Luigi Speranza -- Grice e Casalegno:
l’implicatura conversazionale -- il concetto d’implicatura nella filosofia
linguistica del Novecento – scuola di Torino – filosofia torinese –filosofia
piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, The Swimming-Pool Library (Torino). Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino,
Piemonte. Grice: “I like, indeed love, Casalegno; but then, he loves me!
Translating Griice, or me, is tricky – as Mommsen says of Garet translating
Cassiodoro,, “more than a translation, he provided a correction – and he tried
to prove that Cassiodoro was a Benedictine monk.’” Grice: “Casalegno does not
try to ‘translate’ Grice – let THAT to the technicians! As a philosopher, he
tries to ‘re-interpret’ Grice, if a re-interpretation is needed!” Si laurea a Pisa sotto Sainati con “Aspetti
della logica modernista”. Insegna a Milano, chiamato da Bonomi. Approfondizza diversi
temi all'interno della filosofia analitica, quali il concetto di verità, la
teoria degli insiemi, l'epistemologia della testimonianza, la teoria della
ricorsività. Altre opere: “Alle origini della semantica formale,” Cuem;
“Filosofia del linguaggio: un'introduzione,” Carocci, “Teoria degli insiemi,
un'introduzione, Carocci); “Brevissima introduzione alla filosofia del
linguaggio, Carocci, Verità e
significato. Scritti di filosofia del linguaggio, Carocci, (P. Frascolla, D. Marconi ed E. Paganini). Il
puzzle di Kripke, in Teoria, Sulla logica dei plurali, in Teoria; Tre
osservazioni su verità e riferimento, in Iride; Come interpretare l'argomento
antirealista di Dummett?, in Lingua e stile; Le proprietà modali della verità:
problemi e punti di vista, in Logica e teologia (Pisa, ETS). Un problema
concernente le condizioni di asseribilità, in Modi dell'oggettività, Milano,
Bompiani, Normatività e riferimento, in
Politeia. Chomsky sul riferimento, Monza, Polimetrica. Casalegno, il
maestro della filosofia del linguaggio, di Franco Manzoni, Corriere della Sera,
Archivio storico. Grice Logica e conversazione. In P. Casalegno, P. Frascolla,
A. Iacona, E. Paganini, M. Santambrogio (a cura di). Filosofia del linguaggio,
Milano, Raffaello Cortina. Il libro che vi presento oggi appartiene alla
collana “Bibliotheca” della casa editrice Raffaello Cortina. Il titolo è
Filosofia del linguaggio (come spesso accade tra i libri di cui ho parlato in
questo blog) e si tratta di una interessante e utile antologia di testi,
appartenenti alla tradizione novecentesca della filosofia analitica del
linguaggio. I curatori sono importanti docenti italiani, tra cui C.,
Frascolla, Iacona, Paganini e Santambrogio. I testi antologizzati
consentono al lettore di farsi un’idea (e non poco approfondita) sulle
principali questioni e problematiche inerenti al linguaggio umano, su cui si è
dibattuto negli ultimi decenni in ambito analitico. Ogni testo è preceduto da
una introduzione dei curatori, in cui è presentato il pensiero dell’autore, il
contesto culturale e i concetti chiave che emergono dalla sua opera. Apre
il classico Senso e significato di Frege (di cui avevo già parlato qui),
seguono quindi Le descrizioni di Bertrand Russell (testo che tratta delle
descrizioni definite), Significato, uso, comprensione di Ludwig Wittgenstein
(tratto dalle sue Ricerche filosofiche), Due dogmi dell’empirismo e Relatività
ontologica di Quine, Nomi e riferimento di Kripke, Significato, riferimento e
stereotipi di Putnam, Interpretazione radicale di Davidson, “Logica e
conversazione” di Grice, Dispute metafisiche intorno al realismo, di Dummett, e
si conclude con l’interessante Linguaggio e natura, di Chomsky. versazione –
afferma Grice - è un ' attività cooperativa alla quale i partecipanti devono
contribuire in maniera appropriata. A tale fine, bisogna che ciascuno si
attenga a quattro “ massime ” che possono. Introduzione alla filosofia del
linguaggio C. Significato e condizioni di verità. Prendiamo in
considerazione un’idea del primo Wittgenstein: “Comprendere una
proposizione vuole dire sapere che accada se essa è vera” (Tractatus). Poiché
comprendere una proposizione equivale a conoscerne il significato, molti hanno
concluso che alla base di una teoria del significato si deve porre la nozione
di verità. Come sostenere la tesi
wittgensteiniana? Un modo può essere questo: usiamo il
linguaggio per descrivere la realtà. Una
proposizione singola fornisce una descrizione appropriata, anche se parziale,
della realtà se le cose stanno in un certo modo, una descrizione inappropriata
altrimenti. Per comprendere una proposi-zione dobbiamo sapere quali sono le
circostante in cui la descrizione della realtà che essa offre è ap-propriata,
dobbiamo sapere come deve essere fatto il mondo affinché essa sia vera.
Possiamo anche esprimerci così: per comprendere una proposizione dobbiamo
conoscere le sue ‘condizioni di veri-tà’. Evitiamo di fraintendere.
Conoscere le condizioni di verità di una proposizione è molto diverso dal
sapere se essa sia, di fatto, vera o falsa, e non bisogna dunque confondere le
due cose. Inoltre, non bisogna assumere che il conoscere le
condizioni di verità di una proposizione equivalga
a sapere come si fa, in pratica, per stabilire se essa è vera. La
tesi wittgensteiniana sembra essere ragionevole, e così anche la sua
conseguenza più immediata: una teoria del significato, ammesso che la si possa
elaborare, deve essere imperniata sulla nozione di verità. Le obiezioni che si
possono però muovere a un siffatto modo di vedere le cose sono moltepli-ci,
concentriamoci su alcune di queste. Le obiezioni possono essere,
principalmente, di due tipi. Da un lato si può concedere che compren-dere una
proposizione equivalga a conoscerne le condizioni di verità, ma respingere
l’idea che la nozione di verità sia la nozione centrale di una teoria del
significato (ci sono espressioni per le quali parlare di condizioni di verità
sembra essere assurdo). Dall’altro lato, si può più radicalmente soste-nere che
il significato delle proposizioni non può essere ridotto a un insieme
determinato di condi-zioni di verità. Al termine ‘proposizione’
preferiamo contrapporre un gergo leggermente più tecnico, facciamo quindi uso
del termine ‘enunciato’; ciò per riferirci a quelle che talvolta si chia-mano
‘frasi dichiarative’: le frasi per mezzo delle quali si può fare un’asserzione
e delle quali ha sen-so chiedersi se siano vere o false. La prima
obiezione si basa sull’ovvia constatazione che esistono
espressione le quali, pur essendo dotate di significato, non sono enunciati, e
alle quali, di conseguenza, non sono sensatamente
attribuibili condizioni di
verità. Ci sono espressioni sintatticamente
ben formate che non sono frasi complete, parole
singole o espressioni come ‘valigia pesante’.
Che queste espressioni abbiano un significato è indubbio, ma
che si possa parlare di condizioni di verità sembra essere un’evidente
for-zatura. In secondo luogo, ci sono frasi complete
come le interrogative e le imperative. Inevitabilmente, una
teoria che voglia analizzare il significato di queste due sorte di espressioni
deve ricorre a nozioni diverse da quella di
verità. Sembra dunque impossibile che
proprio su questa nozione si fondi tutta quanta una
teoria del significato. Cosa si può rispondere a quest’obiezione? Si può voler
dire che la nozione di verità, sebbene non possa essere considerata l’unica
nozione di una teoria del significato, rimane in ogni caso la nozione centrale.
Si può sostenere che anche il significato delle espressioni che non sono
enunciati ha a che fare con la verità. Consideriamo il caso delle parole
singole: queste servono a costruire frasi complete, è di queste in-fatti che ci
serviamo per parlare, non di parole isolate (a meno che le parole singole non
fungano esse stesse da frasi complete). Ci interessa che le parole abbiano un
significato perché ci interessa che abbiano un significato le frasi complete in
cui esse figurano. Conoscere il significato di una pa- 1 rola, comprenderla,
equivale in definitiva a sapere qual è il suo contributo al significato delle
frasi: in particolare alle condizioni di verità degli enunciati. Non è
possibile spiegare in che cosa consista per una parola essere nome di qualcosa e,
più in generale, che cosa sia il significato di una parola qualsiasi se non
presupponendo la nozione di verità. Una teoria del significato deve fare
appello alla nozione di verità anche nell’analisi delle parole singole (questo
vale anche per frasi più complesse che tuttavia non sono frasi complete) (MAH).
Vediamo ora il caso delle frasi complete che non sono enunciati. Se ci si
riflette un po’ su, ci si rende conto che la nostra capacità di capire e di
usare correttamente frasi interrogative e imperative dipende dalla nostra
capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo, il che comporta che si
sappia quando una descrizione è appropriata e quando non lo è, il che ci
riporta, ancora una volta, alle condizioni di verità. Nel caso di domande molto
semplici, domande che esigono come risposta un ‘Sì’ o un ‘No’, ciò è evidente:
queste domande (come ‘E partito il treno per Udine’) corrispondono in modo
ovvio a un enunciato, ora è ovvio che ciò che vuole sapere chi formula la
domanda è sapere se questo enunciato sia vero o falso. É anche chiaro che il
rispondere ‘Sì’ alla domanda equivale al dire che è vero, e rispondere ‘No’ al
dire che è falso. A conclusioni analoghe si perviene riflettendo sui casi delle
interrogative che non richiedono una risposta nei termini di una negazione o
un’affermazione, e delle frasi imperative.
La centralità della nozione di verità
sembra così essere confermata. Della seconda
obiezioni esistono più varianti, potremmo
perciò formularla come segue. Concentrando l’attenzione
sulle condizioni di verità, si privilegia solo uno degli scopi cui il
linguaggio può essere adibito: la descrizione della realtà, la trasmissione di
informazioni su come è fatto il mondo. E questa è una mossa evidentemente
arbitraria. Se si decide di ignorare la straordinaria varietà degli usi cui gli
enunciati possono essere adibiti nelle circostanze concrete delle vita per
concentrarsi in modo esclusivo sul loro ruolo di veicoli di
informazione, ci si condanna ad offrire del linguaggio un’immagine
desolantemente impoverita. Del resto anche se si è interessati al linguaggio
come mez-zo per descrivere la realtà, bisogna convincersi che anche da questo
punto di vista le cose sono assai più complicate. In primo luogo, il fornire
informazione non può mai ridursi al proferire enunciati in modo casuale e
sconnesso: parlando dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci
troviamo, delle
informazioni di cui i nostri interlocutori già dispongono, delle loro
aspettative ecc.; inoltre, ci sono regole precise di costruzione del
discorso, violando le quali ciò che diciamo potrebbe non esser compreso o
risultare folle. Per tutto questo le condizioni di verità non bastano. In
secondo luogo, le condizioni di verità degli enunciati sono concepite di solito
come qualcosa di relati-vamente fisso e stabile. Di conseguenza, se il
contenuto informativo degli enunciati dipendesse per intero dalle loro
condizioni di verità, dovrebbe essere a sua volta stabile. Ma solo fintanto che
si contemplano gl’enunciati prescindendo da ogni loro impiego effettivo si può
avere l’impressione che sia così. Ciò che si può comunicare con un
dato enunciato varia enormemente con il variare dei contesti. La risposta
abituale a questa obiezione consiste nell’evocare la distinzione tra semantica
e pragmatica, una distinzione che risale a un saggio di Morris, secondo il
quale lo studio di una lingua, o di un qualsiasi altro sistema di segni, si
compone di tre parti: sintassi, semantica e pragmatica. La sintassi si
occuperebbe dei segni in quanto tali, prescindendo dalla loro interpretazione e
dal loro uso, la semantica del significato dei segni, e la pragmatica di ciò
che con i segni si può fare, dei loro impieghi concreti. Un’obiezione come sopra,
si può dire, confonde semantica e pragmatica. Qualcuno potrebbe però voler
dire che questa risposta si riduce, nei fatti, ad una mera stipulazione
definitoria. Il problema è se un tale modo di circoscrivere la semantica
disgiungendola dalla pragmatica sia giustificato o meno: se cioè la decisione
di isolare le condizioni di verità da altre dimensione del linguaggio rispecchi
un’articolazione intrinseca della nostra competenza di parlanti, identifichi un
livello realmente fondamentale, e possa costituir una scelta metodica
feconda. Due punti: né il filosofo del linguaggio né il linguista sono
tenuti a rendere conto di tutti gl’usi possibili del linguaggio. Si è tenuti a
rendere conto solo di quelli che potremmo chiamare gl’usi linguistici del
linguaggio (MAH). Se focalizziamo la nostra attenzione su questi usi, possiamo
convincerci che l’idea di partenza mantiene la propria plausibilità: sembra che
la conoscenza delle condizioni di verità degl’enunciati svolga
un ruolo essenziale anche quando sono coinvolti fattori
che non sono riducibili alle condizioni di verità pure e semplici. Non solo è
legittimo distinguere semantica e pragmatica nel modo che si è detto, ma la
pragmatica presuppone la semantica (MAH). Ad esempio si è rilevato come gl’enunciati
siano usati spesso per trasmettere un contenuto informativo Questa pagina
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l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è quanto mai
elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha subito da
parte di studiosi. Vi è poi una seconda complicazione. Una proposizione
rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un “pensiero”.
Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui
elementi sono costituenti psichici. Usando le
parole di Wittgenstein si può continuare
a dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime un pensiero, ma
non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della proposizione: il
senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il pensiero è immagine e
che la proposizione stessa, tramite il pensiero, rappresenta (?). Nel caso
del linguaggio ordinario, il rapporto fra una proposizione e il pensiero che
essa esprime è molto intricato. Il motivo è che il linguaggio ordinario è
logicamente imperfetto: “Il linguaggio trave-ste i pensieri. E precisamente
così che dalla forma esteriore dell’abito non si può concludere alla forma del
pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata per ben
altri scopi che quello di far conoscere la forma del corpo” (Cfr. Ricerche
filosofiche). É ben difficile che la strutture di una proposizione elementare
del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la struttura del pensiero e
dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto che ciò cui ci si
riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione elemen-tari sono
immagini significa dire qualcosa che è corretto solo approssimativamente. Una
proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine solo in via derivata, in
quanto associata a quell’immagi-ne vera e propria che è il pensiero. Il
pensiero è collegato da un lato allo stato di cose che rappre-senta in virtù
della sua natura di immagine, dall’altro alla proposizione attraverso una
“legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus non ci fornisce ulteriori
notizie. Una proposizione che rispecchi fedelmente la struttura
del pensiero espresso è detta da Wittgen-stein “completamente
analizzata”. Se si vuole evitare ogni travestimento del pensiero, bisogna
ricor-rere per forza ad un linguaggio artificiale costruito in modo da essere
esente da fallacie logiche. La convinzione che il linguaggio ordinario sia
logicamente imperfetto è alla base della concezione della filosofia che emerge
dal Tractatus. Per un verso, “il più delle questioni e delle proposizioni che
sono state scritte su cose filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si
fonda sul fatto che noi non comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che
ci lasciamo sviare dal modo ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime
i pensieri; per un altro verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione
logica dei pensieri. La filosofia è non una dottrina, ma un’attività. Risultato
della filosofia non sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi di
proposizioni”. Wittgenstein rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa
concezione della filosofia resterà per lo più immutata. I nomi che
figurano in una proposizione completamente analizzata devono denominare oggetti
di tipo molto speciale: oggetti non identificabili con le entità che popolano
l’ontologia del senso comune (?) e quindi diversi dagli oggetti associati ai
nomi del linguaggio ordinario. Ciò che contraddi-stingue gli oggetti nominati
in una proposizione completamente analizzata dagli oggetti del senso
comune è il requisito della semplicità. L’oggetto
deve essere semplice, ma di questa semplicità il
Tractatus non da’ neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in
parte la genesi del Tractatus, si scopre che una preoccupazione
ricorrente di Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire
degli oggetti semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava
l’esi-stenza non perché ne avesse in mente esempi specifici, bensì
sulla base di considerazioni logiche astratte e generali. In effetti
un’argomentazione vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus
si in-contrano soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche. Gl’oggetti
formano la sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”; “Se il
mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe
dall’essere un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare
un’immagine del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento
di Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una
proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa
corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che
le proposizione elementari siano immagini. Se ai nomi potessero
corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad
un dato nome corrisponda davvero qualcosa. Un’entità
complessa consta di entità più semplici correlate in un certo modo; ora,
che sussista una tale correlazione è un fatto contingente. 5 stato di
cose che l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è
quanto mai elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha
subito da parte di studiosi. Vi è poi una seconda complicazione. Una proposizione
rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un “pensiero”.
Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui
elementi sono “costituenti psichici”. Usando
le parole di Wittgenstein si può
continuare a dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime
un pensiero, ma non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della
proposizione: il senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il
pensiero è immagine e che la proposizione stessa, tramite il pensiero,
rappresenta (?). Nel caso del linguaggio ordinario, il rapporto fra una
proposizione e il pensiero che essa esprime è molto intricato. Il motivo è che
il linguaggio ordinario è logicamente imperfetto: “Il linguaggio traveste i
pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore dell’abito non si può
concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore
dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far conoscere la forma
del corpo” (Cfr. Ricerche filosofiche). É ben difficile che la strutture di una
proposizione elementare del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la
struttura del pensiero e dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto
che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione
elemen-tari sono immagini significa dire qualcosa che è corretto solo
approssimativamente. Una proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine
solo in via derivata, in quanto associata a quell’immagine vera e propria che è
il pensiero. Il pensiero è collegato da un lato allo stato di cose che
rappre-senta in virtù della sua natura di immagine, dall’altro alla
proposizione attraverso una “legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus
non ci fornisce ulteriori notizie. Una proposizione che rispecchi
fedelmente la struttura del pensiero espresso è detta da
Wittgen-stein “completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni
travestimento del pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio
artificiale costruito in modo da essere esente da fallacie logiche. La
convinzione che il linguaggio ordinario sia logicamente imperfetto è alla base
della concezione della filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il
più delle questioni e delle proposizioni che sono state scritte su cose
filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non
comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo
ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro
verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La
filosofia è non una dottrina, ma un’attività. Risultato della filosofia non
sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein
rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa concezione della filosofia
resterà per lo più immutata. I nomi che figurano in una proposizione completamente
analizzata devono denominare oggetti di tipo molto speciale: oggetti non
identificabili con le entità che popolano l’ontologia del senso co-mune (?) e
quindi diversi dagli oggetti associati ai nomi del linguaggio ordinario. Ciò
che contraddi-stingue gli oggetti nominati in una proposizione completamente
analizzata dagli oggetti del senso comune è il requisito
della semplicità. L’oggetto deve essere
semplice, ma di questa semplicità il Tractatus non da’
neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in parte la genesi del
Tractatus, si scopre che una preoccupazione ricorrente di
Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire degli oggetti
semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava l’esi-stenza
non perché ne avesse in mente esempi specifici, bensì sulla base di
considerazioni logiche astratte e generali. In effetti un’argomentazione
vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus si in-contrano
soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli oggetti formano la
sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”; “Se il mondo non
avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe dall’essere
un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine
del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento di
Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una
proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa
corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che
le proposizione elementari siano immagini. (II) Se ai nomi potessero
corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad
un dato nome corrisponda davvero qualcosa. Un’entità complessa
consta di entità più semplici correlate in un certo modo; ora, che sussista una
tale correlazione è un fatto contingente. Pertanto, se ai nomi potessero
corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che
una data proposizione abbia un senso. Supponiamo che nella proposizione P
figuri il nome N: se a N potesse corrispondere un’entità complessa C, saremmo
sicuri che a N corri-sponde davvero qualcosa, e quindi che P ha
senso, solo se fossimo sicuri che C esiste: in altri termini, solo se
sapessimo già che è vera la proposizione P’ la quale asserisce che gli elementi
costituitivi di C sono correlati in quel certo modo. Come dice Wittgenstein,
“l’avere una proposi-zione senso dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione
vera”. Ma questo sarebbe assurdo. Se una proposizione abbia senso oppure no
deve essere chiaro a priori. É inconcepibile che la sensatezza o l’insensatezza
di una proposizione possa essere “sco-perta”. Se, per essere sicuri che una
proposizione è sensata, dovessimo sempre aver stabilito pri-ma la verità di
un’altra proposizione, si genererebbe un regresso all’infinito, e noi non
potrem-mo mai sapere se, parlando, stiamo dicendo alcunché di determinato. Non
saremmo mai in gra-do di “progettare un’immagine del mondo vera o falsa”.
Devono esserci oggetti semplici e sono gli oggetti semplici che devono
corrispon-dere ai nomi del nostro linguaggio. In questo ragionamento, la
corrispondenza tra entità complesse e oggetti semplici viene fatta coincidere
con quella tra entità la cui esistenza è un fatto contingente ed entità la cui
esistenza è in-vece necessaria e nota a priori. “É manifesto che un mondo, per
quanto diverso sia pensato da quello reale, pure deve avere in comune con il
mondo reale qualcosa una forma —”; “Questa forma fissa consta appunto degli
oggetti”. La proposizione non è dunque un’immagine vera e propria: la sua
struttura non rispecchia la struttura di uno stato di cose perché i costituenti
ultimi di uno stato di cose sono sempre oggetti semplici, mentre Piero e Marco
sono entità complesse. I termini ‘Piero’ e ‘Marco’ non sono nomi del tipo che a
Wittgenstein interessa. Questo però non implica che sia priva di senso. Grazie
alla mediazione del pensiero un senso ce l’ha (?), ma per esplicitarlo adeguatamente
bisognerebbe ri-correre a proposizioni con una struttura del tutto diversa: a
proposizioni completamente analizzate. Si può finalmente comprendere
perché ai nomi non si possa attribuire, a suo avviso, un senso di tipo
descrittivo come quello cui pensava Frege. Identificare un oggetto attraverso
una descrizione vuole dire identificarlo riferendosi ad uno stato di cose di
cui esso fa parte. Ma il sussistere di uno stato di cose è sempre un fatto
contingente, mentre la correlazione di un nome con l’oggetto che ne
costi-tuisce il significato deve essere garantita a priori. Pertanto, ciò che
istituisce la correlazione nome/oggetto non può essere una descrizione
dell’oggetto stesso. Vediamo ora cosa Wittgenstein
sostiene riguardo le proposizioni complesse. La
sua idea è che le proposizioni complesse
siano funzioni di verità delle proposizioni
elementari che figurano come loro costituenti. Supponiamo che
le proposizioni elementari che figurano nella proposizione com-plessa P siano
P1, …, Pn. Allora dire che P è una funzione di verità di P1, …, Pn equivale a
dire che il valore di verità di P dipende esclusivamente dai valori di verità
di P1, …, Pn (negazione, congiun-zione, disgiunzione, condizionale…). Per
visualizzare il modo in cui il valore di verità di una proposizione costruita
per mezzo di un dato connettivo dipende dai valori di verità delle proposizioni
costituenti, Wittgenstein propone un artificio grafico: le cosiddette ‘tavole
di verità’. Tavola di verità della negazione: P¬ PT (1)F (0)F (0)T
(1). Tavola di verità della congiunzione: Tavola di verità della disgiunzione
(inclusiva): Wittgenstein osserva che le tavole di verità, così come
sono, potrebbero addirittura fungere da pro-posizioni complesse di
un linguaggio artificiale: ad esempio, le tre tavole di verità sopra
riportate potrebbero essere usate in luogo di ¬ P,(P ^ Q),(P ∨
Q). Se si seguisse questo suggerimento si di-sporrebbe di un simbolismo
autoesplicativo ma anche enormemente ingombrante. Notiamo ora una grossa differenza
tra Frege e Wittgenstein nel modo di concepire i connettivi logici. Per Frege
ogni connettivo denota una certa funzione che associa valori di verità a valori
di verità (dove i valori di verità vanno pensati come oggetti). Frege avrebbe
dunque interpretato la tavola di verità per un connettivo come un modo per
descrivere la funzione da esso denotata. Per Wittgenstein, invece, i connettivi
non denotano nulla. Tutto quel che c’è da dire circa un connettivo è che esso
consente di costruire proposizioni complesse il cui essere vere o false
dipende, secondo certe modalità determinate, dall’essere vere o false le
proposizioni costituenti. Chiedersi che cosa denoti un connettivo è, per
Wittgenstein, come chiedersi che cosa denotino le parentesi. A queste
considerazioni circa le proposizioni complesse è strettamente collegata la
concezione wittgensteiniana della logica. Né Frege né Russell avevano
saputo spiegare che cosa contraddistingue una proposizione logica da una
proposizione di altro tipo, e questo era proprio uno degli obbiettivi di
Wittgenstein nella stesura del Tractatus. Se si pensa ancora una volta al
valore di verità di una pro-posizione complessa come
determinato dai valori di verità dei suoi costituenti
elementari, si può constare che ci sono due casi limite: quello in
cui una proposizione complessa risulta vera, e quello in cui una proposizione
complessa risulta essere falsa, per tutte le possibili combinazioni di verità
dei costituenti elementari. Una proposizione del primo tipo Wittgenstein la
chiama ‘tautologia’, una del secondo tipo ‘contraddizione’. Ciò che
Wittgenstein sostiene circa la natura della logica è che essa consta per intero
di tautologie. É l’essere una tautologia ciò che contraddistingue una
proposizione logica da qualsiasi altra. Una pro-posizione logica non è tale per
via del suo contenuto ma, piuttosto, perché non ha contenuto, per-ché non dice
nulla. Le tautologie non possono fornirci alcuna informazione sulla realtà. Il
loro inte-ressa sta nel fatto che, essendo vere in virtù delle sole regole del
linguaggio, esse ci mostrano come questo funzioni. Avevamo detto che il
senso di una proposizione elementare è lo stato di cose che la proposizione
rappresenta. Alle proposizioni complesse questa nozione di senso
non può essere applicata senza modifiche. Il motivo è che, se P è
una proposizione complessa, non c’è uno stato di cose di cui si possa
ragionevolmente dire che è rappresentato da P. Tuttavia, se Wittgenstein ha
ragione nel dire che tutte le proposizioni complesse sono funzioni di
verità dei loro costituenti proposizionali ele-mentari, l’essere P vera o falsa
dipende pur sempre dal sussistere o non sussistere di certi stati di cose. Ciò
che Wittgenstein dunque propone è di identificare il senso di P con quelle
combinazioni del sussistere e non sussistere degli stati di cose S1, …, Sn per
le quali P risulta vero. “Il senso della PQP ^ QTTTTFFFTFFFFPQP ∨
QTTTTFTFTTFFF 7 Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti
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devono contribuire in maniera appropriata. A tale fine bisogna che ciascuno si
attenga a quattro “massime”: CASALEGNO “FILOSOFIA DEL
LINGUAGGIO”:1.SIGNIFICATO E CONDIZIONI DI VERITA’:-“TRATTATO LOGICO-FILOSOFICO”
di Wittgenstein: CAPIRE UNA PROPOSIZIONE SIGNIFICA SAPERE COSA ACCADE SE ESSA
E’VERA(alla base deve esserci la nozione di verità)-LINGUAGGIO: usato x
descrivere la realtà, attraverso la PROPORZIONE che fornisce una descrizione
della realtà= X COMPRENDERLA DOBBIAMO SAPERE QUALI SONO LE CIRCOSTANZE IN CUI
LA PROPORZIONE E’ APPROPIATA,DOBBIAMO CONOSCERE LE SUE CONDIZIONI DI
VERITA’(circostanze in cui essa è vera) FRA INTENDIMENTI POSSIBILI: CONOSCERE
LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI UNA PROPOSIZIONE E’ DIVERSO DAL SAPERE SE E’ V O F Es:
l’uomo + alto del mondo è bruno = NON SO SE E’ VERA MA CONOSCO LE CONDIZIONI DI
VERITA’ES: Napoleon was defeated by Nelson = E’ VERA,MA NON CONOSCO L’INGLESE E
NON CONOSCO LE SUE CONDIZIONI DI VERITA’ CONOSCERE LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI
UNA PROPOSIZIONE EQUIVALE A SAPERE COME SI FA X STABILIRE SE ESSA E’ VERAEs: La
luna ha un diametro superiore ai tremila km= CONOSCO BENE LE CONDIZIONI DI
VERITA’,MA NON CONOSCO IL METRO X VALUTARE IL DIAMETRO DELLA LUNA XCIO’ NON SO
COME SI FA A STABILIRE SE ESSA E’ VERA- PROPOSIZIONE=FRASE DICHIARATIVA(x mezzo
della quale si può fare un asserzione e ha senso chiedersi se è v o f) = ENUNCIATO*tesi
è plausibile ma può essere soggetta a critiche,2 obiezioni:1.ESPRESSIONI DOTATE
DI SIGNIFICATO,MA NON ENUNCIATI ALLE QUALI NON HA SENSO ATTRIBUIRE CONDIZIONI
DI VERITA’: espressioni sintatticamente ben formate che non sono frasi
complete-PAROLE SINGOLE, ESPRESSIONI COME “VALIGIA PESANTE”, FRASI
INTERROGATIVE ESCLAMATIVE(Dov’è l’ombrello?, Mi porti il conto!*LA NOZIONE DI
VERITA’ NON E’ L’UNICA MA E’ CENTRALE NELLA TEORIA DEL SIGNIFICATO: anche
nell’analisi delle PAROLE SINGOLE,ESPRESSIONI COMPLESSE E FRASI COMPLETE CHE
NON SONO ENUNCIATI, LA NOZIONE DI CONDIZIONE DI VERITA’ NON E’ SUFFICIENTE X
UN’ANALISI ADEGUATA DEL SIGNIFICATO DEGLI ENUNCIATI - concentrando l’attenzione
sulle condizioni di verità si privilegia la descrizione della realtà, ma questo
atteggiamento è arbitrario: UN INDIVIDUO PUO’ PROFERIRE ENUNCIATI X + FINI E IN
TUTTI I CASI NON HA MOLTA IMP SE GLI ENUNCIATI SONO V O F parlando
dobbiamo tenere conto della situazione in cui ci troviamo, delle info che
possiedono i nostri interlocutori, delle loro aspettative e delle regole della
costruzione del discorso -GLI ENUNCIATI HANNO CONDIZIONI DI VERITA’
CORRISPONDENTI AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”, MA E’INSUFFICIENTE X
CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE IN UN CONTESTO
CONCRETO. Morri s= lo studio della lingua si divide in 3 parti: SINTASSI:
studia segni in quanto tali. SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE
HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA PRAGMATICA: si occupa di ciò che
con i segni si può fare,dei loro impegni concreti*GRICE: - conversazione =
ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA
APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime:1.QUANTITA’ = giusta via di
mezzo 2. QUALITA’= non dire cs false 3. RELAZIONE = cose
pertinenti 4. MODO= parlare in modo chiaro e ordinato*massime
violate x comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale=
IMPLICATURA CONVERSAZIONALE. FREGE:primo filosofo analitico-contribuisce alla
nascita della logica moderna -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale
*Ritiene che alla base della filosofia ci sia la teoria del significato-è
diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo
crea l’ideografia-LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA
PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato linguistico
generale 1. SINN: senso (OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA)2.BEDETUNG:significato=
riferimentoEs: Aristotole= SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele. La montagna +
alta al mondo = SIGNIFICATO è il Monte Everest TERMINI SINGOLARI nomi propri E’
ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE D. es:
Totò, Grazia, New York descrizioni definite= ARTICOLO DET SING + NOME
SINGOLARE es: IL marito di Luisa- UN NOME HA SENSI DIVERSI, x diversità
di parlanti e tempi differenti=difetto del linguaggio naturale -le espressioni
hanno un significato in virtù del loro senso senso diverso da rappresentazione =
E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO
CHE EVOCANO PAROLE -GLI ENUNCIATI HANNO CONDIZIONI DI VERITA’
CORRISPONDENTI AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”, MA E’INSUFFICIENTE X
CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE IN UN CONTESTO
CONCRETO. Morris= lo studio della lingua si divide in 3 parti:1.SINTASSI:
studia segni in quanto tali2.SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE
HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA’3.PRAGMATICA: si occupa di ciò che
con i segni si può fare,dei loro impegni concreti*GRICE: -conversazione =
ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA
APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime. QUANTITA’=giusta via di mezzo
QUALITA’= non dire cs false 3. RELAZIONE = cose
pertinenti .MODO = parlare in modo chiaro e ordinato*massime
violate x comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale=
IMPLICATURA CONVERSAZIONALE 2. FREGE: primo filosofo analitico-contribuisce
alla nascita della logica moderna -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale
*Ritiene che alla base della filosofia ci sia la teoria del significato-è diffidente
verso il linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo crea
l’ideografia- LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA
PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato linguistico
generale1.SINN: senso (OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA) BEDETUNG: significato =
riferimento Es: Aristotole = SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele. La montagna
+ alta al mondo= SIGNIFICATO è il Monte Everest-TERMINI SINGOLARI: * nomi
propri = E’ ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE D. es: Totò,Grazia,New York
*descrizioni definite= ARTICOLO DET SING+NOME SINGOLARE es: IL marito di
Luisa-UN NOME HA SENSI DIVERSI, x diversità di parlanti e tempi
differenti=difetto del linguaggio naturale-le espressioni hanno un significato
in virtù del loro senso-senso diverso da rappresentazione= E’
SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE
EVOCANO PAROLE Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti
importanti! FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO – PAOLO CASALEGNO +
DISPENSE.INTRODUZIONEPlatone, Socrate, Medioevo PREMESSA PARADIGMA
CLASSICOFrege Russell Wittgenstein Tarski Quine Putnam FREGE, “SENSO E
SIGNIFICATO”; ENUNCIATI DI IDENTITÀ (A=A/A=B) TERMINI SINGOLARI (NOMI PROPRI e
DESCRIZIONI DEFINITE) ENUNCIATIPREDICATIPRINCIPI (del CONTESTO, di
COMPOSIZIONALITÀ e di SOSTITUIBILITÀ) QUANTIFICATORI RUSSELLLE
DESCRIZIONIDESCRIZIONI INDEFINITEWITTGENSTEINSTATI DI
COSEIMMAGINEFATTORAFFIGURAZIONEFUNZIONI DI VERITÀCONNETTIVI PROPOSIZIONALI TAUTOLOGIE
CONTRADDIZIONI TAVOLE DI VERITÀ LA NOZIONE DI VERITÀ IN LOGICA. TARSKI LINGUAGGIO
OGGETTO e METALINGUAGGIO DEFINIRE LA VERITÀ CONVENZIONE V COSTANTI
(INDIVIDUALI, PREDICATIVE e LOGICHE) SIMBOLI AUSILIARI SODDISFACIMENTO PARADOSSI
VERITÀ RELATIVA AD UN MODELLO CARNAP DESCRIZIONI DI STATO ESTENSIONE e
INTENSIONE POSSIBILITÀ e NECESSITÀ LOGICHE KRIPKE VERITÀ LOGICA MODELLO K VERBI
DI CREDENZA DEISSI (o INDICALI) QUINE DUE DOGMI DELL’EMPIRISMOANALITICO /
SINTETICO RIDUZIONISMO REGOLE SEMANTICHE TEORIA DELLA VERIFICAZIONE. il
significato non può essere ridotto ad un insieme di CDV. OBIEZIONE. Essa si basa
sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo significato,
non sono enunciati e quindi non gli si possono attribuire CDV. Tra di esse
troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex. “Ogni
student che hanno superato la prova”- frasi complete come le INTERROGATIVE e le
IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi porti il conto!”Cosa si può
rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del significato ne
resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato delle
espressioni che non sono enunciatti ha a che fare con la verità. Inoltre, non è
possibile spiegare in cosa consista per una parola essere nome di qualcosa se
non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del significato deve fare in ogni
caso appello alla NDV nell’analisi delle parole singole.Questa linea argomentativa
risale a Frege e si può applicare anche alle espressioni complesse. Riflettedoci,
ci si può convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interrogative
ed imperative dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per
descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata
o meno. OBIEZIONE #2.Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è
sufficiente per un’analisi adeguata del significato degli enunciati. Concentrando
l’attenzione sulle CDV si privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per
cui, se si decide di ignorare i vari usi cui gli enunciati possono essere adibiti
per concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio
appare impoverito. Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di
vista le cose sono molto più complicate, per due motivi:- parlando, dobbiamo
sempre tener conto della situazione in cui ci troviamo. Ci sono regole precise
di costruzione del discorso e per sapere questo, conoscere le CDV non basta. -
le CDV sono considerate di solito come qualcosa di fisso e stabile. Se il
contenuto informativo degli enunciati dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a
sua volta stabile. In realtà, varia col variare dei contesto. Restano aperte
solo due opzioni:- respingere la nozione di CDV- ammettere che gli enunciate abbiano
CDV che corrispondono al loro SIGNIFICATO LETTERALERISPOSTA = evocate la distinzione
tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS.Secondo Morris, lo studio di una
lingua si compone di:SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali;SEMANTICA che
riguarda il significato dei segni;PRAGMATICA che riguarda gli impieghi concreti
dei segni. L’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo
nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe ribattre
che tutto ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo modo di
circoscrivere la semantica sia giustificato. Sottolineiamo due punti. Non si è
tenuti a rendere conto di tutti gli usi possibili del linguaggio - il
significato non può essere ridotto ad un insieme di CDV.OBIEZIONE #1.Essa si
basa sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo
significato, non sono enunciate quindi
non gli si possono attrbuire CDV. Tra di esse troviamo:- espressioni ben
formate che non sono complete, come ad ex. “Ogni student che hanno superato la
prova”- frasi complete come le INTERROGATIVE e le IMPERATIVE, come ad ex.
“Dov’è l’ombrello?” o “Mi porti l conto!”Cosa si può rispondere a questa
obiezione???Che la NDV di una teoria del significato ne resta comunque la
nozione centrale, poiché anche il significato delle espressioni che non sono
enunciatti ha a che fare con la verità. Inoltre, non è possibile spiegare in
cosa consista per una parola essere nome di qualcosa se non presupponendo la
NDV. Ancora, la teoria del significato deve fare in ogni caso appello alla NDV
nell’analisi delle parole singole.Questa linea argomenativa risale a Frege e si
può applicare anche alle espressioni complesse. Riflettendoci, ci si può
convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interrogative ed imperative
dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo. E
ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata o meno. OBIEZIONE #2. Essa
consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è sufficiente per un’analisi
adeguata del significato degli enunciate. Concentrando l’attenzione sulle CDV si
privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per cui, se si decide di
ignorare i vari usi cui gli enunciati ossono essere adibiti per concentrarsi
sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio appare impoverito.
Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono
molto più complicate, per due motivi. Parlando, dobbiamo sempre tener conto
della situazione in cui ci troviamo. Ci sono regole precise di costruzione del
discorso e per sapere questo, conoscere le CDV non basta. - le CDV sono
considerate di solito come qualcosa di fisso e stabile. Se il contenuto informativo
degli enunciatti dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta stabile. In realtà,
varia col variare dei contesto. Restano aperte solo due opzioni:- respingere la
nozione di CDV- ammettere che gli enunciate abiano CDV che corrispondono al
loro SIGNIFICATO LETTERALE RISPOSTA = evocate la distinzione tra SEMANTICA e
PRAGMATICA che risale a MORRIS. Secondo Morris, lo studio di una lingua si
compone di: SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali; SEMANTICA che
riguarda il significato dei segni; PRAGMATICA che riguarda gli impieghi concreti
dei segni. L’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo
nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe ribattere
che tutto ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo modo di
circoscrivere la semantica sia giustificato. Sottolineiamo due punti. Non si è
tenuti a rendere conto di tutti gli usi possibili del linguaggio è legittima la
distinzione tra semantica e pragmatica e, anzi, la pragmatica presuppone la
semantica, Questo secondo punto è messo bene in luce dalla TEORIA DELLE
IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di GRICE, secondo cui una conversazione è un’attività
cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in modo appropriato;
per questo è necessario che ciascuno si avvnga a massime sotto quattro
categorie conversazionali (alla funzioni di Kant): CATEGORIA CONVERSAZIONALE
DELLA QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né maggiori di quanto richiesto
al momento. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DELLA QUALITÀ: non dire cose che credi
false o per cui non ci sono prove adeguate. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DELLA RELAZIONE:
dire cose perttnenti. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DEL MODO: essere perspicuo -- parlare
in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità - è legittima la distinzione
tra semantica e pragmatica e, anzi, la pragmatica presuppone la semantica. Questo
secondo punto è messo bene in luce dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE
CONVERSAZIONALI di GRICE, secondo cui una conversazione è un’attività cooperativa
alla quale i partecipanti devono contribuire in modo appropriato; per questo è
necessario che ciascuno si attenga a 4 massime. CATEGORIA CONVERSAZIONALE DELLA
QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né maggiori di quanto richiesto al
momento. QUALITÀ: non dire cose che credi false o per cui non ci sono prove
adeguate3- RELAZIONI: dire cose pertinenti. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DEL MODO: essere
perspicuo. parlare in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità. Paolo
Stefano Casalegno. Paolo Casalegno. Keywords: filosofia linguistica. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Casalegno” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Casanova: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del desiderio
omoerotico – scuola di Venezia – scuola veneta -- filosofia veneziana – filosofia
veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, The Swimming-Pool Library (Venezia). Filosofo veneziano.
Filosofo veneto. Filosofo italiano. Venezia, Vneto. Grice: “It is fascinating
to analyse what Casanova calls ‘piegadura’, or ‘piegadure,’ in the plural –
bendings – my implicatura is a bit like his piegadura, only less acute!” --
Grice: “I would hardly call Casanova a philosopher, but my wife hardly would
not!” -- Giacomo Casanova ritratto dal fratello Francesco Giacomo Girolamo
Casanova (Venezia) avventuriero, scrittore, poeta, alchimista, esoterista,
diplomatico, finanziere, scienziato, filosofo e agente segreto della
Serenissima italiano, cittadino della Repubblica di Venezia. Benché di
lui resti una produzione letterariatra trattati e testi saggistici d'argomento
vario (s'occupò, nell'ampia gamma dei suoi interessi, perfino di matematica) e
opere letterarie in prosa come in versivastissima, viene a tutt'oggi ricordato
principalmente come un avventuriero e, per via della sua vita amorosa a dir
poco movimentata, come colui che fece del proprio nome l'antonomasia del soave
e raffinato seduttore e libertino. A tutt'oggi un playboy viene spesso chiamato
"C.". A questa sua fama di grande conquistatore di donne
contribuì verosimilmente la sua opera più importante e celebre: Histoire de ma
vie (Storia della mia vita), in cui l'autore descrive, con la massima
franchezza (pur non per questo privandosi d'anedotti romanzeschi e alcuni
abbellimenti), le sue avventure, i suoi viaggi e, soprattutto, i suoi
innumerevolissimi incontri galanti. L'Histoire è scritta in francese: tale
scelta linguistica fu dettata principalmente da motivi di diffusione
dell'opera, in quanto all'epoca il francese era la lingua più conosciuta e
parlata dalle élite d'Europa. Fra corti e salotti vari, si ritrovò a
vivere, quasi senza rendersene conto, un momento di svolta epocale della
storia, non comprendendo affatto lo spirito di fortissimo rinnovamento che
avrebbe fatto virare la storia in direzioni mai percorse prima; rimase infatti
ancorato fino alla fine dei propri giorni ai valori, precetti e credenze
dell'ancien régime e della sua rispettiva classe dominante, l'aristocrazia,
alla quale era stato escluso per nascita e della quale cercò disperatamente di
far parte, anche quando essa era ormai irrimediabilmente avviata al crepuscolo,
per tutta la propria vita. Tra le personalità eccelse dell'epoca che ebbe modo
di conoscere personalmente, e di cui ci ha lasciato testimonianza diretta, si
possono citare Jean-Jacques Rousseau, Voltaire, Madame de Pompadour, Wolfgang
Amadeus Mozart, Benjamin Franklin, Caterina II di Russia e Federico II di
Prussia. Dalla nascita alla fuga dai Piombi. Venezia, Calle della Commedia
(ora Malipiero) Giacomo Girolamo C. nacque a Venezia, in Calle della Commedia
(ora Calle Malipiero), nei pressi della chiesa di San Samuele, dove fu anche
battezzato, il 2 aprile del 1725. Molte opere enciclopediche o
letterarie recano erroneamente i nomi di battesimo Giovanni Giacomo, la cui
origine è sicuramente da ricercarsi nella pubblicazione dell'opera del 1835
Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti del secolo
XVIII e de' contemporanei, Emilio De Tipaldo, in cui l'autore della voce
relativa al C., Bartolomeo Gamba, intestò erroneamente la voce a un certo
Giovanni Giacomo C.. Successivamente, l'errore fu ripetuto nella voce su C.
dell'Enciclopedia Treccani e da allora è spesso riapparso. Si può leggere
il nome corretto nel documento relativo al battesimo del C.. «Addì
Giacomo Girolamo fig.o di D. Gaietano Giuseppe C. del q.(uondam) Giac.o
Parmegiano comico, et di Giovanna Maria, giogali, nato il 2 corr. battezzato
daGio. Batta Tosello sacerd. di chiesa de licentiaComp. il signor Angelo Filosi
q.(uondam) Bartolomeo stà a S. Salvador. Lev. Regina Salvi.» (Storia
della mia vita, Mondadori) Il padre, Gaetano C., era un attore e ballerino
parmigiano di remote origini spagnole (almeno stando alla dubbia genealogia
tracciata dal C. all'inizio dell'Histoire, gli avi paterni sarebbero stati
originari di Saragozza, nell'Aragona[E 3]), mentre la madre, Zanetta Farussi,
era un'attrice veneziana che, nella sua professione, ebbe di gran lunga maggior
successo del marito, dato che la troviamo menzionata persino da Carlo Goldoni
nelle sue Memorie, ove la definì: "...una vedova bellissima e assai
valente". La voce popolare lo considerava frutto di una relazione
adulterina della madre con il patrizio veneziano Michele Grimani[E 4] e C.
stesso affermò, seppur in maniera criptica nel suo libello Né amori né donne,
di essere figlio naturale del patrizio. Ma ulteriori indizi a suffragio della
tesi potrebbero derivare dal fatto che, dopo la morte del padre, i Grimani si
presero cura di lui con un'assiduità che appare andasse oltre i normali
rapporti di protezione e liberalità che le famiglie patrizie veneziane
praticavano nei confronti delle persone che, a qualche titolo, avevano servito
la casata. Il che troverebbe conferma anche nel fatto che la giustizia della
Repubblica, solitamente piuttosto severa, non infierì mai particolarmente nei
suoi confronti. Dopo la sua nascita, la coppia ebbe altri cinque figli:
Francesco, Giovanni Battista, Faustina Maddalena, Maria Maddalena Antonia Stella
e Gaetano Alvise. Chiesa di San Samuele, Venezia Rimasto orfano di
padre a soli otto anni d'età ed essendo la madre costantemente in viaggio a
causa della sua professione, Giacomo fu allevato dalla nonna materna Marzia
Baldissera in Farussi. Da piccolo era di salute cagionevole e per questo motivo
la nonna lo condusse da una fattucchiera che, eseguendo un complicato rituale,
riuscì a guarirlo dai disturbi da cui era affetto. Dopo quell'esperienza
infantile, l'interesse per le pratiche magiche lo accompagnerà per tutta la
vita, ma lui stesso era il primo a ridere della credulità che tanti
manifestavano nei confronti dell'esoterismo. All'età di nove anni fu
mandato a Padova, dove rimase fino al termine degli studi; s'iscrisse
all'università dove, come ricorda nelle Memorie, si sarebbe laureato in
diritto; la questione dell'effettivo conseguimento del titolo accademico è
molto controversa: infatti C. descrive nelle Memorie gli anni passati
all'Padova, sostenendo di essersi laureato. Analoga affermazione risulta anche
dalla dedica dell'opera del 1797 a Leonard Snetlage, il cui frontespizio reca
scritto A Leonard Snetlage, Docteur en droit de l'Université de Gottingue,
Jacques C., docteur en droit de l'Universitè de Padoue. Inoltre da documenti
risulta che il C. abbia lavorato nello studio dell'avvocato Marco Da Lezze, dal
che si era presunto che, compiuti gli studi e conseguita la laurea, fosse
andato a compiere il praticantato presso il Da Lezze. Nonostante queste fonti,
il primo a dubitare del titolo conseguito dal C. fu Pompeo Molmenti, ma ben
presto gli studi del Brunelli, il quale aveva reperito documenti che
dimostravano in modo certo l'avvenuta immatricolazione al primo anno e le
successive iscrizioni, convinsero tutti gli autori dell'effettivo conseguimento
del titolo accademico; in tal senso, tra i tanti, anche James Rives Childs (C.).
Successivamente Enzo Grossato pose nuovamente in dubbio il conseguimento del
titolo rifacendosi ai registri di laurea, i quali non menzionano il nome del
veneziano. Dello stesso avviso Piero Del Negro, il quale rilevò che, oltre ai
registri consultati dal Grossato, anche un ulteriore codice, il Registro
dottorati 1737 usque ad 1747, non riportava il nome del C.; inoltre egli
constatò che il C. non aveva mai parlato del titolo se non in epoca tarda,
quando ormai ricostruire la circostanza sarebbe stato difficile per
chiunque. Terminati gli studi, Giacomo C. viaggiò a Corfù e a
Costantinopoli, per poi rientrare a Venezia nel 1742. Nella sua città natale
ottenne un impiego presso lo studio dell'avvocato Marco da Lezze. La nonna
Marzia Baldissera morì. Con la morte della nonna, alla quale era legatissimo,
si chiuse un capitolo importante della sua vita: la madre decise di lasciare la
bella e costosa casa in Calle della Commedia e di sistemare i figli in modo
economicamente più sostenibile. Questo evento segnò profondamente Giacomo,
togliendogli un importante punto di riferimento. Nello stesso anno fu
rinchiuso, a causa della sua condotta piuttosto turbolenta, nel Forte di Sant'Andrea
dalla fine di marzo alla fine di luglio. Più che l'applicazione di una pena, fu
un avvertimento tendente a cercare di correggerne il carattere. Messo in
libertà, partì, grazie ai buoni uffici materni, per la Calabria, al seguito del
vescovo di Martirano che si recava ad assumere la diocesi. Una volta giunto a
destinazione, spaventato per le condizioni di povertà del luogo, chiese e
ottenne congedo. Viaggiò a Napoli e a Roma, dove nel 1744 prese servizio presso
il cardinal Acquaviva, ambasciatore della Spagna presso la Santa Sede.
L'esperienza si concluse presto, a causa della sua condotta imprudente: infatti
aveva nascosto nel Palazzo di Spagna, residenza ufficiale del cardinale, una
ragazza fuggita di casa. Targa commemorativa su Palazzo Malipiero
Nel febbraio del 1744 arrivò ad Ancona, dove era già stato sette mesi prima.
Durante il primo soggiorno nella città era stato costretto a passare la
quarantena nel lazzaretto, dove aveva intessuto una relazione con una schiava
greca, alloggiata nella camera superiore alla sua.[E 9] Fu però durante
il suo secondo soggiorno ad Ancona che C. ebbe una delle sue più strane
avventure: si innamorò di un seducente cantante castrato, Bellino, convinto che
si trattasse in realtà di una donna. Fu solo dopo una corte serrata che C.
riuscì a scoprire ciò che sperava: il castrato era in realtà una ragazza,
Teresa (con cui avrà il figlio illegittimo Cesarino Lanti), che, per
sopravvivere dopo essere rimasta orfana, si faceva passare per un castrato in
modo da poter cantare nei teatri dello Stato della Chiesa, dove era vietata la
presenza di donne sul palcoscenico. Il nome di Teresa ricorre spesso nel testo
dell'Histoire, a testimonianza dei molti incontri avvenuti, negli anni, nelle
capitali europee dove Teresa mieteva successi con le sue interpretazioni. Ritornò
quindi a Venezia e, per un certo periodo, si guadagnò da vivere suonando il
violino nel teatro di San Samuele, di proprietà dei nobili Grimani che, alla
morte del padre, avvenuta prematuramente, avevano assunto ufficialmente la
tutela del ragazzo, avvalorando la voce popolare secondo la quale uno dei
Grimani, Michele, fosse il vero padre di Giacomo. Nel 1746 avvenne
l'incontro con il patrizio veneziano Matteo Bragadin, che avrebbe migliorato
sostanzialmente le sue condizioni. Colpito da un malore, il nobiluomo fu
soccorso da C. e si convinse che, grazie a quel tempestivo intervento, aveva
potuto salvarsi la vita. Di conseguenza prese a considerarlo quasi come un
figlio, contribuendo, finché visse, al suo mantenimento. Nelle ore concitate in
cui assisteva Bragadin, C. venne in contatto con i due più fraterni amici del
senatore, Barbaro e Dandolo; anch'essi gli si affezionarono profondamente e,
finché vissero, lo tennero sotto la loro protezione. La frequentazione con i
nobili attirò l'interesse degli Inquisitori di Stato e C., su consiglio di
Bragadin, lasciò Venezia in attesa di tempi migliori. Nel 1749 incontrò
Henriette, che sarebbe stata forse il più grande amore della sua vita. Lo
pseudonimo nascondeva probabilmente l'identità di una nobildonna di
Aix-en-Provence, forse Adelaide de Gueidan. Su questa e su altre
identificazioni, i "casanovisti" si sono accapigliati per decenni. In
linea di massima, come è stato sostenuto da molti studiosi, i personaggi citati
nelle Memorie sono reali. Al più, l'autore potrebbe essersi cautelato con
qualche piccola accortezza: spesso, trattandosi di donne sposate, alcune sono
citate con le iniziali o con nomi di fantasia, talvolta l'età viene un po'
modificata per galanteria o per vanità dell'autore che non amava riferire di
avventure con donne considerate, con i criteri di allora, in età matura, ma in
generale le persone sono identificabili e anche i fatti riferiti sono risultati
corretti e riscontrabili. Innumerevoli identificazioni e notizie documentali
hanno confermato il racconto. Se qualche errore c'è stato, lo si deve
anche al fatto che, all'epoca in cui furono scritte le Memorie, erano passati
molti anni dai fatti e, per quanto l'autore si possa essere aiutato con diari o
appunti, non era facile incasellare cronologicamente gli eventi. Ogni tanto
l'autore si faceva però trascinare dalla sua visione teatrale delle cose e non
rinunciava a qualche "colpo di teatro", il che peraltro contribuisce
a rendere la lettura più piacevole. Il problema dell'attendibilità del racconto
casanoviano è tuttavia molto complesso: ciò che è difficile o, in molti casi,
impossibile da valutare è se i rapporti che C. riferisce di aver intrattenuto
con i personaggi siano rispondenti alla realtà dei fatti. Taluni studiosi hanno
ritenuto che nel corpus delle Memorie siano stati inseriti dei passaggi
totalmente romanzati e di pura invenzione, basati comunque su personaggi
storicamente esistiti ed effettivamente presenti nel luogo e nel tempo della
descrizione. Il caso più clamoroso è quello che riguarda la relazione di C.
con suor M.M.e i conseguenti rapporti con l'ambasciatore di Francia De Bernis.
Si tratta di una delle parti più valide dell'opera dal punto di vista
letterario e stilistico. Il ritmo del racconto è serratissimo e la tensione
emotiva dei personaggi di straordinario realismo. Secondo alcuni studiosi il
racconto è assolutamente veritiero e si è ripetutamente tentata
l'identificazione della donna, secondo altri il racconto è di pura fantasia e
basato sulle confidenze del cuoco dell'ambasciatore (tale Rosier), che effettivamente
C. conosceva molto bene. La diatriba tra le varie tesi continuerà ma, comunque
stiano le cose, il valore dell'opera non cambia, perché ciò che perde il C.
memorialista lo guadagna il C. romanziere. Rientrato a Venezia decide di
partire per Parigi. A Milano si incontra con l'amico Antonio Stefano Balletti,
figlio della celebre attrice Silvia, e con lui proseguì alla volta della
capitale francese. Durante il viaggio, a Lione, C. aderì alla Massoneria. Non
sembra che la decisione fosse ascrivibile a inclinazioni ideologiche, ma
piuttosto alla pratica esigenza di procurarsi utili appoggi. «Ogni
giovane che viaggia, che vuol conoscere il mondo, che non vuol essere inferiore
agli altri e escluso dalla compagnia dei suoi coetanei, deve farsi iniziare alla
Massoneria, non fosse altro per sapere superficialmente cos'è. Deve tuttavia
fare attenzione a scegliere bene la loggia nella quale entrare, perché, anche
se nella loggia i cattivi soggetti non possono far nulla, possono tuttavia
sempre esserci e l'aspirante deve guardarsi dalle amicizie pericolose.»
(C., Memorie) Ottenne qualche risultato: infatti molti personaggi incontrati
nel corso della sua vita, come Mozart e Franklin erano massoni e alcune
facilitazioni ricevute in varie occasioni sembrerebbero dovute ai benefici
derivanti dal far parte di un'organizzazione ben radicata in quasi tutti i
paesi europei. Giunti a Parigi, Balletti presentò C. alla madre, che lo accolse
con familiarità; la generosa ospitalità della famiglia Balletti si protrasse
per i due anni in cui visse nella capitale francese. Durante la permanenza si
applicò allo studio del francese, che sarebbe divenuto la sua lingua letteraria
oltre che, in molti casi, epistolare. Ritornato a Venezia dopo il lungo
soggiorno parigino e altri viaggi a Dresda, Praga e Vienna, il 26 luglio 1755,
all'alba, fu arrestato e ristretto nei Piombi. Come d'uso all'epoca,
al condannato non venne notificato il capo d'accusa, né la durata della
detenzione cui era stato condannato. Ciò, come in seguito scrisse, si rivelò
dannoso, poiché se avesse saputo che la pena era di durata tutto sommato
sopportabile, si sarebbe ben guardato dall'affrontare il rischio mortale
dell'evasione e soprattutto il pericolo della possibile successiva eliminazione
da parte degli inquisitori, i quali, spesso, arrivavano a operare anche molto
lontano dai confini della Repubblica. Questi magistrati erano l'espressione più
evidente dell'arbitrarietà del potere oligarchico che governava Venezia. Erano
insieme tribunale speciale e centrale di spionaggio. Sui motivi reali
dell'arresto si è discusso parecchio. Certo è che il comportamento di C. era
tenuto d'occhio dagli inquisitori e rimangono molte riferte (rapporti delle
spie al soldo degli Inquisitori) che ne descrivevano minutamente i
comportamenti, soprattutto quelli considerati socialmente sconvenienti. In
definitiva l'accusa era quella di "libertinaggio" compiuto con donne
sposate, di spregio della religione, di circonvenzione di alcuni patrizi e in
generale di un comportamento pericoloso per il buon nome e la stabilità del
regime aristocratico. Di fatto, C. conduceva una vita alquanto disordinata, ma
né più né meno di tanti rampolli delle casate illustri: come questi giocava,
barava e aveva anche delle idee abbastanza personali in materia di religione e,
quel che è peggio, non ne faceva mistero. L'arresto di C.
(illustrazione per Storia della mia fuga) Anche la sua adesione alla
Massoneria, che era nota agli Inquisitori, non gli giovava, così come la
scandalosa relazione intrattenuta con "suor M.M.", certamente
appartenente al patriziato, monaca nel convento di S. Maria degli Angeli in
Murano e amante dell'ambasciatore di Francia, abate De Bernis. Insomma,
l'oligarchia al potere non poteva tollerare oltre che un individuo ritenuto
socialmente pericoloso restasse in circolazione. Tuttavia gli appoggi, di
cui certamente poteva disporre nell'ambito del patriziato, lo aiutarono
notevolmente, sia nell'ottenere una condanna "leggera" sia durante la
reclusione, e forse addirittura ne agevolarono l'evasione. La contraddizione è
solo apparente, perché C. fu sempre un personaggio ambivalente: per estrazione
e mezzi faceva parte di una classe subalterna, anche se contigua alla nobiltà,
ma per frequentazioni e protezioni poteva sembrare far parte, a qualche titolo,
della classe al potere. A questo riguardo va anche considerato che il suo
presunto padre naturale, Michele Grimani, apparteneva a una delle famiglie più
illustri dell'aristocrazia veneziana, annoverando ben tre dogi e altrettanti
cardinali. Questa paternità fu rivendicata da C. stesso nel libello Né amori né
donne e sembra che anche la somiglianza di aspetto e di corporatura dei due
avvalorasse parecchio la tesi. Dalla fuga dai Piombi al ritorno a
Venezia Presunto ritratto di Giacomo C., attribuito a Francesco Narici, e
in passato ad Anton Raphael Mengs o al suo allievo Giovanni Battista C.
(fratello di Giacomo) Appena riavutosi dallo shock dell'arresto, C. cominciò a
organizzare la fuga. Un primo tentativo fu vanificato da uno spostamento di
cella. Nella notte fra il 31 ottobre e il 1º novembre 1756 mise in atto il suo
piano: passando dalla cella alle soffitte, attraverso un foro nel soffitto
praticato da un compagno di reclusione, il frate Marino Balbi, uscì sul tetto e
successivamente si calò di nuovo all'interno del palazzo da un abbaino.
Passò quindi, in compagnia del complice, attraverso varie stanze e fu infine
notato da un passante, che pensò fosse un visitatore rimasto chiuso all'interno
e chiamò uno degli addetti al palazzo il quale aprì il portone, consentendo ai
due di uscire e di allontanarsi fulmineamente con una gondola. Si
diressero velocemente verso nord. Il problema era seminare gli inseguitori:
infatti la fuga gettava un'ombra sull'amministrazione della giustizia di
Venezia ed era chiaro che gli Inquisitori avrebbero tentato di tutto per
riacciuffare gli evasi. Dopo brevi soggiorni a Bolzano (dove i banchieri Menz
lo ospitarono e aiutarono economicamente), Monaco di iera (dove C. finalmente
si liberò della scomoda presenza del frate), Augusta e Strasburgo, il 5 gennaio
1757 arrivò a Parigi, dove nel frattempo il suo amico De Bernis era divenuto
ministro e quindi gli appoggi non gli mancavano. Illustrazione da
Storia della mia fuga Rinfrancato e trovata una sistemazione, iniziò a
dedicarsi alla sua specialità: brillare in società, frequentando quanto di
meglio la capitale potesse offrire. Conobbe tra gli altri la marchesa d'Urfé
nobildonna ricchissima e stravagante, con la quale intrattenne una lunga
relazione, dilapidando cospicue somme di denaro che lei gli metteva a
disposizione, soggiogata dal suo fascino e dal consueto corredo di rituali
magici. Assiste, come accompagnatore di alcune dame «incuriosite da
quell'orrendo spettacolo» (mentre lui distolse lo sguardo) e di un conte
trevigiano, alla cruenta esecuzione (tramite squartamento) di Robert François
Damiens, che aveva attentato alla vita di Luigi XV. Molto fantasioso,
come al solito, si fece promotore di una lotteria nazionale, allo scopo di
rinsaldare le finanze dello stato. Osservava che questo era l'unico modo di far
contribuire di buon grado i cittadini alla finanza pubblica. L'intuizione era
talmente valida che ancora adesso il sistema è molto praticato. L'iniziativa
venne autorizzata ufficialmente e C. venne nominato "Ricevitore" il
27 gennaio 1758. Nel settembre dello stesso anno, De Bernis fu nominato
cardinale; un mese dopo C. fu incaricato dal governo francese di una missione
segreta nei Paesi Bassi. Al suo ritorno fu coinvolto in un'intricata
faccenda riguardante una gravidanza indesiderata di un'amica, la scrittrice
veneziana Giustiniana Wynne. Di madre italiana e padre inglese, Giustiniana era
stata al centro dell'attenzione per la sua rovente relazione con il patrizio
veneziano Andrea Memmo. Questi aveva cercato in tutti i modi di sposarla, ma la
ragion di stato (lui era membro di una delle dodici famigliecosiddette
apostolichepiù nobili di Venezia) glielo aveva impedito, a causa di alcuni
oscuri trascorsi della madre di lei, e, in seguito allo scandalo che ne era sortito,
i Wynne avevano lasciato Venezia. Giunta a Parigi, trovandosi in stato
interessante e di conseguenza in grosse difficoltà, la ragazza si rivolse per
aiuto a C., che aveva conosciuto a Venezia e che era anche ottimo amico del suo
amante. La lettera con cui implorava aiuto è stata ritrovata[28] ed è singolare
la schiettezza con cui la ragazza si rivolge a C., dimostrando una fiducia
totale in quest'ultimo, tenuto conto dell'enorme rischio a cui si esponeva (e
lo esponeva) nel caso in cui il messaggio fosse caduto nelle mani
sbagliate. C. si prodigò per darle aiuto, ma incorse in una denuncia per
concorso in pratiche abortive, presentata dall'ostetrica Reine Demay in
combutta con un losco personaggio, Louis Castel-Bajac, per estorcere denaro in
cambio di una ritrattazione. Benché l'accusa fosse molto grave, C. riuscì a
cavarsela con la consueta presenza di spirito e fu prosciolto, mentre la sua
accusatrice finì in carcere. L'amica abbandonò l'idea di interrompere la
gravidanza e in seguito partorì nel convento in cui si era rifugiata. Ceduti i
suoi interessi nella lotteria, C. si imbarcò in una fallimentare operazione
imprenditoriale, una manifattura di tessuti, che naufragò anche a causa di una
forte restrizione delle esportazioni derivante dalla guerra in corso. I debiti
che ne derivarono lo condussero per un po' in carcere (agosto 1759). Come al
solito, il provvidenziale intervento della ricca e potente marchesa d'Urfé lo
tolse dall'incomoda situazione.[30] Gli anni successivi furono un intenso
continuo peregrinare per l'Europa. Si recò nei Paesi Bassi, poi in Svizzera,
dove incontrò Voltaire nel castello di Ferney. L'incontro con Voltaire, il
maggior intellettuale vivente all'epoca, occupa parecchie pagine dell'Histoire
ed è riferito nei minimi particolari; C. esordì dicendo che era il giorno più
felice della sua vita e che per vent'anni aveva aspettato di incontrarsi con il
suo "maestro"; Voltaire gli rispose che sarebbe stato ancora più
onorato se, dopo quell'incontro, lo avesse aspettato per altri vent'anni.[31]
Un riscontro obiettivo si trova in una lettera di Voltaire a Nicolas-Claude
Thieriot, datata 7 luglio 1760, in cui la figura del visitatore viene
tratteggiata con ironia. Lo stesso C. non era d'accordo con molte idee di
Voltaire («Voltaire doveva capire che il popolo per la pace
generale della nazione ha bisogno di vivere nell'ignoranza», dirà in seguito),
e quindi rimase insoddisfatto, anche se scrisse poi delle parole di stima per
il patriarca dell'illuminismo: «Partii assai contento di aver messo quel grande
atleta alle corde l'ultimo giorno. Ma di lui mi rimase un brutto ricordo che mi
spinse per dieci anni di seguito a criticare tutto ciò che quel grand'uomo dava
al pubblico di vecchio o di nuovo. Oggi me ne pento, anche se, quando leggo ciò
che pubblicai contro di lui, mi sembra di aver ragionato giustamente nelle mie
critiche. Comunque avrei dovuto tacere, rispettarlo e dubitare dei miei
giudizi. Dovevo riflettere che senza i sarcasmi che mi dispiacquero il terzo
giorno, avrei trovato tutti i suoi scritti sublimi. Questa sola riflessione
avrebbe dovuto impormi il silenzio, ma un uomo in collera crede sempre di aver
ragione.[31]» In seguito andò in Italia, a Genova, Firenze e Roma. Qui
viveva il fratello Giovanni, pittore, allievo di Mengs. Durante il soggiorno
presso il fratello fu ricevuto dal papa Clemente XIII. Nel 1762 ritornò a
Parigi, dove riprese a esercitare pratiche esoteriche insieme alla marchesa
d'Urfé, fino a che quest'ultima, resasi conto di essere stata per anni presa in
giro con l'illusione di rinascere giovane e bella per mezzo di pratiche
magiche, troncò ogni rapporto con l'improvvisato stregone che, dopo poco tempo,
lasciò Parigi, dove il clima che si era creato non gli era più favorevole, per
Londra, dove fu presentato a corte. Nella capitale inglese conobbe la funesta
Charpillon, con la quale cercò di intessere una relazione. In questa
circostanza anche il grande seduttore mostrò il suo lato debole e questa
scaltra ragazza lo portò fin sull'orlo del suicidio. Non che fosse un grande
amore, ma evidentemente C. non poteva accettare di essere trattato con
indifferenza da una ragazza qualsiasi. E più lui vi s'intestardiva, più lei lo
menava per il naso. Alla fine riuscì a liberarsi di questa assurda situazione e
si diresse verso Berlino. Qui incontrò il re Federico il Grande, che gli offrì
un modesto posto d'insegnante nella scuola dei cadetti. Rifiutata sdegnosamente
la proposta, C. si diresse verso la Russia e giunse a San Pietroburgo nel
dicembre del 1764. L'anno successivo si recò a Mosca e in seguito incontrò
l'imperatrice Caterina II,[38] anche lei annessa alla straordinaria collezione
di personaggi storici incontrati nel corso delle sue infinite peregrinazioni.
Merita una riflessione la straordinaria facilità con cui C. aveva accesso a
personaggi di primissimo piano, che certo non erano usi a incontrarsi con
chiunque. Evidentemente la fama lo precedeva regolarmente e, almeno per effetto
della curiosità suscitata, gli consentiva di penetrare nei circoli più
esclusivi delle capitali. Un po' la questione si autoalimentava, nel
senso che in qualsiasi luogo si trovasse, C. si dava sempre un gran da fare per
ottenere lettere di presentazione per la destinazione successiva. Evidentemente
ci aggiungeva del suo: aveva conversazione brillante, una cultura enciclopedica
fuori del comune e, quanto a esperienze di viaggio, ne aveva accumulate
infinite, in un'epoca in cui la gente non viaggiava un granché. Insomma C. il
suo fascino lo aveva, e non lo spendeva solo con le donne. Nel 1766 in
Polonia avvenne un episodio che segnò profondamente C.: il duello con il conte
Branicki. Questi, durante un litigio a causa della ballerina veneziana Anna
Binetti,[40] lo aveva apostrofato chiamandolo poltrone veneziano. Il conte era
un personaggio di rilievo alla corte del re Stanislao II Augusto Poniatowski e
per uno straniero privo di qualsiasi copertura politica non era molto
consigliabile contrastarlo. Quindi, anche se offeso pesantemente dal conte,
qualsiasi uomo di normale prudenza si sarebbe ritirato in buon ordine; C.,
invece, che evidentemente non era solo un amabile conversatore e un abile
seduttore, ma anche un uomo di coraggio, lo sfidò in un duello alla pistola.
Faccenda assai pericolosa, sia in caso di soccombenza sia in caso di vittoria,
in quanto era facile attendersi che gli amici del conte ne avrebbero rapidamente
vendicato la morte. Targa commemorativa del soggiorno di C. a Madrid Il conte
ne uscì ferito in modo gravissimo, ma non abbastanza da impedirgli di pregare
onorevolmente i suoi di lasciare andare indenne l'avversario, che si era
comportato secondo le regole. Seppur ferito abbastanza seriamente a un braccio,
C. riuscì a lasciare l'inospitale paese. La buona stella sembrava avergli
voltato le spalle. Si diresse a Vienna, da dove fu espulso.Tornò a Parigi,
dove, alla fine di ottobre, lo raggiunse la notizia della morte di Bragadin, il
quale, più che un protettore, era stato per C. un padre adottivo. Pochi giorni
dopo fu colpito da una lettre de cachet
del re Luigi XV, con la quale gli veniva intimato di lasciare il paese. Il
provvedimento era stato richiesto dai parenti della marchesa d'Urfé, i quali
intendevano mettere al riparo da ulteriori rischi le pur cospicue sostanze di
famiglia. Si recò quindi in Spagna, ormai alla disperata ricerca di una
qualche occupazione, ma anche qui non andò meglio: fu gettato in prigione con
motivi pretestuosi e la faccenda durò più di un mese. Lasciò la Spagna e
approdò in Provenza, dove però si ammalò gravemente. Fu assistito grazie
all'intervento della sua amata Henriette che, nel frattempo sposatasi e rimasta
vedova, aveva conservato di lui un ottimo ricordo. Riprese presto il suo peregrinare,
recandosi a Roma, Napoli, Bologna, Trieste. In questo periodo si infittirono i
contatti con gli Inquisitori veneziani per ottenere l'agognata grazia, che
finalmente giunse. Dal ritorno a Venezia alla morte. La narrazione delle
Memorie casanoviane cessa alla metà di febbraio del 1774. Ritornato a Venezia
dopo diciott'anni, C. riannodò le vecchie amicizie, peraltro mai sopite grazie
a un'intensissima attività epistolare. Per vivere, si propose agli Inquisitori
come spia, proprio in favore di coloro che erano stati tanto decisi prima a
condannarlo alla reclusione e poi a costringerlo a un lungo esilio. Le riferte
di C. non furono mai particolarmente interessanti e la collaborazione si
trascinò stancamente fino a interrompersi per "scarso rendimento".
Probabilmente qualcosa in lui si opponeva a esser causa di persecuzioni che,
avendole provate in prima persona, conosceva bene. L'ultima
abitazione veneziana di C. Rimasto senza fonti di sostentamento, si dedicò
all'attività di scrittore, utilizzando la sua vasta rete di relazioni per
procurare sottoscrittori alle sue opere.[49] All'epoca si usava far
sottoscrivere un ordinativo di libri prima ancora di aver dato alle stampe o
addirittura terminato l'opera, in modo da esser certi di poter sostenere gli
elevati costi di stampa. Infatti la composizione avveniva manualmente e le
tirature erano bassissime. Pubblica il primo tomo della traduzione dell'Iliade.
La lista di sottoscrittori, cioè di coloro che avevano finanziato l'opera, era
davvero notevole e comprendeva oltre duecentotrenta nomi fra quelli più in
vista a Venezia, comprese le alte autorità dello stato, sei Procuratori di San
Marco in carica[50] due figli del doge Mocenigo, professori dell'Padova e così
via. Va rilevato che, per essere un ex carcerato evaso e poi graziato, aveva
delle frequentazioni di altissimo livello. Il fatto di far parte della lista
non era tenuto segreto, ma in una città piccola, in cui le persone che
contavano si conoscevano tutte, era di pubblico dominio; dunque le adesioni
dimostravano che, malgrado le sue vicissitudini, C. non era affatto un
emarginato. Anche qui è opportuna una riflessione sull'ambivalenza del
personaggio e sul suo eterno oscillare tra la classe reietta e quella
privilegiata. In questo stesso periodo iniziò una relazione con Francesca
Buschini, una ragazza molto semplice e incolta che per anni avrebbe scritto a C.,
dopo il suo secondo esilio da Venezia, delle lettere (ritrovate a Dux) di
un'ingenuità e tenerezza commoventi, utilizzando un lessico molto influenzato
dal dialetto veneziano, con evidenti tentativi di italianizzare il più
possibile il testo. Questa fu l'ultima relazione importante di C., che rimase
molto attaccato alla donna: anche quando ne fu irrimediabilmente lontano,
rattristato profondamente dal crepuscolo della sua vita, teneva una fitta
corrispondenza con Francesca, oltre a continuare a pagare, per anni, l'affitto
della casa in Barbaria delle Tole in cui avevano convissuto, inviandole, quando
ne aveva la possibilità, lettere di cambio con discrete somme di denaro.
Il nome della calle deriva dalla presenza, in tempi antichi, di falegnamerie
che riducevano in tavole (tole, in dialetto veneziano) i tronchi d'albero. La
calle si trova nelle immediate vicinanze del Campo SS. Giovanni e Paolo.
L'ultima abitazione veneziana di Giacomo C. è sita in Barbarìa delle Tole, al
civico 6673 del sestiere di Castello. L'identificazione certa è stata ricavata
da una lettera a C. di Francesca Buschini, ritrovata a Dux (odierna Duchcov,
Repubblica Ceca). .L'appartamento occupato da C. e dalla Buschini (di proprietà
della nobile famiglia Pesaro di S. Stae), affittato a 96 lire venete a
trimestre, corrisponde alle tre finestre del terzo piano situate sotto la
soffitta che si vede in alto a sinistra (vedi foto). La lettera in questione,
spedita dalla Buschini a C. ormai in esilio, faceva riferimento alla casa
antistante "È morto la molgie del maestro di spada che mi stà in fasa di
me quela casa in mezzo al brusà, giovine e anche bela la era..." (testo
originale tratto dall'edizione critica delle lettere di F. Buschini Marco
Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna, Grenoble, Antonio Trampus, Trieste,
Lettres de Buschini à C.) Poiché tutti i caseggiati antistanti erano andati
distrutti a causa di due successivi incendi, l'area era rimasta praticamente
priva di fabbricati e destinata a giardino. L'unico fabbricato ancora esistente
era quello dinanzi al 6673. In seguito la situazione non ha subito modifiche di
rilievo; l'edificio in questione, antistante al 6673, si trova tra il ramo
primo e il ramo secondo "Del brusà" e quindi l'identificazione appare
fondata e verificabile. Negli anni successivi pubblicò altre opere e
cercò di arrabattarsi come meglio poté. Ma il suo carattere impetuoso gli giocò
un brutto scherzo: offeso platealmente in casa Grimani da un certo Carletti,
col quale aveva questionato per motivi di denaro, si risentì perché il padrone
di casa aveva preso le parti del Carletti. Decise a questo punto di vendicarsi
componendo un libello, Né amori né donne, ovvero la stalla ripulita in cui, pur
sotto un labile travestimento mitologico, facilmente svelabile, sostenne
chiaramente di essere lui stesso il vero figlio di Michele Grimani, mentre Zuan
Carlo Grimani sarebbe stato "notoriamente" frutto del tradimento
della madre (Pisana Giustinian Lolin) con un altro nobile veneziano, Sebastiano
Giustinian. Probabilmente era tutto vero, anche perché in una città in
cui le distanze tra le case si misuravano a spanne, si circolava in gondola e
c'erano stuoli di servitori che ovviamente spettegolavano a più non posso, era
impensabile poter tenere segreto alcunché. Comunque, anche in questo caso
l'aristocrazia fece quadrato e C. fu costretto all'ultimo, definitivo, esilio.
Tuttavia la questione non passò inosservata, se si ritenne opportuno far
circolare un libello anonimo, con cui si replicava allo scritto casanoviano,
intitolato "Contrapposto o sia il riffiutto mentito, e vendicato al
libercolo intitolato Ne amori ne donne ovvero La stalla ripulita, di Giacomo C.".
Ritratto del 1788 Annotazione della morte di C. nei registri di Dux
Lasciò Venezia e si diresse verso Vienna. Per un po' fece da segretario
all'ambasciatore veneziano Sebastiano Foscarini; poi, alla morte di questi, accettò
un posto di bibliotecario nel castello del conte di Waldstein a Dux, in Boemia.
Lì trascorse gli ultimi tristissimi anni della sua vita, sbeffeggiato dalla
servitù, ormai incompreso, e considerato il relitto di un'epoca tramontata per
sempre. Da Dux, C. dovette assistere alla Rivoluzione francese, alla
caduta della Repubblica di Venezia, al crollare del suo mondo, o perlomeno di
quel mondo a cui aveva sognato di appartenere stabilmente. L'ultimo conforto,
oltre alle lettere numerosissime degli amici veneziani che lo tenevano al
corrente di quanto accadeva nella sua città, fu la composizione della Histoire
de ma vie, l'opera autobiografica che assorbì tutte le sue residue energie,
compiuta con furore instancabile quasi per non farsi precedere da una morte che
ormai sentiva vicina. Scrivendola, C. riviveva una vita assolutamente
irripetibile, tanto da entrare nel mito, nell'immaginario collettivo, una vita
«opera d'arte». Morì il 4 giugno del 1798, si suppone che la salma fosse stata
sepolta nella chiesetta di Santa Barbara, nei pressi del castello. Ma riguardo
al problema dell'identificazione corretta del luogo di sepoltura di Giacomo C.,
le notizie sono comunque piuttosto vaghe, e non ci sono, allo stato, che
ipotesi non correttamente documentate. Tradizionalmente si riteneva che fosse
stato sepolto nel cimitero della chiesetta attigua al castello Waldstein, ma
era una pura ipotesi. Altre opere: “Zoroastro, tragedia tradotta dal
Francese, da rappresentarsi nel Regio Elettoral Teatro di Dresda, dalla
compagnia de' comici italiani in attuale servizio di Sua Maestà nel carnevale.
Dresda); La Moluccheide, o sia i gemelli rivali. Dresda Confutazione della
Storia del Governo Veneto d'Amelot de la Houssaie, Amsterdam (Lugano). 1772Lana
caprina. Epistola di un licantropo. Bologna. Istoria delle turbolenze della
Polonia. Gorizia. Dell'Iliade di Omero tradotta in ottava rima. Venezia); Scrutinio
del libro "Eloges de M. de Voltaire par différents auteurs". Venezia.
Il duello; Opuscoli miscellaneiIl duelloLettere della nobil donna Silvia
Belegno alla nobildonzella Laura Gussoni. Venezia. 1781Le messager de Thalie.
Venezia); Di aneddoti viniziani militari ed amorosi del secolo decimoquarto
sotto i dogadi di Giovanni Gradenigo e di Giovanni Dolfin. Venezia. Né amori né
donne ovvero la stalla ripulita. Venezia. Lettre historico-critique sur un fait connu, dependant d'une cause peu
connu... Amburgo (Dessau). Expositionne raisonée du différent, qui subsiste
entre le deux Républiques de Venise, et d'Hollande. Vienna.
1785Supplément à l'Exposition raisonnée. Vienna); Esposizione ragionata della
contestazione, che susiste trà le due Repubbliche di Venezia, e di Olanda.
Venezia. Supplemento alla Esposizione ragionata.... Venezia); Lettre a monsieur
Jean et Etienne Luzac. Vienna); Lettera ai signori
Giovanni e Stefano Luzac.... Venezia); Soliloque d'un penseur, Prague chez Jean
Ferdinande noble de Shonfeld imprimeur et libraire. -Histoire de ma fuite des
prisons de la République de Venise qu'on appelle les Plombs. Ecrite à
Dux en Bohème, Leipzig chez le noble de Shonfeld Historia della mia fuga dalle
prigioni della republica di Venezia dette "li Piombi", prima edizione
italiana Salvatore di Giacomo (prefazione e traduzione). Alfieri&Lacroix editori, Milano. 1788Icosameron ou histoire d'Edouard,
et d'Elisabeth qui passèrent quatre vingts ans chez les Mégramicres habitante
aborigènes du Protocosme dans l'interieur de notre globe, traduite de l'anglois
par Jacques C. de Seingalt Vénitien Docteur èn lois Bibliothécaire de Monsieur
le Comte de Waldstein seigneur de Dux Chambellan de S.M.I.R.A., Prague à
l'imprimerie de l'école normale. Praga. (romanzo di fantascienza) Solution du
probleme deliaque démontrée par Jacques C. de Seingalt, Bibliothécaire de
Monsieur le Comte de Waldstein, segneur de Dux en Boheme e c., Dresde, De
l'imprimerie de C.C. Meinhold. Corollaire a la duplication de l'Hexaedre donée
a Dux en Boheme, par Jacques C. de Seingalt, Dresda. Demonstration geometrique
de la duplicaton du cube. Corollaire second, Dresda. Lettres écrites au sieur Faulkircher par son
meilleur ami, Jacques C. de Seingalt. A Leonard Snetlage, Docteur en droit de
l'Université de Gottingue, Jacques C., docteur en droit de l'Universitè de
Padoue. Dresda. Edizioni postume: Le Polemoscope, Gustave Kahn, Paris, La Vogue
Histoire de ma vie, F.A. Brockhaus, Wiesbaden e Plon, Parigi. Edizioni
italiane basate sul manoscritto originale: Piero Chiara, traduzione Giancarlo
BuzziGiacomo C., Storia della mia vita, ed. Mondadori, con note, documenti e
apparato critico. Piero Chiara e Federico Roncoroni Giacomo C., Storia della
mia vita, Milano, Mondadori "I meridiani" Ultima edizione: Milano,
Mondadori "I meridiani Saggi libelli e satire di Giacomo C., Piero Chiara,
Milano. Longanesi et C. Epistolario di C., Piero Chiara, Milano. Longanesi et C.
Rapporti di Giacomo C. con i paesi del Nord. A proposito dell'inedito
"Prosopopea Ecaterina II , Enrico Straub. Venezia. Centro tedesco di studi
veneziani Examen des "Etudes de la Nature" et de "Paul et
Virginie" de Bernardin de Saint Pierre, Marco Leeflang e Tom Vitelli. Utrecht,
Edizione italiana: Analisi degli Studi della natura e di Paolo e Virginia di
Bernardin de Saint-Pierre, Gianluca Simeoni, Bologna, Pendragon, Pensieri
libertini, Federico di Trocchio (sulle opere filosofiche inedite rinvenute a
Dux), Milano, Rusconi Philocalies sur les sottises des mortels, Tom Vitelli. Salt Lake City. Jacques C. de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du
manuscrit original, suivi de textes inédits. Édition présentée et établie
par Francis Lacassin. Éditions Robert Laffont. 1997Iliade di Omero in
veneziano Tradotta in ottava rima. Canto primo. Riproduzione integrale del
manoscritto a fronte, Venezia, Editoria Universitaria Iliade di Omero in
veneziano Tradotta in ottava rima. Canto secondo. Riproduzione integrale del
manoscritto a fronte. Venezia, Editoria Universitaria. 1999Storia della mia
vita, traduzione Pietro Bartalini Bigi e Maurizio Grasso. Roma, Newton Compton,
coll. « I Mammut », Dell'Iliade d'Omero tradotta in veneziano da Giacomo C..
Canti otto. Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna. Iliade di Omero in
veneziano. Tradotta in ottava rima. Riproduzione integrale del manoscritto a
fronte. Venezia, Editoria Universitaria,
Dialoghi sul suicidio. Roma, Aracne Iliade di Omero in idioma toscano'. Riproduzione integrale dell'edizione Modesto Fenzo. Venezia, Editoria
Universitaria. Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de
Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio
Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard.
Parigi. Histoire de ma vie, tome I.
Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont,
Bouquins. Parigi. Histoire de ma vie,
tome II. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont,
Bouquins. Parigi. Histoire de ma vie,
tome II. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et
Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut
Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard. Parigi. Histoire de ma vie, tome III. Édition publiée
sous la direction de Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la
collaboration de Furio Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque
de la Pléiade Gallimard. Parigi. Histoire
de ma vie, tome III. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik
Leborgne, Laffont, Bouquins. Parigi.
Icosameron, traduzione di Serafino Balduzzi, Milano, Luni Editrice,, 978-88-7984-611-0 Istoria delle turbolenze
della Polonia, Milano, Luni Editrice, Valore letterario e fortuna dell'opera
casanoviana Presunto ritratto di Giacomo C., attribuito ad Alessandro
Longhi o, da alcuni, a Pietro Longhi. Sul valore letterario e la validità
storica dell'opera di Giacomo C. si è discusso parecchio. Intanto bisogna
distinguere tra l'opera autobiografica e il resto della produzione. Malgrado
gli sforzi fatti per accreditarsi come letterato, storico, filosofo e
addirittura matematico, C. non ebbe in vita, e tantomeno da morto, nessuna
notorietà e nessun successo. Successo che arrise invece all'opera
autobiografica, anche se si manifestò in tempi molto posteriori alla morte
dell'autore. Disegno di un busto di Giacomo C., ubicato in
origine a Dux, oggi al Museo delle Arti Decorative di Vienna La sua produzione
fu spesso d'occasione, cioè di frequente i suoi scritti furono creati per
ottenere qualche beneficio. Principale esempio è la Confutazione della Storia
del Governo Veneto d'Amelot de la Houssaye, scritta in gran parte durante la
detenzione a Barcellona, che avrebbe dovuto servire, e infatti così fu, a
ingraziarsi il governo veneziano e a ottenere la tanto sospirata grazia. Lo
stesso si può dire per opere scritte nella speranza di ottenere qualche
incarico da Caterina II di Russia o da Federico II di Prussia. Altre opere,
come l'Icosameron, avrebbero dovuto sancire il successo letterario dell'autore
ma così non fu. Il primo vero successo editoriale fu ottenuto dall'Historia
della mia fuga dai Piombi che ebbe una diffusione immediata e varie edizioni,
sia in italiano sia in francese ma il caso è praticamente unico e di
proporzioni limitate a causa delle dimensioni dell'opera costituita dal
racconto dell'evasione. Sembra quasi che C. tollerasse le sue creature
autobiografiche e il loro successo, continuando a inseguire, con opere non
autobiografiche, un successo letterario che non arrivò mai. Questo aspetto fu
acutamente osservato da un memorialista suo contemporaneo, il principe Charles
Joseph de Ligne, il quale scrisse[70] che il fascino di C. stava tutto nei suoi
racconti autobiografici, sia verbali sia trascritti, cioè sia la narrazione
salottiera sia la versione stampata delle sue avventure. Tanto era brillante e
trascinante quando parlava della sua vita- osserva de Lignequanto terribilmente
noioso, prolisso, banale quando parlava o scriveva su altre materie. Ma sembra
che questo, C., non abbia mai voluto accettarlo. E soffriva tremendamente di
non avere quel riconoscimento letterario o meglio scientifico a cui
ambiva. Da ciò si può comprendere l'astio nei confronti di Voltaire, che
nascondeva una profonda invidia e una sconfinata ammirazione. Quindi anche
contro la volontà dell'autore, quasi invidioso dei suoi figli più fortunati ma
meno prediletti, le opere autobiografiche avrebbero potuto essere un grande
successo editoriale quando egli era ancora in vita. Ma ciò avvenne in misura
molto ridotta per vari motivi: principalmente perché questo filone fu iniziato
tardi. Si pensi ad esempio che la narrazione della fuga dai Piombi, che
costituì per decenni il cavallo di battaglia del C. salottiero, fu pubblicata
soltanto nel 1787. Inoltre l'opera "vera", cioè quella in cui
aveva trasfuso tutto sé stesso, l'Histoire, fu scritta proprio negli ultimi
anni di vita e il motivo è semplice: infatti lui stesso affermò, in una lettera
indirizzata a quel Zuan Carlo Grimani, da lui offeso molti anni prima e che era
stato la causa del secondo esilio: "... ora che la mia età mi fa credere
di aver finito di farla, ho scritto la Storia della mia vita...". Cioè
sembra che per mettere su carta tutto in forma definitiva, l'autore dovesse
prima ammettere con sé stesso che la storia era terminata e di futuro davanti
da vivere non ce n'era più. Ammissione questa sempre dolorosa per chiunque, in
particolare per un uomo che aveva creato una vita-capolavoro
irripetibile. Ma un altro aspetto, questo strutturale, ha ritardato la
fortuna dell'opera autobiografica: l'Histoire era all'epoca assolutamente
impubblicabile. Non è un caso che la prima edizione francese del manoscritto,
acquistato dall'editore Friedrich Arnold Brockhaus di Lipsia, fu pubblicata,
però in una versione notevolmente rimaneggiata da Jean Laforgue, il quale non
si limitò a "purgare" l'opera, sopprimendo passi ritenuti troppo
audaci, ma intervenne a tappeto modificando anche l'ideologia dell'autore,
facendone una sorta di giacobino avverso alle oligarchie dominanti. Ciò non
corrispondeva affatto alla verità storica, perché di C. si può dire che era
ribelle e trasgressivo, ma politicamente era un fautore dell'ancien régime,
come dimostrano chiaramente il suo epistolario, opere specifiche e la stessa
Histoire. In un passo delle Memorie, C. esprime chiaramente il suo punto di
vista sull'argomento della Rivoluzione: «Ma si vedrà che razza di dispotismo è
quello di un popolo sfrenato, feroce, indomabile, che si raduna, impicca,
taglia teste e assassina coloro che non appartenendo al popolo osano mostrare
come la pensano.[75]» Per l'edizione definitiva delle memorie si dovette
attendere fino a quando la casa Brockhaus decise di pubblicare, insieme
all'editore Plon di Parigi, dal 1960 al 1962, il testo originale in sei volumi
curato da Angelika Hübscher. Ciò fu dovuto all'impianto generale dell'opera che
era, a detta dell'autore e di smaliziati contemporanei come de Ligne, di un
cinismo assolutamente impresentabile. Quello che essi chiamarono cinismo sarà
considerato, due secoli dopo, modernità e realismo. C. è già uno
scrittore di costume "moderno". Non teme di rivelare situazioni,
inclinazioni, attività, trame e soprattutto confessioni che erano all'epoca, e
tali rimasero ancora più di un secolo, assolutamente irriferibili. Naturalmente
il primo problema, ma questo limitato a pochi anni dopo la morte dell'autore,
fu quello di aver citato personaggi di primissimo piano, con circostanze molto
precise del loro agire. Le memorie sono affollate all'inverosimile dagli attori
principali della storia europea del Settecento, sia politica sia culturale.
Probabilmente si farebbe prima a dire di chi C. non ha scritto, e chi non ha
incontrato, tanto vasto è stato il panorama delle sue frequentazioni.[78]
Ma questo, come si è detto, è marginale. L'altro problema, questo
insuperabile, fu la sostanziale "immoralità" dell'opera casanoviana.
Ma ciò deve intendersi come contrarietà alle abitudini, ai tic, alle ipocrisie
della fine del Settecento e, ancor di più, del successivo secolo, ancora più
fobico e per certi versi molto meno aperto di quello che l'aveva preceduto. C.
ha precorso i tempi: era troppo avanti per diventare un autore di successo. E
forse se ne rendeva perfettamente conto. Nella lettera a Zuan Carlo Grimani,
ricordata in precedenza, C., parlando dell'Histoire, scrive testualmente:...
questa Storia, che verrà diffusa fino a sei volumi in ottavo e che sarà forse
tradotta in tutte le lingue... E poi, richiede una risposta... perché io possa
porla nei codicilli che formeranno il settimo volume postumo della Storia della
mia vita. Tutto questo è avvenuto puntualmente.[79] Riguardo all'uso
della lingua francese, C. vi fece riferimento nella prefazione: «J'ai écrit en français, et non pas en
italien parce que la langue française est plus répandue que la
mienne.[80]» «Ho scritto in francese e non in italiano perché la lingua
francese è più diffusa della mia.» Certo dell'immortalità della sua
opera, se non al fine di garantirsela, C. preferì utilizzare la lingua che gli
avrebbe consentito di raggiungere il maggior numero possibile di potenziali
lettori. Molte opere minori, del resto, le scrisse in italiano, forse perché
sapeva bene che esse non sarebbero divenute mai un monumento, come avvenne
invece per la sua autobiografia. Carlo Goldoni, altro celebre veneziano, coevo
al C., scelse allo stesso modo di scrivere la propria autobiografia in
francese. L'autobiografia del C., a parte il valore letterario, è un
importante documento per la storia del costume, forse una delle opere
letterarie più importanti per conoscere la vita quotidiana in Europa nel
Settecento. Si tratta di una rappresentazione che, per le frequentazioni dell'autore
e per la limitazione dei possibili lettori, riferisce principalmente delle
classi dominanti dell'epoca, nobiltà e borghesia, ma questo non ne limita
l'interesse in quanto anche i personaggi di contorno, di qualsiasi estrazione,
sono rappresentati in modo vivissimo. Leggere quest'opera è uno strumento
importante per conoscere il quotidiano degli uomini e delle donne di allora,
per comprendere dal di dentro la vita di ogni giorno. La fortuna
dell'opera casanoviana, presso i protagonisti di vertice della scena letteraria
mondiale, è stata ristretta solo all'opera autobiografica ed è stata
vastissima. Iniziando da Stendhal, al quale fu attribuita la paternità
dell'Histoire, a Foscolo il quale mise addirittura in dubbio l'esistenza storica
del C., Balzac, Hofmannstahl, Schnitzler, Hesse, Márai. Molti furono solo
lettori e quindi influenzati in modo inconscio, altri scrissero opere
ambientate nell'epoca di C. e di cui egli era protagonista. Innumerevoli
sono i riferimenti, nella letteratura moderna, a questa figura che ha finito
per diventare un'antonomasia. In Italia l'interesse si è manifestato tra la
fine dell'Ottocento e i primi del Novecento. La prima edizione italiana della
Historia della mia fuga dai Piombi fu curata da Giacomo, il quale studiò anche
i ripetuti soggiorni napoletani dell'avventuriero e su questo argomento scrisse
un saggio.Seguirono Benedetto Croce[ e via via molti altri fino a Piero Chiara.
Un capitolo a parte andrebbe dedicato ai "casanovisti" cioè a tutti
quelli che si sono occupati e si occupano, più o meno professionalmente, della
vita e dell'opera del C.. Proprio a questa legione di sconosciuti si debbono
infinite identificazioni di personaggi, revisioni e importantissimi
ritrovamenti di documenti. Molto dell'opera casanoviana è ancora inedito,
Nell'Archivio di Stato di Praga rimangono circa 10 000 documenti che attendono
di essere studiati e pubblicati, oltre un numero imprecisato di lettere che
probabilmente giacciono in chissà quanti archivi di famiglia sparsi per
l'Europa. La grafomania dell'avventuriero fu veramente impressionante: la sua
vita a un certo momento divenne totalmente e ossessivamente dedicata alla
scrittura Riguardo al mito del seduttore, C., insieme a Don Giovanni, ne
è stato l'incarnazione. Il paragone è d'obbligo ed è stato tema di numerose
opere critiche. Le due figure finirono addirittura per fondersi, benché
ritenute antitetiche dai maggiori commentatori: a parte il fatto che il
veneziano era un personaggio reale e l'altro romanzesco, i due caratteri sono
agli antipodi. Il primo amava le sue conquiste, si prodigava con generosità per
renderle felici e cercava sempre di uscire di scena con un certo stile, lasciando
dietro di sé una scia di nostalgia; l'altro invece rappresenta il collezionista
puro, più mortifero che vitale, assolutamente indifferente all'immagine di sé e
soprattutto agli effetti del suo agire, concentrato unicamente sul numero delle
vittime della sua seduzione. L'interpretazione del suo mito sarebbe
fornita proprio dal libretto del Don Giovanni di Mozart, scritto da Lorenzo Da
Ponte, in cui Leporello, il servo di Don Giovanni, in un'aria notissima recita:
Madamina il catalogo è questo, delle belle che amò il padron mio... e prosegue
snocciolando le innumerevoli conquiste, diligentemente registrate. Il fatto che
alla redazione del libretto sembra abbia partecipato anche C.come è stato
sostenuto basandosi su documenti trovati a Dux, sul fatto che Da Ponte e C. si
frequentassero e che l'avventuriero fosse sicuramente presente la sera in cui a
Praga andò in scena la prima dell'opera mozartiana è tutto sommato marginale.
La partecipazione, comunque molto limitata, di C. alla composizione del
libretto di Da Ponte per l'opera mozartiana Don Giovanni, è ritenuta molto
probabile da vari commentatori. L'elemento fondamentale è un autografo,
rinvenuto a Dux, che contiene una variante del testo che si è ipotizzato
facesse parte di una serie di interventi operati in accordo con Da Ponte e forse
anche con lo stesso Mozart. Quel che è certo è che C. si misurò col mito di don
Giovanni e ne costruì uno ancora più grande, certamente più positivo e
soprattutto reale. Mostre Praga,
Palazzo Lobkowicz, "C. v Čechách" (C. in Boemia). Catalogo: C. v
Čechách, Praga, Gema Art Venezia, Ca'
Rezzonico "Il mondo di Giacomo C.". Catalogo: Il mondo di Giacomo C.,
un veneziano in Europa, Venezia, Marsilio.
Francia "C. for ever, 33 expositions
Languedoc-Roussillon". Catalogo: C. For Ever, Emmanuel Latreille (dir.),
Parigi, Editions Dilecta, Parigi, Bibliothèque nationale de France “C., la
passion de la liberté. Catalogo: C., la passion de la liberté, Parigi,
Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil,. (BnF) (Seuil) Stati Uniti d'America "C.: The seduction
of Europe", varie sedi: Museum of Fine Arts, Boston; Kimbell Art Museum,
Forth Worth; Fine Arts Museums, San Francisco. Catalogo: C. The seduction of
Europe MFA Pubblications Museum of fine arts, Boston. Filmografia su C. C.
. Regia di Alfréd Deésy Il cuore del C. (Germania) Regia di Erik Lund. Soggetto
di Enrik Rennspies. Sceneggiatura di Bruno Kastner. Con Bruno Kasner, Ria
Jende, Rose Lichtenstein, Karl Platen. C.s erste und letzte Liebe (Austria).
Regia di Szoreghi. C. Regia di Alexandre Volkoff Les
amours de C. (Francia, 1934). Regia di René Barberis L'avventura di
Giacomo C. (Italia). Regia di Carlo Bassoli. Le avventure di C. (Les Aventures
de C.) (Francia). Regia di Jean Boyer. Il cavaliere misterioso (Italia). Regia
di Riccardo Freda. Con Gassman, Canale, Mercader, Centa. Le avventure di C. (Italia). Regia di Steno. Con Gabriele
Ferzetti, Corinne Calvet, Marina Vlady, Nadia Gray, Carlo Campanini. Last Rose
from C., titolo originale Poslední růže od Kasanovy, (Cecoslovacchia). Regia di
Vaclav Krska. Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo C., veneziano
(Italia). Regia di Luigi Comencini. Con Leonard Withing, Maria
Grazia Buccella, Tina Aumont, Ennio Balbo, Senta Berger, W. Branbell,
Clara Colosimo, C. ComenciniDe Clara, Silvia Dionisio, Evi Maltagliati, Raoul
Grassilli, Mario Scaccia, Lionel Stander. Cagliostro (Italia). Regia di Daniele
Pettinari. Con Bekim Fehmiu, Curd Jürgens, Rosanna Schiaffino, Robert Alda,
Massimo Girotti. (C. è uno dei personaggi). Il C. di Federico Fellini (Italia).
Regia di Federico Fellini Con Donald Sutherland, Tina Aumont, Olimpia Carlisi,
M. Clementi, Carmen Scarpitta, C. Browne, D. M. Berenstein. Il mondo nuovo
(Italia). Regia di Ettore Scola. Con Jean Louis Barrault, Marcello Mastroianni,
Hanna Schygulla, Harvey Keitel, Jean-Claude Brialy, Andréa Ferréol, M. Vitold,
A. Belle, E. Bergier, Laura Betti. David di Donatello per la migliore
sceneggiatura, scenografia e costumi. Il ritorno di C., titolo originale Le
retour de C. (Francia). Regia di Édouard Niermans Con Alain Delon, Fabrice Luchini,
E Lunghini. Goodbye C. (Stati Uniti, 2000). Regia di Mauro Borrelli. Con G.
Scandiuzzi, Y. BleethGidley, C. FilpiGanus, E. Bradley. Il giovane C. (Francia,
Italia, Germania). Regia di Giacomo Battiato. Con Stefano Accorsi, Thierry
Lhermitte, Cristiana Capotondi, Silvana De Santis, Catherine Flemming, Katja
Flint. C. (Stati Uniti). Regia di Lasse Hallström. Con Heath Ledger, Jeremy
Irons, Lena Olin, Sienna Miller, Adelmo Togliani. Historia de la meva mort
(Spagna/Francia ). Regia di Albert Serra. Con Vicenç Altaió, Lluís Serrat,
Eliseu Huertas. C. variations (Austria/Germania/Francia/Portogallo ). Regia di
Michael Sturminger, con John Malkovich, Fanny Ardant, Veronica Ferres.
Zoroastro, Io C. (Italia ) Regia di Gianni di Capua, con Galatea Ranzi Dernier
Amour (Francia ). Regia di Benoît Jacquot, con Vincent Lindon (Giacomo C.),
Stacy Martin (Marianne de Charpillon), Valeria Golino, (La Cornelys). Film solo
lontanamente ispirati alla figura di C. C. farebbe così! (Italia). Regia di
Carlo Ludovico Bragaglia. Le tre donne di C. (Stati Uniti). Regia di Wood. C.
(Italia). Regia di Mario Monicelli. Film comici La grande notte di C.
(Stati Uniti) Norman Z. McLeod. C. et Company (Austria/Italia/Francia/Rft
1976). Regia di Franz Antel. Tony Curtis, Marisa Berenson, Sylva Koscina, Britt
Ekland, Umberto Orsini, Marisa Mell, Hugh Griffith. Telefilm su C. C. (Regno
Unito). Regia di Sheree Folkson. Con David Tennant, Rose Byrne, Peter O'Toole,
Laura Fraser, Nina Sosanya, Shaun Parkes. Onorificenze Cavaliere dello Speron
d'oronastrino per uniforme ordinariaCavaliere dello Speron d'oro Roma, 1760
Riguardo l’onorificenza, C. nelle Memorie descrive l'incontro con il pontefice
e il successivo conferimento dell'Ordine (cfr. G. C., Storia della mia vita,
Milano, Mondadori). Si è dubitato anche in questo caso, come in altri, che il
racconto autobiografico risponda a verità. Per chiarire i dubbi sono state
compiute approfondite ricerche nell'Archivio segreto vaticano al fine di ritrovare
il breve papale di conferimento, sia nel periodo di cui parla C. (dicembre
1760-gennaio 1761) sia in periodi precedenti e successivi, senza alcun esito.
Il che non significa che l’onorificenza non sia stata effettivamente conferita,
in quanto potrebbe essersi verificato un errore burocratico, di trascrizione o
altro. Sta di fatto però che intorno allo stesso periodo furono conferite
onorificenze ad altri personaggi come Piranesi, Mozart, Cavaceppi e il breve
relativo è stato ritrovato. Quindi manca, allo stato, un riscontro oggettivo.
Si aggiunga che il cavalierato dello Speron d’Oro era all’epoca già piuttosto
inflazionato, al punto da sconsigliare l’esibizione in pubblico della
decorazione. Lo stesso C. in un passo dell’opera autobiografica Il duello
scrive, riferendosi all’onorificenza, "il troppo strapazzato ordine della
cavalleria romana" (cfr. Il duello cit. in bibl.). Note
Esplicative C. visse a lungo in
Francia e conobbe personalmente molti protagonisti del movimento illuminista
tra cui Voltaire e Rousseau. Inoltre, in patria, frequentò membri
dell'oligarchia aristocratica dominante appartenenti all'ala progressista, come
Andrea Memmo. In più aveva anche aderito alla Massoneria, il che lo pose a
contatto con tutta una serie di personaggi portatori di idee progressiste.
Malgrado tutto questo egli fu, e si definì sempre, un conservatore, legato a
doppio filo con la classe nobiliare cui, pur non appartenendovi formalmente,
riteneva d'esservi membro in pectore, reputandosi a torto od a ragione il
figlio naturale di Michele Grimani. Allo scoppio della Rivoluzione francese e
nel periodo alquanto turbolento che ne seguì, scrisse numerosissime lettere (cfr.
Epistolario P.Chiara cit. in ) in cui deprecava in modo reciso l'accaduto e
soprattutto non riconobbe mai, negli eventi, la paternità culturale del
movimento illuminista. Ad esso aveva assistito come semplice spettatore, non
avendone percepito mai la dirompente potenzialità e non condividendone nessuna
delle istanze che, ad esempio, Montesquieu espresse nei confronti dell'iniquo
sistema (cfr. Montesquieu, Lettres Persanes) e riteneva che, pur con qualche
modifica, il governo della classe nobiliare fosse il migliore possibile. Un
esame attento ed approfondito della posizione politica del C. è stato compiuto
da Feliciano Benvenuti (C. politico, atti del convegno: Giacomo C. tra Venezia
e l'Europa, Pizzamiglio, fondazione Giorgio Cini, Venezia, ed. Leo S.
Olschki.) Il cognome C. è attestato
appartenere a nobile famiglia vissuta a Cesena, Milano, Parma,
Torino-Dronero C. afferma che dalla
città spagnola il suo antenato, padre Jacob C., a seguito del rapimento di una
monaca, Donna Anna Palafox, sarebbe fuggito a Roma in cerca di un rifugio dove,
dopo aver scontato un anno di carcere, avrebbe ricevuto il perdono e la
dispensa dei voti sacerdotali da parte del pontefice in persona, potendo così
unirsi in matrimonio con la rapita. A questo riguardo è interessante la tesi di
Jean-Cristophe Igalens (G. C., Histoire de ma vie, tome I. Édition établie par
Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont,XL, in Opere postume) il
quale sostiene che la genealogia inserita dal C. all'inizio delle Memorie sia
del tutto fantasiosa. Si tratterebbe di una sorta di parodia di ciò che
facevano regolarmente i memorialisti aristocratici dell'epoca i quali,
all'inizio dell'opera, enunciavano il loro antico lignaggio, quasi a ricercare
una legittimazione per il fatto di esporre, in un'opera letteraria, le vicende
di cui erano stati protagonisti, almeno quelle pubbliche, poiché le private
rientravano nell'ambito dell'autobiografia. La tesi appare fondata se si
considera che la ricostruzione genealogica proposta dal C. risale addirittura
al 1428, cioè a tre secoli dalla sua nascita ed è relativa a un cognome,
praticamente un toponimo, estremamente comune.
A conferma del fatto che la nascita illegittima di C. fosse oggetto di
chiacchiere, va citato un passaggio de La commediante in fortuna di Chiari
(Venezia) in cui si tratteggia un ritratto precisissimo di C. che chiunque era
in grado di riconoscere sotto le spoglie di un nome di fantasia, il Signor
Vanesio "C'era tra gli altri un certo Signor Vanesio dì sconosciuta e, per
quanto dicevasi, non legittima estrazione, ben fatto della persona, di colore
olivastro, di affettate maniere e di franchezza indicibile". Evidentemente
il riferimento a tratti somatici tipici e riconoscibili fa pensare che le
dicerie fossero suffragate da una notevole somiglianza fisica con Michele
Grimani. L'identificazione del Signor Vanesio con C. è pacifica, tra i tanti
autori, concordi sul punto, si veda: E.Vittoria C. e gli Inquisitori di
Stato. (Immatricolazione, iscrizione,
fede di terzeria. Fonte: Bruno Brunelli, C. studente, in “Il Marzocco Firma un
testamento in qualità di testimone.
Sull'ubicazione esatta della casa natale di C. e di quella in cui
trascorse l'infanzia all’anno della morte della nonna materna Marzia, si è
discusso moltissimo. Certo è che al momento del matrimonio Gaetano e Zanetta C.
non disponevano di un reddito tale da sostenere un spesa come quella affrontata
di 80 ducati annui. Quindi molto probabilmente, dopo il matrimonio avvenuto il
27 febbraio 1724, i coniugi andarono a vivere a casa della madre di Zanetta,
Marzia Baldissera, cheera vedova essendo mortole il marito Girolamo Farussi
poche settimane avanti il matrimonio della figlia. E questa con ogni
probabilità fu la casa in cui C. nasce
con l'assistenza della levatrice Regina Salvi. L'identificazione esatta
della casa natale è assai ardua, ma comunque è stata tentata. Il casanovista
Helmuth Watzlawick ha identificato la casa di Marzia Baldissera con l'attuale
civico 2993 di Calle delle muneghe. Questa sarebbe dunque la casa natale di C.
(Fonte: Helmuth Watzlawick, House of childhood, house of birth; a topographical
distraction, in Intermédiaire des Casanovistes, Genève). I coniugi C. si
trasferirono nella casa di Calle della Commedia al ritorno dalla fortunata
tournée londinese quando rientrarono a Venezia col secondogenito Francesco,
nato a Londra. Tale abitazione risulta essere stata di gran rappresentanza, su
tre livelli, con un salone al secondo piano che fu usato in occasione di feste.
L'affitto di 80 ducati annui era circa il doppio della media che veniva
corrisposta nel vicinato per appartamenti evidentemente meno lussuosi. A questo
punto sembrerebbe tutto chiaro, si tratta solo di trovare in Calle della
commedia un'abitazione che corrisponda alla descrizione: grandezza, salone al
secondo piano e camera al terzo, nonché corrispondenza con la proprietà che si
sa essere stata con certezza della famiglia Savorgnan. L'unica che potrebbe corrispondere
alla descrizione è quella sita nell'attuale Calle Malipiero (già Calle della
Commedia) al civico 3082. Ma su questo non tutti gli studiosi concordano, tanto
che la lapide apposta in calle Malipiero dice "In una casa di questa
calle, già Calle della Commedia, nacque
G. C." senza alcun altro più specifico elemento. Alcuni sostengono
che a causa di rimaneggiamenti interni non è più possibile identificare la
struttura originaria. Uno studioso dell'argomento, Federico Montecuccoli degli
Erri, ha pubblicato (L'intermédiaire des Casanovistes, Genève) un'analisi molto
approfondita basata sulle cosiddette "Condizioni" cioè sulle
dichiarazioni dei redditi immobiliari che venivano presentate dai proprietari.
All'epoca, per verificare l'esattezza dei dati dichiarati, si procedeva ad
un'ispezione diretta casa per casa effettuata, in ogni parrocchia, dal parroco.
Egli procedeva con un certo ordine chiedendo a ognuno il titolo di possesso. I
proprietari dichiaravano il titolo di proprietà e gli affittuari dovevano o
esibire il contratto oppure giurare le condizioni contrattuali. Poiché è stato
ritrovato il documento in cui la madre di Zanetta, Marzia, giurava per la
figlia, nel frattempo trasferitasi per lavoro a Dresda, che il contratto
prevedeva un affitto di 80 ducati annui e che l'immobile era di proprietà
Savorgnan, conosciamo con certezza i dati contrattuali e la residenza indicata
sull'atto, cioè Calle della Commedia. Purtroppo le modifiche urbanistiche e
catastali intervenute non consentono con certezza l'identificazione, anche
perché all'epoca non esistevano dati catastali precisi. Secondo lo studioso
citato, l'abitazione è da identificarsi con la casa al civico 3089 della Calle
degli orbi che all'epoca potrebbe essere stata designata come Calle della Commedia.
Corrisponderebbero sia l'aspetto fisico che la proprietà. Comunque tutte queste
ipotesi si muovono entro un fazzoletto di spazio di poche centinaia di metri;
infatti è certo che i C. abitavano, per motivi di lavoro, nei pressi del Teatro
San Samuele, di proprietà dei Grimani. Documento: Calle della Commedia
324|casa|Giovanna C. comica al presente s'attrova in Dresda, giurò Marzia sua
Madre|N.H Zuanne e F.llo Co. Savornian|d.ti 80 (annui) Registro dell'anno 1740
Atti della Parrocchia di S.Samuele. Non
nel noto lazzaretto del Vanvitelli, ma in quello in uso precedentemente. Si è mantenuta la cronologia quale risulta
dal testo delle Memorie. L'autore ha qui, come in altri casi, confuso le date o
fuso insieme più viaggi. In realtà la permanenza nel Lazzaretto era durata dal
26 (o 27) ottobre 1743 al 23 (o 24) novembre 1743. Quindi l'intervallo tra i
due viaggi è stato di tre mesi, non di sette. Come affermato dall'autore, il
soggiorno si svolse nel Lazzaretto "Vecchio", in quanto quello "Nuovo",
pur terminato nel febbraio del 1743, iniziò a funzionare solo nel 1748 allorché
la Reverenda Camera Apostolica se ne prese carico. Sull'argomento si veda:
Furio Luccichenti, Quattro settimane nel Lazzaretto in L'Intermédiaire des
Casanovistes Genève, Année XXVIII, anno 711. In tale studio viene ricostruita
la situazione dei lazzaretti di Ancona e confrontato il racconto casanoviano
con le risultanze di archivio relative ai progetti e all'iconografia degli
edifici adibiti alle quarantene.La cronologia della permanenza è stata stimata
dall'autore nel periodo 26.10/23.11.1743. Un'altra cronologia differisce di un
giorno soltanto: 27.10/24.11.1743 (J. C., Histoire de ma vie. Texte
intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Editore Laffont, I, Cronologia,XXX, cit. in bibl.) Il progetto
di ristrutturazione del Lazzaretto "Vecchio", datato 1817, si
conserva nell'Archivio di Stato di Roma (Collezione Mappe e Piante, Parte I,
Cart. 2, n° 87/I, II, III.). Esso consente di verificare lo stato del fabbricato
all'epoca della permanenza del C.. Il
personaggio di Teresa/Bellino ripropone una tematica ricorrente cioè la
questione dell'aderenza alla realtà dei fatti riportati nell'Histoire e il
considerare il personaggio descritto come realmente esistito. L'identificazione
di Teresa con Angela Calori, nota virtuosa, cioè cantante, di gran successo, si
basa su ricerche effettuate già dai casanovisti del passato, come Gustavo
Gugitz, il quale però ritenne che il personaggio fosse in realtà una
costruzione letteraria. Teresa viene spesso citata nell'Histoire sotto il nome
fittizio di Teresa Lanti, maritata con Cirillo Palesi, nome anch'esso fittizio.
Ma molte delle notizie, date e fatti riferiti nel racconto casanoviano non
quadrano con quelli attribuibili alla Calori. Quest'ultima è anche ricordata
direttamente nell'Histoire allorché C. riferisce di averla incontrata a Londra
e di aver provato, vedendola, le stesse sensazioni avute in occasione di un
incontro, a Praga, con Teresa/Bellino, il che ha indotto taluni a considerare
questo fatto una prova che la Teresa delle memorie fosse effettivamente la
Calori. Molti studiosi (tra gli altri Furio Luccichenti) propendono per
l'assemblaggio d'invenzione, cioè pensano che C. abbia costruito il personaggio
di cui parla con elementi derivanti da più persone diverse, il che non esclude
che l'autore possa essersi ispirato, in larga misura, anche alla Calori.
Comunque gli studiosi non demordono: Sandro Pasqual (L'intreccio, C. a Bologna)
ha ipotizzato trattarsi non della Calori, ma di un'altra famosa cantante
bolognese, Vittoria Tesi, nota per il suo fascino androgino e per aver
interpretato spesso en travestie parti maschili. La tendenza a romanzare del C.
sarebbe in questo caso particolarmente stimolata dall'ambiente e dai ruoli dei
personaggi descritti. Egli ebbe sempre, infatti, fortissimi legami col mondo
teatrale, essendo figlio di attori e avendo frequentato tutta la vita teatri e
teatranti. Curiosamente, ogni volta che rappresenta un personaggio femminile
che ha a che fare col teatro, sia cantante o ballerina, lo descrive, salvo
rarissimi casi, in modo particolarmente negativo; come se, pur attratto da quel
mondo, ne disprezzasse profondamente gli interpreti, attribuendo, soprattutto a
quelli femminili, le peggiori inclinazioni alla falsità, all'avidità e al
calcolo. Teresa/Bellino è una delle eccezioni, il che farebbe propendere per
l'idealizzazione, cioè per la non rispondenza alla realtà del personaggio,
peraltro nascosto, come si è detto, sotto un nome fittizio. Sul rapporto tra
l'Histoire e il mondo del teatro si veda, di Cynthia Craig, Representing
anxiety. The figure of the actress in C.'s Histoire de ma vie. L'intermédiaire
des casanovistes, Genève, Barbaro, patrizio veneziano del ramo Barbaro di San
Aponal, figlio di Anzolo Maria, morto senza figli, lasciò a C. un legato di sei
zecchini al mese. (Fonte: Jacques C. de SeingaltHistoire de ma vie. Texte
intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Editore Robert
Laffont cit. in bibl. I997, che rinvia a
Salvatore di Giacomo, Historia della mia fuga dai Piombi, Milano) Dandolo, patrizio
veneziano del ramo Dandolo di San Giovanni e Paolo. Documento: Testamento di
Dandolo in Archivio di Stato di Venezia. Legato testamentario
"...Raccomando alla loro bontà la persona di Giacomo C., che mi fu in
tutta la sua vita attaccato col cuore, e amoroso alla mia persona, e che ha
mostrato in ogni tempo la più comendabile gratitudine a' miei pochi benefizj.
Dichiaro che a lui appartengono tutti i mobili, che sono nella stanza in cui
dorme. Al suddetto C. lascio il mio orologio d'oro e le mie quattro possate
d'argento" (Fonte: L'Histoire de ma vie di Giacomo C., Michele
Mari, cit. in, pag.29 nota 104). L'identificazione
di "Henriette" insieme a quella di "Suor M.M." è stato uno
degli argomentipiù dibattuti dai casanovisti. Il motivo di tante accanite
ricerche è connesso con la centralità sentimentale di questi due personaggi
nella vita di C.. Il nome di Henriette ricorre di con tinuo nelle Memorie
e la sua identità è stata mascherata accuratamente dall'autore. Tra le
identificazioni che si sono susseguite quelle più autorevoli sono da ascrivere
a: John Rives Childs, che sostenne trattarsi di Jeanne-Marie d'Albert de Saint
Hyppolite, sposata a Fonscolombe, nipote di Margalet, proprietario del castello
di Luynes, che si trova nella zona descritta da C. come quella di residenza di
Henriette. Watzlawick, che sostiene trattarsi di Marie d'Albertas, nata a
Marsiglia. Louis Jean André, che avrebbe identificato Henriette in Adelaide de
Gueidan. Quest'ultima ricostruzione è sostenuta da un apparato critico impressionante
che, attraverso una raccolta minuziosa di elementi (lettere, atti, iconografia,
topografia della zona), conduce a una notevole verosimiglianza
dell'identificazione. Immagini del castello di Valabre, residenza della
famiglia De Gueidan, che secondo André corrisponderebbe perfettamente alla
descrizione datane da C. senza nominarlo, sono visibili qui. Manca ancora però
la prova inoppugnabile, una lettera o un qualsiasi manoscritto del C. stesso
che consenta l'identificazione certa.
Molti studiosi hanno tentato l'identificazione di suor M.M. Lo studio
più completo sull'argomento si deve a Riccardo Selvatico, che la identifica con
Marina Morosini (R. Selvatico, Note casanovianeSuor M.M. Atti dell'Istituto
Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Sul
rapporto tra romanzo e autobiografia nelle Memorie si veda tra gli altri
L'Histoire de ma vie di Giacomo C. Michele Mari. Balletti era il nipote della
Fragoletta, l'attempata attrice amata dal padre di Giacomo, Gaetano, al seguito
della quale era arrivato in giovane età a Venezia. (Fonte: Charles Samaran,
Jacques C., Vénitien, une vie d'aventurier au XVIII siècle, con rinvio a un
passaggio delle Memorie di Goldoni) C.
fu iniziato nella loggia Amitié amis choisis, probabilmente su presentazione di
Balletti (Fonte: Jean-Didier Vincent, C. il contagio del piacere). L'affiliazione di Mozart alla Fratellanza
Massonica avvenne il 14 dicembre del 1784, nella loggia “Zur Wohltätigkeit”
(Alla Beneficenza) di Vienna (Fonte: Lidia Bramani, Mozart massone e rivoluzionario.
Mondadori). C. riceve i gradi di Compagno e Maestro nella loggia di S. Giovanni
di Gerusalemme (cfr. Watzlawick, Chronologie, in C., Histoire de ma vie, tome
I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.) Malgrado la diuturna applicazione, il fatto
di aver avuto eccellenti maestri come Crebillon e di aver potuto fare ampia
pratica durante la permanenza in Francia, il francese di C. non fu mai ritenuto
sufficientemente perfetto nella forma scritta, soprattutto a causa degli
“italianismi” che si riscontrano numerosissimi nelle Memorie. C. riferisce con
dovizia di particolari il suo incontro con Crebillon e la successiva intensa
frequentazione allo scopo di imparare la lingua. Ammette anche i suoi limiti:
infatti scrive: Per un anno intero andai da Crebillon tre volte alla settimana ma
non riuscii mai a liberarmi dei miei italianismi (Fonte: G. C., Storia della
mia vita, Mondadori). L'imputazione e la
sentenza. Venute a cognizione del Tribunale le molte riflessibili colpe di
Giacomo C. principalmente in disprezzo publico della Santa Religione, SS. EE.
lo fecero arrestare e passar sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio
Condulmer Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. L'oltrascritto C. condannato
anni cinque sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio Condulmer
Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. (Venezia Archivio di Stato Inquisitori
di Stato Annotazioni B. 534245) Riferte
di Manuzzi, confidente degl’inquisitori di stato Incaricata la mia obbedienza
dal Venerato Comando di riferire chi sia Giacomo C., generalmente rilevo ch'è
figlio di un comico e di una commediante; viene descritto il detto C. di un
carattere cabalon, che si fa profittare della credulità delle persone come fece
col N.H. Ser Zanne Bragadin, per vivere alle spalle di questo o di quello...
Giovanni Battista Manuzzi. Mi sovvenne allora che lo stesso C. parlato mi avea
ne' giorni passati della Setta de' Muratori, raccontandomi i onori e vantaggi
che si hanno ad essere nel numero de' confratelli, che vi aveva
dell'inclinazione il N.H. Ser Marco Donado per essere arrolato a detta Setta...
Giovanni Battista Manuzzi. Secondo il
casanovista Pierre Gruet, il motivo fondamentale dell'arresto di C. è da
ricercare proprio nella relazione con suor M.M. che, se l'identificazione con
Marina Morosini è corretta (sul punto si veda R. Selvatico, Note
casanovianeSuor M.M. Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti),
apparteneva ad una delle più potenti famiglie del patriziato veneziano. I
Morosini avrebbero quindi fatto pressioni sugli inquisitori per far cessare la
scandalosa situazione. Cfr. Jacques C. de
SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original,....Ed.
Laffont. Bibliografiche C., Histoire de ma vie, Wiesbaden-Paris, F. A.
Brockhaus-Librairie Plon. Giacomo C.,
Examen des "Etudes de la Nature" et de "Paul et Virginie"
de Bernardin de Saint Pierre. Goldoni, Memorie, Torino, Einaudi Fonte: Helmut
Watzlawick, Chronologie, in C., Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée
sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl. G.C.,Storia della mia vita, Mondadori. (Fonte: P.Molmenti, Carteggi casanoviani) (Fonte E.Grossato, Un bizzarro allievo dello
Studio Padovano. Giacomo C., in Padova e la sua provincia) (Fonte: P.Del
Negro, Giacomo C. e l'Padova, estratto da Quaderni per la storia dell'Padova
secondo la cronologia delle Memorie. Cfr. Helmut
Watzlawick, Chronologie,LVIII in C., Histoire de ma vie, tome I. Édition
publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl. (Fonte: Helmut Watzlawick, Chronologie,LXIII
in C., Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard
Lahouati,, cit. in bibl.) Helmut
Watzlawick, Chronologie, in C., Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée
sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl. Fonte: Silvio Calzolari, Vita, Amori, Mistero
di un libertino veneziano: Ma perché fu fermato? Non aveva da
scontare alcuna pena. L'arresto fu probabilmente organizzato dal Grimani che
voleva dargli una lezione per aver venduto di nascosto i mobili della casa
paterna e per aver maltrattato un suo incaricato, Antonio Razzetta, che doveva
occuparsi della questione. Si veda di
Furio Luccichenti, La prassi memorialistica di Giacomo C., L'Intermédiaire des
casanovistes. Si veda di Pierre-Yves
Beaurepaire, Grand Tour', ‘République des Lettres' e reti massoniche: una
cultura della mobilità nell'Europa dei Lumi », in Storia d'Italia, Annali, La
Massoneria, Gian Mario Cazzaniga, Torino, Giulio Einaudi, 200632-49 cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, in C.,
Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,,
cit. in bibl. cfr. Helmut Watzlawick,
Chronologie, in C., Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la
direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl,
Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo C. Fonte: Bruno Rosada, Il
Settecento veneziano. La letteratura, Venezia, Corbo e Fiore. Riguardo alla
paternità del quadro in questione, la precedente attribuzione a Mengs
(risalente a Winckelmann) è stata praticamente abbandonata dalla critica e,
allo stato delle ricerche, il quadro è probabilmente attribuibile a Francesco
Narici, pittore di origine genovese attivo a Napoli. La tela fu scoperta nel
1952 a Milano da un restauratore di Bologna: Armando Preziosi, il quale
sosteneva di aver trovato tra la cornice, sicuramente coeva, e il quadro, un
biglietto manoscritto che recava le parole Jean-Jacques C. Il fatto che il
soggetto rappresentato possa effettivamente essere Giacomo C., si basa su una
serie di dati che sono: l'osservazione delle fattezze, soprattutto il
naso; il fatto che essendo il quadro a grandezza naturale consenta di
ipotizzare trattarsi di un uomo della stessa statura di C. che è nota; il fatto
che i tratti assomiglino in maniera sorprendente all'altro quadro, di mano del
fratello Francesco, di sicura attribuzione, sia per l'autore che per il
soggetto. Inoltre l'insieme del ritratto: l'amorino, i libri, fanno pensare a
una simbologia molto affine al personaggio di C. che, pur nello stile di vita
brillante e mondano, teneva sempre a porsi come un letterato. Il quadro passò,
nel 1993, da Preziosi alla collezione privata del casanovista Giuseppe Bignami
di Genova. Per documentarsi sull'argomento si veda: Giuseppe Bignami,
Aggiornamenti e proposte sull'iconografia casanoviana, in L'intermédiaire des
casanovistes. Il mondo di C. (catalogo della mostra a Ca' Rezzonico). Giuseppe
Bignami, C. tra Genova e Venezia, La Casana, n° 3 luglio-settembre 2008,25-37.
Una summa dell'iconografia casanoviana, che si compone di nove opere di cui
soltanto due di sicura attribuzione, è consultabile in C., la passion de la
liberté, catalogo della mostra organizzata dalla BNF,, Parigi, Coédition
Bibliothèque nationale de France / Seuil. Balbi, monaco somasco. Era un
patrizio veneziano appartenente a una casata barnabota, cioè a una di quelle
famiglie patrizie che avevano perso ogni ricchezza e i cui membri erano ridotti
a vivere di espedienti. Erano detti barnabotti in quanto gravitavano intorno a
Campo San Barnaba (Fonte: L'histoire de ma vie di C., Mari. Si trattava di un
certo Andreoli, custode del palazzo, che il C. vide approssimarsi, da una
fessura del portone, "in parrucca nera e con un mazzo di chiavi in
mano". Sul punto, per maggiore approfondimento, si veda il commento di
Riccardo Selvatico Cento note per C. a Venezia, Furio Luccichenti, ed. Neri
Pozza. Sentenza di condanna a carico di
Basadonna, carceriere del C. Lorenzo Basadonna era custode delle Prigioni de
Piombi, che esisteva nei camerotti per difetti del suo ministero, da quali ne
provenne la fuga al primo novembre decorso da Piombi stessi delBalbi somasco, e
di Giacomo C., che vi erano condannati, per tenui motivi di contrasto con
Giuseppe Ottaviani pur condannato ne' camerotti, ne commise la interfezione.
Presi dal Tribunale gl'essami per rilevare l'origine, e i modi del non
ordinario avvenimento, risultò infatti per la confessione stessa del reo il
caso per proditorio in ogni sua circostanza. Tutto che però meritasse il
supplizio maggiore, la clemenza del Tribunale con pieni riflessi di carità e di
clemenza è devenuta alla sentenza qui contro estesa''. Alvise Barbarigo Inq.r
Lorenzo Grimani Inq.r Bortolo Diedo Inq.r. Basadonna sia condannato ne' Pozzi
per anni dieci. Alvise Barbarigo Inq.r Lorenzo Grimani Inq.r Bortolo Diedo
Inq.r Venezia, Archivio di Stato, Inquisitori di Stato, Annotazioni, R. 535 c.83. Jeanne Camus de
Pontcarré marchesa d'Urfé, sposò Louis-Christophe de Lascaris d'Urfé de
Larochefoucauld marchese di Langeac, dal quale ebbe tre figli. Rimase
vedova nel 1734 (Fonte: G. C. Storia della mia vita, ed. Mondadori) G. C., Historie de ma vie. Molti commentatori
hanno avanzato dubbi sul racconto casanoviano relativo all'istituzione della
lotteria, che sarebbe servita a finanziare la costruzione della École
militaireprogetto che era sostenuto in modo pressante dalla Pompadoure su
particolari, relativi all'architettura dell'operazione ideata dai fratelli
Ranieri e Giovanni Calzabigi, così come esposti nell'Histoire. Comunque, vista
la rilevanza della documentazione, è indubitabile che C. abbia svolto un ruolo
chiave, probabilmente mettendo a disposizioni le sue forti entrature politiche.
Il che dimostrerebbe anche che il rapporto con de Bernis e il suo entourage era
molto solido. Sul punto si veda G. C., Storia della mia vita, Mondadori in cui si puntualizza che la lista dei 28
ricevitori, pubblicata nel febbraio 1758, non riporta il nome di C. in
relazione alla ricevitoria di Rue Saint Denis, citata nel racconto
autobiografico. Secondo Samaran, (Jacques C. ecc.. Cit. In bibl.) C. avrebbe
diretto una ricevitoria, ma a Rue Saint Martin. Si veda anche Jacques C. de SeingaltHistoire de ma vie. Éd. Robert
Laffont (con rinvio a C. Meucci, C.
Finanziere),23 nota 2, (con rinvio a A. Zottoli, Giacomo C.) e Jean Leonnet,
Les loteries d'état en France. Imprimerie nationale. Il decreto di fondazione
della lotteria è un arrêt delConsiglio di Stato del re Luigi XV (BnF,
Departement des Manuscrit Française 26469, fol. 198). Del viaggio nei Paesi Bassi, come incaricato
di una missione diplomatica descritto da C., vi è un riscontro obiettivo: il
passaporto, ritrovato a Dux, rilasciatogli il 13 ottobre 1758 da Matthys
Lestevenon van Berkenroode, ambasciatore della Repubblica delle Sette Province
a Parigi (Fonte: G. C. Storia della mia vita, ed. Mondadori). Il documento
originale è riprodotto in Jacques C. de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original,.... Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol
II, Appendice Documents pag. 1193 e seg.
Dopo
il naufragio dei progetti matrimoniali di Giustiniana, la madre Anna Gazini
(che aveva sposato, dopo la nascita della primogenita, sir Richard Wynne)
decise di lasciare Venezia per evitare che i pettegolezzi danneggiassero le
altre due figlie, Mary Elizabeth, nata nel 1741, e Teresa Susanna, nata nel
1742. La partenza avvenne il 2 ottobre 1758 (Fonte: Andrea di Robilant, Un
amore veneziano, Milano, Mondadori). La
lettera autografa di Giustiniana Wynne è andata all'asta all'Hôtel Drouot
(Parigi). Il collezionista che l'ha acquistata, e che ha voluto mantenere
l'anonimato, ne ha però consentito la pubblicazione integrale (cfr. Helmut
Watzlawick, L'Intermédiaire des Casanovistes)
siete filosofo, siete onesto, avete la mia vita nelle mani, Salvattemi
se c'è ancora rimedio, e se potete. C., Storia della mia
vita, Mondadori, Histoire Nous avons ici une espèce de plaisant qui
serait très capable de faire une façon de Secchia Rapita, et de peindre les
ennemis de la raison dans tout l'excès de leur impertinence... (Fonte: Œuvres
complètes de Voltaire avec des notes... Parigi)
Fonte: Frédéric Manfrin in C., la passion de la liberté, Parigi,
Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil,, Chronologie. G. C., Storia della mia vita, Mondadori. Augspurger,
detta La Charpillon, nota cortigiana londinese (Fonte: G. C., Storia della mia
vita, ed. Mondadori. Un riscontro del
soggiorno di C. a Berlino deriva da una annotazione nel diario di Boswell, in
cui lo scrittore scozzese accenna all'incontro avvenuto da Rufin, cioè alla
locanda Zu den drei Lilien (Ai tre gigli) in Poststraße, dove anche C.
alloggiava. In particolare scrive: Ho mangiato da Rufin dove Nehaus, un
italiano, voleva brillare come grande filosofo e quindi sosteneva di dubitare
di tutto, a cominciare dalla sua stessa esistenza. Lo ritenni un perfetto cretino. (A.Pottle, The Yale edition of the
Private Papers of James Boswell, London). Il nome Nehaus è la
traduzione di C. in tedesco (con un errore di grafia = Neuhaus) e risulta che C.
abbia usato il suo cognome tradotto, con diverse forme. Ad esempio, in una
lettera a lui indirizzata a Wesel, si legge come destinatario comte de Nayhaus
de Farussi, Farussi era il cognome della madre del C.. (Fonte: Helmut
Watzlawick, C. and Boswell, nota in L'Intermédiaire des Casanovistes, XXIII
2006, pag 41). Fonte: Elio Bartolini,
Vita di Giacomo C., cit. in bibl. Cap. XVII pag. 271. C. passò la frontiera
russa a Riga sotto il nome di Farussi, cognome della madre (cfr. Helmut
Watzlawick, Chronologie, in Histoire de ma vie, Édition publiée sous la
direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.)
Fonte: Elio Bartolini, Vita di C. Secondo quanto affermato nelle
Memorie, C. incontrò varie volte la sovrana, sottoponendole vari progetti, ma
senza alcun risultato. Franciszek
Ksawery Branicki, conte di Korczak, (1730–1819). Sul contesto storico in cui si
muoveva Branicki, che era un rappresentante della nobiltà filorussa, la cui
collusione con la potente nazione vicina rappresentò un vero e proprio
tradimento, si può consultare la voce dedicata a Tadeusz Kościuszko, in
particolare il paragrafo "Ritorno in Polonia". Anna Binetti (cognome di nascita Ramon)
celebre ballerina, nota in tutta Europa. Sposò nel 1751 il ballerino Georges
Binet. Dopo il ritiro dalle scene (circa 1780) si dedicò all'insegnamento della
danza a Venezia (Fonte: G. C., Storia della mia vita, ed. Mondadori) C., Storia della mia vita, Mondadori
2001, III, pag. 285 e seguenti, cit. in
bibl. La vicenda sollevò un clamore
notevole e fu riportata nelle cronache. Una descrizione dei fatti, che ricalca
sostanzialmente il racconto casanoviano e ne attesta la veridicità, si trova in
una lettera datata 19 marzo 1766, scritta da Giuseppe Antonio Taruffi, segretario
del nunzio apostolico Antonio Eugenio Visconti, e spedita da Varsavia a
Francesco Albergati Capacelli (Ernesto Masi, Ed. Zanichelli Bologna. La vita i
tempi gli amici di Francesco Albergati pagg. 196 e seg. e nota 1 pag. 203.) Fonte: Elio Bartolini, Vita di C. Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo C. Cfr.
anche, per la data di morte di Bragadin e la data in cui la notizia fu appresa
da C. (26 ottobre), Helmut Watzlawick, Chronologie, in Histoire de ma vie, tome
I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.) Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo C.. I
soggiorni romani di C. furono tre. I personaggi descritti, numerosissimi, sono
noti alle cronache del tempo e quindi è possibile ritenere veridico il racconto
che consente riscontri obiettivi. Uno dei riscontri è costituito da un
documento che certifica la presenza a Roma del C. durante la Quaresima del
1771. Documento: Stato delle anime, in Registri parrocchiali di S.Andrea delle
Fratte Piazza di SpagnaCasa del Conservatorio di S.Eufemia Francesco Poletti anni
51 M. Angela moglie.anni 40 Margarita figlia zitella anni 16 Tommaso figlio anni
20 Vincenzo figlio anni 14 Anna Proli serva anni 40 Piggionanti
Giovanni Nicolao Fedriani anni 22 Giuseppe fratello anni 18 D. Giacinto Cerreti
anni 37 Il signor Giacomo C....anni 46 L'immobile in questione è quello,
antistante l'Ambasciata di Spagna, sito nella piazza all'attuale numero civico
32. L'abitazione del C. era al secondo piano. (Fonte: A.Valeri C. a Roma cit.
in bibl.) Si è a lungo discusso
circa l'esistenza di ulteriori capitoli che dovrebbe essere comprovata dal
titolo originale dell'opera: Histoire de ma vie jusqu'à l'an 1797, come risulta
dalla prima pagina della prefazione. Tuttavia ciò rimane solo un'ipotesi,
perché non è stato mai trovato un manoscritto riguardante il periodo successivo
al 1774. Va quindi considerato che, fino alla data in questione, la fonte
primaria delle vicende di C. sono le sue Memorie; dopo il termine temporale
delle medesime ci si è basati su epistolari o notizie di altro tipo: scritti di
contemporanei, registrazioni amministrative, notizie apparse su gazzette.
Alcuni autori hanno tentato una ricostruzione cronologica dei fatti utilizzando
i documenti disponibili, tra cui il Brunelli (Bruno Brunelli, Vita di Giacomo C.
dopo le sue memorie, cit. in bibl.) e il Bartolini (Elio Bartolini, C. dalla
felicità alla morte. Evidentemente le notizie riguardanti il periodo compreso
temporalmente nelle Memorie sono enormemente più numerose di quelle relative al
periodo successivo. Circa l'attendibilità e la precisione delle notizie
riportate nelle Memorie, il dibattito è stato amplissimo, ma numerosissimi
riscontri ne hanno comprovato la sostanziale veridicità. Il viaggio da Trieste a Venezia inizia; la
data è verificabile da una notizia apparsa sulla Gazzetta Goriziana “Sabato 10
corrente è passato per qua il signor Giacomo C. di Saint Gall celebre per li
diversi famosi incontri da lui avuti, girando l'Europa; come non meno per le
opere da lui stampate, fra le quali abbiamo già annunziato in un nostro foglio
la Storia delle vicende di Polonia; ha egli inaspettatamente ottenuto il suo
perdono e dopo venti anni si è restituito a Venezia sua patria”. (fonte: Rudj
Gorian Editoria e informazione a Gorizia nel Settecento: la “Gazzetta
goriziana”, Trieste, Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia). È da osservare che la notorietà del
personaggio era grande e che anche della sua attività di scrittore, oltre che
di avventuriero, si parlava molto, negli ambienti intellettuali, ancor prima
del suo rientro a Venezia. In una lettera datata Venezia Elisabetta Caminer,
rivolgendosi a Giuseppe Bencivenni Pelli, scrive "...È dunque costì quel
famoso C. che ha fatto tante pazzie e alcune cose buone? Io lo conosco assai di
nome, e mio padre lo conosce anche di persona. Ditemi, in che le sue maniere
sono diverse dalle vostre? Qual tuono è il suo? Voi già sapete la sua
prodigiosa fuga da' piombi di Venezia. Stampa egli codesta sua Storia della
Polonia? Avete voi letta la sua confutazione dell'opera di Amelot della
Houssaye?..." (Fonte: Rita Unfer Lukoschik, Lettere di Elisabetta Caminer, organizzatrice
culturale, Edizioni Think Adv, Conselve, Padova). Si tratta di Lorenzo Morosini, Alvise Emo,
Pietro Pisani, Nicolò Erizzo, Andrea Tron, Sebastiano Venier. L'elenco completo dei sottoscrittori è
consultabile in: G. C., Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero Chiara.
Delle lettere di C. alla Buschini non resta nulla ma, poiché spessissimo la
Buschini, nel testo, ripete le notizie inviatele e le richieste di notizie
rivoltele, è facile ricavare, almeno in parte, il testo delle lettere ricevute.
A Dux sono state reperite da Aldo Ravà 38 lettere di Buschini. Di queste, 33 sono state riportate
nel volume Lettere di donne a Giacomo C. Aldo Ravà, Milano, Treves cit. in bibl. L'edizione critica più recente
delle lettere di Francesca Lettres de Francesca Buschini à G. C., è stata edita
Marco Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna, Grenoble, Antonio Trampus,
Trieste, cit. in bibl. La corrispondenza consente di ricostruire gli anni
successivi al secondo esilio di Giacomo C.. Attraverso esse si vive il dramma
umano della Buschini la quale, col passare degli anni, era sempre più avvolta
da una cupa povertà, da dolori familiari causati dal fratello, che praticamente
viveva alle sue spalle e dalla madre, che col tempo diveniva sempre più
intollerante. Quando C. dovette sospendere i suoi aiuti in denaro, essendo
ormai nell'impossibilità materiale di inviarne, la Buschini si ritrovò
letteralmente in mezzo alla strada, dovendo lasciare l'appartamento di Barbaria
delle Tole, non avendo più la possibilità di pagare l'affitto. Nessuna notizia
ulteriore ci è giunta, ma la sua testimonianza di lenta emarginazione è
oltremodo toccante. A.Ravà, Lettere di
donne a Giacomo C. Fonte dell'ammontare del canone: Ravà, Marsan, Sui passi di C. a Venezia. Fonte: Elio
Bartolini, Vita di Giacomo C. Fonte: G. C., Analisi degli studi sulla natura...
G. Simeoni. Ed. Pendragon. Il testo del libello è stata oggetto di una
pubblicazione a tiratura limitata Furio Luccichenti, ed. Il collezionista 1981.
Si è ipotizzato che il Grimani abbia incaricato della redazione della replica
Girolamo Molin, tuttavia il libello non fu mai dato alle stampe all'epoca, ma
fu fatto circolare in forma manoscritta (Fonte: Bruno Brunelli, Vita di Giacomo
C. dopo le sue memorie, cit. in bibl. pag.68 nota 9). Il conflitto con la servitù del castello
divenne con gli anni sempre più acuto, tanto da far giudicare insostenibile la
permanenza al castello del maggiordomo Georg Feldkirchner, che fu infatti
rimosso dall'incarico. La diatriba fu poi oggetto dell'opera Lettres écrites au
sieur Faulkircher... (vedi in ) nella quale C. trasfuse tutto l'astio
accumulato per le persecuzionia suo diresubite.
Il concetto è ripreso da un passo di Piero Chiara (cfr. G. C., Storia
della mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag.13, 14)...Ma il C.
è quello che è, e non vuole essere altro; vero eroe del suo tempo per
l'audacia, la sincerità con la quale lo visse, allo sbaraglio, senza temere i
colpi di spada o di pistola, il carcere o l'esilio, pur di consumare fino
all'ultimo l'avventura della sua esistenza in un'epoca in cui la vita era
un'opera d'arte e si poteva farne, con vera gioia, un capolavoro dei
sensi..... Il casanovista Helmut
Watzlawick ha pubblicato (cfr. L'intermédiaire des casanovistes) una breve nota
intitolata Lieu de sepolture de C., in cui riferisce la notizia, comunicatagli
da uno studioso tedesco, Hermann Braun, di una testimonianza sull'argomento
individuata nell'opera di un memorialista e storico coevo al C.: Meusel,
professore di storia a Erlangen. Meusel, nella sua
opera Archiv für Künstler und Kunst-Freunde (Dresda) fa il seguente commento:
«L'aîne, Jacques C., Docteur en Droit de Padoue et bibliothécaire de Comtes de
Waldstein-Warthemberg, à Dux en Bohème, où il mourût aussi, immortalisé par un
monument plein de goût que le Comte lui a fait ériger dans son jardin, où il le
faisait aussi enterrer selon son propre désir.» Pare quindi
evidente che la sepoltura fosse ubicata all'interno del parco del castello e il
conte vi avesse fatto erigere un monumento “pieno di gusto” in memoria del suo
bibliotecario. Il conte Waldstein aveva certamente dell'affetto per C., oltre
al legame derivante dalla comune appartenenza alla Massoneria, se è vero che
gli conferì un incarico formale di bibliotecario ma in pratica, visto lo scarso
impegno che comportava, una pensione, che lo mantenne per lunghi anni
provvedendo a tutti i suoi bisogni e che spesso dovette far fronte ai suoi
debiti, talvolta cospicui, con gli editori. È quindi più che logico che abbia
deciso di onorarne la memoria con una sepoltura degna e con un monumento
funebre. Inoltre il Meusel è conosciuto come un biografo scrupoloso e non
avrebbe avuto motivo per inventare un dettaglio facilmente verificabile da
parte dei suoi lettori, tra i quali Francesco C., fratello minore di Giacomo e
famoso pittore, al quale Meusel dedicò, nella medesima opera, un contributo
biografico e che era ancora in vita al tempo della redazione dell'opera. Come
sostiene Watzlawick, per avere la prova certa, bisognerebbe revisionare la
contabilità del castello al momento della morte del C., cercando la traccia dei
pagamenti effettuati per la sepoltura e l'erezione del monumento. Edizione in tre tomi basata sul manoscritto
conservato presso la BNF, con le varianti di testo relative a passi rimaneggiati
dall'autore. Attualmente è l'edizione critica di riferimento. Archivio Alinari,
su alinariarchives. Archivio Granger New
York Opere di LonghiC.Ubication:
Firenze Miti e personaggi della
modernità: Dizionario di storia, letteratura, arte, musica e cinema, edizioni
Bruno Mondadori,: Nell'arte. Di C. esistono alcuni ritratti, tra cui un dipinto
giovanile a opera del fratello, uno di Lon ghi che lo raffigura all'epoca della
maturità (Collezione Gritti, Venezia), e un terzo attribuibile a Mengs» (NDR:
oggi quest'ultimo è attribuito a Francesco Narici) Il quadro, conservato un tempo nella
collezione Gritti di Venezia, poi a Firenze, e qua riprodotto in bianco e nero
in una fotografia o una stampa eseguita forse negli anni '30, sarebbe stato
eseguito presumibilmente nel 1774 allorché C. rientrò a Venezia dall'esilio.
Sembra si trattasse di un lavoro a olio su tavola di dimensioni sconosciute donato
dall'artista a un membro della famiglia Gritti. Successivamente passò a Gritti
di Treviso, zio materno dell'avvocato Ugo Monis di Roma che lo ereditò dalla
sorella di Francesco Antonio, Maria Gritti Rizzi. Il quadro faceva ancora parte
della collezione di Monis. Molto dubbia l'identificazione del C. nel soggetto
ritratto che apparentemente non sembra superare la quarantina mentre, all'epoca
in cui dovrebbe essere stato eseguito il ritratto, C. era vicino ai
cinquant'anni. Una summa dell'iconografia casanoviana, che si compone di nove
opere di cui soltanto due di sicura attribuzione, è consultabile in C., la
passion de la liberté, catalogo della mostra organizzata dalla BNF,, Parigi,
Coédition Bibliothèque nationale de France/Seuil. Su Alessandro Longhi si veda
l'amplissimo studio di Paolo Delorenzi (consultabile su Ca' Foscari online). In
particolare vengono riassunte le vicende del ritratto con richiami
bibliografici a Ver Heyden De Lancey C., Les portraits de Jacques et de
François C., «Gazette des Beaux-Arts», Bernier G., Beau garçon, C.?, «L‟OEil», La
questione è stata oggetto di un cospicuo dibattito sul quale spesso ha pesato
il giudizio moralmente negativo circa la personalità dell'autore. Soprattutto
al primo apparire di opere critiche sulla questione, cioè alla fine
dell'Ottocento, primi del Novecento, si tendeva a separare la indiscussa
validità storica delle Memorie, nel loro complesso, dal giudizio di
riprovazione morale nei confronti dell'autore e dei passi delle memorie
ritenuti sconvenienti. Posizione questa ad esempio assunta da Benedetto Croce
il quale si occupò ripetutamente di personaggi e vicende casanoviane (si veda:
Personaggi casanoviani in Aneddoti e profili settecenteschi, ed. Sandron 1914)
pur definendo le Memorie "un libro osceno" (B.Croce, Salvatore di
Giacomo e il canto del grillo in "la Critica"). Col tempo il valore
storico e letterario cominciò ad avere sempre più numerosi sostenitori, come
Ettore Bonora il quale scrisse...fissati i loro limiti. i Mémoires restano un
libro eccezionale, rappresentativo quant'altri mai del mondo settecentesco, un
libro che, per la sua stessa ricchezza di materiali quanto pochi altri, può
rivelare a un lettore paziente lo spirito della vecchia società che la
Rivoluzione doveva distruggere (E.Bonora Letterati, memorialisti e viaggiatori
del Settecento). Fonte: T. Iermano, Le scritture della modernità, citato in. Emblematico a questo riguardo è il caso del
romanzo utopistico Icosameron (Praga) che costituì un tale insuccesso
editoriale da minare definitivamente la già non florida situazione finanziaria
del C.. Malgrado gli sforzi dei volenterosi sottoscrittori, si accumulò una
perdita di duemila fiorini, secondo una nota autobiografica rinvenuta a Dux, di
ottocento zecchini secondo una lettera a Pietro Antonio Zaguri. Cifre comunque
di grande rilievo che costrinsero l'incauto scrittore e improvvisato editore a
ricorrere a prestiti usurari, dando in pegno i pochissimi beni residui e
perfino capi di vestiario (Fonte: Elio Bartolini Vita di Giacomo C., ed.
Mondadori). Fonte: Elio Bartolini, Vita
di Giacomo C.. La redazione della Confutazione fu soltanto uno dei tanti
elementi della lunga strategia che condusse all'ottenimento del perdono da
parte delle autorità della Repubblica e il consenso al ritorno in patria
dell'esule, il che avvenne peraltro anni dopo. La pubblicazione dell'opera fu
sicuramente appoggiata da Girolamo Zulian il quale, pur privo di parentele
influenti, stava compiendo un percorso politico lusinghiero e attraverso il
sostegno a C. si aspettava di ottenere dai patrizi che lo appoggiavano, alcuni
dei quali molto influenti come i Memmo e il procuratore Lorenzo Morosini, di
essere aiutato a sua volta nel prosieguo della carriera. Zulian era anche
vicino ad ambienti massonici il che spiegava ulteriormente il suo agire. Sul
gruppo di patrizi che sosteneva le ragioni di C. ed era fautore del perdono si
veda Piero Del Negro, Il patriziato veneziano nell'Histoire de ma vie, in
L'Histoire de ma vie di Giacomo C., Mari
Si veda inoltre la lettera di C. a Zulian scritta da Lugano, Epistolario di Giacomo C.,
Chiara. Il brano, un ritratto in
prosa, fu intitolato dall'autore Aventuros. De Ligne riuscì a cogliere con
straordinaria esattezza e rendere con estrema obiettività gli elementi del
carattere del C.. Il passo può essere consultato qui (Mémoires et mélanges
historiques et littéraires, ed. Ambroise Dupont et C. Parigi). Su come C. esercitasse il suo fascino
sull'uditorio, con il racconto delle sue avventure, vi è una testimonianza
assai qualificata, per lo spessore del personaggio, che è stata lasciata da
Alessandro Verri il quale, in una lettera al fratello Pietro, inviata da Roma,
scrive:...V'è un certo uomo straordinario per le sue avventure, per nome il
signor C., Veneziano: egli è attualmente in Roma. Egli ha molto spirito e
vivacità; ha viaggiato tutta l'Europa...Fu posto nei camerotti a Venezia...gli
riuscì di fuggire...Egli racconta questa dolorosa anecdota della sua vita,
successagli quindici anni or sono, con tanto interesse e forza, come se gli
fosse accaduta ieri... Alla risposta del fratello, che avanzava dei dubbi sulla
veridicità del racconto, Alessandro replicava:...Ultimamente gliel'ho sentita
raccontare da lui stesso. Egli ha tutta l'apparenza di dire la verità: scioglie
le obiezioni, ed ha un'eloquenza naturale ed ha una forza di passione che
v'interessa infinitamente.. Fonte: Riccardo Selvatico Cento note per C. a Venezia,
Furio Luccichenti ed. Neri Pozza 1997.
La lettera, datata Dux 8 aprile 1791 è consultabile in: G. C., Storia
della mia vita ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag. 340 Alla morte di C., il manoscritto originale
dell'Histoire, unitamente a quattro saggi, passò a Carlo Angiolini che nel 1787
aveva sposato Marianna, figlia della sorella di Giacomo, Maria Maddalena.
Quest'ultima aveva lasciato Venezia raggiungendo la madre Zanetta a Dresda,
dove aveva sposato l'organista di corte Peter August. Il manoscritto e i
quattro saggi furono venduti all'editore Brockhaus. Il 18 febbraio, il ministro
francese della cultura, Frédéric Mitterrand, ha annunciato l'acquisto del
manoscritto dell'Histoire e degli altri carteggi di proprietà di Hubertus
Brockaus, da parte della Bibliothèque nationale de France. Molti studiosi hanno analizzato, parola per
parola, l'adattamento operato da Laforgue giungendo alla conclusione che si è
trattato di una vera e propria riscrittura. Un'interessante analisi della
questione è quella operata da Philippe Sollers (Il mirabile C.). L'autore
procede per exempla, indicando il passo com'era stato scritto da C. e la
versione di Laforgue, mettendo in luce la raffinatezza e la meticolosità con
cui era stata operata la trasformazione (o meglio manomissione) dell'intera
biografia, al duplice fine di ammorbidire i passaggi ritenuti troppo licenziosi
e modificare l'ideologia dell'autore, attenuando o eliminando le affermazioni
che mostravano, ad esempio, l'animosità nei confronti del popolo francese e dei
crimini (tali C. li giudicava) di cui si era reso responsabile durante la
rivoluzione, cosa diffusa tra molti intellettuali dell'epoca, anche non
espressamente conservatori comunque legati al vecchio mondo, (come Vittorio
Alfieri, nella Vita scritta da esso e nel Misogallo). G. C., Storia della mia vita, Mondadori. A questo proposito de Ligne scrive...le sue
memorie, il cui cinismo,tra l'altro, pur essendo il loro più grande pregio,
difficilmente le renderà pubblicabili. (C.J. de Ligne, Aneddoti e
ritratti), Illuminante, a questo
riguardo, il passo di una lettera inviata da C. a Giovanni Ferdinando Opiz in
cui lo scrivente dichiara: Per ciò che riguarda le Mie Memorie, più l'opera va
avanti più mi convinco che è fatta per essere bruciata. Da questo potete capire
che fin quando saranno in mie mani non verranno certo pubblicate. Sono di una
tale natura di non far passare la notte al lettore; ma il cinismo che vi ho
messo è tanto spinto che passa i limiti posti dalla convenienza all'indiscrezione
(Fonte: Epistolari di Giacomo C., Piero Chiara, ed. Longanesi et C.) Si veda in Giacomo C. tra Venezia e l'Europa,
Gilberto Pizzamiglio, Editore Leo O. Olschki G. C., Storia della mia vita,
Mondadori, Piero Chiara/ L'affermazione si legge nella prefazione dell'Histoire
(Jacques C. de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit
original,....Ed. Laffont). Quindi la scelta sarebbe stata orientata soltanto
dalla possibilità di maggiore diffusione dell'opera. Ma il pensiero dell'autore
viene chiarito, ampliato e approfondito nella cosiddetta “Prefazione rifiutata”
(Pensieri libertini, F. Di Trocchio), C. dice Ho scritto in francese, perché
nel paese dove mi trovo, questa lingua è più conosciuta di quella italiana;
perché, non essendo la mia un'opera scientifica, preferisco i lettori francesi
a quelli italiani; e perché lo spirito francese è più tollerante di quello
italiano, più illuminato nella conoscenza del cuore umano e più rotto alle
vicissitudini della vita. Come si vede, la scelta andava ben al di là di un
problema di diffusione. Stendhal fa,
nella sua opera, numerosi riferimenti a C. e all'Histoire cfr. Promenades dans
Rome, Paris, Levy/ Sul punto si veda anche Furio Luccichenti Il casanovismo fra
Ottocento e Novecento in L'histoire de ma vie di Giacomo C., Michele Mari cit.
in bibl. pag. 383. Foscolo, durante il
soggiorno londinese, recensiva opere di autori italiani. A proposito
dell'Histoire casanoviana scrisse, in due diverse occasioni (sulla Westminster
review dell'aprile 1827 e sulla Edinburgh review del giugno dello stesso anno),
che il protagonista era di pura fantasia e le vicende narrate completamente
inventate. Balzac si ispirò largamente
alle Memorie casanoviane utilizzando personaggi, nomi ed episodi per
l'ambientazione veneziana delle sue opere, come nel caso di Facino Cane o per
desumere spunti narrativi, come nel caso di Sarrasine. Sul punto si veda
Raffaele de Cesare Balzac e Manzoni e altri studi su Balzac e l'Italia,
Mondadori. Molte parti del libro, comprese le pagine indicate con relativa
note, sono consultabili on line. Sempre sui collegamenti tra l'opera
casanoviana e Sarrasine si veda L'histoire de ma vie di Giacomo C., Michele
Mari, cit. in bibl. pag. 95 nota 5 con rimando a J.R. Childs, C..
Biographie nouvelle, pag. 64. Ed. Jean-Jacques Pauvert, Paris 1962 Hofmannstahl nel 1898 è a Venezia e scrive al
padre:..mi sono comprato le Memorie di C. dove spero di trovare un soggetto. Il
soggetto fu il C. stesso, rappresentato nella commedia L'avventuriero e la
cantante (Fonte: L'avventuriero e la cantante con postfazione di Enrico
Groppali, ed. SE). Schnitzler scrisse
varie opere ispirate alla vita dell'avventuriero, tra cui Le sorelle ovvero C.
a Spa (ed. Einaudi) e Il ritorno di C. (ed. Adelphi). Hesse scrisse il racconto La conversione di C.
(ed. Guanda). Márai scrive il romanzo La
recita di Bolzano (ed. Adelphi), pubblicato a Budapest, che ha come
protagonista l'avventuriero veneziano.
Salvatore di Giacomo "C. a Napoli" in Nuova antologia. CROCE
(vedasi), Aneddoti di varia letteratura", Napoli. Di un cantastorie del
Settecento e di un luogo delle Memorie di Giacomo C." opera il cui
autografo di sei pagine è andato all'asta a Milano. Chiara cura per Mondadori l’edizione
italiana basata sul manoscritto originale delle Memorie, scrisse un saggio Il
vero C., Mursia e molti articoli sull'argomento. Scrive C. in una lettera all'Opiz Scrivo
dall'alba alla sera e posso assicurarvi che scrivo anche dormendo, perché sogno
sempre di scrivere. (Fonte: Piero Chiara Il vero C., Mursia). Tra le altre si veda Margherita Sarfatti, C.
contro Don Giovanni, ed. Mondadori, citata in.
La tesi è esposta in modo articolato da Francis Lacassin (Jacques C. de
SeingaltHistoire de ma vie. Ed. Robert Laffont, I, Préface). Di questo avviso Piermario Vescovo (Il mondo
di Giacomo C., ed. Marsilio 1998, citato in bibl.). Un'analisi particolarmente
approfondita si deve ad Andrea Fabiano il quale esamina, in dieci tesi, tutti i
motivi che rendono probabile la partecipazione (Giacomo C. tra Venezia e
l'Europa, G. Pizzamiglio, ed. Olschki). In sostanza è stato osservato che Da
Ponte e C. si conoscevano e frequentavano, che C. era certamente presente a
Praga nei giorni che precedettero la prima, che sia lui che Mozart erano
massoni, che una serie d'incidenti aveva procrastinato la rappresentazione,
costringendo a varie modifiche del testo per manifesta insoddisfazione di
alcuni cantanti, che C. era stato sempre molto vicino per gusti e
frequentazioni al mondo teatrale e autore egli stesso di opere di teatro quindi
perfettamente in grado di apportare le modifiche necessarie. Inoltre sembra
assai improbabile che, rientrato a Dux, si mettesse a ipotizzare varianti al
testo del libretto per puro passatempo.
Sull’argomento si veda lo studio di Furio Luccichenti, in
L'intermédiaire des casanovistes, Genève Année. In cui vengono minuziosamente
riferite le ricerche effettuate, senza esito, nell'Archivio vaticano. Lettere a G.C. raccolte da Aldo Ravà, Il mondo di Giacomo C., Venezia, Marsilio,
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Testo dell'Histoire de ma vie edizione 1880, su
www-syscom.univ-mlv.fr.Testo dell'Histoire de ma vie edizione integrale in
inglese, su hot.ee. Filosofi italiani. Aspetti poco noti della vita di C.
vengono portati alla luce della recente consultazione dei documenti inediti
custodii nell'archivio storico Waldstein a Praga. Emergono cosi' nuove
testimonianze che non solo confermano il suo straordinario fascino esercitato
sulle donne ma rivelano anche che il libertino veneziano ebbe in incontri
sessuali con uomini. Ad esempio si cita i ripetuti rapporti con un uomo in
maschera con cui fa un esplicito giocco erotico. Partendo da verifiche
sull'opera autobiografica ''Storia della mia vita'', in cui descrive, con la
massima franchezza, le sue avventure, i suoi viaggi e i suoi innumerevoli
incontri galanti. Si ipotizza che ha rapporti sessuali (o 'conversazioni') con
almeno una ventina di uomini. La prima testimonianza di un rapporto sarebbe
legata alla sua adolescenza, quando, in seminario, dove studia per diventare
prete, fu scoperto a letto con un uomo, cosa che costa a C. l'espulsione del
seminario. Ma il numero di uomini con cui C. e' stato a letto non e'
significativo. E' molto piu' importante sottolineare il *modo* in cui C.
racconta le sue avventure sessuali con un uomo. E' il primo a sottolineare la
qualita' del godimento, ad affermare l'idea che la comprensione del sesso e' la
chiave per una comprensione di se'. Oggi, dopo oltre un secolo di dottrina
psicoanalitica freudiana, cio' puo' apparire normale, ma nel secolo XVIII non
lo era affatto. E questo e' un grande merito di C.. L’ultimo amore di C.: Una
grande storia d'amorebooks.google.com › books· Bertolini · FOUND INSIDE ai
tempi di Padova e ai giorni delle lezioni dell'abate Gozzi, che l'aveva
istruito con amore per avviarlo al sacerdozio, e con un po' più di passione e
di attenzione se lo era portato a letto per iniziarlo alla pratica omosessuale
che C. si... – Grice: “Casanova was what I regard as a philosopher of sex. He fell for Bellino, an alleged castrato. In bed with him, Bellino tells him that his name was
Teresa and that her penis was an artificial phallus. Bellino had died years
before but people wanted a castrato, not a girl with a girl’s voice – and she
added that working on the side as a harlot, she found that most clients rather
she be a ‘he’!” -- Grice: “His first experience was with a Venetian nobleman;
his second one cost him the expulsion from the seminary – Altham alleges he
(Casanova, not Altham) slept with “at least” twenty males!” – Grice: “Altham’s
favourite is the description of the ‘erotical game’ as masked in Venice -- Giacomo
Casanova. Keywords.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casanova: conversazione sessuale, conversazione
e conversazione” – The Swimming-Pool Library. Casanova.
Luigi Speranza -- Grice e Casati: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Eurialo -- ovvero,
dell’amicizia – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo
romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like Casati;
he is from Milano, and therefore, as the Italians say, intelligent! – or
‘clever’” – His dissertation is on ‘shadow’ as used by Plato to explain that
there’s ‘man,’ and “man” and the idea of “man,” so the thing is the thing, but
the idea stands for the thing, and the expression stands for the thing that
stands for the thing! But he has also explored ‘amicizia’, as in the case of
Oreste’s alter ego, ‘Pilade,’ – also into the philosophy of sports – in sum, a
typical Renaissance man of a philosopher, as he should!” Studia a
Milano con Bonomi. Pubblica la raccolta di racconti filosofici Il caso
Wassermann e altri incidenti metafisici (Laterza). Si occupa di
fenomenologia dello spazio e degli oggetti. Analizzato la rappresentazione di
questi due elementi secondo il senso comune. Buchi e altre superficialità
(Garzanti), e Semplicità insormontabili (Laterza). Buchi e altre
superficialità è un tentativo di analizzare i diversi tipi di buco, superando
il paradosso di classificare un elemento che evoca l'assenza, il vuoto e il
nulla. Utilizza strumenti di filosofia della percezione, geometria, logica e
topologia, ma anche linguistica e letteratura. Un esperimento epistemologico
che dimostra come l'esperienza e il linguaggio quotidiani si trasformino quando
diventano oggetto di un'indagine filosofica e di una formalizzazione
scientifica. Un concetto che sembra semplice, di uso quotidiano, diventa
sfuggente e ambiguo. Tra i suoi principali contributi si annoverano la
teoria della filosofia come arte del negoziato concettuale; la teoria
'conversazionale' degli artefatti. Tra i contributi alla metafisica analitica:
la teoria dei suoni come eventi localizzati, la regione spaziale
immateriale, la struttura parte/intero totto -- -- nel dominio degli oggetti
materiali, la teoria del futuro "strizzato" nella metafisica
del tempo (cf. Grice/Myro). Studia il fenomeno percettivo delle ombre e il loro
contributo alla ricostruzione delle scene tridimensionali grazie alla scoperta
di doppie dissociazioni nella rappresentazione delle ombre (ombre corrette che
appaiono sbagliate, ombre sbagliate che appaiono corrette), scoprendo o
prevedendo svariate illusioni percettive (l'illusione "copycat",
l'illusione di Lippi, l'illusione della doppia ombra, la cattura delle ombre,
le ombre delle ombre, il mascheramento delle ombre, le ombre di oggetti non
materiali). Una parte della sua ricerca ha riguardato il modo in cui l'ombra è
stata rappresentata nella pittura ed è stata usata per il ragionamento geometrico,
in particolare in astronomia (La scoperta dell'ombra). Un'altra linea di
ricerca riguarda gli artefatti cognitivi. I risultati principali in questo
settore sono la prima e finora unica semantica formale per le mappe, una
sintassi e una semantica per la notazione musicale standard, la teoria dei
"micro crediti" nelle pubblicazioni scientifiche, e una teoria
generale dei vantaggi cognitivi degli artefatti rappresentativi. Autore di un
progettodenominato Wikilexper l'uso di strumenti wiki nella scrittura
normativa, in un contesto di democrazia partecipata. La sua Prima Lezione
di filosofia difende una concezione della filosofia come arte del negoziato
concettuale. Da questa tesi discende che la filosofia è molto diffusa nella
società e nella scienza anche al di fuori dell'ambito accademico che le è
proprio, che non esistono problemi filosofici fuori dal tempo e dalla storia,
che non c'è un canone filosofico né un modo canonico di insegnare la filosofia.
Altre opere: “L'immagine. Introduzione ai problemi filosofici della
rappresentazione, La Nuova Italia); Buchi e altre superficialità, Garzanti); La
scoperta dell'ombra, Arnoldo Mondadori Editore, Laterza); Semplicità
insormontabili: 39 storie filosofiche (Laterza); Il caso Wassermann e altri
incidenti metafisici, Laterza); Il pianeta dove scomparivano le cose. Esercizi
di immaginazione filosofica (Einaudi); Prima lezione di filosofia, Laterza);
Contro il colonialismo digitale: istruzioni per continuare a leggere,
Laterza); Dov'è il sole di notte? Lezioni atipiche di astronomia,
Raffaello Cortina); L'incertezza elettorale, Aracne Editrice); Semplicemente
diaboliche. 100 nuove storie filosofiche, Laterza); La lezione del freddo,
Einaudi). Isola di Arturo-Elsa Morante. Stramaledettamente logico. ELEMENTI DI
UNA TEORIA DELL' IMMAGINE. L'IMMAGINE COME OGGETTO MATERIALE. Paradigma e
definizione. Materialità e causalità. Soggettività e realismo. L'OGGETTO DELLA
VISTA E L'OGGETTO VISIVO. Le caratteristiche del mondo visivo. L'oggetto
visivo. Ombra. Casi limite: trasparenza, riflesso, specchio. Vedere un oggetti
materiali: la nozione di aspetto.Vedere una cosa muovendosi. Sguardo. IMMAGINE
E PERCEZIONE DELL' IMMAGINE. L'immagini come medio percettivio. Aspetto ed
immagine. L'Illusorio, il pre-sentativo, realismo. Le forme del realismo e il
problema dello spettatore. Intenzione, convenzione, somiglianza. In favore
della teoria della somiglianza Somiglianza e rappresentazione.
Alcuni casi limite. Contro la teoria della somiglianza. La complessità della
percezione dell'immagine. Immagine ed im- maginazione. Vedere-come, vedere-in.
LO SPAZIO NELL' IMMAGINE. Vivere nell'immagine. Direttrice, orizzonte, visione
canonica e scorciatura. La continuità degli spazi. Punti di vista da nessun
luogo. QUADRO E SCENA. Patologia dell'immagine: l'immaginazione e la storie
percettiva. L'INDICALITÀ E IL PROBLEMA DELL'AUTO-RITRATTO. Dizionario
iconografico. Quadro ed eticheta. Indicali. Verso una soluzione: lo specchio
nel quadro. Alcuni esempi. Quadro nel quadro. L'IMMAGINE NELL' IMMAGINE.
Contesto di interpretazione. Iterazione. Scena e immaginatori. Credenza
iterata. Cornice e finestra. Cornice ed aspetto. Relazioni causali. Iterazione
ridondante. I CONFINI DELL' IMMAGINE. Il Paradosso del vedere. L'implicatura di
Escher e il fondamento della rappresentazione. L'implicatura di Magritte:
rappresentare e immaginare. PROBLEMI APERTI. Gerarchia concettuale e gerarchia
estetica. IL PRIMATO DELLA RAPPRESENTAZIONE. L'annullamento dell'immagine nella
materialità. La geometria dell'espressione. La dissoluzione della
rappresentazione. Lo Stilo rappresentativo. Forma e contenuto; tema e mezzi di
esplicitazione. L'IMMAGINE E IL SEGNO. La metafora euristica del segno e la
comunicazione. Critica. Riferimento e generalità. La teoria che Grice e
Casati propongono può chiamarsi teoria meta-cognitiva dello spunto per la
conversazione -- ma ‘conversazione’ è qui un segna-posto per candidati
alternativi. La teoria di Grice e C. sostiene che un artefatto (segno
artificiale, non-naturale -- 'che p') e un oggetto prodotto con lo scopo
precipuo essere ri-conosciuto come emesso in base all’intenzione di profferire
una espressione che... – dove si può immaginare vari modi di riempire lo spazio
lasciato vuoto dai puntini di sospensione. Un modo di riempire lo spazio vuoto
è il seguente. Una emissione conversazionale è un oggetto con lo scopo precipuo
di essere riconosciuti come creati in base all’intenzione di creare un oggetto
che servisse a suscitare una qualche conversazione sulla loro produzione.
Cominciamo con lo sgombrare il campo da possibili equivoci. Un’obiezione
semplice è che “molte cose vengono create con lo scopo di suscitare una
conversazione, e queste non sono opere d’arte, come per esempio la produzione
di gesti che conducono alla disseminazione di pettegolezzi, o affermazioni
roboanti sulla stampa”. L’obiezione non coglie nel segno in quanto la teoria
metacognitiva dello spunto conversazionale non dice che le opere d’arte vengono
create con l’intenzione di suscitare una conversazione. Di fatto la teoria è
compatibile con l’ipotesi che le opere d’arte non vengano create con
l’intenzione di suscitare una conversazione. L’intenzione pertinente è
un’altra: è l’intenzione di creare oggetti che vengano riconosciuti (per
esempio, in virtù di certe caratteristiche fisiche) come creati allo scopo di
suscitare una conversazione. È irrilevante per la soddisfazione di questa
intenzione se vi sia un’intenzione di suscitare una conversazione, o se una
conversazione venga poi effettivamente suscitata 4. Vediamo subito anche alcune
conseguenze immediate, tenendo presente il fatto che i due competitori diretti
della teoria sono la teoria della comunicazione e quella dell’intenzione
artistica, laddove la prima compete sull’aspetto sociale, e la seconda in
quanto teoria intenzionale. Secondo la teoria metacognitiva dello spunto
conversazionale i prodotti artistici non servono per una “comunicazione”
semplice tra l’artista e il pubblico – non sono latori di “messaggi” nel senso
della teoria della comunicazione. Sono piuttosto oggetti che hanno un legame
preciso con l’attenzione, che devono attrarre (quindi, anche se sono oggetti
utilitari, devono far coesistere questo fatto con una sovrapposizione di altri
elementi che vanno al di là dell’uso), il tutto all’interno di un contesto
sociale in cui potrebbero venir usati come oggetto di discussione in quanto
sono riconosciuti come tali. Questa ipotesi permette di inquadrare alcuni dei
fatti poc’anzi elencati. Va notato che la teoria non dice che l’artista debba
creare l’opera sulla base della formulazione di un’intenzione di inserirsi in
una conversazione specifica (che è molto probabilmente quella comune nella sua
epoca), ma dice piuttosto che l’opera deve essere in grado di esser vista come
creata allo scopo di inserirsi in una conversazione qualsiasi. Questo fatto
impone dei vincoli importanti sulla struttura delle opere d’arte. Si tratta di
oggetti che devono portare dei segni chiari dell’intenzione che li ha animati.
La teoria metacognitiva sembra tagliata su misura per performances artistiche come
le opere di Duchamp. In realtà se la teoria è vera certe opere d’arte sono
particolarmente interessanti proprio perché rendono espliciti gli aspetti
impliciti di tutte le opere d’arte. La teoria spiega perché i prodotti
artistici riescono a sopravvivere al tempo (se ci si pensa bene, questa
sopravvivenza è un fatto molto strano, e comunque poco compatibile con l’idea
che i prodotti artistici contengano un messaggio.)5 Passano il test del tempo
perché la capacità di essere riconosciuti come creati allo scopo di suscitare
una conversazione non dipende dalle contingenze specifiche di questa o quella
conversazione, ma dai parametri generici che regolano la nostra capacità di
inserirci in una conversazione, di generarla, di mantenerla. Anche quando non è
più possibile conoscere i termini della conversazione in cui il prodotto
avrebbe inizialmente dovuto inserirsi come stimolo, resta comunque la
possibilità di recuperare il prodotto all’interno di una nuova conversazione.
In modo simile, le teoria spiega perché le opere d’arte passano il test dello
spazio, ovvero possono venir apprezzate da comunità che sono distanti dalla
comunità originale del creatore. La teoria spiega perché i prodotti artistici
hanno l’aspetto che hanno. I prodotti artistici devono risolvere svariati
problemi - massimizzare la novità - attrarre l’attenzione (essere
sufficientemente differenti da artefatti utilitari) - essere sufficientemente
complessi (per via della loro forma apparente, o per via della storia della
loro origine) da massimizzare la possibilità di venir utilizzati come spunti di
conversazione in quanto li si è riconosciuti come tali. La teoria spiega le
fluttuazioni di valore estetico ed economico dei prodotti artistici. Non basta
avere delle buone qualità per essere un buono spunto di conversazione: deve
anche esserci una conversazione per cui tale qualità può venir rilevata. La
teoria spiega perché i prodotti artistici sopravvivono, sono soggetti a effetti
di moda, e muoiono (laddove la maggior parte delle latre teorie impone cesure
irriconciliabili tra grande arte e arte demotica). La teoria conversazionale
spiega l'origine dell'arte e degli artefatti artistici. L’arte non è stata
inventata. Le opere d'arte sono state scoperte, nel senso che si è visto che
certi artefatti erano produttori di interazioni sociali e davano al loro autore
un credito che questi poteva riutilizzare in altre produzioni. Solo in seguito
si è cristallizzata l’intenzione di produrre oggetti che soddisfassero certi
requisiti. La teoria spiega perché gli oggetti utilitari possano essere opere
d'arte (come nel caso dell'architettura, che alcune estetiche puriste cercano
di espungere dal novero dell'arte.) Riprendo nel seguito ed espando alcuni
elementi da C. Spiega l'esistenza di gradi di artisticità, e del perché certe
cose siano considerate arte da alcuni, non arte da altri (sono predicati
estrinseci con un fondamento nel lavoro che l'artista ha profuso per rendere un
certo oggetto massimalmente “conversazionabile”). La teoria spiega perché gli
artisti amano parlare del loro lavoro e corredarlo di spiegazioni (questo è
particolarmente arduo da spiegare in una teoria della comunicazione o
dell’espressione). La teoria spiega perché i quadri hanno le etichette e i
pezzi di musica dei titoli. La teoria spiega perché le opere d’arte vengono
acquistate senza alcun riguardo per l’autore, come inviti alla conversazione
scollegati dalla persona dell’autore. La teoria è compatibile con svariate
strategie che possono venir messe in atto dagli artisti perché l’intenzioe che
è alla base dell’opera vada a buon fine: sospensione delle routines (Bullot),
esposizione in spazi privilegiati, ecc. Per finire, dato che la teoria ipotizza
che gli artisti producano con un occhio di riguardo alle possibili
conversazioni sulla loro opera, questo permette di risolvere, in modo del tutto
immediato, il problema dell’unità del genere opera d’arte. Le opere d’arte sono
oggetti creati con lo scopo precipuo di rendere possibile una conversazione. La
clausola principale è metarappresentazionale: l’autore deve avere un’intenzione
appropriata di creare un’opera che sia riconoscibile come... La clausola
esclude casi in cui certi artefatti siano di fatto moneta per lo scambio
conversazionale, come le teorie matematiche, senza essere opere d’arte. Dove
interviene lo studio della cognizione nella teoria conversazionale? Nel fatto
che non tutti i soggetti sono riconoscibili come creati allo scopo di fornire
spunti per la conversazione. Studiare i vincoli normativi sul successo
dell’intenzione meta-conversazionale permetterà di fare interessanti predizioni
empiriche sul contentuto e la forma degli artefatti astistici. Un progetto di
ricerca, una antropologia della visita museale, potrebbe essere un primo passo
in questa direzione. Che cosa dice chi passa davanti a un quadro in un museo?
Conclusione La teoria metacognitiva dello spunto conversazionale rappresenta
un’ipotesi che cerca di rendere giustizia dell’unità delle nostre intuizioni su
che cosa è un’oggetto artistico di fronte all’estrema varietà degli oggetti
artistici e all’estrema varietà delle risposte che tali oggetti suscitano.
Anche se è una teoria che si situa nella regione della dipendenza della
risposta, non non è una teoria della riposta estetica – le risposte estetiche
sono un tipo di risposte agli oggetti artistici, e si applicano anche a oggetti
non artistici. Non è quindi una teoria del bello, come del resto ci si dovrebbe
aspettare di fronte al fatto che i giudizi estetici possono variare a fronte
del 19 riconoscimento che quello che alcuni giudicano bello e altri brutto
resta un’opera d’arte. Un altro fattore importante di questa teoria è che
considera le opere d’arte come oggetti creati con una funzione specifica, e la
cui forma dipende da questa funzione; una funzione che richiede un’intuizione
di controllo il cui contenuto è sociale e metacognitivo. Anche se la teoria
metacognitiva non non è certamente l’ultima parola su che cosa fa di un certo
oggetto un’opera d’arte, si tratta di un’ipotesi che mi sembra sufficientemente
articolata per fare predizioni empiriche precise (per esempio, riconoscere un
oggetto come opera d’arte attiverebbe aree cerebrali deputate alla cognizione
sociale). Queste predizioni non sono però al momento inquadrate in un’ipotesi
comprensiva dei meccanismi soggiacenti: si potrebbe certo sostenere che esiste
uno pseudo-modulo per le intuizioni artistiche che recluta componenti sociali e
componenti percettive. Tuttavia la struttura e la natura degli pseudo-moduli
richiede una considerazione metodologica a sé stante. Casati, R.,“L'unità del
genere opera d'arte. Rivista di Estetica. Formaggio. L'arte come idea e come
esperienza. Milano: Mondadori. Zeri, F., intervistato su La repubblica. Rome’s national epic displays a tendency to treat sex and love. The pair
of Trojan warriors Nisus and Euryalus are cast in the roles of erastes and
eromenos. Virgil’s narrative of the two valorous young Trojans has, of course,
various thematic functions and will have resonated in various ways for a roman
readiership. Here I focus on only one aspect of the narrative, namely the
eroticization of their relationship, in he interests of esplong wha this text
might suggest about the pre-conceptions of its Roman readership. See Makowski
for an overview of ancient and modern views of the pair, along with arguments
for describing them as erastes and eromenos on the Greek model (Makowski finds
particular parallels with Plato’s Symposium). For literary discussions of Nisus
and Euryalus that take as their starting point the erotic nature of their relationship
see Williams, Lyne, and Hardie). Bellincioni, ‘Eurrialo’ in Enciclopedia
Virgiliana (Roma), observing that Virgil has added tdhe motif of their
friendship to his Homeric models summarses thus: “L’AMORE CHE UNISCE EURIALO E
NISO E UN SENTIMENTO INTERMEDIO FRA L’AMCIZIA E LA PASSIONE PUR NELLA SUA
PUREZZA, TENDE ALL’EROS. COMNQUE E PASSIONE CHE SI PONE FINE A SE STESSA E NON
SI SUBIRDINA A PRINCIPI MORALI, COME LA SLEALTA SPORTIVA DI NISO NEL 5o
CHIARAMENTE DIMOSTRA. Bellincione cites Colant, ‘Le’peisode
de Niuses et Euryale ou le poeme de l’amitie, LEC, 19, 89-100. IThe pair of Trojan warriors Nisus and Euryalus are cast in the roles of
erastes and eromaneos. Virgil’s narrative of the two valourus young Trojans
has, of course, various thematic functions and will have resonated in various
ways of a Roman readership. Here I focus on only one aspect of the narrative,
namely the eroticiation of their relation Niso ed Eurialo are first introduced
in the funeral games in Book 5. ‘Nisus et Euryalus primi, Eurialus forma
insignis viridique iuventa, Nisus ammore pio pueri’ (Vir. Aen.). ‘First came
Nisus and Euryalus: Euryalus outstanding for his beauty and fresh yourhfulness,
Nisus for his deveted love for the boy’. During the ensuing footrace, Nisus
indulges ia a questionably bit of gallantry: starting off in first place, he
slips and falls in the blook of sacrificed heifers, then deliberately trips the
man who was in second place, in order the Euryalus may come up from behind an
win first place. Non tamen Euryali, non ille oblitus amorum (Vir. Aen. -- ‘He
was not forgetful of his love Euryalus, not he! (The plural AMORES is
ordinarily used of one’s sexual partner, one’s LOVE in that sense 0- Liddell
Scott ic. Virgil himself uses the word in the plural to refer to a bull’s mate
at Georgics. Indeed, Servius, ad Aen. writing in a different cultural climate,
was worried by precisely thiat fact, observing that OBLITUS AMORUM AMARE NEC
SUPRA DICTIS CONGRUE: AIT ENIM AMORE PIO PUERI, NUNC AMORUM, QUI PLURALITER NON
NISI TURPITUDINEM SSIGNIFICANT. Virgil’s phrase, OBLITUS AMORUM contradicts his
earlier AMORE PIO PUERI because AMORES in the plural ‘can only SIGNIFY
SOMETHING DISGRACEFUL’ Whereas the description of Nisus’s love for the boy as
PIUS apparently precludes, for Servius, PHYSICALITY. ‘ The two Trojans reappear
in a celebrated episode from Book 9, when they leave the camp at night in an
effort to break through enemy lines and reach Aeneas. They succeed in killing a
number of Italian warriors, ut eventually are themselves both killed. Euryalus
first and then his companion, who, after being morally wounded, flings himself
upon Euryalus’s body. The episode beings with this description of the pair.
Nisus erat portae custos, acerrimus armis, Hyrtacides, comitem Aenea quem
miserat Ida venatrix iaculo celerem levibusque sagittis; et iuxta comes
Euryalus, quo pulchrior alter non fuit Aenaedum Troiana neque induit arma, ora
puer prima signans intonsa iuventa. His amor unus erat
pariterque in bella ruebant. Vir. Aen. Nisus, son of
Hyrtacus was the guard of the gate, a most fierce warrior, swift with the
javeling and with nimble arrows, sent by Ida the huntress to accompany Aeneas.
And next to him was his companion Euryalus. None of Aeneas’s followers, none
who had shouldered Trojan weapons, was more beautiful: a boy at the beginning
of youth, displaying a face unshaven. These two shared one love, and rushed
into the fightin side by side. Virgil’s wording is decorous but the emphaisis
on Euryalus’s youthful beauty and particularly the absence of a beard on his
fresh young face, as well as the comment that the THWO SHARED ONE LOVE and
fought side by side – imagery that is repeated from the scene in Book 5 and is
continued throughout the episode in Book 9 – is noteworth For Euryalus’s youth, cf. 217, 276 (puer) and
especially the evocation of his beauty even in death (433-7, language which
recalls the erotic imagiery of CATULLUS and Sappho – Lyne, For their INSEPARABILITY, cf. 203: TECUM
TALIA GESSI and 244-5 (VIDIMUS … VENATU ADSIDUO. Note: NEVE HAEC NOSTRIS
SPECTENTUSR AB ANNIS QUAE FERIMUS, 235-6, CONSPEXIMUS. 237. how Nisus gallantly
presents his plan to the assembled troops NOT AS HIS OWN Bt as his AND
EURYALUS’S (235-6: Likewise the question
that Nisus asks Euryalus when he first proposes the plan t o him has suggestive
resonances: DINE HUNC ARDOREM MENTIBUS ADDUNT EURYALE, AN SUA CUIQUE DEUS FIT
DIRA CUPIDO? Aen 9 184-5. Cf. Makowsky, p. 8 and Hardie, p. 109. For the phrase
DIRA CUPIDO, compare DIRA LIBIDO at Lucretius (De natura rerum, concerning
men’s desire TO EJACULATE and muta cupido. Euryyalus, is it the gods who put
this yearning (ardor) into our minds, or does each person’s grim desire (dira
cupido) become a god for him?” In addition to its ostensible subject (a desire
to achieve a military eploit), Nisus’s language of yearning and desire could
also evoke the dynamis of an erotic relationship. So too the poet’s depiction
of Nisus’s reaction to seeing his young companion captured by the enemy is
notable for its emotional urgency and its portrayal of Nisus’s intensely
protective for for the youth. Tum vero exterritus,
amens, conclamat Nisus nec se celare tenebris amplius aut tantum potuit
perferre dolorem. Me, me, adsun qui feci, in me convertite ferrum, o Rutuli,
mean fraus omnis, nihil iste nec ausus nect potuit, caelum hoc et conscia
sidera testor, tantum infeliciem nimium dilet amicum, VIRGILIO (si veda), Æn. Then, terrified out of his mind, unable to hid himself any longer in the
shadows or to endure such great pain, Nisus shouts out: “ME! I am the one who
did it! Turn your weapons to me, Rutulians! The deceit was entirely mine, HE
was not so bold as to do it; he could not have done it. I swear by the sky
above and the stars who know: the only thing he did was to love his unahappy
friend too much. There is, in short, good reason to believe that Virgil’s Nisus
and Euryalus, whose relationship is described in the circumspect terms
befitting epic poetry, would have been UNDERSTOOD by his Roma readers as sharing
a SEXUAL bond, much like the soldiers in the so-called SACRED BAND of Thebes
constituted of erastai and their eromenoi in fourth-century B. C. Greece. Note
also that “meme … figis?” seems to echo Dido’s words to Aeneas at 4.314 (mene
fugis?. So too Makowski and 9.390-3 )Euryale infelix, qua te regione reliqui?
Quave sequar? Rurus perplexum iter omne revolves fallacis sylvae simul et
VESTIGIA RETRO observata legit dumisque silentisu errat) might recall the scene
were Aeneas loses Creusa a t the end of Book 2. Haride p. 26) points to
parallels with the story of Orpheus and Euryide in the Georgics, as well as as
to that of Aeneas and Crusa in Aeneid 2. For the Sacred Band of Thebes, see
Plut, Amat. Pelop, Athen. and the probable allusion at Pl. Smp. When Nisus,
mortally wounded, flings himself upon his companion’s lifeless body to join him
in death, the narrator breaks forth into a celebrated eulogy. Tum super
exanimum sese proiecit amicum confossus, placidaque ibi demum morte quievit. Fortuanati
ambo! Si quid mean carmina possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo,
dun domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus
habebit. (Vir. Aen.). Then he hurdled himself, pierced through
and through, upon his lifeless friend, and there at last rested in a peaceful
death. Blessed pair! If my poetry has any power, no day shall ever remove you
from the remembering ages, as long as he house of Aenea dwells upon the
immovable rok of the Capitol, as thlong as the Roman father holds sway. The praise
of the two loving warriors joined in death ould hardly be more stirring – cf.
Wiliams, 205-7, Lyne, 235, for their ‘elegiac union of LOVERS IN DEATH’ he
adduces Pr0.18 – AMBOS UNA FIDES AUFERET, UNA DIES, and Tibull. 1 1 59-62 as
parallels. op. 2.2, and the language coulnt NOT BE MORE ROMAN. And Virgil’s
words obviously made an impression among those who wished to EXPRESS FEELINGS
OF INTIMACY AND DEVOTION IN PUBLIC CONTEXTS, for we find his language echoied
in funerary instricptions for a husband and his wife as well as for a woman
praised by her male friend. The inscription on a joint tomb of a grandmother
and gradauther explicitly likens them to Nisus and Euryalus. CLE = CIL, husband and wife: FORTUNATI AMBO – SI
QUA EST, EA GLORIA MORTIS QUO IUNGIT TUMULUS, IUNXERAT UT THALAMAS; CLE 491 =
CIL: a woman praised by her male friend: UNUS AMOR MANSIT PAR QUOQUE VIDA
FIDELIS. Cf. Aen. 9. 182. HIS AMOR UNUS ERAT PARITERQUE IN BELLA RUEBANT.
CLE granddaumother and granddaughter:
SIC LUMINE VERO, TUNC IACUERE SIMUL NISUS ET EURIALUS. So too Senece quotes the lines as an
illustration of the fact that great writers can immortalize people who
otherwise would have no fame: just as Cicero did for Atticus, Epicurus for
Idomeneus, and Seneca himself can do for Lucilius (an immodest claim but one
that was ultltimately borne out), so ‘our Virgil promised and gave and
everlasting memory to the two,’ whom he does not even bother to name, so
renowned had the poet’s words evidently become (Senc. Epist. 21.5
VERGILIUS NOSTER DUOBUS MEMORIAM AETERNAM PROMISIT ET PRAESTAT; FORUTATI AMBO
SI QUI MEA CARIMA POSSUNT. It is revealing that sometimes
Porous boundary in Roman tets between wwhat we might call friendship and
eroticism among males – and overlaps I hope to discuss in another context –
that Ovid citest Nisus and Euryalus as the ULTIMATE EMBODIMENT OF MALE
FRIENDSHIP, putting them in the company of THESEUS AND PIRITUOUS, ORESTES AND
PYLADES ACHILESS AND PATROCLUS, Tristia but the relationship between ACHILEES
AND PATROCLUS, at least, was openly described as including a sexual element by
classical Greek writers (see n. 92), and with characteristic cluntness by
Martial (11.43), wh cjites the pair as an illustration of the special pleasures
of anal intercourse. The relationships between Cydon and CClytius, Cycnus and
Phaethon, and Juupiter and Ganymede (on Eneas’s shield) all demonstrate that
pedersastic relationships enjoy a comfortable presence in the world of the
Aeneid. Niusus and Euryalus are thus HARDLY ALONE. Some scholars have even
detected an EROTIC ELEMNET in Virgil’s depiction of the relationship between
Aeneas and Evander’s son Pallas. See e. g. Gillis, Putnam, and Moorton. Erasmo
and Lloyd have independently described erotic elements in the relationship
between the young Evander and Anchises, a relationship that, they argue, is
then replicated in the next generation, with Pallas and Aeneas. But their relationship is more complex than
the rather straightforward attraction of Cydon for beautiful boys, of Cycnus
for the well-born young Phaethon, and even of Jupiter for Ganymede. For while
those couples conform unproblematically to the Greek pedrerastic model (one
partner is older and dominant, the other young and sub-ordinate), Nisus and
Eurialus only do so AT FIRST GLANCE. AS the poem progresses they are
transformed from a Hellenic coupling of Erastes and eromanos into a pair of
ROMAN MEN (VIRI). The valosiging distinctions inherent in the pederstaist
paradigm seem to fade with the Roman’s poet remark that the rwo rushed into war
side by side (PARITER – PARITERQUE IN BELLA RUEBANT Vir Aen 9. 182), and they
certainly DISAPPEAR when the old man Aletes, praising them from their bold
plan, addresses the TWO as VIRI (QUAE DIGNA, VIRI, PRO LAUDIBUS ISTIS, PRAEMIA
POSSE REAR SOLVI, 252-3, whe an enemy
leader who catches a glimpse of them shoults out, “Halt, men!” (STATE VIRI,
376), and most poignantly, when the sight of the two “MEN’S” severed heads
pierced on enemy spears stuns the Trojan soldiers. SIMUL ORA VIRUM PRAEFIXA MOVEBANT NOTA NIMIS MISERIS ATROQUE FLUENTIA TABO
471-2 . In other words, although Euryalus is the junior
partner in this relationship, not yet endowed with a full beard and capable of
being labeled the PUER, his actions prove him to be, in the end, as much of a
VIR, as capalble of displaying VIRTUS – as his older lover Nisus. There is a
further complication in our interpretation of the pair, and indeed all the
pederstastic relationships in the Aeneid. Virgil’s epic is of course set in the
MYTHIC PAST and cannot be taken as direct evidence for the cultural setting of
Virgil’s own day. Moreover, the poem is suffused with the influence of Greek
poetry. Thus, one might argue that the rather elevated status of pedersastic
relationships in the Aeneid is a SIGN merely of the DISTANCES both cultural and
temporal between Virgil’s contemporaries and the character s of his epic. Yet,
while the influence of Homer is especially strong in these passages of battle
poetry (Virgil’s passing reference to Cydon’s erotic adventures echoes the
Homeric technique of citing some touching details about a warrior’s past even
as he is introduced to the reader and summarily killed off), is is a
much-discussed fact that there are no UNAMIBUOUS, diret references in the
Homeric epics to pedersastic relationships on the classical model. The
relationship between ACHILLES AND PATROCLUS was understood by later Greek
writers to have a seual component see e. g. Aesch. F.r. Nauck – from the Myrmidons), Pl. Symp.
180a-b, Aeschin. 1.133, 141-50, Lyne, p. 235, n. 49, crediting Griffin, adds
Bion 12 Gow. But the test of the Iliad itself, while certainly suggesting a
passionate and deeply intense bond between the two, does not represent them in
terms of the classical pederastic model. See further, Clarke, Achiles and
Patroclus in Love, Hermes, Sergent, and Halperin. Virgil might thus be said to
‘out-Greek’ Homer in his description of Cydon. G. Knauer, Die Aeneis und Homer,
Gottingen, cites no Homeric parallel for these lines. And yet the pederastic
relationships in the Aeneid occur NOT AMONG GREEKS but rather among TROJANS AND
ITALIANS, two peoples who are strictly distinguished din the epic from the
Greeks, and who,more importantly, together constitute the PROGENTIROS of the
roman race. Cf. Turnus’s rhetoric based on sharp distinctions among the
Trojans, Greeks, ndnd Italians, and the weighty dialogue between Jupiter and
June where it is agreed that Trojans and Italians will become ONE RACE.
Virgil’s readers found pederstastic relationships ina n epic on their people’s
orgins, and temporal gap or no, this would have been unthinkable in a cultural
context in which same-se relationships were universally condemned or deeply
problematized. But is it still not the case that, since Nisus and Euryalus are
freeborn Trojans, Virus, and perhaps also Aeneas and Pallas. Significalntly,
though, the arua of a male-female relationship in the Aeneid, namely the doomed
love affair of Aeneas with the would-be univira Dido. In other words, while a
MALE-MALE relationship that corresponds to what would among among Romans of
Virgin’s own day be considered stuprum is capable of being heroized in the
epic, a male-female relationhship that th etet implicitly marks as a kind of
stuprum is not. This tywo types of relationships in the brates, even
glamorizes, a relationship that in his own day would be labeled as instance sos
stuprum? Here the gap between Virgil’s time and the mythis past of his poem has
significance. While, due toe o their freeborn status, analogues of to Nisus and
Euryalus in Virgil’s OWN DAY could not have found their relationship SO OPENLY
CELEBRATED, they did find HEROISED ANCESTORS IN NISUS AND EURYALUS, Cydon, and
Clutis. And perhaps also Aeneas and Pallas. Significantly, though, the aura of
the mythic past does not extend so far as to conceal the moral problematization
of a male-female relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of
Aeneas with the would-be univiria Dido. In other words, while a male-male
relationship that corresponds to what would among Romans of Virgil’s own day be
considered stuprum is capable of being heroized in thee pic, a male-female
relationship that the tect implicitly marks as a kind of stuprum is not. The
issue is complex. Dido is of course neither Roman nor Trojan, and thus at first
glance Aeneas’s relationship with her does not constitute stuprum. But since
Dido’s experiences are, in important ways, seen though a Roman filtre, above
all, the commitment to her first husband that makes her a prototypical univira,
her involvement with Aneas (aculpa, constitutes an offense within the moral
framework poposed by the text in a way that the relationship between Nisus and
Euryalus does ot. This distintion revelas something about the relative degrees
of problematization of the two types of relationships in the cultural
environment of Virgl’s readership. ‘Blessed pair! If my poetry has any power no
day shall ever remove you from the remembering ages, as lon as the house of
Aeneas dwells upon the immommovable rock of the Capitol, as long as the Romans
father holds sway.’ One can hardly imagine such grandiose prise of an
adulterous couple ina Roman epic!” Grice: “Niso ed Eurialo are presented as the
epitome of friendship along with Achilles and Patroclus, Ercole e Idi, and
Oreste e Palade. Luigi
Speranza, "Gilbert Proebsch e George Passmore", Luigi Speranza,
"Kosuth" -- Luigi Speranza, "Keith Arnatt" -- Luigi
Speranza, "Unità etica ed unità emica" -- Luigi Speranza,
"Fenomenologia" -- Luigi Speranza, "Concettualismo".
Roberto Casati. Keywords: Eurialo e Niso; ovvero, dell’amicizia, “la
conversazione come arte del negoziato”; teoria conversazionale dell’artifatto,
segno, comunicazione, imagine, intenzione, Grice, Ricominiciamo da capo –
logico, stramaledettamente logico – implicatura come stramaledettamente logica --
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casati” – The Swimming-Pool Library.
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