di grandezza,
di figura o di colore che essi spesso vi aggiun- gono, è loro impossibile
concepire con purezza l'intelligibile: gli dèi invece si liberano dal sensibile
e concepiscono l'intelligibile in forma pura e sem- plice. D'altra parte,
poiché l'intelletto è superiore all'anima e al di sopra dell'intelletto in
potenza (!v 3uvoc(Ut) si trova l'intelletto in atto (xcx-r' hépy&Lotv) ed è
sempre in attività, poiché piu grande ancora è la bellezza di ciò che ne è la
causa e che è superiore a tutto il resto, ecco il primo dio, il motore che fa
agire senza interruzione l'intelletto del cielo intero. Tale primo intelletto
deve, dunque, concepire sempre se stesso ad un tempo concependo i propd
pensieri, ed è in tale attività dell'intelletto che con- siste l'Idea. Il primo
Dio, dunque, è eterno, indicibile, perfetto in sé, cioè sertza bisogni, sempre
in sé compiuto, cioè perfetto in tutti i tempi, ovunque perfetto, cioè perfetto
in tutti i luoghi. Esso è la divinità, la sostanzialità, la verità, la
proporzione, il bene. E non dico q'lesti termini per separarli, ma per far
concepire, mediante la loro unione ch'esso è un tutto unico... Dio è indici-
bile ed afferrabile solo con l'intelletto, come abbiamo detto, poiché egli non
è né genere, né specie, né differenza specifica e neppure può subire acci-
denti... Egli non è qualità, perché è estraneo ad una qualità e la sua perfe-
zione non è dovuta a una qualificazione; non è assenza di qualità, poiché non
manca delle qualità che possono essergli proprie; non è parte di qual- cosa né
un tutto che abbia parti, non è identico a una o ad altra cosa... esso infine
non dà né riceve movimento. Attraverso queste successive costruzioni si avrà
una prima idea di Dio, come si giunge a concepire il punto facendo astrazione
dal sensibile, muovendo dall'idea di superficie, poi da quella di linea, per
giungere infine al punto. Ancora:. ci possiamo fare un'idea di Dio procedendo
per analogia...: come il sole non è la vista, ma permette alla vista di vedere
e agli oggetti d'esser veduti, cosi il primo intelletto non è l'intelletto
dell'anima, ma dà all'intelletto dell'anima la facoltà di conce- pire e agli
oggetti intelligibili d'essere concepiti, illuminando la verità ch'essi
contengono. Esiste un terzo modo di farsi un'idea di Dio: [dalla contem-
plazione del bello che risiede nei corpi, passare alla bellezza dell'anima e di
qui al bello che è nei costumi e nelle leggi, per risalire infine al vasto
oceano del bello... ] (Epitomè). Il testo di Albino è certo molto chiaro per
renderei conto di un tipo di interpretazione della problematica di Platone
relativa al rap- porto Uno-idee, idee-cose, problematica che si risolve
attraverso uno degli aspetti della logica aristotelica. Eliminando via via le
contrad- dizioni si giunge a porre come· condizioni non contraddittorie della
pensabilità del reale da un lato l'informe, dall'altro l'intelligibile in atto,
l'essere come pensiero in atto; il cui discorso è la stessa realtà,
ripercorrendo la quale si arriva a cogliere l'atto pensante, appunto in sé
indicibile, perché sempre in atto discorso intiero, ma da cui si ridi- scende a
tUtti i nf'ssi che costituiscono la trama e il ritmo su cui si 59
scandisce la realtà, sempre in atto allorché s'intende l'Uno pensiero, e
perciò eterna, processo e tempo, in quanto se ne ripercorrono le trame su cui
appunto la realtà si costituisce. In tal senso Dio, la prima essenza, il ciò
senza di cui nulla è (causa, per cui grammaticalmente il verbo, l'è, la
sostanza è la condizione della predicabilità), viene a porsi, in chiave aristotelica,
come la condizione logica che rende pen- sabile la realtà, e, appunto perciò,
pensiero di pensiero, intellezione in atto e, dunque, sempre in atto
aggettivazione (e, per questo, idee sono dette le aggettivazioni
dell'intelletto in atto, del primo intelletto), onde incorporeo, cioè non cosa
è Dio, non forza fisica, ma pura intel- ligibilità. Assume qui un suo
particolare significato l'opera di Teone di Smirne,T vissuto nella prima metà
del n secolo (egli cita a lungo Adra- sto, si serve del suo commentario al
Timeo e delle sue teorie astro- nomiche, ma non cita Claudio Tolomeo),
intitolata TC>v xct-r« -ro !J4&1liJ4-rLxllv lP7JcniL(a)V dc; -rljv
llM-r(a)voc; clvtiyv(a)aLv (Conoscenze matematiche utili alla lettura di
Platone). L'opera di Teone di Smirne, giuntaci quasi intera, si muove, per
l'intento e per i risultati, entro l'àmbito del pensiero di Gaio e di Albino. È
anch'essa una introdu- zione a Platone, per giungere, attraverso un certo modo
di leggere Platone, a farsi simili alla divinità (npllc; -rllv &ellv
61Lo((a)aLt;), sapendo rendersi familiari a sé e al mondo, come già Gaio
diceva, riprendendo u n termine stoico (otxe((a)ar.t;, oichéiosis). Sotto
quest'angolo visuale, Teone, rifacendosi alle cinque scienze da Platone
indicate come fon- damentali per la formazione del filosofo (ma si veda anche
Nicomaco di Gerasa), fa un'ampia esposizione in forma sistematica delle varie
teorie svoltesi nel tempo, costituenti, insieme, l'aritmetica, la geome- tria
piana, la stereometria (geometria solida), l'astronomia e la teo- ria musicale.
Nel timore che coloro, che non hanno avuto la possibilità di coltivare le
matematiche e che tuttavia desiderano conoscere gli scritti di Platone, non
siano costretti a rinunciarvi, daremo qui un sommario e un riassunto delle
conoscenze necessarie e la tradizione dei teoremi matematici piu utili sul-
l'aritmetica, la musica, la geometria, la stereometria e l'astronomia, scienze
senza le quali è impossibile essere perfettamente felici, come Platone dice
[Epinomide, 992a], dopo avere a lungo dimostrato che non si debbono tra-
scurare le matematiche (l). L'opera di Teone, preziosissima per una
ricostruzione della storia delle singole scienze trattate, particolarmente per
l'astronomia, è pre- T Quasi nulla sappiamo ddla vita di Teone di Smirne [ziosissima
anche come indicazione della traduzione sul piano scientifico della teoria
platonica in termini aristotelici, in una sistemazione del- l'universo che
permetta calcoli e misure, e che, riprendendo e ordi- nando in un unico sapere
le varie tesi, susseguitesi nel tempo, da Ari- stotele a Ipparco di Nicea e
Adrasto, è l'indice di quello che sarà poco tempo dopo il grande lavoro di
Claudio Tolomeo. Ad ogni modo, entro la linea di questi platonici (Gaio.
Albino, Teone), sembra chiara la loro opposizione alla riduzione stoica del
divino a forza egemonica, annullante il divino nello stesso processo del mondo,
anche se sul piano del mondo e della organizzazione e qualificazione del reale,
della funzione dinamica dell'"anima mundi," del tutto vivente, il
discorso poteva essere talvolta simile a quello di certi stoici e del loro modo
di interpretare il Tim~o (cfr. Ario Didimo, ad esempio, che fu tenuto presente
da Albino: si veda il principio del XII capitolo dell'Epitome?· ricalcato da
Ario Didimo, in Eusebio, Pra~p. ~v., XI, 23; e, per altro, il D~ mundo di
Apuleio, ricalcato sul De mundo dello pseudo-Aristotele). d) Il «
platonismo" antiaristotelico di Calvisio Tauro e di Attico. Nicostrato.
Arpocrazione. Oltre all'opposizione nei confronti dello stoi- cismo ontologico,
da quanto è stato sopra detto si delinea anche l'oppo- sizione ad un certo
Aristotele, che chiaramente possiamo notare in un altro gruppo di commentatori
di Platone,8 facente capo a Calvisio Tauro (il quale resse, in Atene,
l'Accademia al tempo di Adriano e di Antonino), e proseguitosi con Attico -
fiorito nella seconda metà del II secolo, autore di un commento al Fedro e al
Timeo: Proclo, In Tim., 315a,- successo, pare, a Calvisio Tauro, ç con
Nicostrato.. - Se il fenicio Calvisio Tauro, nato a Berita, sembra che abbia,
per quelle poche testimonianze che abbiamo su di lui, non solo opposto Platone
agli Stoici (Discrepanze della Stoà ri- spetto a Platone: cfr. Aulo Gellio,
XII, 5, 5), ma anche Platone ad Aristotele, in una sua opera (perduta)
intitolata ·TratttftO sulla diffe- renza delle scuole di Platone e di
Aristotele (Aulo Gellio, XII, 5, 5), tale opposizione risulta certa dai
frammenti che Eusebio (Praep. ev.) ci ha conservati delle opere di Attico.
Anche se troppo frammentari sono i testi riportati da Eusebio per poter
ricostruire il pensiero di Attico, senza dubbio essi indicano, tuttavia,. che
l'opposizione di questi platonici ad Aristotele si svolgeva sull'inter- 8 Poco
o nulla sappiamo della vita dei platonici di Atene, Calvisio Tauro, Attico,
Arpocrazione, cui ~ legato N"~eostrato. Calvisio Tauro e Attico, di cui fu
discepolo Arpocrazione, furono scolarchi dell'Accademia, ad Atene, tra Adriano
e Marco Aurelio. 61 pretazione ch'essi davano da un lato delle
categorie e dall'altro lato dei libri fisici di Aristotele, entro i termini
dell'ultimo Aristotele. Se invece di puntare sulle Categorie in senso formale e
grammaticale, si punta sulle Categorie, supponendo la teoria della sostanza in
senso aristotelico (come fece Nicostrato, che, sembra, seguendo l'opera di un
certo Lucio suo contemporaneo, violento critico delle categorie ari-
stoteliche, vedeva nelle categorie di Aristotele la negazione del trascen-
dente platonico: cfr. Simplicio, In Categ., I, 19 sgg. 73, 15 sgg. 76, 14
sgg.), si capisce come si potessero interpretare certe conclusioni
aristoteliche quali negatrici di una provvidenza, di una distinzione tra
intelligibile e sensibile, dell'immortalità dell'anima, di una divinità autrice
del mondo, per cui si poteva sostenere, di contro alla religiosità platonica,
che Aristotele è ateo sf come lo sono gli Epicurei, o che Aristotele risolve il
divino nell'attualità del tutto, facendo di Dio un termine puramente logico.
"Platone," esclama Attico, "per non privare il mondo della
Provvidenza, dichiarò che questo mondo non è ingene- rato. Ora, noi esortiamo
quei platonici che sostengono che il mondo, secondo l'insegnamento di Platone,
non è stato generato, a non met- terei nelle difficoltà... A tale tesi li ha
indotti Aristotele..., per il quale il mondo è ingenerato [e· quindi uno in
Dio], e pér cui è neces- sario che ciò che ha avuto un'origine perisca e che
imperituro è solo ciò che non è stato generato, ond'egli non concede a Dio
neppure il potere di fare il bene..." (in Eusebio, Praep. ev., XV, 6).
"Aristotele cosi annulla la speranza dell'anima e distrugge anche la pietà
verso gli esseri superiori... e la fede nella Provvidenza, guida per la vita
umana... e supponendo quindi che per l'uomo dopo la sua morte U.:':to sarà
morto con lui, eccita gli uomini a soddisfare i proprt appetiti... Se egli,
dunque, non ammette nulla al di fuori del mondo, ed esclude gli dèi da ogni
relazione con gli avvenimenti della terra, è necessario che si professi
decisamente ateo o che difenda la sincerità del suo atei- smo relegando gli dèi
dove li ha posti. Epicuro, da parte sua, quando nega la provvidenza degli dèi
dicendo che non hanno rapporti con il mondo, sembra voler giustificare con
questo il suo ateismo..." (in Eusebio, Praep. ev.). Di qui, secondo le
testimonianze di Proclo (In Tim.), la tesi di Attico, per il quale Platone
avrebbe da un lato posto una materia informe, agitata e resa viva da una
potenza irrazionale e, dall'altro lato, il Bene, il divino tutto in atto nel
Demiurgo, che dà ordine e misura alla materia. Termini intermedt tra il divino,
causa e principio primo (padre) e la corporeità, intesa come limite e
dispersione e perciò come radice del male, avrebbe posto Arpocrazione di Argo -
commentatore del Timeo, del Pedone, dell'Alcibiade Maggiore, e autore di
un'antologia di massime di Platone, - discepolo di Attico (Proclo, In Tim.).
Egli, cioè, tra il Padre, causa prima e immobile, e il corpo (informità e
limite), avrebbe posto una seconda divinità, il facitore, il poietès, mediante
cui si realizza nell'ordine il k6smos; ordine che egli - volto da un lato al
Padre, dall'altro alla materia - dà alla corporeità, riflet- tendovi le idee.
Il cosmo cosi viene ad essere un terzo ente divino, in quanto idea di mondo
presente alla mente del poietès (cfr. Proclo, In Tim.; Giamblico, De anima, in
Stobeo, Ecl., ed. Wach.). Anche se solo in forma indicativa, è sembrato
opportuno sottoli- neare le molte venature con cui si presenta nel corso del n
secolo ·il cosiddetto "platonismo medio." Emerge cosi l'opposizione
tra due in- terpretazioni del pensiero platonico. L'una, determinandone la non
contraddittorietà, punta, mediante il metodo aristotelico, sul dio di
Aristotele, inteso come attualità in atto di tutta la realtà, condizione logica
(e in tal senso trascendente e incorporeo) e finalità, cui tutta la realtà,
che·presuppone l'altra condizione logica della materia come potenzialità, tende
(onde immobile e motore è la divinità), realizzando in sé gl'intelligibili, le
forme; l'altra, viceversa, vede nèlla possibile tesi aristotelica, anche se in
termini diversi, un'interpretazione di tipo stoico, annullante, appunto, il
divino nelle stesse categorie, e, perciò, nello stesso ritmo in cui si
scandisce la realtà. Tale contrasto, se da un lato sembra chiarire il
significato dell'appello a Platone e dell'interesse per la logica aristotelica,
dall'altro lato è fondamentale per capire sia gli sviluppi di un certo
approfondimento nell'interpretazione di Ari- stotele (Alessandro di Afrodisia),
sia gli sviluppì, sul piano dei com- menti a Platone e ad Aristotele, di una
certa interpretazione di Platone (da Numenio di Apamea a Platino), ove fin da
ora va detto che viva rimase la questione del come interpretare le categorie di
Aristotele (ricordiamo, su tale piano, la discussione tra Platino e il suo
discepolo Porfirio; Platino, VI, Enn., l sgg., nega il valore delle Categorie,
dei generi sommi, di Aristotele, annullando l'Uno platonico; Porfirio le
riprenderà dando ad esse un valore formale linguistico e non antico),
proponendo, per altro, il platonismo come l'unica ipotesi non contrad- dittoria
per spiegare la realtà in tutto il suo complesso (non a caso Platino, in nome
della tradizione razionalistica greca, scriverà finis- sime pagine Contro gli gnostici,
in Enn., 2, 9, respingendo ogni tipo di "rivelazioni speciali").
e) Alessandro di Afrodisia, il "secondo Aristotele.» Nel conflitto
dell'interpretazione di Aristotele sembra.essersi posto Alessandro di
Afrodisia,8 vissuto nel 11 secolo, discepolo di· Sosigene, di Ermino e di
Aristocle di Messene (cfr. sopra), che tennero lo scolarcato del Liceo, in
Atene, e a cui successe Alessandro.
Alessandro commentò tutti i libri logici di Aristotele (sono rimasti i commentari
agli Analitici primi, ai Topici, agli Elenchi sofistici: in "Commentaria
in Arist. graeca," Berlino), la Metafisica, il De coelo, il De
generatione, la Meteorologia e il De sensu (sono rimasti i commentari alla
Metafisica, in "Comm. graec.," ; al De sensu e al Meteor., in
"Comm. grae'c.,"), e, oltre che nei commenti, chiari la propria
interpretuione in un Trattato sulfanima (in 2 libri) (De anima liber cum
mantissa), nel De fato, nel De mixtione e nei quattro libri delle Questioni
controverse e solu- zioni sulla fisica e sulla morale (in "Supplementum
arist.," Il, 1892). L'interpretazione che Alessandro dà di Aristotele è
netta e precisa; sempre fondandosi sui testi, muovendo dalla tesi basilare di
Aristotele, che discorso scientifico è possibile solo muovendo da
principi" posti non contraddittoriamente, Alessandro respinge ogni
soluzione che nello spiegare la ragion d'essere, il perché delle cose, ricorra
a salti, o a inter- venti extrarazionali. Sotto questo aspetto egli respinge
l'interpretazione aristotelica in chiave platonica, per sottolineare
dell'aristotelismo da un lato l'aspetto piu strettamente metodologico della
ricerca in una chiara determina- zione del retto uso dei termini (essenziali~,
causa, forma, materia, sinolo, potenza, atto: cfr. sopra I vol.), e attraverso
tale retto uso, dal- l'altro lato, l'aspetto piu decisamente - se cosi vogliamo
dire - • natu- ralistico logico" dell'ultimo Aristotele, pu~1tando sul
motivo della "essenzialità" come "sinolo," delle forme che
sono tali in quanto "forme di," ove, perciò, l'attualità è.posta come
presupposto logico, e fine ultimo, ma per ciascuna essenzialità nella sua
specie, onde reali sono gli individui, in senso aristotelico (cfr. I vol.), e
le forme, in' quanto separate, sono reali per sé solo come termini mentali,
cioè come astrazioni presenti al pensiero, sf come, presa a sé lo è la
"materia," e, alla fine, lo stesso Dio, condizione logica
dell'attualità in atto di tutta la realtà (cfr. I vol.). Entro questi termini,
appare chiaro il filo seguito da Alessandro nella lettura dei testi
aristotelici. Per esso, e per non ripeterei, rimandiamo a una parte
dell'esposizione già fatta di Aristo- tele (cfr. vol. I), mentre va detto come
al lume di questa interpreta- 8 Alessandro nacque ad A&odisia, in Caria,
sulla prima metl del n secolo. Visse ad Atene, dove entrò al Liceo, di cui
divenne scolarca alla morte di Sosigene.] zione, sembra abbastanza chiara
la celebre soluzione data da Ales- sandro alla questione del rapporto
intelletto agente e intelletto passivo. Posto, con Aristotele, che l'anima è
"entelechia prima di un corpo naturale che ha la vita in potenza, cioè di
un corpo chè- sia organico," per cui l'anima, nelle sue tre funzioni
(vegetat~va, sensitiva, intellet- tiva} non è separabile dal corpo, e
ripercorso con Aristotele il processo per cui dal sentire si passa
all'intendere, e posto il fatto che l'uomo è attività intellettiva, Alessandro
puntando sull'intelletto come funzione, per cui si può sostenere che non è
mescolato al corpo, ma è condizione, possibilità naturale dell'intendere,
afferma che l'intelletto, appunto in quanto possibilità e dunque materia di
tutte le forme, potenzialmente, è intelletto "naturale" o
"materiale" (fisico o ilico, ÙÀLx6c;) (cfr. De anima, I, pp. 81~84,
ed. Bruns). D'altra parte, sempre in termini aristo- telici, la facoltà
d'intendere se da un lato si pone come condizione o materià dell'intellezione,
dall'altro lato implica, attraverso una serie di atti intellettivi, non solo la
potenzialità naturale d'intendere (tutti gli uomini, ad esempio, in quanto tali
possono imparare a scrivere, per cui la scrittura in questo senso è una
capacità naturale, materiale dell'uomo}, ma l'abito d'intendere, per cui,
accanto all'intelletto "ilico," Alessandro pone l'intelletto in
abito, o acquisito (xcr:r'!~Lv, ~1t(xu-toc;) (chi non ha imparato a scrivere
resta capace di scrivere in potenza, ma chi ha imparato e ora non scrive ha,
tuttavia, l'abito dello scrivere, è capacità di scrivere per abito o per
acquisizione). Se l'intelletto ilico e l'intelletto epittetico sono due
aspetti·dell'unico intelletto umano, il suo realizzarsi nelle intellezioni, in
questa o quella intellezione, di que- sto o quell'uomo, implica un'altra
condizione, e cioè l'intelletto agente (vouc; 7tOL1)'t'Lx6c;), la forma
dell'intendere, ciò che fa sf che l'intelletto (ilico-epittetico) divenga
gl'intelligibili. Potenziale l'intelletto, potenziali gl'intelligibili,
l'intellezione, implica l'attualità dell'intendere, che, ap- punto, in quanto
tale (non essendo né questa né quella intellezione dovuta a questo o a
quell'individuo, ma la forma dell'intendere) è sepa- rata, nel senso che "
separato," in quanto attualità degli atti, è Dio per cui, Alessandro,
seguendo il testo di Aristotele del De generatione animalium, in cui Aristotele
sostiene che l'intelletto attivo viene dal di fuori (&Upor.3&V) e che
esso solo è divino, sostiene che l'intelletto poietico è divino. Si capisce
cosf come sia da parte platonica sia da parte stoica si è affermato che
Alessandro non solo ha negato la realtà di Dio, posto solo come condizione
logica, ma anche la realtà dell'anima non solo di quella individuale e
dell'intelletto ilico ed epittetico, dipendenti dalla sensibilità, ma anche
dell'intelletto agente che non essendo affatto proprio dell'uomo si annulla
nell'attualità di Dio, pensiero di pensiero, anch'esso a sua volta riducentesi
a una pura astrazione mentale, in una definitiva negazione della realtà
dell'anima. Ma proprio questo rende chiaro il senso della polemica di
Alessandro sia nei confronti dei plato- nici sia nei confronti degli stoici, i
quali, dogmaticamente, cioè se_nza una deduzione da principi veraci perché non
contraddittori, rifacendosi gli uni e gli altri al pitagorismo, sostengono la
realtà di una sostanza spirituale e di essa un aspetto negli individui (realtà
delle anime). In tal senso assume un particolare interesse la polemica di
Alessandro contro coloro che ritengono esservi la sostanz~ dell'anima. Di qui
anche la pole- mica di Alessandro contro la Provvidenza degli stoici e dei
platonici, che ammettendo un continuo intervento del divino, non solo
sostanzia- lizzano e antropomorfizzano dio, il che è logicamente
contraddittorio, ché Dio, attualità degli atti, e forma delle forme, in atto
tutte le possi- bilità, è al di là del bene e del male, è termine ideale
dell'attuarsi in ciascuna specie della propria perfezione, onde esso è
indifferente rispetto a ciascuna realtà, ma anche negano quella stessa
spontaneità e vitalità che sul piano del mondo animale, nel fenomeno umano
indica alla fine l'azione non determinata e, quindi, la deliberazione. Quella
che i plato- nici chiamano Provvidenza e azione diretta di Dio, sottolinea
Alessan- dro, è non altro, in realtà (sia sul piano dei cieli e dei movimenti
per- fetti, sia sul piano del mondo sublunare) se non un rapporto di causa ed
effetto. f) Severo, Apuleio, Albino, Celso, Numenio di Apamea. Se in Arpo-
crazione si vede bene il tentativo di mediare l'antiaristotelismo dei plato-
nici tipo Calvisio Tauro e Attico (in polemica forse nei confronti dell'ari-
stotelismo tipo Alessandro di Afrodisia) con il platonismo aristotelico tipo
Albino (forse quei tali "platonici" che Attico dice sedotti da
Aristotele), tanto meglio tale tentativo si fa chiaro, da un lato con
l'interpretazione' data da Severo delle categorie stoiche, dall'altro lato, con
il significato, in uno sviluppo della simbolica pitagorica in termini di logica
(e rifa- cendosi a Moderato di Cadice), dato ai tre aspetti con cui si presenta
la realtà (Dio, Demiurgo, Mondo), da Numenio di Apamea. Di Severo, della cui
vita non abbiamo alcuna notizia, ma che sembra vissuto sulla metà del n secolo,
sappiamo che avrebbe composto un commento del Timeo (Proclo, In Tim., 63a-h), e
che soprattutto si sarebbe occupato del problema dell'anima (cfr. Stobeo,
Ecl..; un lungo frammento di un'opera intitolata Dell'anima è riportato da
Eusebio, Praep. ev.; si è pensato anche che sia una parte del commento al
Timeo). Dalle scarse testimonianze che abbiamo su Severo è impossibile
ricostruirne con.certezza il pensiero. Possiamo tuttavia dire con una qualche
sicurezza che Severo ritenne di poter risolvere in senso plato- nico la
categoria della sostanza aristotelica, condizione della pensabi- 66
lità e perciò della predicabilità del reale, ricorrendo alla categoria
stoica del "qualcosa" (t(, tf), inteso come "il tutto" ('rò
1tiiv, tò p4n). Se è vero che non possiamo pensare e perciò predicare; niente
senza l'essere, la con- dizione stessa del pensare è l'essere, che, in quanto
possibilità di tutte le predicazioni, è indefinibile, e in tal senso è un
qualcosa, un T(, donde si definisce l'essere e il divenire, esso né essere né
non essere, bens{ l'uno e l'altro, unità e alterità, corporeità e incorporeità,
indivisibilità (il punto) e divisibilità (estensione alterità). Di qui, di deduzione
in deduzione, si rintraccia da un lato l'esserci dell'indivisibile,
dell'identico e incorporeo, geometricamente definibile come punto, e del
divisibile, del corporeo, la cui condizione geometrica è la estensione, ove
termine medio tra l'uno e l'~ltro aspetto opposti della realtà, una nel Tutto,
è l'anima cosmica. Severo, interpretando cos{ il celebre ~asso del Timeo sulla
funzione del- l'anima del mondo ("Dell'essenza indivisibile, e che è
sempre identica a se stessa e di ciò che è divisibile, e che si genera nei
corpi, di tutte e due formò,.mescolandole insieme, una terza specie di essenza
inter- media, che partecipa della natura del medesimo e di quella dell'altro e
cos{ la pose in mezzo tra l'essenza indivisibile e quella divisibile in
corpi... E l'anima, diffusa dal centro in tutte le direzioni, dal centro fino
al- l'estremo cielo, il cielo stesso, esternamente avvolse tutto intorno, e, in
se medesima rivolgendosi, dette luogo ad un divino principio d'inces- sante e
intelligente vita per tutta la durata dei tempi...": Timeo), poteva
sostenere da un lato che l'anima, in quanto misura del tutto in cui il tutto
s'incentra è numero, e, dall'altro lato, in quanto termine medio tra l'essere e
il divenire, l'unità e l'alterità, essa, nesso del tutto, è immagine di Dio,
del T(, trascendente e immanente ad un tempo. Uno, dunque, il mondo, nel T(,
nel tutto che lo trascende e che n'è condizione, nel suo scandirsi in opposti,
in una serie di gradi, incentran- tisi nell'anima termine medio e unificante, il
mondo è per un verso eterno nell'Uno tutto, nel T(, e, per altro verso, in
quanto considerato nel suo scandirsi ed opporsi nel T(, è processo e divenire.
Una l'anima umana e non distinta - sottolinea Severo - come avrebbe voluto
Platone in parti, ma piuttosto aristotelicamente in aspetti, l'anima umana,
specchio dell'anima cosmica, in quanto razionalità, l6gos, unificando in unità
dialettica i due momenti in cui si distingue il tutto, identità e alte- rità,
unità-dualità, afferra in sé il T(intuitivamente, cogliendo sé cerniera tra il
mondo intelligibile e il mondo sensibile (cfr. Eusebio, Praep. ev.). Non poco
indicativo sembra adesso, per renderei conto del signifi- cato che si dà ora al
termine "pitagorismo," il passo di Apuleio10 in 10 Sulla vita e le
opere di Apuleio vedi sopra. cui si afferma che Platone avrebbe ripreso dai
pitagorici la scienza • in- tellettuale" (" nam quamvis de diversis
officiis haec ei essent philosophiae membra suscepta,... intdlectualis a
Pythagoreis": De dogm. Plat.,). In altri termini, come chiaro risulta da
tutti i testi (si confronti ancora Moderato di Cadice, Nicomaco di Gerasa,
Teone di Smirne), se per "pitagorismo" si intendeva lo studio della
teoria matematica (e quindi non solo dell'aritmetica e della geometria, ma anche
dell'astro- nomia e della musica), quale si era venuto determinando nei vari
tempi, "pitagorismo" stava anche ad indicare uno dei possibili esiti
del- l'interpretazione di Platone in chiave logico-matematica, per cui non a
caso il Platone di cui ora particolarmente si discute è il Platone ultimo. In
realtà, nel Sofista sembra che si precisi il significato delle idee che non
sono Essere, ma, appunto, forme, o meglio generi dell'Essere, che non è nessuno
dei generi, ma ciò per cui l'uno o l'altro sono e sono comunicabili e ad un
tempo limitati, cioè numerabili, onde la dialettica è capacità di ripercorrere
i nessi e le ar- ticolazioni del tutto, che si esprime nel discorso verace in
quanto con- nessione (symploch!), cioè in quanto grammatica e sintassi, di cui
i nomi sono simboli dell'articolarsi grammaticale e sintattico dell'Essere (non
si scordi l'importanza data al Sòfista e al Cratilo da Albino). Si vede cosl
come uno e molti possano mescolarsi, soprattutto quando si tenga presente
l'ulteriore passo fatto nel Filebo, che, riprendendo il tema del Sofista,
chiarifica il rapporto uno-molti con i nuovi concetti di illimitato
(indefinito) e limitato (ciò che ordina e definisce) per cui la realtà ap- pare
come un'infinitudine (quantità, ciò che è suscettibile di piu e di meno) e come
finitudine. (misurabilità e dunque numerabilità), cioè come proporzione,
convenienza e misura, per cui di ogni cosa si coglie l'essenza quando se ne sia
colta la forma (id~), o meglio il numero, la sua definizione in rapporto ad
altra definizione. Evidentemente i due termini illimitato (quantità) e limitato
(numerabilità e qualificazione) sono i due termini astratti di una realtà che è
in quanto si costituisce come limite dell'illimitato, cioè come proporzione e
misura, per cui ogni cosa assume il suo perché, il suo essere, ossia la sua
intelligenza, che è la causa stessa della mescolanza. Lo stesso Bene, allora,
diviene misura e convenienza, e misura e proporzione il Bello e il Vero. Si
capisce, dunque, come su questo piano (donde la concezione fisico-geometrica
dell'universo quale si delinea nel Timeo), posto l'Essere come pensiero e
dialetticità (e perciò non corporeo), esso sia visibile, cioè intelligibile
(colto dall'occhio dell'intelletto), solo in quanto tradotto in termini ma-
tematici. L6gos ed Essere, dunque, in quanto intelligenza e attività ar-
ticolante, unità e molteplicità ad un tempo, sono incorporei. La realtà,
invece, quale appare alla sensibilità, si manifesta molteplice, disarticolata,
divisibile e perciò corporea e indefinita, nel suo substrato informe. I due
termini, allora, in quanto distinti restano impensabili, che lo stesso essere
in quanto discorso e ordinamento e misura non è tale se non è discorso,
ordinamento, misura di qualcosa, s1 come la quantità in sé, divisi- bile e
indefinibile, senza forma è impensabile se non in relazione alla mi- sura e
alla' qualificazione, se non per quel tanto che sfuggendo alla pos- sibilità
della misura resta al di fuori come appunto impensabile, e, dunque,
irrazionale, casuale, fortuito, forza ribelle e malvagia. Sotto questo aspetto
è chiaro in che senso- sulla linea di Albino suo condiscepolo - Apuleio potesse
interpretare ed esporre, in forma piu de- scrittiva che non Albino, la
concezione "platonica," entro cui, per altri rispetti, far rientrare
le piu varie esperienze filosofiche e religiose ("io," esclama
Apuleio nella sua Apologia, scritta per difendersi dalla accusa pubblica di
magia, "ho conosciuto per amore della verità e per pietà verso gli dèi, in
Grecia, culti di ogni specie e riti numerosi e cerimonie varie": Ap., 55},
e potesse sostenere the per Platone esistono tre princip~ (" initia rerum
esse tria arbitrabatur Plato": D~ dogm. Pl.): Dio, la materia e le forme
delle cose. Presi a sé essi sono indefinibili: non a caso di Dio dice che è
incorporeo, incommensurabile (aperlm~tros), indicibile (arretos}; che la
materia non è né fuoco· né acqua né altro demento semplice, ma è informe,
infinita, in sé né corporea né incor- porea; che le stesse idee o forme sono
non in atto - inabsolutas, in- formes, nulla specie nec qualitatis
significatione distinctas: l, 5, 190; - mentre un po' piu sotto, considerando
che la realtà scaturisce dalla tensione tra Dio e la corporeità, intermediarie
le idee, realizzazione di Dio, che in sé resta oltre, dice che le idee sono i
modelli di tutte le cose, s~mplici, eterne, incorporee, appunto in quanto guise
del discorso divino, in sé uno come il pensiero (cfr. De dogm. Pl.). Si capisce
cosi come Apuleio potesse sostenere isoltre che secondo Platone due sono le
essenze, le oòaEctL, dalla cui unione si genera il mondo: la prima è la
condizione logica che permette di pensare la realtà, e che, perciò, dice
Apuleio, è intelligibile, visibile solo all'occhio dell'intel- letto, e come
tale, in quanto principio, è sempre identica a sé, e senza di cui nulla sarebbe
(perciò essa è costituita da Dio, dalla materia, dalle forme delle cose o idee
e dall'anima: "et primae quidem substantiae ve! essentiae primum Deum est
et materiem, formasque rerum et animam": D~ dogm. Pl.); la seconda,
condizione della corporeità è l'estensione, intesa come il ciò che è
definibile, che. trae il suo esistere da uno dei principi, la materia, e a cui
crediamo perché sensibile ("la seconda sostanza non è in qualche modo che
l'ombra e l'immagine della precedente," la visione fisica dell'intelli-
gibile). In effetto, perciò, pur rimanendo Dio, in quanto causa delle 69
cause, princ1p10 e fine, logicamente trascendente, la realtà è ciò che
scaturisce dai due termini, il limitarsi dell'illimitato, l'ordine, possi- bile
a comprendersi in quanto tràducibile in termini numerici e geo- metrici. Per il
resto il discorso di Apuleio conseguentemente si svolge, nella ricostruzione
dell'universo e nella posizione che nell'universo ha l'uomo, sulla linea di
Albino, in un commento del Timeo. Certo, la ricostruzione matematico-geometrica
dell'Universo, non esclude entro i termini logici di tale ricostruzione (si
veda sopra Moderato di Gades e Nicomaco di Gerasa), che, su altro piano,
l'Universo, considerato nella sua esistenza, appaia come un complesso di forze,
come vivente organismo tendente alla sua perfezione, al modello divino che lo
tra- scende, in senso stoico-aristotelico.(donde il De mundo di Apuleio), dalla
corporeità oscura, limitante, dispersione e male, al divino Uno, in una
infinita serie di gradi intermed1, sempre piu puri e incorporei, anime
demoniche. Esistono certe divine potenze intermedie che abitano gli aerei spazi
fra la suprema volta del cielo e le infime regioni della terra, e per loro
mezzo i nostri desideri e i nostri meriti arrivano sino agli dèi. I Greci li
chiamano dèmoni... Essi, come dice Platone nel Convito, presiedono a tutte le
rivela- zioni, ai diversi miracoli dei maghi e ai ·presagi di ogni specie...
Non è fun- zione dei numi altissimi scendere in basso tra noi. Ciò spetta in
sorte alle divinità. intermedie che abitano nelle aeree regioni contigue e alla
terra e al cielo (De deo Socratis, 6). Io credo, sulla fede di Platone, che tra
gli dèi e gli uomini si trovino certe potenze divine, intermediarie per loro
natura e per loro posizione, e che mediante loro vengano operate tutte le
divinazioni e i miracoli della magia. Dico inoltre che l'anima umana,
specialmente quella semplice di un fanciullo, può, sotto l'azione di certi canti
o di delicati pro- fumi, cadere assopita ed uscire da sé a tal punto da
dimenticare la realtà presente, perdere per un momento la memoria del proprio
corpo ed essere ricondotta alla propria natura, che è immortale e divina, e in
questa con- dizione, come in una specie di sonno, predire il futuro...
(Apologia). La credenza nei dèmoni, entro i termini di una ormai lunga tra-
dizione, l'interpretazione del motivo del dèmone s~ratico (si ricordi in tal
senso anche il D~mone di Socrate di Plutarco), la fede nell'anima sostanza
divina per sé, nel senso del Pitagora "sciamano," che tende a tornare
alla patria celeste donde è venuta, quando, attraverso l'ini- ziazione si
purifica dal suo imbestiamento nei corpi (cfr. Metamorfosi o Asino d'oro), sono
tutti aspetti della faccia retorico-divulgativa di Apuleio. Il discorso di
Apuleio si svolge in realtà, a due diversi livelli di discorso: uno piu
strettamente filosofico, mediante cui egli delinea una sua certa concezione,
seguendc il platonismo di Gaio, di Albino, di Teone di Smirne (cfr. De
Platone et eius dogmate; De mundo); l'altro retorico, entro i termini di quella
concezione (cfr. Pro se de magia liber o Apologia; Metamorphoseon libri XI;
Florida). Su questo secondo piano, Apuleio, che, dopo una profonda formazione
retorica, ricevuta a Cartagine, ascoltato ad Atene Gaio, assunse quale propria
concezione di sfondo il "platonismo," curioso di ogni aspetto
culturale, scientifico e religioso del suo tempo, di ogni tipo di civiltà,
ch'egli cercò sempre di ricondurre a quella sua concezione e fede, facendo uso
di miti, di credenze, descrivendo riti e culti, in funzione simbo- lica,
sottolineando che la magia, di cui lo si accusò, è una filosofia sacerdotale,
ricorrendo ai misteri, forme religiose di purificazione; Apu- leio si mosse
costantemente entro l'àmbito di quel suo "platonismo," di quella sua
visione di sfondo, valida a spiegare un'unica esigenza religiosa, dispiegantesi
in tempi diversi, in regioni diverse, in parti- colari credenze, riti, culti,
misteri. Senza dubbio, la stessa polemica tra i platonici del n secolo, rela-
tiva all'interpretazione del divino di Platone, l'interpretazione in chiave
aristotelica, o quella in chiave "pitagorica," l'accettazione di
certi aspetti dello stoicismo sul piano del mondo concreto, e la negazione
dello stoicismo sul piano di Dio, rivelano un'esigenza comune: la possibilità,
o meno, appoggiandosi a Platone, di determinare la trascen- denza del divino,
in forma convincente, cioè razionale, senza ricorrere a "rivelazioni speciali."
Ora, relativamente a Dio, un punto appare chiaro in tutti. Tutti hanno presente
da un lato il celebre testo della Repubblica (VI, 509 b, 8) in cui si sostiene
che il Bene, il divino non è idea accanto alle altre idee, ma la ragion
d'essere delle idee, non è un'essenza, ma qualcosa oltre l'essenza, condizione
delle essenze e perciÒ superessente per maestà e potenza (oòx. oòa(~
l>V1'oc; -rou aycx&ou, ~'l-rt héx.e:tvcx njc; oua(~ 7tpe:a~E:Ltf x.od
8uvci!J.e:L u7te:péx.ov-roc;); e, dal- l'altro lato, i testi platonici in cui
si dice che, perciò, quell'essenza è indicibile (&pp'r)-roc;: cfr. V I I
lettera, 341), indiscorribile (n.oyoc;: cfr. T eeteto, 202 b, 6) e
inconoscibile (&yvwa-roc;: cfr. T eeteto, 202 b, 6}, nel senso del
conoscere proprio delle altre scienze (cfr. VII lettera, 341 c); e quei testi
in cui l'uno appare non come una unità massiccia, ma unità vivente, si come il
pensiero, il cui discorso, traducibile in termini mate- matico-geometrici, è lo
stesso discorso della realtà, per cui quell'unità è trascendente il discorso
stesso (l6gos, >..6yoc;), ma, attraverso il di- scorso, afferrabile
intuitivamente, con un atto intellettivo (nus,vouc;)(cfr. Repubblica, Sofista,
Filebo, Timeo, VII lettera). Sostiene Albino, e, insieme ad Albino, Apuleio di
Madaura, che tre sono i principi: Dio, la materia e le idee; e tanto Albino
quanto Apuleio proseguono affermando che Dio, in atto tutti gli intelligibili,
è indicibile (ilpptroç), inconunensurabile (cioè indefinibile: Apuleio), e
perciò perfetto (atÙ't'o-rù•IJç, autotelès; e cULUÀ~ç, aeitelès) e tutto in sé
compiuto (nar.vrù..~ç, pantelès), Padre, in quanto causa di tutte le cose,
incorporeo e immobile. E Severo afferma che il divino, in quanto condizione che
rende pensabile tutta la realtà e tutti gli aspetti della realtà, ed è perciò
non questo o quello, _ma un 't'((ti), un quid, è il tutto ('t'Ò n«v, tò pan). E
cos{ ripete Massimo di Tiro (ed. Hobein), Arpocrazione (vedi sopra), Celso (VI,
62-66). A parte le polemiche, i· contrasti, le venature diverse, ciò che sembra
comune a tutti i "platonici" del n secolo (oltre l'avversità allo
stoi- cismo, relativa alla concezione del divino, non a quella del mondo), è da
un lato l'aver posto che la condizione, perché sia possibile pen- sare la
realtà, appunto perché tale (la si dica Dio, uno, essere, superes- senza,
"ti," Bene), è di là da ogni determinazione, definizione, proprio in
quanto renda possibile determinare il genere prossimo e la diffe- renza
specifica, e che tale condizione è, dunque, ciò mediante cui si può dire è e
non è; e che, dall'altro lato, postulato il divino come con- dizione di tutte
le possibilità, come il prius logico, ad esso gnoseologica- mente si giunge
passando dalla molteplicità, passando dalle molte im- pressioni sensibili,
all'unità di quelle mediante il discorso, unità che è tale nell'anima, nel
pensiero, per, alla ·fine, cogliere che quell'unità è lo stesso pensiero in
atto, che è in quanto discorso (>.Oyoç, l&gos) ma discorso che è uno,
onde l'unità è a fondamento del discorso mede- simo, e, metaforicamente, lo
trascende, per cui lo si coglie intuitiva- mente, con l'intelletto (vouç, nus),
come unità vivente. In altri termini, il prius logico senza di cui neppure si
può pensare la molteplicità, l'unità del tutto, si coglie gnoseologicamente
poi, attraverso il discorso, avendo incentrato nel pensiero la moltepliçità
della immediata espe- rienza, oltrepassando il discorso, ed afferrando,
mediante il nus (vouç) la postulata unità, per questo indiscorribile,
indicibile, non conoscibile come conoscibili sono gli altri aspetti della
realtà, incommensurabile, non afferrabile mediante ill6gos, ma, attraverso
esso, con il nus, l'intelletto. In tale senso Albino è molto chiaro. Egli dice:
ilpp'rj't'oç 3'la·rl xar.l véj) (LOVCjl ÀYj1t't'Ot;, ml olSn yévoç lO"t'lV
om e:taot; om 3Lat~op«... ("esso è indicibile e afferrabile solo mediante
l'intelletto, poiché non è né genere né specie né differenza specifica:
Epit()mè, X, 4). E altrettanto chiaro è un seguace di Albino, Celso,11 vissuto nel
1 1 Della vita di Celso, vissuto, sembra, i n Egitto, nel u secolo, non
sappiamo nulla. Conosciamo di lui larghi estratti di una sua opera intitolata
Il vero discorso ('A>.c&ij~;).6-yoç), conservatici da Origene, in
un'opera (COtJtrtJ 72 II secolo, noto attraverso alcuni testi di
lui riportati da Origene (Contra Celsum ), e, soprattutto, per la sua polemica
contro I"' assurdit~" della concezione cristiana di Dio e del suo
rapporto con l'uomo (cfr. sopra). Tale polemica è, per altro verso, un indice
senza dubbio evidente del modo in cui, appunto, sulla linea Gaio, Albino,
Severo, va inteso il "platonismo" di Celso. Dice, dunque, Celso: Dio
non ha né bocca, né voce, né alcuna delle qualità da noi conosciute. Dio non ha
fatto l'uomo a sua immagine, ché egli non è quale l'uomo, né assomiglia ad
alcun'altra forma. Dio non partecipa né alla figura, né al colore, né al
movimento, né all'essenza. E se, in realtà, tutte le cose seguono da lui, egli,
evidentemente, non seJP!e se non da se stesso. Di lui non si può.dire nulla,
egli non ha nome toù8è ì..6ycp Èqmc:r6t; Ècnw o.:h:6c; où8' bvO!J.ot<n6c;),
poiché non riceve alcuno degli accidenti che si afferrano e si fissano con un
nome (bv6!J.ot't"L xcx-r!XÀ7j7t't6v). In effetto Dio è al di fuori di ogni
accidente... Come, dunque, conoscere Dio? Come apprendere la via che conduce a
lui, tanto in alto? Ché, per ora almeno, è tenebra che mi getti dinanzi agli
occhi, e nulla vedo distintamente. - Bisogna rispondere: Chi dalle tenebre
viene condotto alla luce non può resistere al fulgore dei raggi [cfr.
Repubblica di Platone, VII, 515c sgg.]... Solo quando si sia chiusa la porta
dei sensi, solo quando si sia dato le spalle alla carne, e abbiate guardato in
alto media~te l'intelletto (&vcx~À~~"rj'n: vcj)), solo allora vedrete Dio
(in Origene, Il vero discorso, ed. Glokner)... Egli Celsum), in cui si viene
sistematicamente confutalldo il Vero disc-orso. Nel Vero disc-orso, composto,
sembra, tra il 178 e il 180, al tempo in cui Marco Aurelio aveva preso misure
anticristiane, vedendo nei cristiani un pericolo per l'unità dello Stato (non a
ca.so il Vero discorso si chiude con l'affermazione che i Cristiani verra DJlo
tollerati se si deci- deranno a venire in aiuto dell'Impero). Celso mette in
discussione il Cristianesimo; egli sostiene ch'esso non ha nulla a che fare con
la filosofia, dimostrando, per altro, che, se mai, sul piano religioso molto
piu convincente c filosofica ~ la tesi platonica, mentre illogica ed assurda ~
quella cristiana, in particolar modo la fede in un Dio che s'incarna nell'uomo
e in una visione che pretende d'essere l'unica vera. Estremamente fini sono gli
argomenti di Celso nel confutare le tesi cristiane. Egli dimostra una buona
conosc:enza del vecchio e del nuovo Testamento e, senza dubbio, i primi
tentativi di una formulazione filosofica dell'espe- rienza cristiana (primi
apologisti), filosofia ch'egli decisamente nega essere tale. Che Celso stesso
sia stato un platonico, non sappiamo. Certo, egli vuoi dimostrare, come
dicevamo, che tra le filosofie religiose la piu convincente ·e razionalmente
(non per superstizione) accettabile ~ la platonica (nell'accezione che il
platonismo aveva assunto nella corrente Gaio-Albino). Niente vieta, quindi, di
supporre, su testimonianza dello stesso Origene (Contra Celsum), che personal-
mente Celso fosse un epicureo, e che al Celso del Vero discorso fosse
indirizzata la dedica (a Celso epicureo) dell'.dlessandro o i l falso profeta d
i Luciano, che ~ del 181 circa, e in cui Luciano, come già ne La morte di
Pellrgrino, violentemente critica il Cristianesimo. Per atteggiamenti critici
nei confronti del Cristianesimo, in forma retorica e non in termini filosofici
e logici come ~ il ca.so di Celso, vaDJlo ricordati, oltre Luciano, Frontone
(Contro i Cristiani) e Crescente (cfr. Giustino, .dpol. Il, 3; Taziano, Contra
Graecos). non è né intelletto, né intellezione, né scienza, ma la causa per la
quale l'intelletto conosce e l'intellezione si compie, la scienza si forma e
tutti gli intelligibili e la verità stessa e la stessa sostanza hanno l'essere
loro: eppure egli è al di là di tutte queste cose ed è intelligibile in maniera
ineffabile (ik., VII, 45). Se teniamo presente il concetto base del Dio cnsuano
(unico, persona, volontà, creatore ex nihilo, che s'incarna in Cristo, in un
uomo, venuto a salvare non il mondo, ma l'uomo nella sua interezza, la cui
anima non è né mortale né immortale, ma immortale perché cosi vuole Dio, che
tutto è dovuto ad un atto gratuito di Dio, non riducibìle a razionalità) si
vede bene in che senso Celso vedesse nella concezione cristiana una concezione
assurda, irrazionale, seducente uomini ignoranti e incolti, ma, in realtà,
niente affatto convincente, anzi irreligiosa e atea. Per altro verso, comunque,
l'idea di un Dio trascendente e Padre, per- fetto e oltre l'essere, spogliato
da quelli che sembravano essere attributi antropomorfici, usati popolarmente in
funzione simbolica, poteva essere ripresa entro i termini del linguaggio
"platonico," insieme ad altre con- cezioni del divino, egiziane,
ebraiche, siriache, in funzione di una teo- logia razionale, e, perciò,
universale, che trovava i suoi termini nell'àm- bito della rielaborazione in
sistema dovuta ai platonici e ai pitagorici del n secolo. Non a caso, sotto
questo aspetto, Numenio,12 di Apamea, in Siria, vissuto nella seconda metà del
n secolo, di origine semitica, forse ebreo, poteva da un lato sostenere che,
sia pur in termini diversi, v'era un perfetto accordo tra la concezione di
Platone - il Mosè che parla in attico, com'egli lo chiamò: cfr. Suda, s.v.;
anche Clemente 12 Di Apamca, in Siria, Numcnio visse nella seconda mctl del n
secolo. Pochis- sime c discutibili le notizie intorno a lui. Si è detto che,
semita di origine, egli fosse ebreo. ~ un'ipotesi basata sul fatto che Numenio
cita testi biblici e che conosce Filone l'Ebreo. Ciò non vuoi dir nulla: in
questa stessa epoca la cultura ebraica, i testi biblici, ccc., erano largamente
noti e citati. E poi bisogna non scordare che Numenio era di Apamea c che là
testi gnostici, ebraici, della gnosi ebraica circolavano, e non solo là (cfr.
Dodds, Numenius and Ammonius, in "'Enuetiens" V della Fondazione
Hardt, Ginevra, 1960, p. 6).·Le testimonianze piu antiche, puntando
sull'aspetto gno- seologico di Numenio, indicano Nurnenio come "pitagorico"
(Clemente Alessandrino, Origene, Porfirio), le piu recenti lo indicano come
"platonico" (Giamblico, Proclo). La maggior parte delle testimonianze
e dei frammenti del ITcpl Tciyel&o\i (De bono) di Numenio provengono da
Eusebio (Praep. ev.). Fondamentali sono anche le testimonianze di Proclo (in
Tim.). Nella sua ediZione dei.frammenti c delle testimonianze di Numcnio, il
Lecmans ha cercato di ricostruire il piano del De bono, disponendo i frammenti
secondo il posto che probabilmente essi avevano nei 6 libri in cui si divideva
l'opera (E. A. Lec- mans, Numeniur van Apamea met Uitgave der Fragmenten, in
"Mémoircs dc l'Acad. roy. dc Bclgique," classe cles lcttres; si veda
inoltre bibliografia). Oltre il De bono, Numenio avrebbe scritto: Del dissenso
degli Accademici da Platone, Delle dottrine segrete in Pltllone, Del luogo,
Dell'incorruttibilità dell'anima, Upupa, Sui numeri. Alessandrino, Str., l, 22
- e la sapienza mosaica - senza dubbio Nu- menio teneva presente Filone
l'Ebreo,- e, dall'altro lato, che alla stessa concezione ebraico-platonica era
possibile riportare - come aveva fatto Plutarco - sia la simbolica dei
pitagorici, usata in funzione logico-ma- tematica, sia i riti, i culti, i
misteri delle religioni egiziane e dei Brachmani, sia certi aspetti del
Cristianesimo (sembra che nella vita di Cristo vedesse un simbolo del rapporto
uno-mondo, cfr. Origene, Contra Celsum, IV, 51), come certi motivi dello
gnosticismo e del- l'ermetismo. Occorrerà che chi ha trattato di questo
argomento [del Bene] e si è espresso con le testimonianze di Platone, rimonti
indietro e si ricolleghi ai 'l6goi di Pitagora; faccia inoltre appello ai
popoli che salirono in fama, ripor- tandone le cerimonie, le leggi, i sacrifici
culturali, compiuti in conformità con Platone, quali stabilirono Brachmani,
Giudei, Magi, Egizi (De bono, in Eusebio, Praep. 'ev., IX, 7, l; fr. 9 ed.
Leemans, Bruxelles). Delle molte opere di Numenio (Del dissenso degli
Accademici da Platone, Delle dottrine segrete di Platone, Del Bene, Del luogo,
Del- l'inco"uttibilità delfanima, Upupa, Dei numen) sono rimasti alcuni
frammenti del De bono (in Eusebio, Praep. ev.) ed alcune testimonianze e brevi
testi interpretati.da Prodo, da Calcidio, da Por- firio, da Giamblico, da
Macrobio (per la ricostruzione del De bono, ne:pl T4yot&ou, e pèr la
raccolta delle testimonianze e dei frammenti si veda l'edizione di E. A.
Leemans, in "Méin. de l'Acad. roy. de Belgique," classe cles lettres,
Bruxelles). Ciò va tenuto presente, perché condiziona il ~odo con cui è
possibile ricostruire il pensiero di Numenio, relativo, appunto, alla
discussione di lui sul Bene. Numenio teneva presente, come risulta dai
frammenti, da un lato il testo di Pla- tone (Repubblica, 509 b) in ·cui si dice
che il Bene non è idea accanto alle altre idee, ma la condizione delle essenze,
dall'altro lato la tesi pla- tonica del costituirsi dell'universo per opera del
Demiurgo (Timeo). Riallacciandosi al Platone e al Pitagora quali si erano
venuti configu- rando nel corso del I-II secolo, in contrapposizione al Platone
proble- matico e scettico qual era stato interpretato dalla media Accademia (da
Arcesilao a Filone di Larissa), Numenio fa tesoro dell'impostazione
teologico-allegorica di Filone l'Ebreo, e reinterpreta in questa chiave le
"religioni dei popoli che salirono in fama," Brachmani, Giudei, Magi,
Egizi, e motivi gnostici e ermetici (in realtà, poi, il metodo argomen- tativo
di Numenio è. quello proprio dei platonici razionalisti del 11 se- colo).
Numenio particolarmente si travaglia intorno al problema del rapporto tra l'uno,
condizione della pensabilità del reale, condizione dell'esserci delle cose,
esso Uno ed Ente e Monade perciò di là da ogni determinazione, e, dunque,
ineffabile, indiscorribile, invisibile al pen- siero e in tal senso incorporeo,
immobile, "inattivo" (argos, «pyoc;: fr. 21 L), increato e increante,
e il mondo della generazione che, a sua volta, implica un facitore (un poièta),
un principio che dia movimento e che perciò non può piu essere lo stesso primo
essere perfetto che, se si muove, e tende a realizzare qualcosa, vorrebbe dire
che è mancante, imperfetto. A tale concetto del Bene, ad un tempo ragion
d'essere del tutto, per cui esso non è nessuna delle singole essenze, delle
idee, nessuna delle cose (e in tale senso Numenio, sulla scia della tradizione
plato- nica, rifacendosi al Timeo, lo chiama "padre," il "primo
dio"), Nu- menio sostiene che non si giunge attraverso un salto
rivelazionistico, ma di grado in grado, dall'immediata esperienza sensibile,
per via ne- gativa. Non a caso cosi Numenio, alla domanda: che cosa è ciò che è
('r(8-1) lcr·n -rò !Sv: fr. 12 L)? risponde che l'è, l'ente (!Sv) non può
essere nessuno dei quattro elementi, ma neppure la comune stoffa di cui gli
elementi son fatti, la materia (fr. 12), ché la materia in quanto inde-
finibile (!Àoyoc;) e, perciò, inconoscibile (&yv(J)cr"t"oc;), non
la si può sup- porre che come un fluire, un disordine, in ciò opposta
all'essere, in realtà un non-essere, che assume essere in quanto definita
{ordinata) dal- l'essere. L'essere, perciò, non è né materia definita (corpo)
né materia indefinita. Né corpo, né materia l'essere: senza l'essere non
sarebbero né la materia, né i corpi, ché gli stessi corpi non sarebbero se non
ve- nissero definiti, se di essi cioè non si dicesse che sono, se non subissero
l'essere. L'essere perciò è l'incorporeo (-rò «cr&~!J4-rov), ciò mediante
cui i corpi si determinano, assumono forma, cioè esistono. Poiché dunque i
corpi per esserci hanno bisogno di un principio che li determini (-roti
xiX&~oV't"oc; IXÙ-ro~c; l8e:t: fr. 13), tale principio non può essere
corpo, altrimenti avrebbe esso stesso bisogno di un qualcosa che lo determina
(di un xot-rix.ov). L'essere, dunque, è incorporeo, immobile, non si accresce
né diminuisce {fr. 13), è eterno, stabile, identico a se stesso («&t
XIX't"CÌ 't"IXÙ-ro) (fr. 14). Condizione perché la realtà sia,
l'essere è perciò da un lato la categoria delle categorie, dall'altro lato
principio assoluto, assolutamente ricco, come punto luminoso che ha in sé tutte
le possibilità, come fuoco che dà fuoco senza esaurirsi nei nuovi fuochi
("un lume, acceso da altro lume, ha luce senza toglierla al precedente,
ché dal fuoco di quello è accesa la materia che è in esso": Eusebio, Praep
ev., XI, 18), assolutamente perfetto e perciò non avente biso- gno di nulla,
immobile, "inattivo". Indiscorribile, dunque, l'Essere, esso non è
visibile se non all'occhio dell'intelletto, onde di lui si può dire che è
intelligibile (vol)-r6v, noetòn) lntelligibile perché condizione degli stessi
intelligibili e dei visibili, esso è, appunto, come l'intelletto, condizione
del discorso e unità del discorso, trascendente il discorso medesimo e
afferrabile attraverso il discorso, intuitivamente. Se dell'Essere, dunque, si
può dire - sia pur per analogia - che è Intelletto e Intelligibile (il primo
Intelletto e il primo Intelligibile), si può anche affermare, sulla scia di
Albino, ch'esso è in atto tutte le intellezioni, ciò che dà essere, forma, a
tutta la realtà, o meglio ciò per cui tutta la realtà esiste (e in tal senso esso
è Bene, fonte di Bene), onde l'Essere è oltre il discorso, oltre tutto, ma
avente in sé tutto. E ha in sé tutto, a cominciare dal primo sdoppiamento di sé
in intel- letto e intelligibile, ove tale secondo intelletto è,
metaforicamente, da un lato volto all'uno-intelletto, dall'altro lato
all'obbiettivazione di sé come intelligibili determinantisi, che dànno cioè
essere, forme alle cose, in una obbiettivazione.visibile, figurata,
presupponente perciò l'idea estensione, la materia intelligibile. Di qui, sempre
nell'Essere - pur non essendo l'Essere, che in sé, intelligibilmente, resta
immobile e tutto in atto, - un terzo intelligibile, il mondo nel suo esserci,
che, in quanto proiezione del secondo intelletto, intermedio tra l'intelletto
in atto e tutto in sé comp~uto e la materia come fluidità, è da Numenio detto
"intelletto pensato" (vouç 3totVOOO(J.€VOç, nus dianooumenos: Proclo,
In Tim., 268 a-b; fr. 25 L.). In una interpolazione di testi platonici
(Repubblica, Parmenide, Timeo) e in una ricostruzione del platonismo in
sistema, sulla linea Gaio-Albino, veniamo cosf ad avere: l) L'intelletto in
atto, luogo metafisica di tutte le idee, l'essere as- soluto e tutto in sé
compiuto (Padre o Primo Dio), in cui, nella sua perfezione, non si distingue
pensante e pensato, esso condizione prima del discorso, della distinzione in
pensante e pensato (la superessenza della Repubblica}, afferrabile solo come
principio intelligibile, come il ciò senza di cui, al quale si giunge, passando
attraverso il discorso (>.6yoç), con un atto puramente mentale (vouç).
"In verità non facile, ma divina via occorre per esso, e la migliore è
disprezzare le sose sensibili, volgersi con vigore alle scienze, considerare i
numeri, e cosf meditare questa nozione: che cosa è l'uno" (in Eusebio,
Praep. ev.); "gli esseri che partecipano al primo Dio, al Bene, non vi
par- tecipano in nessun altro modo che con l'atto del pensare: lv
(L6Vc,>.-rlj) tppovci:v "; 2) L'intelletto secondo, ossia, entro
l'inteiletto in atto, la distin- zione pensante (uno)-pensato (intelligibili),
ove, appunto, gli intelligibili sono le ohbiettivazioni del pensiero, l~ forme
che d~nno essere alla fluidità della materia idea opposta (il "secondo
Dio," il Demiurgo buono e attivo del Timeo, nell'interpretazione del
Timeo); 3) Il "pensato," ossia il mondo quale appare nel suo ordine e
nelle sue leggi, obbiettivazioni dell'intelletto secondo, frutto del Demiurgo,
del secondo Dio, presente alla mente, appunto, come pensato: anch'esso, dunque,
terzo Dio, nell'intelletto secondo, a sua volta nell'intelletto primo.
"Averndo affermato che vi sono tre dèi, Numenio chiama il primo Padre, il
secondo Poieta, il terzo Poema: poiché il mondo, secondo lui, è il terzo dio.
Nella sua dottrina vi sono dunque due Demiurghi, il primo dio e il secondo, e
il terzo dio. è il mondo frutto dell'attività demiurgica (-rò
3l)!L~oupyoo(UVOV). È meglio infatti esprimersi cosi, che parlare come lui, in
un esagerato stile tragico, di nonno(1tchrnov), di figlio (~yyovov) e di nipote
(&.n6yovov)" (Proclo, In Tim., 93 a-b). Proclo, quindi, andando avanti
nell'esporre le varie interpretazioni (di Numenio, di Arpocrazione, di Attico)
della pagina 28c del Timeo ("noi diciamo che tutto ciò che è nato è
necessariamente nato in quanto frutto di una certa causa; ma questo è
difficile, trovare chi sia padre e poieta di questo universo, e quando si sia
trovato è difficile esprimerlo a tutti": Timeo, 28c), sostiene che, per
quanto almeno riguarda il Timeo, è ingiustificata la distinzioné fatta da
Numenio tra Padre e Poieta. Proclo ha ragione, solo che, senza dubbio, Numenio,
accanto al testo del Timeo teneva presente l'altro della Repubblica sopra
citato, tanto è vero che proprio alludendo a 28c del Timeo, nel De bono,
afferma: "Platone dice che il primo Dio è inconoscibile, e questo dice
perché sa che gli uomini conoscono solo il Demiurgo, e che, di contro, il primo
Intelletto, che è chiamato l'Essere stesso è a loro totalmente ignoto. ~ come
se si dicesse: 'Uomini, colui che ritenete essere un Intelletto non è il primo,
ma un altro ne esiste, prima di lui, piu augu-. sto e divino"' (in
Eusebio, Praep. ev.). In effetto, per Numenio, uno solo è il mondo, il mondo
nella sua realtà concreta (non a caso in un frammento, accanto ai tre dèi, Dio-
Demiurgo-Mondo pensato, egli pone il mondo visibile: in Eusebio, Praep. ev.).
Tale mondo, per chi rimane preso nell'immedia- tezza sensibile appare
molteplice e disordinato. Invece, attraverso lo studio del pensiero e di come
funziona il pensiero (di qui l'importanza data agli studi sul numero), il mondo
appare, nel suo esserci, come dovuto all'esplicazione dell'intelletto, in cui
la molteplicità si raccoglie nell'unità del discorso, e dove ciò che rimane al
margine, che non è determinabile entro.i termini dell'intelligibilità, e che
perciò appare irrazionale, è detto il male, l'anima malvagia, l'indefinibile
materia causa del male (fr. 30 L.). In tal modo, le condizioni dell'esserci del
mondo sono da un lato la materia fluida, dall'altro lato l'essere avente 78
in sé tutte le forme e termine medio l'intelletto demiurgico, uno
e molteplice a un tempo, che è pensiero in quanto pensa, o~de i suoi pensieri
sono l'obbiettivarsi della sua unità nella molteplicità delle idee, che si
costituiscono secondo un ordine e tornano all'unità in quanto presenti
all'intelletto stesso, e, perciò, in fine, allo stesso Dio primo. Esso, dunque,
nella sua totalità è natura ingenerata e ingenerante, entro cui si scandisce il
ritmo della natura che è generata e che genera (Intelletto secondo;
pensiero-pensato) e la natura che è generata e che non genera (il mondo
pensato) e la stessa materia che rimane come lo sfondo su cui si disegnano le
forme intelligibili, dando luogo ai corpi, traducibili in termini di figure
geometriche, mentre per quel tanto che sfugge alla determinazione e definizione
non piu riferibile all'intel- letto, per cui non è obbietto pensato, diviene
causa di disordine, e, dunque, male. "Dio, come anche sembra a Platone, è
principio e causa dei beni, la silva [materia] dei mali" (Calcidio, In Tim.).
Tale sembra anche il significato da dare a quei pochi frammenti della
lncorruttibilità delfanima rimastici, in cui Numenio sottolinea che non vi
sono, nell'uomo, due parti dell'anima o tre, ma che due sono le anime, una
razionale (di origine divina), l'altra irrazionale e che perciò l'uomo
nell'ordine del tutto ha una posizione mediana, riflesso di quella che è la
posizione dell'Intelletto secondo, per cui all'uomo è dato, in quanto
intelletto, risolvere in sé la molteplicità del mondo che nell'intellètto
s'incentra e attraverso questo risalire alla con- templazione mistica del primo
Intelletto, dell'Uno (cfr. Calcidio, In Tim.; Porfirio in Stobeo, Ecl..;
Giamblico in Stobeo; Proclo, In Rep., ed. Kroll). In questa processione
dall'Uno ai molti entro l'Uno stesso nella sua totalità, che perciò trascende i
momenti stessi del suo scandirsi, per cui, ad un tempo, v'è la molteplicità, il
limite, il divenire, il mondo concreto, la dualità, la razionalità e
l'oscurità, l'irrazionalità, e l'unità condizione prima e termine ultimo, già
gli antichi avevano veduto una delle piu ampie fonti della concezione di
Plotino, tanto è vero che non poche volte Plotino fu accusato di avere plagiato
Numenio (cfr. Porfirio, Vita Platini). Comunque sia, Numenio insieme ad Albino
(detto da Proclo, In Rep., II, 96 K., uno dei "corifei" del pla-
tonismo) ebbero, com'è testimoniato dalle posteriori citazioni, una note- vole
influenza nelle ulteriori sistemazioni del sapere in chiave platonica e
pitagorica, e l'uno e l'altro furono ritenuti autorità incontestabili nel campo
dell'esegesi platonica e pitagorica (per Albino cfr. Galeno, Sulle proprie
opere, II; Tertulliano, De anima; Stobeo, Ecl.; Eusebio, Hist. eccl.; per
Numenio, cfr. sopra le testimo- nianze citate). S. li Gnosi,"
li Scritti ermetici" e "Oracoli caldaici" a) La
"gnosi." Su Numenio di Apamea si è molto discusso, non:rolo come
fonte di Plotino, ma anche sul suo "orientalismo," sulla que- stione
se egli fosse in realtà uno "gnostico" e sull'influenza ch'egli
avrebbe avuto sulla composizione degli Oracoli caldaici. Senza dubbio lo stato
assai frammentario dei testi da.lui trasmessici e, in particolar modo, certo
suo linguaggio, le sue metafore, immagini, allegorie, il suo stile
"tragico," come dice Proclo (In Tim.), lasciano lo storico in non
poche difficoltà. La questione dell'" orientalismo" di Numenio fu
soprattutto impostata dal Norden (Agnostos Theos, Lipsia), il quale, puntando
sul testo di Numenio, in cui si dice che Dio è totalmente inconoscibile
(7tetV't'tX7tctow &yvoou!Wioç), sosteneva che Numenio fu un saggio
"fortemente penetrato di orientalismo" (Agn. Th.), che si sarebbe
appoggiato su appelli soteriologici di profeti orientali ambulanti al servizio
della propagazione della vera gnosi di Dio, attestati anche presso gli Gnostici
(Norden, cit.). Studi piu appro- fonditi sia sul piano della tradizione
platonico-razionalista (Gaio-Albino- Apuleio), sia sul piano della gnosi,
dell'ermetismo, degli oracoli caldaici, hanno chiarito come, almenò per
quest'epoca, sia difficile operare un taglio netto tra motivi cosiddetti
occidentali e motivi cosiddetti orientali (comunque riferibili solo al mondo
egiziano, ebraico, persiano). In effetto ci troviamo di fronte ad una
reciprocità di scambi, che costi- tuisce alla fine una sola e comune base
culturale, ove le differenze stanno piuttosto nell'un modo o nell'altro di
risolvere il rapporto tra il divino e il mondo, nella capacità, o meno, di
cogliere l'Essere supremo. In tal senso sembra che lo gnosticismo sia pit,l
diffuso di quel che si riteneva allorché si parlava di uno gnosticismo
cristiano, eretico nei con- fronti del cristianesimo autentico, anch'esso, in
realtà, un tipo di gnosti- cismo, diverso, certo, da altri gnosticismi, si come
lo gnosticismo di Numenio è diverso da quello di Platino, a sua volta critico
di un tipo di gnosi. Sotto questo aspetto sembra esatta la polemica del
Festugière contro gli "orieotalisti." "Non vedo nulla qui che
confermi l'opinione di Norden, secondo il quale la nozione 'orientale' del Dio
totalmente inconoscibile degli gnostici, di Numenio, e piu tardi di Proclo, si
oppor- rebbe alla nozione platonica di un Dio !pplj't'ot; xcxt v<;>
(.L6VCf> >.1)'7t'T6cx (afferrabile solo con l'intelletto) secondo la
formula di Albino (Epitomè). Nessuna differenza, secondo me, su questo punto,
tra Albino e Numeoio. Albino insegna, per giungere a Dio, il metodo d'
&q>«Epca~ ('Il primo modo di concepire il punto astraendolo dal
sensibile, avendo prima concepito la superficie, poi la linea, infine il
punto': Albino, Epi- tomè, 10). Questo stesso metodo è implicito nel tema dell'
lP"J(.L(ç 80 (eremla: solitudine) in Numenio: Dio è
lpl)!J.Oc; (éremos) nel senso che sfugge ad ogni determinazione, che nessun
concetto finito per- mette di avvicinarlo: non vi è nulla che gli somigli o gli
si avvicini: egli abita il deserto dello spirito. E allora, poiché non lo si
può né definire, né nominare, Dio sfugge alla conoscenza razionale [discor-
siva]. Ma al di sopra del Myoc; (l6gos) vi è il vouc; (nus), che, preci-
samente, in tutta la tradizione platonica, è una facoltà soprarazionale che
permette di vedere, di toccare il divino" (Festugière, La révélation
d'Hermès Trismégiste, Parigi). Se il Festugière ha ragione - e sulla sua stessa
via si è posto il Dodds: N umenius, in Les sources de Plotin, "Entretiens
sur l'antiquité classique," Ginevra - nel riportare Numenio sulla linea di
Albino, può essere altrettanto pericoloso, storicamente, sostenere la non
influenza di certi motivi orientali, perché si viene cosi ad opporre sem- pre
la concezione orientale (come se esistesse in blocco una concezione orientale)
a quella platonica, come se davvero l'interpretazione di Antioco di Ascalona e
poi quella di Gaio, di Albino, e cosi via, sia l'unica e vera interpretazione
di Platone, e non si dia il caso che quelle interpretazioni di Platone siano
dovute a precise esigenze, precisabili storicamente, simili, almeno entro una
diversa atmosfera culturale, alle esigenze che hanno dato luogo alle soluzioni
gnostiche, ermetiche, ora- colari, magiche, cristiane. Dodds ha ora, nella sua
magistrale rela- zione su Numenio, tenuta agli ~Entretiens sur l'antiquité
classique", chiarito molto acutamente tutte le difficoltà e le possibili
solu- zioni relative a Numenio, riproponendosi anche il problema dei rap- porti
di Numenio con lo gnosticismo e della sua possibile influenza sul- l'autore
degli Oracoli Caldaici. Il Puech, storico dello gnosticismo, e che un tempo,
nel 1934 (Mélanges Bidez), sulla scia del Norden, soste- neva l'orientalismo di
Numenio, ha finemente detto, nel corso della discussione sulla relazione. del
Dodds: "Quanto a Numenio, bisogna dire, credo, che vi è in lui, in
partenza, uno sforzo di sistemazione del pla.tonismo, come, del resto, già
indicavo nel mio articolo delle Mllan- ges Bidez... Senza dubbio parlai allora,
nel 1934, impressionato dal- I'Agnostos Theos del Norden, di influenze
orientali: non si sfugge al proprio tempo. Oggi mi sembra questione piu
delicata definire ciò che esattamente ricoprono, nell'epoca considerata, i
termini 'Oriente' e 'Occidente.' Eppure bisogna porsi il problema: cosa ha
condotto Nume- nio a distinguere un primo e un secondo Dio? ~questo che
differenzia il suo atteggiamento da quello del platonismo medio? Il primo Dio,
per il platonismo è un Demiurgo. Si può derivare l'opposizione tra il Demiurgo
e il Bene da una interpretazione sistematica del platonismo, riallacciare
esclusivamente l'una all'altra mediante una specie di conti- nuità dialettica?
Si sottolinei che simile opposizione può prendere, e prende, nello gnosticismo,
forme varie, distinte da quelle che ha in Marcione... Ad ogni modo, non v'è
negli gnostici e in Numenio un problema analogo? Problema, d'altra parte,
legato a quello della Mate- ria come male assoluto e a quello della condizione
umana: si tratta di scaricare Dio dalla responsabilità del Male.
Conseguentemente si imma- ginano degli intermediari tra il Bene supremo, o il
Dio sommamente buono, e la Materia, o il mondo: delle ipostasi, degli arconti,
degli angeli il cui capo sarà alla fine assimilato a Yavè, il dio della Genesi
e della Legge. Quali erano, infatti, le entità suscettibili di assumere la
responsabilità della creazione? Necessariamente, o il Dio della Bib- bia
ebraica (ad un tempo de~iurgo e iegislatore), o il demiurgo del Timeo. In
Numenio e negli gnostici v'è la stessa concatenazione di pro- blemi. Plotino,
attaccando gli gnostici, attacca, sembra, ad un tempo Numenio. Al principio del
trattato II 9, al capitolo l, se la prende~.come ha mostrato Dodds, con il vou~
lv i)aux_(qr: (l'intelletto in quiete), con il vou~ o con il.&eb~ &pyo~
(l'intelletto, o il dio inattivo, o 'pigro') di Numenio, ma la sua critica è
volta anche, e insieme, contro gli gno- stici... Evidentemente, il problema
dell'influenza che la gnosi ha potuto esercitare su Numenio è, come quello
dello gnosticismo stesso, piu facile a trattare fenomenologicamente che
storicamente" (Puech, in Les Sour- ces de Plotin, Entretiens). Il Puech si
rifà qui alla tesi oggi particolarmente sostenuta sullo "gnosticismo"
e da lui stesso chiaramente espressa (cfr. H. Cb. Puech, La Gnose et les temps,
"Eranos-Jahrbuch," Mensch u. Zeit, Zurigo). Gli studiosi si sono oggi resi conto che lo
"gno- sticismo" non può piu essere compreso solo,come un'eresia del
cristia- nesimo (posteriore e interna al cristianesimo), come si riteneva
basan- dosi sui testi gnostici trasmessici dai cristiani (Clemente di
Alessandria, Origene, lreneo per gli gnostici Basilide e Valentino; Tertulliano
per Marcione), in polemica con l'interpretazione gnostica del cristianesimo, ma
che esso fu un movimento, un fenomeno religioso, molto piu com- plesso ed
esteso, certo anteriore al cristianesimo, un modo di intendere, un tipo di
esperienza religiosa che investf di sé sia tradizioni, misteri, miti greci, sia
certe filosofie ellenistiche (in particolare il "platonismo"), sia la
religione ebraica e poi la cristiana, sia miti e religioni di Oriente,
diversificandosi a seconda, appunto, di quale fu l'ambiente e la cultura in cui
venne operando. Oggi, dunque, non si vede piu nello "gnosti- cismo"
né una "ellenizzazione del cristianesimo" (cfr. Harnack, Lehrbuch d.
Dogmengeschichte; Buonaiuti, Lo gnosticismo, Roma; De Faye, Gnostiques et
gnosticisme, Parigi; Burkitt, Cliurch and Gnosis, Cambridge), né, di contro,
un'assoluta derivazione dalla religione egiziana, da quella iraniana e dai miti
babilonesi (cfr. W. Bousset, Hauptprobleme der Gnosis, che ritiene il complesso
delle figure gnostiche, Dio ignoto, arconti subordinati, il mondo male, e cosi
via, di origine persiano-babilonese; Reitzenstein, che nel Piman- dro, Lipsia,
1904, ritiene lo gnosticismo di origine egiziana, rintrac- ciando forti
affinità con l'ermetismo, e che nel Das iranische Erlosungs- mysterium,
Bonn, sostiene la derivazione iraniana
dello gnosti- cismo). Ma neppure, infine, si vede nello gnosticismo un mèro
sincre- tismo, come hanno sostenuto Hohler (Die Gnosis, Berlino) e H. Leisegang
(Die Gnosis, Lipsia), aspramente combattuti da Jonas (Gnosis und Spatantiker
Geist, Gottinga). Il termine gnosticismo è usato in senso molto piu lato, e il
problema gnostico si pone oggi in un modo nuovo. Lo gnosticismo appare ormai
come un fenomeno generale della storia delle religioni la cui larghezza
oltrepassa infinitamente i limiti e il terreno del cristianesimo, queste non
sono eresie immanenti al cristianesimo, ma i risultati di un incontro e di un
congiungimento tra la nuova reli- gione e uno gnosticismo che esisteva prima.di
essa, che era inizialmente ad essa estraneo. Lo gnosticismo ha rivestito in
alcuni casi forme cri- stiane o forme che, con il trascorrere del tempo, si
sono sempre piu profondamente cristianizzate, al modo stesso che in altri casi
ha preso forme pagane adattandosi alle mitologie orientali, ai culti dei
misteri, alla filosofia greca, o alle scienze e arti occulte. Per quanto queste
forme nelle quali si è manifestato storicamente lo gnosticismo siano state di-
verse, esso dev'essere considerato un fenomeno specifico, una categoria o un
tipo distinto del pensiero filosofico religioso: si tratta di un atteg-
giamento che ha un andamento, una struttura, leggi proprie che l'ana- lisi,
pervenuta· alla comparazione, può ritrovare sostanzialmente iden- tiche e con
le medesime articolazioni alla base di tutti i diversi sistemi che noi
possiamo, proprio in ragione di questo fondamento o 'stile' comune, raggruppare
sotto una stessa etichet1:a chiamandoli sistemi gnostici" (Puech, La Gnose
et le temps). Si è cercato cosi di vedere lo "gnosticismo" come un
tipo di espe- rienza religiosa, mediante cui, di volta in volta, a seconda
degli ambienti, delle religioni o delle filosofie, si sarebbero riportati quei
miti, quelle religioni,- quelle filosofie a quell'unico tipo di
"gnosi" (conoscenza), in una trasformazione di quelle stesse
filosofie, religioni, miti: fossero questi ultimi originari del mondo
greco-orientale (misteri) o propri dell'Egitto o dell'Iran. Presi da queste
considerazioni bisogna; per altro, non vedere, ovunque, influenze gnostiche -
o, per lo meno, di un certo gnosticismo - tenendo presente che, nonostante le
scoperte piU, recenti di alcuni testi gnostici (lo gnosticismo prima era
conosciuto solo attraverso i testi riportati dagli autori cristiani in
polemica), le posizioni gnostiche da noi conosciute sono piuttosto tarde e
risalenti al solo periodo del primo cristianesimo ed in relazione con esso. In
realtà, sia i manoscritti manichei scoperti a Medinet Madi (Egitto), sia i
tredici papiri contenenti 48 libri gnostici tra- dotti in copto dal greco, scoperti
a Nag Hammadi (Egitto), piu che allargare nel tempo le nostre conoscenze sullo
gnosticismo, hanno da un lato confermato l'esattezza delle citazioni di testi
gnostici da· parte dei cristiani, dall'altro lato (in particolare gli scritti
di Nag Hammadi che appartengono alla setta dei Setiani) lo stretto rapporto tra
i Setiani e la Palestina e i Setiani e certi aspetti dell'ermetismo di
Alessandria. Non solo, ma ritrovati tra questi ultimi testi tre dei libri
ricordati da Porfirio contro i quali Plotino scrisse il suo trattato contro lo
gnosticismo, meglio si vedono le ragioni che mossero sia un
platonico-razionalista tipo Plotino, sia una posizione come quella cri- stiana
a respingere la concezione gnostica come assurda, l'uno vedendo nello
gnosticismo l'assoluta impossibilità di una deduzione logica del- l'universo -
che per altro verso lo portò anche a polemizzare contro la concezione cristiana
di Dio -, l'altra vedendo nello gnosticismo e nella sua interpretazione della
figura del Cristo, un'ellenizzazione della pro- pria visione, riduttrice dd
nuovo a vecchie posizioni, annullanti la storicità di Gesu. Per meglio
intendere come si venne delineando nel I I - I I I secolo da un lato la
"filosofia cristiana" in senso stretto, dall'altro lato il movi-
mento neoplatonico, interessa ora brevemente e schematicamente - con ciò
perdendo le molte sfumature - esporre la posizione degli gnostici. Innanzi
tutto va precisato il significato assunto dal termine "gnosi"
(conoscenza), entro l'àmbito delle sette gnostiche fiorite nel II secolo. Pur
mantenendosi il significato originario e comune di "conoscenza," il
termine è usato per indicare un particolare tipo di conoscenza. Non si tratta
né di una conoscenza cui si giunge mediante il discorso, le normali vie della
ragione, né di un atto intuitivo della mente, che rivela un principio
discorsivamente analizzabile, bens(di un'improvvisa illu- minazione con cui ciò
che si crede per fede viene, appunto, conosciuto e mediante cui si salvano
l'uomo e le cose, per loro natura, in quanto esistenti, radicalmente ammalati,
in preda al male. Si tratta, dunque, di una conoscenza soterica (salvificante),
assolutamente gratuita, riser- vata ai soli eletti, agli iniziati, a chi abbia
avuto, appunto, rivelata la "gnosi," agli "gnostici," ai
"pneumatikòi" (spirituali: in chi t: passato il "soffio,"
lo pneuma divino), come dirà Valentino, per natura supe- riori agli
"psichici" (coloro che hanno SI un'anima, ma non lo spirito, per i
quali è valido il co~flitto morale e la "fede") e agli "hylici"
(i materiali: coloro che sono per natura presi dal corpo e dalla materia, dal
male). Solo tale tipo di "gnosi," salvando, risolvendo in sé la fede,
svela "chi fummo, che cosa siamo diventati, dove eravamo, da che cosa
siamo riscattati, cosa ela rigenerazione" (in Clemente Alessandrino,
Excerpta Theodoti, 78, 2, ed. Sagnard). In secondo luogo va detto che tale
significato dato alla "gnosi" fun- ziona quando si tenga presente il
radicale pessimismo che emerge da tutti i testi gnostici da noi conosciuti. Se
solo l'Essere (Dio) in quanto Essere è perfetto e tutto in sé compiuto e perciò
Bene, il mondo, tutto ciò che esiste non può essere l'Essere, ché altrimenti si
identificherebbe con lui; il mondo, d'altra parte cosi pieno di mali
("avendo assistito a cose cosi orribili, cominciai a domandarmi quale ne
fosse la causa, quale il principio, chi in tal modo tramasse contro gli
uomini... No, certo, Dio": Valentino, in Contra Marcionitas, in Patrol.
graeca, VII), non può essere frutto di Dio né sua emanazione, ma la
manifestazione di un altro principio, ·di un principio decaduto da Dio, ribelle
a Dio, e perciò opposto a Dio e che, dunque, è il Male. Esso, in quanto si
rivela, plasma il mondo, il quale mondo è perciò male. Dio, dunque, è al di là
del mondo, non ha prodotto il mondo, non è il reggitore del mondo, e, dunque,
non può essere conosciuto né dal mondo, né attra- verso il mondo. Attraverso il
mondo, opera del male, si coglie piuttosto il male che Dio, il facitore del
mondo, il principe delle tenebre, che imprigiona nel suo costituirsi tutta la
realtà in leggi meccaniche e neces- sarie, da quelle che regolano il firmamento
e i corpi celesti, a quelle stesse che, a loro volta, determinano i destini
terreni, i fati umani. "La regolarità appare allo gnostico come una
ripetizione monotona e opprimente; l'ordine e la legge (il n6mos fisico e
morale) come un giogo insopportabile... Il firmamento, i corpi celesti, in
particolare i pianeti che presiedono al Destino, alla fatalità, sono esseri
malvagi, sono la sede di entità inferiori, come il Demiurgo e gli angeli
creatori o di dominatori demoniaci dalle forme bestiali: gli 'Arconti.' In una
parola l'universo visibile, da divino che era, diviene diabolico. L'uomo vi
soffoca come in una prigione, e, lungi dall'essere la manifestazione del vero
Dio, porta il marchio della sua infermità e della sua perversa origine"
(Puech, cit., p. 85). Si vede bene, allora, come solo la "gnosi"
spezzi la.catena della necessità e del fato, liberi, salvi dal male, affranchi
da ogni legge (morale e fisica), congiungendo l'uomo a Dio, e come solo gli
"gno- stici," coloro che sono stati eletti, possano essere maestri di
conoscenza e siano la "potenza di Dio," il quale Dio, dunque, resta
di là da ogni normale conoscenza, è "ignoto," "nascosto,"
"straniero," "abisso," "statico,"
"ozioso" (non nel senso che è indiscorribile e inattivo il Dio di
certi platonici); solo gli gnostici, dunque, lo vedono, di una visione che è
rivelazione (gnosi). Essi, dunque, potranno insegnare agli altri come si è strutturato
il mondo, in che consista il male, quali pos- sano essere le pratiche per
salvarsi, come l'anima possa riaffiorare a Dio. Entro i termini di una
concezione religiosa, nella ricostruzione del tutto, si poteva benissimo, sia
pur in un rovesciamento del concetto di ordine e del mondo, rivelazione del
divino, usare, rotti dai loro contesti, frasi e passi di Platone, degli stoici,
dei misteri, dei pitagorici, delle tradizioni magico astrologiche di origine
iranica, degli allegorismi ebraici, di certe interpretazioni ermetiche
dell'universo, reinterpretati in funzione di tale concezione. Si veniva a
costituire, cosi, insieme a quella visione religiosa, a quella
"gnosi," una religione, un complesso di riti e di culti, mediante cui
gli eletti, gli gnostici, i pneumatici, si fanno salvatori, hanno capacità di
agire sugli dèi e sui dèmoni, sugli spiriti del male, sugli astri demoniaci che
stringono gli uomini nei loro destini (magia e teurgia), che dominano il mondo,
per asservirli a se stessi, rompendo la catena del mondo. Fenomeno assai
diffuso, certo la "gnosi" non si riduce a questo; dal n secolo in
poi, veniamo ad avere una serie di sette, di forme diverse di
"gnosi," difficilissime ad individuarsi e che soprattutto inte-
ressano lo storico delle religioni. Ma, ancora, _va sottolineato un aspetto,
quale chiaramente risulta dai documenti che abbiamo, e cioè come, almeno in
principio, il Cristianesimo nel suo incontrarsi con gente che gnosticamente
sentiva sé come portatrice della "potenza di Dio," po- tesse benissimo
essere assunto come una delle posizioni gnostiche e potesse essere interpretato
in chiave gnostica, si come, per altra via, poteva essere interpretato entro i
termini della concezione di Filone l'Ebreo. E qui pensiamo allo sviluppo di una
corrente del pensiero gno- stico, quale si rivela chiaramente attraverso ciò
che ci è detto di Simon Mago, di Menandro e di Saturnilo di Antiochia, e dei
loro presumibili successori, Basilide, Valentino, Marcione, forse Bardesane, da
cui, pro- seguendo fin verso il vn secolo, si vennero costituendo gruppi
diversi e molteplici (Ofiti o Naasseni, ossia "serpentini" in greco e
in ebraico, "gnostici" veri e propri, Setiani, Arcontici, Audiani, e
Basilidiani, Va- lentiniani, Marcioniti, Bardesaniti e cosi via).
Particolarmente interessante è a questo proposito il racconto di 86
Simon Mago/3 riferito dagli Atti degli Apostoli. Il diacono Filippo
"arrivato alla città di Samaria predicava loro Cristo. E la moltitudine
concordemente prestava attenzione a quello che diceva Filippo, ascol- tandolo e
vedendo i miracoli che faceva, poiché da molti, che avevano spiriti immondi,
questi uscivano, gridando ad alta voce. E molti para- litici e zoppi furono
sanati. Per la qual cosa fu grande allegrezza in quella città. Ma un certo uomo
chiamato Simone stava già da tempo in quella città, esercitando la magia, e
seduceva la gente di Samaria, spac- ciandosi per qualche cosa di grande: e
tutti gli davano retta, dal piu piccolo al piu grande, e dicevano: questo uomo
è la potenza di Dio [non va qui scordato che nel Vangelo di Luca l'angelo dice
a Maria: 'Lo spirito santo scenderà sopra di te e la potenza dell'Altissimo ti
coprirà con la sua ombra': Luca, l, 35],·la potenza di Dio che si chiama
grande. E lo ubbidivano perché da molto tempo li aveva ammaliati con le sue
magie. Ma quando ebbero creduto a Filippo, che evangelizzava loro il regno di
Dio, uomini e donne si battezzarono nel nome di Gesu Cristo. Allora anche
Simone credette, e battezzatosi divenne intimo di Filippo. E osservando i segni
e i miracoli grandi che seguivano, usciva fuori di sé per lo stupore"
(Atti degli Apostoli). Venuti, poi, da Gerusalemme a Samaria Pietro e Giovanni,
inviati dagli Apostoli a far discendere in quei di Samaria lo Spirito Santo con
l'imposizione delle mani, Simone offerse agli Apostoli denaro dicendo:
"Date anche a me questo potere, che a chiunque imporrò le mani riceva lo
Spirito Santo." Pietro gli disse: "Il tuo denaro perisca con te,
poiché hai giu- dicato che si acquisti con il denaro il dono di Dio" (Atti
Apostr.). 13 Di Simone,. detto Mago, nato a Gitton, in Samaria, vissuto nel 1
secolo d. C., non sappiamo se non ciò che dicono i primi scrittori cristiani.
Secondo le Omelie pseudo clementine Simone avrebbe studiato in Alessandria,
dove anche avrebbe appreso le arti della magia e si sarebbe accostato alle
interpretazioni di Filone l'Ebreo ("la menzione di Alessandria, il centro
della scienza e della filosofia greche di quest'epoca, vtiol certo sottolineare
le intime relazioni con la saggezza greca e con la scienza
giudeo-ellenistica": Leisegang,). Secondo le Ricognizioni, Simone, tornato
in Samaria, avrebbe aderito alla setta che Dositea vi aveva fondato dopo
l'esecuzione di Giovanni Battista, setta costituita di trenta discepoli (uno
per ogni giorno del mese) e di una donna, chia- mata Luna o Elena; su tutti
presiedeva Dositea, detto l'hestòs, il supremo, rappresentante• di Dio. Secondo
Giustino (Apol.), Simone si sarebbe recato a Roma al tempo del- l'imperatore
Claudio: "Aiutato dai dèmoni, fece prodigi di magia. Fu preso per un Dio
e, come a un Dio, gli fu eretta una statua, nell'isola tiberina, tra i due
ponti con la seguente iscrizione latina: Simoni deo sancto; quasi tutti i
Samaritani e alcuni di altre nazioni lo riconoscono e lo adorano come loro
prima divinià; una certa Elena, che lo accompagnava in tutti i suoi viaggi, e
ch'era prima vissuta in un postribolo, passa per essere la sua prima
Ennoia..." Di una sua opera, La grande rivelazione, lppolito ha con-
servato alcuni testi (lppolito, Philosoph.). Poco o nulla sappiamo dei due
discepoli diretti di Simone, Menandro della Samaria (cfr. Giustino, Apol.;
Ireneo, Haeres.) e Saturnilo (cfr. Ireneo, Haeres.; Ippolito, Philos.;
Epifanio, Panar.; Tertulli"ano, De anima, 23; Filastrici, Haeres.). Dopo
il pentimento di Simone, gli Apostoli tornarono a Gerusalemme. Il racconto è
molto indicativo. Simone è un uomo, che, prima dell'in- contro con i Cristiani,
ha già in sé la "potènza di Dio," che incen- tratosi con gli
"inviati" del Signore, si sente loro vicino, anche se da essi
respinto, e si fa cristiano. ~ stato detto che questo "racconto riflette
in piccolo la storia della gnosi eretica. Essa esisteva prima del Cristia-
nesimo, si è fatta cristiana, i cristiani l'hanno respinta, ma essa pretende
rimanere cristiana e passare per tale" (H: Leisegang, La gnose, trad.
frane., Parigi). E ciò, si può aggiungere, era possibile per il fatto che lo
stesso Cristianesimo appariva come un tipo di "gnosi," par-
ticolarmente negli ambienti della "gnosi" ebraica e dell'ebraismo
elle- nizzato di Alessandria (si veda sempre Simon Mago e la sua vicinanza,
nell'interpretazione allegorica del Vecchio Testamento, a Filone l'Ebreo).
Simon Mago e, sulla sua scia, Menandro e Saturnilo, vedono nella rive- lazione
del Cristo la "gnosi," per cui cercano di innestare il Cristo, ve-
nuto a salvare l'uomo, entro i limiti della visione "gnostica"
dell'Uni- verso, ove la redenzione umana di Cristo si trasforma in redenzione
cosmica, e dove accanto agli elementi dell'interpretazione allegorica della
Bibbia, giuocano non pochi elementi tratti dalle filosofie elleni- stiche
(platonismo, pitagorismo), dai misteri greci, egizi, iranici, anche se, come
abbiamo visto, se ne rovescia il significato, per ciò che riguarda il rapporto
Dio-mondo, Dio-anima, particolarmente impostato dalle filo- sofie e dai misteri
greci. Per Simon Mago la radice del grande albero dell'Essere, veduto in sogno
da Nabuccodonosor (Daniele.), è il "divorante fuoco" del
Deuteronomio, "tesoro del visibile e dell'intelligibile," esso Dio
Padre, Yavè. Da tale "fuoco," uno e in sé conchiuso, si genera una
serie di coppie. Essendo esso pensiero e parola, le prime coppie, enti a Dio
coeterni (eom), sono Intelletto (N'iis) e Riflessione (eplnoia), e, quindi,
voce e nome, ragienamento (loghism&s) ed esigenza (enthy- mesis). Da essi
scaturisce il pensiero buono (èunoia) del padre, che, a sua volta, produce gli
Angeli che dànno realtà a tutte le cose. Solo che gli Angeli, affermandosi, si
distaccano dall'Uno padre, facendo, allegoricamente, prigioniera tunoia, la
quale si determina in un corpo di donna, subendo una serie di trasformazioni (è
stata Elena di Sparta e infine una prostituta siriana). Il corpo, dunque, la
materia sono il frutto dell'orgoglio degli Angeli, del pensiero distaccatosi
dalla radice prima. Il Padre, allora, per recuperare e liberare tunoia si
manifesta in nuove forme, in Gesu, nello Spirito Santo e in Simone stesso, me-
diante cui si salvano coloro che il Padre ha scelto (gli eletti), indipen-
dentemente dalle opere e dalle azioni umane, tutte in sé malvage e ribelli.
Dio, attraverso Gesu, lo Spirito Santo e Simone, è venuto a salvare il
Pensiero, non l'uomo, la realtà molteplice, che ritorna una nel pensiero uno di
Dio, nell'unità del fuoco primo e ultimo (per lo scritto, La grande
rivelazione, attribuito a Simone, e per i frammenti da cui si è ricavato quanto
sopra cfr. Ippolito, Philosophumena; lreneo, Adv. haeres.; Ricognizioni.;
Omelie pseudo Clementine; San Giustino, Apologia prima). Cosi, anche per Menandro
e Saturnilo di Antiochia, seguaci di Simone, non del Dio ignoto e tutto in sé
compiuto (donde sono scaturiti gli angeli, gli arcangeli, le potenze e le.
dominazioni) sono frutto il mondo e gli uomini, ma degli angeli che, oramai
lontani da Dio e dalla sua imma- gine, hanno, affermando se stessi e quindi
ribellandosi a Dio, costituito malamente le cose e gli uomini, che sono quindi
in parte buoni e in parte cattivi e demoniaci, e che non si salverebbero senza
la gnosi dovuta al Cr!sto, il quale, ingenerato e incorporeo non si è manife-
stato.come un uomo, ma come il /Ogos. "Gli angeli hanno fatto due specie
di uomini, i buoni e i cattivi: poiché i dèmoni aiutano i malvagi, il Salvatore
si è manifestato per annientare cattivi e dèmoni e salvare i buoni. Il
matrimonio e la generazione [cioè la moltiplicazione degli uomini] sono opera
del diavolo..., il quale, l'ultimo degli angeli, è il nemico incarnato dei
precedenti- angeli e del Dio degli Ebrei" (Ireneo, Adv. haereses). Piu a
un dramma cosmico, che non di persone, come era per Satur- nilo, tornano
Basilide e il piu notevole dei cosiddetti gnostici eretici del n secolo,
Valentino. Basilide di Alessandria,14 morto nel 138 circa (avrebbe scritto 23 o
24 libri di Esegesi al Vangelo, Incantagioni, un proprio Vangelo), invocate le
rivelazioni di ignoti profeti, come Ham e Barcabba, rifacendosi a Pitagora e al
mitico Ferecide, pone al principio un Dio ignoto, unico, invisibile,
incomprensibile e innominabile, che ha in sé tutte le possi- bilità, i semi di
tutto (lo Yavè degli ebrei, il Crono degli Orfici). Pura luminosità Dio, da lui
in principio prolificano tre figli: il primo figlio, che, come raggio di luce
che si riflette nella fonte luminosa da cui proviene, rimane in Dio; i l
secondo figlio, che illumina le altre H Forse discepolo di Menandro (vedi
sopra), Basilide insegnò ad Alessandria sotto Adriano e Antonino Pio. Secondo i
basilidiani egli avrebbe rice- vuto la sua dottrina da un certo Glaucia,
interprete di San Pietro. L'insegnamento di Basilide fu proseguito dal figlio
lsidoro. Di un Vangelo di Basilide e dei suoi Commen- tari (in 23 o 24 libri)
restano alcune citazioni; avrebbe composto delle Odi. Per i fram- menti di
Basilide dr. Acta Arche/ai et Manetis; Clemente Alessandrino, Stromala; cfr.
anche l'esposizione del pensiero di Basilide ad opera di lppolito, Philor.,
VII, 20 sgg.; Ireheo, Han-er. semenze, ritornando quindi in Dio;
il terzo figlio.che rimane a fof\damento delle semenze. Dio e le sue tre
filiazioni costituiscono un tutt'uno, la potenza di tutto, rimanendo Dio sempre
tutto in atto, per cui tra Dio e il resto della realtà vi è come un limite, un
passaggio proibito, un orizzonte invalicabile, detto da Basilide "sfera
solida" (steréoma). L'universo non è Cf?Stituito da Dio, ma da un nuovo
essere 'scaturito da uno degli infiniti semi di Dio, il "grande
Arconte," inferiore ai tre primi figli, ma simile al Padre per potenza,
onde egli diviene principio di una serie di filiazioni intermedie tra la
"sfera solida" e la sfera della luna; l'ultima di queste divinità è
il Dio degli Ebrei che ha sede, appunto, nella lulfa. Egli quindi, avendo in sé
il riflesso della potenza divina, trovandosi al limite della materia caotica,
al di sotto della luna, ha costituito questo mondo e l'uomo. L'orgoglio del
primo Arconte, che, separato da Dio a causa della "sfera solida,"
afferma se stesso, opponendosi a Dio, si riflette su tutta la sua filiazione
fino al Dio degli Ebrei, che proclama sé unico e vero Dio. Il primo figlio di
Dio, allora, l'unico che ha la conoscenza ("gnosis") autentica di
Dio, si rivela al primo Arconte, che, convinto dell'errore, in cui era caduto
per ignoranza, conoscendo il vero Dio, riflette a tutti i cieli e alla sua
filiazione tale rivelazione, e tutti rientrano nell'ordine, finché un nuovo
figlio di Dio, parola di Dio, come Dio eterno (eone), il Cristo, riscatta,
rivelando la vera "gnosi" alla terra e all'uomo, l'opera del Dio
degli Ebrei, abrogando la vecchia legge, e mediante sé e la "gnosi,"
condu- cendo l'uomo al Dio primo. Tale, sembra - le fonti, polemiche e in gran
parte discordi, non permettono, in realtà, una ricostruzione esatta -, la
visione di Basilide. Valentino/5 originario dell'Egitto, formatosi
nell'ambiente religioso [Originario dell'Egitto, Valentino stesso sostiene
d'esSere stato discepolo di un certo Teoda, diretto ascoltatore di San Paolo.
Dopo aver predicato in Egitto, sappiamo che Valentino fu in Roma, prima sotto
il vescovo Igino, poi sotto il vescovo Aniceto. Dopo aver rotto con la Chiesa,
dalla quale fu cacciato, Valentino si ritirò in Cipro dove fondò una propria
scuola. Di lui si citano lettere, omelie, salmi, e due opere Le tre tlature e
il Vangelo della verità. Sulle fonti per ricostruire il sistema di Valentino,
cfr. sopra, il testo. Dopo Valentino la sua scuola si sparse in tutto l'im-
pero.. Tra i valentiniani orientali si citano: Marco, che insegnava in Asia
Minore verso il 180, e di cui sappiamo qualcosa attraverso Ireneo; Teodoto, di
cui abbiamo riferiti alcuni testi in Clemente Alessandrino, Excerpta ex
scriptis Theodoti; Bardesane, nato ad Edessa, dove morl, autore, sembra, di CL salmi
con relative melodie, e di un libro Sul.destino (ritrovato in siriaco: cfr.
ediz. F. Nau, in Patrologia syriaca), che, in realtà, fu composto da un suo
discepolo, Filippo, in cui si vuoi dimostrare che gli astri non negano affatto
la libertà degli uomini; Armonio, figlio di Bardesane. Tra i valentiniani che
avrebbero predicato in occidente, si citano: Secondo, Eracleone (il miglior
discepolo di Valentino, di cui si con- servano una quarantina di frammenti,
estratti da un suo commentario a San Giovanni), di Alessandria al tempo
dell'imperatore Adriano, cristiano dapprima, dopo il suo soggiorno a Roma,
ruppe con la Chiesa. Visse, quindi, in Oriente e fondò a Cipro una propria scuola.
A parte pochi frammenti, tratti da sue omelie, inni, lettere e i titoli di due
sue opere, Le tre nature e il Vangelo della verità, nulla resta che si possa
con certezza attribuire a Valentino. Una rielaborazione, forse, della
concezione di Valentino, piu tarda (del m secolo circa), assai oscura, composta
di testi diversi, con elementi propri di altre sette gnostiche
("ofitiche"), è la Pistis Sophia, un'opera gnostica, in copto,
scoperta in Egitto sulla fine del xvm secolo dallo Askew e pubblicata dal Petermann,
il cui perno è la nar~azione della caduta e della liberazione dell'eone detto,
appunto, pistis sophia, mediante cui si vuoi dimostrare che la fede ha da
risolversi in conoscenza. Nonostante che a seconda.delle fonti usate (Ireneo,
Adv. haeres., I, l; Ippolito, P.hilos.) si possano ricostruire vari sistemi
valen- tiniani, nel suo insieme abbastanza chiara risulta, nelle linee
generali, la costruzione di Valentino. In quanto principio, il fondamento del
tutto è in sé perfetto e uno, ingenerato, padre dei padri, Propadre (Propator),
indicibile e invisibile, senza fondo, e perciò Abisso (Bythòs), perfetto in
eterno (téleios aiòn), perfetto eone, tutto in sé compiuto, da nulla turbato
("negli sconfinati spazi sta_ in pace e solitudine immensa": lreneo,
Adv. haeres., I, l, sgg.). Monade; dice Ippolito, è il Dio di Valen- tino, in
quanto tutto è in sé solitario, unico, senza consorte e senza compagna
(&~•Jyot; xcxt il.&-tjÀut;: Ippolito, Refut.); pensiero tutto compiuto
e perciò facente un tutt'uno con énnoia, mente, dice Ireneo, per cui énnoia è
silenzio (sighè) e grazia (charis). L'unione, in eterno, di Pensiero e Mente
(la prima delle coppie, delle syzyghiat) genera Intelletto (Nous), simile ed
uguale a colui che l'ha emesso e solo capace di abbracciare la grandezza del
padre. Questo intelletto - prosegue Ireneo nella sua espos1z1one del sistema
valentiniano - ~ detto anche Unigenito (Monoghen~s) e Padre e Principio (Arch~)
del tutto. Con lui fu emessa pure Verità (Al~theia). Questa ~ la tetrade pitagorica
prima e originaria che chiamano anche Radice del Tutto: e ci~ Bythòs e Sigh~,
quindi Nous e Al~theia. Ora Monoghès, resosi conto del perch~ era stato emesso,
emise a sua volta Ragione (Logos) e Vita (Zoe) in quanto padre di tutti coloro
che avrebbero dovuto essere dopo di lui, e principio e forma di tutto il
Pléroma [il complesso, il "plenum" di tutte le filiazioni e coppie di
eoni], quindi: da L6gos e Z~ furono emessi per Tolomeo (di lui, conservata da
Epifanio, Ha~u., abbiamo una Lt!IUra a Flora, in cui si inizia alla gnosi una
donn•). Altri valentiniani d'occidente sono: Fiorino, Teo· timo, Alessandro.
accoppiamento (sizighfa) Uomo (Ànthropos) e chiesa (ecclesia). Questa è
l'ogdoade originaria, radice e sostanza del tutto, designata da loro con quat-
tro nomi: Byth6s, Nous, L6gos e Anthropos. Ciascuno di essi è maschio e
femmina: cosf il Pre-padre si è unito per sizighla alla.sua propria Mente
(Ennoia), Monoghenito, cioè Nous, ad Alètheia, L6gos a Zoè, Anthropos a
Ecclesfa. Ora questi Eoni emessi a gloria del Padre, volendo anch'essi
glorificare il Padre da parte loro, dopo l'emanazione di Anthropos ed Eccle-
sfa, emisero altri dieci eoni, i cui nomi sono... [Profondo e Unione, Senza
vecchiaia e unità, Spontaneo e Voluttà, Immoto e Commistione, Unigenito e
Beatitudine]. Ànthropos, a sua volta, con Ecclesfa emise dodici eoni a cui sono
dati i nomi seguenti: lntercessore e Fede, Paterno e Speranza, Materno e
Amorevolezza (Agàpe), Intelletto eterno e lntellezione, Ecclesiastico e
Beatitudine, Desiderato e Sapienza (Sophfa). Questi sono i trenta Eoni...
taciuti e non conosciuti: questo il loro Plèroma invisibile e spirituale,
diviso in tre parti, ogdoade, decade e dodecade. Affermano che quel loro
Pre-padre (Propator) è conosciuto dal loro Monogenito nato da lui, cioè da
Nous, mentre è invisibile e irrangiungibile per tutti gli altri. Non solo, di
contro ad essi, si beava contemplando il Padre e gioiva meditandone
l'incommensu- rabile grandezza... Tutti gli altri eoni, pur restando immoti,
bramavano vedere Colui che aveva emesso il loro seme e riconoscere quella
radice senza principio. Ma l'ultimo e piu recente degli Eoni della dodecade,
emesso da Anthropos e Ecclesfa, cioè Sophla, spiccò un balzo immenso e
fu.scossa da passione senza l'amplesso del suo compagno Théletos (Desiderato).
Questa passione è la ricerca del Padre; voleva, dicono, abbracciarne la
grandezza. Ma non avendo potuto abbracciarla, poiché la cosa era impossibile,
fu colta da immensa angoscia, di fronte alla grandezza dell'abisso,
all'impossibilità di proseguire verso il Padre ed alla tenerezza per Lui:
protesa com'era sem- pre innanzi, sarebbe stata totalmente inghiottita dalla
dolcezza di Lui e si sarebbe dissolta nell'essere totale, se non si fosse
scontrata in una Potenza solidamente costituita che, stando al di fuori della
Grandezza ineffabile, era di guardia al tutto. Questa Potenza è
detta...-Confine (Horos): fu essa a trattenere [Sophla], fermarla e, a fatica,
ritorcerla indietro, convincendola che il Padre è irraggiungibile. La prima Passione
(Enthùmesis), con l'Ango. scia che ad essa era sopravvenuta, si distolse (cosl)
da quel rapimento con- templativo. Questo Confine (Horos) si chiama anche Croce
(Stauròs) e Redentore (Lutrotés) e Affrancatore (Karpistés)... Per mezzo suo la
Sophia fu purifi- cata e consolidata e restituita all'amplesso (sigizìa).
Separatasi da lei Enthù- mesis con l'Angoscia sopraggiunta, essa... rimane
entro il Pléroma, mentre Enthùmesis, insieme all'Angoscia, fu segregata e
rimase fuori di questo: essa è sostanza spirituale (pneumatica), in quanto è un
certo istinto naturale dell'eone, ma senza forma, poiché nulla afferra: per
questo la chiamano frutto cattivo e principio femminile.... In seguito
Monogenito emise un'altra coppia (sigizìa) per riguardo al Padre, cioè Cristo e
Spirito Santo, e mentre il Cristo insegna [agli eonil 92 la natura
della sigizìa... lo Spirito Santo insegnò ad essi, resi tutti eguali, a rendere
grazie ed apprese loro la vera pace totale. E per questo beneficio, con una
sola volontà ed un solo intendimento, tutto il Pléroma degli e011Ì, uniti il
Cristo e lo Spirito Santo al coro comune,... raccogliendo insieme cia- scuno
degli eoni ciò che v'era di piu bello e splendente... emisero, ad onore e
gloria di Byth6s, una emissione suprema, quasi la bellezza e l'astro stesso del
Pléroma, Gesu frutto perfetto, soprannominato anche Salvatore, Cristo, Logos e
"il Tutto," poiché da tutti egli proveniva...: ed insieme con lui
furono emessi gli angioli, sua scorta e, per [suo] onore, generati simili a
lui.... Quanto poi a ciò che è fuori del Pléroma... la passione (enthùmesis)
della sophia superiore, detta Achamoth [dall'ebraico Hokmah,
"Sapienza," conoscenza divina], esclusa dal Pléroma insieme
all'Angoscia, rigettata nel- l'ombra e nel vuoto... come aborto... andava alla
ricerca della Luce che l'aveva abbandonata, ma non poteva raggiungerla,
impedita com'era da Horos:... sopravvenne allora in essa un altro intento,
quello che spinge a creare cose vive... Achamoth poi generò frutti a
somiglianza [degli angeli], generazione spirituale a somiglianza della scorta
del Salvatore... Già tre sostanze preesistevano di per sé: una dall'angoscia,
cioè la mate ria, un'altra dal movimento di ritorno all'indietro, cioè
l'elemento psichico una terza ciò che essa [Achamoth] aveva generato, cioè
l'elemento spirituale [Achamoth] si volse allora a dare ad essa una forma... E
dalla sostanza psi- chica formò il padre e re di quanto è fuori dall'eone,
crèatore ·a sua volta di quanto è animato e materiale...; [quest'ultimo] creò le
cose celesti e ter- rene,... foggiò sette cieli, al disopra dei quali è lui,
·il Demiurgo... Creato il mondo, quest'[ultimo] creò anche l'uomo materiale,
non da questa terra arida, ma dall'essenza invisibile della materia disciolta e
fluida; ed in esso insufBò l'elemento psichico... Ma quanto invece fu generato
dalla Madre Achamoth è spirituale. L'uomo spirituale, che era nato dalla
Sophfa, semi- nato quando avvenne l'insufBazione, rimase celato al Demiurgo...
che come non aveva conosciuto la Madre, cosf non ne conobbe il seme... Questo
uomo è il loro uomo ed essi vengono cos{ ad avere l'anima fatta dal Demiurgo,
il corpo fatto di terra, la carne derivata dalla materia, ma l'uomo spirituale
deriva dalla Madre Achamoth. Sono dunque tre realtà: ciò che è materiale...
fatalmente destinato a rovina, essendo incapace di accogliere qualunque soffio
di immortalità; ciò che è fornito di anima... posto a metà fra ciò che è
spirituale e ciò che è materiale, che sta là dove terminerà di volgersi; quello
che è spirituale... e questo... è il "sale" e la "luce del
mondo" (Mt.), che è stato emesso perché qui, unito a ciò che è psichico,
si formi e sia elevato con esso nel movimento di ritorno. Il compimento supremo
si avrà quando tutto ciò che è spirituale (cioè gli uomini pneumatici che
posseggono la perfetta cono- scenza - gnosi - di Dio e di Achamoth) sia stato
formato e reso perfetto con la gnosi. Gli "iniziati ai misteri" sono
loro stessi (lreneo, Adv. haeres., I, l, l sgg.: dalla traduzione di F.
Bolgiani, in La filosofia medievale, antologia di testi a cura di N. ABBAGNANO
(si veda), Bari). 93 Sarebbe ozioso soffermarci sulle infinite
sfumature, distinzioni, vena- ture diverse con cui si presenta la
"gnosi" ·nei molti aspetti che prese sia con i prosecutori di
Valentino in Egitto e in Siria (Axionico, Marco, Teodato, Bardesane: Bardesane,
originario della Mesopotamia, predicò ad Edessa, ritenendosi il vero interprete
del Cristo, ch'egli sosteneva non essere nato da donna, né, in quanto 16gos di
Dio, avere preso forma umana: di contro a Dio, il diavolo e il male hanno una
realtà per sé e non sono quindi eoni fuorusciti o decaduti dal pléroma; di qui
l'eterna lotta tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre); sia in
occidente con Secondo, Eracleone, Tolomeo (di Tolomeo, conservataci da Epifane,
nel suo Panarion, abbiamo una Lettera a Flora, in cui Tolomeo inizia una donna
colta, Flora, all'idelogia della "gnosi"; esponendo la medita- zione
valentiniana sugli eoni e sulla loro traduzione in termini pitagorici,
costituendo essi una ottava, una decade e una dodecade). Accanto- nate inoltre
le molte sett~ gnostiche a carattere popolare, cui fu dato genericamente il
nome di sette "serpentine" (ofiti o naassem), per la funzione data da
tutte al serpe (venga esso inteso come il circolo vitale che regge il tutto in
unità, stringendo il mondo nella necessità, nel male, o venga inteso come il
principio vitale, l'anima, che sfugge dal corpo, o che ha la capacità di
rinnovarsi, per.cui il serpente rappresenta anche il simbolo della generazione,
a seconda di vecchi miti e misteri), e, accantonata la setta risalente al
mitico Carpocrate e quella detta dei Barbelognostici,16 non si possono qui, per
la diffusione e l'influenza che ebbero, lasciare da parte da un lato il
Marcionismo e, dall'altro lato, il Mandeismo e il Manicheismo. Marcione,11 nato
a Sinope, nel Ponto, dapprima 16 Accanto a Basilide e a Valentino, Carpocrate è
ritenuto il fondatore della terza grande "gnosi" alessandrina.
Contemporaneo di Basilide e di Valentino la sua figura e · personalità sono
leggendarie. Secondo Clemente Alessandrino (Strom., m, 2), il figlio di
Carpocrate, Epifania, morto a f7 anni, avrebbe scritto un trattato Sulla
Giustizia. "Barbelognostiche" son dette quelle sette il cui culto e
la cui dottrina s'incentrano sulla figura del Barb~lo, "in quattro è
Dio," in ebraico Barbhé Eliha (la tetrade costituita dal Padre, Fi~lio,
Pneuma femminile, Cristo}: si son fatti rientrare sotto questa etichetta i
Nicolaiti, i Fibioniti, gli Straziotici, i Levitici, i Barboriti, i Coddiani,
gli Zacheeni e i Barbeliti. Si confronti particolarmente, Epifania, Panarion. l
T Di Marcione sappiamo che nacque a Sinope, nel Ponto, nell'85 d. C., e che
mori a Roma.. Per il resto vedi sopra, il testo. Della sua opera, Antitesi,
abbiamo notizie attraverso S. Giustino, Sant'Ireneo, e particolarmente
attraverso Tertulliano (De fJI'~scriptione, Adv~sus Mare. libri.V, D~ carne
Christi). Per una ricostruzione del testo dell'opera di Marcione, cfr. A. von
Harnack, Mart:ion, Lipsia, il quale sostiene che Marcione non è da considerare
affatto entro l'àmbito della gnosi (vedi, ora, di contro, A. C. Blackmann,
Mart:ion and his lnflu~nce, Londra). Discepolo di Marctone fu un certo Apelle,
che dopo avere ascoltato Marcione a Roma, predicò in Alessandria. Tor- nato a
Roma vi mori nel 180 circa. Scrisse un libro sui Sillo6ismi (citato da Sant'Am·
] aderente alla Chiesa cnsuana, se ne distaccò per fondare una nuova Chiesa, la
"Vera Chiesa di Cristo." Egli visse, predicò e costitu1 la sua Chiesa
in Roma circa negli anni in cui visse a Roma anche Valentino. Figlio di un
vescovo cristiano, la sua interpretazione del cristianesimo gli valse fin dal
principio l'esclusione dalla Chiesa di Sinope, ad opera di suo padre. A Roma,
entrato in quella Chiesa, in silenzio lavorò intorno ad un'interpretazione del
Nuovo Testamento e al rapporto in cui porre il Vecchio con il Nuovo (di qui la
sua opera intitolata Antitesi). "Terminato il suo lavoro, Marcione si
presentò dinanzi alla comunità cristiana ed invitò i presbiteri a prendere
posizione sulla sua opera e la sua dottrina. Le discussioni si conchiusero con
un categorico rifiuto della tesi di Marcione e con la sua esclusione dalla
Chiesa romana. Marcione, convinto della verità del suo Vangelo ne trae le
conseguenze. Sarà il riformatore del Cristianesimo primitivo. Non è una setta,
ma una Chiesa sempre piu numerosa, composta di comunità particolari soli-
damente organizzate, la vera Chiesa del Cristo, ch'egli erige di fronte alla
Chiesa cattolica, assolutamente convinto di agire da autentico suc- cessore
dell'Apostolo Paolo. Giustino annota che il Vangelo di Marcione si estende su
tutta l'umanità. Tertulliano conferma la testi- monianza di Giustino: 'La
tradizione eretica di Marcione' - scrive - 'ha riempito l'universo.' Si trovano
ancora dei marcioniti a Roma, in Egitto, in Palestina, in Arabia, in Siria, e a
Cipro. Marcione è divenuto eretico, perché, di tutti i cristiani del suo tempo,
è stato il solo filologo, il solo a non interpretare le Scritture.del Vecchio
Testa- mento e del nascente cristianesimo per via di allegorie, cercando invece
di intendere le scritture in senso proprio e letterale..." (Leisegang,
cit., p. 186). In realtà Marcione, muovendo da un attento studio delle lettere
di Paolo (ai Romani e ai Galati), rileva la netta distinzione tra il Dio
proclamato dal Cristo, Dio ignoto, perché persona e libertà, Dio di bontà e di
amore, e il Dio del Vecchio Testamento, Dio degli eserciti, di un popolo, Dio
vendicativo e giusto, Dio di punizione. Cristo, dun- que, figlio di Dio, non
può essere figlio del Dio degli Ebrei. Cristo, perciò, non rivela il Dio degli
Ebrei, il facitore del mondo, e dell'uomo, ma un Dio fino ad ora ignoto,
l'ignoto Dio del discorso dell'Areopago di Paolo. Ques~o mondo, perciò,
intessuto di male e di dolore, questi uomini, caduti con il peccato di Adamo,
sono il frutto del Dio "giusto" e puni- tivo, del Dio della Legge e
del Vecchio Testamento. Col Cristo, invece, brogio, De Paradiso, 28), in cui
dimostrava che i libri di Mos~ sono pieni- di errori, e un libro intitolato
Rivelazioni (cpczvcp6!acLt;) in cui narrava le rivelazioni cha avrebbe avuto
una certa Filomena, apparte,nente alla setta marcionita.] figlio del Dio
buono, si rivela un nuovo Djo, un Dio fino adesso ignoto. I profeti prima di
Cristo hanno predicato il primo Dio, il Dio della Legge. L'albero del male, che
non può dare che cattivi frutti e \ii cui parla il Cristo - interpreta Marcione
- è il Dio del Vecchio Testa- mento; l'albero del bene, che non può produrre
che frutti buoni, è il Padre di Cristo, il nuovo Dio, il Dio dell'amore. Il Dio
di Cristo non è perciò l'autore di questo mondo, ·egli anzi è estraneo a tutto
il mondo, e se interviene per salvare l'uomo e il mondo, il suo intervento è
asso- lutamente gratuito. Libero dal mondo, oltre il mondo, Dio, mediante il
proprio atto, viene a salvare l'uomo dal vecchio Dio e dalla Legge, con un atto
di suprema grazia e di miseri<;ordia, proprio perch~ il Dio finora ignoto
non ha nulla a che fare con il mondo quale è. Di qui, nell'interpretazione che
Marcione dà del Vangelo - egli assume a prototipo il Vangelo di Luca - e delle
lettere di Paolo - egli sostiene che gran parte delle lettere paoline sono
apocrife, o fin dal principio sono state intese in chiave giudaica, vedendovi
un rapporto col Vecchio Testamento, contraddittorio con il piu intimo
significato della buona novella - la netta opposizione tra il Vecchio e il
Nuovo Testamento, che diviene opposizione tra il mondo malvagio e opera di un
Dio, di un demiurgo cattivo, e il dio· buono e "straniero," ignoto,
che salva. l'uomo mediante il figlio suo, Cristo, da nulla preparato, assoluto
e nuovissimo atto di rivelazione, per cui l'uomo può "conoscere"
(gnosi), attraverso il figlio, il Dio buono. Questa la buona nuova, il Vangelo
di Marcione, onde la necessità di epurare gli altri Vangeli, le Lettere di
Paolo, gli Atti degli Apostoli dalle interpretazioni ebraiche, che sottil-
mente distruggono il significato piu vero del Vangelo. Di qui, in nome di
Cristo, di contro alla Chiesa di Roma, l'esigenza di erigere la vera Chiesa di
Cristo. Fede per fede, il Vangelo di Marcione poteva valere, sul piano del-
l'interpretazione del Cristo e della funzione nella storia del mondo e della
salvazione dell'uomo, tanto quanto i Vangeli, posti dalla Chiesa come
autentici. Sotto questo aspetto, storicamente, l'opposizione a Mar- cione della
Chiesa ufficiale, già costituitasi e avente già, anche se ancora estremamente
fluttuante, un suo primo corpo dottrinario, è un'opposi- zione che va
considerata non sul piano del vero e del falso, della eresia o meno, ma su
quello di due modi diversi d'interpcetare la rivelazione di Dio mediante il
Cristo. Senza dubbio, come già dicevamo, vanno, entro l'àmbito della
"gnosi," tenuti presenti certi dati e, particolarmente, la formazione
cul- turale, la tradizione religiosa, l'ambiente entro cui si sono venute svi-
luppando le varie interpretazioni del Cristo. Cos1, la· "gnosi,. fiorita
in 96 ambiente ebraico-alessandrino, sulla linea di Filone
l'Ebreo, in cui si innestano tradizioni platoniche e stoiche, sia pur
rovesciate, ha dato risultati e costruzioni assai diverse dalla
"gnosi" che ha dovuto fare i conti con altre tradizioni e religioni,
mantenendole anche se trasfigu- rate (il che, d'altra parte, è pur
testimoniato, dal successo che ebbero in quegli ambienti in cui si formarono).
E qui particolarmente pen- siamo al Mandeismo e al Manicheismo, il quale ultimo
aYeva dietro di sé una propria Bibbia, l'Avesta. Ancora vivente oggi in una
zona della Babilonia meridionale, il "mandeismo" (da manda, che è
l'equivalente in aramaico del greco gnosis) si venne formando nel 1 secolo d.
C. nella bassa Mesopotamia, indipendentemente dal Cristo, che viene, anzi,
respinto, una volta cono- sCiuto dalla setta mandea come falso profeta. Dal
regno della luce, costi- tuente nella sua unità il divino (detto la Prima
mente, la Prima vita, Re della luce), provengono, in una serie di
determinazioni, le anime, che, tuttavia, nel loro determinarsi ed esserci si
allontanano da Dio, assumendo, in quanto.limiti estremi, figura e perciò
corporeità che pre- suppone, quindi, una materia eterna e informe. Questo
mondo, dunque, è limite e male, e limiti e mali sono le sue leggi. A liberare
le anime Dio invi~ sulla terra la gnosi della vita, personificata nel.profeta,
che i Mandei vedono in Giovanni Battista; egli, appunto, attraverso il bat-
tesimo lava, salvandole, le anime, che cosf si liberano dal male. E in un
testo, certamente scritto in epoca piu tarda (la letteratura mandea fu raccolta
in un corpus di scritti sacri nel vn secolo circa: le opere fon- damentali sono
Il tesoro- Ginzii- e il Libro di Giovanni- Sidra d'Yahya), allorché si ebbe
conoscenza del· Cristo, si legge: Quando Giovanni vivrÌi. al tempo di
Gerusalemme, prender~ l'acqua del Giordano e compirà il battesimo, allora verr~
Gesu Cristo, andr~ girando in umilt~, ricever~ il battesimo da Giovanni e
diverr~ saggio attraverso la saggezza di Giovanni. Ma poi falserà la parola di
Giovanni, cambier~ il battesimo nel Giordano e predicher~ sacrilegio e menzogna
nel mondo. Cristo divider~ i popoli, i dodici corruttori [apostoli] se ne
andranno girando per il mon'do. In quel tempo guardatevi, voi che siete nel.
vero... (in H. v. Gla- senapp, Le religioni non cristiane, trad. it., Milano).
Entro questa atmosfera, ma in un approfondimento estremamente intellettuale e
colto di un'altra tradizione, di una religione storicamente delineatasi da
secoli in Persia, lo Zoroastrismo e il Mitracismo, che viene ora sistemata e
interpretata nei termini propri della "gnosi," si muove, nel
delineare i motivi fondamentali della sua religione, Mani, di origine persiana,
formatosi in una setta battista della bassa Babilonia, 97 ma da
essa distaccatosi fin da giovane, e vissuto, poi, in Persia nel corso del m
secolo. Abbiamo accennato ora a Mani/8 perché, insieme al "man-
deismo," il "manicheismo" - tenuto conto della sua enorme
diffusione in tutte le direzioni: dalla Persia al Turchestan cinese, ove a
Tlirfan e nelle grotte di Tun-huang vennero al principio del xx secolo
ritrovati testi manichei in lingua persiana, partica, sogdi, uighurica o antico
turco, cinese, all'Africa settentrionale, ove a Tebessa, in Algeria, furono
scoperti testi manichei in lingua latina, e dove in Egitto nel 1931 furono
trovati papiri manichei in copto, a Cartagine, a Roma, in Gallia, in Spagna -
il "manicheismo" chiarisce bene cosa si vuoi dire quando si sostiene
che lo "gnosticismo" non è stato soltanto una "eresia"
sorta da un'interpretazione diversa da quella ormai stabilita dalla figura del
Cristo, ma un atteggiamento storicamente determina- bile, fondato sul concetto
di rivelazione, i cui esiti sono stati diversi a seconda, ripetiamo, delle
tradizioni, dei culti religiosi, degli ambienti culturali in cui ci si è mossi.
b) Il corpo degli "scritti ermetici." Sembra ora chiaro in che senso
(piuttosto limitato rispetto alla "gnosi" pessimistica) si possa
parlare di "gnosi" anche per il gruppo dei testi, raccolti e ordinati,
che, andato sotto il nome di Ermes Trismegisto, costituisce il cosiddetto
"corpus hermeticum " (diciotto trattati, di cui il primo fu
intitolato Pimandro "pastore di uomini" - che FICINO (si veda) estese
a tutta la raccolta -, piu un dialogo, Asclepius, traduzione latina, forse di
Apuleio, di un testo greco dal titolo Aoyor:, 'téM~or:,, Discorso per- fetto,
perduto; piu ventidue citazioni estratte da Stobeo, e altri quattro lunghi
frammenti di un'opera intitolata K6p1) xoa!Lou, Pupilla del mondo). Abbiamo già
detto sopra, discorrendo della prima tradizione ermetica, dello stretto
rapporto che corre tra certi testi alchimistico- magici della tradizione che fa
capo a Bolo-Democrito e a Bolo-Ostane, certi testi astrologici, e la parola di
Ermes Trismegisto (sin dai tempi piu antichi Ermes greco, dio della parola,
interprete e messaggero di Zeus, viene identificato con Thot egiziano, dio
dellà parola e della scrit- 18 Mani, nato
a Mardinu (presso Seleucia Ctesifonte), da Patek, per- siano, emigrato
in Babilonia, ove avèva aderito a una setta battista, affine a quella mandea,
ricevette fin da giovane un insegnamento fortemente religioso. Vissuto per un
certo periodo in India (Belucistan), recatosi in Persia ebbe dal sovrano Sapore
I (nel 244 circa) il permesso di propagare i suoi insegnamenti. Protetto anche
dal successore di Sapore, Hormizd, Mani fece lunghi viaggi. Asceso al trono il
re Bahram l, dedito allo zoroastrismo ortodosso, Mani fu accusato di eresia.
Incarcerato a Gundeshahpur, mori. Secondo la leggenda fu crocefisso dopo essere
stato scorttcato 98 tura, lo scriba di Osiride, del libro che
mantiene), rivelatrice non solo della ragion d'essere della realtà, ma perciò
stesso della sua struttura per cui, mediante la rivelazione dovuta alla parola
di Ermes, si pos- sono ripercorrere i modi con cui la natura si è costituita,
afferrando nessi e simiglianze, fino a ritrovare l'unità della realtà entro noi
stessi e, attraverso noi, sopra noi in Dio, vincendo la natura con la natura.
Ora, ciò che piu colpisce nei vari testi del "corpo ermetico" è che
lo studio delle forze occulte della natura, della seminalità della natura (onde
si potrebbe, cogliendo le simpatie tra gli elementi naturali, me- diante cui si
costituiscono le cose, adeguarsi a quelle simpatie stesse, trovando nell'ordine
della natura il proprio posto, e con ciò salvandosi, in un giuoco con la natura
e in un'operazione sulla natura stessa) e la ricerca della verità trovano il
proprio fondamento in una intuizione originaria, in un'illuminazione,
condizione della ricerca stessa, che, pro- prio per questo, non la si raggiunge
mediante la ricerca. Simbolica- mente, perciò, si 'può dire che tale intuizione
è dovuta, appunto, a una rivelazione, a un messaggero della divinità, a un
intervento extraumano. Una volta, avendo cominciato a riflettere sugli enti (ne:pl
-r:6lv 1Sv-r:6lv), mentre il mio pensiero spaziava nelle altitudini celesti e i
miei sensi cor- porei erano impastoiati si come avviene a· chi sia accasciato
da un pesante sonno o per eccessivo nutrimento o per una grande fatica fisica,
mi sembrò che mi si presentasse un essere di gigantesche proporzioni, al di là
di ogni misura definibile, che mi chiamò per nome e mi dissi!: "Cosa vuoi
ascoltare e vedere, cosa mediante il pensiero apprendere e conoscere?" Ed
io: "Ma tu, chi sei?" "Io," rispose, "io sono
Pimandro, il Niis della sovranità asso- luta. So quello che vuoi, ed ovunque io
sono con te." Ed io allora: "Voglio avere la scienza degli enti,
comprendere la natura, conoscere il divino. Quanto!" esclamai,
"desidero ascoltare." Mi rispose: "Tieni ben ferino nel tuo
intelletto tutto quel che vuoi apprendere, ed io ti insegnerò" (Corp.
Herm., I - Pimandro -,I, 3). Ora, sia pur tenendo conto della diversità tra i
vari scritti del Corpus, sia pur riconoscendo che in.alcuni vi è un dualismo
tra il divino ignoto e indicibile e il mondo e che in altri, invece, è
accentuato un monismo animistico oel tipo stoico, in realtà l'impostazione
generale di tutti gli scritti scopre che il motivo della rivelazione si
riallaccia al piu antico motivo della divinazione, della intuizione profetica
di origine pitago- rica da un lato e religioso poetica dall'altro lato. Cosf,
evidentemente, obnubilati i sensi, dopo aver cercato attraverso tecniche, che
sappiamo antichissime (sicuramente usate nei culti dionisiaci) di eliminare
ogni distrazione, ogni dispersione, giunti ad una incantata concentrazione,
in una specie di sogno, l'atto intuitivo della mente, la visione
puramente intellettuale, da cui può cominciare il discorso, viene assunta come
rive- lazione, come la presenza di una forza, di una voce, dell'intervento di
un'anima, di uno spirito, condizione dell'analisi, del discorso, a cui solo
esseri eccezionali (in tal senso gli eletti) possono giungere. Ciò che vien
dopo sono ipotesi perfettamente razionali, possibili ricostruzioni del-
l'ordine del tutto nell'Unità divina, sia che ci si ispiri a certe pagine
platoniche, sia che ci si Ispiri alla visione ontico-teologica e animistica di
origine stoica, ove dalla dispersione dell'immediatezza sensibile, posta la
divinità una come condizione della pensabilità del reale, si torna all'Uno,
comprendendo come tutto in Dio ·riposi ed abbia la sua ra- gione. E tale
comprensione è quella "conoscenza," la gnosi che salva, mediante cui,
alla fine, è dato all'uomo, essere bifronte, da un lato volto alla sensibilità
e perciò al molteplice, dall'altro all'unità - per cui in questo senso
nell'uomo che attua in sé conoscenza s'incentra l'universo - è dato all'uomo
d'indiarsi, di cogliere in sé l'universo e Dio, divenendo uno in Dio. Tale - si
conclude il Pimandro - è la fine felice per coloro che pos- seggono la
conoscenza (la gnos•): divenire Dio. Ebbene, cosa tardi allora? Non vai adesso,
che hai da me ereditato tUtta la dottrina, a farti guida di coloro che ne sono
degni, sf che il genere umano, grazie a te, sia salvato da Dio? (Corp. Herm., I
- Pimandro). E nell'Asclepio, ove si punta sull'Uno Tutto e sul tutto Uno, e
sull'uomo che, in quanto capacità - sia pur per via intuitiva - di cogliere che
l'Unità è molteplicità e la molteplicità è Unità, per cui l'uomo può
ripercorrere la via all'in giu e- la via all'in su, facendosi centro
dell'Universo, simile a Dio, si esclama: Gran meraviglia è l'uomo, o Asclepio, animale
degno di venerazione e di onore, che prende la natura di un dio come se fosse
egli stesso un dio (Asclepio, 6)•.. Solo tra i viventi, l'uomo è duplice.
Semplice è una delle parti che lo compongono, quella che i Greci chiamano
"essenziale" (oòat6>81jc;} e noi "formata a simiglianza del
divino." Quadruplice è l'altra parte, quella che i Greci chiamano "
materiale "(~ÀLx6v) e noi "mondana," di cui è fano il corpo, che
racchiude la parte dell'uomo che abbiamo detto divina... (Asclepio, 7).
Mediatore tra la divinità e gli uomini, Ermes Trismegisto, è la parola del dio,
che simbolicamente, per via di segni, oscuri - ermetici - per chi sia preso dai
sensi e volto verso il basso, rivela agli iniziati la 100
struttura dell'Universo scaturito dall'Unità del divino, esso stesso Uni-
verso nell'unità divina, e la posizione che nel Tutto e in Dio ha l'uomo. Si
capisce cos(come in molti scritti del corpus ·si sostenga che il dio uno è
inconoscibile e indicibile (nel senso che abbiamo visto per Albino, Apuleio,
Numenio), ch'esso da un lato possa esser detto lo stesso cosmo e dall'altro
lato il Padre, il Bene, ilPoieta; che si possa sostenere che il primo Dio, il
Padre indicibile, il primo Niis, sia ad un tempo il figlio, il secondo dio, il
Niis, donde derivano gli dèi e le,anime; che la materia considerata a sé sia il
limite, la dispersione, l'insieme del male, il plèroma del male
(7tÀ/jpea>(.Lot nj~ xor.x~: VI, 4); che l'uomo, in quanto anima e corpo,
abbia una posizione centrale, per cui nell'uomo si riu- nisCe in unità
l'universo tutto, onde l'uomo è simile a Dio; che senza bisogno di alcun
salvatore, l'uomo possa, attraverso il suo stesso pen- siero (rivelazione della
divinità), liberandosi dalla corporeità, o meglio comprendendo la corporeità,
risalire, conoscendo, alla divinità, sempre tutta in atto, una in principio e
una in fine. Taie la liberazione, che si attua attraverso la "gnosi"
(evidentemente ben diversa dalla • gnosi" cosiddetta eretica). La pura
filosofia, quella che non dipende che dalla pietà verso Dio, non deve
interessarsi delle altre scienze, se non per ammirare come il ritorno degli
astri alla loro prima posizione, le loro soste predeterminate e il corso delle
loro rivoluzioni obbediscano alla legge del numero, e per giungere, mediante'
la conoscenza delle dimensioni, qualità, quantità del mondo terre-· stre, delle
profondità del mare, della forza del fuoco, delle operazioni e della natura di
tutte le cose, condotta ad ammirare, ad adorare e benedire l'arte e
l'intelligenza di Dio. Essere musico non in altro consiste se non nel sapere
come si ordina l'insieme tutto dell'universo e quale ne sia la divina ragione,
poiché quest'ordine, in cui tutte-le cose particolari sono state riunite in un
tutto unico da una ragione artefice, produrrà una specie di concerto
infinitamente dolce e vero, in una divina musica... La pura e santa filosofia
consiste nell'adorare la divinità con anima semplice, con semplice cuore,
riverire le opere di Dio, render grazie infine alla divina volontà, che, sola,
è infinitamente piena di bene: tale la filosofia che non sia toccata da alcuna
malvagia curiosità (Asclepio). Questo l'oracolo di Erme$ Trismegisto, questa la
religiosità - pio che la filosofia - degli scritti del corpus ermetico: una
intuizione della realtà come vita, come· ordine, come bellezza, in cui si
risolve anche il male.e il limite, qualora esso sia visto come un momento
dell'ordine divino. E tale visione non è, naturalinente, esprimibile se non per
sim- boli, per immagini, per figure. • Quando la nostra mente" - scrive il
Garin discorrendo di Marsilio Ficino traduttore del Pimandro e degli
altri opuscoli teologici - "si rende conto che l'oggetto sentito non
è che un segno, e l'oltrepassa, non raggiunge perciò il vero nella ridu- zione
logica, che sarebbe al contrario un impòverimento, e quindi un allontanamento
estremo. La verità si coglie afferrando con una visione mentale il numero e il
ritmo, e cioè quell'anima degli esseri che l'ar- tista raggiunge nelle sue
creazioni, ove non fa che tradurre l'atto stesso con cui il divino artista
viene creando il tutto. Conoscere è vedere diret- tamente l'atto costitutivo di
ogni ente reale, quella vita nascente che è la fonte onde ogni cosa scaturisce;
perché in ogni cosa è la vita e l'anima, ossia il prolungarsi estremo di un
raggio divino" (Immagini e simboli in M. Ficino, in Medioevo e
Rinascimento, Bari2), entro cui è posto l'uomo, nella cui struttura
"antologica va cercato il segno incancellabile di una dignità che lo
distacca dalla fatale necessità del mondo materiale, dalla necessità terribile
della morte: solo che la sua nobiltà è in fondo una nobiltà di nascita, non una
conquista delle opere e un premio della virtu". E cosi, rifacendosi al
Festu- gière, ha con molta precisione sottolineato ancora il Garin: "Per
quanto sia lecito, ed anzi opportuno, porre una chiara distinzione tra il
Piman- dro e l'Asclepio e gli scritti teologici pa una parte, e gli
innumerevoli trattati magico-alchimistici dall'altra, è pur vero che non si
deve dimen- ticare la sottile e profonda parentela sotterranea che unisce i
primi alla tradizione occultistica, astrologica, alchimistica dei secondi. E
l'accordo è proprio nell'idea di un universo tutto vivo, tutto fatto di
nascoste corrispondenze, di occulte simpatie, tutto pervaso di spiriti; che è
tutto un rifrangersi di segni dotati di un senso riposto; dove ogni cosa, ogni
ente, ogni forza, è quasi una voce non ancora intesa, una parola sospesa
nell'aria; dove ogni parola ha echi e risonanze innumerevoli; dove gli astri
accennano a noi e si accennano fra loro. E si guardano e ci guardano, e si
ascoltano e ci-ascoltano; dove tutto l'universo è un immenso, molteplice, vario
colloquio, ora sommesso e ora alto, ora in toni segreti, ora in linguaggio
scoperto; - e in mezzo v'è l'uomo, mirabile essere cangiante, che può dire ogni
parola, riplasmare ogni cosa, disegnare ogni carattere, rispondere a ogni
invocazione, invocare ogni dio (com'è noto i termini di cui mi servo sono della
tecnica astrologica: cfr. Tolomeo, Tetrab.; Firmico Materno) (Garin, Magia e
astrologia nel Rinascimento). c) Sotto questo aspetto, entro i termini di
questa visione vitale è simpatetica dell'Universo da un lato e, dall'altro
lato, della visione di un Universo malefico, retto da dèmoni decaduti e malvagi
che stringono in leggi fatali (astrali) il mondo ("gnosi,"
propriamente detta), assumono un loro particolare significato gli Oracoli
caldaici (XocÀ8ocLxi MyLoc), composti, sembra, da un certo Giuliano, vissuto
sotto Marco Aurelio, che fu per primo definito teurgo (&e:oupy6c). Secondo
il Bidez (Vie de Julien, p. 369, n. 8) fu lo stesso Giuliano a farsi chiamare
teurgo per chiarire che egli "agiva sugli dèi," li "faceva"
(nell'Asclepio si legge che "deorum fictor est homo"), e che non era
un semplice teologo, non parlava cioè solo degli dèi. La Suda riferisce che
egli era figlio di un "filosofo caldeo," dallo stesso nome, che aveva
scritto un'opera sui dèmoni, e che lo stesso Giuliano aveva scritto 0e:oupynX
(Theurghika = Libri teurgici), Te:Àe:cr·nxX (Telestika = Perfezioni ecc.), A6yLoc
8' È1twv (L6ghia d' epòn = Oracolt). "Che questi oracoli in esametri
fossero (secondo una congettura del Lobeck) appunto gli Oracula Chaldaica, sui
quali Proclo scrisse iln ampio com- mento (Marino, Vita Procli,) è dimostrato,
senza alcun dubbio, dal riferimento che si trova presso uno scoliasta di
Luciano aa -.e:Àe:cr-.Lxi 'IouÀLocvou et llp6XÀoc; U7tOfLVY)fLOC"(~e:L,
o!c; o llpox6moc; civ-.Lq~& éyye:-.ocL ('le Perfezioni di Giuliano, che
Proclo commenta e contro cui polemizza Procopio': Luciano, Ad Philos.,Jacobitz)
e dall'affermazione di Psello secondo la quale Proclo 'si innamorò degli
l~(verst) chiamati MyLoc (oracolt) dai loro ammiratori, in cui Giuliano espose
le dottrine caldaiche' (Script. Min.): &e:o7tocpX8o-.oc ('doni degli dèi':
Marino, Vita Procli, 26). Da dove li abbia davvero ottenuti, non lo sappiamo...
Naturalmente, è possibile che Giuliano li abbia falsificati, ma il loro
linguaggio è talmente biz- zarro e gonfio, il loro pensiero talmente oscuro ed
incoerente da sugge- rire l'idea dei discorsi pronunciati in stato di trance
dagli spiriti guide dei medium moderni, piuttosto che l'opera meditata di un
falsificatore. Anzi non sembra affatto impossibile, alla luce di quanto
sappiamo della teurgia posteriore, che essi abbiano avuto origine dalle
'rivelazioni' di qualche visionario o di qualche medium estatico e che tutto il
com- pito di Giuliano si sia ridotto a metterli in versi come afferma Psello
(Script. Min., I, 241, 29), o la sua fonte Proclo. Il che corrisponderebbe alla
prassi degli oracoli ufficiali, cosi come noi la conosciamo, e la tra-
sposizione in esametri offrirebbe la possibilità di introdurre nella fila-
strocca una parvenza di significato e di sistema filosofico. Nondimeno il pio
lettore avrebbe avuto ancora molto bisogno di qualche spiega- zione o commento
in prosa, e sembra che Giuliano abbia fornito anche questo (cfr. Proclo, In
Tim.; Marino, Vita Procli, 26; Damascio)" (Dodds, Theurg., "Journal
of Roman Stu- dies," ora in l Greci e l'i"azionale, trad. it.,
Firenze). Anche se difficile. è ricostruire la struttura degli Oracoli
caldaici, liberandoli dai commenti di Porfirio, di Giuliano, di Proclo, sem-
bra ch'essi si distinguessero in due parti. Innanzi tutto gli Oracoli (cfr. in
Kroll; De oraculis chaldaicis, "Breslauer Philol. Abhand.”) presentano una
visione dell'Universo assai simile a quella di Numenio di Apamea, del Pimandro,
in realtà di tutta la letteratura religioso-filosofica in chiave
platonico-stoica, in forma molto vaga e contraddittoria nell'uso dei termini,
piu che nell'intimo significato. Si pone una triade divina, costituita di tre
intelletti - Or. Ch., Kroll, - di cui il primo è chiamato anche Padre, o
Intelletto del Padre, mentre il secondo è intelletto in quanto determinazione
dell'Intelletto primo, il quale intelletto primo perciò è e non è intelletto, e
il terzo è tale in quanto dialetticamente risolve in sé il primo e il secondo
intel- letto, costituendo l'unità vivente della realtà tutta (anima mundi),
tutta proveniente dal primo Intelletto, il Dio inconoscibile in sé, che inteso
come forza vitale (non a caso si dice che la sua essenzialità è fuoco), si
manifesta negli intelligibili e quindi nelle cose. Il Padre ha in sé in forma
compiuta tutte le cose e le ha date al secondo intelletto (p. 14 K.), [per cui]
il primo fuoco non fa discendere la sua potenza fino alla materia con una
diretta azione, ma mediante l'intelletto [secondo]: è un Intelletto, scaturito
dall'Intelletto, che è l'artefice delmondo fatto di fuoco (p. 13 K.). Monade il
Dio, diade è detto l'Intelletto secondo, perché possiede i "due caratteri,
di avere in sé gl'intelligibili e di costituire sensibilmente i mondi".
Tutto il mondo dell'intelligibile, pensante-pensato, è perciò in Dio e in tal
senso oltre l'intelletto secondo, per cui in Dio, in atto, forza vitale, si
risolvono anche le cose, per cui, alla fine, il primo Dio è indefinibile.
Esiste un certo intelligibile (TL V01j-r6V), che ti è necessario intuire con
l'acutezza dell'intelletto, poiché se tu propendi il tuo intelletto verso questo
intelligibile cercando di apprenderlo come un oggetto determinato, non riu-
scirai a concepirlo. Esso è come forza di potente spada" che tutta brilla
e irraggia ferendo gli occhi col suo intelligibile fulgore. Non è dunque con un
violento sforzo che si deve concepire tale intelligibile, né tendendo allo
estremo la fiamma dell'Intelletto, che tutto misura, tranne
quell'Intelligibile. Bisogna tentare di afferrarlo non per diretta visione, ma,
dirigendo su di lui il puro sguardo del tuo intelletto che ha volto le spalle
ai sensibili, tendere verso l'Intelligibile un intelletto vuoto di ogni
pensiero, finché tu giunga a conoscerlo, poiché esso sfugge alla determinazione
dell'intelletto. Sf come un torrente che scorre, l'Intelletto del Padre (il
primo Intelletto), nel suo infaticabile consiglio (~ouÀji: boulè), emetteva le
idee del suo pen- siero che assumevano tutte le forme: ed esse scaturivano
tutte dalla stessa unica fonte. Dal Padre, infatti, veniva il consiglio e il
compimento di tale consiglio. Le idee, cosi, mediante il Fuoco intelligente
furono distribuite e distinte in altre idee intelligenti. SI, perché il supremo
signore (&vot~) ha fatto preesistere al mondo dalle mille forme un
immortale sigillo (-rUno~) intellet- tuale. E via via che il nostro mondo, nel
suo disordinato cammino, cerca di seguire la traccia del sigillo, è apparso un
ordine informato di bellezza, ornato delle idee di ogni specie. Unica ne è la
fonte, e da essa le idee sca- turiscono rombando, pensieri intelligenti
scaturiti dalla paterna fonte... La prima fonte, in sé perfetta, del Padre ha
fatto scaturire queste primigenie idee (&.px_ey6vouç l8éotç). Nell'unità
del primo Intelletto, dunque, si costituisce la dualità del secondo intelletto,
ed in esso, termine medio, che articola (auvéx_et) i due primi intelletti,
scaturisce il terzo intelletto, mediante cui il tutto si ricollega all'unità
vivente, in una tensione (anima mund•) tra i due termini, per cui, non a caso,
negli Oracoli si legge che l'anima è da un lato intelletto e dall'altro lato
soffio divino, e perciò amore (lp(l)ç ), consistente appunto nella tensione,
nella ricerca della propria imma- gine rintracciabile ovunque, e mediante cui
l'anima torna a identifi- carsi col tutto, cioè con il Dio vivente, fuoco
luminoso e seminale, da cui scaturisce tutta la luce, i semi di tutte le cose
("Quanto alla scin- tilla dell'Anima, avendola formata mescolando due
elementi accordati, l'Intelletto e il soffio divino, il Primo Intelletto vi
aggiunse il casto amore, augusto legame che unifica tutte le cose e le
sorpassa"). La suggestione degli Oracoli caldaici non sta tanto nel
tentativo di una ricostruzione logico-antologica del tutto, quanto nella
visione finale di un tutto vivente e animato dal Dio primo, logicamente ignoto,
ma ovunque presente nei suoi infiniti raggi, egli punto luminoso, esistente
nella totalità della luce, e di cui tutte le cose sono fatte, limiti, se prese
a sé, ma che si sciolgono nel primo fuoco, qualora vengano ricon- dotte alla
loro unità dalle anime che in ogni cosa possono ritrovare la propria immagine.
Si vede bene cos(il significato dell'altro aspetto degli Oracoli, la
strutturazione di un culto del sole e del fuoco (cfr. pp. 53 sgg. K.), accanto
all'evocazione magica, per via di amore, degli dèi (le luci), mediante cui, per
simpatie, operare sugli dèi stessi e sugli spiriti (teurgia), in una
riproduzione della magia della natura, tutta vivente di segreti accordi e.
simpatie, dalla cui scoperta dipende la comprensione del tutto, e, quindi, di
Dio. Di qui, anche, il tema fon- damentale di tutta la sapienza magica, che
verrà discussa a lungo dai commentatori neoplatonici degli Oracoli caldaici (da
Porfirio a Giam- blico, a Prodo) e cioè la possibilità, entro i termini della
simpatetica 105 universale, poste precise relazioni mimetiche tra,tutte
le cose, di far convergere su noi le potenze divine, le luci supreme, mediante
la ras- somiglianza. Di qui l'importanza di saper costruire cose, o statue,
imma- gini di dèi, che, se davvero si riesce a far simili alle potenze evocate,
alle anime desiderate, richiamano, sempre entro i termini della cognatio e
della simpatia universale, quelle potenze stesse. Sotto questo aspetto sc;mbra
evidente in che senso si può parlare di due magie, una quella naturale, fondata
sul motivo dell'unità vivente del tutto e consistente in un rintraccio dei
nessi, delle simpatie, dei segni, dei simboli, dei rap- porti correnti tra le
cose, tra le luci, tra gli astri, nell'unità di un tutto il cui fondamento è la
seminalità; l'altra, fondata sempre sulla stessa concezione, ma, diciamo,
artificiale, operativa, cioè volta a costruire.. immagini, fare dèi (l'efficere
deos dell'Asclepio), statuette e cos{ via, mediante certe precise tecniche
(ricavate da antichi rituali egiziani della tradizione magico-alchimistica) con
cui evocare l'anima, le potenze di- vine, rispecchiarle (di qui anche la
suggestione degli specchi e perciò stesso degli astri: cfr. anche Apuleio, De
magia, 13 sgg.), per dominarle essendo da esse dominati. Dirà Proclo: I maestri
dell'arte ieratica hanno scoperto in base a quello che avevano sott'occhio, il
modo di onorare le potenze superiori, mescolanl;lo taluni ele- menti ed altri
togliendone in misura appropriata. Se mescolano, è perch~ hanno osservato che
ognuno degli elementi separati possiede qualche pro- prietà del dio, ma non
basta per evocarlo; cosf mescolando un gran numero di elementi diversi,
uniscono le influenze ricordate sopra, e con tale somma di elementi compongono
un corpo unico simile all'unità precedente la disper- sione dei termini. Cos(fabbricano
spesso, con tali mescolanze, delle imma- gini e degli aromi, impastando in un
medesimo corpo i simboli prima divisi, e producendo artificialmente tutto
quello che la divinità comprende in s~ per essenza, riunendo la molteplicità
delle potonze che, separate, perdono ognuna la propria efficacia, e che,
invece, riunite, si combinano per ripro- durre la forma del modello" (da
Festugière, La révél., anche Garin, Elezioni e problema dell'Astrologia, V
Conv. Int. St. Uman). Sotto questo aspetto assai vasta fu l'influenza degli
Oracoli caldaici, insieme a quella esercitata dal corpo degli scritti·
ermetici, soprattutto nell'àmbito degli interpreti del pensiero di Plotino.
Diremmo, anzi, che, se Plotino, nella sua polemica da un lato contro la visione
di un dio trascendente e ignoto, difficilmente riconducibile alla sua funzione
di fonte e causa di tutta la realtà (certo gnosticismo e certo rarefatto
platonismo tipo Attico) e dall'altro lato contro la concezione di un dio
persona, libertà, e volontà (altrettanto assurdo), decisamente accolse l'aspetto
della magia che dicevamo naturale o razionale, pur respin- gendo l'altro
aspetto della magia, quello teurgico, non determinabile scientificamente e
irrazionale, il peso dato, nell'interpretazione che det- tero di Plotino già
Porfirio ma piu decisamente Giamblico, alle sirni- glianze, ai vincoli, alle
simpatie, può essere l'indice della possibilità di vedere in Plotino una
precisa concezione logico-naturalistica, piu che logico-matematica, che punta
su di una comprensione del tutto in termini platonico-stoici, in una esatta
deduzione logica. Gli avvenimenti dell'Universo si svolgono non già in virtu di
ragioni seminali, ma in virtu di potenze formali che abbracciano in sé persino
quelle pot~nze che stanno al di sopra di ciò che si regola sulle ragioni
seminali; perché nelle ragioni seminali non è inerente nulla di quanto esorbita
dalle ragioni seminali stesse né del contributo che la materia apporta al
tutto, né delle vicendevoli influenze esercitate tra cosa e cosa... Quanto ai
segni, essi non hanno il fine prefisso e diretto di preannunciare; no, ma
poiché le cose avvengono nel modo descritto, l'una trae dall'altra il suo
presagio; poiché, siccome l'universo è uno e appartiene all'Uno, cosi una cosa
può ben essere conosciuta dall'altra; dal causato la causa, e il conseguente
dall'antecedente e il composto da una delle sue parti costitutive... Ora, se è
esatto questo nostro argomentare, i dubbi, oramai, potrebbero cadere - persino
quello che si riferiva alle pretese influenze maligne originate dagli dèi, per
le seguenti ragioni: non sono "decisioni" le fonti degli influssi, ma
tutto che viene di lassu - nel mutuo cozzo tra lè parti, conseguenza dell'unica
vita universale - sorge per necessità di natura; le.cose, di per se stesse,
aggiun- gono un contributo non scarso agli accadimenti; e mentre gl'influssi,
presi ad uno ad uno, non sono maligni, in quel loro mescolarsi generano qual-
cosa di nuovo; il vivere, inoltre, esiste non già per amore di un· singolo ma
in funzione del tutto e, infine, la natura sottostante esperimenta qualcosa di
diverso da quel che aveva ricevuto e non riesce a dominare la influenza
ricevuta. Ma le influenze magiche, come spiegar/e? Con la simpatia: re- gnano,
nativamente, un accordo tra le cose affini e un contrasto tra le estra- nee;
inoltre, pur nella loro variopinta ricchezza, le potenze diffuse contri-
buiscono tuttavia all'unità del vivente universale. E, difatti, pur senza alcun
ordigno magico, quante cose sori come tratte per incantamento! Ond'è che vera
magia, in seno all'universo, sono da un carito l'Amore e dall'altro la Contesa.
Incantatore primordiale e stregone, egli è colui che gli uomini conoscono
proprio bene onde ricorrono, per avvalersene, gli uni con gli altri, ai suoi
filtri ed ai suoi incantesimi. E, per certo, poiché essi natural- mente amano e
gli ingredienti che eccitano amore hanno una forza d'attra- zione tra di loro
cos{ è venuto fuori l'aiuto dell'arte amatoria per mag{a, applicando, cioè, per
contatti, a differenti persone ingredienti differenti, che hanno il potere di
trarle insieme e contengono la bramosia erotica nella loro composizione; e cod
essa annoda un'anima con l'altra come chi legasse tra di loro piante staccate.
E si avvalgono, per di piu, di figure efficaci, anzi atteggiandosi in una
determinata posizione attirano su se stessi, senza ru- more, inBuenze, appunto
perché stando all'unità universale, agiscono su di un unico centro; in realtà a
voler supporre un mago siffatto fuori dell'uni- verso, egli allora non potrebbe
esercitare né'le sue suggestioni né i suoi scongiuri per quanti incantesimi o
esorcisttli. egli faccia; ora però, poiché non lavora, per cosf dire, in un
luogo diverso dal mondo, ~ in grado di attrarre, sapendo per qual via una cosa
si trasporti verso l'altra in seno al vivente... In realtà si attuano quei suoi
esaudimenti solo perché tra parte e parte dell'Universo segua la simpatia, come
in una corda tesa: questa, infatti, scossa dal basso, ha una vibrazione anche
in cima; anzi, tante volte, mentre vibra l'una, l'altra ne ha, per cosf dire,
il senso, per legge di con- sonanza, in quanto, ci~, ~ accordata anch'essa a
un'unica intonazione; che se, da una lira, la vibrazione si propaga finanche in
un'altra - sino a tal punto giunge la virt6 della simpatia! -, ebbene, anche
nell'Universo, do- ttli.na un'armonia unica, pur se risulti da contrari, vero ~
ch'essa nasce tanto dai simili quanto dai contrari onde in tutto regna
l'affinità... (Plotino, Ennadi). La consapevolezza profonda e meditata che la
realtà è quella che è, che tutto avviene come deve avvenire, che l'uomo,
momento di questa realtà, è tale entro l'arco della sua vita, per cui,
umanamente, prima di nascere e dopo la morte, è il nulla, portava un cinico come
Demonatte a sostenere che l'unica via di salvezza è per l'uomo, abbandonati
ogni timore e speranza, risolvere se stesso esclusivamente sul piano umano,
realizzando una misura, che non è data, ma che è frutto, volta a volta, del
nostro stesso medi- tare. La stessa consapevolezza portava, nella stessa epoca,
un uomo come Marco Aurelio ANTONINO, imperatore romano, cinicamente, ad 27 Nato
a Roma, sul Celio, da M. Annio Vero, originario della Spagna, appartenente a
una nobile famiglia, che aveva ricoperto alti uffici, e da Domizia Lucilla, gli
furono imposti i nomi dei due nonni, M. Annio Catilio Severo. A ~i anni Adriano
lo designò a far parte dell'ordine equestre, a otto del collegio dei salt.
Rimasto a nove anni orfano del padre, adottato dal nonno paterno, che si
occupò, insieme al bisnonno materno, della sua educazione e che gli dette il
nome di M. Annio Vero, fu avviato agli studi di filosofia da Diogneto.
Esaltatosi per la filosofia, come costume di ·vita, si sottopose a privazioni,
vivendo in forma austera e rigidissima. Adriano, che aveva per il giovinetto
una viva simpatia e che molto apprezzava le sue doti, giuocando sul suo nome
(M. Annio Vero), lo chiamava "verissimo. Si fidanza con la figlia di L.
Ceonio Commodo, designato dall'imperatore Adriano a suo successore. Alla mprte
di Ceonio, Adriano adottò Antonino, zio di Marco Annio Vero, a patto che
Antonino adottasse a sua volta il figlio e il nipote di Ceonio. Morto Adriano,
Antonino Pio non solo adottò il figlio e il nipote di Ceonio, ma anche Marco,
che assunse il nome di Marco Elio Aurelio Vero; cosi venne presto indicato
dall'impera- tore come suo successore. Marco ebbe il titolo di Cesare, fu
nominato questore e console. Sposa Faustina,
figlia di Antonino Pio. Marco Aurelio si preparò allora con coscienza e serietà
di studioso al suo "mestiere" di imperatore. Con il celebre Frontone
studiò retorica latina, con Erode Attico retorica greca. Se da Diogneto,
com'egli stesso dice (Ricordi,), fin da giovane aveva sentito avversione a
perseguire cose stupide e vuote, una gran diffidenza per le chiacchiere di
fattucchieri e di maghi, per incantamenti e scongiuri, e aveva.preso
familiarità con la filosofia, l'amore per le parole libere e franche; in questo
periodo, frequentando lo stoico Apollonio, aveva appreso la capacità di non
affidarsi al caso,. il suo sguardo rivolto soltanto e incessan- temente a vie
razionali, la capacità di non impazientirsi dovendo dare direttive a qual- cuno
(Ric., I, 8). E se da Frontone aveva appreso di quanta invidia, di quanta
malizia, di quanta ipocrisia sia formata la tirannide, e che i patrizi sono
persone degne di poca considerazione (Ric.), dallo stoico Giunio Rustico
(figlio o nipote di Giunio Rustico Aruleno, due volte console, collega di
Adriano nel suo terzo consolato, una volta praef~ctus urbis) aveva appreso a
non sentire piu inclinazione dannosa per le ambizioni dei solisti, l'avversione
a comporre trattati su problemi astratti, a declamare pretenziosi discorsi per
esortare alla filosofia (chiare frecciate contro Frontone), l'avversione alla
retorica, alla poesia, al parlare forbito, l'abitudine a leggere con molta
attenzione, a non accontentarsi di capire press'a poco, l'essersi incontrato
con i ricordi di Epitteto, che gli furono donati da Giunio (Ric.). In questo
stesso periodo Marco Aurelio frequentò il platonico Alessandro, il peripatetico
Claudio Severo (console), il giurista L. Volusio Meciano, gli stoici Claudio
Massimo (console, legato, procuratore imperiale) e Cinna Catulo, il platonico
Sesto di Cheronea, nipote di Plutarco (cfr. Ric., I, pauim). - Morto Antonino,
Marco sali al trono col nome di Marco Aurelio ANTONINO. Egli si associò al
trono il fratello adottivo, che prese il nome di Lucio Annio Vero. Dopo gli
anni pacifici di Antonino, gli anni in cui governò Marco Aurelio furono estre-
mamente gravi per l'unità dell'Impero. t storia nota. Marco Aurelio dovette combattere
in Oriente contro i Parti, mentre, sotto la spinta dei Goti, popolazioni
sarmatiche e ger· maniche sfondarono le difese romane e penetrarono in Rezia,
nel Norico, in Pannonia, in Mesia. I Quadi e i Marcomanni, varcate le Alpi,
assediarono Aquileia e sconfissero l'esercito romano. Marco Aurelio e Lucio
Vero mossero contro i barbari. Marco riusd a respingere gl'invasori oltre la
sinistra del Da.nubio. Marco Aurelio fu quindi costretto a ristabilire ordine
in Oriente, mentre di nuovo Marcomanni e Quadi insorgevano. Accorso contro di
loro, Marco Aurelio mori, presso Vindobona (Vienna). A lui successe il figlio
Commodo. Di Marco Aurelio davvero si può accantonare qualsiasi dottrina sulla
struttura e il senso della realtà, tutta, in sé, né buona né cattiva, fluida e
mutevole, senza significato. Le cose sono avvolte in un certo cotale velo, da
sembrare a filosofi non pochi e non certo volgari del tutto incomprensibili. E
persino gli stoici le ritengono ben difficilmente comprensibili. Ogni ipotesi
del resto è passibile di modificazione. Dove, infatti, è colui che non debba
mutare qualche conclusione? Passa in rivista dunque cose ed oggetti: ben piccola
la loro durata; ben piccolo il loro valore... Passa quindi in rivista le
abitudini dei cuoi contemporanei: modi di vivere che a fatica si riuscirebbe a
tollerare pure in chi è piu gentile e educato, per non dire che anche costoro
riescono appena a sopportare se stessi. In tenebra si grande, in tanto sozza
condizione, in si grande flusso di cose e di tempi, del moto e delle cose
trascinate al moto, quale realtà può venir pregiata o può in qualche modo
incontrare il nostro entusiasmo? Non lo so immaginare (Ricordi). Tutto è
opinione: chiaro è a qu~sto proposito il detto del cinico M6nimo.. Il tempo
dell'umana vita è un punto; la sua materiale sostanza un perenne fluire; la
sensazione tenebra; la compagine di tutto l'organismo, immanca- bile
corruzione; il principio vitale, l'aggirarsi di una trottola; la fortuna non si
può indagare; la gloria, cieca. In breve, le funzioni dell'organismo sono un
fiume; quelle dell'anima, sogno e vanità; ed è guerra la vita, viaggio di un
pellegrino; oblio la voce dei posteri. E, adesso, a che cosa ti puoi affidare?
Tutto dura un giorno, e chi ricorda e chi è ricordato. Tutto avviene per
alterna mutazione... Ogni cosa è in un certo qual modo seme di un'altra che da
quella dovrà prove- nire. La totalità dei tempi è quasi un fiume, formato dagli
eventi; corrente che a forza travolge. Non vedi? Le singole cose, appena
venute, già sono trasportate via; un'altra cosa viene trasportata. E anche
questa sarà portata via. Volgi lo sguardo sulle umane vicende, conscio della
loro precarietà, del loro scarso valore: ieri, tanta boria; domani, mummia o
cenere. Quanto poi alle cose della vita, quelle che appaiono tanto degne
d'onore, sono vacuità, mar- ciume, piccolezze, cagnolini che si mordono l'un
l'altro; ragazzini che rissano e che si divertono a rissare, poi ridono e
subito finiscono col piangere..Nulla di nuovo: ogni cosa, sempre quella; e
insieme ogni cosa rapidamente trapassa. Per altro verso, invece, quella stessa
consapevolezza porta Marco Aurelio a rendersi sempre piu conto che un qualche
significato da dare dire che governò filosofando, e filosofò go\'ernando,
cercando di attuare quello ch'era stato l'ideale politico di molti pensatori
stoici. Oltre ad alcune lettere in latino, a Frontone e ad Erode Attico, di
Marco Aurelio restano frammenti di suoi discorsi, e 12 libri di sue
riflessioni, in greco: T« c!<; éotuT6 (Tà ~is h~aut6n}, A se st~sso, andati
sotto vari titoli: Colloqui con s~ st~sso, IUcordi, P~nsi"i, Note
p"sonali.] alla vita non proviene dal di fuori, né dalla contemplazione
di un ordine dato e che solo sia da conoscere, ma da un continuo approfon-
dimento di se stessi, da un continuo scavare·dentro ("Scava nella tua
interiorità; dentro di te sta la fonte del bene": lv8ov axoc1t"t'e:'
!v8ov ~ 7t'l)~ -rou à.yot-3-ou:), mediante cui sapere, volta a volta, come
comportarsi, e rivelante nell'uomo una capacità di misura che dimostra la sua
libertà, anche in un mondo che è quello che è, in cui illusione e fanatismo è
credere di poterlo modificare. E adesso, a che cosa ti puoi affidare? A una
sola, a un'unica cosa: la filosofia. E questa ti permetterà di conservare
l'interiore dèmone senza violenza e danno: signore dei piaceri; capace di agire
senza intraprendere nulla a caso; immune da menzogna e da simulazione; libero
dal bisogno che altri faccia o no qualche cosa. Ancora, questo dèmone dovrà
accettare gli eventi e tutto quello che gli càpita, convinto che tutto viene di
là, da un luogo misterioso da cui egli pure un giorno è venuto. Il nostro
reggere con intellettuale luce d'azione... è l'esperienza del divino e
dell'umano. [Indagando se stessi, scavando nella nostra interiorità, scopriamo
noi stessi quale attività egemonica] e l'egemonico è ciò che eccita se stesso e
si rivolge e si rende quale vuole, [per cui] unicamente buone o cattive sono le
cose che dipendo_no da noi. In tale senso vicinissimo a Epitteto, da Marco
Aurelio a lungo meditato e piu volte citato, Marco Aurelio poteva trasformare
il primo atteggiamento di abbandono, di disprezzo e di nausea per le cose, vane
tutte, in un atteggiamento oppo- sto - che non modifica nulla se non se stessi
-, in un amore per tutte le cose ("l'unica cosa che rimane a chi è buono,
come propria caratte- ristica, è l'amore, l'atteggiamento di un'anima serena e
tranquilla che accolga gli eventi a lei destinati"), in un rispetto per
ogni· uomo, che in quanto tale ha la capacità di trasfigurarsi da cosa accanto
a cosa, da mezzo in fine, di assumere entro i termini dei rapporti umani, di
volta in volta, il proprio posto, costruendo se stesso ("ogni uomo è mio
affine, non certo per identità di sangue o di seme, ma in quanto partecipe di
una mente e d'una funzione che è divina..., la funzione, !"egemonico,' cui
spetta il sovrano dominio"; "ama, dunque, ma davvero, gli uomini cui
la sorte ti ha posto accanto"). E se ciò, ripetiamo, non modifica la
realtà, modifica il nostro modo di atteggiarsi verso gli altri, in una continua
consapevolezza del nostro dovere (formale), che, in conclusione, può, di volta
in volta, modificare lo stesso umano rapporto, ogni volta nuovo. Vane e senza
significato le cose, vani e senza significato gli uomini (se presi a sé, finché
restano presi dalle cose, dispersi e molteplici, le stesse cose e gli uomini -
iden- tici, finché esteriorità - assumono un senso quando, attraverso se
stessi, scoprendo sé come razionalità, cioè come capacità ordinatrice (egemo-
nico) e come misura, si comprende delle cose e degli uomini la vanità e
l'insignificanza, per cui tutto, insignificante in quan•o esteriorità, assume
un suo posto, un suo senso, in quanto interiorità, entro i termini della nostra
opinione. In nessun luogo piu che nell'anima, con maggior tranquillità, con piu
facilità, un uomo può ritirarsi... [e troverà pace]. E con questa pace voglio
intendere disposizione di ordine perfetto. Di tutte le cose devi scor- gere la
volgarità e quella loro magnificenza, per cui appaiono tanto impor- tanti, la
devi togliere via.. Bisogna sapetsi valere di chi è signore della propria anima
[l'egemonico o il divino che è in noi], per opera del quale l'uomo non può
essere toccato dal piacere, non può essere vulnerato da nessun dolore, né
colpito da nessuna violenza...; pronto ad accogliere amoroso, con l'anima tutta
quanta, quello che accade e quello che gli viene assegnato, tutto... Quest'uomo
sa che in suo potere è soltanto la propria interiorità e pensa senza
interruzione alle cose proprie, quelle che l'uni- versale connessione degli
eventi gli arreca... In realtà il destino a ciascuno attribuito viene portato a
uguale mèta dal destino universale, e parimenti a uguale destino procede. Tiene
ancora presente nel ricordo che quanto pos- siede razionalità gode di natura
profondamente affine; che è proprio del- l'uomo prendersi cura di ogni uomo. Togli
il giudizio della tua mente e sarà tolto il "sono stato offeso";
togli il "sono stato offeso" e sarà tolta l'offesa. Se provi dolore
per qualche offesa che è fuori di te, non questo fatto singolo precisamente ti
turba, bensf il giudizio che tu vieni facendo su quello. O meglio, in sé non
esistono né un'interiorità né un'esteriorità, ma interiorità ed esteriorità
sono due modi diversi di atteggiarsi di fronte alla stessa realtà:
irrazionalmente (e allora siamo presi dalle cose, deter- minati, passivi,
dispersi); razionalmente (e allora tutto dipende da noi, nella consapevolezza
che ragionevolmente il tutto si organizza razional- mente; ha una sua ragion
d'essere). E a ciò si giunge non dal di fuori, non accettando supinamente,
scolasticamente, una o altra dottrina, ma indagando, scavando se stessi,
pensando - e tale è stato l'insegnamento piu alto di un Seneca e di un Epitteto
-, non attraverso una sapienza già data, o librescamente assunta (dice Marco
Aurelio a se stesso: "lascia andare i libri, non è piu tempo di simile
cura"; " scaccia quella sete di libri, se non vuoi giungere a morte
mormorando, ma vera- mente sereno e grato agli dèi dal profondo del cuore".
Da Rustico ho imparato l'avversion~ a comporre trattati su problemi astratti, a
declamare pretenziosi discorsi per esortare alla filosofia, a farmi vedere uomo
intellettuale e studioso, benefico solo per colpire le menti altrui;
l'avversione alla retorica, alla poesia, al parlare forbito"); ma
attraverso una sapienza frutto di quello stesso meditare ("da Apollonia ho
imparato il tono libero del mio carattere... quel mio sguardo rivolto soltanto
e incessantemente a vie razionali": l, 8), che scopre all'uomo come l'uomo
è pensiero, razionalità che è tale in quanto esercizio, che costruisce sé
mediante lo stesso pensare. Di qui, anche la forma letteraria dell'opera di
Marco Aurelio, che non è affatto un trattato, né una doxografia, né
un'esposizione logico- dottrinaria, né un insegnamento ("se da: Rustico ho
imparato l'avver- sione a comporre trattati su problemi astratti..., se da
Sesto ho impa- rato ad esser ricco di dottrina senza farne continua
mostra": I, 7, 9), ma la presentazione - unica forma d'insegnamento - del
proprio ripensamento, del proprio meditare, del continuo discorso a se stesso
(èis heautòn). Marco Aurelio, cosi, nei termini del dovere formale del- l'uomo
(ciascuno, meditando su se stesso, assume il posto che gli com- pete
nell'ordine sociale, costituendo quell'ordine), cerca di determinare il proprio
posto che natura e sorte gli hanno dato, rendendosi conto del proprio dovere di
imperator~ e della funzione che nell'ordine sociale gli compete, per il bene
della comunità: e ciò è dovere di ogni uomo, per quella comune ragione che ci
fa tutti fratelli ("a Severo, mio fratello, debbo anche l'aver potuto
conoscere per mezzo suo Tdsea, Elvidio, Catone, Diane, Bruto, e l'aver potuto
far sorgere in me il desiderio di un governo, in cui la legge abbia vigore per
tutti; informato, questo governo, a uguaglianza e a libertà di parola, un regno
capace di rispet- tare per suprema ragione la libertà dei sudditi"},
giorno per giorno. E.un diario è, appunto, il libro di Marco Aurelio, non a
caso intitolato -ra e:tç lotu-r6v (tà èis heaut&n), cioè a se stesso, in
genere tradotto con Colloqui con se stesso, o con Ricordi e Pensieri, o Note
personali. L'opera, che si divide in 121ibri, non fu scritta tutta insieme, né
secon4o l'ordine dei libri quali noi leggiamo (sembra che il I sia stato
composto per ultimo, mentre i libri II, III e XII siano stati scritti per
primi: certo, l'insieme, Marco Aurelio
era stato nominato imperatore, e gli anni tra il 169 e il 180 furono i piu
gravi del suo regno, in guerre continue, in cui egli dovette assu- mc;rsi le
piu alte responsabilità per sé e per l'impero, di cui si sentiva il servitore).
Il filo conduttore dei Ricordi di Marco Aurelio sta proprio in questo suo
sforzo continuo di chiarire sé a se stesso, attraverso cui cogliere, di volta
in volta, ciò che a se stesso compete, imparare a essere uomo, a compiere il
proprio ufficio consapevolmente ("non agire mai contro il tuo volere; e
nemmeno senza proporti quale mèta un comune bene, senza opportuna ponderazione;
né, d'altra parte, dubitoso e in- certo... Quel Dio che dimora dentro, in te,
sia il tutore di un uomo virile, venerabile per gli anni, conscio di una sua
naturale politicità, romano, imperatore, già pronto per il suo posto...").
D'altra parte, se, stoicamente (epitettianamente}, saper pensare è
realizzazione piena della verace natura dell'uomo (per cui primo dovere
dell'uomo è imparare a pensare} e saper pensare è costituire in armonia e
ordinatamente le proprie impressioni, per cui quello stesso mondo che appare
nell'immediatezza sensibile e dispersa disordinato, indivi- dualmente
insignificante e senza senso (o, per altro verso, prendendoci unilateralmente,
ci determina dispersivamente, per cui patiamo la realtà quale appare,
molteplice e senza senso, dandole un significato, un valore che non ha), si
risolve, invece, in quanto razionalmente ordinato e non piu visto
individualmente, unilateralmente, come unità, ove tutto ·ha un suo giusto
posto, che, dunque, dipende da noi, dal nostro modo d'essere ragionevoli o
meno. Ogni natura basta a se stessa, quando procede sulla retta via. E una
natura razionale procede sulla retta via quando non dà il suo assenso a
immaginazioni menzognere e oscure; quando dirige i propri impulsi alle sole
opere che hanno quale mèta il bene comune; quando ricerca o evita quelle cose
sole che sono in nostro potere; quando ama tutto quello che le viene assegnato
dalla comune natura. Ogni singola natura è parte di quella comune a quella
guisa che natura di foglia partecipa alla natura della pianta; con la sola
differenza che in questo caso natura di foglia è parte di una natura
insensibile, irrazionale, e che può subire coercizione; invece natura d'uomo è
parte di una natura che non ammette coercizione, intelli- gente e giusta, dato
che distribuisce ai singoli, con uguale criterio e secondo il merito, parte di
tempi, di sostanza, di causa, di attività, di vicende. E devi compiere la tua osservazione
non isolando per ogni fatto un singolo parti- colare, rispetto ad un altro
particolare uguale, ma considerando nel loro complesso particolari di un
singolo fatto e in relazione a quelli d'un altro, pur nel loro complesso. Non
solo, ma poiché l'uomo, attraverso il suo stesso pensare, scopre sé come
attività unificatrice, come ragione che è tale non in sé, ma in quanto
organizzazione di sé, come attività egemonica di un se stesso, molteplicità e
passioni - non a caso Marco Aurelio riprende il vecchio termine stoico
"egemonico" per intendere la razionalità - realizza- zione del
proprio soffio vitale (pnéuma) in un ordine e in una misura delle passioni, in
cui, appunto, consiste la razionalità, nulla vieta di fare l'ipotesi che la
stessa essenza del tutto, la sua natura, il divino, sia questa stessa forza
vitale che si realizza ordinando il tutto in unità, socievolmente ("la
Mente dell'universo ha carattere socievole": 6 -rou 15ì-.ou vou~
xotvwvtx6~), e di cui, dunque, il nostro "ege- monico" è un momento,
un aspetto, mediante cui non solo si è capaci di porre ordine in sé scoprendo
attraverso sé l'ordine e, perciò, la provvidenza del tutto ("o una cosa o
l'altra: confusione, accozzamento e dispersione, oppure unità, ordine,
provvidenza"), ma anche, accettando consapevolmente il proprio posto - e
ciò spetta a ciascuno - di rispettare gli altri, riconoscendo negli altri se
stesso, la propria razio- nalità, in un amore di sé che è amore degli altri
(socialità), in un amore del tutto che è amore di Dio. L'umanità steS&a,
dunque, in quanto razionalità, esiste in quanto ordine e unità consapevole, in
cui ciascuno ha il suo posto e in cui ciascuno è uguale all'altro in quanto
capacità razionale, in quanto in tutti, come razionalità, è una scintilla dell'unica
razionalità divina che ci fa tutti parenti. Quell'uomo è mio affine, non certo
per identità di sangue o di seme, bens{ in quanto partecipe di una mente e di
una funzione che è divina. In un organismo unificato le membra del corpo hanno
una determinata funzione; ebbene, la stessa funzione, pur separati l'uno
dall'altro, hanno i viventi razionali, congegnati in vista di un'unica profonda
collaborazione. Anzi, nconcetto di questo fatto ti sarà piu chiaro qualora tu
ripetessi piu volte a te stesso: "Io sono membro di una schiera, schiera
ordinata di creature razionali." Al contrario, se tu dici che ne sci
soltanto una parte, non ancora con tutto il tuo cuore ami gli uomini; non
ancora il far bene a qualcuno ti dà gioia completa. Parimenti, compi questo
beneficio soltanto come cosa dovuta, non sci ancora convinto di far bene a te
stesso. Ci sono due verità alle quali potrai volgere intento sguardo. La prima
è questa: le cose non arrivano a toccare l'anima;. bensf rimangono fuori come
sono; il turbamento proviene solo dall'interiore valutazione. La seconda: tutte
queste cose che vedi, quanto rapidamente si mutano e piu non sono!... Se la
facoltà intellettiva è comune per tutti; se la ragione, in quanto siamo
razionali, è pure comune; se cosf è, la ragione, in quanto imperativa delle
cose che si debbono fare o meno, è anch'essa comune; quindi anche la legge è
comune; quindi siamo anche·cittadini, partecipi di wi'organizzazione statale,
quasi una Città, uno Stato, insomma. In realtà nessuno potrà dire che tutto il
genere umano partecipi a qualche altra città in tal modo comune a tutti. E di
qui, da questa città universale, vengono a noi intelligenza, razio- nalità,
legalità.. Solo va sottolineato che ciò Marco Aurelio non pone come dogma, ma
vi giunge attraverso la stessa riflessione morale, che, scoprendo l'es- senza
dell'uomo, la sua natura come attività razionale, può far porre come
ipotesi che, appunto, lo stesso principio e fine del tutto è la razio- nalità,
intesa come ordine e socialità. L'opzione di Marco Aurelio per la tesi di fondo
dello stoicismo riflette chiaramente il significato della morale di Marco
Aurelio intesa come conflitto, se vogliamo, tra il momento cinico e il momento
stoico che si scioglie dalla sua rigidità antologica per divenire postulato e dovere
morale, cui si giunge mediante la stessa riflessione sul nostro essere uomini,
che costituisce e costruisce la nostra persona. E l'uomo resta, sempre,
dilacerato tra una realtà che è quella che è, indifferente, insignificante,
inutile, tra cui vi sono gli uomini, che sono quello che sono, ove tutto è
monotono, noioso, ove si nasce e si muore, ove tutto non merita nulla; e una
realtà che rivis- suta razionalmente appare ordinata e costituita secondo una
piu profonda ragion d'essere, per cui quellà stessa realtà, quegli stessi
uomini, pur rimanendo quali sono, un nulla, foglie che vanno, foglie che
vengono ("fragili foglie anche i bimbi tuoi, fragili foglie anche questa
gente che ulula..., fragili foglie per non differente condizione anche le stirpi
desti- nate a ricever la fama dei giorni venturi...; ma poi vento le getta per
terra e, successivamente, la selva altre, invece di quelle, ne genera; e
fugacità di un istante a tutti è comune; ma intanto tutte queste cose tu vai
perseguendo oppure fuggendo, proprio convinto che.la durata ne sia eterna;
ancora un poco e chiuderai gli occhi, e per colui che ti accompagnerà al rogo,
altri farà il lamento funebre"), li com- prendiamo come a noi vincolati,
li vogUamo per quel che sono, li accet- tiamo volontariamente sapendo ciascuno
giuocare la propria parte (Marco Aurelio la sua parte di Imperatore), in un
rispetto delle varie parti, che è rispetto della comune ragione, che ci fa
tutti fratelli. L'uomo, dunque, che è uomo in quanto ragione, cioè in quanto
capacità di portare ordine e misura in sé,·di volta in volta obbietti- vando il
valore delle cose, sapendo ciò che valgono - né molto né poco - non facendosi
prendere dalle cose stesse, è ·tale in quanto è già in se stesso armonia di una
molteplicità, è società, ove non una parte vale piu dell'altra,.ma sono tutte
uguali nell'unica ragione ("egemonico") che le articola. Sotto questo
aspetto anche gli altri (tali finché si resta sul piano del sensibile,
dell'immediatezza, della passione, del dare piu valore ad una piuttosto che ad
altra cosa) sono noi stessi, per cui in essi vogliamo noi; cioè, appunto, la
comune razionalità che ci fa sociali, membri di un'unica città ("d'altra
parte, tu sei uomo proteso a compiere, comunque sia, il bene dell'umana
comunità"; "o uomo, fosti cittadino di questa grande città; qual
differenza per te, se per tre o cinque anni?"; "siamo nel mondo per
reci- proco aiuto, come piedi, come mani, come palpebre, come i denti di
sopra e di sotto in fila; in conseguenza è contro natura ogni azione di
reciproco contrasto"). L'amore per gli altri- amore per noi- non è,
dunque, un amore in funzione di un aldilà, di un premio, di un Dio che cosi
vuole, di averne indietro riconoscenza o che sia, ma è un amore che si risolve
tutto entro i termini dello stesso orizzont~ umano, in un desiderio e in una
volontà di costruire un mondo umano quale dovreb- b'essere per natura, cioè
razionalmente ("sempre si ricordino le ragioni con le quali fu dimostrato
che l'universo è come una città"). Nulla individualmente eterno, ché
tutto, l'uomo compreso, sia come corpo, sia come forza vitale (nei suoi tre
aspetti: facoltà egemonica e coscienza di sé, il dèmone proprio, soffio vitale
e anima), si trasforma, riemerge, ritorna al tutto, unico.eterno; in tale
consapevo- lezza- lunga o breve che sia la vita: un nulla; sempre uguali le
cose: vanità - dobbiamo essere noi stessi, simili "ad un promontorio
contro il quale incessantemente si infrangono le onde e quello sta saldo, e si
abbonacci intorno a lui la gonfia protervia del flutto", sempre,
nell'istante, nel presente ("solo l'istante presente è quello di cui
l'uomo dovrà sentire privazione; effettivamente questo solo egli ha, e ciò che
non/si ha non si può perdere"). Iri. effetto il passato non è piu e il futuro
non c'è, e la vita autentica è fuori del tempo, nell'a~timo in cui siamo noi
stessi. Se ogni cosa assume un senso nella nostra con- sapevolezza, nella retta
ragione, non c'è un prima e un poi, ma, ap- punto, ogni volta, l'attimo, e la
virtuosità è tale in ogni istante, né v'è passaggio da una minore ad una
superiore virtu e viceversa. Noi siamo, dunque, impegnati tutti in ogni
istante, siamo in ogni attimo chiamati a decidere di quello che siamo, e,
appunto, in ciò si abolisce il timore e la speranza che sono sempre immagini,
rappresentazioni passionali. In ogni momento, essendo noi figli del nostro
meditare, che ci costruisce e ci genera quali siamo, risolviamo nel presente il
nostro passato. Viviamo, perciò, insieme, nel tempo (i momenti del processo in
cui si scandisce il ritmo della realtà) e nell'eterno (il presente) in cui la
realtà tutta si risolve nella consapevolezza che ne abbiamo (tale l'in'terpre-
tazione del motivo stoico dell'" eterno ritorno," che da temporale
diviene atto della consapevolezza morale). Né buona né cattiva la realtà, essa
è sempre quella che è, onde rimaniamo imperturbati, o, pur soffren- done o
gioendone, sappiamo in che consistono tali sofferenze e gioie, per cui non
siamo piu presi da esse, non le patiamo piu. E perciò, morti anche in questa
vita, vivi solo in quanto razionalità, che ci perde o nel tutto o negli altri,
piu non temiamo la morte, ché in ogni momento monamo. Anche nell'ipotesi che tu
debba vivere anni tremila e altrettanti anni diecimila, in ogni modo ricòrdati
d'una cosa: ne~suno perde una vita diversa da quella che in quell'istante egli
ha; né altra vita vive se non quella che in quell'istante egli perde. A egual
punto, dunque, perviene una vita lun- ghissima e una vita del tutto breve. Vedi
che il presente è per tutti uguale, ciò che via via si· allontana non è piu
nostro, e il tempo che via via tra- scorre è istante brevissimo. Infatti, non
si può perdere il tempo trascorso e nemmeno il tempo futuro; come sarebbe
possibile che ci venisse tolto ciò che non si ha? Insomma di questi due fatti
bisogna tener vivo il ricordo: il primo, che tutto perennemente è sempre d'un
solo aspetto e che si aggira quasi in un cerchio e che non fa differenza in
nulla se si dovranno vedere le medesime cose per cento, per duecento anni
oppure per un tempo che sia senza limiti. Secondo fatto: chi muore carico di
anni e chi muore subito perde una stessa cosa. Vedi bene che solo l'istante
presente è quello di cui l'uomo dovrà sentir privazione; effettivamente, questo
solo egli ha e ciò che non si ha non si può perdere. Se un uomo considera unico
bene l'istante; se giudica'egual cosa aver compiuto azioni conformi a retta
ragione in grande numero o in numero piu esiguo; se non fa differenza alcuna,
questo uomo, del poter contemplare il mondo per un tempo piu lungo o piu breve;
a costui certo la morte non costituisce motivo di paura. O uomo, fatti
cittadino di questa grande città: qual differenza per te, se per tre o cinque
anni?... È la medesima cosa che se il·capocomico che l'aveva chiamato,
congedasse poi l'attore dal teatro. "Ma non sono arri- vato a
rappr~sentare tutti i cinque atti: soltanto tre." Hai ragione; ma nella
vita anche tre anni soltanto costituiscono l'intero dramma. Ciascuno vive
questo istante ch'è presente: tutto il resto è vita trascorsa o incerta. Cerca
di mettere a profitto l'attimo presente con giusta ragione e con giustizia. Sono
formato di fra- gile corpo e di anima. Per quanto riguarda il corpo, tutto
riesce indifferente; del resto, neppure gli è concesso di far differenza
alcuna. Alla mente, invece, sono indifferenti quelle cose che non siano sue
operazioni. Quante cose invece dipendono dalla sua attività dipendono tutte dal
suo poterei anzi, fra queste, a dir la verità, la mente si preoccupa solo di
quante si riferi- scono al presente; le future e le trascorse sono operazioni
sue già compiute e ormai indifferénti. Sotto questo aspetto Marco Aurelio è
assai vtcmo non solo a certi motivi cinici, ma anche, indipendentemente dai
presupposti fisici del- l'epicureismo, a certe conclusioni dell'etica epicurea.
Ma forse il turbamento tuo proviene dal considerare la sorte a te asse- gnata
nell'universale destino? In tal caso devi ricordare il dilemma famoso: o
provvidenza oppure atomi. O una cosa o l'altra: confusione, accozzamento e
dispersione, oppure unità, ordine, provvidenza. Se ha valore la prima opinione,
perché tanto desiderio di indugiare in una mescolanza dovuta al caso?... Oh!
verrà certo anche per me il momento della disso- luzione, qualunque cosa io
cerchi di fare. Se invece ha valore la seconda ipotesi, adoro, me ne sto
tranquillo, nutro fiducia in colui che governa. Morte: o si tratta di
dispersione, se vi sono gli atomi; o annienta- mento; o anche cambio di dimora,
se ci attende un'altra unione (Sul piano umano uguali sono le conclusioni]. O
necessità di prefissato destino, o posto dal quale non si può sfuggire; oppure
provvidenza che può essere placata; oppure, infine, confusione senza guida
alcuna, un regno del caso. Se si tratta di una necessità dalla quale non si può
sfuggire, perché tanto ti occupi? Se invece c'è una provvidenza che può essere
placata, rendi in tale caso te stesso degno dell'aiuto che dalla divinità può
provenire. Da ultimo, se regna confusione senza nessuno che governi, stai
contento perché in tem- pesta cosi grande per conto tuo hai in te stesso mente
capace di guidare e condurre. E che cosa c'è di diverso, allora, in certo
senso, se ci fossero veramente gli atomi e le singole parti della materia?
Insomma, se vi è un Dio, tutto procede bene; se un caso, ebbene non procedere
tu pure a caso. Sembra chiaro, cosi, in che senso Marco Aurelio, tra
epicureismo nei suoi fondamenti fisici -, e stoicismo - nel suo motivo della
divinità intesa come razionalità, che nel suo costituirsi pone tutto come è
bene che sia, in un ordine sociale - abbia optato per lo stoicismo, in cui la
realtà, tutte le cose, nella loro necessità, nel loro inesorabile esserci,
portano a postulare un principio razionale e provvidenziale e perciò stesso un
fine, che diviene, umanamente, un dover essere, che, per altro verso,
s'incentra, come vedevamo, nella nostra stessa interio- rità, nello stesso
amore per noi e per gli altri, che è, appunto, amore per la razionalità comune,
per il bene, per Dio, principio e fine. Tale la religiosità di Marco Aurelio:
certo lontanissima dalla fede, dalla speranza, dall'amore dei Cristiani, e dal
loro concetto di uomo, che, attraverso il Cristo si salverà e risorgerà
personalmente, in eterno, in quanto uomo; tutto questo per Marco Aurelio è
irrazionalità, antropomorfismo, orgoglio, disumanità, immoralità, prepotenza,
asocialità, rottura contro lo Stato costituito a somiglianza della politèia
cosmica. Entro i termini dello "stoicismo" si delinea bene, ora, il
significato dato all'Impero da Marco Aurelio, e la funzione che nell'Impero
deve assumere il sùo capo, che, in un'accettazione consapevole del suo posto,
datogli dalla stessa ragion d'essere del tutto, deve tradurre in termini legali
quella che è la stessa socialità dell'universo, la sua giustizia, in un'armonia
che sia rispetto della funzione e del posto di ciascun citta- dino. Sotto
questo aspetto si compie con M::rco Aurelio quella linea politica che, in una
giustificazione dell'Impero di Roma, aveva preso le sue mosse, come abbiamo
veduto, con Diane Crisostomo, e che si venne realizzando da Vespasiano a Marco
Aurelio (cfr. sopra), in una ripresa, appunto, assai duttile di certi motivi
stoici - la legge univer- sale, l'imperatore incarnazione della ragione sociale
del tutto, il re filàntropo, ciascuno al suo posto, ciascuno in funzione
dell'unico Stato -, usando anche certi aspetti delle Leggi di Platone e il
motivo della giusta misura (i doveri medt), di Aristotele, dove, infine, non
poche volte si sente la presenza dell'ideale "res-publica" di
Cicerone. Particolarmente indicativi sono, su questa linea, i nomi fatti da
Marco Aurelio, cioè Trasea, Elvidio, Catone, Bruto, dai quali egli avrebbe
tratto ispirazione per il proprio concetto di Stato e di governo, dove
l'imperatore non è un desposta, ma un pater e un correttore: "attraverso
essi ho potuto far sorgere in me il desiderio di un governo in cui la legge
abbia vigore per tutti; informato, questo governo, a uguaglianlZa e a libertà
di parola, un regno capace di rispettare per suprema ragione la libertà dei sud-
diti" "Relitto di città, chi stacca l'anima propria dall'anima comune
degli esseri razionali, anima che è una sola". Di qui, entro i termini
della propria posizione di imperatore, la filantropia di Marco Aurelio, la sua
clemenza, la sua misura nel governo, il suo tratto e il suo sentirsi
"pater" dell'umana famiglia, in una, in fondo, vis- suta e sofferta
pietà per gli uomini tutti e per se stesso: "causa ultima dell'universo è
un torrente che tutto spazza via. Di che poco conto sono queste creature sociali
e politiche, questi minuscoli e piagnucolosi esseri umani, che immaginano di
praticare una vita di filosofi". La preparazione culturale. Diogene
Laerzio. Entro questa atmo- sfera, se Marco Aurelio poteva, sul piano di una
possibilità etica, optare per un certo "stoicismo," che nelle sue
serissime conclusioni aveva la possibilità, sul filo dell'orizzonte umano, di
incontrarsi con l'epicurei- smo, la consapevolezza di Marco Aurelio,.del resto,
come abbiamo veduto, estremamente diffusa, dell'impossibilità teoretica di
oltrepassare la stessa ragione, conduceva, sul piano di un'indagine piu
strettamente scientifica, nell'àmbito delle scuole, a discutere quali fossero
le ipotesi, non contraddittorie, cioè non piu possibili d'essere
dialetticamente con- futate, che permettessero una deduzione, una spiegazione
del reale. Abbiamo già visto quali: dal "pitagorismo," inteso come
logica mate- matica mediante cui si poteva rendere pensabile la realtà, e con
cui si poteva, assUmendo l'aspetto piu formale dell'analitJca aristotelica e
certi motivi della logica proposizionale e del sillogismo ipotetico del primo
stoicismo, trovare una ragione della costruzione platonica del Timeo; a un tipo
di platonismo stoicheggiante e vitalistico a cui si avvicinano certi testi del
corpo ermetico, in una conclusiva visione di sfondo entro cui fossero riprese e
giustificate le varie esperienze ed ipotesi storica- mente delineatesi. Nei
termini di tale piu vasta silloge, in un tentativo di deduzione logica, che non
oltrepassasse, contraddittoriamente, i limiti della razionalità, ed entro cui,
appunto, si potesse rendere conto anche delle varie esperienze religiose, si
venne a muovere, nel corso del m se- colo d. C., il pensiero di Plotino.
Peraltro si capisce cos!, sempre entro l'àmbito delle scuole e della piu
generale preparazione culturale dei cit- tadini dell'Impero, da un lato il
fiorire di sillogi, di epitomi, isagogi, di raccolte di questioni su singoli
problemi (dossografie) su cui discutere, dall'altro lato di opere ove vengono messi
in discussione gli argomenti piu svariati, anche senza ordine, in una
delineazione chiara di quelli che furono i vivi e molteplici interessi di una
certa epoca. E qui, per ciò che riguarda l'aspetto piu largo e divulgativo,
rispon- dente alle esigenze diffuse di un pubblico piu vasto, particolarmente
pensiamo all'opera del latino Aulo Gellio (nato sotto Adriano, morto sotto
Marco Aurelio, discepolo di Calvisio Tauro e di Peregrino, amico di Attico, di
Frontone, di Favorino, viss.uto tra Roma ed Atene), le Notti attiche, e a
quella dell'egiziano Ateneo (originario di Naucrati, vissuto tra la seconda
metà del n secolo e la prima del m), l sofisti a convito (Deipnosofistt), che,
preziosissime come fonti (evidentemente se assunte criticamente), vanno soprattutto
considerate in quanto indici precisi di una molteplicità di interessi, di tutta
un'atmosfera culturale~ Per il primo aspetto, invece, sembra di particolare
inter~sse ricor- dare i Placita di Aezio, vissuto tra la fine del I secolo d.
C. e la prima metà del II. Il Diels (Doxographi, Prol.), nella sua rico-
struzione dei Dossografi greci, ha mostrato che Aezio è autore di una
dossografia intitolata l:uvatyCùy1} 'CblV &.pcaxoV'f:CùV (Raccolta dei pa-
reri, o Placita), perduta, di cui ritroviamo traccia nei P/acita philosophorum,
attribuiti a Plutarco, in Teodoreto, in Nemesio - Iv-v secolo - e nelle Ecloghe
di Stobeo. I Placita di Aezio deriverebbero a loro volta dai Vetusta Placita,
un'epitome in 6 libri delle Opinioni dei fisici di Teofrasto, composta entro
l'àmbito della scuola di Posidonio, nella prima metà del I secolo a. C., alla
quale non poco avrebbe attinto Cicerone. Ma accanto al filone dossografico,
facente capo ad Aezio e allo pseudo- Plutarco, non va scordato un secondo
filone che risalendo a un'altra epitome in 2 libri delle Opinioni dei fisici di
Teofrasto, composta nell'àmbito della prima scuola teofrastea, si arricchi poi
di nuovi testi e frammenti, particolarmente stoici (da tale epitome attinsero,
per le loro discussioni e ricostruzioni, Sozione, Cicerone, Ario Didimo, l'au-
tore della Stromateon Ecloga, andata sotto il nome di Plutarco, Ippolito,
Diogene Laerzio). Ora, a parte l'interesse che hanno questi fram- menti
dossografici come fonti e testimonianze di opere antiche andate perdute, ciò
che qui va sottolineato è da un lato la loro funzione di materiale per le
discussioni,. dall'altro lato la loro impostazione dovuta a Teofrasto, che
venne determinando non solo una certa delineazione di problemi, ma anche, di
volta in volta, a seconda di interessi diversi, la struttura stessa della
discussione in senso dialettico, cioè secondo il metodo aristotelico di
presentare le varie soluzioni di certi problemi, si che fosse possibile il
confronto dialettico, e, attraverso questo, il rintraccio di quelle ipotesi non
piu dialettizzabili (in questo senso è chiaro perché Aezio sia stato detto
"peripatetico"); ciò poteva por- tare, in un àmbito metodologico, o
ad accettare una o altra ipotesi, cavata dalla discussione di testi platonici,
aristotelici, stoici, senza con questo negare in pieno l'una o l'altra ipotesi;
dell'una o dell'altra con-.cezione, se negate dialetticamente, si potranno
sempre dialetticamente recuperare altri. aspetti, e cosi via. Di qui, anche,
entro i termini di una discussione scientifica delle condizioni del sapere,
accanto alle "introduzioni" per una lettura delle opere di Platone o
di Aristotele, ai commenti di certe opere di Platone o di Aristotele,
scaturisce l'interesse per le sillogi di certi filoni di problemi e di
soluzioni comuni di certi problemi, per le quali ci si venne servendo delle
prime distinzioni in scuole della storia del pensiero, ove soprattutto si tenne
presente il criterio delle "successioni" (8tat8oxatt: diadochàt),
sempre ordinate dialetticamente. Tale filone ebbe il suo primo rappresentante
in Sozione, autore appunto di un'opera intitolata Successioni, e proseguitosi
con Eraclide Lembo, Sosicrate, Nicia di Nicea. Per altro verso, invece, in
particolare tenendo conto, via via, del- l'ideale di vita, che trova il suo
fondamento in una o altra conce- zione, e dell'importanza che per avviare alla
virtu assume in campo stoico l'esempio, si comprende come si sia venuto
formando l'interesse per la ricostruzione della vita dei filosofi, che
risalendo alle Vite di Ermippo e di Antigono di Caristo e alle Vite di Satiro,
di Neante di Cizicci e di Diocle di Magnesia, ha dato luogo ad un largo fiorire
di Vite degli uomini illustri. Entro questa prospettiva, tali raccolte,
manuali, sillogi, successioni, antologie, assumono un non indifferente valore
storico, non solo come fonti per la conoscenza di opere perdute - sotto questo
aspetto, evi- dentemente, da prendere tenendo conto del tempo in cui sono state
composte, e della loro strutturazione prospettica -, ma sopratt\Jtto come
indicazioni del materiale posto in discussione, e, quindi, degli interessi
culturali di certe epoche, e, perciò, sembra, non si può dire che siano dei
mèri centoni, o ope~a di eclettici privi di un pensiero originale. Non questa,
certo, fu la loro funzione. È in questa delineazione che va considerata,
proprio sulla prima metà del m secolo l'opera di Diogene Laerzio,28 Le vit~ d~i
filosofi, che, nel tentativo di presentare, sempre documentatamente, gli
aspetti molteplici con cui si è venuto formando il pensiero greco, si è valso,
ad un tempo, delle succe-ssioni, delle vite, delle dossografie e delle
cronografie, in una fusione di vari filoni storiografici, e in una rico-
struzione del pensiero greco su grandi direttrici dialettiche. "Le Vit~ di
Diogene Laerzio," è stato detto, "sono una esposizione della filo-
sofia greca quasi divulgativa, anche superficiale, se si vuole, ma senza il
difetto di sintetizzare in facili schemi l'enorme materiale, un'amo- Diogene Laerzio visse, proba~mente, nella
prima metà del III secolo. Nel IV secolo, Sopatro di Apamea, discepolo di
Giamblico riportava nelle sue 'Ex).oyetl 3Leicpopo1 (Eglogh~ divn-s~) testi di
Diogene; Diogene, per altro, cita Sesto Empirico e Saturnino discepolo di
Sesto, sottolineando che Sesto era stato discepolo di Erodoto, a sua volta
discepolo di Menodoto; poiché Galeno, che non cita Sesto, cita Erodoto, e
sappiamo che Galeno visse fin circa il 200, si è sostenuto che, dunque, Sesto
avrebbe scritto tra il 200 e il 220, e che Diogene avrebbe, perciò, dovuto
scrivere la sua opera tra il 220 e il 250 circa. Non sappiamo dove nacque e
molto si è discusso anche sull'appellativo Lan-aio. Secondo il Wilamowitz
(Epin. Gd MIIIUs., "Philol. Unters.,") AOtépTIO~ è un signum dedotto
dall'omerico 81oycvèç AetcpTLet3'1) (dioghenès Laerti4de) (cfr. 'E. Schwartz,
Rea/ Enr., V, l, col. 738; anche Gigante, in trad. it. delle Vite dei filosofi,
Bari). Da Diogene stesso sappiamo ch'egli scrisse un libro di epigrammi
intitolato Pijmmetros (Libro di m~tri di ogni tipo), intorno a tutti gli
illustri estinti (1, 63), che usò poi, per quel che riguarda i filosofi, nella
stesura della sua opera maggiore pervenutaci. L'opera maggiore di Diogene nei
codici piu ant!<h; è andata sotto il titolo ~I.Àoa6cpC1111 ~LCIIII xetl
3oy!JoliTCilll auvetyCilylj~... (Vite di ll•'JJ?fi e raccolta di opinioni!. Le
Vite, dedicate a un'ammiratrice di Platone (DI, 47), si dividono in dieci libri
e si aprono con un Proemio di notevole importanza poiché vi si determina il
criterio dell'opera. Nel primo libro si espongono vita e pensiero di: Talete,
Solone, Chitone, Pittaco, Biante, Cleobulo, Periandro, Anacarsi lo Scita,
Mùone, Epimenide, Ferecide. Nel s~condo libro ai tratta di: Anassima.ndro,
Anassimene, Anassagora, Archelao, Socrate, Senofonte, Eschine, Aristippo,
Pedone, Euclide, Stilpone, Critone, Simone, Glaucone, Simmia, Cebete, Menedemo.
Il terso libro è dedi- cato a Platone: biografia, opere, dottrina, dossografia.
Il qu~o libro tratta di: Speu- sippo, Senocrate, Polemone, Cratete platonico,
Crantore, Arcesilao, Bione, Lacide, Car- neade, Clitomaco. n quinto libro è
dedicato ad Aristotele e alla sua scuola: Aristotele, Teofrasto, Stratone,
Licone, Demetrio, Eraclide. Nel libro sesto si tratta di: Antistene, Diogene di
Sinope, Monimo, Onesicrito, Cratete, Metrocle, Ipparchia, Menippo, Menedemo. n
libro settimo è dedicato allo stoicismo: Zenone, la logica stoica, l'etica
stoica, la fisica stoica, Aristone, Erillo, Dionisio, Cleante, Sfero, Crisippo.
Il libro ottavo tratta di: Pita- gora, Empedocle, Epicarmo, Archita, Alcmeone,
lppaso, Filolao, Eudosso. Nel libro nono si espongono le vite e le opinioni di:
Eraclito, Senofane, Parmenide, Melisso, Zenone di Elea, Leucippo, Democrito,
Protagora, Diogene di Apollonia, Anassarco, Pirrone, Timone. Il libro decimo è
dedicato ad Epicuro.] rosa raccolta delle varie notizie sparse in innumerevoli
libri, non sem- pre facilmente accessibili. In esse la filosofia non è
unicamente l'atti- vità speculativa, è un concetto piu ampio, che investe ogni
minimo particolare della vita dell'uomo: una vita che nel filosofo è l'espres-
sione sensibile della ricerca interiore. E questo punto di vista caratte- rizza
già l'atteggiamento eccezionale di un pubblico, frutto di lunga tradizione,
verso i propri filosofi...: è una rappresentazione ideale di una mitica società
di saggi e di grandi a colloquio" (Pasquinelli, Intro- duzione a I
Presocratici, Torino). Non possiamo dire a quale delle filosofie esposte
particolarmente aderisse Diogene Laerzio (forse, si è detto, all'epicureismo,
dato che un libro intero delle Vite, l'ultimo, il X, è dedicato ad Epicuro, di
cui riporta le tre celebri lettere e le massime, e a cui Diogene si avvicina
con grande simpatia; forse allo scetticismo, le cui tesi, particolarmente
l'aspetto dialettico critico, sono esposte con aderenza e precisione; forse al
platonismo, si è aggiunto, essendo l'opera dedicata ad un'am- miratrice di
Platone). In realtà, ciò che qui preme sotto- lineare, come indice di tutto un
atteggiamento culturale, scientifica- mente valido, e rispecchiante un ampio
pubblico, è" da un lato la pre- sentazione oggettiva di piu correnti.di
·pensiero e, dall'altro lato, proprio per quella stessa oggettività e
chiarimento dell'ideale impegno alla ricerca di ciascun filosofo, 'l'offerta di
una discussione dialettica, basata sull'analisi delle possibilità logiche
dell'assunzione dell'una o dell'altra ipotesi (di qui, come chiaramente appare,
l'insistenza di Diogene Laerzio sull'aspetto dialettico della corrente
scettica, con par- ticolar riguardo ad Enesidemo), senza privilegiarne una o
altra. d) Le scienze e la logica: lo "scetticismo" di Sesto Empirico.
Tolo- meo e Galeno. Abbiamo già detto che nel corso del n secolo, entro i
termini della ricerca metodologica sopra discussa e che ha le sue piu lon- tane
origini nel tipo di ricerca proprio della scuola di Aristotele, si assu- mono a
contenuto di indagine i diversi piani di fenomeni: dai fenomeni naturali e
dalla possibilità di una loro calcolabilità ai fenomeni apparte- nenti alla
natura umana. E poiché sia per l'una ricerca che per l'altra, sul piano della
discussione delle varie ipotesi avanzate, nella deter- minazione dei pro e dei
contra si trattava di precisare le condizioni che permettono una
discriminazione e perciò la possibilità o meno di un giudizio, l'indagine
stessa diviene, innanzi tutto, studio del giu- dizio, cioè logica. Non a caso,
abbiamo visto, anche in certe sillogi che sono andate sotto il nome di
"platoniche," in altre che sono state dette "pitagoriche,"
in altre "stoiche" e anche nei commentatori di Platone e dei libri
logici di Aristotele, l'aspetto prevalente è l'indagine logica, lo studio delle
condizioni che permettono uno o altro discorso. Qui, sembra, s'inserisce - e
assume il suo piu alto significato sto- rico - l'appello di Sesto Empirico,29
vissuto tra la fine del II e il principio del m secolo, il suo continuo
richiamo entro i termini della ricerca (scepsi) a tener sempre presente,
metodologicamente, il peri- colo, nei limiti del giudizio, di extrapolare da
quei limiti stessi, di oltrepassare quei divieti. Sotto questo aspetto l'opera
di Sesto (sia le /potiposi pi"oniane in- tre libri, sia il proseguimento e
l'approfondi- mento delle Ipotiposi, l'Adversus Dogmaticos, in 5 libri, e
l'Adversus Mathematicos, in sei libri, titolo abbastanza recente, con cui si è
soliti indicare il complesso degli 11 libri) ha un altissimo valore metodo-
logico, è l'ultima voce di serietà scientifica, l'ultima "logica"
dell'anti- chità. L'opera di Sesto non va considerata solo come una
sistemazione Scarsissimc le notizie intorno a ·Sesto, detto Empirico perché
sembra sia stato medico (Esculapio dette inizio alla nostra anc: Adv. Math.)
appartenente all'indi- rizzo "empirico," o meglio al nuovo indirizzo
metodico-empirico (cfr. Pyrrh. hypot., I, 236; Adv. Math.), scaturito dalla
polemica di Mcnodoto. Non sappiamo con esat- tezza quando visse: citato da
Diogene Laerzio, che scrisse nella prima metà del 111 secolo, insieme al
discepolo di Sesto, Saturnino (cfr. Diogene Lacrzio), di Sesto non fa alcuna
menzione Galeno, che, invece, accenna a Erodoto, discepolo di Menodoto, maestro
di Sesto. Poiché, per altro verso, sappiamo che Ippolito, nella sua opera
contro gli eretici, composta tra il 220 e il 230, avrebbe usato argomentazioni
di Sesto, si è potuto, verisimilmente, sostenere che Sesto sarebbe vissuto tra
la fine dd n secolo e il principio del 111 e che avrebbe composto le sue opere
tra il 200 e il 220 circa. Non sappiamo dove sia nato. SESTO è nome latino. “Nostri,"
tuttavia, egli dice leggi e costumi greci. Senza dubbio è ad Atene, ad
Alessandria e a Roma (dr. Adv. Math.; Hypot.; Adv. Math; Hyp.; cfr. anche PRA
(si veda)). Probabilmente l'opera di Sesto è pcevenuta intera, tranne due
scritti intitolati Memorie mediche e Memorie empiriche (forse uno scritto
unico), citato dallo stesso Sesto (Adv. Math.). Di uno scritto, Sull'anima, cui
Sesto fa menzione (Aiv. Math), si è pensato (Robin) che sia in realtà un rinvio
alle pani delle opere pcevenute in cui Sesto tratta dell'anima, si come è il
caso di altri accenni a trattazioni che si ritrovano, poi, nd complesso dd
corpus dell'opera· di Sesto. Due sono le opere pervenuteci di Sesto: Schizzi
pirroniani (o lpotiposi pirroniane) in tre libri (I libro: significato c limiti
dello "scetticismo," inteso come metodo; esposizione dei tropi dello
scetticismo; Il libro: significato c limiti della logica dogmatica; III libro:
critica della fisica c della morale dei dogmatici); un'opera in due parti,
intitolate la prima Contro i dogmatici, in cinque libri, la seconda Contro i
matematici, in sei libri (si è soliti indicare le due parti con l'unico titolo,
desunto dalla seconda parte, Contro i matematici). I primi due libri Contro i
dogmatici sono dedicati ad una precisa critica della logica, mediante cui Sesto
può, nei libri terzo c quano, mettere in discussione la fisica dogmatica, e,
nel quinto, le posizioni morali. l sei libri Contro i matematici, cioè contro
coloro che dànno un valore assoluto al sapere (màthema) sono dedicati ai
grammatici, ai rctori, agli aritmeti.:i, ai geometri, agJi astronomi, ai
musici. Discepolo di Sesto fu, secondo Diogene Lacrzio, un ceno Saturnino, che
Diogene indica come 6 xu&rjviiç (kythenas), che non sappiamo cosa
significhi (Brochard, Les sceptiques grecs, Parigi, correggendo 6 xu&ljviit;
in 6 xot6'-f)(liit;, l(ath'hemàs, legge il "nostro contemporaneo").] organica
da un lato della topica e dei tropi, delle argomentazioni, susse- guitesi nel
tempo da parte dei cosiddetti scettici, che· dimostri, in parti- colare per
certi accademici, l'illegittimità logica del passaggio da una posizione
arcesilao-carneadiana a una tesi stoico-platonica, dall'altro lato delle tesi
dogmatiche, sia in fisica sia in etica, sia nelle singole scienze,
professoralmente insegnate, mediante cui, all'interno di ciascuna, e dia-
letticamente nei confronti dell'una con l'altra, dimostrare la contraddit-
torietà di ogni ipotesi se assunta come assoluta. Ma è proprio in questa
dialetticità che consiste il nocciolo dell'appello di Sesto: egli non nega l'una
o l'altra ipotesi, in quanto tale e in quanto logicamente possibile, bensl nega
la legittimità di assumere come esclusiva, come vera, l'una o l'altra ipotesi,
anche se assunta, sia pur per la dichiarata incompren- sibilità della realtà in
sé, come probabile, optando, attraverso la discus- sione dei pro e dei contra,
per quella ipotesi che può esser piu utile per una certa condotta di-vita, la
cui validità è perciò stesso presunta, niente affatto scientificamente fondata,
e, dunque, disonestamente imposta. Di qui appunto, nei confronti del "
sapere " in generale, il riferirsi da parte di Sesto, che fu, come egli
stesso dichiara, medico, al metodo della ricerca medica, quale si era delineato
nelu secolo, particolarmente attra- verso Menodoto (cfr. sopra), nella nuova
accezione che aveva preso l'in- dirizzo empirico (cfr. sopra) (questa sembra la
ragione per cui Sesto fu detto empirico), per·cui la ricerca scientifica, non
presupponendo di giungete alla verità - onde non, si può dire che la verità è
afferrabile né che non è afferrabile - rimane, di volta in volta entro i
termini delle possibili esperienze, determinazione di un'ipotesi che spiega un
certo complesso di fenomeni, ma che può di volta in volta cangiare, a seconda
dei "segni rammemorativi," lasciando sempre aperta la ricerca
(scepst). Chi intraprende una qualsiasi ricerca, conviene che metta capo o alla
scoperta di ciò che cercava, o alla negazione di esservi riuscito e alla
confes- sione che la cosa è incomprensibile, o alla persistenza nella ricerca
stessa. Cosi, anche, di coloro che le loro ricerche volsero alla filosofia,
alcuni avreb- bero affermato di aver trovata la verità, altri avrebbero
dichiarato trattarsi di cosa incomprensibile, altri persisterebbero tuttora a
cercare. Ritengono di averla trovata coloro che, con denominazione particolare,
sono chiamati "dogmatici" ("coloro che assentono a qualcuna ddle
cose che sono oscure e formano oggetto di ricerca da parte delle
scienze"), come gli aristo- telici, gli epicurei, gli stoici e altri. Ne
dichiarano l'incomprensibilità i ·seguaci di Clitomaco c di Carneade e altri
act:ademici. Continuano a cercare gli Scet- tici (Py"h. hyp.). Lo
scetticismo esplica il suo valore (diciamo "valore" senza annettere a
questa parola nessun sottile significato, nel senso suo semplice in rapporto al
verbo "valere") nel contrapporre i fenomeni e le percezioni
intellettive in qualsiasi maniera, per cui, in seguito all'ugual forza dei
fatti e delle ragioni contrapposte, arriviamo anzi tutto alla sospensione del
giudizio... (l, 8). Di qui, dunque, la preliminare e fondamentale discussione
sul "giu- dizio " e sul "criterio." Mediante una ripresa
sistematica dei tropi, da Enesidemo ad Agrippa, si pone in forse la validità di
ogni giudizio che si fondi sulla "analisi" (implicante che i termini
del giudizio siano "inerenti" l'uno all'altro, donde i termini, anche
se parole significanti, debbono pur sempre indicare una presunta realtà per
sé}, si come per altro verso di ogni giudizio che pur implicando che i suoi
termini sono rappresentazioni, dovute alle impressioni sensibili, e che il
discorso è perciò non tra termini, ma tra proposizioni, arresti infine la
propria ricerca, passando dal possibile discorso, fondato sui segni rammemora-
tivi, alle cause prime per via analogica. Se di qui risulta chiara la critica
di Sesto alla "causa," alla "deduzione" e alla
"induzione," al "procedi- mento sillogistico" e alla
"analogia," ai "segni indicativi," altrettanto evidente è
in che senso Sesto, senza extrapolare dalle possibilità umane, accantonato sia
il tipo di logica aristotelica sia quello di tipo cleanteo- stoico sia, infine,
sul piano scientifico, l'illecita assunzione di una ipotesi perché piu
probabile e utile alla vita, sostenga, riallacciandosi in ciò alla logica del
primo stoicismo - si veda sopra, I vol., Zenone -, la positività di una logica
fondata sui "segni rammemorativi." Sesto, cosi, ne deriva da un lato
la necessità di sospendere il giudizio sulla realtà in sé (da qui il rovinare
di tutte quelle scienze che fondano la loro costru- zione su di un
"sapere," màthemti, che scambi l'ipotesi temporale, dovuta cioè a un
complesso di segni rammemorativi con la verità, e di tutte quelle
"morali" che trovino il loro fondamento su quei principi, quali
ch'essi siano, dogmaticamente sostenuti}; dall'altro lato entro i termini di
come si formano i giudizi, entro i termini di un discorso temporale, fondato
sulle implicazioni rammemorative delle impressioni, la possibilità di un
discorso orizzontalmente verace e capace di cangiare a seconda delle
impressioni stesse e delle esperienze, per cui appunto, la ricerca resta sempre
aperta: una la formazione e la validità del discorso, molte, nel costituirsi
"storico" (empirico) del discorso, le possibili verità, tra cui anche
quelle, probabili, se cosi ridimensionate, dei dogmatici. L'appello di Sesto
Empirico e la sua indagine portavano, sul piano della ricerca scientifica,
razionale; a prospettare una metodologia gene- rale, formalmente valida per
ogni tipo di ricerca, in campi ben deter- minati di fenomeni. Il discorso di
Sesto e il suo prmpettare limiti e validità dei giudizi derivava dal lungo
dibattito sul significato della 166 ricerca medica, quale si era
delineato, nelle conclusioni cui si era giunti, particolarmente nel caso
dell'ultima scuola empirica derivata da Meno- doto (cfr. sopra). Nell'ambito
dell'indagine medica, di contro ai dot- trinari (fossero "pneumatici"
o "metodici" analogisti), dopo la pole- mica violenta di Menodoto,
ch'era giunto a negare sul piano della pura empiria qualsiasi possibilità di
"giudizio," si venne sostenendo con Teoda di Laodicea, riconosciuta
la validità sul piano polemico del- l'appello all'empirismo di Menodoto, che
l'esperienza non si riduce a una mèra raccolta di dati, ma è un metodo che non
implica affatto l'oltrepassamento dell'esperienza stessa, né un passaggio, per
analogia, dal noto all'ignoto, ma un passaggio, nel ricordo, dal simile al
simile, ché i fatti stessi non sono noti in sé, presi ciàscuno per sé, ma si
fan noti mediante il ricordo di altri fatti-impressioni, in un discorso coe-
rente per sé, ma che non presume affatto alla verità. Se da uii lato lavoro
serio e proficuo è non uscir fuori dall'esperienza, non ricorrere all'analogia,
dall'altro lato esperienza significa non raccÒlta di dati accanto a dati, non
enumerazione all'infinito, ma confronto di dati, osservazione del loro
ripetersi, secondo una certa costanza, oppure no, si che alla base di
dati-rappresentativi, segni "rammemorativi" e non
"indicativi" di strutture in sé o di cause prime (accanto
all'autopsia, diretta e personale raccolta di dati, e all'historfe, raccolta di
dati osser- vati nel tempo da altri, si pone in tal modo la cosiddetta
mfmesis), si possa, in un calcolo dei dati, in ricordi di dissimiglianze e
simiglianze, determinare ima certa sintomatclogia, in una descrizione (schizzo,
ipo- tipost) di un complesso di fenomeni, che non presume affatto di essere una
definizione valida per sempre. Entro questo complesso di indagini e di
ricerche, nella sistemazione in un sol corpo coerente (tale da spiegare certi
complessi di fenomeni, senza far violenza ai dati sperimentali) del sapere
matematico, geogra- fico, astronomico e astrologico per un lato, e del sapere
medico e opera- tivo della medicina per un altro lato, si collocano le opere di
Claudio Tolomeo e di Galeno. Esse, appunto, attraverso l'autopsia e l'historie,
attraverso le dossografie, non presen- tano solo, l'uno nel campo
dell'astronomia, dell'ottica, della matematica, l'altro in quello della
medicina e delle ipotesi filosofiche atte a spiegare situazioni e condizioni
del corpo e dell'animo umano, un insieme di scoperte o di dati raccolti nel
processo del tempo. Esse, anche, in una rielaborazione di quei dati, di quelle
scoperte, in un accantonamento di quelle ipotesi che cadevano in contraddizione
con i dati dell'espe- rienza usando i materiali offerti, nell'uno o nell'altro
campo, dalle varie istorie, dai risultati conseguiti da questo o quello
scienziato o filosofo, presentano un quadro coerente e complesso, basato su
ipotesi proba- bili, veraci in quanto capaci di spiegare. entro i termini di
quelle esp(- rienze e di quelle situazioni tecniche, un insieme di fenomeni, e
capaci di rendere possibili calcoli e misure. "L'astronomo," scrive
Tolomeo, "deve sforzarsi per quanto è possi- bile di far concordare le
ipotesi piu semplici con i movimenti celesti; ma se ciò non riesce, deve
assumere quelle ipotesi che possono conve- nire" (Almagesto). Tolomeo è,
in realtà, l'ultimo epigono della grande tradizione della scuola scientifica
(astronomica) di Alessandria. Non a caso- entro l'àmbito ora veduto- Tolomeo,
che visse ed operò ad Ales- sandria, si riallacciò ad lpparco di Nicea (cfr.
sopra), non solo racco- gliendone le osservazioni e le scoperte, i calcoli e le
misurazioni, ser- vendosi anche delle esperienze e delle scoperte posteriori ad
Ipparco, rimaste tuttavia puntuali e disarticolate da un unico
"sapere," ma appli- cando di lpparco il metodo indipendentemente da
superiori ragioni, sulla linea del "peripato " di Alessandria.
Tolomeo, cosi, opera sp due piani. l) Riprende tutto il materiale osservativo
offerto dagli astronomi precedenti, ne rivede critiqunente la rielaborazione,
ne controlla i risul- tati, fa osservazioni proprie!, si rende conto dei
movimenti e dei rapporti tia i mondi in rappresent<(zioni geometriche; di
qui l'approfondimento della teoria geometrica degli epicicli e degli
eccentrici, in particolar modo per ciò che riguard:). la luna e la dislocazione
dei piccoli pianeti, e l'approfondimento in (jttica, cui Tolomeo ha dedicato
un'opera a parte, della teoria della rifrazione, sottolineando l'esistenza
della rifra- zione atmosferica dal cui studio geometrico si possono calcolare
gli errori cui la rifrazione atmosferica può condurre nelle oservazioni dei movi-
menti stellari. T ali rappresentazioni geometriche permettono poi calcoli
numerici mediante cui (postulata per quei calcoli stessi là terra al centro
dell'universo in un punto sferico di riferimento) misurare le distanze e i
movimenti concordanti con le osservazioni che cosi vengono spiegate (di qui
l'approfondimento della geometria sferica delineata di contro 80 Scarsissime
sono le notizie sulla vita di Claudio Tolomeo. Sappiamo ch'egli lavorò, in
Alessandria, in cui fece le proprie osservazioni sui cieli. Accanto alla sua
opera piu celebre la Mcx&tJ!U'-nxiJ ~r.ç -rijç mpovo~!czç (SinlllSsi mtlle-
mlllica dell'astronomia), detta anche la grande (~1}, megille), per
distinguerla da una rielaborazione minore, e poi, per ammirazione, la
grandissima (I'CYI.a-nj, meglliste), donde, infine, da una trascrizione araba
(La grandissima,.Al maghesm}, il titolo di.Alrruwesto, vanno ric:ordate le
seguenti opere j,ervenuteci: Ipotesi sui pianeti, Fasi delle nelle fisse, La
pida geografica (in otto libri: alcune parti si dubita siano di Tolomeo; in
altre parti sembra che Tolomeo abbia ricaleato l'opera del suo predecessore
Marino di Tiro), l'Ottica, l'.Acustica, il Tetrabiblion (o Opus quadrip•titum,
eanone, com'è stato detto, dell'astrologia elleriistiea), Del criterio !
dell'egemonico. 168 ad Euclide dal matematico Menelao di
Alessandria, autore di un'opera perduta sul Calcolo delle corde e di un
trattato in tre libri, conserva- toci dalla tradizione araba, gli Sferici, in
cui è fondata la trigonometria: cfr. Almagesto). 2) Tolomeo sistema il tutto,
sintatticamente in un solo ordine, s1 che senza violentare i dati osservati -
molteplici e separatamence presi in opposizione tra di loro -, quei dati
vengono spiegati l'uno in rela- zione all'altro, offrendo un tutto organicamente
articolato e possibile d'essere tradotto, appunto, in termini geometrici e
risolto in formule di calcolo. Quello ch'era stato il lavoro di Euclide per il
sapere geometrico, è ora il lavoro di Tolomeo per l'astronomia. Di qui, anche,
il titolo dell'opera sua (M«&1J!J.«:nx~ a\lv-rcx~~c;: Mathematikè
s<Yntaxis), ch'ebbe maggior successo e che, com'è noto, ha determinato per
secoli tutto il sapere relativo alla costruzione dell'universo, una volta
assunto, non criticamente, come sistema definitivo e non come ipotesi (la
Sintassi matematica, detta anche la grande - f.LEYrXÀl): megàle -, per distin-
guerla da una rielaborazione minore, e, poi, per ammirazione, la gran- dissima
- f.LEYLOTrJ meghiste -, è rimasta nota col nome di Alma- gesto, trascrizione
araba dell'articolo - in arabo al - e magesto - trascrizione araba dal greco
meghiste). Di qui, non contraddittoriamente, anzi come l'ipotesi che meglio
poteva permettere la spiegazione dei movimenti e delle leggi regolanti
l'universo, la ripresa e piu compiuta dimostrazione della validità della
ipotesi geocentrica, che, entro lé possibili conoscenze di allora, meglio della
ipotesi eliocentrica, sostenuta da Aristarco, permetteva non tanto la
"salvazione" dei fenomeni in senso platonico, quanto la misurazione e
la spiegazione dell'ordinamento e delle leggi regolanti il movimento del tutto,
facente perno sulla terra, al centro, e scandentesi in una serie di movimenti
entro la sfera contenente tutto l'universo (la prima sfera motrice). Sempre entro
l'àmbito dell'astronomia - e per gli stessi interessi- va veduto il tentativo
di Tolomeo di rendere misurabile e perciò calcolabile il complesso delle
influenz.e stell;ari nelle cose e, particolar- mente, sugli uomini, cerc;mdo di
rendere conto sul piano geometrico - con il metodo lineare e non trigonometrico
còme nell'Almagesto - delle incidenze e rifrazioni, dell'insieme delle credenze
astrologiche. Se Vettio Valente sosteneva che l'astrologia è la regina delle
scienze, Tolomeo, nel Tetrabiblion (Opus quadripartitum, in 4 libri), fece il
tentativo di renderne ragione. Egli, peraltro, se da un lato si riallacciava,
su di un piano sperimentale, ai suoi studi di ottica (cfr. Ottica), dal-
l'altro lato, facendo tesoro degli studi di acustica (gli Armonici di Tolo-
meo, in tre libri, sono una approfondita e sistematica esposizione delle 169
diverse teorie musicali), che culminano con interessanti·
considerazioni sull'influenza della musica sull'animo e sul rapporto dei suoni
con l'ar- monia delle sfere (riprendendo teorie pitagoriche, platoniche e
aristo- teliche), poteva, su di un piano ipotetico, approfondire i motivi delle
influenze stellari e la tesi delle "simpatie," mediante certi
risultati del- l'Ottù:a e della Armonia. Galeno,81 nato a Pergamo nel 129
circa, fu uno dei medici piu colti 31 Nato a Pergamo Galeno ricevefte fin da
ragazzo una buona edu- cazione particolarmente nelle matematiche e nelle varie
concezioni filosofiche. Poi, per volontà del padre, che aveva avuto in sogno il
consiglio, da parte di Asclepio, dio della medicina, di avviare il figlio agli
studi medici, molto coltivati in Pergamo, dove sorgeva un celebre
"ospedale" (tempio di Asclepio), Galeno, a diciassette anni, entrò a
far parte dei "figli di Asclepio." Galeno, che abbondantemente parla
di se stesso nelle sue opere, dice che fu avviato alla medicina da un
"anatomista," da un "ippocratico" e da un
"empirista." Dopo la morte del padre, visitò le maggiori scuole
mediche del tempo: Smirne, Corinto ed Alessandria: si specializza in anatomia,
ma, ad un tempo, cerca di rendersi conto del significato scientifico della
medicina; ciò lo porta non solo ad ascoltare i "metodisti," ma a
preoccuparsi sempre di piu delle ipotesi filosofiche, per cui frequenta anche
le grandi scuole di filosofia (non è senza interesse ricordare che a Smirne
ascolta Albino: cfr. sopra). Tornato a Pergamo, viene nominato medico della
scuola dei gladiatori, specializzandosi in chirurgia e in dietetica. È a Roma,
clinico di fama, maestro e conferenziere ascoltato. Torna, improvvisamente, in
Oriente: si è detto a causa di un'epidemia scoppiata a Roma (in realtà.sappiamo
che in. Oriente l'epidemia fu ancora piu grave); si è detto perch~
profondamente odiato e ostacolato da certi circoli romani. Fu in Cipro, in
Palestina, in Siria, sempre attento osservatore, sempre alla ricerca di rimedi
terapeutici. Tornato a Pergamo, vi riprende la sua funzione di medico dei
gladiatori, finch~ viene chiamato da Marco Aurelio ad Aquileia, dove
l'imperatore stava per muoversi contro i Sarmatici e i Germanici. Dopo la morte
di Lucio Vero, Galeno, insieme a Marco Aurelio, tornò a Roma. Fu medico
personale di Marco Aurelio e di suo figlio Commodo. A Roma rimase piu di
vent'anni. Nel 192, in un incendio, andarono persi molti suoi trattati. Sembra
che dopo, lasciata Roma, sia tornato a Pergamo, dove mori nel 200 circa, a
settanta anni. Il pre- nome Claudio, non documentato prima del Rinascimento, è
forse dovuto a un'errata decifrazione del C/. Galenus dei codici latini: C/.
stava, probabilmente, per C/4rissimus. Della vastissima opera di Galeno sono
giunti oltre una cinquantina di. scritti. Sull'ordine dei propri libri ~ -rwv !a(c.)v ~1{3ÀL<o>Y); Dei propri
libr. (De: pl -rwv !8(6lv ~L~À(c.)v); (Depl L'ottimo medico è anche filosofo (0
- r L 6 clptcrt"O<; lct-rpòç xcxl cpLÀ6aocpot,;); Le sette: a coloro
che vi si iniziano (De:p(Gt~Y -roit; claatyo!dvott;); La migliore dottrina
{De:pl Tijt,; ~(cn"l)t,; 3t3czaxrùJatt;); Avviamento alle arti (Dp~Òt,;
iKl -Mt,;~);lcostumi dell'animoseponoitHnperamentidelcorpo(0-rt-rat!t;-roii
a&lj.Lat-rot,; xpciaccnv atl Tijt; M iit; 3uv~!J.CLt; brovrcxL); DÙiposi e
cura delle pas- sioni e dei vizi di ciascuno (ficp{ -rwv 13L6lv
hccicrt"q> ncx6wv Xatl ci(JGtp'n'I!Ui-r6lY Tijt; 3tcxyY&lac6lt;};
Medicina empirica (D c p l Tij<; lcx-rptxij<; l:rmtpLcxt,;); lpotiposi
empirica ('Tmmm<o>att,; l:~mtptx-1)); Le parti della medicina (De:p -rwv
Tijt; lat-rpr.xijt; ~wv); Introduzione dialettica o lnstitutio logica (Elacxy6lyij
3LCXÀI:X-nxf)); Sulla dimostrazione (De:pl ~no3c~); Intorno ai sofismi
linguistici {De:pl -rwv natpti -ri)v Ài~LY croq~ta!Ui -r<o>v); Le
qualita incorporee (•Qn atl noL~ cia&lj.LGt'ratL); Commenti sulla natura
dell'uomo, a Ippocrate (Dcpl cpUac6lt; Mp&lnou); Commenti alla dinll, a
lpprocrate (Dcpl 3tatLn')c; 61;t<o>v); Sulla dieta di lppocrate nelle
malattie acute (Dcpl Tijt; 'I=xpci-rout; 3tat(n'jt; l:nl -rwv 61;é<o>v
YOa'IJ!Ui'r6lY); Commento al Prorretico di Ippocrate (Elt,; 'rÒ npopp'l)-rtxòv
'I=xpci-rout;); Del coma in lppocrate (Dcpl -roii TtGtp' 170
dell'antichità. Il suo nome viene sempre avv1cmato a quello di Ippo-
crate (i due punti estremi dell'arco della medicina antica) e a quello di
Tolomeo (i due grandi sistematori della propria scienza, che per secoli ne
diverranno gli autori). Dal suo lavoro, sul piano piu stret- tamente
sperimentale, derivarono a Galeno scoperte di somma impor- tanza (in anatomia:
descrizione delle ossa, dei muscoli, dei nervi, distin- zione dei nervi in
nervi motòrii e nervi sensòrii, particolar riguardo della cassa cranica; in
fisiologia: descrizione del funzionamento del sistema circolatorio, ove si
sostiene, di contro ad Erasistrato, che il sangue circola sia nelle arterie che
nelle vene, funzione del midollo spinale con relative ripercussioni sui nervi
cranici e cervicali, mediante cui si spiegano le localizzazioni delle paralisi;
in patologia: ogni disor- dine funzionale deriva da una lesione organica; in
psichiatria: studio accurato delle passioni dell'animo). Dalle sue riflessioni,
invece, sul piano piu vagamente teorico, non poche volte gli derivarono
cantonate pericolose per piu approfondite ricerche (particolarmente in
fisiologia, dove, per spiegare certe funzioni, Galeno è ricorso alla teoria
finali- stica e a quella delle cause di origine aristotelica, alla teoria del
soffio vitale dei "pneumatici," e a quella stoica che ogni nostro
organo è per provvidenza dell'unica ragion d'essere del tutto, Dio, sistemato
là dove è bene che sia; la teoria dei quattro umori, secondo· cui, preva- lendo
l'uno o l'altro si ha uno o altro dei temperamenti: sanguigno, flemmatico,
collerico, malinconico). Ora, per capire, entro l'arco della 'l1rnoxpci-;cL
x&!(J4'n11;); Sulle prognosi di lppocrate (Eli; -ronpO)'VCa)O'TI.XW
'I=xpci- -rouç); Sulle articolazioni (IIcpl ap&pc.>v); L'officina del
medico (Ktlt-r' !ot-rpciov); “Le settimane” (Ilcpl i()3o!Lii8c.>v); “Sull'uso
delle parti del corpo umlltJo (IIcpl XPC!«ç 'riiiv lv liY&p&lnou
a&I(J4TL IJ.Op!c.>v); “Indagini anatomiche” (IIcpl -rC..V
ciwl-ro~J.~.Xél)v ·iyxcLpijacc.>v); Placita di lppocrate e di Platone (IIcpl
-rél)v XCI&' '17rn0xpci'n)V XDil Dl.ciTc.>VGt 3oyiJ.ci-r6>11}; Gli
elementi secondo lppocrate (IIcpl -rél)v XCI&' 'l=xpci'n)v
a-roLxc!c.>v); “Sui temperamenti” (IIcpl xpciO'C6>v); Sulle facol~
naturali (IIcpl q~UO'U(él)v 3u~v}; L'uso dd respiro (ttcpl xpc!otç ciwlnvoijç};
Se per natura v'è sangue nelle arterie (El XGtri. q10cn11 lv &p'n)p!«Lt;
citi(J4 ncpLixCTl&L}; [Se l'animille sia qual è nel- l'utero: El ~él)ov -ro
xa:ri. yataTp6t;]; Igiene ('Tywvci); L'ottima costituflione del corpo (IIcpl
clp!O'T"I)t; XGtTatO'XICUi'jt; ToU a&!IJ.GtTOt;); Sulla buona
costitut:ione (IIcpl. cù~(ocç}; Sugli abiti morali (IIcpll&uç); Se
llll'igiene serve di piu la medicina o la ginnastial (IIpbrcpov !ot-rpurijç f)
yu1J.IIGtO'Turijt; lo-n -ro òyl.cLv6v); Sull'eserciflio della piccol11 palÌa
(Ocpl -rou 3L« Tijç O'IJ.(xpatt; a~atLp~ 'Y'IJ.Vata!ou); Sinopsi sui polsi
(~6volj/Lt; m:pl O'qiUY~"); Sugli alimenti liquidi (IIcpl Àe7mlll06cnjç);
Sulle facolta degli alimenti (IIcpl -rpoq~él)v 3uvci1J.Cc.>t;}; Sui·
temperamenti e le facol~ dei medicamenti semplici (IIcpl xpciacc.>t; xa:l
8uvci~J.Cc.>t; -rél)v cin).él)v qlatpjl.cixc.>v); “Sulla compotiflione
dei farmaci” (IIcpl auY&ém:c.>ç qlatp~v); La teriaca (IIcpl Tijç
&JjpL«Xijc; l); Sui rimedi da pre- 'flarare (IIcpl clv-;c!'{3atllo~v);
Sulla conct#enaflione delle cause (IIcpl -rél)v auvcx-nxél)v etl-r!c.>v);
Sulla diffit:oltlJ della respirat:ione (IIcpl 8uanvo~l; I tumori contro natura
(IIcpl -rél)v natp« qiUcnV ISyxc.>v} La cura per flebotomia (IIcpl
q~>4o-roiJ.!«ç.&cpat- ncu-nx6vl; L'arte medica (TtrnJ !ot-rpudjl; [Uso
dei farmaci e dei clisteri: forse di Severo, vissuto nel v-VJ secolo); [Come ti
possono riconoscere i simulatori di malattie]. vastissima opera di Galeno, le
oscillazioni e le contraddizioni derivate dall'innesto dei due piani, da un
lato va tenuta presente la sua forma- zione e l'epoca in cui scrisse questo o
quel trattato (piu teorici quelli scritti in gioventu, piu sperimentali quelli
scritti in vecchiaia), dall'altro lato, soprattutto, la grossa discussione
sorta in medicina tra "dogmatici," "metodici" ed
"empiristi" puri. Di Galeno, attraverso Galeno stesso, sappiamo
molto. Uomo senza dubbio di eccezione, di temperamento inquieto, estremamente
ambi- zioso (in un certo momento della sua vita, clinico di moda che affa-
scina non solo per la sua bravura tecnica, per le sue diagnosi e per il suo
specifico sapere medico, ma anche per le sue teorie), Galeno fu educato da un
padre intellettuale, l'architetto Nicone, che lo avviò fin da ragazzo ai piu
rigorosi studi della matematica e del sapere in generale (filosofia), ai quali,
sempre per volontà del padre, si aggiunsero fin da quando aveva diciassette
anni gli studi di medicina. Allievo, in Pergamo, dov'era una celebre scuola
medica, di un anatomico, di un ippocratico e di un empirista, Galeno, morto il
padre, visitò, nel giro di nove anni i piu famosi centri di medicina - Smirne,
Corinto, Ales- sandria-, frequentando, ad un tempo, anche le maggiori scuole
filosofiche. A Pergamo, diviene medico dei gladiatori, specializzan- dosi in
chirurgia. È a Roma, dove acquista grande fama. Forse a causa di un'epidemia,
lascia Roma. Viaggia in Oriente; è a Cipro, in Palestina, in Siria; ovunque
prosegue le sue osservazioni, raccoglie cartelle cliniche, cerca di rendersi
conto delle varie concezioni che possano servire a comprendere il funzionamento
del corpo umano. Poco dopo essere tornato a Pergamo, dove riprende il suo pòsto
di chi- rurgo presso la scuola dei gladiatori, viene. richiamato in Italia, ad
Aquileia, dall'imperatore Marco Aurelio, di cui divenne medico di fiducia.
Morto Marco Aurelio, lo fu di Commodo. Rimase a Roma, medico celebre, dedito
alla pratica medica e alla redazione definitiva delle sue opere, fin verso il
199. Tornato a Pergamo vi mori nel 200 circa. E qui vanno sottolineate due
cose: Galeno cominciò a scrivere fin da quando aveva diciotto anni e non fu
solo formato nell'arte medica e nelle varie teorie mediche in discussione;
egli, fin da giova- nissimo, venne anche formato dagli studi matematici e dagli
studi rela- tivi al "sapere" in generale, dibattutissimi nelle scuole
filosofiche. E cosi va ricordato che prima del 165 sembra ch'egli avesse già
composto le sue maggiori opere teoriche, insieme a quelle di anatomia e di
fisio- logia, mentre i grandi trattati di terapia e di patologia, le opere piu
strettamente tecniche e frutto della sua lunga opera di sperimentatore,
sarebbero state composte durante i suoi soggiorni romani. Non è questo che un
accenno, ma ciò va tenuto presente da chi voglia ricostruire la personalità e
la concezione medica di Galeno, senza ricorrere alla facile etichetta del
"Galeno eclettico." In realtà, l'opera di Galeno è estremamente
problematica, e sorge da un continuo dibattito tra la tesi estrema
dell'empirismo di un Menodoto, che, sia pure per polemica, giungeva,
dimostrando il pericolo che nella ricerca medica è rappresentato da
qualsivoglia teoria in astratto, a negare la possibilità di fondare una scienza
medica, e l'esigenza - propria, del resto, alla discussione delle scuole
filosofiche - di cogliere, attraverso l'esperienza stessa (che altri- menti
rimarrebbe come non fatta, se si limitasse ad una pura enume- razione), le
condizioni che permettono di dare un senso, cioè di domi- nare e ordinare i
dati dell'esperienza. Gli stessi "segni rammemora- tivi" -
fondamentali in medicina - hanno un'utilità, solo quando ci si renda conto di
come, costituendosi insieme, l'uno implichi necessa- riamente l'altro; la
stessa esperienza perciò funziona solo quando si giunga da un lato a
determinare come è che si pensa, come cioè si costituiscono i giudizi (logica:
cfr. Institutio logica), e dall'altro lato, quando, in quanto si giudica,
implicando ciò la definizione e, perciò, il genere prossimo e la differenza
specifica, si determinano le cause di un certo gruppo di fenomeni. Per gli dèi,
per quanto riguarda i miei maestri, anch'io sarei caduto nell'aporia dei
Pirroniani, se non avessi posseduto gli elementi della geome- tria aritmetica e
logistica (ÀoyLG't'LX~), in cui fin dall'inizio avevo fatto pro- gressi,
istruito per molto tempo da mio padre, il quale aveva ereditato la teoria dal
nonno e dal bisnonno. Vedendo; dunque, che non solo mi appa- rivano chiaramente
vere le questioni relative alle previsioni delle eclissi [...lacuna], ritenni
fosse meglio valersi del tipo delle dimostrazioni geome- triche; e infatti
riscontravo che gli stessi dialettici piu esperti e i filosofi, pur essendo
discordi non solo tra di loro, ma anche con se stessi, tutti, nello stesso
modo, esaltano comunque le dimostrazioni geometriche (Galeno, De propriis
libris). Tale fu lo sforzo continuo di Galeno, nel suo tentativo di delineare,
proprio perché sia possibile la diagnostica, e.perciò stesso non solo la
terapia, ma un'azione preventiva, un complesso di principi teorici, di quadri
clinici, di cause entro cui ordinare un certo insieme di fenomeni o provederne
altri, insieme al rintraccio di quelle che sono le condizioni formali che permettono
una deduzione. Se da un lato, cosi, Galeno riprendeva certi aspetti della
logica for- male di Aristotele (in particolare la costruzione dei sillogismi,
quale appare negli Analitici Primi: cfr. lnstitutio logica; secondo Averroè a
Galeno risalirebbe la quarta figura del sillogismo), si capisce come,
dall'altro lato, Galeno per spiegare, particolarmente in fisiologia, le
funzioni dell'organismo, volte al mantenimepto ed equilibrio del tutto in una
specie di finalità naturale, assumesse, ·sia pure per ipotesi, il finalismo
biologico di origine aristotelica; e che, per spiegare il fatto vita- lità,
ricorresse all'ipotesi stoica (propria della corrente stoico-vitalistica,
risalente forse a Posidonio, che non poche volte Galeno cita) delle forze,
degli "spiriti" vitali, per cui il "pneuma" si realizza
come "spi- rito cerebrale" (pneuma psichico), · come "spirito
vitale," o animale, vero e proprio, che dà vita e che dalla sua fonte, che
è il cuore; muove il sangue nelle arterie, e come "spirito naturale,"
che dalla sua fonte, che è il fegato, mette in movimento il sangue nelle vene.
Di qui, nell'àmbito di questa concezione dell'uomo che in piccolo (micro)
ripete il grande (macro) cosmo, la teoria - di chiara origine ippocra- tica -
dei temperamenti (i quattro elementi, fuoco, aria, acqua, terra, le cui potenze
o qualità sono il caldo, il freddo, l'umido e il secco, si ritrovano
nell'organismo umano come sangue, forza vitale vera e propria, come flegma,
bile gialla e bile nera; dal sangue, che ha in sé in circolo i quattro umori;
si determina o l'equilibrio degli umori o il prevalere dell'uno o dell'altro,
donde i temperamenti: sanguigno, flemmatico, collerico e malinconico). Non è
qui il caso di soffermarci sulla patologia e sulla terapeutica di Galeno.
Basti· ricordare che esse si fondano sulla sua biologia: si sostiene che la
salute consiste in un'ar- monica ed equilibrata resultante delle forze operanti
nell'organismo, e la malattia in una rottura dell'equilibrio, in un eccesso o
difetto delle forze vitali, e che compito del medico è, attraverso una
conoscenza pre- cisa dell'anatomia e della fisiologia, ed un'analisi minuta e
ampia dei sintomi, operare sulla natura, si che la natura ritrovi il suo
equilibrio.A seconda dei testi di Plotiilo sui quali si verrà puntando - chi
direttamente lo ascoltò profondamente fu colpito dalla sua forza intel- lettiva
e dalla dirittura ascetica della sua vita: cfr. la Vita scritta da Porfirio -
si potranno reinterpretare in termini simbolico-allegorici certe precedenti
effettive credenze nei misteri, nella funzione della magia e nelle pratiche
teurgiche, sostenendone l'assurdità, se prese in forma non allegorica,
assumendo dai vecchi riti, culti, misteri, l'orfico.in particolare, tutto ciò
che poteva servire a indicare plotinianamente il ritorno dell'anima a se stessa
e al divino, in termini etico-religiosi (ciò specialmente si vede in Porfirio,
quando si tengano presenti le due fasi del pensiero porfiriano: prima e dopo
l'incontro con Plotino); oppure si potrà, mettendo in evidenza certe
espressioni religi<>so-miste- riche e l'indiscorribilità del contatto con
runo, o del farsi uno nel- l'anima di ciò che vien compreso, entro i termini
della concezione del- l'universo di Plotino, riprendere il motivo secondo cui
tutte le cose sono anime, dèi, aventi perciò una loro potenza e il motivo della
libe- razione dell'anima, che rifacendo propria tutta la realtà, si salva dive-
nendo simile al dio e con ciò stesso divenendo assoluta potenza e libertà.
Entro questo quadro, cosi, si giustificavano non solo certi misteri, ma anche
certe pratiche teurgiche (ciò si vede bene in Giamblico, disce- polo di
Porfirio, e piu tardi in Proclo, i quali cercheranno di mostrare quali siano le
tecniche mediante cui, comprese certe potenze, certe anime, si afferra l'anima,
che può essere anche uno o altro elemento, uno o altro simbolo, e si mette
nelle cose, per poi dominare altre cose, altri dèi: di qui, attraverso la magia
imitativa, si cercava di determinare le possibilità di una magia operativa). Lo
stesso Porfì.rio/ nato forse a Batanea, in Siria, detto anche di Tiro, avendovi vissuto per un
certo periodo, narrando il suo primo incontro con Plotino, avvenuto in Roma,
nel 263 circa, scrive: "Nelle adunanze, Plotino sembrava uno che
conversasse e nessuno vi l Nacque forse a Batanea, in Siria, (fu detto anche di Tiro, avendovi vissuto
j)<'r un certo periodo). "Io, Porfirio, avevo inoltre anche il nome
Basilio, essendo chiamato nell'idioma patrio, Maleo - tale pure era il nome di
mio padre. Ora Maleo significa re: cioè Basileus [Basilio], se si vuoi renderlo
in lingua greca" (Vita Plot.). A Cesarea di Palestina conobbe Origene ed
entrò in dimestichezza con lui. Ebbe qui i primi contatti con la scuola
cristiana. Ad Atene ascoltò Longino Cassio, che, insieme a Plotino, era stato,
in Alessandria, discepolo di Ammonio Sacca. Longino Cassio, di cui Plotino
diceva: "filologo si, ma filosofo no, affatto!" (Porfirio, Vita
Plot.), iniziò Porfirio alla filosofia platonica e, particolarmente, alla retorica,
in cui Longino fu celebre (di Longino si hanno frammenti di un Trattato di
retorica; perduti sono andati i libri Sul Fine e Sui principi; si è oggi
convinti che il trattato Sul sublime non sia di Longino}. A trenta anni circa
Porfirio andò a Roma, dove, conosciuto Plotino, ne divenne, insieme ad Amelio,
uno dei piu fedeli discepoli e collaboratori. "Nel decimo anno del regno
di Gallieno, io, Porfirio, giunsi dalla Grecia in compagnia di Antonio Rodio. E
appresi che Amelio, pur frequentando la scuola di Plotino da diciotto anni, non
aveva osato ancora scrivere altro che gli Sco/ii, i quali peraltro non avevano
ancora raggiunto il centinaio. Platino, nel decimo anno del regno di Gallieno,
aveva, all'incirca, cinquantanove anni, ed io, Porfirio, allorché m'incontrai
la prima volta con lui, avevo trent'anni" (Vita Plot.,). Alla scuola di
Plotino, Porfirio abbandonò molte delle sue vecchie opinioni, o meglio le
riordinò entro i termini della concezione plotinica. Collaboratore e amico di
Plotino, visse intensamente la vita della scuola j)<'r cinque anni, finché
ammalatosi di esaurimento nervoso, su consiglio dello stesso Plotino, si recò
in Sicilia (nel 268 circa) per rimettersi in salute. In Sicilia (al Lilibeo)
soggiornò due anni. Platino era morto nel 2 7 0 · - tornò a Roma, dove riprese
la sua attività di maestro proseguendo l'insegnamento di Plotino e dedicandosi
all'edizione degli scritti di Plotino, che pubblicò tra il 300 e il 304.
Porfirio mori a Roma. Porfirio scrisse molto. Per una ricostruzione del
P<'nsiero di Porfirio, vanno tenuti presenti i j)<'riodi in cui si
suddivide la sua produzione: l. Prima dell'incontro con Plotino; 2. Durante il
soggiorno romano alla Scuola di Plotino; 3. Durante il soggiorno in Sicilia e
il secondo a Roma dopo la morte di Plotino. Appartengono al primo j)<'riodo:
La filosofia desunta dagli oracoli (frammenti); Questioni americhe (framm.);
Storia della filosofia in 4 libri, di cui resta solo il l, La t•ita di Pitagora
(il II era dedicato a Empedocle, il III a Socrate, il IV a Platone: ne restano
una ventina di frammenti); Introduzione all'astrologia di Tolomeo; Commento
agli Armonici di Tolomeo (framm.); Sulle immagini (framm.). Appartengono al
secondo j)<'riodo, frutto dell'attività scolastica, Commenti a opere di
Platone (al Crati/o, al Sofista, al Parmenide, al Timeo, al Filebo, al Convito,
al Fedone, alla Repubblica); una Discussione con Amdio; una discussione sullo
scritto di Eubulo, scolai-ca dell'Accademia di Atene, Ricerche platoniche (di
questi scritti abbiamo solo notizia); un Commento a L'affermazione e negazione
di Teofrasto (J><'rduto); Commenti alle Categorie di Aristotele (framm.),
al De interpretatione di Aristotele (framm.), alla Fisica di Aristotele, al XII
libro della Metafisica di Aristotele, all'Etica di Aristotele e ad alcuni passi
del De anima di Aristotele (di questi commenti son rimasti pochi fram- menti e
notizie); lntroduzion~ o lsagoge alle Categorie; lsagoge ai Sillogismi
categorici. Appartengono al terzo j)<'riodo: Contro i Cristiani in 15 libri
(framm.); Lettera al sacer- dote Anebo (framm.); Cronografia (framm.); Sul
ritorno dell'anima (framm.); Sull'asti- nenza (framm.); Sul dio sole (framm.);
Commenti agli Oracoli Caldaici (citati nel Ritorno dell'anima); Lettera a
Marcel/a (framm.; Porfirio sposò in vecchiaia la vedova Maccella j)<'r
aiutarla ad allevare i figli); L'antro delle Ninfe (framm.); Sul "conosci
te stesso" (notizie); Gli slanci dell'anima verso l'intelligibile o Sentenze;
Vita di Plotino, premessa all'edizione delle Enneadi, e Commentari ad alcuni
trattati delle Enneadi. vedeva affiorare, a tutta prima, la forza della
costn,1zione logica rac- chiusa nel suo ragionamento. Io stesso, Porfirio, ebbì
quindi a subire una s,imile impressione, quando lo udii la prima volta. Mi
spinsi perciò a presentargli un saggio critico, in cui tentavo di dimostrare,
contro la sua tesi, che gli intelligibili hanno esistenza fuori
dell'Intelletto. Egli se lo fece leggere da Amelio e, a lettura finita, con un
sorriso: 'è fac- cenda tua,' disse, 'o Amelio sciogliere i dubbi, nei quali,
per mancata conòscenza della nostra dottrina, Porfirio è caduto.' Amelio
scrisse un libro, tutt'altro che breve, Contro le aporie di Porfirio. lo
scrissi di bel nuovo in risposta al suo scritto. Amelio vi replicò ancora. Alla
terza volta, sia pure con un po' di fatica, io, Porfirio, compresi il loro pen-
siero e mi convertii. Stesi una Palinodia che lessi in seno alla riunione.
D'allora in poi, anche in rapporto ai libri di Plotino, fui considerato l'uomo
di fiducia. E fui io a destare nel maestro stesso l'ambizione di articolare e
di sviluppare, per iscritto, i suoi pensieri" (Vita Plot.). Prima di
conoscere Plotino, Porfirio, che a Cesarea aveva conosciuto Origene, che ad
Atene aveva ascoltato il retore e platonico Longino Cassio, e ch'era stato ad
Alessandria, aveva fortemente subito l'influenza delle dottrine
religioso-misteriche, diffusissime, che senza dubbio erano state presenti anche
a Plotino, ma che Porfirio non aveva criticamente discusso, né risolto in una
costruzione logica. È certo che Porfirio fu da giovane attratto dalle
suggestioni dei maghi e dei teurghi, dando un particolare significato a ciò che
si poteva desumere dalle sedute in cui si evocavano gli spiriti, in una
interpretazione simbolica di ciò che.quegli spiriti evocati dicevano (oracolt).
Di qui l'opera di Porfirio, dal significativo titolo Sulla filosofia tratta
dagli oracoli (ne:pt njç ~x Àoy(Cùv qnì..oao'P(otç), pubblicata prima che
Porfirio en- trasse in contatto con Plotino, e dai cui frammenti si ricava,
appunto, che Porfirio si serviva di oracoli dovuti, com'è stato detto, a
"medium" durante sedute spiritiche, e che l'opera era una specie di
trattato di teurgia, da cui si potevano ricavare tecniche e pratiche rituali
mediante le quali ricondurre l'anima alla propria divinità. In questo stesso
pe· riodo preromano, Porfirio scrisse un'opera in quattro libri dedicata alla
ricostruzione piu che del pensiero, del modo di vita di filosofi, o, meglio, di
vite ispirate, demoniache, indicazioni mediante cui salvare l'anima, e in cui
egli, riallacciandosi a una certa tradizione platonica (partiro larmente a
Moderato di Gades), vedeva il piu profondo significate della filosofia: non a
caso, cosi, i quattro libri erano dedicati il prime a Pitagora, il secondo a
Empedocle, il terzo a Socrate, il quarto a Pla· tone. Di essi è giunto solo il
primo, la Vita di Pitagora; degli altri non sono rimasti che una ventina di
frammenti. Già indicativa di un certe modo di intendere il filosofare è
l'architettura dell'opera; la Vita d1 236 Pitagora, poi, dà il
metro esatto dei termini entro cui Porfirio, nel rico- struire il significato
del pitagorismo, vedeva la funzione ascetica della filosofia nell'evocazione
del proprio dèmone, e nella traduzione in ter- mini simbolico-numerici di tutta
la realtà, che Pitagora avrebbe desunto dagli Egizi, dai Caldei, dai Fenici e
dai Magi (cfr_ Vita Pit., 6; interessante è ricordare che Porfirio ricostruisce
la vita di Pitagora met- tendo insieme i testi piu diversi, tratti da Cleante,
Apollonio, Davide di Samo, Lico, Eudosso, Dionisofane, Dicearco, Nicomaco,
Antonio Diogene, Moderato). E cosi è altrettanto indicativo che Porfirio abbia
scritto, sempre in questo primo periodo, un'Introduzione all'astrolo- gia di
Tolomec. (EtaatywyYj etc; -r~v <Ì.7ton:ÀEafJ.Ot'rtx~v -rou IhwÀEfJ.Ot(ou) e
un trattato Sulle immagini. Senza dubbio l'incontro con Plotino pro- vocò in
Porfirio una crisi, ma piu teoretica che morale. Egli, evidente- mente, rivide
le. proprie credenze al lume del rigoroso metodo ploti- niano, scoprendo il
significato delle proprie esigenze etico-religiose, e dando ad esse, entro i
termini della concezione di Plotino, una sistema- zione logico-ontologica,
mediante cui segnare le tappe di un itinerario dell'anima a Dio, entro cui
potevano rientrare anche i vecchi misteri, le vecchie credenze, i vecchi miti,
intesi però simbolicamente, assunti per ciò ch'essi potevano servire a
convertire l'anima a se stessa, a libe- rarla dalla dispersione sensibile:
insignificanti, anzi assurdi, se presi unilateralmente per sé. I frutti di tale
"conversione" al plotinismo, come dice lo stesso Porfirio, e del suo
atteggiamento nuovo nei con- fronti della elevazione morale e religiosa si
vedono bene nelle opere che Porfirio cominciò a comporre dal 269 in poi, dal
tempo del suo soggiorno in Sicilia, dopo che vissuto in Roma per sei anni,
fianco a fianco con Plotino, in un intenso lavoro di scuola, tra lezioni,
discus~ sioni, seminari, rielaborazione e trascrizione degli scritti e delle
lezioni del maestro, colpito da una grave forma di esaurimento, che lo con-
dusse sulla soglia del suicidio (cfr. Vita Plot.), si allontanò dalla scuola,
su consiglio dello stesso Plotino (cfr. ib.), per prendersi in Sici- lia un
periodo di riposo. 'Porfirio soggiornò in Sicilia due anni circa; tornò a Roma
dopo la morte di Plotino, e a Roma, divenuto il continuatore ideale
dell'insegnamento di Plotino, intensamente lavorò alla divulgazione e alla
sistemazione del pensiero del maestro, fino alla mortè, avvenuta nel 305. Se il
nuovo atteggiamento nei confronti della magia e della teurgia popolari si vede
bene nella Lettera ad Anebo, sacerdote egizio, in cui criticamente si mette in
discussione, appunto, la funzione della teurgia, dimostrando la confusione e
l'irrazionalità di molti e torbidi riti, mi- steri, pratiche, la contraddizione
di distinguere le divinità in buone e malefiche, prestando alla divinità
passioni, esigenze, volontà umane ("autentiche invenzioni di uomini e
finzioni della natura umana": Lett. a Anebo, 49); nella Lettera a
Marcel/a, sÙa moglie, si vede bene il significato dato da Porfirio
all'elevazione morale-religiosa, dovuta ad una purificazione dell'anima, in un
ritorno dell'anima a se stessa, in un dominio di se stessi, che è il dominio
che l'anima, in quanto con- sapevole, ha di tutte le cose, ché tutto dipende da
noi stessi, e perciò dall'anima e quindi dall'Intelletto e da Dio. Sotto questo
aspetto Por- lirio reinterpretava, in termini plotiniani, il motivo stoico
(Cornuto, Epitteto), secondo cui libera è ranima che dipende da se stessa, onde
la virtu consiste nell'adeguarsi alla legge di natura ("l'intelletto segua
Dio, e ne contempli in sé l'immagine; l'anima segua l'intelletto; alla anima
serva {>er quanto è possibile il corpo, fatto puro a lei pura": A
Marcel/a, 13; "Facciamo conto solo delle cose che dipendono da noi":
ib., 5; "l'intelletto è maestro, salvatore, nutrimento, custode e guida:
esso intende la verità nel silenzio e discoprendo la legge divina con la
contemplazione di se stesso riconosce nel suo intimo la legge impressa sin
dall'eternità nell'anima; devi considerare anzitutto la legge naturale, da
questa devi risalire alla legge divina, che è fondamento di quella naturale;
ancorata a queste leggi, non temerai nessuna legge scritta"). La
concezione di Plotino giustificava, cosi, in termini logico-intel- lettuali,
l'esigenza etico-religiosa di Porfirio, che particolarmente fu col- pito dalle
discussioni di Plotino sull'anima, intesa come consapevolezza di sé, come
capacità di cJndurre a sé se stessa spersa fuori di sé, fino a giungere a
vivere, indiandosi, la vita del tutto. Non a caso Porfirio punta sempre
sull'anima, sulla "conversione" dell'anima, sull'anima entro cui è la
verità, che ci trascende dal di dentro, qualora si sappia ascoltare l'anima
stessa, il nostro piu vero ed intimo "maestro" ("tu hai in te un
maestro": A Marcel/a, 9). "Raccoglierai e unificherai le tue intime
facoltà, se cercherai di articolarle quando sono ottenebrate: anche il divino
Platone partendo di là ha richiamato dalle cose sen- sibili alle
intelligibili" (A Mareella). D i qui, sembra, lo stesso modo con cui
Porfirio, raccogliendo e pubblicando i vari scritti di Plotino, pur
conoscendone l'ordine cronologico (cfr. Vita Plot., 4-6), ha ordinato, nel
costituire il "libro" del neoplatonismo, i trattati plo- tiniani,
cominciando appunto dall'individuo e dal sensibile. L'ordina- mento delle
Enneadi rispecchia senza dubbio l'interpretazione di Porfirio, il quale, per
altro, vede, con Plotino, nell'anima il punto in cui si incentra l'universo
tutto; se l'Anima da un lato è unità trascendente se stessa nell'unità vivente
dell'Intelletto-intelligibili (l'au- tovivente, l'IXÒ't'o~<;iov del Timeo),
che trova il suo fondamento nel- l'Uno, dall'altro lato, l'Anima, in quanto
affermazione di sé, riproduce la molteplicità dell'Intelletto, dando luogo alle
cose (l'anima demiurgo), e prende coscienza di sé in quanto, limitazione di se
stessa (anime singole ed empiriche), per cui l'anima dapprima dispersa, rotta
nelle cose, passiva, facendosi cosciente di ciò, oltrepassa il limite, ricondu-
cendo a sé le cose stesse. Di qui proviene la distinzione porfiriana delle
funzioni dell'anima singola: l'anima è puramente spermatica finché, inconscia,
è essa stessa le cose; eidolica, immagine, allorché si rappre- senta i corpi
come altro da sé, e come limiti; logica, quando coglie se stessa come discorso
unificante, articolando il molteplice; noetica, quando dalla dispersione
sensibile, dalla coscienza del limite, dall'unità del molteplice fuori di sé,
intuitivamente coglie il tutto Uno in sé, solle- vandosi all'intelletto;
anoetica, quando perde se stessa facendosi una nell'Uno. Le anime particolari,
dunque, sono nell'Anima del mondo, e da essa emergono senza che essa sia
divisa, si come tutte le cose, cieli, stelle e cosi via fino alla terra, sono
nell'Anima del mondo e da essa emergono, in limiti sempre maggiori, sempre piu
corposi, onde appunto sono i corpi ad essere nelle anime; tutto perciò può essere
interpretato in un rapporto di "simpatia," di reciproche influenze,
di imitazioni, in una gradualità di anime che vanno dalle superiori anime
celesti (gli astri) alle inferiori anime singole, ciascuna delle quali è,
dunque, legata alla sua stella, mediante una serie di anime intermediarie
(dèmoni). La realtà tutta è, perciò, sotto questo aspetto buona, divina; e il
male non ha alcuna realtà, alcun principio, se non nell'anima stessa, nella sua
capacità di rimanere nel limite, o di guardare in sé. Appunto in questo primo
guardare in sé dell'anima, nel momento dell'imma- gine, in cui la realtà appare
come altra dall'anima, avente un suo limite e una sua figura, una sua
corporeità, essa si rappresenta le anime stesse come figure, come corpi,
provenienti dall'Anima dell'Universo, condotte da un soffio vitale eterno (il
pneuma, veicolo o ochema del- l'anima) passato attraverso le sfere dei pianeti,
di cui assume l'aspetto, determinando quindi il nostro carattere, e quello dei
dèmoni. Partico- larmente interessante sembra questo aspetto della dottrina di
Porfirio, esposta nel De regressu animae (fr. 3 Bidez), da cui chiaramente
appare che l'universo costituito di anime, di astri, di dèmoni, J;).on è tanto
una realtà data, ma la visione del primo momento del ritorno del pensiero a se
stesso, appunto il momento dovuto all'anima nella sua attività eide-
tico-immaginativa. Proprio entro questo momento funzionano epos- sono essere
ripresi, per chi non sia filosofo, per chi non sappia elevarsi al momento
logico e noetico, i riti, le pratiche magiche e teurgiche, in quanto servono a
purificare l'animà, a dare a tutti la coscienza che ciascuno è divino, che
tutto è divino, che infiniti, nell'Unità del divino, sono gli dèi. E ~ i riti,
i culti, le credenze, non hanno piu significato per chi sia filosofo - una
élite, - essi hanno una funzione terapeutica e ordinatrice per la massa. È
sull'anima "pneumatica," e mediante essa sull'immaginazione - scrive
il Bidez - che le cerimonie liturgiche agiscono. "Esse presentavano
all'anima pneumatica simboli di natura tale da suggerire una reminiscenza e un
vago scorcio della verità. I riti placano i cattivi dèmoni che assediano il
'veicolo.' Con visioni mera- vigliose, fanno vivere lo 'spirito' nella società
degli angeli e degli dèi. Rendono capaci di ricevere la loro visita - cfr. De
regressu animae, 2, 6. - Senza dubbio in virtu della legge di assimilazione, a
forza di contemplare questi esseri puri, l'uomo si libera dalle influenze per-
niciose e si sbarazza di ogni effluvio malsano. La purificazione progre- disce
via via che l'animo fa sf che in sé si produca l'effetto della pro- pria
devozione, e la pratica della continenza, che a rigore potrebbe bastare - cfr.
De regr. an., 7; anche De abstinentia - renderà la sua liberazione ancora piu
sicura. Il successo definitivo non è tuttavia sicuro. Benché sia essenzialmente
diversa dalla magia volgare, la teurgia è sempre aleatoria, fallace, e
pericolosa" (Bidez, Vie de Porphyre, Gand- Lipsia). Se è vero - sottolinea
Porfirio - che le pra- tiche teurgiche sono capaci di purificare la "anima
pneumatica," esse tuttavia non possono operare il completo ritorno
dell'anima a Dio, e possono essere pericolosissime in mano a ciarlatani (cfr.
De regressu anim·ae). "Perciò l'uomo saggio e prudente si asterrà dal
servirsi di sif- fatti sacrifici, mediante cui attirerà a sé cosi fatti dèmoni
malvagi; si studierà invece con ogni mezzo di purificare l'anima, poiché quelli
all'anima pura non si attaccano per la dissimiglianza da loro" (De
abstinentia). E dirà Sant'Agostino, commentando il De regressu animae;
"Porfirio promette quasi una purificazione dell'anima, per mezzo della
teurgia, ma con esitazione e con discussione in certo modo pudibonda. D'altra
parte nega che tale arte offra a chi che sia la con- versione a Dio, sicché lo
vedi... fluttuare fra alterne opinioni" (De civitate Dei). E qui non va
scordato che Porfirio si era in gioventu formato in Siria, a Cesarea, ad Atene,
ad Alessandria. Fu quella un'epoca in cui diffusissime erano le religioni
misteriche, e, entro queste, le pratiche rituali magiche e teurgiche,
particolarmente provenienti dall'ambiente siriaco, ma che si venivano
incontrando e fondendo con le religioni della tradizione occidentale, in una
trasformazione vicendevole, in una spiegazione dell'universo e del destino
umano in termini diversi dai soliti, rispondente, per altro, alla nota,
profonda crisi, traversata dal- l'Impero dal tempo di Commodo, successore di
Marco Aurelio. E qui va ricordata l'importanza data da Settimio Severo a Serapide
egizia, ma ancor piu va ricordata la diffusione che in tutto 240
l'Impero, per un certo periodo dominato da imperatori di provenienza
siriaca, per via materna, ebbe il culto del siriaco dio Sole (pensiamo a
Caracalla, e in particolar modo a Eliogabalo,
che vittorioso su Macrino, per aiuto della madre Mesa, siriaca,
sacerdotessa del Sole, come lo era stata Giulia Domna, moglie di Set- timio,
impose in Roma il culto solare, con tutti i riti, i culti, le mera- viglie ad
esso connesse). Sono, questi, dati che vanno tenuti presenti per rendersi conto
da un lato della complessità di questo periodo e della difficoltà eh'esso
presenta per intenderne le molte sfumature, richiami, allusioni, dall'altro
lato per comprendere, tra il terzo e il quinto secolo, lo strutturarsi e il
cristallizzarsi di piu correnti in scontri e incontri, determinanti alla fine
una comune atmosfera culturale, ove già chiare sono le linee della cultura
propria del Medioevo. Il notevole tentativo di Porfirio fu, dunque, entro la
concezione di Plotino, di coordinare e dare un senso alle pratiche teurgiche e
magiche, di rendere conto della funzione dei riti, dei culti, delle stesse
credenze religiose, valide da un lato come avviamento per gli uomini comuni,
dall'altro lato come avviamento alla filosofia. Entro questi termini, sem- bra,
vanno considerate le ultime opere di Porfirio: il Commento agli Oracoli
caldaici (gli Oracoli sono da lui piu volte citati e usati nel De regressu
animae), uno scritto su Il Dio Sole (di cui si leggono vasti brani nel primo
libro dei Saturnali di Macrobio), in cui, appunto, il siriaco Sole viene ad
essere posto come il simbolo dell'unità vivente, sulla linea della tradizione
del sole platonico e stoico, emergente dal- l'Uno, dall'Uno Dio Bene; e quella
specie di breviario che è Gli slanci dell'anima verso l'intelligibile
('AcpopfLOCL 7tpÒc; -rli: V01)'t"OC) (una summa di regole plotiniane per
ritornare dal sensibile all'Anima, all'Intelletto, a Dio, dapprima mediante una
condotta di vita ascetica, poi mediante una sempre piu approfondita meditazione
dell'anima su se stessa). Gli Slanci dell'anima furono scritti per gli
addottrinati, per chi, attraverso la scuola, riceve la capacità di inserirsi
nella catena degli eletti ispirati, per chi, purificatosi, ha la capacità di
"conoscere se stesso" (non a caso Porfirio scrisse anche un'opera sul
Conosci te stesso), di passare in un convertimento dell'anima a se tessa ad
essere filosofo. E qui ha un particolare interesse la classificazione
porfiriana delle virtu (il capitolo 32 degli Slanci, attraverso Macrobio, che
ne dette un sunto nel Somnium Scipionis, ebbe non poca influenza sulla
classificazione delle virtu, nel Medioevo): virtu civili ("fondate sulla
moderazione delle paso;ioni esse consistono nel seguire ed obbedire alla
ragione nei doveri attinenti alle azioni; sono dette l · Oli, perché riguardano
la sicurezza del prossimo nella società; la saggezza si riferisce alla parte
razionale, la fortezza all'irascibile, la temperanza consiste nell'accordo e
nell'armonia della parte concupiscibile con la ragione, la giustizia nel dovere
di ciascuna parte nel comandare e nell'ubbidire"); virtu catartiche
("proprie del- l'uomo contemplativo..., sono le virtu dell'anima che si
eleva, purifi- candosi, all'essere realissimo, e a cui si giunge mediante le
civili; la prudenza, perciò, nelle virtu catartiche, consiste nel non opinare
con- forme al corpo, ma nell'agire puro, cioè nel pensare con purezza; la
temperanza consiste nel non aderire alle passioni; la fortezza nel non temere
il distacco dal corpo, quasi sia un cadere nel vuoto e nel nulla; la giustizia
si ha quando la ragione e l'intelligenza comandano senza trovare
resistenza"); virtu intellettuali (''sono le virtu proprie del- l'anima
intellettualmente attiva; in questo caso, la sapienza e la pru- denza
consistono nella contemplazione di ciò che la mente possiede; la giustizia è il
compimento della propria funzione, in quanto segue l'intelletto e opera
conforme ad esso, la temperanza è una conversione interiore, verso l'intelligenza;
la fortezza è impassibilità che si adegua a ciò che contempla e che ha natura
impassibile"); virtu esemplari o paradigmatiche ("sono le virtu che
esistono nella mente e sono supe- riori alle virtu dell'anima, delle quali sono
gli esemplari, cosi come di questi le virtu dell'anima sono somiglianze...: qui
la scienza è pru- denza, la sapienza è intelletto che conosce, la temperanza è
conver- sione verso la propria interiorità, la giustizia è compimento del pro-
prio dovere e la fortezza consiste nell'identità con se stesso, nel rima- nere
sempre in interiore purezza mediante le proprie forze"). Scopo delle virtu
civili è di imporre una misura alle passioni per agire conforme alle leggi di
natura; delle catartiche è di svincolarsi completamente dalle passioni; delle
altre è di agire secondo l'intelletto senza avere neppure il pensiero di
separarsi dalle passioni; delle ultime infine non è piu quello di rivolgere il
proprio atto verso l'intelletto, ma di toccare la mèta cun la propria essenza.
Perciò chi agisce conforme alle virtu civili è uomo onesto; chi conforme alle
virtu catartiche è uomo demonico o dèmone buono; chi conforme alle sole
intellettuali è dio; chi conforme alle paradigmatiche è dio padre. Per questo
dobbiamo occuparèi soprattutto delle catartiche cer- cando di possederle in
questa vita e salire poi, attraverso queste, alle piu pregevoli... Anzitutto,
base e fondamento della purificazione è conoscere se stessi... (Slanci).
Duplice è la morte: l'una, la piu nota, si ha quando l'anima si scioglie
da~AArpo: non sempre l'una segue l'altra...; e l'anima si lega al corpo quando
si volge alle passioni che derivano da esso; da esso si libera allorché non è
piu toccata da quelle (Slanci, 9 e 7). Probabilmente composti al tempo in cui
Porfirio frequentò Plotino in Roma, certamente frutto dell'attività scolastica,
entro l'àmbito della discussione e del metodo plotiniani, sono i commenti di
Porfirio ad alcuni testi di opere di Platone (Cratilo, Sofista, Parmenide,
Timeo, Filebo, Convito, Pedone, Repubblica), ad uno scritto di Eubulo (Ricer-
èhe platoniche), ad uno scritto di Teofrasto (Sulla affermazione e la
negazione) d ad alcuni libri di Aristotele (Categorie, ivi compresa
l'Introduzione o lsagoge alle Categorie; De interpretatione, ivi com- presa l'Isagoge
ai Sillogismi categorici; Fisica; libro XII della Meta- fisica; Etica; alcuni
passi dell'Anima relativi all'entelechia). Se non poco indicativi sono i
dialoghi platonici presi in discussione, altrettanto indicativa della funzione
assunta dalla filosofia di Aristotele nell'àm- bito del platonismo di Plotino e
di Porfirio, è la scelta dei libri di Aristotele. La Fisica e il XII libro
della Metafisica (il libro su Dio: cfr. sopra, I vol.) potevano benissimo
servire da introduzione a inten- dere lo strutturarsi della realtà dall'Uno
platonico, l'Etica da introdu- zione a intendere le virtu civili, catartiche e
intellettive, mentre le Categorie e il De interpretatione, se assunti nel loro
aspetto formale- grammaticale - e qui Porfirio, riprendendo le fila della lunga
discus- sione e del conflitto sulle categorie aristoteliche nel campo del
plato- nismo nel n secolo, polemizza con Plotino che, interpretando le cate-
gorie contenutisticamente, le negava, sostenendo di contro la validità dei
cinque generi del Sofista platonico- servivano come introduzione al "saper
pensare," come condizioni che permettono il ragionamento entro l'àmbito
dell'Intelletto-intelligibile, donde poi, platonicamente, dedurre le strutture
logiche che rendono pensabile la realtà (non a caso Porfirio, riprendendo l'uso
logit:o, non ontologico, dei predicabili o categorumeni di Aristotele - genere,
specie, differenza, proprio, acci- dente, - interpretati come possibili
predicati della sostanza, insiste sul valore verbale - vox - di queste cinque
voci, pénte phonai, soste- nendo che esse riguardano il discorso, non le cose,
ché il genere, la specie e cosi via sono appunto categorumeni e non cose: cfr.
lsagoge, I). Di qui il celebre passo dell'lsagoge (Prefazione), in cui si dice:
"lo non dirò circa i generi e le specie se esistano in sé, ovvero se siano
semplici pensieri; se siano corporei o incorporei, se separati dai sensibili o
posti in essi." I generi e le specie servono come condizioni verbali che
per- meaono il discorso ed entro esso la deduzione, l'analisi, per cui, pren-
dendo come punto di partenza l'essere (nulla è definibile senza· il verbo
essere, e perciò a fondamento di ogni definizione si pone il genere sommo,
generalissimo che è la "sostanza"), si può da esso dico- tomicamente
discendere (fu su questo testo porfiriano, in lsagoge, 4, 20, che venne
ordinato lo schema di definizione per dicotomie suc- cessive, andato sotto il
nome di albero di Porfirio. Sostanza: corporea- incorporea; sostanza corporea:
corpo animato-corpo inanimato; corpo animato: sensibile-insensibile; corpo
animato sensibile; ragionevole-irragionevole; animale ragionevole:
mortale-immortale;,animale ragione- vole mortale: Tizio, Caio, Sempronio e cosi
via). ' Lo sforzo di Porfirio, il suo intento, e la sua risposta, attraverso
Plotino, alla piu viva problematica del stili tempo - Porfirio fu sensi-
bilissimo alle piu varie influenze e correnti, cercando sempre di render- sene
conto - fu quello di dare un ordinamento ad ogni aspetto del sap~re: da quello
pratico-civile, risolventesi nelle religioni, nei culti, nei riti, nelle
pratiche magico-teurgiche (se bene intese), nelle leggi scritte, a quello
logico-filosofico (certi aspetti dell'aristotelismo) e morale (Platone, certo
stoicismo), facendo centro sul motivo piu schiettamente plotiniano
dell'anima-consapevolezza, e sul ritorno dell'anima all'Uno, da cui tutto ha
luogo, prospettando una filosofia universale, in una universale pacificazione.
Si capisce cosi da un lato la sua simpatia umana per la figura del Cristo (almeno
prima del suo incontro con Plotino, al tempo in cui conobbe e frequentò Origene
a Cesarea: cfr. Bidez, cit., p. 13), dall'altro lato la sua polemica contro i
Cristiani (Contro i Cristiani, in 15 libri, composta, sembra, al tempo dell'imperatore Aureliano), sia
teoretica (sul piano di Celso, ove particolarmente si discute l'assurdo di un
Dio persona e volontà, creatore, che può fare tutto quello che vuole, l'assurdo
dell'uomo per sé centro e valore nella sua individualità, l'assurdo della
resurrezione.dei corpi), sia filologica (sostiene l'inautenticità dei libri di
Daniele, le contraddizioni storiche tra i Vangelt), sia morale (contro l'intol-
leranza, l'unilateralità del Cristianesimo e il suo fanatismo, contro la sua
negazione della cultura e della filosofia: il Cristianesimo, come le altre
religioni, gli altri riti, le altre pratiche magiche e teurgiche, fun-
zionerebbe per la massa, per i poveri di spirito, come momento del- l'ascesa
dell'anima alla filosofia e all'Uno), sia politica (il Cristianesimo spezza
l'unità culturale e religiosa, la possibilità di raccogliere, in vista dell'Uno
tutto, le varie religioni e culture'di provenienze diverse, orientali e
occidentali, che potrebbero costituire l'unità pacifica del- l'Impero, in
funzione di quella filosofia universale di cui si parlava). Nell'intricata
storia della cultura e della formazione di idee e di ideologie di questo tempo
non si può non tenere nel debito conto l'altrettanto intricata e complessa
storia politica dell'Impero nel I I I se- colo. Il tentativo di Porfirio, sulla
fine del III secolo di articolare in unità, in funzione di un'unica filosofia,
religioni, culti, concezioni diverse, in nome di un'unità trascendente
all'interno, che fosse ad un tempo di base all'unità religiosa e all'unità
politica, è un tentativo non poco indicativo. In realtà egli rispondeva a
quella stessa esigenza di salvazione dell'Impero che muove un imperatore, come
Aureliano, a proclamarsi dio assoluto, riprendendo i motivi dell'elioteismo. La
crisi dell'Impero non fu soltanto militare-politica ed economica, ma anche, ad
un tempo, e per le stesse ragioni, ideologico-culturale. Dopo Marco Aurelio,
particolarmente (sia sotto la dinastia dei Severi: Settimio Severo, Caracalla,
Macrino, Eliogabalo, Severo Alessandro, ucciso
vittima di una congiura militare capeggiata da Massimino che divenne
imperatore per due anni; sia nel periodo della cosiddetta anarchia militare:
Gordiano, Filippo l'Arabo, Decio, Valeriano, Gallieno, ucciso; sia sotto i
cosiddetti imperatori illirici, tesi alla restaurazione dell'unità dell'Impero:
Claudio Il, Aureliano, Claudio:racito, Aurelio Caro, Carino e Numeziano; sia
durante il periodo che va da Diocleziano a Costantino), si vede bene che il
conflitto non fu ta.nto tra Roma e i barbari· (che premevano sia al nord sia in
oriente) quanto di Roma con se stessa, sia a causa della trasformazione della
città-Stato di. Roma in un complesso di popoli diversi, sia a causa di un non
ancora precisatosi concetto di Stato (donde il persistente conflitto tra
imperatore e senato), sia a causa della stessa civilizzazione e romanizzazione
dei barbari. Il conflitto fu in effetto un con- flitto tra il vecchio mondo, la
vecchia concezione e una realtà di fatto, nuova, dovuta a quello stesso mondo
che aveva costituito l'Impero, e che nell'incontro di civiltà diverse, di
religioni e culture diverse, ten- deva ora (la provincializzazione dell'Impero
- ricordiamo la Consti- tutio Antoniniana, di Caracalla -, con la conseguente
esau· torazione dell'Italia e del Senato, è un indice) a trasformarsi, sia pure
a prezzo di un imbarbarimento, com'è stato detto, accogliendo in sé, appunto, e
in sé risolvendo gli aspetti piu vari, in una "nuova Roma." Di qui il
conflitto tra momenti in cui si è voluto restaurare la "roma- nità" (sempre
allorché vi sia stato un accordo tra imperatore, anche se l'imperatore non era
italico, e Senato, o l'imperatore sia stato senato- dale o dell'aristocrazia
romana)t e momenti in cui (allorché gli impe- ratori, soprattutto gli
imperatori scaturiti dall'esercito, o "barbari," abbiano teso ad
eliminare il Senato dal giuoco politico-militare) si è voluto determinare la
possibilità di un impero universale. Per tale impero universale, dal punto di
vista legale, valeva pur sempre la concezione stoico-ciceroniana del diritto
naturale, come si vede nei grandi giutisperi~i del III secolo, entrati in
conflitto con il potere assoluto e personale del sovrano: il siriano Papiniano,
Ulpiano di Tiro, Giulio Paolo, Erennio Modestino. E di tale Impero, l'impe-
ratore doveva essere l'espressione che ne garantisse l'unità, accogliendo in sé
tutti i possibili aspetti e le possibili esigenze. Si capisce, in tal senso,
che se piu dure furono le persecuzioni contro i Cristiani (Decio; Valeriano),
allorché ebbe il sopravvento la politica di alleanza tréll imperatore e
Senato, merio dure, talvolta inesistenti furono le persecuzioni contro i
Cristiani, allorché prevalse la politica, per cosi dire, interbarbarica (si
pensi, ad esempio, alla politica di un Filippo l'Arabo e di un Gallieno),
almeno fin quando si credette di poter riassorbire il Cristianesimo entro i
termini della funzione data alle altre religioni (teosofiche, magico-teurgiche,
solari); altrimenti i Cristiani furono perseguitati, non tanto per le loro dottrine,
per la loro fede, una tra le tante, fosse essa la tesi neoplatonica, o
gnostica, o manichea, o quelle soteriologiche teurgiche e magiche, solari,
prove- nienti dalla Siria, quanto perché la loro concezione, il loro concetto
del rapporto tra gli uomini e dell'autorità dell'unica Chiesa (Stato nello
Stato), la loro pervicacia mettevano in pericolo l'unità dello Stato stesso (si
ricordino le persecuzioni avvenute sotto Aureliano, e l'ultima sotto
Diocleziano). D'altra parte, soprattutto nelle province orientali e quando lo
stesso imperatore persegui la politica della "nuova Roma," il
contrasto tra Cristianesimo e cultura classica si svolse soprattutto sul piano
teoretico, sul piano delle scuole, in una opposizione tra
"filosofie." In tali periodi, anzi, dalla fine del n secolo al
Concilio di Nicea, notiamo in seno alle stesse scuole cristiane conflitti
teoretici, discussioni sul rapporto Dio-mondo, sull'unità-trinità di Dio (il
problema trinitario), sulla vera natura del Cristo (il pro- blema cristologico)
in un incontro e in una discussione con le tesi platonico-neoplatoniche e
stoiche e, spesso, in una rottura interna tra comunità e comunità cristiane e
in passaggi di pensatori dal Cristiane· simo alle soluzioni
razionalistico-platoniche o irrazionalistico-teurgiche neoplatoniche, e di
platonici alla soluzione volontaristico-personalistica del Cristianesimo. Un
Origene, ad esempio, vissuto a cavallo tra il n e il m secolo, discepolo, in
Alessandria, di Clemente, suo prosecu- tore nella scuola catechetica di Alessandria,
maestro poi in Cesarea, poteva benissimo ascoltare, ad un tempo, le lezioni di
Ammonio Sacca, discutere il platonismo, interpretare quel platonismo al lume
della tesi cristiana; mentre un Longino, filologo, rètore, platonico, poteva da
Atene recarsi, insieme al vescovo Paolo di Samosata, presso la corte della
regina Zenobia di Palmira, vedova di Odenato, che, al tempo dell'imperatore
Gallieno, aveva costituito un principato al confine orien- tale con Roma,
ch'ella cercava di organizzare entro i termini di una cultura che rispondesse
alle piu vive esigenze (e non solo il vescovo Paolo, ma anche Longino caddero
vittime della restaurazione romana in Palmira, riconquistata. da Aureliano). E
non a caso Porfirio, ricor- dando il suo giovanile incontro con Origene, poteva
sostenere che, se diversi erano i punti di partenza, le soluzioni relative alle
condizioni che permettono di pensare la realtà, e, perciò anche, le
conclusioni, in realtà tutti, nelle scuole di Siria e d'Egitto - fossero essi
cnst1ani, o platonici, o gnostici - erano mossi dalle stesse esigenze,
discutevano e leggevano gli stessi testi: "Origene viveva leggendo
Platone; le opere di Numenio, Cronio, Apollofane, Longino, Moderato, Nicomaco,
e quelle dei pitagorici illustri gli erano familiari; egli si serviva anche dei
libri dello stoico Cheremone [attraverso cui lo stesso Porfirio aveva appreso i
misteri egizianiJe di Cornuto; attraverso essi egli si iniziò a questa
interpretazione allegorica dei misteri dei Greci, di cui applicò il metodo alle
Scritture degli Ebrei" (in Eusebio, Hist. ecci.). Di qui, anche, in seno
alle comunità delle varie province, un rompersi dell'unità delle varie chiese,
il contrasto con la Chiesa ufficiale, gli scismi, che mettevano in pericolo
l'universalismo, il cattolicesimo della Chiesa, la sua pretesa d'essere l'unica
religione, l'unica via alla salvezza dell'uomo - donde da parte della Chiesa,
di nuovo, il contrasto con lo Stato, il tentativo della riorganizzazione
gerarchica della Chiesa (ad esempio Cipriano2), e dell'assorbimento da parte
del Cristianesimo della cultura classica, da risolvere appunto entro i termini
della nuova "concezione." Di fatto, intanto, particolarmente nel III
secolo, la fede cristiana si estendeva sia tra i semplici, sia tra ì signori e
gl'intellet- tuali, e all'esigenza universalistica e pacificatrice, in mezzo a
lotre, ron- trasti, al rovesciamento dei vecchi valori, poteva sembrare che
rispon- [Cecilia Cipriano, •oprannominato Tascio, nacque a Cartagine. Dopo aver
seguito un accurato e completo corso di retorica, insegnò retorica e fu valente
e celebre avvocato. Per influenza del venerabile prete Ceciliano, nel 245 si
converti al Cristianesimo. Ancora noefita, alla morte del vescovo Donato, fu
eletto vescovo di Cartagine. Nel 25u, al principio della persecuzione di Decio,
Cipriano abbandonò Cartagine, rifugiandosi nei pressi della città. Rientrato in
Cartagine nel 251, il vescovo dovette affrontare la questione dei lapsi, che,
con molto equilibrio e tatto, riusd a risol- vere; nel 255 un lungo dibattito
sulla questione del valore del battesimo dato dagli eretici, divise Cipriano
dal Papa Stefano. Nel 257, a causa della persecuzione di Valeriano, Cipriano
venne esiliato a Curubis. Richiamato, Cipriano si presentò alle autorità e
avendo dichiarato d'essere cristiano e di rifiatarsi di sacrificare, venne
condannato a - morte per decapitazione. "Lapsi" furono detti quei
Cristiani che per sfuggire alla perse- cuzione, dinanzi alle autorità che
chiedevano loro se fossero cristiani rinnegavano la loro fede, facendosi
rilasciare un libretto di attestazione, onde furono detti anche Jibeilatici.
Pas- sata la persecuzione, molti lapsisti chiesero di essere riammessi nella
wmunità. Ne sorse una grave controversia. Novato e Felicissimo, aderenti allo
scisma di Novaziano, propu- gnavano, di contro agli intransigenti, una assoluta
tolleranza. Cipriano, in nome dell'unità della Chiesa, lottò per una moderata
intransigenza. Intransigente, invecl!, egli fu nella questione se fosse valido
o no il battesimo impartito dagli eretici. Cipriano lo ritenne invalido e la
sua tesi fu approvata da tre sinodi tenuti a Cartagine. La maggiore opera di Cipriano, composta contro
Felicissimo e il partito dei lapsisti è il De Catholicae ecclesiae unitate. Di
Cipriano si conservano inoltre: Ad Donatum (opuscolo sul valore della fede
cristiana); De habittl virginum; Testimoniorum lrbri tres ad Quirinum; De
lapsis; De zelo et livore; De mortalitate; Ad Demetrianum;.4d Fortu- natum de
exhortatione martyrii; De opere et elemosynis_; De dominica oratione; De bono
patientiae. Importante per la storia religiosa è l'Epistolario di Cipriano
(sessantacinque let- tere scritte da Cipriano e sedici lettere dirette a lui).]
desse il Cristianesimo nel suo aspetto piu semplice e fideistico, nella sua
capacità di non servire solo a una élite culturale e di filosofi, molto meglio
che non l'universalismo filosofico, stoico o neoplatonico che fosse, o certe
religioni di mistero, teosofie, e via di seguito. Di tale situazione storica,
di fatto, ben si rese conto Costantino, che, com'è noto, credette di poter
risolvere quell'unità universale dell'Impero di cui parlavamo, non piu mediante
la tesi stoica (Marco Aurelio), o neoplatonica (Porfirio), o elioteistica
(Aureliano), ma attraverso la con- cezione cristiana, facendo divenire
cristiano l'Impero, ch'era in effetto la fine dell'Impero romano e la concreta
premessa dei futuri conflitti politico-giuridici tra Stato e Chiesa. La Chiesa,
per la sua stessa strut- tura, non poteva non divenire Stato (e Costantino
credette di poterne essere lui l'imperatore, il sacerdote). Non potevano essere
questi che accenni, ma necessari per rendersi conto dell'esigenza di
considerare il formarsi della cultura sia della cosiddetta pagana, sia della
cristiana, non per filoni separati, sempli- cisticamente opposti e
indipendenti, ma in un ben piu complesso qua- dro, anche se assai fluido e
difficile. È noto che Plotino, con l'aiuto dell'imperatore Gallieno e di sua
moglie Salonina - essi, dice Porfirio, lo veneravano ed erano a lui molto
affezionati - avrebbe voluto restaurare una città della Cam- pania, andata in
rovina, in cui, datole il nome di Platonopoli, avrebbe voluto ritirarsi con i
suoi compagni e discepoli, osservando le leggi platoniche (cfr. Porfirio, Vita
Plotini, XII). "Questo progetto," seguita Porfirio, "sarebbe
anche facilmente riuscito al filosofo, se taluni corti- giani, per invidia,
avversione o altro indegno motivo, non vi avessero frapposto ostacolo." Si
è molto discusso su questo breve testo porfi- riano; si è parlato di un preciso
ideale politico di Plotino, e di una sua influenza diretta sulla politica di
Gallieno. In realtà nulla docu- menta ciò, neppure il testo di Porfirio, il
quale, in fondo, parla di affetto, di stima da parte di Gallieno e di Salonina
per Plotino, si come per Plotino avevano stima e ne riconoscevano l'alto valore
intel- lettuale e l'integerrima vita molti altri membri dell'aristocrazia e del
Senato romani; non solo, ma Porfirio dice che in Platonopoli si sarebbe vissuto
secondo le leggi platoniche, cioè, nel linguaggio porfiriano, seguendo una
"vita platonica," una vita filosofica. "La città di filosofi,
nel senso platonico," scrive il Pugliese-Carratelli, "che Plotino ha
ideato, è concepita non come pratica attuazione di uno schema poli~ tico..., ma
come una synoikesis di quelli che, veramente filosofi, si sono fatti cittadini
della rt6Àtç ~v Myotç xe:t(.LtvYj. Il progetto plotinico acqui- sta cosf un
altro significato e può trovare una piu soddisfacente solu- zione il discusso
problema dell'atteggiamento di Plotino verso la polica. In dissenso dal Rudberg
(Neuplatonismus und Politik, "Symbolae \rctoe,"), l'Alfoldi
(Vorherrschaft der Pannonier, in Funfundzwanzig fahre rom.-german. Kommission,
Berlino) ha recisamente affermato che nelle Enneadi ricorrono pro- posizioni
circa la vita politica che sono in insanabile contrasto tra loro. Queste
pretese contraddizioni si dissolvono, invece, quando si avverta, come si deve,
che lo spirito di Plotino è orientato in senso perfetta- mente platonico e
distingue quindi nettamente quanto attiene al sof6s e quanto agli altri uomini,
lontani e non profondamente animati da quella 'v~::ra filosofia' che sola, come
insegna Platone, conduce alla 6e:wp(oc (teoria)" (Pugliese-Carratelli, La
crisi dell'Impero nell'età di Galliena, "Parola del Passato," 1947,
p. 67). Egli [lo a1tou8oc"Loç] sa bene che duplice è la vita di quaggiu:
l'una per i saggi, l'altra per il volgo; protesa, nei saggi, ad altezze di
vette supreme, mentre negli uomini abituali è suscettibile, ancora, alla sua
volta, di distin- zione: l'una fi?.emore della virtu, partecipa a un qualche
bene; ma la turba degli sciocchi esiste solo, per cosi -dire, come -artigiana
manuale di ciò che serve al bisogno dei superiori (È7tte:txéa-re:pm) (Enn.).
Platonopoli, in realtà, resta un ideale, un rifugio, una città di saggi in
conversazione, volti, per dirla con Porfirio, alle virtu intellettuali
attraverso quelle "catartiche." Per le virtu civili e politiche resta
que- st'altro mondo, il mondo, appunto, dello Stato, dell'Impero, che potrà
salvarsi solo se sarà capace di divenire base, fondamento a quella supe- riore
unità, alla città dei filosofi. Sotto quest'aspetto sembra esatta, rela-
tivamente a Plotino e a Porfirio, l'affermazione di un tardo platonico,
Olimpiodoro, indicante le due vie as~unte dal platonismo: "Alcuni hanno
innanzi tutto onorato h filosofia, come Porfirio e Plotino...; altri, invece,
l'arte ieratica [teurgia], come Giamblico, Siriano, Proclo e tutti gli
ieratici" (Olimpiodoro, In Phaed., 123, 3 Norvin). Se Porfirio, nel suo
plotinismo, si è particolarmente preoccupato dell'aspetto etico e
purificatorio, con accenti, anche se in chiave plo- tiniana, schiettamente
stoici, l'altro noto discepolo di Plotino, Amelio Gentiliano,3 sembra maggiormente
volto ad approfondire l'aspetto teo- 3 Amelio, o Amerio GENTILIANO ("il
suo nome era propriamente Gentiliano, ma egli preferiva chiamarsi Amerio con la
r sostenendo che gli conveniva trarre il nome da amèria [indivisibilità],
anziché da amèlia [negligenza)": Porfirio, Vita Plot.), originario dell'ETRURIA,
discepolo prima di un certo Lisimaco stoico, conosciuto poi Plotino, rimase con
lui in stretti rapporti di discepolo e di collaboratore nella scuola, fino a poco
prima della morte di Platino, quando si recò ad Apamea, in Siria, dove,
probabilmente rimase a lungo, se fu detto poi Amelio di Apamea. "Amelio si
249 retico del maestro. Amelio, ongmario dell'Etruria, dopo essere
stato discepolo di un certo Lisimaco (uno stoico), conosciuto Plotino, nel 246,
rimase con lui in stretti rapporti di discepolo e di collaboratore nella
scuola, fino al 270, quando si recò ad Apamea, in Siria, dove, probabil- mente,
rimase a lungo, se fu detto poi Amelio di Apamea. Forse ad uso della scuola,
egli, giorno per giorno, prese appunti delle lezioni di Plotino, commentandole
e chiarendone il significato: raccolse cosi un complesso di sco/ii, divisi in
cento libri (purtroppo perduti: sarebbero stati preziosissimi, insieme alla
perduta edizione degli scritti di Plotino curata da Eustochio, per confrontarli
con l'edizione degli scritti di Plotino a cura di Porfirio: avremmo meglio
compreso il rapporto Uno-molti in Plotino). In un'opera dedicata a Porfirio,
Amelio difese Plotino accusato di avere plagiato Numenio, chiarendo le
differenze che, relativamente ai tre dèi, correvano tra i due, mentre, in due
riprese, cercò di mostrare a Porfirio che secondo Plotino le Idee non esistono
al di fuori dell'Intelletto. Certo, l'attenzione di Amelio, sotto l'influenza
di Numenio, di cui egli ricopiò e ordinò i vari scritti, che conosceva a
memoria, si volse, come chiaramente appare anche da Porfirio (Vita Plot.), a
interpretare e a chiarire il rapporto Intelletto-intelligi- bili, il problema
dell'Essere come unità vivente nella dialettica Intelletto- Idee. Egli cosi,
secondo Proclo (In Tim.), avrebbe, entro l'àmbito della seconda ipostasi
(Intelletto), distinto, sotto l'influenza di Nume- nio, tre ipostasi: l'Essere
che è (-tòv èlv-tot, tòn 6nta), che per essere dà essere a sé fuori di sé, le
idee (-tòv ~xov-tot, tòn èchonta), che assumono essere, in quanto, contemplando
l'essere, la propria fonte, si ricongiun- gono ad esso (-tòv.opwv-tot, tòn
horònta), costituendo cosi il primo esserci dell'Uno, ipostasi del tutto, in
una dialettica triadica. Di qui, rifacendosi a Numenio, Amelio chiariva il
significato dato all'uno che è in quanto è due, o meglio che non è né uno né
due, ma è tre, cir- colarmente, in una triadicità, che, poi, internamente
all'uno, si molti- avvicinò a Platino durante il terzo anno della sua dimora
romana, allorché Filippo era al suo terzo anno di regno, e vi si trattenne fino
al primo anno del regno di Claudio: e furono cosl, in tutto, ventiquattro anni.
Al suo primo giungere, serbava ancora l'atteg- giame&to mentale di
Lisimaco; però superava tutti i suoi contemporanei per la laboriosità di cui
dette prova, sia esponendo per iscritto quasi tutte le dottrine di Numenio, sia
sunteggiandole, sia mandandone quasi a memoria la maggior parte. Compose,
inoltre, gli Sco/ii dalle lezioni, e li coordinò in·cento libri circa, dedicati
poi al suo figlio adot· tivo Ostiliano Esichio di Apamea" (Porfirio, Vita
Plot.). Oltre i Gemo libri di Sco/ii alle lezioni di Platino (perduti), Amelio
curò l'edizione degli Scritti di Numenio, scrisse un'opera Sulla differenza
delle dottrine di Plotino eldi Numenio (per difendere Platino dall'accusa di
avere plagiato Numenio: cfr. Porfirio, Vita Plot.: l'opera è perduta), un libro
Contro le aporie di Porfirio (cfr. Vita Plot.), e quaranta libri Contro il
libro di Zostriano. Perdute tutte le opere di Amelio, di lui non abbiamo che
qualche frammento e testimonianza (cfr. Eusebio, Praep. ev., XI, 19; Proclo, In
Timaeum; Stobeo).] plica all'infinito, per ogni aspetto della realtà. Di triade
in triade, per- ciò, in una deduzione numerica, si venivano ricostruendo tutte
le strut-.ture della realtà in una moltiplicazione di ipostasi, intermediarie
tra l'Uno e l'estremo limite della materia, simbolicamente dette divinità, e a
cui, via via, si potevan6 in una interpretazione allegorica far corri- spondere
le deità del pàntheon greco-romano e asiatico. Phanès, Oura- nòs e Cr6nos,
riferiti all'Orfismo, vengono, ad esempio, interpretati come l'Uno,
l'Intellett-O e l'Anima plotiniani, scoprendo cosi una teo- logia orfica, un
senso riposto negli orfici, nei pitagorici, in Platone. E cosi, posta l'Anima
del mondo come divinità, altrettanti dèi sono le anime che pullulano al di
dentro dell'Anima universale, corrispondenti e tispecchianti·quegli dèi che
sono nell'Intelletto, nel Cielo (gli astri). E se il tutto è, perciò, un essere
vivente, articolantesi simpateticamente, e il tutto si ricostituisce di triade
in triade, numericamente, tutto è retto dai numeri, si come ogni cosa è una
divinità, anche i corpi, cri- stallizzazioni delle anime, momenti dell'Anima
universale, momento dell'lntelletto, o L6gos, dio nell'unico Dio. Certamente
l'autore di tutte le cose che esistono è stato il L6gos, che è eterno, come
avrebbe detto Eraclito, il L6gos, che secondo il barbaro [Giovanni Evangelista]
occupa presso Dio il posto e la dignità di principio, Dio esso stesso, per il
quale tutte le cose sono state fatte e nel quale è stato creato ogni essere
vivente:e la Vita stessa. Esso può anche unirsi a un corpo, rivestirsi di
carne, prendere le sembianze umane, senza svelare tuttavia la grandezza della
sua natura. E quando questa unione è disciolta, esso riac- quista tutti i
caratteri della dignità e ridiventa Dio com'era prima di unirsi al corpo, alla
carne, alla natura umana (Amelio, in Eusebio, Praep. evang.). Amelio, dal 270,
si stabili ad Apamea, la patria di Numenio, in un ambiente, forse, piu consono
alla ricostruzione e interpretazione ch'egli aveva dato di Plotino. Quando
Amelio giunse ad Apamea, Giamblico,4 siriaco, nato a Calcide, aveva diciannove
anni circa. Non sappiamo se, in Apamea, 4 Nato nel 251 circa, a Calcide, in
Celesiria, Giamblico fu a Roma, alla Scuola di Porfirio (a Giamblico Porfirio
dedicò il suo Intorno al "conosci te stesso," e per lui compose il
!Utorno dell'anima). Giamblico, forse, conobbe, ad Apamea, Amelio, di cui,
certo, subii l'influenza. Tornato in Siria, Giamblico, per lunghi anni, fino
alla morte, avvenuta nel 325-326, insegnò ad Apamea, dove ebbe molti discepoli
e seguaci. Seguitarono l'insegnamento di Giamblico, in Siria: Sopatro di Apamea
di cui sappiamo che, divulgatore di Giamblico, scrisse un'opera Sulla
provvidenza e m coloro che hanno fortuna o sfortuna oltre il merito, e che fu
fatto condannare a morte da Costantino (nel 336 circa) e Dexippo (di lui resta
un prezioso Commento alle Categorie di Aristotele): Giamblico abbia
incontrato Amelio, al quale, per altro, piu che a Porfirio (di cui sappiamo che
Giamblico fu per ·.un qualche tempo discepolo in Roma - a Giamblico Porfirio
dedicò il suo Intorno al "conosci te steuo," e per Giamblico compose
il De regreuu animae) sembra che Giamblico si avvicini, particolarmente per la
sua molti- plicazione degli intermediari tra l'Uno, l'Anima e la materia. Sap-
piamo che Giamblico, tornato in Siria, per lunghi anni, fino alla morte insegnò
ad Apamea, ove ebbe non pochi seguaci, si che si è poi parlato di una scuola
neoplatonica siriaca, di cui Giam- blico sarebbe stato il fondatore. Per
Giamblico, come per Amelio, la realtà tutta, interiormente all'Uno, si costituisce,
dall'Vno, di triade in triade: unità, dualità e un terzo termine medio che
dialettizza l'uno e l'altro in una dinamica unità. Come da un punto centrale,-
veniamo cosi ad avere una serie infinita di circoli concentrici, tutti
nell'unico circolo che li raccoglie in una sola unità, in un solo centro,
l'Uno, per ciò stesso ineffabile, che è e vive nel suo scandirsi nelle triadi.
L'Uno, dunque, assoluto, oltre l'essere, oltre il bene, oltre tutto, si
costituisce ed è in quanto Intelletto, termine medio tra l'Uno e la pluralità,
emergente dall'In- telletto stesso, a sua volta uno in quanto unità delle idee
in atto, mol- teplicità di idee (potenze, intelligenze), che in realtà,
comprese, sono a Pergamo: Edcsio, discepolo di Giamblico, seguito poi da Eusebio
di Mindo (alcune sue sentenze sono conservate da Stobco), Massimo di Efeso
(autore, secondo Simplicio, In Catcg., I, 15, di un Commefllo alle Categorie di
Aristotele, amico di Giuliano Imperatore), Crisanzio, Prisco (poco piu che
nomi), Eunapio (la maggior fonte per l'a biografia dci ncoplatonici: di lui si
conserva la preziosa Vita dci sofisti, in cui tratta della vita di 23
pensatori, c una Cronaca. Scolarca della scuola neoplatonica di Cappadocia fu
Eustazio, discepolo di Giamblico. Altro noto discepolo di Giamblico, che, in
Roma, aveva ascoltato anche Porfirio c che ebbe, poi, notevole influenza sulla
formazione delle scuole ncoplatoniche di Alessandria e di Atene, è Teodoro di
Asine, detto, da Proclo (In Tim., 341d), il "grande." Teodoro, su
testimoniaaza di Proclo (In Tim., e in Rcmp.) e di Olimpiodoro (In Phaed.),
avrebbe commentato testi platonici (Timco, Repub- blica, Pedone), e
aristotelici (gli Analitict). Di Giamblico si sono conservate le seguenti
opere: Vita pitagorica (è il I libro di un'opera intitolata Sillogc delle
dottrine pitagorichc); Protrcttko alla filosofia (è il II libro della Sillogc:
nel capitolo 20 del Protrcttico Giamblico riporta un lungo passo di un autore
ignoto, forse un sofista scettico del v-IV sec. a.C.; il passo è andato sotto
il nome L'anonimo di Giamblico); La comune scienza matematica (attribuito a
Giam- blico, avrebbe costituito il III libro della Sillogc); Introduzione
all'aritmetica di Nicomaco (attribuito a Giamblioo, avrebbe costituito il IV
libro della Sillogc); Thcologumcna arith- mctièac (attribuito a Giamblico,
avrebbe costituito il VII libro della Sillogc) (perduti sono i libri V, VI,
VIII-X della Sillogc); Dc mystcriis Acgyptiorum (si discute se sia di Giam-
blico o opera della sua scuola). Giamblico avrebbe inoltre scritto (di queste
opere sono giunti solo frammenti e notizie): Commento agli Oracoli Caldaici
(framm.); Dc diis (fonte dell'Inno al Sole di Giuliano e degli Dèi di
Sallustio: cfr. Macrobio, Saturn., I, 17-23); Dc anima (framm. in Stobeo); Dc
imaginibus (Fozio, Bibl., 215); Dc dcsccnsu animac (framm.); Commento
aii'Aicibiadc I di Platone. 252 molteplici nell'unità dell'Uno
intelletto (l'Intelletto è perciò: Padre, Potenza, Intelletto). I tre
fondamenti (ipostast) dell'intelligibile sono, dunque, lo stesso Intelletto
nella sua unità (mondo delle idee: x6a!J.OI; V01J-r6~;, k6smos noetòs), le
intelligenze o potenze (x6a!J.OI; V01Jp6ç, k6smos noeròs), idee
rappresentazioni dell'intelletto, e l'Intelletto in quanto intellezione
dell'unità-molteplicità dell'Intelletto. Il terzo ter- mine delhi triade
intelligibile, l'Intelletto, in quanto consapevolezza della Unità vivente
intelletto-intelligenze, racchiude in sé la vitalità intellettuale, l'Anima del
tutto, a sua volta una-molte-una. Veniamo cosi ad avere un mondo intelligibile
(x6a!J.OI; V01J-r6~;) ed entro questo, da esso distinto, un mondo intellettuale
(x6a!J.OI; V01Jp6ç), che ritrova la sua unità vivente nell'Anima dell'universo,
che nella sua unità-molte- plicità-unità si distingue in infinite anime (dèi),
costituenti i modelli, le forze, le leggi del cosmo sensibile, uno e
molteplice, fino alla natura una e molteplice. Giamblico determina cosi, entro
l'Unità tutta, due mondi: il mondo. ideale, posto come condizione, in sé tutto
in atto nel suo scandirsi, e relativamente ai limiti, alle definizioni, posto
come termine ultimo; e il mondo della natura, procedente dall'altro e a sua
somiglianza. Tra l'uno e l'altro mondo - in effetto un sol mondo - si pongono,
termini medi, la triade dell'Intelletto e da essa una seconda triade, dal cui
terzo termine emerge il mondo degli dèi intelligenze, da cui si costituisce una
terza triade, da cui di seguito, scaturiscono, sempre dal terzo termine
(unità-sintesi) di ciascuna, tre nuove triadi e da ultimo un'ebdomade (sette
termini che raccolgono in sé gli dèi modelli dei sette pianeti) e cosi via;
invisibili gli dèi del mondo ideale, essi divengono visibili nel mondo del
sensibile e della natura, rispec- chiandosi, in immagine, negli astri luminosi,
e di qui negli altri inter- mediari (angeli o messaggeri, dèmoni, eroi), fino
alle anime degli uomini. Potremmo seguitare e vedere come Giamblico
moltiplichi, sul piano del mondo visibile, gli dèi celesti (ad esempio i dodici
dèi zodia- cali, che, costituitisi triadicamente, dànno luogo a •trentasei dèi,
a loro volta moltiplicati per dieci, realizzantisi in trecentosessanta dèi),
gli dèi interni al eielo, gli dèi delle nazioni e ·delle città, fino a divinità
sempre piu limitate, affermazioni di' sé, che rompono l'unità sinfonica e
concatenata (fatale) del tutto (sono questi i dèmoni malvagi, i cattivi geni,
le anime disperse, decadute, che piu non somigliano al divino astro da cui pur
discendono). Porfirianamente nella complessa costruzione di Giamblico venivano
a trovar posto tutte le divinità di tutte le religioni, in un incontro che si
risolve in una sola teologia, ed ove in realtà, gli dèi e i loro nomi hanno un
valore simbolico, evocante i momenti, le leggi, gli ordini, le potenze in cui
si scandisce il tutto. Plotinianamente perciò, il male (donde i dèmoni malvagi)
è mancanza d'essere, definizione e limita- zione dell'aniii1a, che, con questo,
per cosi di-re, si sgancia dall'ordine, rompendo la catena, per cui quell'anima
è come presa dal dèmone malvagio, c sempre piu si allontana dal proprio buon
dèmone, dalla propria stella, non somigliando piu alla propria potenza. In
altre parole, nella visione di un tutto, di un universo vivente, ove ogni
termine richiama l'altro, l'uno risponde all'altro, l'uno scaturisce dal- l'altro
e concresce sull'altro, in infiniti aspetti esistenti tutti nell'Unità compiuta
dell'Uno, l'esistenza del male, il dèmone è, appunto, il rima- nere nel limite,
il non morire a questa vita per rivivere nella piu vera vita che è la vita del
tutto, perdendosi in essa. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso,
entro i termini dell'ordine tutto, della eterna armonia, Giamblico, rifacendosi
a Nicomaco e a una certa tra- dizione pitagorica, possa sostenere che tutto ha
il suo numero, che ciò senza di cui le cose non sono (ossia le leggi) sono
numeri (e perciò le essenze, incorporee invisibili indivisibili incorruttibili,
sono numeri). Di qui, in una interpretazione del Timeo platonico e delle pagine
della Fisica aristotelica ove si discute dei luoghi e del tempo, si delinea la
dottrina giamblichea del luogo divino (l'Uno che in sé raccoglie il tutto) e
dei luoghi intesi come i limiti interni all'Uno, ove nell'ordine del tutto
ciascuna cosa deve collocarsi, si che ciascuna cosa va al posto che le compete,
attua la propria unità nell'Unità del tutto aspazide. E cosi, atemporale
l'Universo tutto, atemporale l'Uno, il tempo con- siste nello scandirsi
nell'Uno di tutti i suoi momenti, onde il tempo è, appunto, la misura del tutto
(Anima del mondo), per cui, se ogni cosa, presa a sé, distinta, è nel tempo, ha
il suo tempo, si come ha il suo luogo e il suo. numero, tutte le cose, colte
nell'unità del tutto (il tempo dell'Universo, che sta al luogo divino) sono la
temporalità, specchio e misura dell'atemporale Uno. E allora, come in un
infinito unico specchio, ciascun punto dello specchio rispecchia da punti
prospettici diversi se stesso, e ciascun punto prospettico, preso a sé, deforma
la visione complessiva di tutto lo specchio, cosi le singole anime, le singole
cose, se prese a sé, sono come visioni deformi di se stesse, specchianti il
proprio specchio, nel- l'unità dello specchio. In un tutto articolato, e
rispecchiante se stesso all'infinito, ogni aspetto richiama, seduce l'altro,
anche se ogni aspetto non è l'altro, anche se i punti prospettici piu lontani
rispecchiano depo- tenziatamente, in quanto v'è come una dispersione delle
potenze, per cosi dire, invece, contratte al centro. Simbolicamente, dunque,
tutto è costituito,. nell'Uno infinito, di dèi, che sono i momenti, le leggi, i
numeri, le potenze del ritmo mediante cui necessariamente l'Uno esiste,
mediante cui l'Uno in sé discorre, rispecchiandosi in ciascun numero, in
ciascun dio, dagli dèi intelligenze agli dèi astri, alle anime specchi di
quegli astri e cosi via, in un depotenziamento che è tale prospetti- camente,
ma che nell'Uno-tutto è concentrazione di assoluta potenza. Filosoficamente,
allora, si può, traducendo il tutto in termini matema- tici e geometrici,
ricostruire da un lato mediante linee e figure, dal- l'altro lato mediante
proporzioni i necessari rapporti, la fatale catena che il tutto lega
necessariamente. Sotto questo aspetto, magia e astrologia, se condotte su di un
piano matematico-geometrico, sia pure nella difficoltà dei calcoli e nei
possibili errori, sono scienze esatte. Solo che al calcolo, alla ricostruzione
delle proporzioni, sfuggirà sempre da un lato l'unità vivente, la sintesi
costituente l'unità dialettica di ogni triade, dall'altro lato sfuggirà la
molteplicità della vita, la dispersione delle potenze nel fluire della materia,
il segno divino, sia pur depotenziato, che si specchia in questa o quella cosa
dispersa. Se, relativamente all'Uno, i limiti, le determinazioni sono via ·via,
entro l'Uno, un allontaiJ-amento e una separazione delle potenze, in un
conseguente rispecchiarsi e riflettere sempre piu opaco, sino alla fluidità
della materia, il ritorno all'Uno delle anime sarà possibile ricomponendo
quella dispersione, rifacendola una nell'Anima. Da un lato, dunque, il ritorno
all'unità lo si può avere in una ricomposizione della molteplicità nell'unità,
rintracciando l'unità-molteplicità per via geometrico-numerica, in una
sistemazione che, tuttavia, pur cogliendo le proporzioni e i legami che
articolano il tutto nell'Uno, rimane sem- pre un sistema, diciamo cosi,
esterno, disegnato; dall'altro lato, invece, il ritorno all'unità, cogliendone
la vita, cioè l'unità vivente non piu solo esteriormente ma interiormente, si
ottiene per altra via, che non è quella logico-matematica, che, se coglie il
sistema esteriormente, non ne afferra la vita né salva l'anima una nell'unità
divina. Per questa seconda via, cui pur si giunge attraverso la prima, l'anima
rifà proprie le potenze disperse e rintraccia i segni opachi, operando sulle
cose, riconducendole a sé, e con ciò riconducendo sé sotto il segno di una
potenza superiore; immedesimandosi in essa, l'anima torna all'Uno e in esso e
con esso diviene libera per la stessa necessità dell'Uno onni- potente. Sotto
questo aspetto sembra chiaro in che senso Giamblico ponga la ricerca su due
piani integrantisi: il piano della ricerca geometrico- aritmetica che coglie la
struttura estrinseca e intellettuale della realtà, e che ha una sua funzione
protrettica e necessaria per avviare ad oltre- passare il sistema, a rifare
propria la vita e il senso della realtà; in ogni cosa rintracciando il suo
segno, in una concentrazione di potenze evocanti, per imitazione, la relativa
superiore potenza. Ed è questo il piano della magia e della teurgia, della "filosofia,"
intesa appunto come scienza che coglie il mistero della vita, e come dominio,
nella comprensione del tutto vivente, di tutte le cose. In tale senso Giamblico
rovescia il rapporto magia-teurgia-riti'e filosofia di Porfirio; il rapporto
viene ad essere l'opposto: l'aritmetica, la geometria, la filo- sofia come
rintraccio del discorso della realtà (logica) sono il presup- posto della piu
vera "filosofia" che è la teurgia e la magia astrologica. "Non è
il pensiero," si legge nel De mysteriis, andato sotto il nome di Abbamone,
ma attribuito da Proclo e da Damascio a Giamblico, "non è il pensiero che
congiunge i teurgi agli dèi; perché allora che cosa impedirebbe ai filosofi
contemplativi il godimento dell'unione teurgica con gli dèi? Le cose non stanno
cosf: l'unione teurgica si raggiunge soltanto grazie all'efficacia degli atti
ineffabili, compiuti nel modo adatto, atti che superano ogni comprensiQne e
grazie alla potenza dei simboli indicibili, compresi unicamente dagli dèi...
Senza nessuno sforzo intellettuale, da parte nostra, i simboli
(auv&/j!J.OtT«, synthèmata), per virtu loro compiono l'opera che è loro
propria" (De myst., 96, 13 Parthey). Che, d'altra parte, la teurgia di
Giamblico non consista nella volgare credenza nelle oscure capacità del mago di
costringere gli dèi e le forze occulte al proprio volere, ma rientri
nell'àmbito della magia plotiniana, per cui è l'anima che ritornando in se
stessa domina sé fuori di sé, in sé e nelle cose concentrando le potenze
disperse, per cui rintraccia la superiore potenza; rifacendosi ad essa simile,
onde piuttosto - attraverso le tecniche teurgiche - l'anima viene chiamata dal
proprio dio, ciò è chiaro nel seguente testo del De mysteriis. A Por- firio, il
quale aveva sostenuto che le XÀ~ae:tç (klèseis, invocazioni) dei teurgi, le
preghiere con cui si attira su di sé la luce divina (De myst.) sono atti di
costrizione che implicano che gli dèi 'siano passibili (t!L7tat&dç,
empathèis) come i dèmoni, Giamblico risponde che non è vero. Gli dèi non si
lasciano affatto violentare, ma è l'anima che puri- ficandosi, che rientrando
in sé domina sé malvagia, dispersa, il dèmone, e che facendosi simile al
proprio dio è, in effetto, da lui chiamata: Che ciò di cui ora parliamo sia
salutare all'anima, lo dimostrano i fatti stessi, con evidenza. L'anima,
infatti, quando contempla i felici spettacoli, acquisisce una nuova vita e
opera in virtu di un'arcana forza, si che nep- pure piu sembra, giustamente, un
uomo. Spesso anche, avendo respinto la propria vita, l'anima ha ricevuto in
cambio la infinitamente beatifica forza degli dèi. Se, dunque, l'ascesa
ottenuta con le nostre preghiere procura ai sacerdoti la purifìcazione dalle
passioni, la liberazione da questo mondo. l'unione alla fonte divina, come dire
che tutto questo implica una passività degli dèi? Non è vero che queste specie
di invocazioni attraggano con la forza gli dèi impassibili e puri nel passivo e
impuro mondo; al contrario, tale ascesa fa di noi, che a causa della
generazione siamo nati passivi, esseri 256 puri ed immobili (De
myst.: cfr. in Festugière, La Révelation). Aveva detto Plotino: Io credo che
gli antichi saggi [ot 7tilÀocL (J6(jlOL: gli esperti dell'arte sacra], che, nel
desiderio di avere tra loro presenti gli dèi, drizzarono templi e statue,
mirando alla natura dell'universo, intuirono nel loro spirito che l'Anima si
lascia facilmente attrarre dappertutto, ma che sarebbe stata la piu facile di
tutte le cose trattenerla addirittura, qualora l'uomo avesse costruito qualcosa
di affine e impressionabile, atto ad accogliere una qualche parte di anima. Ma
impressionabile è, appunto, l'imitazione - comunque riuscita - la quale,
proprio come uno specchio, sa rapire almeno un po' di figura (Enn.). Dirà
Proclo: Gli antichi saggi, riferendo una cosa di quaggiu a un essere celeste,
un'altra a un altro, portavano le potenze divine fino alla nostra dimora mor-
tale, attirandole mediante la somiglianza, perché la somiglianza è abbastanza
potente da collegare gli esseri gli uni agli altri... I maestri dell'arte ieratica
[teurgi] hanno scoperto, in base a quello che avevano sott'occhio, il modo di
onorare le potenze superiori, mescolando taluni elementi, e altri togliendone
in misura appropriata. Se mescolano è P<:rché hanno osservato che ognuno
degli elementi separati possiede qualche proprietà del dio, ma non basta per
evocarlo; cosi, mescolando un gran numero di elementi diversi, uniscono le
forze ricordate sopra, e con tale somma di elementi compongono un corpo unico
simile all'unità precedente la dispersione dei termini. Cosi fabbricano spesso,
con tali mescolanze, delle immagini e degli aromi, impastando in un medesimo
corpo i simboli prima divisi, e producendo artificialmente tutto quello che la
divinità comprende in sé per essenza, riunendo la molteplicità delle potenze
che, separate, perdono ognuna la propria efficacia, e che, invece, riunite, si
combinano per riprodurre le forma del modello (in Bidez, Catalogues des
manuscrits a/chimiques grecs, VI, Bruxelles: cfr. Festugière, lA Rével.,
Parigi; anche GARIN (si veda), Le elez. e il probl. dell'astr., cit., pp. 19
sgg.). Tra Plotino e Proclo v'era stata l'opera e l'insegnamento di Giam- blico,
la sua interpretazione degli oracoli caldaici (commento agli Oracolt) e il
significato da lui dato alle tecniche e alle pratiche teur- giche, alla
filosofia'Come mistero (De mysteriis), con cui si compie, in senso plotiniano e
porfiriano, quella "conversione" dell'anima su se stessa (si
confronti anche di Giamblico il trattato sulle varie conce- zioni intorno
all'anima: De anima) con cui avviene, oltre la ragione, I"unione mistica,
e a cui per altro si giunge attraverso una prima sistemazione dei rapporti
mediante i quali il tutto si articola in unità, e che consiste in una
traduzione del tutto in termini geometrici e nume- rici, in un cogliere la
numerabilità dei numeri delle cose. Giamblico proclamò se stesso pitagorico e
teurgo sostenendo che, appunto, la divina dottrina di Pitagora serve da
introduzione alla filosofia, che la filosofia deve usare lo stesso metodo della
matematica, attraverso i cui simboli si arriverà a cogliere, oltre la ragione,
il mistero della vita (cfr. in tal senso il De vita pythagorica, il
Protrepticus ad Philosophiam, e le tre opere matematiche attribuite a
Giamblico: De cotnmuni mathe- matica scientia, In Nicomachi arithmeticam
introductionem, Theolo- gumena arithmeticae). Plotino, Porfirio, Amelio (non si
scordi ch'era etrusco e che in Etruria sviluppatissime erano le tecniche
vaticinatorie) hanno costituito tre linee (Plotino, Porfirio, Amelio-Giamblico)
interpretative del tutto, che, ora intrecciandosi ora separandosi, a seconda
che si sia puntato di piu o di meno sul momento mistico-irrazionalistico e
operativo (Amelio-Giamblico), o sul momento dell'anima come
"coscienza" (Porfirio), hanno dato luogo a problematiche e a
soluzioni diverse sia sul piano teoretico (visivo-contemplativo, relativamente
al rapporto Uno-Intelletto), sia in funzione di questa o di quella
"visione," sul piano dell'interpretazione.di certi testi di Platone,
considerato in fun- zione di questa o di quella interpretazione del platonismo.
Troppo scarsi sono i frammenti che possediamo delle opere degli immediati
discepoli di Giamblico e dei seguaci di questi ultimi per potere determinare
correnti precise, precise delineazioni di quelli che furono i
"neoplatonismi" tra Giamblico ("neoplatonismo" siriaco,
proseguitosi, "dopo Giamblico, con Sopatro di· Apamea e Dexippo; di
Pergamo di cui fu caposcuola Edesio, discepolo di Giamblico; di Cap- padocia,
con Eustazio), e il neoplatonismo rinnovatosi nella scuola di Atene con
Plutarco di Atene {Iv-v sec.) e, attraverso Siriano e Dom- nino, culminato con
Proclo (v sec.), e rinnovatosi nella scuola di Ales- sandria con Ierocle di
Alessandria, discepolo di Plutarco. Certo, Eunapio (Iv-v sec.), autore di una
serie di Vite di 23 sofisti e filosofi (Vita sophistarum), la maggior fonte per
le biografie dei neoplatonici, pur propendendo per l'aspetto magico-teurgico di
origine giamblichea, sot- tolinea che già tra i primi discepoli di Giamblico e
di Edesio, alcuni ne avrebbero criticato il preponderante motivo della teurgia,
divenuto in alcuni vera e propria ciarlataneria, trucco, teatralità. Eunapio,
for- matosi nell'ambiente neoplatonico dei discepoli di ·Edesio, che, seguace
di Giamblico, apri una scuola a Pergamo, dice appunto che secondo Eusebio di
Mindo - vissuto nel IV secolo e del quale sappiamo che e discepolo di Edesio in
Pergamo - la magia praticata da certi suoi condiscepoli è, in realtà, cosa da
"squilibrati, che pervertitamente stu- diano certi poteri, che derivàno
dalla materian e che in particolare bisogna tenersi alla larga - e cosi
consiglia il futuro imperatore Giu-.liano - da quel "teatrale taumaturgo,n
che è il teurgo Massimo di Efeso (cfr. Eunapio, Vit. soph., Boissonade).
Massimo, vissuto nel rv secolo, fu discepolo di Edesio, a Pergamo, insieme a
Eusebio di Mindo, a Crisanzio - celebre P<:r la sua vita ascetico-mistica, -
a Prisco, poco piu di un nome (per tutti cfr. Eunapio, Vit. soph.). Giu- liano
non ascoltò Eusebio di Mindo e si rivolse, invece, proprio a Massimo di Efeso
(cfr. Giuliano, Epist.), chiedendo a un tempo a Prisco di procurargli un
Commento agli Oracoli caldaici di Giam- blico: "Sono avido di
Giamblico," scrive Giuliano, "per la filosofia e del mio omonimo
[cioè Giuliano, autore degli Oracoli caldaici] per la teosofia: gli altri, in
confronto, non li considero affatto n (Epist., Bidez). Sappiamo, per altro,
che, quando Giuliano divenne Imperatore, e tentò, di contro al prevalere della
Chiesa cri- stiana, ufficialmente riconosciuta, di opporre alla religione
cristiana una ideologia universalistica imperiale che salvasse l'Impero
dall'essere assorbito dalla Chiesa, Giuliano nominò Crisanzio supremo sacerdote
della Libia e fece di Massimo il proprio consigliere teurgico. Alla morte di
Giuliano, Massimo fu perseguitato dalla reazione cristiana, tanto che si riusd
a farlo condannare a morte sotto l'imputazione di avere cospirato nei confronti
degli Imperatori. Se Crisanzio, Prisco e particolarmente Massimo hanno portato,
come sembra, ad estreme conseguenze la funzione della teurgia e della demonologia,
approfondendo, come risulta anche da Proclo, lo studio delle tecniche e delle
pratiche teurgiche, i modi con cui evocare le divinità, e con cui operare sulla
natura, i modi con cui richiamare nelle cose e negli uomini le potenze divine,
suscitando nell'uomo l'esperienza di convertire sé nell'unità vivente del
tutto, di sdoppiarsi e ricomporsi negli "spiriti,n nulla di preciso
possiamo dire del loro maestro Edesio di Cappadocia, di cui sappiamo solo che
fu discepolo di Giamblico ad Apamea e che poi insegnò a Pergamo (di qui la
cosiddetta scuola neo- platonica di Pergamo). Demonologo e teurgo fu un altro
discepolo di Giamblico, Eustazio di Cappadocia, che, dopo avere ascoltato ad
Apa- mea Giamblico, tornò ìn Cappadocia ove apri una scuola (egli fu invi- tato
da Giuliano imperatore alla propria corte: Epist.). Continuatore diretto di
Giamblico è SOPATRO di Apamea. Di lui poco o nulla sappiamo, se non che fu
divulgatore di Giamblico, che scrisse un'opera Sulla provvidenza e su coloro
che hanno fortuna o sfortuna oltre il merito, e che dapprima in rapporti con
l'imperatore Costantino fu fatto condannare a morte da Costantino, in
Costantinopoli. Tra i primi discepoli di Giamblico fu Teodoro di Asine, che, in
Roma, aveva ascoltato anche Porfirio. Del "grande Teodoro" (Proclo,
In Tim. Proclo riferisce che fu soprattutto un interprete e un commentatore di
testi platonici (Timeo, Repubblica, Pedone: cfr. Proclo In Tim., In Remp.;
Olim- piodoro in Phaedon; secondo Ammonio di Ermia, Teodoro avrebbe commentato
anche gli Analitici di Aristotele: Ol4npiodoro, Sugli Ana- litict), considerati
al lume della ricostruzione triadica di Amelio e di Giamblico, nel tentativo di
offrire, per via allegorica, un tutto com- piuto ove trovassero posto le piu
diverse esperienze religiose, nei ter- mini già illustrati da Porfirio. Per la
discussione,. interna alle scuole sul numero dei demiurghi, da Amelio a
Porfirio a Giamblico e a Teodoro, discussione che indica l'approfondimento
dialettico della que- stione relativa al porsi dell'Uno e delle ipostasi, e che
ebbe una forte influenza sull'analoga questione discussa in seno al
Cristianesimo sul- l'unità-e trinità di Dio e sul rapporto tra Dio e le tre
persone (non a caso dette, ad esempio, da Basilio il Grande ipostast), si
confronti Proclo In Timaeum. Particolarmente interessante, invece, per la
storia delle interpretazioni delle Categorie aristoteliche il Com- mento alle
Categorie di Dexippo, discepolo di Giamblico, in cui Dexippo, spiega
dialogicamente a un certo Selemco il significato delle categorie, sostenendo,
di contro a Platino e seguendo Porfirio, che le categorie hanno un valore
formale e servono per intro- dursi a cogliere la dialetticità dell'Essere in
senso plotiniano.Arnobio e LAttanzio. Costantino. Seguito o combattuto, inter-
pretato sotto un certo angolo visuale (la questione del rapporto tra il Padre,
il Figlio e lo Spirito Santo) o sotto altro aspetto (particolar- mente quello
della grazia e della redenzione), condannato per certe sue dottrine,
considerate poi "eretiche" (l'apocatastasi, la subordina- zione del
Figlio al Padre, l'Evangelo Eterno, o la esasperata interpreta- zione
allegorica delle Sacre Scritture), o seguita la sua autorità in una
interpretazione del Cristianesimo itt chiave neoplatonica, certo è che l'opera
di Origene ha costituito uno dei perni su cui verranno ruotando le ulteriori
elaborazioni, discussioni, sistemazioni della concezione cristiana. Senza
dubbio, per altro, Origene, sia per la sua grande cultura nel campo classico
come nel campo dell'esegesi biblica, ~ia per la sua capacità di avvertire i
problemi, ha messo in chiaro quelli che erano i dubbi, le aporie, le difficoltà
del Cristianesimo nel suo piu maturo incontro con le piu mature concezioni
greche, mostrando ad un tempo i punti in cui l'accordo poteva precisarsi e i
punti in cui il Cristianesimo si presentava come un'esperienza e una concezione
irri- ducibili al metro della concezione classica. Sotto questo aspetto
l'op..:ra di Origene, morto a Tiro in seguito alle torture sofferte durante la
persecuzione di Decio, serve anche a comprendere la pro- blematica, le aporie,
le discussioni sul significato del Cristianesimo, che rintracciamo in opere,
maturatesi al di fuori della diretta influenza di lui, ma non certo del
neoplatonismo diffusosi nel mondo latino, non solo per la permanenza di Plotino
in Roma, ma anche attraverso i diretti discepoli latini di Plotino. E qui
pensiamo agli scritti degli afri- cani Arnobio e Lucio Cecilio Firmiano,
soprannominato Lattanzio. Sotto questo aspetto, la curiosa opera di Arnobio/1
nato nel 255-260, il Nato a Sicca, nella Numidia (Africa proconsolare) Arnobio è
maestro di retorica a Sicca per lunghi anni. Oratore famoso per la sua
avversione al Cristianesimo, non poco stupl gli ambienti cristiani d'Africa la
sua improvvisa con- [a Sicca, nell'Africa romana, I'Adversus Nationes (in sette
libri, "lucu- lentissimi libri adversus pristinam religionem,"
composti dopo il 297), ha un notevole significato storico, pur nella sua
tortuosità, nel suo faticoso andamento, nella sua mancanza di idee chiare sul
piano dot- trinale-teologico, ebraico e cristiano. Arnobio, di famiglia non
cristiana, rètore di fama e professore di retorica a Sicca, noto, in campo cri-
stiano, per la sua ·dichiarata avversione nei confronti del Cristiane- simo,
sembra, secondo il racconto di San Gerolamo (De viris), che sia improvvisamente
passato alla nuova religione. La conversione - si dice - fu dovuta a un/ sogno
che lo illuminò sul significato della nuova concezione. Anche se il sogno è un
aneddoto ed è simbolico, rivela che la tesi esplicata da Arnobio nella sua
opera, cosi violenta, sino a divenire ingiusta, contro la filosofia e le
religioni "antiche," su cui, d'altra parte, Arnobio dimostra di
essere preparatissimo, ignorando, in- vece, le Sacre Scritture, è che la
"conversione" non è frutto di insegna- mento, non è dimostrazione di
una certa verità che convinca di errore, ma è dovuta ad un atto gratuito,
miracoloso, extraumano. Arnobio scrisse I'Adversus Nationes per convincere il
vescovo di Sicca che, diffidando della sincerità della sua conversione, era in
dubbio se accoglierlo o no nella Chiesa. Ciò, evidentemente, indusse Arnobio a
respingere con vio- lenza, in blocco, tutta la cultura classica, le antiche
concezioni, senza uscire fuori da quella cultura e da quelle concezioni, usando
anzi - egli rètore e dotto delle varie ipotesi e tesi della filosofia classica
e delle varie forme religiose, ignorante della tradizione ebraico-cristiana -
quelle stesse tesi e ipotesi in senso fiegativo per mostrarne la contradditto-
rietà, l'insufficienza a dare un senso alla vita, l'illusione che all'uomo sia
concessa una funzione nell'ordinamento del tutto. E qui s'innesta il
significato piu profondo dell'opera di Arnobio: il suo pessimismo sull'uomo, "questa
cosa infelice e misera, che si duole di essere, che detesta e piange la sua
condizione e non intende di essere stato creato per altro, se non per
diffondere il male e perpetuare la sua miseria" (Il, 46). Se anche l'uomo
non ci fosse, il mondo resterebbe ugual- mente quello che è: Gli uomini in che
cosa giovano al mondo e perché mai sono indispen- sabili?... Aggiungono qualche
parte alla formazione della pienezza di questa mole e, se non fossero stati
aggiunti, l'universo sarebbe forse zoppicante e versione, avvenuta a causa eli
un sogno. Il vescovo di Sicca, per pru- denza, temendo una finzione, resistendo
alle preghiere del convertito, non volle sulle prime ammetterlo tra i
catecumeni. Arnobio, allora, a prova della sua sincerità, scrisse i sette libri
dell'Adversus Nationes, compiuti nei primi anni del JV secolo, che prende le
moS>e dalla critica a un recente libro del neoplatonico Cornelio Labeone,
sostenitore dell'antica religione.
imperfetto? E che,.forse se non ci fossero gli uomini il
mondo verrebbe meno ai suoi doveri e le stelle non compirc;bbero il loro corso,
non vi sarebbero piu estati e inverni, cesserebbero i soffi dei venti, né dalle
nubi conden- sate e sovrastanti cadrebbero le pioggie per portare refrigerio
alle aridità? Ontologicamente inutile, l'uomo è anzi una scheggia nella econo·
mia dell'Universo, un essere orgoglioso, malefico e maligno, dedito solo a
violenze e a delitti (Il, 38). Se tale è l'uomo, non solo è empio rite- nere
che l'uomo sia stato creato da Dio, quel Dio che tutti ammet- tono essere il
fondamento dell'ordine e della perfezione del tutto (l'uomo piuttosto dovremmo
dire ch'è statQ creato da divinità infe- riori, impotenti), e illusione è
credere con Platone che l'anima umana sia dello stesso genere della divinità,
onde neppure si può dire che immortale per natura sia l'anima, per cui non è
dato certo all'uomo ricostruire, attraverso se stesso, riconoscendo sé divino
("reminiscenza"), le strutture su cui si scandisce il ritmo della
realtà. Se davvero l'uomo fosse di natura divina, se l'essenza dell'uomo fosse
un aspetto dell'essenza divina, l'uomo si annullereboe nell'umanità e l'umanità
in Dio, l'uomo sarebbe, ma non esisterebbe. In realtà, certe filosofie greche
(Platone, Aristotele, gli Stoici) risolvendo. tutto in Diq negano l'esi- stenza
dell'uomo. Di fatto l'uomo esiste.e la sua esistenza implica ch'egli è limite,
male, e che il suo esistere si risolve tutto, come vuole Epicuro, entro l'arco
dello stesso esistere umano, e perciò, sotto questo aspetto, la vita umana non
ha alcun senso, nessun fine, non serve a nulla, ogni costruzione filosofica
dell'uomo si risolve in una ipotesi puramente umana. Limite e determinazione,
corporeità, l'uomo non può essere che coscienza del limite; egli è perciò
sensazione ed ogni sua cono- scenza non può non basarsi perciò che sulle
sensazioni, per cui all'uomo non è dato oltrepassare le proprie costruzioni,
rimanendo sempre come distaccato dal tutto, costituendo un mondo a parte, un
mondo di limiti, di chiusure, di affermazioni, un mondo senza spe- ranza.
Inesistente l'uomo nelle concezioni platonico-neoplatoniche; senza senso,
mortale, annullato nel suo stesso apparire, l'uomo nelle conce- zioni epicuree;
illusioni e costruzioni umane gli dèi, le credenze delle religioni; ben disperate,
tristi, si rivelano, attraverso le stesse filosofie e religioni, la situazione
e la condizione umane. Volete deporre la vostra connaturata superbia, voi che
presumete di avere quale padre Dio e che sostenete di dividere con esso
l'immortalità? Volete indagare che cosa mai siete voi, da chi siete nati, cosa
fate nel mondo, perché mai siete venuti alla vita?... Non siamo simili agli
altri animali? Siamo anche noi formati di ossa e di nervi, respiriamo con le
narici l'aria, siamo distinti in sessi, come gli animali veniamo fuori
dall'alveo materno. Ci sosteniamo con cibi, ed emettiamo il superfluo dalle
parti inferiori, andiamo incontro a malattie e a morte! Se gli uomini avessero
conosciuto intimamente se stessi, mai avrebbero presunto di possedere una
natura immortale e divina,... mai, sollevati dalla superbia e dall'arroganza,
si sarebbero creduti primarie divinità uguali a Dio, solo perché hanno escogitato
la grammatica, la musica, l'oratoria e le formule geornetriche; noi che
nasciamo dai genitali femminili, che emettiamo senza posa inutili vagiti, che
succhiamo poppando mammelle, che ci copriamo e c'insoz.z:iamo delle proprie
sporcizie.. L'insistenza di Arnobio sull'uomo nullità, bruttura, limite, è
dovuta al senso tragico della vita, proprio del pensiero greco, del cosiddetto
pessimismo greco, per il quale, almeno in certe posizioni di fondo, c'è Dio,
c'è l'ordine, il tutto è razionalmente costituito, ma in realtà non c'è l'uomo.
E quell'uomo dipinto in si fosche, deprimenti tinte da Arnobio, entro i termini
della sua formazione non cristiana, è la con- clusione tragica del pensiero
greco sull'uomo, di quell'aporia sull'uomo, che se è tutto è nulla e se esiste
è ugualmente nulla, limite, male, non essere. Proprio tale rivelazione, tale
consapevolezza.della sciagurata posizione dell'uomo, dà a un uomo di cultura
greca come Arnobio il significato nuovo dato all'uomo dal Cristianesimo, in
cui, se mai, non c'è Dio - Dio si pone come fede e speranza, e la sua presenza
è rive- lazione, da parte sua, della sua mancanza -, ma c'è l'uomo, nella sua
situazione tragica, ma anche, ad un tempo, nella sua possibilità, attra- verso
il Cristo, d'essere uomo reale e concreto, persona. È appunto tale rivelazione
di quello che l'uomo è per natura, sganciato dal tutto nel suo esistere - non a
caso le cupe e orripilanti parole sull'uomo che nasce nel sangue e negli
escrementi, che è bruttura e malattia, ritorne-:anno sempre qualora si punti
sull'uomo sganciato dalla grazia e dalla ·ivelazione, dimentico di Cristo: e
qui pensiamo, ad esempio, al De:ontemptu mundi di Innocenzo III, di cui alcune
pagine sembrano ·icalcate da Arnobio - è tale consapevolezza che dà· un senso
alla fede:ristiana. Ecco perché dicevamo che per comprendere Arnobio (e non
1olo Arnobio, ma la piu profonda ragione del passaggio di molti al:ristianesimo,
in cui si salva l'uomo; "la novità ch'esso portava con;é era la
liberazione della personalità," è stato detto, "incatenata:lalla
religione e dalla morale dello Stato, che in sé riassorbiva e per-:leva l'uomo":
cfr. Kovaliov, Storia di Roma, Roma) bisognava tener presente la rielaborazione
origeniana sulla paradossale situazione umana. L'uomo non è natura: l'esistenza
umana, ~on cui l'uomo assume una sua natura è frutto di un atto di volontà, ~
determinazione dovuta a un atto di libertà, che chiude l'uomo a qual- >iasi
altra possibilità, rendendolo quello che è: male e limite, insignificante,
inutile, scheggia e rottura del perfetto ordine del tutto in Dio; egli uomo
male e limite, e non l'Universo, natura una in Dio, in sé buona. Rompere contro
il male, dunque, è rompere contro la propria natura. Solo che tale
consapevolezza, essendo essa stessa contro natura, non è piu umana, è dovuta a
un atto innaturale e perciò extraumano, divino, a un atto della volontà divina
che vuole salvare l'uqmo. Tale la forza del messaggio cristiano, tale la
rivelazione del Cristo, venuto a salvare l'uomo, o meglio a restituire l'uomo a
se stesso. Entro questi termini sembra chiaro in che consista il senso da un
lato del pessi- mismo di Arnobio, l'accusa di Arnobio nei confronti di tutta la
con- cezione greco-romana, dall'altro lato, indipendentemente da ogni impal-
catura teologico-cristiana, della sua conversione al Cristianesimo,.che offriva
la salvazione dell'uomo non come concetto, ma nel suo esserci reale, nella sua
responsabilità morale. Non a caso cosi, riprendendo un motivo proprio della
polemica cristiana (cfr. San Giustino), Arnobio sostiene che l'anima non è né
immortale (come vorrebbe Platone), né mortale (come vorrebbe Epicuro), ché nel-
l'uno e nell'altro modo negheremmo l'uomo. La mortalità e l'immor- talità sono
dovute a Dio, a seconda se l'uomo, una volta riscattato dal Cristo, abbia
saputo o no essere responsabile di se stesso. Opposta alla posizione di Arnobio
sembra la posizione di LUCIO CECILIO FIRMIANO, detto ‘Lattanzio,’ africano
della Numidia, ch'ebbe, a Sicca, Arnobio, maestro di retorica, soprattutto per
la sua esaltazione dell'uomo, centro dell'universo, microcosmo, che non poco
risente degli scritti ermetici, particolarmente dell'Asclepio, citato e
discusso da Lat- tanzio sotto il titolo L6gos telèios (Sermo perfectus). In
Arnobio ciò che piu colpisce è la negazione della concezione classica, che
nelle sue conclusioni porta l'uomo alla disperazione, donde il passaggio alla
tesi del Cristianesimo sull'uomo nulla, male, limite, in quanto esistenza che 7
Lucio Cecilia Firmiano, detto Lattanzio, nacque in Numidia,. presso Sirta, o
Mascula, nel 260 circa. Compiuti gli studi retorici a Sicca sotto Arnobio,
divenuto oratore di grido, insegnò prima retorica in Africa, poi, chiamatovi da
Diocleziano, a Nicomedia. Convertitosi al Cristianesimo quando ha inizio la
persecuzione contro i Cristiani, Lattanzio abbandona la cattedra di eloquenza,
ritirandosi a vita privata e dal 305 (in tale anno appare ancora a Nicomedia)
sparendo dalla circolazione. Lattanzio
scrisse il De opificio Dn (opera assai prudente), compose i sette libri delle
lnstieutiones dit~intU, dedicate, quando furono compiute, all'Imperatore
Costantino, del cui figlio, Crispo, Lattanzio divenne precettore in Gallia, a
Treviri, dove soggiornò certo fino al 320 (ogni traccia di lui si perde dopo
questa data). Posteriori alla persecuzione sono il De ira Dei, il De mortibus
persecutorum e una Epitome delle Istituzioni. A Lattanzio è, infine, attribuito
(si dubita che sia di lui) un breve poema Sulla Fenice (De fltle Phoenice).] è
peccato; tutto, centro morale, responsabilità, possibilità di volersi mor- tale
o immortale in quanto redenzione. In Lattanzio, nel suo tentativo di offrire,
da quel buon professore di retorica ch'era stato, il manuale della concezione
cristiana nel suo insieme - non a caso·l'opera sua maggiore va sotto il titolo
di lnstitutiones divinae, - ciò che piu col- pisce è la sistemazione in unità
dei piu vari motivi, 3:nche opposti e in contrasto, che separati, in fermento,
s'erano venuti maturando tra platonici e cristiani nel corso del II e del m
secolo, e dove il signifi- cato e la funzione dell'uomo vengono veduti in
rapporto all'economia dell'universo e di Dio, interpretando la soluzione
neoplatonica, in chiave cristiana. Le ragioni della conversione di Lattanzio
sono molto piu semplici e piane che non quelle drammatiche di Arnobio. Le
ragioni delle filosofie - in realtà del neoplatonismo e di Platone,
quest'ultimo filtrato attraverso Cicerone - trovano il loro fondamento e
criterio nelle ragioni della fede cristiana. Le religioni del passato non hanno
alcun fondamento logico; la sapienza, basandosi su se stessa, non può non
sfociare se non in una posizione di problematicità, nel "proba- bile"
ciceroniano. Il conflitto tra i due termini si risolve nell'accetta- zione di
una tesi in cui le "ragioni" dei filosofi trovano il loro fon-
damento nella ragione rivelata da Dio, in cui, per altro, consiste la vera
religione. "A nessuna religione si giunge senza sapienza, solo che nessuna
sapienza è tale se non si fonda sulla religione" (lnst. div.). "La
religione consiste perciò nella sapienza e la sapienza nella reli- gione".
La religione, in quanto sentimento di dipendenza da un essere supe- riore, cui
ci sentiamo legati, implica, come appare dalla religione cri- stiana, come, per
bocca dei suoi profeti, e degli oracoli sibillini, ha rivelato lo stesso Dio,
un Signore unico da cui tutto dipende, che a tutto provvede (basta alzare gli
occhi al cielo, dice Lattanzio, I, 2, secondo il vecchio luogo comune, per
rendersi conto che tutto è prov- videnzialmente ordinato). E uno solo ha da
essere tale Dio e Signore, mette in evidenza Lattanzio, sottolineando che
perciò false religioni sono quelle politeistiche (cfr. I: De falsa religione),
ché altrimenti, ammettendo piu Signori o dèi dovrerpmo ammettere che tale Dio
non è autentico Signore, non ha la potenza di reggere tutto; non solo, ma piu
dèi verrebbero in contrasto tra di loro, mentre già la funzione che in ciascuno
di noi ha l'anima di reggere in unità la molteplicità delle nostre membra e i
vari aspetti delle nostre funzioni, dimostra che Dio, ciò da cui tutto dipende
e che il tutto guida, non può non essere che uno. Se tale è la religione, la
sapienza che ritenga fondarsi sulle proprie forze, rinnegando giustamente le
insipienti fantasie delle religioni, rimarrà oscillante, porrà ipotesi, tutte
possibili, in quanto, appunto, resta sganciata dal suo stesso fondamento, che è
la fede, la rivelazione di Dio (cfr. II, De falsa sapientia, e III, De origine
erroris). E allora, se unica è la fonte della religione e della sapienza, cioè
l'unico Signore c padrone (religione, per cui dobbiamo dirci servt), da cui
tutto di- pende, che, rivelatosi, rende conto delle sue stesse ragioni
(sapienza, per cui dobbiamo dirci figli, simili alla ragione di Dio, che è il
suo stesso figlio e l6gos), si capisce come Lattanzio sostenga che la sapienza
ha da fondarsi sulla religione e la religione ha da essere illuminata dalla
sapienza, e che, perciò, religione e sapienza, separatesi nel tempo, con la
caduta, debbono ricongiungersi, e tale è il messaggio del Cri- stianesimo, la
verità cristiana, per cui il Cristianesimo è una religione filosofica: o una
"pia filosofia" (cfr. De vera sapientia). Da tutto questo chiaramente
appare che sapienza e religione debbono essere congiunte tra di loro. La
sapienza riguarda i figli, ed esige l'amore; la religione i servi, ed esige il
timore. Come quelli, infatti, debbono amare ed onorare il padre; cosi questi debbono
curare e temere il padre. Dio, quindi, che è uno, poiché ha in sé l'una e
l'altra persona, quella del padre e quella del figlio, lo dobbiamo amare poiché
siamo figli e temere poiché siamo servi. La religione, dunque, non può essere
separata dalla sapienza, né la sapienza può essere distinta dalla religione,
perché unica cosa è Dio, il quale dev'essere compreso, il che appartiene alla
sapienza, ed onorato, il che appartiene alla religione. La sapienza_vien prima,
la religione segue: in primo luogo si deve conoscere Dio, in secondo luogo
onorario. E cosi una sola pPtenza è in due nomi, sebbene sembrino diverse.
L'una, infatti, è posta nel senso, l'altra nell'azione; in realtà sono simili a
due fiumi, scaturienti da una sola fonte. Fonte della sapienza e della
religione è Dio, al quale questi due fiumi, se si sono divaricati, è necessario
ritornino; coloro che ignorano Dio, non possono essere né sapienti né
religiosi. E cosi avviene che i filosofi e coloro che venerano gli dèi sono
simili o ai figli dissidenti, o ai servi ·fug- gitivi, poiché né quelli cercano
il padre, né questi il padrone... (IV, 4). La tesi apologetica di Lattanzio è
molto precisa. Egli da buon retore ciceroniano sa a chi si rivolge, conosce le
esigenze di un certo pubblico, particolarmente angosciato dal problema del
destino del- l'uomo, deluso dalle risposte della filosofia, e che, invece,
poteva tro- vare risposta nella tesi cristiana: l'essenziale, esclama non a
caso Lat- tanzio, non sta tanto nelle dimostrazioni dialettiche, ma nel sapere
in che modo ci convenga vivere, nel saper dare una risposta alla do- manda:
perché nasciamo, perché viviamo? Le ragioni della ragione trovano il loro
fondamento nella fede. La scienza in quanto conoscenza dell'essere, mediante
cui dare un senso alla nostra vita, non sarebbe tale, "scienza," se
non trovasse un suo criterio. L'uomo, per sua natura, in quanto esistente, è
limite, è anima e corpo, chiusura. All'uomo in quanto tale, non resta, sf come
è dimo- strato da Platone e da Cicerone (il Platone di Lattanzio è il Platone
filtrato attraverso Cicerone), se non un'aspirazione all'essere, l'esigenza di
porre l'Essere come uno; all'uomo in quanto tale non è dato oltre- passare se
stesso. E allora, la coscienza che l'uomo ha di sé come con- flitto e limite,
la sua stessa esigenza di oltrepassare il limite, che già lo pone oltre il
limite, non può essere dovuta all'uomo naturale, ma ad un intervento di Dio.
Tale la risposta ebraica (Filone l'Ebreo e la sua interpretazione di certi
testi biblici, ove ancora una volta va tenuto pre- sente il ribaltamento del
concetto di "sapienza" secondo il testo del- l'Ecclesiastico) e
quella cristiana (il rivelarsi ultimo di Dio all'uomo mediante il Cristo, il
L6gos di Dio, fattosi uomo, mediante cui l'uomo da anima-corpo, limite, può
tornare, se vuole, a farsi simile alla ragione di Dio, ridando un senso al
proprio esserci, al proprio conflitto, senza di cui non ci sarebbe ~irtt!).
Gran miracolo è l'uomo, dice Lattanzio, riprendendo dall'Asclepio, citando piu volte
i libri ermetici ed Ermete Trismegisto, ch'egli pone afianco dei profeti e
degli Oracoli Sibillini; grande è l'uomo, perché l'uomo è specchio
dell'universo, a sua volta immagine di Dio, unità vivente, in cui tutto si
raccoglie in unità, perché l'uomo è simile a Dio, o meglio al figlio di Dio, al
L6gos, termine medio tra l'Uno Dio ineffabile e le infinite possibilità di Dio,
mediante cui assume realtà, ha un fondamento la molteplicità, una nel-· l'unità
vivente di Dio. Solo che tale coscienza, per cui nell'uomo s'in- centra
l'universo, tornando con ciò l'uomo simile a Dio, onde l'uomo - termine medio
tra la spiritualità, tra il figlio di Dio e l'anima, limite, e il corpo, limite
piu opaco - può scegliere tra l'essere simile a Dio, riconoscendo a propria
guida il Cristo, o divenire ancora piu limite, sempre meno amico del re
dell'Universo, tra voler essere immortale o mortale; tale coscienza, tale
possibilità di rompere contro la natura, tale conflitto tra bene e male, in cui
consiste la virtuosità - non vi sarebbe virtu se non vi fosse il vizio, dice
Lattanzio - non sarebbe possibile senza la rivelazione di Dio, esplicitatasi
mediante il L6gos di Dio, fattosi uomo (Cristo), con il quale l'uomo può
reintegrare se stesso. Il sentimento di dipendenza da un solo e unico Signore e
padrone (religione), rivelato da Dio, mediante i suoi profeti, e poi da Cristo,
riconduce l'uomo a ritrovare nella sapienza di Dio (in senso ebraico-
filoniano) il fondamento della sapienza umana, ridando all'uomo da un lato la
capacità di essere virtuoso (cioè di proporsi come conflitto tra sé natura,
unità di anima e corpo, limite, e sé simile al L6gos e a Dio, rompendola contro
la natura, per cui l'essere immortale o mortale diviene una scelta), dall'altro
lato di ricomprendere in sé l'universo tutto, scoprendo in sé Dio, termine
ultimo; fine del proprio destino, in una celebrazione dello stesso Dio.
"Il mondo è stato fatto perché noi nascessimo; noi nasciamo per
riconoscere l'autore del mondo e noi stessi, Dio; lo conosciamo per rendergli
un culto; gli rendiamo un culto per ricevere l'immortalità, in ricompensa dei
nostri sforzi; ecco perché in ricompensa ricevia~o l'immortalità, s(che,
divenuti simili agli angeli, perpetuamente si serva il padre nostro Signore, e
si costi- tuisca l'eterno regno di Dio. Tale il significato piu profondo del
tutto, tale l'arcano di Dio, tale il mistero del mondo". Proposta come
unica soluzione alla condiziçme tragica dell'uomo concreto - disperso e
abbandonato a se stesso, quale risultava, dalle concezioni greco-romane - la
fede nella tesi ebraico-cristiana (del- l'uomo che si salva mediante la
rivelazione di Dio, e che, per mezzo della venuta del Cristo, può ritornare,
lavato dal peccato, con le sue forze, a celebrare quel Dio per il quale è stato
fatto e dal quale è decaduto), Lattanzio poteva sfruttare, sul piano
teoretico-teologico, i motivi del rapporto Uno-molti, Intelletto-intelligibili
(L6gos), propri del neoplatonismo, particolarmente di certi testi ermetici e,
per altro verso, di Filone l'Ebreo, filtrati attraverso certe interpretazioni
del- l'apologetica greca. Molto abilmente c~s(Lattanzio tende a convincere, a
persuadere, che l'unica verità è quella del Cristianesimo e che solo attraverso
di essa si dà un senso e un perché alla vita degli uomini; senza per altro
rinnegare i motivi teologico-filosofici della cultura greco- romana, che,
preparatoria della rivelazione ultima, deve essere riassor- bita nel
Cristianesimo, in quanto, appunto, illuminata e resa vera dalla rivelazione di
Dio. Anzi, i testi ermetici, i testi neoplatonici servono ora a illuminare, a
render conto della fede cristiana, rappresentano il momento filosofico della
religione. Il "semidivino" ·Ermete Trismegi- sto, esclama Lattanzio,
"non so in che modo ha quasi investigato la verità tutta". Ermete
chiarisce certi aspetti della teologia cri- stiana, il significato del Dio uno
e ineffabile, anonimo, solitario, (ausa sui (che "ex se et per se ipse
est": cfr. Epitome, 4), che tutto trae da sé, anche la materia, mediante
il proprio L6gos, su cui si fonda la creazione di Dio, anche quella dell'uomo,
fatto. a sua immagine e somiglianza, costituito di anima e corpo, e che
liberandosi da se stesso, limite e deficenza, può, attraverso il L6gos,
incentrare in sé l'Universo, ritornando a Dio (cfr. lnst. div.; per le
citazioni dal corpo ermetico e dagli Oracoli Sibillini, cfr. l'edizione del
Brandt). E cos(, ad esempio, nella spiegazione del rapporto Dio Padre e Dio
Figlio, forte si sente, anche nelle immagini, l'influenza del "neoplatonismo."
Uno Dio, il logos non è un due rispetto al Padre, non divide l'unità sua, ché
l'unità divina è vita nel suo L6gos, per cui il L6gos, conoscenza del- l'unità
vivente di Dio, è la stessa sostanza di Dio, che per sovrabbon- danza emana da
sé il Figlio, unico con l'unica fonte, simile a raggio che proviene dal sole, e
che,' pur distinguendosi dal sole, è della stessa essenza di esso, si come la
luminosità del sole è tale in quanto una con la luce che emana dal sole. Ci
può, forse, chiedere qualcuno perché noi che diciamo di venerare un solo Dio,
sosteniamo tuttavia due dèi, Dio padre e Dio figlio... Quando diciamo Dio padre
e Dio figlio, non diciamo che siano diversi, né li distin- guiamo l'uno
dall'altro. Il padre non può esser distinto dal figlio, né il figlio dal padre;
né il padre può esser detto tale senza il figlio, né il figlio può essere
generato senza il padre. Il padre, dunque, fa tale il figlio, e il figlio il
padre. Una in ambedue la mente, uno lo spirito, una è la sostanza. Ma quegli è
come una fonte esuberante, questo si come un fiume defluente dalla fonte. Dio è
come il sole, il figlio è simile a un raggio scaturito dal sole; e poiché è
fedele e caro al sommo padre non se ne separa, si come il rivo dalla fonte, il
raggio dal sole (anche l'acqua della fonte, infatti, è nel rivo, e la luce del
sole è nel raggio).. In realtà, l'elaborazione teologica di Lattanzio riconduce
il Cristia- nesimo al "platonismo," sia pur in una forma accessibile
ai piu, ove, in conclusione, l'interpretazione del Cristo, sul piano di quel "plato-
nismo," viene a togliere ogni significato alla "grazia" e alla
"reden- zione," ed in cui il Cristo è, perciò, presentato piuttosto
come guida e maestro che non come redentore, sanando nell'uomo piuttosto la sua
capacità conoscitiva, mediante cui, ricongiungendo sapienza e religione, sarà
di nuovo possibile all'uomo essere virtuoso. "Noi," afferma Lat-
tanzio, aprendo le sue Istituzioni divine, "che abbiamo ricevuto il sacro
mistero della vera religione, poiché la verità ci è stata rivelata da Dio, per
cui lo seguiamo come dottore della saggezza e come guida verso il vero,
invitiamo tutti a questo celeste convivio, senza distinzione né di età né di
sesso, ché nessun altro alimento è piu dolce all'anima della conoscenza della
verità" Non poco indicativo è, cosi, da parte del rètor.e Lattanzio
l'avere preso a modello del suo persuasivo discorso sulla "vera
religione," tale in quanto è "vera sapienza," ornate copioseque,
Cicerone. Lat- tanzio punta continuamente sull'aspetto morale del
Cristianesimo, piu che su quello teologico, sulla posizione dell'uomo centro
della stessa vicenda del tutto, per cui l'uomo è restituito a se stesso, è
responsabile del suo destino, nella fede insegnata dal Cristo in un ordine e in
una giustizia, che costituiranno nell'unità morale dei Cristiani il regno di Dio,
in un diritto naturale che si trasfigura in "diritto divino," in
un'obbligatorietà al Signore supremo che diviene perciò volontaria; ciò indica
con chiarezza da un lato che Lattanzio si era reso conto della piu profonda
esigenza degli uomini del suo tempo, nella crisi dell'Impero, dall'altro lato
che il fondamento stesso dell'Impero, la sua forza, il suo universalismo, erano
oramai depositati nella concezione cristiana. Sotto questo aspetto sembra
esatta la definizione data dagli umanisti di Lattanzio: "Cicerone
cristiano." Come Cicerone aveva dato una filosofia ai Romani dell'ultima
Repubblica, discutendo le varie ipotesi, i pro e i contra, s1 da persuadere
(donde l'importanza data alle tecniche retoriche) a quell'ipotesi che secondo
Cicerone sarebbe ser- vita a dare un fondamento alla res-publica, in.un
rapporto umano fon- dato su di un diritto unico e universale, sp,ecchio della
legge su cui si ordina il tutto, cosi ora Lattanzio, proprio rifacendosi a
Cicerone (qui non tantum perfectus orator, sed etiam philosophus fuit: l, 15)
ritiene di dover porre le proprie tecniche oratorie al servizio della
concezione cristiana, in un copioso e ornato discorso, cbe razionalmente
convinca di quella verità rivelata dallo stesso Dio, che sola dà all'uomo, a
tutti gli uomini la possibilità di salvarsi. Si 'può costituire cosi, già in
terra, una città cristiana, di cui il regno di Dio, che pur tuttavia non· sarà
mai di questa terra, è posto come termine ultimo, ed ove Dio, Signore supremo,
a sua volta vien posto come lo stesso criterio di Obbligato- rietà, il sùpremo
re, che premia e che punisce. Non a caso cosi, sotto l'aspetto teologico,
Lattanzio nel delineare l'unità di Dio, Padre e Signore, si rifà alle tesi
".neoplatoniche," mediante cui piu facile era convincere alla tesi
cristiana dell'uomo creato da D1o a sua sorp.iglianza (già in una sua operetta,
il De opificio Dei, scritta nei primi tempi della sua conversione, durante i
primi anni della persecuzione di Diocleziano, Lattanzio aveva sostenuto, di
contro ad Epicuro, ch'egli conosceva attraverso Lucrezio, riprendendo argomenti
di Cicerone, che la considerazione sia della costituzione ·fisica, anatomica e
fisiologica, sia dell'anima dell'uomo, ove tutto è 'miracolosamente volto all'unità,
in cui ogni parte è in funzione del tutto, rivela la presenza di un crea- tore
uno, sommamente saggio e provvidente). Mediante ciò era piu facile convincere
alla tesi cristiana dell'uomo simile a Dio, che, deca- duto, ritrovando in sé
il L6gos di Dio, attraverso il L6gos fattosi uomo può, se vuole, ritornare ad
essere simile a Dio. Lattanzio, invece, sotto l'aspetto piu strettamente
morale, di contro alla tesi sia neoplatonica sia epicurea della divinità
indifferente, impassibile, nella sua perfe- zione e necessità, si rifà alla
concezione ebraico-cristiana del Dio per- sona e signore, volontà, di un Dio
cui tutto è possibile, anche l'ira 282 (si confronti in tal senso
il De ira Dei, composto dopo il 313), il quale solo "scire potest et
revelare secreta" (De ira Dei, l). E qui vanno ora ricordate alcune date
fondamentali, relative alla vita e all'opera di Lattanzio. Lattanzio, ètore di
fama, allorché Diocleziano apri a Nicomedia una scuola, fu chiamato
dall'imperatore a insegnarvi retorica, verso il 300. Convertitosi al
Cristianesimo, quando ebbe inizio la persecuzione dei Cristiani, Lattanzio
abbandonò 'la cattedra di eloquenza, ritirandosi a vita privata e, dal 305
circa (anno in cui ancora appare a Nicomedia), sparendo dalla circolazione. Lattanzio
scrisse il De opificio Dei, compose i
sette libri delle lnstitutiones divinae, non a caso dedicate, quando furono
compiute, all'imperatore Costan- tino, del cui figlio, Crispo, Lattanzio
divenne precettore in Gallia, a Treviri, dove soggiornò (ogni traccia di lui si
perde dopo questa data). Posteriori alla persecuzione, composti, sembra, sono
il De ira Dei, il De mortibus perse- cutorum, e una Epitome delle
lnstitutiones. Le ragioni della conver- sione di Lattanzio furono le ragioni
della sua opera di rètore tesa a persuadere, senza rotture violente, senza
scandali, al significato del Cristianesimo, per altro già estremamente diffuso,
e che, impostato da un lato come inveramento e soluzione delle filosofie piu
ampliamente accettate e costituenti un generico fondamento culturale e
dall'altro lato come l'unica religione filosofica che potesse ridare un senso
all'uomo, facendolo a un tempo responsapile della umana città in funzione della
città divina, si mostrava essere l'unica soluzione anche per l'unità e
l'universalità dell'Impero. Sotto questo aspetto assume un particolare
interesse il V libro delle Institutiones dedicato alla "vera
giustizia." Molto sottilmente Lattanzio, rifacendosi in gran parte ai
concetti di giustizia, "summa virtus," e di diritto naturale
delineati da Cicerone e rielaborati da grandi giuristi romani - è noto che la
maggioranza dei frammenti con cui si ricostruisce la Repubblica di Cicerone si
ricava dalle lnstitutiones di Lattanzio, - riprospetta di contro alla
tirannide, all'indiscriminato potere personale - e chiara è la lotta contro
Dio- cleziano, - una concezione della giuStizia e del diritto assai simile a
quella su cui ci si era fondati con Cicerone e poi con certi stoici del 1 e del
11 secolo (non a caso con Cicerone Lattanzio riprende la pole- mica contro
Carneade e contro Epicuro). La giustizia si fonda sulla legge del tutto, legg~
tuttavia non naturale, ma voluta dallo stesso Dio, onde tanto piu obbligatorio
diviene l'ordine dello Stato terreno, attraverso cui, se in esso ciascuno - in
ciò uguale all'altro - fa ciò che gli compete e si pone al suo giusto posto in
nome di Dio, si salva, costituendo il futuro regno di Dio. Solo che il regno di
Dio, dopo la caduta, con cui ha avuto principio l'affermazione di sé, la pro-
prietà, il prevalere dell'uno sull'altro, l'ingiustizia, nella separazione
della sapienza dalla religione, non sarà mai di questa terra. In questa terra
rimarrà sempre aperta la lotta, il conflitto tra male e bene, tra ingiu- stizia
e giustizia, senza di cui non vi sarebbe la virtu ("virtutem aut cerni ~on
posse, nisi habeat vitia contraria; aut non esse perfectam, nisi exerceatur
adversis; hanc enim Deus bonorum ac malorum voluit esse distantiam, ut
qualitatem boni ex malo sciamus, item mali ex bono: nec alterius ratio
intelligi, sublato altero, potest; Deus ergo non exclusit malum, ut ratio
virtutis constare posset". Entro i suoi limiti, dunque, ciascuno può
volere o non volere, dopo la rivelazione di Dio, esser virtuoso e perciò
giusto, facendosi responsabile del pro- prio destino, liberandosi da se stesso
in Dio, che premia o punisce chi abbia voluto o non voluto riconoscere Dio. Di
qui, ancora una volta, il significato dato da Lattanzio alla santa ira di Dio;
non a caso Lattanzio, finita la persecuzione da parte di Diocleziano,
riconosciuto da Costan- tino il Cristianesimo, scrive pagine di fuoco sulla
tragica fine che hanno subito tutti i persecutori dei Cristiani (Nerone,
Domiziano, Decio, Valeriano, Aureliano, Diocleziano, Massimiano Ercole, Valeria
figlia di Diocleziano e moglie di Galeiio): "sic omnes impii vero et i~sto
iudicio Dei eadem quae fecerant receperunt." Con queste parole si chiude
il De mortibus persecutorum. In tale senso perciò, la tesi cristiana, se da un
lato implica il sen- tirsi servi di Dio, dall'altro lato implica, attraverso la
rivelazione, che la libertà dell'uomo consiste in questo stesso voler essere
servi di Dio, che liberando l'uomo da se stesso, caduto da Dio, lo rende capace
d'es- sere virtuoso e giusto. Solo, dunque, istituendo uno Stato cristiano,
volto, mediante coloro che abbiano ricevuto da Dio la grazia di com- prenderlo
e perciò di essere giusti, a realizzare·la giustizia del regno di Dio, o meglio
a far sf che, in una ben ordinata gerarchia, in cui ciascuno sia al suo giusto
posto, si rispecchi l'ideale unità di un mondo di spiriti contemplanti il Dio,
nel quale e per il quale siamo tutti uguali, e dal quale derivano le due virtu
fondamentali della unica virtu, che è la giustizia, la pietà ("altro non è
che la conoscenza di Dio, come verosimilmente la definf Trismegisto
[Pimandro]") e l'uguaglianza (il sentirsi uguali agli altri in Dio:
"nessuno presso di lui è schiavo, nessuno padrone: se egli è a tutti
ugualmente padre, a uguale diritto siamo tutti ugualmente figli; nessuno è
povero davanti a Dio, se non chi manca della giustizia; nessuno è ricco, se non
chi è pieno di virtu"), solo cosf lo Stato civile potrà salvarsi e non
incorrerà nell'ira di Dio. Si vede bene in tal modo come Lattanzio potesse
riprendere, in chiave cristiana, trasformando cioè il diritto naturale in diritto
divino, relativamente alla giustizia terrena, i temi fondamentali di Cicerone e
di certi stoici. " L a giustizia civile, obbedienza formale alle leggi
stabilite nel tempo dalle città terrene," è stato detto, discutendo della
giustizia presso gli stoici, "ha valore nella misura in cui fa proprio il
contenuto di fraterna uguaglianza e di comunione umana che è proprio della
giustizia naturale. Il Cristianesimo, se accentuò il tema della fraternità (il
prossimo che deve essere amato come noi stessi), non spostò i ter- mini del
problema, ed anzi, approfondendo il distacco tra le due città come conseguenza
della colpa, rovesciò di continuo in radicale diver- genza quella che lo
stoicismo e il diritto romano avevano concepito come convergenza. Lattanzio,
nel quinto libro delle Divinae lnstitu- tiones, dedicato appunto alla
giustizia, la presenterà come summa virtus anche presso i pagani, e andrà
dipingendo la città giusta di Saturno come regno di perfetta uguaglianza...
Nella dttà giusta le terre e le messi non erano cintate... e tutto era in
comune. Quando la cupidigia e l'avidità divisero gli uomini, la giustizia fuggi
dalla terra, e scom- parve l'umana comunione. Le leggi divennero inique; la
giustizia fu termine equivoco che indicò disuguaglianza e oppres- sione... Dio,
è vero, ebbe alla fine pietà dei suoi figli, e rinviò la giu- stizia in terra,
ma la concesse graziosamente soltanto a pochi: 'rediit... sed paucis assignata
iustitia est'. La frattura tra le due città si presenta come insanabile; lo
squilibrio è radicale. S. Agostino, che pur accoglie certi aspetti della
tematka ciceroniana..., si àncora all'idea di un vincolo statutario che fonda
la civitas corrotta sul comune godi- mento di un bene. La giustizia è l'ordine,
nel suo aspetto meramente formale, che si realizza anche in una societas
sostanzialmente ingiusta, solo che sia mantenuta una certa reciproca
coordinazione. La fraternità umana è rimandata di là, o è in qualche modo
raffigurata in gruppi ristretti di santi uomini; la città giusta è fuori del
mondo, ove poi la divina giustizia è grazia... Cosi mentre la convergenza fra
la giustizia nel suo aspetto formale e la giustizia nel suo valore sostanziale
avevano caratterizzato lo sforzo proprio dei giuristi e dei grandi oratori
romani, la divergenza fra mondo del peccato e Gerusalemme celeste riportò
all'idea di.una giustizia terrena come mantenimento di un ordine impo- sto da
un'autorità, di un'? Stato gerarchicamente scandito" (Garin, Giustizia,
"Revue internationale de philosophie”). Duplice è l'interesse dell'opera
di Lattanzio: se da un lato egli ha chiarito, mediante un vero e proprio
breviario delle istituzioni cri- stiane - in cui si riprendono e si dimostrano
inverati dalla rivela- zione molt.i dei motivi teologico-filosofici piu
diffusi. che vanno dun- 285 que accolti come preparazione alla
buona novella - le esigenze e la problematica di certe classi di uomini,
facendole emergere alla co- scienza, dando loro un fondamento ideologico; dall'altro
lato, l'opera di Lattanzio indica assai bene le ragioni che spinsero Costantino
ad accettare il Cristianesimo - e le ragioni dell'accostamento di Lattanzio a
Costantino -, rendendosi conto che, oramai, solo in esso avrebbe trovato la
base sociale ch'era venuta meno a Diocleziano, peréhé fosse possibile -
proseguendo la politica di Aureliano e di Diocleziano - salvare l'unità
politico-economica dell'Impero, trasformandolo sempre di piu in monarchia. In
tale senso è molto indicativa la tesi sulla giu- stizia e sulla ricchezza e
povertà sostenuta da Lattanzio. Tutti uguali in Dio, né ricchi né poveri nel
regno di Dio: in questa terra conflitto tra vizi e virtu, tra ricchi e poveri,
ma possibilità di una società giusta, qualora tutti, in nome di Dio, rimanendo
ricchi e poveri, si sentano ciascuno al suo posto, uniti in una fratellanza che
-è pietà, in una giu- stizia che è carità, in una società che ha da essere
specchio dell'unità di Dio, della monarchia divina, del giusto scandirsi delle
classi, ove il sacerdote, il vescovo, è, per gi'azia di Dio, il giusto, il
rappresentante del monarca divino, di Cristo re. "Se anche è diversa la
condizione dei corpi, gli schiavi non sono schiavi per noi; quanto allo spirito
noi li teniamo in conto di fratelli, e sul piano religioso li chiamiamo com-
pagni di servitu. Le ricchezze non sono motivo di distinzione per noi, se ·non
in quanto possono renderei illustri di buone opere... E coloro che sono poveri,
sono almeno ricchi di questo, che non sentono alcun bisogno e non hanno
desideri. Pur essendo pertanto tutti uguali in umiltà, i ricchi e i poveri, i
liberi e i servi, tuttavia presso Dio siamo distinti secondo la nostra
virtu". Impossibile e ingiusto - so- stiene altrove Lattanzio - è dire con
Platone che non si deve possedere nulla in privato e in proprio - famiglia,
donne, ricchezze, - ché nelle disuguaglianze, nel come ciascuno sa usare il
proprio si rivela la capa- cità o meno d'esser virtuosi, il riconoscimento
d'essere tutti uguali nel regno di Dio, di lui tutti servi e figli, uguali per
la virtu. Lattanzio con questa sua tesi
rispecchiava esattamente la situazione propria di molti cristiani e la
struttura economico-schiavistica dell'Im- pero, la situazione della Chiesa
ufficiale al principio del IV secolo. "Verso il IV secolo," è stato
detto in efficace sintesi, "la Chiesa cri- stiana si era trasformata in
una organizzazione molto forte, in una specie di Stato nello Stato, che
abbracciava quasi tutto l'Impero. Essa possedeva enormi ricchezze, contava
nelle sue file un gran numero di alti f~nzionari, di militari, grandi
proprietari terrieri, e la schiacciante massa di popolazione
artigiano-commerciale delle città. Possedeva un potente apparato direttivo che
non aveva nulla da invidiare alla burocrazia imperiale. In'queste condizioni
riconoscere la Chiesa significava per lo Stato trovare una nuova base sociale.
E ciò era particolarmente importante per il dominatus che tendeva a creare un
potere solido... Costantino poté piu saggiamente ed obbiettivamente, che non
Diocle- ziano, avvicinarsi al Cristianesimo" (Kovaliov). Entro questi
termini assumono un particolare significato le parole di Costantino, riportate
da Eusebio di Cesarea (Vita Constantini), ai vescovi con lui riuniti a mensa:
"Certo, voi potreste essere vescovi interiormente alla Chiesa (È1tlaxo1toL
-rwv etaCù n j ç bocÀYjalcxç), io sarei invece vescovo, costituito da Dio,
esteriormente (-rwv ÈxT6ç). " Si è molto discusso sul peso preciso da dare
a queste parole (cfr. S. Calderone, Costantino e il Cattolicesimo, Firenze).
Certo sembrerebbe in esse implicito, da un lato il riconoscimento della Chiesa
costituitasi gerarchicamente, fondamento del regno di Dio, di cui, appunto, i
vescovj sono i depositari, coloro che reggono lo Stato dal di dentro (la
Chiesa, anima dello Stato?); dall'altro lato, accettato che lo Stato non può
non essere che cristiano cioè che lo Stato è la Chiesa, che l'imperatore, per
grazia divina ("costituito da Dio"), è il reggitore del corpo della
Chiesa, cioè dello Stato, nella sua realizza- zione fisica, storica;
l'imperatore dunque vescovo dal di fuori (del corpo dello Stato?). Senza
dubbio, comunque, le ragioni che nel I I I secolo avevano spinto alcuni
imperatori ad abbracciare, di con- tro alla "romanità" dell'Impero,
l'"interbarbarismo" dell'Impero stesso; trovandone il fondamento
ideologico nell'elioteismo, nella monarchia solare, determinano ora Costantino,
che non a caso aveva avuto forti simpatie per l'elioteismo, a volgersi al
Cristianesimo, che, sia per la sua base economico-sociale, sia per la sua
ideologia - entro cui, assunta simbolicamente poteva essere riassorbita la tesi
elioteistica - sembrava dare allo Stato l'unità e la forza perdute, qualora di
quello Stato dive- nisse episcopo l'imperatore. I simboli della luce propri del
Cristia- nesimo, dell'Ebraismo, e di certe immagini neoplatoniche ed ermetiche
(il Padre Sole e il Figlio raggio del Sole, uno nella luminosità di Dio) e
delle tenebre (dai figli della luce e delle tenebre, a Lucifero che diviene,
con la caduta, il dèmone, il principe delle tenebre, alla materia e al corpo,
ombre e tenebre), potevano benissimo coincidere con la concezione elioteistica,
con il motivo della monarchia solare, reinter- pretata e inverata al lume della
verità cristiana e in essa assorbita. Documenti di ciò sono, oltre alcune
testimonianze di Lattanzio e, particolarmente di Eusebio, l'amico cristiano di
Costantino, che non poco si adoperò a propagandare e a rendere efficace
l'operazione di riassorbimento nel Cristianesimo della cultura ellenistica,
anche i mo- numenti, le monete del tempo di Costantino, in cui l'imperatore
cristiano viene presentato come il Sole di Dio, in raffigurazioni ove appare
nella veste dell'Elios persiano (e non si scordi che le insegne di Costantino
avevano un sole irradiante, che piu tardi, in una visione, divenne facilmente
la Croce irradiante luce: per i rapporti tra Costan- tino e la ideologia
elioteistica, cfr. anche F. Altheim, Il dio invitto. Cristianesimo e culti
solari, trad. it., Milano). Se lo studio delle "eresie" e degli
"scismi," di come essi si sono formati, rende conto di come, per
altro verso, si è venuta for- mando l'altra scelta che, divenuta poi ufficiale,
ha costituito la "verità" cristiana, la "retta opinione"
(ortodossia) sulla verità rivelata, tale stu- dio rende anche conto che gran
parte delle eresie (pur. discutendo di questioni teologiche, pur nascendo dalla
problematica sulla vera inter- pretazione del messaggio del Cristo, della sua
natura, del suo rapporto con il Padre) sono nate sul terreno etico-politico ed
economico. Qu3;nto piu la Chiesa di Roma si arricchiva, si ordinava
gerarchicamente e burocraticamente, veniva a compromessi con lo Stato, anche
durante le persecuzioni - non si scordino le grosse polemiche sui lapsi e
l'atti- vità di San Cipriano, - quanto piu ci si avvicinava al possibile con-
nubio tra Stato e Chiesa - sia che la Chiesa fosse assorbita dallo Stato sia
che lo Stato fosse assorbito dalla Chiesa, - nella costituzione di un Impero
cristiano, tanto piu negli strati meno abbienti, piu poveri, che avevano
trovato nel Cristianesimo l'appello all'uomo libero, la salva- zione della
propria individualità, il diretto rapporto da uomo a uomo con Dio, sembrò che
la Chiesa avesse tradito l'antico messaggio del Cristo. "Verso il quarto
secolo, nel seno della Chiesa, esisteva 'un forte fermento. L'affermarsi degli
elementi abbienti, il consolidamento dell'apparato ecclesiastico,
l'aristocratizzazione di tutta l'ideologia del Cri- stianesimo erano
inevitabilmente destinati a determinare una vivace opposizione da parte degli
strati non privilegiati. Per quanto si ten- tasse di soffocare il primitivo
spirito plebeo del Cristianesimo, l'abisso tra quanto veniva predicato dal
pulpito e la realtà e':'a troppo grande: da una parte vi erano infatti il clero
e i fratelli dell'aristocrazia, sazi e contenti, dall'altra gli stessi
'fratelli di Cristo' della plebe cittadina e rurale, poveri e semiaffamati...
La grande crisi rivoluzionaria del m se- colo non potrà non rispecchiarsi anche
nel Cristianesimo. Il riacutiz- zarsi dei contrasti sociali, manifestatosi
nell'Impero a cominciare dalla fine del 11 secolo, si rivelò anche nel
Cristianesimo, dove il processo fu accelerato appunto dalla aristocratizzazione
della Chiesa, che ne aveva determinato i contrasti interni. In tale situazione
nacquero le cosiddette 'eresie,' correnti contrarie ai circoli dirigenti della
Chiesa e ai punti di vista dominanti. Esse rispecchiavano anzitutto l'ideologia
dei cristiani piu poveri: schiavi, coloni, plebe cittadina e, in parte, anche
il pensiero degli strati medi della città. In alcuni casi le eresie erano
dovute alla lotta per il potere fra i vari gruppi della gerarchia
ecclesiastica" (Kovaliov). Abbiamo già veduto come fin dalla prima
meditazione sull'espe- rienza cristiana si determinassero interpretazioni
molteplici e diverse, a seconda anche delle tradizioni e degli ambienti
culturali, da quelli giudaico-palestinesi a quelli giudaico-akssandrini, da
quelli classici nell'area orientale a quelli classici nell'area occidentale: da
principio "eresie" tutte, poi "eresie" quelle che ad una
delle interpretazioni con- solidatasi e divenuta tradizionale, della comunità
piu forte (che fondò poi il suo diritto sul motivo della "cattedra di
Pietro"), sembrarono non aderenti alla propria interpretazione, ritenuta
quella "retta" (orto- dossa), e tali da mettere in pericolo la
propria forza e la propria catto- licità. Naturalmente finché non fu possibile
determinare ufficialmente la "regula fidei" (fu Tertulliano a
definire l'eresia "scelta, dal greco or:tp&:a~<; = hairesis,
arbitraria, in quanto non tien conto della regula {idei, cioè della regola
determinata dalla Chiesa": in De praescriptione haereticorum, 6) e finché
quella stessa "regula fidei" non si determinò sto- ricamente
attraverso un lungo dibattito, un lungo conflitto tra l'una e l'altra
interpretazione (sull'unità e trinità di Dio, sulla posizione. e l'essenza del
Figlio nei riguardi del Padre, sulla funzione del Cristo, sulla sua realtà di
Dio-Uomo, e sull'autorità dei vescovi, sul loro essere apostoli degli apostoli
e cosi via) erano impossibili condanne ufficiali (se non sul piano, chiarendo
ciascuno a sé il significato del Cristia- nesimo e la funzione della Chiesa,
dell'apologetica: e qui ricordiamo particolarmente S. Giustino, S. Ireneo, S.
Ippolito, Tertulliano e la loro polemica nei confronti dello gnosticismo, e,
per altro verso, Marcione e il marcionismo da un lato e, dall'altro lato, nella
discussione sulla unità e il monismo di Dio il monarchismo, il modalismo, il docetismo,.
il sahellismo). Ciò fu possibile quando la Chiesa di Roma, riconosciuta
ufficialmente dal potere politico come la depositaria della autentica
"regula fidei," poi:é ufficialmente far dichiarare la propria
"regula" e il proprio "credo" (Concilio di Nicea). (E qui
va tenuto presente che di "eresia" in senso stretto si parla non
quando sia una per- sonale deviazione dall'insegnamento della Chiesa ufficiale,
ma quando tale deviazione diviene sciente contrapposizione di un, diciamo cosi,
pensiero o insegnamento che si deve contrapporre a quello della Chiesa).
Naturalmente, sotto il profilo della rivolta etico-politica con- tro una Chiesa
che per i suoi compromessi, per la sua, anche se lenta, trasformazione in Stato
gerarchizzato, sembrò tradire il significato popolare dell'insegnamento etico
del Cristo, vediamo sorgere certe ere- sie abbastanza tardi, alla fine del n
secolo, per divenire sempre piu forti e polemiche durante il m secolo e il
principio del IV. E qui pen- siamo, innanzi tutto, al montanismo. Il
montanisrno, cosiddetto da Montano che ne fu il capo, ebbe principio verso il
170, e, di contro all'infiacchimento della Chiesa, di contro alle proprietà
della Chiesa, di contro al perdono per le colpe compiute dopo il battesimo, di
contro alla autorità dei vescovi, di contro alla "universalità" della
Chiesa, pro- clamò l'individualità della esperienza cristiana e della fede, in
un rigi- dismo morale-religioso, in personali esperienze ascetico-mistiche, in
un rifiuto delle ricchezze terrene nell'attesa della vicinissima restaurazione
- per il vicinissimo ritorno del Cristo - del regno di Dio. Se tale
infiacchimento della Chiesa, l'evidente opportunismo di molti conver- titi al
Cristianesimo, furono le ragioni dell'adesione di Tertulliano al montanismo, si
capisce come al tempo delle persecu- zioni di Decio, di contro al diffuso
lapsismo, si siano ingrossate le file del montanismo. E qui pensiamo, in
secondo luogo, al donatismo. Nuova forza e significato politico assunse il
montanismo, particolarmente in Africa settentrionale, dove andò sotto il nome
di donatismo dal nome del vescovo Donato, che si fece capo degli intran-
sigenti, finché di contro alla Chiesa ortodossa si costitul la Chiesa di Donato
(non a caso alla Chiesa di Donato aderirono nel IV secolo i movimenti
rivoluzionari degli schiavi e dei coloni d'Africa che vede- vano nel donatismo
il fondamento ideologico della loro lotta contro la proprietà, contro i ricchi,
contro l'economia schiavistica: fu questo il mo- vimento degli " agonisti,"
i combattenti per la vera fede: cosi essi pro- clamarono se medesimi, mentre
"circumcellioni," vagabondi, furono detti dalla parte avversa).
Minore importanza ha il novazianismo -- dal nome di Novaziano. Novaziano ruppe
con la Chiesa di Roma per ragioni personali, per la delusione di non essere
stato eletto vescovo di Roma (il novazianismo, del resto, in certe conseguenze,
è assai vicino al rigidismo morale del donatismo). Un particolare significato
assume, invece, l'arianesimo, sia perché fu la prima eresia condannata con
l'appoggio del potere politico (Concilio di Nicea), in una precisazione da
parte della Chiesa ufficiale della propria "regula fidei," che assume
cosi un valore giuridico, sia proprio in conseguenza di ciò - per la storia
della formazione della "verità" ufficiale cristiana, sia per le
ulteriori precisazioni filosofico-teologiche, sia per le ripercus- sioni
politiche che ebbe. Nato, sembra, in Libia, verso il 265, Ario,8 dopo avere
studiato ad Antiochia sotto il platonico Luciano di Antiochia, ebbe la dire-
zione di una Chiesa di Alessandria, e fu qui espresse la sua interpretazione
sulla natura del Verbo. Con molta probabilità Ario fu direttamente ispirato
dagli insegnamenti che sulla vecchia que- stione della natura una di Dio e del
suo rapporto con il Verbo e la realtà, aveva ricevuto ad Antiochia da Luciano,
fondatore della scuola esegetica di Antiochia, martire, e dall'influsso che in
Antiochia avevano ancora al tempo in cui vi fu Ario le idee di Paolo di
Samosata, vescovo di Antiochia, condannato per eresia tre volte ed infine
costretto a dimettersi, convinto di errore dal prete Malchione. Ario, con molta
intelligenza e acutezza, lucidamente ripropone e definisce la grossa questione,
sul tappeto dal tempo di Filone l'Ebreo, dei "monarchisti, " "
unitaristi," " docetisti," " sabelliani," di T ertul-
liano, e, per altro verso, di Plotino.e dei neoplatonici, di Origene. Posta
l'unità e perfezione.assoluta di Dio e posto che, secondo il solito rove-
sciamento ebraico-cristiano del concetto di "sapienza," la sapienza è
di Dio ed è prima dei secoli e va avanti a tutte le cose (cfr. Ecclesiastico),
e che tale sapienza è il Verbo (L6gos) di Dio, l'interpretazione del celebre
testo dei Proverbi, in cui la sapienza, cioè il 8 Nato, forse in Libia, Ario,
dopo avere studiato ad Antiochia, sotto Luciano, nel 313 ebbe l'incarico di
dirigere la Chiesa di Bocali ad Alessandria. Nel 318 divulgò le proprie tesi
sul rapporto Padre-Figlio. Condannato da un Concilio di Alessandria, promosso
dal vescovo di Alessandria Alessandro, teoreticamente sostenuto dal suo diacono
Atanasio, Aiio fu costretto ad abbandonare il paese. Fu dapprima in Palestina,
poi a Nicomedia presso il vescovo Eusebio, suo vecchio amico. Condannato nel
Concilio di Nicea, fu dall'Imperatore esiliato nell'Illirico. Costantino,
volendo riporre equilibrio tra le due fedi, in nome dell'unità dell'Impero,
richiamò Ario, che a Costantinopoli improvvisamente muore. Perduta è l'opera
piu importante di Ario, la Tàlia (E>ciÀe:lcc:banchetto), ch'egli compose a
Nicomedia. Se ne conservano solo alcune ·citazioni nel Contra arianos di
Atanasio (cfr. anche De synodis). Sono pervenute, invece, due lettere di Ario:
una ad Eusebio di Nicodemia (in Epifania, Haer.), l'altra ad Alessandro di
Alessandria, scritta non molto prima del Concilio di Nicea (cfr. Atanasio, De
syn.odis, 16; Epifania, Haer.). Socrate (storico della Chiesa; nato a
Costantinopoli, autore di una Historia ecclesiastica, in sette libri, che
prosegue quella di Eusebio) e Sozomeno (altro storico della Chiesa, originario
di Gaza, a~vocato in Costantinopoli, autore di una Historia ecclesiastica, in
nove'libri che in piu parti ricopia quella di Socrate) riportano la professione
di fede inviata da Ariq a Costantino (cfr. Socrate, Hist ecci.; Sozomeno, Hist
ecci.). L6gos dice Dominus creavit me, porta dietro a sé la negazione della
tesi che Dio sia ad un tempo uno e trino e che il suo Verbo, in quanto creato
da Dio, sia della stessa sostanza di Dio e sia un secondo Dio. La tesi che Dio
sia ad un tempo trino in eterno implica la nega- zione di Dio uno e solo, e
l'affermazione non cristiana di piu dèi. Posto che una è la sostanza di Dio e
perciò ch'egli è indivisibile e ingene- rato, infinito e assoluto, e dunque
indiscorribile (&ppl)-roç =àrretos), proprio il suo essere ingenerato
(&.ykvvl)-roç = aghènnetos) e senza prin- cipio (&vocpxoç = ànarchos)
implica che non si può ammettere ch'egli comunichi ad altri la propria essenza:
Dio cosf si limiterebbe e si risol- verebbe negli stessi aspetti da lui provenienti.
In altri termini, ammet- tere che Dio per essere, per comprendere se stesso, si
distingua in due, sign.ificherebbe dire che Dio è non piu persona, essere nella
sua asso- lutezza solo, ma unità dialettica. Ciò, in realtà, vorrebbe dire
negare il Dio persona e volontà, il Dio creatore. Posto, per altro, in senso
ebraico- cristiano, che Dio non è un concetto, non è unità dialettica di
pensante- pensato (L6gos), ma volontà, se ne deve dedurre che la creazione non
è da intendere nel senso che Dio - avente in sé tutto in potenza - tragga
all'esistere da se stesso, mediante il proprio esserci come pen- sante-pensato
(L6gos), tutta la realtà, ma che egli, volontà onnipo- tente, di là da ogni
ragione dà realtà a un mondo davvero ex nihilo, che, in quanto da lui voluto, una
volta che c'è, è altro da lui, non ha la sua stessa essenza. E allora, proprio
per non confondere il L6gos di Dio, la sua parola e ragione, con il N ùs
plotiniano, che si perde nel- l'Uno, sf come l'Uno si perde nel Nùs,
conseguentemente alla tesi del Dio trascendente, indiscorribile, persona e
creatore, si deve dire, se- guendo alla lettera i Proverbi (ricordiamo che la
scuola esegetica di Antiochia, in cui si formò Ario, si tenne sempre, di contro
alla scuola esegetica di Alessandria, all'interpretazione letterale-storica dei
sacri testi), che anche il L6gos, in quanto sua creatura ("creatura
perfetta di Dio": in Atanasio, De synodis, 16, 2) è realtà altra da quella
di Dio, è esistente, è, anch'egli, generato dal nulla (è!; oùx l>v't'CùV yéyov<.
= ex ouk ònton ghègone: in Atanasio, Oratio l, Contra Arianos). Il Verbo
dunque, non può avere lo stesso genere del Padre, è dissimile dal Padre (è
&ll6't'ptoç -allòtrios e &.v6(l.otoç-anòmoios) ed è solo di nome che
viene detto Dio. Uno solo Dio, il Verbo non è un "secondo Dio" che
per analogia, e pur essendo per decisione di Dio lo strumento con cui Dio crea
il mondo, non si può dire ch'egli abbia la stessa sostanza dì Dio, che sia a
Dio consustanziale, mentre, in quanto è dopo Dio (che ri- mane, perché
crea.tore, uno e solo nella sua perfezione, trascendente e immobile e perfetto,
e dunque irrelativo, indiscorribile, ignoto), il L6gos è limite, mutevole,
(-rpen-r6ç-trept6s), sf come tutte le creature, buono finché vuole restare
tale, ché, se lo volesse, potrebbe, come noi, mutarsi" (in Atanasio,
Oratio l, 5). E come Dio ha voluto creare il L6gos ex nihilo e attraverso lui
ha voluto che il mondo assumesse realtà, cosi poi, essendo il L6gos rimasto
buono, e avendolo adottato come figlio (adozionismo), ha voluto dargli la
funzione di redentore. Altro da Dio il L6gos, non a lui consustanziale, poiché
tutto ciò che ha avuto realtà è provenuto per un atto di libera volontà da Dio,
attra- verso il L6gos, anche lo Spirito Santo, il soffio vivificante di Dio
pro- viene dal L6gos ed è perciò altro dal L6gos e da Dio. Senza dubbio la tesi
di Ario precisa in una certa direzione la vec- chia questione del rapporto tra
Dio e il suo Verbo. Egli, avvicinan- dosi ai monarchisti, nega, nelle
conclusioni, la divinità del Figlio e con ciò stesso quella del Cristo,
scostandosi cosi dalla interpretazione delineatasi nella Chiesa, e da quella
della scuola di Alessandria che non poco si era servita della tesi neoplatonica
sul rapporto Uno-Nùs-Anima. Certo, la immediata presa di posizione contro Ario
da parte del ve- scovo di Alessandria, Alessandro, che fece espellere Ario
dalla Chiesa di Alessandria nel 320 (Ario si recò allora in Palestina, poi a
Nicomedia presso Eusebio vescovo di quella città), dette luogo all'esigenza di
definire e precisare la tesi opposta, che con il Concilio di Nicea, ove fu
sostenuta da Alessandro, con l'aiuto del suo diacono Ata- nasio, divenne la
tesi ufficiale e giuridica della Chiesa. Elaborata e pre- cisata da Atanasio,9
nato sembra ad Alessandria, già dia- [Atanasio, nato ad Alessandria nel 295
circa, da genitori non cristiani, si converti presto. Era già diacono di
Alessandro vescovd di Alessandria_ Fin dal prin- cipio Atanasio coadiuvò nella
polemica contro Ario il suo vescovo, e oon lui assistette al Concilio di Nicea.
Morto Alessandro, Atanasio fu nominato vescovo di Alessandria. Tutta la sua
vita fu consacrata alla lotta contro l'arianesimo. Quando Co- stantino cercò di
riconciliarsi con Ario (335-336), l'Imperatore lo mandò in esilio a Treviri;
morto Costantino, Atanasio tornò ad Alessandria. Poco dopo dovette di nuovo
esulare per volontà dell'imperatore Costanzo, istigato da Gregorio di
Cappadocia. Tornò ad Alessandria alla morte di Gregorio nel 346. La politica
filoariana di Costanzo lo costrinse a fuggire ancora una volta da Alessandria
nel 356. Solo alla morte di Costanzo e all'avvento di GIULIANO, che rimise
nelle loro sedi tutti coloro ch'erano stati esiliati, per questioni religiose,
Atanasio poté tornare ad Alessandria. Ma la foga di Atanasio preoccupò anche
Giuliano, che lo fece allontanare ancora una volta. Morto Giuliano (363), avuto
il sopravvento il Cristianesimo di Roma, Atanasio poté rientrare nella sua
Sede, tranne la breve parentesi del 364-366, in cui, per ordine di Valente,
ariano, Atanasio si allontanò per la quinta volta da Alessandria: dal 366 al
373, anno della sua morte, Atanasio visse tranquillamente ad Alessandria. Tra
le prime opere di Atanasio si ricor<)ano Il discorso contro i Grui e il
Discorso dell'incarnazione (bJa:v6p(l)7rljGE(I)~ = enantrop~seos) del Verbo,
composti tra il 318 e il 320. L'opera piu importante contro gli ariani è
costituita dai Discorsi contro gli Ariani (sono quattro discorsi, di cui i
primi tre autentici). Si dubita che siano di Atanasio (si è pensato di qualche
suo seguace) il Dell'incarnazione e contro gli Ariani, e il trattatello Sul
testo: tutte le cose mi furono rivelate. Ispirati da Atanasio e, certo, della
sua scuola sono gli scritti De Trinitate et Spiritu Sancto; Ddl'incarnazione
contro Apollinare; L'incono di Alessandria, successo ad Alessandro, in qualità
di ve- scovo di Alessandria, la tesi dell'unità e trinità di Dio, della
consustanzialità del Padre e del Figlio, riconosciuta ortodossa nel sim- bolo
niceno, venne mantenuta e difesa ad oltranza da Atanasio, nei successivi grossi
conflitti avvenuti dopo Nicea, a favore della tesi ata- nasiana o di quella
ariana, quest'ultima seguita particolarmente da tutti gli elementi scontenti
dell'ordinamento della Chiesa, e non solo Cri- stiani, ma anche pagani. Molti
pagani anzi si convertirono al cristia- nesimo ariano vedendo in esso quella
salvazione dell'uomo promessa da un Cristo non divino, ma uomo tra uomini, che
nella aristocratiz- zazione, burocratizzazione, stabilizza.zione della Chiesa,
veniva ad essere negata. Entro questi termini si vede bene come una discus-
sione esegetica e teologico-filosofica implicasse, a sua volta, una grossa
problematica politica. Non a casolo stesso Costantino, che, nèlla pole- mica
tra la Chiesa e Ario, vedeva la possibilità di un indebolimento dell'autorità
della Chiesa, per cui a Nicea appoggiò la tesi ufficiale, piU tardi, allorché
si rese conto del mordente che in taluni ambienti ebbe l'arianesimo, manifestò,
forse a ciò spinto anche da Eusebio di Cesarea, che sosteneva, sulla scia di
Origene, che il L6gos è subordi- nato al Padre, una viva simpatia per gli
ariani, tanto che, per evitare agitazioni, fece esiliare Atanasio a Treviri.
Morto Costantino, le alterne e tragiche vicende successorie, portarono a
seconda di chi ebbe di volta in volta il potere e a seconda della zona in cui
piu forte era l'appoggio che poteva venire dalla cor- rente ortodosso-romana o
dalla corrente ariana, a dare ora il soprav- vento ai sostenitori della tesi
nicena ora ai sostenitori dell'arianesimo. Costanzo, uno dei tre figli di
Costantino, impegnato in Mesopotamia nella lotta contro i Persiani, appena
conosciuta la morte del padre accorse a Costantinopoli, dove fece uccidere i
fratelli di Costantino e sette suoi nipoti, e assunse il potere in tutto
l'Oriente; in Occidente dopo una guerra tra i due figli di Costantino, Costante
e Costantino Il, morto Costantino II, ebl:ie il sopravvento Costante. Avuto il
sopravvento in Occidente, Costante, legato ai circoli della Chiesa orto- dossa
e favorevole perciò alle decisioni del Concilio di Nicea, mise al bando
l'arianesimo. Atanasio, cosi, che all'indomani della morte di carna11ione di
Dio; Uno è Cristo; Il discorso maggiore sulla f"de. Certamente di Atanasio
invece sono le seguenti opere storico-polemiche: Apologia contro gli Ariani;
Apologia all'lmp.,ratorc Costanzo; Apolugia dt:lla fuga; Della dottrina di
Dionigi; Sui dur.,ti d"l sinodo niceno; Dci sinodi di Rimini e di
Se/cucia (una delle opc:re piu
importanti di Atanasio, in cui fa la storia di questi due Concili). lncom·
pleta è giunta la Storia degli Ariani, non piu che citata (Gerolamo, Dc vir.)
uno scritto Contro Valente e Ursacio. Opere di morale e d i edifu:azione sono:
Vita di Sant'Antonio, Della Verginità (se ne dubita l'autenticità). Molte le
lettere di Atanasio. Costantino era tornato ad Alessandria, ma che, su
decreto di Costan- zo, imperatore in Oriente, ove l'arianesimo si era non poco
diffuso, era stato costretto a ritornare in esilio, poté, col favore del-
l'imperatore di Occidente, Costante, ritornare in Alessandria. Morto Costante,
vittima in Gallia di un complotto organizzato dal generale Magnenzio, le Gallie
proclamarono imperatore Ma- gnenzio. Di contro, gli veniva opposto a Roma
Augusto Nepoziano, nipote di Costantino l. Magnenzio accorse a Roma e Augusto
Nepo- ziano venne ucciso. Le truppe dell'Illiria eleggevano intanto impera-
tore il generale Vetranione, favorevole agli ariani (Ario, dopo il Concilio di
Nicea era andato in esilio in Illiria). Dall'Oriente intervenne Costanzo, che,
alleatosi con Vetranione, il quale rinunciò al potere, sconfitto Magnenzio,
rimase unico imperatore. Costanzo evi- dentemente ritenne piu opportuno
appoggiarsi alle forze cristiane ariane, particolarmente diffuse in Oriente e
nell'Illiria, tanto che in un con- cilio della Chiesa tenuto a Milano fece
condannare Atanasio che fu di nuovo cacciato da Alessandria. Solo alla morte di
Costanzo, Atanasio poté tornare ad Alessandria. Costretto di nuovo ad
abbandonare Alessandria per ordine del nuovo ed unico imperatore Giuliano, in
funzione della sua battaglia contro la Chiesa cristiana e contro,
particolarmente·, l'assorbimento dello Stato nella Chiesa, Atanasio tornò ad
Alessandria alla morte di GIULIANO e vi rimase fino a quando venne anc9ra una
volta esiliato dall'imperatore Valente, che, tuttavi·a, ben presto - resosi
conto che oramai in Occidente la Chiesa piu forte era quella di Roma - lo
reintegrò vescovo di Alessandria, ove rimase fino alla morte. Ario era morto
nel 336, improvvisamente a Costantinopoli, mentre, su pressione di Costantino,
stava per riconciliarsi solennemente con la Chiesa. Dopo il Concilio di Nicea
ricordiamo che Aria era stato esi- liato nell'Illiria. Dopo Ario, oltre Asteria
di Cappadocia, vecchio disce- polo di Luciano di Antiochia, che a favore della
tesi di Ario aveva rac- colto una serie di testi
(auv-rrxy!_J.oc-rtov-syntagmation) che dovevano ser- vire a provare che il
Verbo è creato (cfr. Atanasio, Or. I, 30-34; Or. Il, 37; Or.; De decretis; De
synodis), il vero e proprio capo politico della corrente ariana, come dice il
Tixeront (Patrologia, cit., p. 147), fu Eusebio vescovo di Nicomedia (presso
cui Ario si era rifugiato durante il suo primo esilio avanti Nicea), vis- suto
fino al 342. L'arianesimo assunse poi piu facce, in una sempre piu sottile
discussione sull'autentico significato da dare ai termini sostanza e
simiglianza relativi a Dio e al Verbo, senza dubbio,. talvolta, in un'esigenza
di riconciliazione con la tesi nicena. Entro i termini della discussione ariana
si distinsero cosi tre cor- renti. La prima è quella degli ariani
intransigenti, secondo cui il L6gos non è dissimile (ocv6tJ.OLO~-anòm.oios) dal
Padre. Capo di tale corrente - detta degli anomci -, ricollegandosi a Paolo di
Samosata, fu Potino, vescovo di Sirmio in Pannonia e quindi Ezio, originario di
Antiochia, particolarmente preparato in dialettica aristotelica, che aveva
studiato ad Alessandria. Ezio, elevato al diaconato, sostenne la tesi di Ario,
usando la dialettica aristotelica, in una serrata dimostra- zione della
contraddittorietà di porre due divinità, per cui il Verbo non può logicamente
dirsi della stessa sostanza del Padre. Il Figlio perciò non si può porre che
come una creatura inferiore, anche se la piu perfetta, e diversa dal Padre,
ché, ragionevolmente, ciò che è gene- rato non può essere Dio (cfr.' Di Dio
ingcncrato c del generato: qua- rantasette brevi ragionamenti in forma
sillogistica, conservati da Epi- fanio in Hacrcs.). Discepolo di Ezio fu
Eunomio, originario della Cappadocia, diacono di Antiochia, infine vescovo di
Cizico. Dal poo che è rimasto di lui, morto sotto Teodosio, si deduce ch'egli
fu, come Ezio, un forte sostenitore dell'anomcismo, si corne lo furono
Eudossio,' vescovo prima di Antiochia e poi di Costantinopoli e Giorgio vescovo
di Laodicea. La seconda corrente è quella dei cosiddetti scmiariani, i quali
p4r respingendo. la consustanzialità, cioè che il Figlio abbia la stessa so-
stanza (otJ.oouaLo~-homousios) del Padre, sostengono che tra la sostanza del
Padre e quella del Figlio vi è una certa somiglianza OtJ.OLOUaLoç -
homoiusios). Capo dei semiariani fu Basilio vescovo di Ancira, morto nel 356
(scrisse due lunghe memorie teologiche, conservate da Epifanio, Hacrcs.),
seguito poi da Eustazio, vescovo di Sebaste il quale fu particolarmente un
asceta, fondatore del monachesimo nell'Asia Minore e maestro di Basilio il
grande. Poco o nulla sappiamo di Euzoio, vescovo di Cesarea, anche egli,
sembra, seguace della corrente semiariana. Tesi molto piu equivoca, passibile
di essere accettata dall'una e dall'altra parte, fu quella, secondo cui, senza
approfondire la questione della sostanza, si diceva vagamente che il Verbo è
simile (l5tJ.oLOIO- hòmoios) al Padre. Tale tesi, detta degli omèi,, fu
sostenuta dal suc- cessore di Eusebio di Cesarea, Acacie, legato all'origenismo
e elle prosegui ad arricchire la biblioteca di Cesarea, e dai vescovi Teodoro
di Eraclea ed Eusebio di Emesa, quest'ul- timo, secondo San Gerolamo (Vir.),
raffinato rètore ed esegeta seguace della scuola di Antiochia (cfr. sopra). Per
altro verso la lunga discussione da parte ariana della tesi nicena dette luogo,
a· sua volta, da parte dei difensori della consustanzialità della divinità del
L6gos ad un approfondimento della tesi nicena, che se da un lato portò a migliori
ed acute precisazioni, e, in funzione di quelle, a nuove interpretazioni della
tesi plotiniana e origeniana, anche sul piano filologico (non a caso Gregorio
di Nissa distinse il signifi- cato di sostanza da quello di persona),
dall'altro lato dette luogo a una serie di grossi problemi intorno alla natura
del Cristo, Dio e, ad un tempo, uomo. Per il primo aspetto, piu che al
pedissequo seguace della tesi nicena, Didimo Cieco, assai vicino, per altro, ad
Origene, salito in fama di dotto maestro (per cui ad Ales- sandria andarono ad
ascoltarlo Sant'Antonio, Palladio, Evagrio Pon- tico, San Gerolamo, Rufino),
pensiamo qui ai celebri "luminari" di Cappadocia, San Basilio, San
Gregorio di Nazianzo, San Gregorio di Nissa, i tre "padri" della
Chiesa di Oriente; e per il secondo aspetto, ad Apollinare, amico di Atanasio,
soste- nitore dell'unità e trinità di Dio, secondo il simbolo niceno, che per
primo apri la discussione sulla natura divina o umana del Cristo, e la cui tesi
venne condannata nel Concilio del negando egli che il Cristo in quanto Verbo fattosi
corpo potesse avere anima umana, ché l'anima è, origenianamente, il limite, il
raffreddamento dello spirito, dovuto al peccato, alla ribellione a Dio e al
L6gos che resta sempre peccato. Tutte queste discussioni, relative da un lato,
ripetiamo, al come intendere il concetto di sostanza e di persona, dall'altro
lato, posto che il Verbo è Dio, al significato da dare, allora, alla natura
umana del Cristo, meglio si comprendono tenendo presente, ora, la formulazione
dello stesso simbolo niceno, che, come ha sostenuto Gilson, delimita "il
quadro all'interno del quale il pensiero cri- stiano dovrà oramai
mantenersi" - avendo, aggiungiamo, avuto poi la Chiesa di Roma il
sopravvento. Crediamo in un solo Dio, padre onnipotente, fattore delle cose
tutte, delle visibili e delle invisibili. E crediamo in un sol nostro Signore
Gesu Cristo, figlio di Dio, nato unigenito dal Padre, cioè dalla sostanza del
Padre (èx -t~ç oòa(ocç -tou 'ltot-tp6ç ), Dio da Dio (0r:òv èx 0r:ou ), luce da
luce, Dio vero da vero Dio, generato non fatto (yevv'rj6~not où 'ltOL'rj6énot),
della stessa sostanza (OfLOUaLov - homusion) del Padre (consustanziale al
Padre), mediante cui tutte le cose sono nate, quelle che sono in cielo come
quelle che sono in terra; il quale, per noi e per la nostra salvezza, è
disceso, si è incarnato, ha sofferto, è resuscitato il terzo giorno, è risalito
nei cieli, e verrà a giudicare i vivi e i morti. E crediamo nello Spirito
Santo. Quanto a coloro [ariani] che dicono: tempo vi fu in cui egli non era, o
che non era prima d'esser statà generato, o è nato dal nulla, o è di un'altra
ipostasi o di un'altra sostanza, o che il Figlio di Dio è creato (x-tLa't6v ),
o mutevole, 304 o sottomesso al cangiamento, tutti costoro la Chiesa
cattolica e apostolica di Dio li anatemizza. Alla morte di Costanzo, avvenuta
nell'ottobre del 361, in Asia Minore, unico imperatore fu riconosciuto il
cugino di Costanzo, FLAVIO CLAUDIO GIULIANO, figlio di Giulio Costanzo,
fratello di Costantino l. Il padre e i fratelli di Giuliano, tranne Gallo,
erano tutti caduti vittime delle stragi familiari perpetrate da Costanzo. Anche
Gallo, scampato alle prime stragi, insieme a Giuliano, verrà condannato a morte
da Costanzo al tempo in cui l'imperatore, per venire a com- battere Magnenzio
(cfr. sopra), aveva nominato Gallo, Cesare per l'Oriente. Gallo, sospettato da
Costanzo d~ volersi impadronire del trono in Oriente, fu fatto uccidere.
Costanzo, allora, tornato in Oriente, fu costretto a nominare Cesare Giuliano,
mandandolo nelle Gallie ad ostacolare le pressioni dei Franchi e degli
Alemanni. Alla morte del padre e degli altri fratelli, Giuliano aveva sei anni.
Insieme al fratello Gallo fu dal sospettoso Costanzo tenuto semi- prigioniero
ed affidato ad Eusebio vescovo di Nicomedia che lo allevò nella piu ferrea
disciplina cristiano-ariana e nell'odio contro le religioni e le culture non
cristiane. Morto Eusebio, i due fratelli vennero relegati in una villa della
Cappadocia, ove ebbero per maestri ferventi cristiano-ariani, ligi agli ordini
impartiti da Costanzo, che non voleva che i due giovani conoscessero e
leggessero i grandi autori dell'anti- chità. Uno dei maestri di corte,
tuttavia, un certo Mardonio, in segreto fece leggere a Giuliano alcune opere di
poeti e di filosofi greci.:t: facile rendersi conto di come tutto un mondo
nuovo (e proibito) si aprisse in tal modo a Giuliano, oppresso
dall'insegnamento cristiano voluto dall'alto e proveniente da uomini ch'erano
suoi nemici. Nel 10 Sulla vita di Giuliano (Flavio Claudio), nato a
Costantinopoli nel 311, morto, in battaglia per ciò che qui interessa,
confronta sopra, il testo. Di Giuliano si sono conservate le seguenti opere:
Orazioni, I-VIII: particolarmente importanti sono l'Orazione IV al rt: Elios,
l'Orazione V alla Dt:a maàrt:, l'Orazione VI Contro i cinici ignoranti, in cui
si difendono gli antichi cinici, l'Orazione VII Contro il cinico Eraclio,
l'Orazione VIII Consolatoria pt:r la partt:nza di Sallustio, l'Orazione II Sul
sovrano idt:alt: (furono scritte in epoche diverse: le Orazioni I e III,
panegirici di Costanzo Il e di Eusebia, nelle Gallie, tra il 355 e il 356;
l'Orazione II; l'Orazione VIII; le Orazioni V! e VII; le Orazioni IV' e V sulla
fine del 362); Lettt:rt:: agli Att:nit:si (in numero di IV) e al filosofo
Tt:mistio; l Cuari; Misopogon; numerose lt:ggi. Tra i molti fram- menti di
opere perdute particolarmente interessanti quelli dello scritto Contro i
Cristiani e di una lettera ad un sacerdote. Sono andati perduti un libro Sulla
battaglia di Strasburgo e le Lt:ttt:rt: ai Corinti, ai Laet:dt:moni, al St:nato
di Roma. Cristianesimo, da allora, Giuliano vide da un lato una religione fana-
tica, torbida, chiusa in discussioni teologiche assurde, oppressive, dal-
l'altro lato lo strumento di un potere politico che nella sua intolleranza - di
questi anni, tra l'altro, è l'opera di Firmico Materno, in cui si chiede
all'imperatore Costanzo la distruzione e la persecuzione dei pagani - avrebbe
annullato la possibilità di una religione universale, ove trovassero il loro
posto le varie religioni e culti, espressioni tutte di un unico e naturale
sentimento religioso. Nominato Gallo Cesare, Giuliano era stato chiamato da
Costanzo a Costantinopoli perché vi compisse gli studi superiori, ma sotto la
guida del rètore cristiano Ecebolio, noto come il "dispregiatore degli
dèi." A Nicomedia, dove, poco tempo dopo, Costanzo volle che Giuliano
tornasse, Giuliano, in segreto - ufficialmente si finse fervido cristiano,
entrando perfino nel clero di Nicomedia - prese contatto con il celebre rètore
Libanio di Antiochia, del quale leggeva le lezioni, passategli da un uomo
ch'egli aveva prezzolato a tale scopo. Attra- verso Libanio - il quale dirà poi
che Giuliano aveva compreso meglio di coloro che lo avevano ascoltato il significato
del suo insegnamento, del platonismo, della religiosità greca - e attraverso
l'insegnamento dd neoplatonico Massimo di Efeso (cfr. sopra), che, in segreto,
andò a trovare ad Efeso, Giuliano si approfondi nella lettura dei poeti, dei
filosofi, nella scienza magica e teurgica· (per i rapporti tra Giuliano e i
filosofi della scuola neoplatonica di Pergamo e di Siria, cfr. sopra), nei
segreti degli Oracoli Caldaici (cfr. sopra). Morto Gallo, nominato_Cesare e
inviato nelìe Gallie, Giuliano sgo- mento dapprima di dovere affrontare la vita
pratica, militare, politica ("non è affar mio," esclamò, "hanno
messo la sella su di una vacca"), si dimostrò abile condottiero (sconfisse
ad Argentorati gli Ale- manni), e diplomatico (riusd ad accordarsi con i
Franchi), mentre si adoperava a sanare contrasti politici e ideologici,
sostenendo il valore di un'unica intesa nella coscienza di un'unica cultura e
tradizione, messa in discussione dall'unilateralità e dall'esclusivismo dei
Cristiani. Costanzo, preoccupato per l'attacco ai territori romani da parte di
Sapore II di Persia ch'era riuscito a passare in forze il Tigri, chiese a
Giuliano aiuti. Giuliano, intanto, aveva promesso ai barbari incamerati nel suo
esercito che non avrebbe mosso dalla Gallia i Galli. Costanzo premette. In
Gallia scoppiò una rivolta contro Costanzo e Giuliano fu acclamato Augusto.
Giuliano chiese a Costanzo di riconoscerlo Augusto. Costanzo tacque. Giuliano
si mosse verso l'Illiria. Costanzo decise allora di andargli incontro, ma
durante il viaggio, nell'ottobre del 361 morL Giuliano fu riconosciuto allora
unico Imperatore. È sembrato opportuno, sia pur brevemente, discorrere della
vita e della prima formazione di Giuliano perché ciò spiega, in parte almeno,
l'atteggiamento non cristiano del cristiano Giuliano, e le sue piu pro- fonde
ragioni. Non sembra cosi errato dire che la religiosità di Giu- liano, la sua
esigenza di una pacificazione cattolica, l'esigenza di certo cristianesimo
stesso, nel quale non a caso Giuliano fu allevato, sta nella conversione di
Giuliano, nella cosiddetta apostasia di lui, nel suo negare il Cristianesimo
come unica e vera religione. In Plotino, invece, mediato attraverso Giamblico,
Giuliano vedeva la possibilità di un'au- tentica religione universale
razionalmente fondata, capace di accogliere in sé i miti e le religioni della
tradizione greco-romana, anche il Cri- stianesimo, in quello ch'era l'aspetto
piu plotinico (non ariano) del Cristianesimo, pur sapendo che tali religioni
sono in realtà miti, ma simbolicamente validi ad avviare alla comprensione
degli dèi e delle divinità, momenti, estrinsecazioni dell'unica legge divina
(di qui, an- cora una volta, entro l'àmbito del neoplatonismo, il significato
dato da Giuliano all'elioteismo e all'antico culto della Dea madre: cfr. in
par- ticolare le Orazioni IV, al re Elios e V alla Dea Madre degli Dèi; sul
significato dei miti cfr. in particolare l'Orazione VII, contro Eraclio). Entro
questa visione di un tutto ordinato, si scandiscono dall'Uno tutti gli aspetti
della realtà. Oltre tutto l'Uno, ragion d'essr:re del tutto, esso è il
sovraintelligibile, l'Idea degli esseri, il Bene: "questo invero, sia che
dobbiamo designarlo come ciò che sta oltre l'Intelletto, oppure come l'Idea
dell'Essere, intenderrdo cosi tutto il mondo intelligibile, o chiamiamolo anche
l'Uno, per il motivo che l'Uno sembra in qual- che modo anteriore a tutte le
cose, oppure per usare il termine solito di Platone, il Bene, appunto questa
causa uniforme di tutte le cose è fonte per tutti gli esseri di bellezza, di
perfezione, di unità e di po- tenza irresistibile" (Al re Elios, 132d). La
prima distinzione dell'Uno è l'Intelletto, nei suoi due momenti dialettici, in
senso giamblicheo, di mondo intelligibile - mondo delle idee - e di mondo
intellettuale - le attività pensanti, - donde gli dèi intelligibili, di cui
primo, figlio del Bene, secondo il mito platonico, è il Sole, e da questi gli
dèi intel- lettuali, al di sotto dei quali si scandiscono il mondo sensibile,
le divi- nità visibili, gli astri, il tutto tenuto in unità, simbolicamente dal
Sole, riflesso dalla luminosità dell'Uno, che dà essere, vita e intelligi-
bilità a tutto, onde il dio Sole è termine medio· tra il mondo intelli- gibile
e il mondo sensibile, mediante cui la luminosità dell'Uno si viene, per cosi
dire, materiando nella luce di cui tutto è costituito. La luce alla sua volta è
una forma di questa per cosf dire materia, che.è sostrato e segue l'estensione
dei corpi luminosi. E della luce stessa che è incorporea i raggi sarebbero in
certo qual modo il vertice e come il fiore. 307 E appunto secondo
l'opinione dei Fenici che sono sapienti e informati nelle cose divine:, lo
splendore luminoso ovunque diffuso è la incontaminata estrin- secazione attiva
del puro Intelletto... Il mondo intelligibile forma assolutamente un'unità,
preesiste dall'eterno a ogni cosa e tutto abbraccia insieme nella sua unità. E
non è forse anche l'intero universo un solo organismo vivente, tutto ripieno
d'anima e di spirito, un tutto perfetto costituito di parti perfette? [cfr.
Timeo, 33a]. Vi è dunque una duplice perfezione unificatrice, cioè quella unità
che comprende nell'uno tutto ciò che esiste nel mondo intelligibile e quella
che intorno al mondo visibile si concentra in una sola e medesima perfetta
natura. Nel mezzo sta la perfezione unificatrice di Elios Re, la quale risiede
tra gli dèi dotati di intelletto. E successivamente nel mondo degli dèi
intelligibili vi è una specie di forza avvincente che tutte le cose coordina
verso l'unità. La sostanza del quinto elemento che si muove nella propria
orbita tiene riunite tutte le parti e le stringe tra loro... Queste due
sostanze che cooperano alla connessione, delle quali l'una appare nel mondo
intelligibile, l'altra nel sensibile, Elios Re le congiunge in una sola... (A
Elios). Entro questa visione di un tutto ordinato, dall'Uno ai molti, limiti e
ombre nell'unità luminosa del tutto, ove, indipendentemente da qual- sivoglia
intervento miracoloso, l'anima, per limitata che sia, per presa che sia dalle
cose, per dimentica che sia della sua origine, ha pur sempre in sé una
scintilla divina, è un seme dell'unico Dio, di tutti padre ("certo io
invidio pure la sorte fortunata di ~olui che poté avere dalla divinità un corpo
costituito da un seme divino e profetico,... ma so anche che di tutti gli
uomini Elios è il padre comune": A Elios), ricordandosi del quale può, con
le sue forze, purificarsi, tor- nare da dove è venuta. Di qui l'appello di
Giuliano a una serietà di vita, da un lato intesa come mestiere e dovere, in. una
ideale vita stoico- cinica (non a caso Giuliano ne I C~sari si sofferma con
simpatia sulla vita e sull'opera di Marco Aurelio, ch'egli prende a modello del
suo mestiere di imperatore, mentre si compiace di ·ricordare i cinici del tempo
antico: cfr. Oraz. VII Contro il cinico Eraclio e Oraz. VI Contro i cinici
ignoranti, in difesa dell'antico cinismo), dall'altro lato come purificazione,
mediante cui liberarsi dai limiti terreni, riscoprire l'anima, riconducendola,
anche attraverso pratiche magico-teurgiche (cfr. sopra il significato piu
profondo é nient'affatto torbido della magia e della teurgia), alla patria
celeste donde è venuta. Il che non signifi- cava per Giuliano negare il
Cristianesimo, particolarmente il çristia- nesimo non ariano, in quanto religione,
ma si in quanto unica e vera religione, non mitica come le altre, nella sua
pretesa d'essere l'unica verità rivelata da Dio (si vedano i frammenti dello
scritto Contro i Cristiani, ove riprendendo gli argomenti di Celso e di
Porfirio con molta acutezza Giuliano, confrontando il Vecchio e il Nuovo Testa-
mento con la teologia greca, cerca di mostrare da un lato le contrad- dizioni
del Vecchio e del Nuovo Testamento, e il loro significato se assunti anch'essi
come miti popolari, dall'altro lato data la loro parzia- lità, la loro
intolleranza esclusivistica, l'impossibilità che sul Cristiane- simo si fondi
una religione universale, tale da pacificare e moraliz- zare, in unità, gli
aspetti molteplici in cui si presenta la vita religiosa nei suoi culti diversi).
Di qui sul piano politico di una organizzazione religiosa, di contro
all'intolleranza cristiana, la tolleranza di Giuliano, anche nei confronti
della religione cristiana; Giuliano, sotto questo aspetto, non condannò né
perseguitò i Cristiani, mantenendo validità legale all'Editto di Milano. Volle
solo, proprio in nome di quel- l'Editto, che anche i Cristiani rientrassero
nell'ordine, si adeguassero ad essere considerati come facenti parte di una
certa religione, posta, al pari delle altre, entro i termini dell'unica
organizzazione politica delle varie religioni, nell'istituzione - a imitazione
dell'organizzazione ecclesiastica cristiana - di un vero clero professionale e
di una gerar- chia religiosa, ignota ptima di allora alle religioni greco-romane.
Si capisce cosi come una delle prime misure prese da Giuliano sia stata quella
di far tornare nelle loro sedi tutti coloro che per motivi reli- giosi erano
stati esiliati da Costanzo (tra questi vi fu, in principio, anche Atanasio) e
che fossero restituiti ai legittimi proprietari i beni confiscati per motivi
religiosi (di ciò godettero particolarmente i templi pagani ai quali erano
stati tolti tesori, terre, edifici, passati a comunità cristiane). Giuliano,
infine, decretò la chiusura delle scuole rette da grammatici, rètori, filosofi
cristiani (Editto), sostenendo che il loro unilaterale insegnamento, il loro
escludere poeti e filosofi antichi era un danno per l'insegnamento stesso, per
la libera ricerca. Naturalmente tutto ciò apparve da parte cristiana una
persecu- zione, mentre molti che in precedenza erano stati danneggiati dai cri-
stiani, sentendosi appoggiati dall'Imperatore, si dettero a vendette che
portarono anche all'uccisione di non pochi cristiani (ad Alessandria la folla
uccise il vescovo Giorgio). In realtà, l'intento di Giuliano non fu un mero
ritorno al pas- sato, come troppo superficialmente è stato detto, giudicando
solo dal punto di vista della reazione cristiana, non fu un'accademica
restaura- zione di culti e religioni morti da tempo. Esso fu piuttosto - anche
se in termini eccessivamente scolastici,...... dettato dall'esigenza profonda,
com- prensiva di una situazione storico-culturale ben precisa, di una pacifica-
zione di ideologie, fomite di lotte e di conflitti, in una comune religione di
Stato, entro cui potessero convivere in armonia culti e riti diversi, ri-
spondenti tutti ad un'unica naturale religione, che Giuliano, sulla scia dei
suoi amici neoplatonici di Pergamo e di Siria, vedeva realizzabile entro i
termini della filosofia plotinico-giamblichea, corposamente e mitica- mente
traducibile nei termini della religione solare. Non solo, ma un'at- tenta
lettura delle opere di Giuliano, se da un lato rivela il suo intento politico,
di instaurare una religione di Stato, in nome della tolleranza, riportando con
ciò anche il Cristianesimo entro i termini legali (tale il significato del
mantenimento dell'Editto di Milano), dall'altro lato rivela come Giuliano si
sia mos-so entro l'àmbito di quella koinè cultu- rale di cui parlavamo e per
cui non poche volte è difficile - e non solo per Giuliano - distinguere tra
testi che poi nelle loro conclu- sioni sono nettamente cristiani, da testi che
nelle loro conclusioni sono irriducibili alla visione ed alla concezione
cristiana. E ciò particolar- mente vale sia quando si tratta di immagini (in
special modo quelle tratte dalla luce), sia quando si tratta della
superessenzialità dell'Uno Dio. E cosi, che gli dèi di Giuliano, sulla linea
stoica e neoplatonica, siano intesi come simboli e che i culti e le descrizioni
delle religioni siano intesi come miti, senza di cui in realtà le religioni
stesse non sarebbero, e che dèi e miti vadano interpretati allegoricamente,
risulta non solo dallo stesso Giuliano, ma, piu chiaramente· ancora, da una
breve opera, Sugli dèi e sul mondo, di un intimo amico di Giuliano,
Sallustio,11 che con molta finezza discute il significato del mito, entro
l'àmbito di una precisa concezione neoplatonica e solare. Gli dèi (en- cosmici
e ipercosmicz) sono considerati come emanazioni e "forze" visibili
che derivano dall'invisibile Unico Dio, causa delle cause, super- essenziale,
potenza assoluta, entro cui si scandisce in eterno il ritmo di tutta la realtà
(coeterno a Dio e in Dio è decisamente detto il mondo), unico mondo, molteplice
e uno nell'Uno, e dove il "male," 11 Si è per secoli molto discusso
sull'autore del breve trattato D~gli dèi ~ del mondo. Si è sostenuto che fosse
opera di un cinico sofista del v-vi secolo (Sallustio di Emesa); il Naudé pensò
si trattasse di un tardo autore stoico; il Wilamowitz di un Sallustio
grammatico, autore di argomenti sulle tragedie di Sofocle; infine, da Orelli a
Mullach, a Cumont, a Tillemont, si è sostenuto trattarsi di un Sallustio, alto
funzionario dell'Im- pero e amico intimo di Giuliano Imperatore. Poiché intorno
a Giuliano ruotarono due Sallusti, Flavio Sallustio e Secondo Sallustio, il
primo prefetto delle Gallie, il secondo pre- fetto d'Oriente, si è trattato di
accertare a quale dei due debba darsi la paternità Degli d~ e del mondo. Se il
Cumont propendeva per il primo, spiegando l'epiteto di filosofo riportato da
tutta la tradizione manoscritta del trattatello con una cattiva lettura
dell'ab- breviazione ~À = ~Àa:~(ou per ~~Àocr6cpou; dopo che la pubblicazione
della raccolta delle Iscrizioni dell’Hermann Dessau (“lnscriptiones latinae
selectee”, I, Berlino) ha permesso una ricostruzione esatta della carriera e
delle mansioni presso Giuliano dell'uno e dell'altro Sallustio, ci si è
convinti che il Sallustio autore del trattato Degli dèi e del mondo, è Secondo
Sallustio ch'ebbe molti piu contatti con Giuliano, il cui scritto è senza
dubbio ispirato alle opere filosofiche di Giuliano, tanto che si è fatto
l'ipotesi che il Degli dèi e del mondo sia stato composto nel 362 (si confronti
in particolare G. Rochefort, ln- troduction à Saloustios: Des di~u:r et du
m'ar:de, texte établi et traduit par G. R., "Les Belles Lettres,"
Parigi)] si come la materia, non ha alcuna realtà positiva, ma è dovuto all'in-
comprensione umana, all'ignoranza, all'unilaterale visione del tutto
esteriorizzata ("non esiste alcun male positivo, si come non v'è alcuna
oscurità positiva, ma solo mancanza di luce": Sallustio. Per l'importanza
storica e per il significato anche politico, in funzione della politica di
Giuliano, di questo libro di Sallustio, che il Murray ha definito una
"sorta di credo ragionato, per fissare in modo convin- cente le linee
generali della... religione ellenica," rimandiamo allo stesso Murray, Five
Stages of Greek Religion, New York, e a G. Rochefort, lntroduction à
Saloustios, Des dieux et du monde, texte établi et traduit par G.R., Parigi) Il
tentativo di Giuliano non rimase un mero episodio, anche se alla sua morte,
avvenuta in battaglia nella guerra contro i Persiani, con la nomina a
imperatore, nel 364, di Gioviano, cristiano, crollò subito l'edificio da lui
creato di un sacerdozio professionale del- l'unica religione di Stato. Sia pure
in termini rovesciati, cioè nel soprav- vento della religione cristiana, si
giunse, necessariamente, alla procla- mazione dell'unica religione dell'Impero
(sotto Teodosio l, trent'anni circa dopo la morte di Giuliano). In realtà, la
stessa concezione reli- giosa di Giuliano, la sua comprensione della necessità
politica di una religione universale, che egli vedeva compromessa
dall'intolleranza del Cristianesimo, erano piu vicine di quel che possa
apparire a prima vist~ alle esigenze ed alla situazione politico-sociale cui,
almeno in Occidente, rispondeva la forza interna - morale, organizzativa, economica
- del Cristianesimo. E cosi fu. La nota decadenza politico-militare implicò una
sempre piu drammatica tragedia economica. Basti ricordare che proprio in questo
tempo si venne formando un sistema di rapporti fondato sull'economia chiusa e
sul servaggio. Gli stipendi, i tributi e cosi via cominciarono ad essere pagati
in natura (moneta l'ebbero solo funzionari e militari d'alto grado). In un
sempre maggiore aggravio fiscale per venire incontro alle spese militari, per
evitare che le popo- lazioni non pagassero le imposte, si venne via via
costringendo cia- scuno a non trasferirsi piu dalle terre sulle quali lavorava.
Il commer- cio si venne estinguendo, o riducendo in prevalenza al solo mercato
urbano. Naturalmente le poche forze economic~e rimaste si vennero raccogliendo
nelle mani dei grossi proprietari terrieri, che vennero costi- tuendo come
tanti piccoli stati nello Stato che di fronte a loro ·non aveva piu potere. In
tale tipo di economia, già feudale, il potere dello Stato venne sempre piu
spezzandosi nelle mani di ciascun singolo proprietario. Fuggire via
dall'Impero, presso i barbari, o, se possibile, raccogliersi sotto la
protezione dei proprietari, sembrò il mezzo mi- gliore per evitare lo Stato,
che, in effetto, non esisteva piu. E intanto - scrive Salviano nel v secolo - i
poveri, le vedove e gli orfani, spogliati e oppressi erano giunti a un punto di
disperazione tale che molti, pur appartenendo a famiglie note e avendo ricevuto
una buona educazione, erano costretti a cercare rifugio presso i nemici del
popolo romano per non rimanere vittime di· ingiuste persecuzioni. Essi si
recavano presso i barbari in cerca dell'umanità romana, poiché non potevano
sopportare presso i Romani l'inumanità barbara. Sebbene essi fossero estranei,
per costumi, per lingua, ai barbari presso i quali fuggivano, sebbene fossero
colpiti dal loro basso livello di vita, nonostante tutto risultava loro piu
facile abituarsi ai costumi barbari che sopportare la ingiusta crudeltà dei
Romani. Essi si mette- vano al servizio dei Goti o dei Bagaudi [coloro che in
Gallia, particolarmente contadini e schiavi, avevano costituito un forte e
autonomo movimento anti-romano: in celtico “bagaudi” significa
"combattenti," "lottatori"], e non se ne pentivano,
preferendo vivere liberamente con il nome di schiavi, piuttosto che essere
schiavi mantenendo soltanto il nome di liberi (De gubernatione Dei, V). Chi non
poteva andar via prefer1 rifugiarsi presso i grandi proprie- tari terrieri.
Tale decadenza e tale crisi portarono dietro a sé la sempre piu sentita
esigenza di un potere gerarchicamente costituito. La chiesa, almeno in
Occidente, sia per la sua organizzazione e gerarchizzazione, sia per essere
divenuta tra i proprietari uno dei piu grandi, sembrò offrire l'unica
possibilità di salvazione, da un lato accogliendo nel suo seno (clero),
dall'altro lato proteggendo il popolo cristiano (laici), sosti- tuendosi cosi
al potere centrale, oramai in realtà inesistente. Non a caso, alla fine,
Teodosio proclama, con un editto, che l'unica religione dell'Impero doveva
essere "quella che il divino apostolo Pietro aveva trasmesso ai
Romani," decretando perciò illegali tutte le altre religioni, che vennero
perseguitate e i cui beni vennero confiscati, mentre i templi venivano
distrutti. Dopo Teodosio, con il definitivo rompersi dell'Impero in due, con
l'effettivo esaurirsi del po- tere politico in Occidente e con il lento
prevalere dei barbari, con la caduta di Roma, tanto piu evidente sembra la
linea attraverso cui. l'Impero di Roma si trasformò nell'Impero
cristiano-barbarico, fino ad una sua qual sistemazione con Teodorico. Dopo la
morte di Giuliano, intanto, ripreso il sopravvento il Cri- stianesimo, in seno
alla Chiesa piu violenti si fecero i contrasti tra ariani e ortodossi, in un
conflitto che mise a repentaglio l'unità della Chiesa. Non a caso, proprio per
il pericolo che l'unità della Chiesa si rompesse, determinando piu religioni,
piu fedi, esaurendo cosf le sue forze politiche, Ottato di Milevi, cattolico
africano, sia pure in forma paradossale, combattendo contro la tesi donatista,
sostenuta da Parme- niano, vescovo donatista di Cartagine, in un suo libro
contro i catto- [ !ici, secondo cui la religione cristiana nulla
deve concedere allo Stato, rimanendo esperienza di pochi eletti, profondamente
personale e indi- viduale, poteva esclamare che, invece, la Chiesa doveva
divenire lo Stato, anche a costo di subordinarsi allo Stato (De schismate Dona-
tistarum, III, 3: il De schismate fu composto nel 365 circa). Ancora una volta,
conflitti teologici rispecchiano piu profondi e aspri conflitti politici. Entro
questi termini, nella polemica tra atanasiani e ariani, assunse un suo
particolare significato il rifarsi o meno alla concezione
neoplatonica-plotinica, mediante cui si venne delineando una piu pre- cisa
koinè culturale. Di qui l'interesse di vedere ora, sia pur nelle sue linee
essenziali, l'ultima formazione di tale koinè culturale, le sue com- ponenti,
il conflitto tra ortodossi e ariani, la diffusione di un certo
"neoplatonismo" in Occidente, il costituirsi del neoplatonismo di
Ales- sandria e di Atene, insieme alla funzione data ai repertori e alle sil-
logi, e particolarmente a certi ben precisi testi di Aristotele e della logica
del primo stoicismo. Caio Mario Vittorino. Firmico Materno. Teone di
Alessandria. \.ltrettanto fondamentali, relativamente all'area di lingua
latina, furono, ntro i termini della preparazione culturale e per la
circolazione di:lee e di testi in Occidente, gli scritti di Mario Vittorino. E
qui va:nuto presente che Mario Vittorino 8 - nato in Africa, [CAIO MARIO
VITTORINO [si veda], nato nell'Africa proconsolare, muore a Roma lal 362 circa
si perdono le sue tracce). Maestro di grammatica e di retorica prima in Erica,
a Roma poi, dove godette di notevole fama (gli fu eretta una statua nel foro
1iano: cfr. Agostino, Confessioni), si conveni al Cristianesimo (sulla sua cun-
rsione cfr. la celebre pagina delle Confessioni di Agostino). Per il creto di
Giuliano, che proibiva ai Cristiani d"insegnare retorica, fu costretto a
chiudere sua scuola. Di lui restano: “Ars grammatical”; Commento al "De
inventione" di Cicerone; De] e formatosi in quelle celebri scuole di retorica
- fu innanzi tutto maestro di retorica, prima in Africa, poi, al tempo di
Costanzo in Roma, dove ebbe numerosi discepoli di alto lignaggio, dove sali in
grande fama; tanto che, in suo onore, fu eretta una statua nel foro traiano
(cfr. S. Agostino, Confessioni). In parte all'epoca dell'insegnamento in Africa
e in parte all'epoca del primo insegnamento a Roma, risalgono le opere di
Vittorino a carattere grammaticale, retorico, logico-retorico. Tali opere,
anzi, vanno vedute entro l'àmbito dell'insegnamento della retorica e in
funzione di quello, ed è entro i termini dell'insegnamento delle scuole
grammatico-retorico-logiche latine, entro il loro aspetto scolastico formale
che assumono un loro particolare significato. Se cosi da un lato Mario
Vittorino, inteso a formare uomini di cultura, compone un'”Ars grammatical” e
commenta il “De inventione” e i “Topici” di Cicerone, dall'altro lato traduce
il “De interpretation” e le “Categorie di Aristotele”, di cui fece anche un
commento, componendo inoltre due scritti di logica, il “De definitionibus” e il
“De syllogismis hypotheticis”, mentre traduce I'“Isagoge” di Porfirio. Tutti
questi scritti e le traduzioni delle opere piu grammatico-formali della logica
aristotelica, rivelano molto chiaramente che lo studio e l'insegnamento di
Vittorino sono volti a determinare i quadri dei possibili discorsi, le
condizioni su cui fondare, mediante le definizioni, sulle quali si basa
l'accordo, un tipo di discorso, coerente in sé, e perciò verace, mediante cui
convincere. Di qui l'importanza data da Vittorino da un lato al metodo retorico-filosofico
di Cicerone e, dall'altro lato, al sillogismo ipotetico di origine
teofrasteo-stoica, e, perciò, in quanto studio delle forme
grammatico-linguistiche che permettono i giudizi, alle “Categorie” e al “De interpretation”
di Aristotele, che non a caso Vittorino considera secondo l'aspetto formale a
cui da l'avvio I'Isagoge di Porfirio, interpretata in chiave ciceroniana. Sotto
questo aspetto, le tecniche dei discorsi, le loro strutture, intrinsecamente necessarie,
costituentesi, attraverso le definizioni, in quadri (topoi), e in sillogismi,
sono neutre, indipendenti da quelle che possono essere le strutture della
realtà. Negli anni del suo insegnamento, in Africa, e nei primi a Roma, sembra
che Vittorino apertamente ·si opponesse al gratuito passaggio definitionibus;
la cosiddetta Enneade di Vittorino, composta di nove opere teologiche: tre
trattati contro gli ariani (Contro Ario; Della generazione del Verbo divino; De
homoousio recipiendo); tre inni sulla Trinità; tre commenti alle Epistole di
Paolo ai Galati, agli Efesini e ai Filippesi (dopo il 360). Perdute sono andate
le seguenti opere: il Commento ai Topici di Cicerone, la traduzione delle
Categorie e del De interpretatione di Aristotele, la versione dell'Isagoge di
Porfirio (ricostruibile attraverso la discussione che ne fece BOEZIO), la versione
di parte almeno delle Enneadi di Plotino, il De syllogismis hypotheticis] del
Cristianesimo dal piano logico al piano della FONDAZIONE DEL DISCORSO su di un
atto volontario e irrazionale. Solo che la lettura dei testi biblici; fatta da
Vittorino, testimonia Sant'Agostino (Confessioni, VIII, 2 sgg.), per dimostrare
la contraddittorietà della tesi ebraico-cristiana e per altro verso l'incontro,
in Roma, con i libri dei neo-platonici (sembra che Vittorino abbia tradotto
alcuni testi di Platone e, forse, le Enneadi di Platino, su cui si sarebbe poi
formato Sant'Agostino), lo avrebbero condotto a questa triplice considerazione.
La retorica, valida appunto finché è neutra, se tale resta risolvendo tutta la
realtà in parole, si taglia dietro ogni possibilità di comprensione del vero,
di contatto con il senso della realtà. Nell'insegnamento neo-platonico si trova
che LA CONDIZIONE STESSA DEL DISCORSO si coglie in una conversione dell'anima
su se stessa rivelante alla fine che quella condizione è la fondazione stessa
del tutto che trascende dal di dentro. Si riconosce alla fine, che la
possibilità della conversione, dell'anima che ritrova se stessa, la capacità
del riscatto dal limite, è dovuta alla rivelazione, all'intervento del Cristo.
Vittorino si fece cristiano, pubblicamente smentendo il se stesso dei primi
anni, in Roma (cfr. S. Agostino). Dopo di allora, obbligato, poi, a chiudere la
sua scuola dalla legge di Giuliano, si apparta dalla vita pubblica, dedicandosi
esclusivamente da un lato a commentare le Lettere di Paolo ai Galati, agli
Efesini e ai Filippesi, dall'altro lato a giustificare, usando le tesi neo-platoniche
sull'Uno, il dogma della Trinità e della consustanzialità, di contro alla tesi,
logicamente sostenuta, dell'ariano Candido. Di qui le ultime opere di Vittorino:
“Della generazione del Verba divino”, in risposta alla Generazione divina di
Candido (lucida operetta in cui, sulla scia di Eunomio, si sostiene, ammesso
Dio assoluto e perfetto, ingenerato e immobile, che impossibile, logicamente
contraddittorio è ammettere che il Verba di lui sia ad un tempo generato e
ingenerato, e quindi ad un tempo sia e non sia della stessa sostanza del Padre,
sia e non sia essere); quattro libri Contro Aria; un breve trattatello De
homoousio recipiendo. La risposta a Candido di Mario Vittorino, si fonda,
rifacendosi al concetto di Uno di Platino, su di un paralogismo e conseguentemente,
posta una certa definizione (non sostanziale, ma verbale), su di un sillogismo
ipotetico. Se Dio è l'Essere, la ragion
d'essere del tutto, Dio è di là dallo stesso essere, indefinibile in sé, in
quanto ha in sé tutte le possibili definizioni, e, perciò tutte le possibili
esistenze, anche l'esistenza di se stesso. Prima di ogni essere, prima di ogni
esistenza, unità in cui tutto è indistinto, uno nell'uno (hoc enim unum ante
on, supra omnem existentiam, supra omnem vitam, supra omnem conoscentiam, super
omne on et pantòn 6nt6n ònta"), di Dio neppure si può dire che sia
ingenerato, o meglio ch'egli abbia una certa sostanza, un certo intelletto,
neppure che è essere, anzi, rispettiva- mente agli esseri, si può dire, forse,
meglio ch'egli è non essere (Gene- razione del Verbo divino, 12), cioè il suo
essere sta nella sua potenza di trarre fuori da sé l'essere di riconoscersi
nell'essere, tutto potenzial- mente in lui. La potenza di Dio è, allora, la sua
essenza, la sua crea- zione, onde l'essere che scaturisce dalla potenza di Dio,
che è oltre l'essere, non-essere, si genera dal non essere, da Dio, è creazione
ex nihilo. Il Verbo di Dio, dunque, il suo stesso riconoscersi, è ad un tempo
generato da Dio, figlio di Dio, ed è Dio esso stesso, in quanto esserci di Dio
(Deus enim prima causa est, non solum aliorwn omnia causa, sed sui ipsius est
causa. Deus ergo a semetipso et Deus est"). Come poi il Figlio sia nel
Padre e il Padre nel Figlio, e l'uno e l'altro non siano l'uno accanto
all'altro, ma uno ("neque solum simul ambo, sed unwn solum et
simplex") non è, dice Vittorino, necessario ricercare. "Sed hoc non
oportet qu:rrere, sufficit enim credere" (cfr. Gilson). Sembra ora chiaro
in che senso l'aspetto formale della retorica e della logica, la dialettic~
usata in senso ciceroniano e stoico, la contrapposizione accademica delle ipotesi,
utile per tutti, sul piano della formazione culturale dei futuri dirigenti,
potesse ad un tempo servire a convincere della validità dell'ipotesi cristiana,
oltrepas- sando in una convinzione del fondamento non razionale della ragione,
la neutralità sofistica della retorica, senza, con questo, togliere nulla allo
studio di come funzionano i discorsi umani, di quali sono le defi- nizioni e
cosi via (e per ciò potevano servire certi scritti di Aristo- tele, si come
certi altri degli stoici). Tutto questo dovrà tener presente lo studioso di
Sant'Agostino, il cui itinerario si avvicina non poco a quello di Vittorino,
dal quale Sant'Agostino stesso confessa di aver molto ripreso, e per mezzo del
quale conobbe gli scritti di Plotino, ma anche chi vada studiando da un lato la
formazione del curricolo degli studi al principio del Medioevo (e qui pensiamo
in particolare a Boe- zio), dall'altro lato la teologia negativa nei suoi
rapporti col neoplato- nismo, in special modo entro i termini di Plotino e di
Proclo, usati in funzione cristiana, e la questione relativa del dio essere
oltre l'es- sere, non essere che da sé crea se stesso e il tutto
(interpretazione neoplatonica della "creatio ex nihilo": e qui
pensiamo agli scritti dello pseudo Dionigi, a Massimo il Confessore, per
giungere fino a Giovanni Scoto Eriugena). Ad ogni modo, Mario Vittorino ebbe
nel mondo di lingua latina una notevole influenza relativamente alla formazione
di quella koinè culturale di cui parlavamo, nel delineare, insieme a Macrobio e
a Cal- cidio, un complesso di discussioni indirizzate su certi testi di Aristo-
tele, su di un certo modo di interpretare Cicerone (già Lattanzio) e Virgilio
(cfr. particolarmente i Saturnali di Macrobio), sulla possibi- lità di
riprendere Aristotele (relativamente ai problemi del mondo sensibile e
dell'anima. nei suoi aspetti vegetativo e sensitivo), interpre- tandolo, poi,
come inverantesi mediante il nooplatonismo. Di qui, ancora una volta, sul piano
dell'insegnamento scolastico e della prepa- razione culturale, la funzione data
ai repertori, alle sillogi, a certe sistemazioni scientifiche del sapere
antico. A tal proposito, per ciò che riguarda la diffusione di certi problemi
nel mondo di lingua latina e la lettura determinante di certi testi è opportuno
ricordare la traduzione in latino della Parafrasi degli Analitici di Aristotele
di Temistio, dovuta al neoplatonico Nettio Agorio retestato, alto funzionario
(fu senatore, questore, pretore, governa- ore della Tuscia e dell'Umbria,
consolare della Lusitania, proconsole:lell'Ocaia, prefetto pretorio dell'Italia
e dell'Illirico, designato console per il 385, ma morto nel 384), amico
dell'Imperatore Giuliano, non troppo tenero verso l'irrazionalismo del
Cristianesimo. E accanto al nome di Pretestato va ricordato il nome di Firmico
Materno. L'importanza di Giulio Firmico Materno piu che nell'opera da lui
scritta dopo la sua conversione al Cristianesimo, il De errore profanarum
religionum (una violenta diatriba contro il politeismo, con cui iden- tifica
tutte le posizioni non cristiane e per cui chiede agli imperatori Costanzo e
Costante di perseguitare e distruggere chi non è cristiano), sta nell'opera
dedicata a Lalliano Mavorzio, governatore della Campaflia prima, proconsole
d'Africa poi, che gli aveva chiesto un manuale di astrologia. L'opera di
Firmico, in otto libri, intitolata Mathesis, è il trattato piu ampio di
astrologia traman- dato dall'antichità, in una sistemazione del sapere
astrologico in termini neo-platonici. Vi si difende, contro le critiche di
Carneade e degli scettici, la possibilità dell'astrologia come scienza. Se è
vero che, data la limitatezza dell'uomo, legato al corpo e alle illusioni sensibili,
difficili sono i calcoli e le predizioni, è altrettanto vero che, l'uomo, libe-
randosi dalla sua sensibilità, in una conversione dell'anima su di sé, può
ritrovando l'anima simile alla ragion d'essere del tutto, ripercor- rere le
trame su cui tutto si scandisce, e può, perciò, ricostruendo l'or- dine e la
necessità in cui tutto, dai cieli, alle stelle, alla terra, alle cose Giulio
Firmico Materno, di origine siciliana, avvocato, vir consularis, senatore, tra
il 334 e il 337, per mantenere la promessa che aveva fatto a Lalliano Mavorzio,
che lo aveva accolto con favore e amicizia al tempo del suo governatorato in
Campania, pubblica un'opera in otto libri, sull'astrologia, intitolata “Mathesis”,
dedicata, appunto, a Lalliano, allora pro-console d'Africa (nel primo libro si
difende l'astrologia dalle critiche dei neo-accademici e di Carneade. I libri
II-VIII sono dedicati alla vera e propria astrologia. Convertitosi al
Cristianesimo, scrive il “De errore profanarum religionum] si è costituito,
determinare i rapporti e le influenze stellari, in calcoli e previsioni,
matematicamente esatti, mediante' cui, nell'ascesa del- l'anima fino alla
divinità, ci si può liberare dai vincoli fatali, dalle influenze stellari che
provocano le nostre passioni e i nostri impulsi malvagi (libro 1). Infine,
sempre sul piano della preparazione culturale e della diffusione delle idee,
merita il conto ricordare, entro la linea della grande tradizione
matematico-astronomica di Alessandria, il Commento alla Sintassi di Tolomeo e
l'edizione delle opere di Euclide a cura di Teone di Alessandria, vissuto ad
Alessandria tra il 335 e il 400, padre dell'altrettanto celebre Ipazia, una
delle maggiori rappresentanti del neo-platonismo logico di Alessandria, maestra
di Sinesio, morta vittima della reazione cristiana, nel 415, su istigazione del
vescovo Cirillo. Francesco
Adorno. Keywords: Filosofia italica, scuola di Crotone, scuola di Velia,
Girgenti, Parmenide, Zenone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Adorno” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza --
Grice ed Adriano: Roma – la scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia
-- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Roma).
Filosofo romano.
Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Epistle of Adrian in
behalf of the Christians. I have received the letter addressed to me by
your predecessor Serenius Granianus, a most illustrious man; and this
communication I am unwilling to pass over in silence, lest innocent persons be
disturbed, and occasion be given to the informers for practising villany.
Accordingly, if the inhabitants of your province will so far sustain this
petition of theirs as to accuse the Christians in some court of law, I do not
prohibit them from doing so. But I will not suffer them to make use of mere
entreaties and outcries. For it is far more just, if any one desires to make an
accusation, that you give judgment upon it. If, therefore, any one makes the
accusation, and furnishes proof that the said men do anything contrary to the
laws, you shall adjudge punishments in proportion to the offences. And this, by
Hercules, you shall give special heed to, that if any man shall, through mere
calumny, bring an accusation against any of these persons, you shall award to
him more severe punishments in proportion to his wickedness.Addressed to
Minucius Fundanus. [Generally credited as genuine.]
Adriano was proud of reminding his frineds that the infamous philosopher,
Apollonius, a member of the Accademia, had predicted his ascendancy to power on
the mere basis of a mere oracle.
However, Adriano’s successor shed doubts about his historicity –
Apollonius’s, not Adriano’s! Adriano
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Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Adriano
(disambigua). Publio Elio Traiano Adriano Imperatore romano Busto di Adriano risalente al 130 circa Nome
originalePublius Aelius Hadrianus Caesar Traianus Hadrianus Augustus Regno11
agosto 117 – 10 luglio 138 Tribunicia potestas22 volte: dal dicembre del 117
fino alla ventiduesima (XXII) del dicembre del 137 TitoliPater Patriae dal 128
Salutatio imperatoria2 volte: la prima al momento della assunzione del potere
imperiale nel 117 e la seconda nel 135 al termine della rivolta giudaica.
Nascita24 gennaio 76 Italica Morte10 luglio 138 (62 anni) Baia
SepolturaMausoleo di Adriano PredecessoreTraiano SuccessoreAntonino Pio
ConiugeVibia Sabina[1] Figlinessuno Adottivi: Lucio Elio Cesare Antonino Pio
DinastiaAntonini Padre Publio Elio Adriano Afro MadreDomizia Paolina Tribuno
militaredella Legio II Adiutrix in Pannonia inferiore (95); della Legio V
Macedonica in Mesia inferiore (96); della Legio XXII Primigenia in Germania
superiore (97); della Legio I Minervia (98). Questuranel 101 Vigintiviratofu
uno dei decemviri stlitibus iudicandis Tribunato della plebenel 105 Preturanel
106 Legatus legionisdella Legio I Minervia nel 106, in Germania inferiore
Consolato3 volte: nel 108 (suffectus), 118 e 119 Legatus Augusti pro
praetoredella Pannonia inferiore nel 107; della Siria nel 117 Pontificato maxal
momento dell'assunzione del trono nel 117 Sacerdoziotra i sodales Augustales,
prima del 112 Publio Elio Traiano Adriano, noto semplicemente come Adriano (in
latino Publius Aelius Traianus Hadrianus; Italica, 24 gennaio 76 – Baia, 10
luglio 138), è stato un imperatore romano, della dinastia degli imperatori
adottivi, che regnò dal 117 fino alla sua morte. Successore di Traiano, fu uno dei "buoni
imperatori" secondo lo storico Edward Gibbon. Colto e appassionato ammiratore
della cultura greca, viaggiò per tutto l'impero e valorizzò le province. Fu
attento a migliorare le condizioni dei militari. In Britannia fece costruire un
vallo fortificato, il Vallo di Adriano. Inaugurò una nuova strategia militare
per l'impero: all'espansione e alla conquista preferì il consolidamento dei
confini e della loro difesa. Mantenne le conquiste di Traiano, a parte la
Mesopotamia che assegnò a un sovrano vassallo. Il suo governo fu caratterizzato
da tolleranza, efficienza e splendore delle arti e della filosofia. Grazie alle
ricchezze provenienti dalle conquiste, Adriano ordinò l'edificazione di molti
edifici pubblici in Italia e nelle province, come terme, teatri, anfiteatri,
strade e porti. Nella villa che fece costruire a Tivoli riprodusse i monumenti
greci che amava di più e trasformò la sua dimora in museo. L'imperatore lasciò
un segno indelebile anche a Roma, con l'edificazione del Mausoleo, la Mole
Adriana, e con la ricostruzione del Pantheon, distrutto da un incendio. Biografia Origini familiari Sulla nascita di
Adriano le fonti non concordano: alcune (come Elio Sparziano) sostengono che
nacque a Roma, dove il padre stava svolgendo importanti funzioni pubbliche; ma
la maggior parte degli autori afferma che Adriano nacque a Italica, a 7 km da
Siviglia, in Hispania Baetica, municipio fondato da italici ai tempi di Publio
Cornelio Scipione l'Africano. La sua famiglia era originaria della città di
Hatria, l'attuale Atri. Il padre, Publio Elio Adriano Afro, era imparentato con
Traiano. La madre, Domizia Paolina, era originaria di Cadice. Adriano aveva una
sorella maggiore (Elia Domizia Paolina), una nipote (Giulia Serviana Paolina) e
un pronipote (Gneo Pedanio Fusco Salinatore). I suoi genitori morirono
nell'85/86, quando Adriano aveva solo nove anni. Grazie al Corpus Inscriptionum
Latinarum, sappiamo che Adriano ebbe una nutrice di nome Germana, una schiava
di origini germaniche successivamente liberata che gli sopravvisse arrivando a
morire a ottant'anni[2]. Giovinezza
Traiano, che non aveva avuto figli, divenne di fatto il tutore del giovane dopo
la morte dei suoi genitori. Anche la moglie di Traiano, Plotina, lo aiutò
notevolmente nel cursus honorum, trattandolo come proprio figlio. Inoltre
sembra sia stata lei a spingerlo a sposare Vibia Sabina, anche lei parente di
Traiano. Il matrimonio avvicinò ulteriormente il futuro imperatore alle stanze
del potere, grazie anche agli ottimi rapporti intrattenuti con la suocera
Matidia. Per il resto il matrimonio fu un fallimento. Dopo che l'imperatore
Nerva ebbe nominato Traiano suo successore, presentandolo in Senato nel 97, la
carriera di Adriano fu notevolmente agevolata.
Cariche ottenute Le cariche accumulate nel cursus honorum del futuro
imperatore furono numerosissime. Quando Nerva morì nel 98, Adriano si precipitò
a informare personalmente Traiano. Fu anche arconte ad Atene per un breve
periodo, e fu eletto ufficialmente come cittadino ateniese[3]. La sua carriera
completa prima di diventare imperatore fu la seguente: decemviro stlitibus iudicandis seviro turmae
equitum Romanorum praefectus urbi feriarum Latinarum tribunus militum con la
Legio II Adiutrix piae Fidelis nel 95, in Pannonia inferiore tribunus militum
con la Legio V Macedonica nel 96, in Mesia inferiore tribunus militum con la Legio
XXII Primigenia nel 97, in Germania superiore; successivamente trasferito alla
Legio I Minervia. questore (nel 101) ab Actis senatus tribunus plebis (nel 105)
pretore (nel 106) Legatus legionis della Legio I Minervia (106, in Germania
inferiore) Legatus Augusti pro praetore della provincia romana della Pannonia
inferiore (107) console suffectus (108) septemviro epulonum (prima del 112)
Sodales Augustales (prima del 112) arconte ad Atene (tra il 112/13) Legatus
Augusti pro praetore in Siria (117) [4] Ascesa al trono Lo stesso argomento in dettaglio: Adozione
nell'antica Roma. Al contrario del suo predecessore, Adriano non fu mai
adottato ufficialmente, tramite la presentazione in Senato. Su questo punto
l'Historia Augusta riporta diverse teorie, una delle quali fa discendere il suo
avvento al potere da una presunta nomina di Traiano morente, molto
probabilmente una messinscena organizzata da Plotina, che avrebbe orchestrato
abilmente l'operazione, d'accordo con il prefetto del pretorio Attiano. La
questione, in realtà, appare assai più complessa. Pare difficile che Adriano
possa aver preso il ruolo di successore di Traiano per sola intercessione di
Plotina e di alcuni suoi collaboratori. Alcuni conii monetali attesterebbero il
titolo di Caesar per Adriano già in un periodo compreso tra il 114 e il
117. Sulla scia di tali dati l'adozione
di Adriano apparirebbe meno offuscata da dubbi e una deliberata volontà di
Traiano. Adriano, salito al trono, allontanò dai luoghi di potere gran parte
del seguito e dell'amministrazione di Traiano, non senza ricorrere a metodi
brutali (come nella repressione della congiura dei consolari), compresi i
vertici militari[5]. In ogni caso la ratifica da parte dell'esercito, che
acclamò il nuovo imperatore, chiuse la questione. Plotina Plotina Traiano Traiano Principato (117-138) Lo stesso argomento in dettaglio: Monetazione
da Nerva ad Adriano. Il Senato ricevuto un messaggio dal neoeletto, nel quale
egli riferiva di non essersi potuto sottrarre alla volontà dell'esercito, si
allineò a sua volta. Sia i militari sia i senatori trassero notevoli benefici
dalla loro acquiescenza: i primi ricevettero il tradizionale donativo in misura
più cospicua che in passato e anche i membri del Senato ebbero dei vantaggi. La
fulmineità dell'ascesa al potere, accompagnata dall'eliminazione fisica dei
principali potenziali dissidenti o concorrenti, portò a un insediamento rapido,
seguito da un continuo rafforzamento che durò per tutto il ventennio in cui
Adriano rimase al potere. L'opposizione al neo princeps era costituita da
generali che, come lo stesso Adriano, avevano seguito Traiano nelle più
importanti battaglie di ampliamento territoriale: tra questi Quieto, la cui
morte provocò sommosse di ribellione in Mauretania. Adriano fu uno degli imperatori
morti per cause naturali e non assassinati in una congiura. Anche la
designazione del successore e il suo insediamento, dopo la morte di Adriano,
non furono ostacolati. Politica interna Ritratto di Adriano del Museo delle Terme a
Roma, una delle repliche più fresche del ritratto ufficiale dell'imperatore
dopo l'ascesa al trono del 117 Tolleranza
Lo stesso argomento in dettaglio: Rescritto di Adriano a Gaio Minucio
Fundano. Un caposaldo della politica adrianea fu l'idea di ampliare, quando
possibile, i livelli di tolleranza. Si fece promotore di una riforma
legislativa per alleggerire la posizione degli schiavi, i quali si trovavano in
situazioni disumane allorché si verificasse un crimine ai danni del dominus.
Anche nei confronti dei cristiani mostrò maggiore tolleranza dei suoi
predecessori. Ne rimane testimonianza, intorno all'anno 122, in un rescritto
indirizzato a Gaio Minucio Fundano, proconsole della provincia d'Asia. In esso
l'imperatore, a cui era stato richiesto come comportarsi nei confronti dei
cristiani e delle accuse a loro rivolte, rispose di procedere nei loro
confronti solo in ordine a notizie circostanziate emergenti da un procedimento
giudiziario e non sulla base di accuse generiche. Riforma dell'editto pretorio Un'altra riforma
operata da Adriano fu quella dell'editto pretorio. Questo strumento normativo
consisteva in un'esposizione di principi giuridici generali, che il magistrato
enunciava al momento dell'insediamento. Con l'andar del tempo, questi principi
costituirono un nucleo di norme consolidato (edictum vetus o tralaticium), al
quale ogni pretore aggiungeva le fattispecie che intendeva tutelare.
Tecnicamente la finalità dell'editto era quella di concedere tutela processuale
anche a rapporti non previsti dallo ius civile. Con la riforma adrianea, che
l'imperatore affidò al giurista romano Salvio Giuliano negli anni dal 130 al
134, l'editto venne codificato, fu approvato da un senatoconsulto e divenne
perpetuo (edictum perpetuum). Sempre in
campo giuridico, Adriano pose fine al sistema ideato da Augusto che, concedendo
ad alcuni giuristi lo ius respondendi ex auctoritate principis, aveva
consentito che il diritto si espandesse progressivamente attraverso l'opera
creatrice di alcuni esperti scelti dall'imperatore stesso. Adriano sostituì al
gruppo di giuristi isolati dello schema augusteo un consilium principis, che
contribuì alla progressiva istituzionalizzazione di questa figura, togliendole
l'indipendenza residuata. Riforma della
pubblica amministrazione Nonostante avesse seguito personalmente più di una
campagna militare (la più impegnativa quella dacica al seguito di Traiano),
Adriano si dimostrò, oltre che esperto di cose militari, il che era
prevedibile, anche un grande riformatore della pubblica amministrazione. Il suo
intervento sulle strutture amministrative dell'impero fu profondo e radicale,
dimostrando che era parte di un piano globale che l'imperatore andava
applicando, a mano a mano, alla struttura dell'esercito, alla difesa dei
confini, alla politica estera, alla politica economica. Adriano aveva una sua
visione dell'impero e cercava di uniformare le singole parti al suo
disegno. In luogo dei liberti cesarei
diede spazio e importanza a nuovi funzionari provenienti dalla classe dei
cavalieri. Essi erano preposti alle varie branche amministrative suddivise per
materie: finanze, giustizia, patrimonio, contabilità generale e così via. Le
carriere furono determinate, così come le retribuzioni, e la pubblica
amministrazione divenne più stabile e meno soggetta ai cambiamenti connessi con
l'avvicendarsi degli imperatori. Attento amministratore, Adriano pensò anche a
tutelare nel migliore dei modi gli interessi dello Stato con l'istituzione
dell'advocatus fisci, cioè una sorta di avvocatura dello Stato che si occupasse
di difendere in giudizio gli interessi delle finanze pubbliche (fiscus). Va
considerato che in epoca tardo-imperiale l'originaria bipartizione tra aerarium
(la finanza pubblica di area senatoria) e fiscus (la finanza pubblica di
competenza del princeps) era andata scomparendo per l'avvenuta unificazione
delle due aree nelle mani dell'imperatore.
I viaggi e la visita di tutto l'Impero
La Porta di Adriano, ad Adalia, Turchia meridionale, costruita per
celebrare la visita dell'imperatore avvenuta nel 130 Appena il suo potere fu
sufficientemente consolidato, Adriano intraprese una serie di viaggi in tutto
l'Impero (Gallia, Germania, Britannia, Spagna, Mauritania), per rendersi conto
di persona delle esigenze e prendere i provvedimenti necessari per rendere il
sistema difensivo efficiente. Nel 123 iniziò il lungo viaggio d'ispezione delle
province orientali che lo impegnò per due anni. Nel 128, ispezionò la provincia
d'Africa. Nell'anno seguente si recò di nuovo in Oriente. La sua filosofia
risulta evidente dai suoi atti: il ritiro da territori indifendibili, il
controllo dei confini basato su difese stanziali, la politica degli accordi con
gli Stati cuscinetto che facevano da interposizione fra il territorio
dell'impero e quello dei popoli confinanti. Durante il viaggio in Egitto nel
130 d.C., Adriano si recò a visitare i Colossi di Memnone. In età romana molti
visitatori, richiamati da uno dei colossi di Memnone per il suo canto al
sorgere del sole, erano soliti a lasciare incise sulle gambe della statua le
loro osservazioni e le loro dediche. Anche gli accompagnatori di Adriano e
dell'imperatrice Sabina fra il 20 e il 21 novembre del 130, lasciarono alcuni
testi: Colossi di Memnone «quando in
compagnia dell'imperatrice Sabina fui presso Memnone. Tu Memnone, che sei
figlio dell'Aurora e del venerabile Titone e che sei assiso di fronte alla
città di Zeus, o tu, Amenoth, re egizio, a quanto raccontano i sacerdoti
esperti delle antiche leggende, ricevi il mio saluto e, cantando, accogli a tua
volta favorevolmente la moglie venerabile dell'imperatore Adriano.» In questi lunghi viaggi, nei quali
praticamente percorse tutto l'impero, non si occupò solo di questioni legate
alla difesa dei confini, ma anche di esigenze amministrative, edificazioni di
edifici pubblici e, più in generale, di cercare di migliorare lo standard di
vita delle province. Al contrario di altri imperatori, che governarono l'impero
senza muoversi praticamente mai da Roma, Adriano scelse un metodo di conoscenza
diretta, che poté attuare grazie al consolidamento della situazione interna:
allontanarsi dalla sede del potere per periodi così prolungati presupponeva una
certezza assoluta sulla tenuta del sistema. Un altro elemento era la curiosità
propria del suo carattere e la propensione per i viaggi, che lo accompagnò
tutta la vita. Amò la cultura,
l'architettura e la scultura greca. Soggiornò molte volte ad Atene e in tutta
la Grecia, attratto da quel mondo pieno di meraviglie artistiche, e le
popolazioni locali innalzarono in suo onore molte statue. Politica estera Adriano e le campagne
militari Lo stesso argomento in
dettaglio: Vallo di Adriano ed Esercito romano.
Statua raffigurante l'imperatore Adriano, in veste greca, mentre offre
un sacrificio ad Apollo, marmo, 117-125, proveniente dal tempio di Apollo a
Cirene, attualmente a Londra, British Museum Il regno di Adriano fu
caratterizzato da una generale pausa nelle operazioni militari. La politica di
disimpegno dalle conquiste che erano state condotte con pervicacia e successo
da Traiano, inaugurata da Adriano (che aveva posto fine alla guerra partica a
prezzo della perdita di Assiria, Mesopotamia e Armenia), suscitò non pochi
malumori tra i vecchi vertici militari legati al precedente imperatore, che
furono prontamente soffocati. Egli abbandonò le conquiste di Traiano in
Mesopotamia, considerandole indifendibili, a causa dell'immane sforzo logistico
necessario per far giungere rifornimenti a quelle regioni e alla molto maggiore
estensione del confine che sarebbe stato necessario difendere[6]. La politica
di Adriano fu tesa a tracciare confini controllabili a costi sostenibili. Le
frontiere più turbolente furono rinforzate con opere di fortificazione
permanenti, la più famosa delle quali è il possente Vallo di Adriano in Gran
Bretagna. Qui Adriano, dopo aver terminato la conquista del Nord dell'isola,
fece costruire una lunga fortificazione per arginare i popoli della Caledonia.
Anche la frontiera del Danubio fu rinforzata con strutture di varia
natura. Il problema delle strutture
difensive era strettamente connesso col territorio e col tipo di difesa che si
voleva instaurare. Infatti strutture particolarmente pesanti e durature, oltre
a richiedere tempi di realizzazione e costi ingentissimi, mal si adattavano a mutamenti
strategici nelle linee difensive. Se un territorio era particolarmente soggetto
a incursioni in un determinato periodo, una struttura leggera, formata da
fossati, terrapieni e palizzate, poteva fornire una discreta tenuta, dando alle
truppe di stanza nelle fortificazioni il tempo di intervenire. Diverso era il
caso di incursioni in profondità o di vere e proprie invasioni, che
richiedevano strutture molto più resistenti, le quali però, una volta
edificate, diventavano definitive e non seguivano le evoluzioni politiche e
strategiche del territorio. Molte regioni passavano da situazioni di
occupazione vera e propria allo stato di protettorati, i cosiddetti "Stati
clienti", il che modificava notevolmente le necessità difensive. Quando la politica del protettorato si
consolidava, si mantenevano in loco le risorse strettamente necessarie,
spostando le risorse liberate in zone più calde. Questo sistema, detto delle
vexillationes, cioè di distaccamenti prelevati da una legione e comandati
altrove, dette ottimi risultati conferendo un'elasticità di manovra notevole.
Il sistema dei distaccamenti consentiva anche di non turbare gli equilibri
regionali faticosamente raggiunti, perché non si spostava un'intera legione ma
singoli reparti. Il che, con il consolidamento di una difesa sempre più
stanziale e con i conseguenti legami che s'instauravano tra i legionari e gli
abitanti locali, consentiva di mantenere il controllo del territorio,
disponendo comunque di una massa di manovra da destinare a operazioni belliche
ove fosse stato necessario. Vibia Sabina
Per mantenere alto il morale delle truppe e non lasciarle impigrire, Adriano
stabilì intensi turni di addestramento, ispezionando personalmente le truppe
nel corso dei suoi continui viaggi. Poiché non era incline, già dai tempi delle
campagne daciche, a distinguersi per lussi particolari, si spostava a cavallo e
condivideva in tutto la vita rude dei legionari. Di questa attività rimane
memoria nelle cosiddette Iscrizioni di Lambesi[7], che vennero erette dopo una
permanenza dell'imperatore nel castrum omonimo, sede della Legio III Augusta di
stanza in Numidia. Nel documento viene descritta una serie di esercitazioni
molto complesse che la legione svolse con successo nell'anno 128, a
dimostrazione della nuova dottrina difensiva di Adriano, che intendeva ottenere
il massimo dell'efficienza militare anche in quadranti, come quello numidico,
abbastanza pacifici. Da un punto di
vista della struttura organizzativa non portò grandi innovazioni nell'esercito,
salvo creare nuovi corpi (secondo alcuni rinforzare corpi già esistenti),
basati su leva locale, denominati Numeri, al fine di dare un apporto alle
truppe ausiliarie, i cosiddetti Auxilia. I motivi erano diversi, innanzitutto
tecnici: si trattava di mettere in linea truppe molto specializzate, ad esempio
lanciatori, o destinate a terreni particolari, o equipaggiate in modo non
convenzionale (come alcuni corpi di cavalleria pesante). Inoltre i Numeri non
fruivano come gli Auxilia del diritto di vedere arruolati stabilmente i loro
figli nelle legioni e quindi contribuivano a mantenere gli organici in numero
costante. I Numeri erano molto più
vicini degli Auxilia ai gruppi etnici stanziati nei territori che si
intendevano controllare e conservavano organizzazione e armamento loro propri.
Il tutto a costi nettamente inferiori a quelli che si sostenevano per i
legionari regolari, i quali, oltre a una paga di tutto rispetto, fruivano di
donativi saltuari e di una liquidazione alla fine del servizio, spesso
costituita dal diritto di proprietà di terreni.
La rivolta in Giudea (132-135) Lo
stesso argomento in dettaglio: Terza guerra giudaica. L'antica provincia romana di Giudea al tempo
di Adriano Il problema della Giudea si era manifestato in tutta la sua gravità
fin dai tempi della prima rivolta, nel 66, quando le truppe di Cestio Gallo,
governatore della Siria, furono duramente sconfitte con perdite rilevantissime
(poco meno di seimila uomini, secondo Giuseppe Flavio) e la perdita delle insegne
da parte della Legio XII Fulminata. Il tutto per opera di truppe che non si
potevano tecnicamente definire all'altezza di quelle romane. Il che dimostra la
fortissima motivazione dei combattenti Giudei e, in particolare degli Zeloti.
La rivolta si protrasse fino alla distruzione di Gerusalemme del 70, per opera
del generale Tito, figlio di Vespasiano, e alla caduta della fortezza di Masada
avvenuta nel 73, conclusasi con la morte per suicidio di tutti i resistenti e
dei membri delle loro famiglie. Nel 115,
sotto Traiano alla rivolta divampata a Cirene, in Egitto e a Cipro si unirono
anche i Giudei con effetti devastanti. Il problema era strutturale, dato che
gli abitanti della Giudea rifiutavano decisamente la romanizzazione, sia per
motivi nazionalistici sia, soprattutto, per motivi religiosi. Infatti,
professando una religione monoteista che, in quanto tale, non prevedeva
l'affiancamento di altre divinità come era avvenuto in tutte le province,
l'integrazione diveniva completamente impossibile. Quando Adriano si trovò a
dover affrontare la ricostruzione di Gerusalemme ripropose i moduli
architettonici e urbanistici applicati in tutto l'impero, mentre la popolazione
ebraica chiedeva una ricostruzione nella forma precedente alla distruzione del
70. A seguito della visita effettuata
alle rovine della città nel 130 cominciò l'opera di ricostruzione permettendo
inizialmente la ricostruzione di un Terzo Tempio, ma secondo la testimonianza
del Midrash[8] quando gli venne riferito dai Samaritani che ciò sarebbe stato
causa scatenante di continua sedizione, parve ricredersi. Di poco seguente, la
scelta di far erigere, in luogo di quello ebraico (come accadeva in tutto il
resto dell'impero) un tempio al dio romano Giove sul sito del Monte del
Tempio[9], e altre costruzioni dedicate a varie divinità romane in tutta
Gerusalemme, tra cui un grande tempio alla dea Venere[10]. Egli fece poi anche rinominare la città la
quale divenne così Aelia Capitolina in onore di sé stesso e di Giove
Capitolino, la principale divinità romana. Secondo Epifanio (De ponderibus et
mensuris, cap. XIII-XVI.; ed. Migne, II. 259-264), Adriano nominò Aquila di
Sinope - parente acquisito dello stesso imperatore - come "supervisore dei
lavori di costruzione della città"[11]. Si dice anche che operò per
mettere un grande foro, che avrebbe dovuto essere il centro d'incontro sociale
primario della nuova città, all'incrocio delle strade principali del cardine e
del decumano, oggi facente parte dell'area quadrata costituita dal Muristan.
Presto i Giudei, che avevano sperato in tutt'altro, furono assai delusi dal
constatare quanto stava accadendo alla loro terra sacra, cominciarono pertanto
sempre più un'opera di opposizione.
Adriano visita la Giudea
HADRIANVS AVG COS III P P - busto laureato di Adriano volto verso destra
ADVENTVI AVG IVDAEAE, S C in esergo. Sulla sinistra Adriano stante, sulla
destra la Giudea, stante, ai cui lati si trovano tre ragazzi. Æ Sesterzio, ca.
117-130 d.C. Quindi una causa della rivolta fu il nazionalismo degli abitanti
della Giudea. Altra causa, secondo una tradizione basata sulla Historia
Augusta, suggerisce che le tensioni siano via via cresciute fino a sfociare in
uno scontro aperto quando Adriano volle abolire la circoncisione rituale della
religione ebraica (il Brit milah)[12] che egli, da fine ellenista qual era,
avrebbe interpretato come l'esser una pura e semplice mutilazione fisica[13].
Tuttavia su questo specifico punto la revisione moderna ha evidenziato che
moltissimi popoli sotto il dominio romano, nell'area nordafricana e mediorientale,
la praticavano senza divieti e che quindi appare singolare un divieto
specifico; uno studioso, Peter Schäfer, ribadisce che non vi sono mai state
prove per affermare una simile ipotesi proibizionista[14][15][16]. Nel 132, divampò la terza guerra giudaica,
con i ribelli comandati da Simon Bar Kochba (Simone figlio della stella). Le
perdite dei Romani furono tanto pesanti che nel rapporto di Adriano al Senato
fu omessa l'abituale formula "Io e il mio esercito stiamo bene".
Necessitò di ben 12 legioni per sopprimere la rivolta, ossia circa 5/6 di tutta
la forza militare dell'Impero: fu la sola volta in cui il Senato rinunciò a far
celebrare il trionfo al ritorno dell'Imperatore dopo una vittoria militare[17].
Nonostante le perdite subite, nel 135, Adriano riuscirà a distruggere la città
fortificata di Bétar e soffocare la ribellione devastando la Giudea (580 000
ebrei rimasero uccisi, 1,5 milioni deportati al Mercato degli Schiavi di
Adriano a Gaza, 50 città fortificate e 985 villaggi furono distrutti), Adriano
tentò di sradicare l'Ebraismo considerandolo la causa delle continue
ribellioni. Proibì di seguire la legge ebraica, di attenersi al calendario
ebraico e mise a morte gli studiosi della Torah (il martirio). I "Rotoli
sacri" delle scritture furono formalmente e solennemente bruciati sul
Monte del Tempio. Nel tentativo di cancellare la memoria stessa della Giudea,
rinominò la provincia Syria Palaestina (dal nome dei loro antichi nemici, i
Filistei, dall'ebraico "Philistim" פְּלִשְׁתִּים che significa
"invasori") e agli ebrei da quel momento in poi fu fatto divieto di
entrare nella capitale riconsacrata al paganesimo. Più tardi si permise loro di piangere la loro
umiliazione una volta all'anno a Tisha B'Av. Era evidente che l'impero non
poteva permettersi di mantenere in vita un potenziale focolaio di ribellione in
un'area così delicata, soprattutto in considerazione della presenza di comunità
ebraiche in molti paesi al di fuori della Giudea derivante dalla diaspora
avvenuta in seguito ai fatti del 70. Quando le fonti ebraiche parlano di
Adriano è sempre con l'epitaffio "possano essere le sue ossa
frantumate" (שחיק עצמות o שחיק טמיא[18], nell'equivalente
aramaico), espressione mai usata neppure nei confronti di Vespasiano o del
figlio Tito che avevano fatto distruggere il Secondo Tempio. Statua in porfido ritraente Adriano
rinvenuta a Cesarea marittima Nella letteratura rabbinica La letteratura
rabbinica è in genere fortemente critica nei confronti della sua politica
estera, in particolare riguardo all'intolleranza religiosa che dimostrò verso
gli ebrei; le sue politiche infatti sono state viste e intese dai rabbini come
un attacco alla propria libertà religiosa, di continuare cioè a studiare la
Torah e di seguire gli insegnamenti della legge ebraica. La maggior parte delle
storie raccontate dai "Saggi di Israele" riflettono un approccio
bifronte del suo operato: in una storia viene raccontato di come punisce un
ebreo che non è riuscito a salutarlo in tempo. Alla domanda rivoltagli su quale
fosse la logica della sua severità nel colpire gli uomini, Adriano rispose:
"Tu vorresti forse darmi consigli su come uccidere i miei
nemici?"[19] In un'altra storia,
invece, Adriano scese dal suo carro e s'inchinò davanti a una ragazza ebrea
affetta da lebbra. Quando fu interrogato dai suoi soldati sul motivo per cui
l'avesse fatto, l'imperatore rispose con un doppio versetto del libro di Isaia
- dimostrando in tal modo di conoscerlo assai bene - in lode della nazione di
Israele: "Così dice Dio il redentore di Israele per l'anima degli oppressi
davanti alla nazione ripugnante, i re vedranno e scenderanno"[20]. Il Malbim, nel suo commento al libro di
Daniele[8] dice come Adriano abbia fatto erigere una statua di sé stesso nel
sito della HaMikdash Bet (il luogo ove sorgeva il santo Tempio di Gerusalemme)
in un giorno per celebrare l'anniversario della distruzione del Tempio da parte
di Tito[21]. Secondo i documenti storici ebraici di quel tempo, il famoso
rabbino e studioso nonché un contemporaneo di Adriano, il rabbino Yehoshua
figlio di Anania, si oppose a qualsiasi intervento militare ebraico contro
l'esercito romano di occupazione, a dispetto dei duri decreti di Roma
promulgati contro la popolazione, e lo stesso fecero anche molti altri. Statua colossale di Adriano trionfante con
globo in una mano e scettro nell'altra, conservata all'Ermitage Attività
culturali e protezione delle arti Lo
stesso argomento in dettaglio: Storia della letteratura latina (117 - 192) ed
Età traianea e adrianea. (LA) «Animula vagula blandula Hospes comesque corporis
Quae nunc abibis in loca Pallidula rigida nudula Nec ut soles dabis iocos» (IT) «Piccola anima smarrita e soave,
compagna e ospite del corpo, ora t'appresti a scendere in luoghi incolori,
ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti.» (Historia Augusta, Adriano, 25, 9. Poesia
composta da Adriano poco prima della morte, traduzione di Lidia Storoni
Mazzolani) Canopo di Villa Adriana
Adriano è stato descritto, da Ronald Syme tra gli altri, come il più versatile
degli imperatori romani. Gli piaceva dimostrare di essere versato in tutti i
campi intellettuali e letterari; ma soprattutto frequentò e protesse l'arte,
essendo egli stesso un fine intellettuale, amante delle arti figurative, della
poesia e della letteratura. Anche l'architettura lo appassionava molto e
durante il suo principato si adoperò per dare un'impronta stilistica personale
agli edifici via via edificati. La
grande villa che si fece costruire, Villa Adriana a Tivoli (Tibur), è stato il
più grande esempio romano di "giardino alessandrino", che ha ricreato
un autentico paesaggio sacro al suo interno; andato in gran parte perduto a
causa della spoliazione delle rovine per opera del cardinale Ippolito II d'Este
il quale utilizzò molto del marmo rimosso per costruire la sua celebre
proprietà. La villa di Adriano costituisce l'esempio più notevole di una dimora
immensa costruita con passione, intesa come luogo della memoria, intessuto di
citazioni architettoniche e paesaggistiche, di riproduzioni, su varia scala, di
luoghi come la Stoà Pecile ateniese[22] o Canopo in Egitto. Il Pantheon di Roma, costruito da Agrippa,
fu restaurato da Adriano Anche il Pantheon a Roma, originariamente costruito da
Marco Vipsanio Agrippa ma andato distrutto a seguito di un incendio nell'80, fu
ricostruito proprio sotto l'egida di Adriano nella caratteristica forma a
cupola che mantiene ancora oggi; questo è tra i meglio conservati degli antichi
edifici della capitale imperiale e la sua struttura ha successivamente
influenzato alcuni tra i più grandi architetti del Rinascimento italiano e del
periodo Barocco. La città fu inoltre ulteriormente arricchita di templi, come
il tempio di Venere e Roma e di edifici pubblici. Da già ben prima di salire al
trono provava un vivo interesse per l'architettura, ma sembra che questo non
sia stato sempre troppo ben accolto. Ad
esempio, sembra che spesso l'imperatore in persona mettesse mano ai progetti il
che, secondo Cassio Dione, portò a un conflitto con Apollodoro di Damasco,
famoso architetto di corte ufficialmente investito dell'incarico progettuale
del Foro di Traiano il quale respinse i suoi disegni e proposte per apportarne
modifiche. Quando Traiano fece chiamare Apollodoro per consultarlo su un
problema sorto inerente all'opera, ecco che Adriano l'interruppe per mettersi a
dare consigli, per cui Apollodoro rispose così: "Andate via e continuate a
disegnare le vostre zucche. Tu non sai niente di questi problemi"[23].
"Zucche" si riferisce ai disegni di Adriano di cupole come il Serapeo
che poi installò nella sua villa. Sempre secondo lo storico una volta che
Adriano divenne imperatore, infastidito dalla disistima dell'architetto che lo
riteneva poco più di un dilettante, sarebbe arrivato al punto da mandarlo prima
in esilio e poi a metterlo a morte.
Anche in questo caso, come già con Tacito e Svetonio nei confronti di
Tiberio, Claudio e Nerone, è difficile capire quanto lo storico riferisca fatti
reali e non illazioni dettate da animosità nei confronti dell'imperatore.
Adriano ha scritto poesie in latino e greco; delle sue varie raccolte, andate
completamente perdute, uno dei pochi esempi riusciti a giungere sino a noi è un
frammento riportato dalla Historia Augusta[24][25], che pare avrebbe dovuto
essere parte di un poema latino composto, o meglio fatto dettare, sul letto di
morte. Ha anche scritto un'autobiografia - apparentemente non un'opera di
grande ampiezza o di vasta profondità psicologica, ma progettata perlopiù per
inserire varie notizie o fatti importanti della sua vita e spiegare le motivazioni
delle diverse azioni da lui compiute durante il suo regno. Tondo dell'Arco di Costantino raffigurante
la caccia al leone di Adriano Adriano era poi un cacciatore appassionato, e
questo fin dai tempi della sua giovinezza, secondo una fonte[26]: nel
nord-ovest dell'Asia, avrebbe fondato e dedicato una città per commemorare
un'orsa che era riuscito a stanare e uccidere[27]. Si è documentato inoltre il
fatto che mentre si trovava in viaggio lungo l'Egitto romano - assieme al suo
amato ragazzo Antinoo - uccise un leone[27]. A Roma, otto rilievi
caratterizzano l'imperatore in diverse fasi della caccia; essi decorano un
edificio che era stato inizialmente progettato come un monumento che doveva
celebrare uno di questi eventi[27].
Adriano, benché, sempre secondo Cassio Dione, disconoscesse Omero[28],
fu un umanista profondamente vicino all'ellenismo nei gusti; culturalmente
aveva familiarità con l'opera dei filosofi Epitteto, esponente dello stoicismo
nonché suo amico personale, Eliodoro e Favorino; ma studiò approfonditamente
sia Platone sia Epicuro[29], oltre alla lingua greca antica. Vicino anche ai
bisogni sociali più concreti ha mitigato la schiavitù nell'antica Roma, dandole
un codice legale di regolamentazione più umanizzato proibendo ad esempio la tortura
sulle persone ridotte in schiavitù. Ha costruito biblioteche (un esempio è la
biblioteca di Adriano ad Atene), acquedotti, terme romane e teatri. La barba di Adriano Da molti storici è
considerato per essere stato saggio e giusto: Schiller ebbe modo di definirlo
"primo servitore dell'Impero", e lo storico inglese Edward Gibbon ha
ammirato la sua "vasta e attiva opera di genio", così come la sua
"equità e moderazione". Nel 1776, ha affermato che quella di cui
anche Adriano faceva parte era stata la "più felice epoca della storia
umana". Un altro dei contributi di Adriano alla cultura più
"popolare" era costituito dalla barba che portava la quale veniva a
simboleggiare anche il suo filellenismo; proprio in omaggio alla filosofia
greca, fu il primo imperatore a portarla sempre[30]. Fin dai tempi di Publio Cornelio Scipione
(detto "l'Africano") era stato infatti di moda tra i Romani essere
sempre ben rasati; anche tutti gli imperatori romani prima di lui, con
l'eccezione di Nerone (non a caso anch'egli un grande ammiratore della cultura
greca), erano rasati. La maggior parte degli imperatori dopo Adriano invece
sarebbero stati ritratti con la barba. Le loro barbe, tuttavia, non sono state
portate tanto quanto un segno di apprezzamento nei confronti della cultura
greca ma perché essa, grazie ad Adriano, era diventata di moda; un uso che
verrà poi ripreso da molti suoi successori (tra i quali Antonino Pio, Marco
Aurelio, Settimio Severo e Flavio Claudio Giuliano). Questa nuova moda durò fino al regno di Costantino
I[31] e fu ripresa di nuovo solamente dall'imperatore bizantino Foca all'inizio
del VII secolo[32]. Fu anche il primo imperatore romano a essere iniziato al
rito greco dei misteri eleusini e, a parte Caligola e Nerone, a interessarsi
fortemente alle culture orientali dell'impero, ma allo stesso tempo riaffermò
le antiche origini di Roma, valorizzando gli elementi arcaici dell'età regia di
Roma e augustei della religione romana, come il richiamo a Romolo e Numa
Pompilio[33]. Restaurò il culto di Venere Genitrice, istituito da Cesare e poi
abbandonato, associandolo a quello della dea Roma, ricostruendo il Tempio
dedicato[34]. Ritratto di Antinoo
scoperto a Villa Adriana a Tivoli e conservato al museo del Louvre Relazione
con Antinoo Lo stesso argomento in
dettaglio: Antinoo. Molto noto è stato il legame sentimentale intercorso tra
l'imperatore e un giovane greco originario della Bitinia di nome Antinoo, tanto
da essere citato nel corso del tempo come una delle più famose rappresentazioni
di "coppie omosessuali" dell'intera storia LGBT; il giovinetto si
trovò strettamente a contatto con Adriano per almeno cinque anni e lo seguì in
tutti i suoi viaggi fino a quando, appena diciannovenne misteriosamente cadde
nel Nilo e morì. Antinoo come Osiride,
con il nemes e l'ureo Travolto dal dolore, in onore del defunto Antinoo,
Adriano fondò la città egiziana di Antinopoli, nella quale fece edificare un
tempio dedicato al culto di Antinoo divinizzato, assimilato al dio egizio
Osiride e successivamente anche a Ermes e a Dioniso, nonché come patrono delle
colture[35]. Per il resto della vita Adriano commissionò centinaia (se non
migliaia) di statue di Antinoo, oltre che farlo ritrarre in busti, monete,
gioielli e altri oggetti di artigianato: tutta la passione e la profondità
dell'amore di Adriano furono mostrate in queste opere, che sono tra gli esempi
più alti dell'arte adrianea e rinvenute ovunque in tutto l'Oriente ellenizzato
dell'Impero romano, raffiguranti un giovane uomo dal fascino malinconico,
caratterizzato da un volto tondo con guance piene prive di qualsiasi peluria,
labbra sensuali, e folta capigliatura a grosse ciocche mosse che ricoprono le
orecchie. Uno dei più famosi fra questi oggetti è la cosiddetta gemma
Marlborough, una sardonica splendidamente incisa e bagnata nell'oro nella parte
posteriore, che si riteneva perduta e che fu poi riscoperta in un'asta pubblica
londinese nel 1952. Il grande collezionista Giorgio Sangiorgi la riportò poi a
Roma, dove è tuttora conservata, quando i duchi di Marlborough dispersero la
collezione per mantenere la tenuta di Blenheim. Adriano e Antinoo, disegno del pittore e
incisore francese ottocentesco Pierre Bouillon Antinoo proveniva da Claudiopoli
(Bitinia) e Adriano con tutta probabilità lo incontrò durante il soggiorno in
Asia minore avvenuto nel biennio 123/24[36]. Per l'ambiente contemporaneo non
era tanto l'inclinazione omoerotica dell'imperatore nei confronti degli
adolescenti a essere irritante - tali rapporti erano sempre stati evidenti
anche nel predecessore Traiano - quanto l'insolita apoteosi assegnatagli
post-mortem, del tutto simile al culto imperiale e appartenente di diritto
solamente alla famiglia reale, nonché l'allontanamento definitivo dalla moglie
e la profonda malinconia che caratterizza i suoi ultimi anni di regno,
accresciuta anche dalla perdita di lì a breve dell'amata sorella Paulina[37]
(la quale non ebbe peraltro mai gli onori che furono attribuiti ad Antinoo in
quanto pare considerasse l'abbandono sentimentale del fratello sconveniente ed eccessivo[38]). Immediatamente cominciarono inoltre anche a
circolare voci su quelle che in realtà avrebbero dovuto essere state le
effettive circostanze dell'incidente occorso ad Antinoo; oltre alla morte
naturale cadendo nel fiume per poi annegare subito dopo, sorsero anche
interpretazioni alternative per cui si sarebbe suicidato[39] perché rischiava
di non rimanere ancora per molto nelle grazie dell'imperatore ma si ipotizzò
anche l'omicidio da parte della moglie di Adriano o la morte sacrificale a carattere
magico-rituale nell'intento di donare la piena salute ad Adriano che in quel
periodo era tornata a essere alquanto cagionevole[40]. Busto di Adriano del 132-138 d.C. Il modello
della deificazione postuma dei propri cari - la quale iniziò a verificarsi
durante l'ellenismo tra i vari sovrani del Vicino Oriente - fu Alessandro
Magno, che attribuì egli stesso onori e culto da eroe all'amatissimo compagno
Efestione dopo la sua sopravvenuta dipartita. Ma la portata della venerazione
nei confronti di Antinoo fu tale da includere anche il catasterismo: Adriano
affermò cioè di aver veduto brillare in cielo la stella dell'amato e lo volle
pertanto tramutare in una costellazione col suo nome, quella di
Antinoo[41]. La fede nella divinità del
giovane uomo morto, risorto e assunto in cielo apparve in varie forme e ottenne
ampia diffusione, non solo nella parte più orientale dell'impero, ma anche in
Grecia e Asia minore fino a giungere in Italia[42]; avendo un seguito tra le
masse popolari che si ricollegavano a lui nella loro stessa speranza in una
futura vita eterna, il suo volto iniziò ad apparire anche in lampade, vasi di
bronzo e altri oggetti dell'esistenza più quotidiana[43]. Solamente di Augusto
e dello stesso Adriano ci sono state tramandate un numero di immagini superiore
a quelle che imprimono le fattezze di Antinoo[44]. La morte e il monumento funebre Fonte battesimale vaticano, la cui vasca in
porfido potrebbe essere il coperchio del sarcofago di Adriano Negli ultimi anni
organizzò la successione. Prima adottò Lucio Elio Cesare, ma quando questi morì
la scelta cadde su Antonino Pio, a cui Adriano fece adottare a sua volta il
figlio di Elio, Lucio Vero, e il giovane Marco Aurelio. Adriano morì nella sua residenza di Baia
forse di edema polmonare, a 62 anni come il predecessore Traiano. Cassio Dione
Cocceiano riporta in un brano della "Storia romana"[45] «Dopo la morte di Adriano gli fu eretto un
enorme monumento equestre che lo rappresentava su una quadriga. Era così grande
che un uomo di alta statura avrebbe potuto camminare in un occhio dei cavalli,
ma, a causa dell'altezza esagerata del basamento, i passanti avevano
l'impressione che i cavalli ed Adriano fossero molto piccoli.» In realtà non è certo che il monumento
funebre sia stato iniziato dopo la morte dell'imperatore e molto probabilmente
fu iniziato da Adriano nel 135 e, dopo la morte, terminato dal successore,
adottato ufficialmente prima di morire, Antonino Pio. La struttura fu, nei
secoli, trasformata ripetutamente e oggi è uno dei monumenti più famosi di
Roma: Castel Sant'Angelo, il quale è infatti anche denominato Mole Adriana.
Esistono teorie secondo cui il sarcofago in porfido dell'imperatore (in
particolare il coperchio) sia stato riutilizzato come vasca del fonte
battesimale di San Pietro in Vaticano[46].
Monetazione imperiale del periodo
Lo stesso argomento in dettaglio: Monetazione da Nerva ad Adriano.
Rappresentazioni storiche La perduta autentica biografia di Adriano fu
reinterpretata in forma di autobiografia, basata su accurati studi di fonti
originali da Marguerite Yourcenar, Mémoires d'Hadrien (Memorie di Adriano) nel
1951 (New York 1954). Un'altra rappresentazione di Adriano e della sua corte è
il classico scolastico di Elizabeth Speller, Following Hadrian: a
second-century journey del 2003 (Seguendo Adriano: Un viaggio nel II secolo).
Il libro mescola racconti di viaggio, finte memorie e autentiche note
biografiche, viste dagli occhi della poetessa e storica di Adriano, Giulia
Balbilla. Altra rappresentazione di Adriano, ricavata dalle Mémoires d'Hadrien
di Marguerite Yourcenar, è lo spettacolo teatrale di Giorgio Albertazzi,
"Memorie di Adriano" per la regia di Maurizio Scaparro. Note ^
Antinoo fu l'amante e il favorito ufficiale dell'imperatore ^ Whilelm Henzen,
Giovanni Battista de Rossi, Corpus inscriptionum Latinarum VI. Inscriptiones
urbis Romae latinae p. 1426.. ^ Iscrizione in Atene, anno 112 AD: CIL III, 550
= InscrAtt 3 = IG II, 3286 = Dessau 308 = IDRE 2, 365: P(ublio) Aelio P(ubli)
f(ilio) Serg(ia) Hadriano / co(n)s(uli) VIIviro epulonum sodali Augustali
leg(ato) pro pr(aetore) Imp(eratoris) Nervae Traiani / Caesaris Aug(usti)
Germanici Dacici Pannoniae inferioris praetori eodemque / tempore leg(ato)
leg(ionis) I Minerviae P(iae) F(idelis) bello Dacico item trib(uno) pleb(is)
quaestori Imperatoris / Traiani et comiti expeditionis Dacicae donis
militaribus ab eo donato bis trib(uno) leg(ionis) II / Adiutricis P(iae)
F(idelis) item legionis V Macedonicae item legionis XXII Primigeniae P(iae)
F(idelis) seviro / turmae eq(uitum) R(omanorum) praef(ecto) feriarum Latinarum
Xviro s(tlitibus) i(udicandis) //... (testo in greco) ^ H. W. Benario in
Roman-emperors.org. ^ Alberto Angela, Impero. Viaggio nell'Impero di Roma
seguendo una moneta, Mondadori, 2010 ^ Le conquiste di Traiano avevano permesso
di acquisire la Mesopotamia e la parte settentrionale della Persia fino al Mar
Caspio, ma le nuove conquiste costituivano due aree approssimativamente
triangolari con lati piccoli sul fiume Eufrate e aventi come confine gli altri
lati. ^ Sul punto si veda: M.A. Levi, Adriano, un ventennio di cambiamento,
cit. in bibl. pag. 44 e seg. Midrash
Rabba, Genesis Rabba 64 (end). ^ Cassio Dione, Historia Augusta 69.12.1. ^
Virgilio Corbo, The Holy Sepulchre of Jerusalem (1981) ^ Epiphanius, Treatise
on Weights and Measures – Syriac Version (ed. James Elmer Dean), University of
Chicago Press, c1935, p. 30 ^ Peter Schäfer, Judeophobia: Attitudes Toward the
Jews in the Ancient World, Harvard University Press, 1998, pp. 103–105, ISBN
978-0-674-04321-3. URL consultato il 1º febbraio 2014. «[…] Hadrian's ban on
circumcision, allegedly imposed sometime between 128 and 132 CE […]. The only
proof for Hadrian's ban on circumcision is the short note in the Historia
Augusta: 'At this time also the Jews began war, because they were forbidden to
mutilate their genitals (quot vetabantur mutilare genitalia). […] The
historical credibility of this remark is controversial […] The earliest
evidence for circumcision in Roman legislation is an edict by Antoninus Pius (138-161
CE), Hadrian's successor […] [I]t is not utterly impossible that Hadrian […]
indeed considered circumcision as a 'barbarous mutilation' and tried to
prohihit it. […] However, this proposal cannot be more than a conjecture, and,
of course, it does not solve the questions of when Hadrian issued the decree
(before or during/after the Bar Kokhba war) and whether it was directed solely
against Jews or also against other peoples.» ^ Mackay, Christopher. Ancient
Rome a Military and Political History 2007: 230 ^ The Bar Kokhba War
Reconsidered: New Perspectives on the Second Jewish Revolt Against Rome, Peter
Schäfer Mohr Siebeck, 2003, p. 68. ^ The History of the Jews in the Greco-Roman
World: The Jews of Palestine from Alexander the Great to the Arab Conquest,
Peter Schäfer Routledge, 2 settembre 2003, p. 146. ^ Historia Augusta,
Adriano 14.2. ^ Gérard Nahon, Article Bar-Kokhba, Encyclopaedia Universalis,
DVD, 2007 ^ La versione aramaica, "שחיק טמיא", viene
utilizzata, per esempio, in Genesis Rabbah 78:1.. A ciò fa riferimento Rashi
nel suo commento alla frase, "טמא לנפש", nel commentario
a Numeri 5:2.. In altre due occasioni poi Rashi si riferisce poi a Bereshit
(libro) nel suo commentario, 10:3 e 28:3, utilizzando la versione ebraica,
"שחיק עצמות" ^ Midrash Rabba
(Lamentations Rabba), section 3 ^ midrash HaGadol to dvarim 26:19 ^ Malbim to
Daniel 9:27 ^ Ilaria Romeo, The Panhellenion and Ethnic Identity in Hadrianic
Greece, in Classical Philology, vol. 97, n. 1, gennaio 2002, pp. 21-40. ^ Cassio
Dione 69,4,2 (archiviato dall'url originale il 29 marzo 2020).; Übersetzung
nach Opper 2009, S. 102. ^ Hadrian, su
Historia Augusta, penelope.uchicago.edu, vol. 25.9. ^ Antony Birley, p. 301. ^
Adriano, su Historia Augusta, penelope.uchicago.edu, vol. 2.1. Fox, Robin The
Classical World: An Epic History from Homer to Hadrian Basic Books. 2006 pg 574 ^ Cassio
Dione, Storia romana LXIX 4.6: «In ogni occasione ignorò Omero, sostituendolo
con Antimaco, il cui nome, in precedenza, era stato per lo più sconosciuto». ^
Plotina (PDF) [collegamento interrotto], su puntoerre.eu. ^ Fündling 2006, Bd.
4.2, pp. 1128–1131; Paul Zanker, Die Maske des Sokrates: Das Bild des
Intellektuellen in der antiken Kunst, München 1995, pp. 206–221. ^
A. E. Conway, ?, in The Burlington Magazine for Connoisseurs, vol. 25, n. 138,
1914, pp. 346–349, JSTOR 859783. ^ Facts About the Byzantine Emperors, su
web2.airmail.net, 7 settembre 2001. URL consultato il 7 maggio 2012
(archiviato dall'url originale il 5 febbraio 2012). ^ Alessandro Galimberti,
Adriano e l'ideologia del principato. ^ Mario Attilio Levi, L'età delle guerre
civili, in La storia: Roma - Dalle origini ad Augusto, Mondadori ^ Forse
simbolico delle speranze di immortalità e rinascita dei princeps. (Fündling
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Omosessualità nell'Antica Roma Vallo di Adriano Arte adrianea Villa Adriana
Ritratto di Adriano (Museo delle Terme) Castel Sant'Angelo Rescritto di Adriano
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almargen.com.ar. URL consultato il 4 novembre 2005 (archiviato dall'url
originale il 25 ottobre 2005). Adriano e il Foro di Cupra Maritima (PDF).
Considerazioni sulla tradizione storiografica di "Adriano architetto"
Predecessore Imperatore romano Successore Traiano Antonino Pio V · D · M
Conquista della Dacia V · D · M Campagne partiche di Traiano V · D · M
Imperatori adottivi V · D · M Imperatori romani e relative linee di successione
Portale Antica Roma Portale Biografie Portale Diritto Categorie: Imperatori
romaniRomani del II secoloNati nel 76Morti nel 138Nati il 24 gennaioMorti il 10
luglioNati a ItalicaMorti a Baia (Bacoli)AdrianoAeliiPoeti romaniStoria
LGBTAuguriSepolti a Castel Sant'AngeloPersone legate ai Misteri
eleusiniMecenati romani[altre]. Poesia modifica
Ritratto dell'Imperatore Adriano.
Lo stesso argomento in dettaglio: Elegia latina, Poesia didascalica e
Pervigilium Veneris. A partire dagli inizi del II secolo, la poesia latina
sembra abbandonare l'epica a vantaggio di un componimento più
"leggero" e scherzoso, con versi brevi, ispirandosi a Catullo. Si
ebbe così un procedimento di imitazione dei poeti preclassici, cercando anche
una miglior semplicità popolaresca nelle sue forme e contenuti.[8] Nel corso dell'alto impero il distico
elegiaco è impiegato sempre più spesso per l'epigramma più che per l'elegia,
che gradatamente sparisce dalla produzione letteraria dei primi secoli
dell'impero in favore di forma prosastiche (storiografia, trattatistica
tecnica) o di poesia di più alto registro (epica) adeguata all'encomio dei
regnanti di turno. Data questa premessa
non sorprende particolarmente la quasi totale sparizione del genere elegiaco
dalla produzione letteraria di età imperiale. In effetti nel corso del II e III
secolo la produzione di poesia ricercò atmosfere rarefatte e funambolismi
tecnici tipici della corrente dei poetae novelli: in alcuni carmi della
Anthologia Latinacompaiono distici elegiaci, ma più vicini all'epigramma che
all'elegia. I carmi venivano composti in tetrametri trocaici, metrica da tempo
trascurata e dalla cadenza popolareggiante, che troveranno espressione anche
nel Pervigilium Veneris (un inno da cantare, quale invito all'amore ed alle
gioie della vita[9]), componimento anonimo di 93 tetrametri trocaici.[9]
Quest`opera fu attribuita, di volta in volta, a Catullo, ad Apuleio, a Publio
Annio Floro[9] oppure a Tiberiano (IV secolo). In effetti, la datazione rimane
molto incerta: per alcune coincidenze di stile, sembrerebbe appartenere ai
componimenti dei poetae novelli, ma c'è anche chi colloca la composizione in
un'epoca più tarda, finanche nel VI secolo.
Del circolo dei poetae novelli faceva parte il poeta e grammatico,
Terenziano Mauro, suo principale teorico. Altri poeti erano: Anniano Falisco
(che scrisse i Fecennini ed i Falisca), Settimio Sereno(Opuscola ruralia),
Alfio Avito (Libri excellentium), Annio Floro e lo stesso Adriano.[9] Essi si
riallacciavano al precedente movimento letterario dei poetae novi, per
tematiche, tecnica e metrica poetica.[10] La novitas era soprattutto costituita
del fatto che volevano esprimersi in modo più popolare, con toni meno aulici e classicheggianti
riconducibili all'Antica Grecia. Ciò significava introdurre tematiche
campestri, rustiche, con paesaggi idilliaci. A ciò si aggiunga una ricerca di
maggior realismo e verismo, con una metrica popolare e maggiormente
orecchiabile.[10] Lo stesso imperatore
Adriano protesse notevolmente l'arte, essendo egli stesso un fine
intellettuale, amante delle arti figurative, della poesia e della letteratura,
come risulta da un piccolo frammento dallo stesso scritto e riportato nella
Historia Augusta:[8] (LA) «Animula vagula blandula Hospes comesque
corporis Quae nunc abibis in loca Pallidula rigida nudula Nec ut soles dabis
iocos[...» (IT) «Piccola anima smarrita e soave, compagna e
ospite del corpo, ora t'appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli,
ove non avrai più gli svaghi consueti.[...]»
(Historia Augusta, Vita di Adriano, 25.9; poesia in stile ellenistico
composta da Adriano poco prima della morte, traduzione di Lidia Storoni
Mazzolani) Cultura
modifica Busto di Adriano. Busto del giovane Antinoo, amante di
Adriano. (LA) «Animula vagula blandula Hospes comesque corporis Quae nunc
abibis in loca Pallidula rigida nudula Nec ut soles dabis iocos[...»
(IT) «Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora
t'appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli
svaghi consueti.[...]» (poesia in stile ellenistico composta da Adriano
poco prima della morte, traduzione di Lidia Storoni Mazzolani) Adriano
protesse notevolmente l'arte essendo egli stesso un fine intellettuale, amante
delle arti figurative, della poesia e della letteratura. Anche l'architettura
lo appassionava molto e durante il suo principato si adoperò per dare
un'impronta stilistica personale agli edifici via via edificati. Villa
Adriana a Tivoli fu l'esempio più notevole di una dimora immensa costruita con
passione, intesa come luogo della memoria, intessuto di citazioni
architettoniche e paesaggistiche, di riproduzioni, su varia scala, di luoghi
come il Pecile ateniese o Canopo in Egitto. Anche a Roma il Pantheon,
costruito da Agrippa, fu re-instaurato, edificato nuovamente, sotto Adriano e
con la forma definitiva che tuttora conserva (non fu semplicemente restaurato).
La città fu inoltre ulteriormente arricchita di templi, come il tempio di
Venere e Roma e di edifici pubblici. Sembra che spesso l'imperatore in
persona mettesse mano ai progetti il che, secondo Cassio Dione Cocceiano, portò
ad un conflitto con Apollodoro di Damasco, architetto di corte ufficialmente
investito dell'incarico progettuale. Sempre secondo lo storico, Adriano,
infastidito dalla disistima dell'architetto che lo riteneva poco più di un
dilettante, sarebbe arrivato al punto da esiliarlo e poi farlo eliminare. Anche
in questo caso, come già con Tacito nei confronti di Tiberio, è difficile
capire quanto lo storico riferisca fatti reali e non illazioni dettate da
animosità nei confronti dell'imperatore. Adriano, benché sempre secondo
Cassio Dione disconoscesse Omero[26], fu un umanista profondamente ellenofilo
nei gusti, amico di filosofi greci come Epitteto. Molto noto è il legame
sentimentale con un giovane greco: Antinoo. Nel 130, durante un viaggio in
Egitto, Antinoo misteriosamente cadde nel Nilo e morì. Sulla sua morte furono
sollevati molti dubbi ma la questione rimarrà per sempre oscura e non si può
escludere che si sia trattato di suicidio o omicidio. Travolto dal
dolore, Adriano, in onore del defunto, fondò la città egiziana di Antinopoli,
nella quale fece edificare un tempio dedicato al culto di Antinoo divinizzato,
assimilato al dio egizio Osiride. Per il resto della vita Adriano commissionò
centinaia (se non migliaia) di statue di Antinoo. La passione e la profondità
dell'amore di Adriano furono mostrate in busti e statue rinvenuti ovunque in
Europa, che rappresentano un ragazzo dal fascino malinconico, caratterizzato da
un volto tondo con guance piene prive di qualsiasi peluria, labbra sensuali, e
folta capigliatura a grosse ciocche mosse che ricoprono le orecchie.Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Adriano,” pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Adriano.
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