Luigi Speranza -- Grice
ed Allievo: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola
di San Germano Vercellese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di
Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (San Germano Vercellese). Filosofo
piemontese. Filosofo italiano. San Germano Vercellese, Vercelle, Piemonte. Grice:
“I love Allievo; of course he reminds me of all those scholars back in the day
that I relied on for my philosophising on ‘intending’ – since isn’t this an act
of the ‘soul’ – I mean Stout, and the rest – I once was a Stoutian, and then
for better or worse, I became a Prichardian!” -- Grice: “Now Oxford never knew what to do with
people like Stout – surely ‘the Wilde’ readership was a possibility, but Lit.
Hum. and the Sub-Faculty of Philosophy always considered ‘mind’ – (as in the
journal, ‘a journal of psychology and philosophy’) secondary to metaphysics! We
thought The Aristotelian Society had more prestige than the Mind Association,
and we still do!” – Grice: “So Allievo, like myself, was fascinated by Stout
and Spencer and Bain and – in the continent, closer to Allievo, and always
having more prestige than the barbiarian islanders! – Grice: “Add to that the
charm of his italinanness versus the Germanic coldness of a Wundt – his name is
unpronounceable to Allievo – and you get to the heart of his philosphising on
‘psicofisiologia’ – where the ‘io’ meets the ‘tu’ – and his focus, having
studied the philosophical tradition in Rome – to ‘educatio fisica’ – which
obviously needs to be psicofisica!” -- Wundtan d Flechner!”. Frequenta la facoltà di
filosofia di 'Torino e segue l'insegnamento di Rayneri, filosofo di matrice
rosminiana. Laureatosi, insegna a Novara e Domodossola -- dove conosce SERBATI
(si veda), Ivrea e Ceva. Collabora alla Rivista contemporanea di Chiala. Arriva
alla cattedra a Torino. Spiritualista, e propugnatore del cosiddetto sintesismo
degl’esseri, principio secondo il quale nessuna parte di un ente può sussistere
divisa dal tutto dell'ente stesso, e nessun essere può sussistere né operare
diviso dagl’enti che costituiscono l'universo. Socio dell'Accademia delle
scienze di Torino. Critico dell'hegelismo, A. sostene doversi rifare alla
tradizione filosofica spiritualista per combattere sia la dottrina hegeliana
che quella positivista si sta in diffondendo. Si dedica a ricerche di
antropologia. E autore anche di un saggio di vaste proporzioni dedicata a Il
problema metafisico studiato nella storia della filosofia, dalla scuola ionica
a Bruno (Torino). Altre saggi: “Saggi filosofici”; “Studi antropologici”;
“L’uomo e il cosmo”; Si espone e si
disamina l'opinione di Brothier. Si espone e si giudica la teoria di Hirn. Segue
l'esposizione critica della teoria di Hirn. Büchner. Si pone la questione e si
accenna il come risolverla. Si accenna la differenza tra l'uomo ed il bruto. Concetto
definitivo dell'antropologia. Valore ed importanza dell'antropologia. Del
metodo in antropologia. Divisione dell'antropologia. Concetto della persona
umana. Analisi della persona umana. La virtù intellettiva. Della coscienza
personale. La coscienza di sè e la conoscenza esteriore. Individualità
soggettiva della conoscenza esteriore. Universalità oggettiva della conoscenza
esteriore -- Il potere animatore ed affettivo -- Del corpo umano in sè e nelle
sue attinenze col potere animatore -- L'organismo esanime ed il potere
animatore -- Unità sintetica della persona umana TEORICA DELLA VITA UMANA -- La
vita latente anteriore alla nascita -- L'infanzia -- Le prime origini dei
problemi psico-fisiologici. L'attività volontaria -- La suprema libertà dello
spirito -- Varie forme della personalità umana derivanti dall'attività
volontaria -- Attinenze tra la facoltà conoscitiva e l'attività volontaria --
Corrispondenza dell'organismo col potere affettivo -- Trapasso dalla teorica
dell'essenza umana alla teorica della vita umana -- Il corso della vita umana
-- Della conoscenza esteriore -- Mente e corpo distinti ed uniti nella persona
umana -- La gioventù -- La virilità -- I poteri della vita -- Teorica
della sensitività -- L'atteggiamento esteriore dell'organismo ed il potere
animatore -- Concetto comprensivo della persona e dell'essenza umana La vita
maschile -- La vecchiaia -- Delle potenze in riguardo all'oggetto -- Delle
potenze in rapporto col soggetto umano -- Delle potenze umane in particolare --
Specie del potere affettivo -- Del potere animatore -- Distinzione essenziale
tra la mente e l'organismo corporeo -- Unione personale della mente
coll'organismo corporeo -- Del potere affettivo -- Carattere universale ed
ufficio del sentimento -- Concetto e forme della vita umana -- La vita propria
e la vita comune -- Divisione del corso temporaneo della vita ne'suoi periodi
fondamentali -- Durata della vita umana -- Dei periodi della vita umana in
particolare -- Considerazioni generali in torno i periodi della vita -- La vita
oltremondana -- Delle potenze umane in generale -- Delle potenze considerate
nel loro sviluppo -- La vita fisica e la vita mentale -- Del senso fisico e
delle sensazioni -- Del senso spirituale e de' sentimenti -- Del
sentimentalismo -- Dell'istinto -- Della percezione sensitiva -- Della fantasia
sensitiva -- Teorica dell'intelligenza -- Della speculazione e della memoria. Dell'intelligenza
in riguardo al soggetto conoscente -- Dell'intelligenza in riguardo all'oggetto
pensabile -- L'esperienza e -- L'intelligenza umana e LA PAROLA --
Dell'immaginazione. Concetto generale dell'immaginazione. Specie
dell'immaginazione. Efficacia dell'immaginazione. Delle potenze estetiche.
Teorica della volontà. Potere della volontà. L'operare della volontà. La
libertà del volere. TEORICA DEL CARATTERE UMANO E DEL TEMPERAMENTO -- Ragione e
genesi del carattere -- Concetto generale del carattere id. Dell'intuizione. Dell'attenzione
intermedia tra l'intuizione e la riflessione -- Della riflessione --
Dell'istinto in ordine all'oggetto -- Trapasso dalla teorica della sensitività
alla teorica dell'intelligenza -- Concetto generale dell'intelligenza --
Dell'intelligenza in riguardo al soggetto pensante -- La libertà del volere e
la scuola positivistica -- Critica del determinismo positivistico -- La libera
volontà e l'ambiente Art.7. Sintesismo dei poteri della vita -- Del senso --
Dell'istinto rispetto allo scopo la ragione. Dell'intelligenza in riguardo
all'oggetto conosciuto -- Del carattere in ispecie -- Del carattere riguardato
nella sua fonte -- Del carattere rispetto alle potenze ed alle forme
dell'attività umana -- Del carattere morale -- Il carattere umano nella specie,
nelle stirpi, nelle nazioni -- Del temperamento -- De'temperamentiinparticolare
-- De'temperamenti in rapporto fra di loro “Studi pedagogici”; “Attinenze
tra l'antropologia e la pedagogia”; Il
linguaggio e la scrittura -- Dell'attenzione -- Dell'immaginazione sensitiva --
Dell'arguzia -- Della riflessione -- La memoria ed il ricordo -- Educazione del
senso del bello -- La Levana di Giovanni Paolo Richter – Cenni biografici
dell'autore --- Concetto generale -- Importanza ed efficacia dell'educazione --
La Levana o Scienza dell'educazione -- Appendice: Dell'educazione fisica
infantile -- Dell'educazione della donna. “Esame dell'hegelianesimo”; “Il ritorno
al principio della personalità”. Corvino, Dizionario biografico degli Italiani alla
voce corrispondente in F. Corvino, Op.
cit. ibidem A., su accademia delle scienze. A., su
Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Giuseppe A.,
in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. A. in Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Opere di Giuseppe A., su open MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di
Giuseppe A., Filosofia Filosofo Filosofi San Germano Vercellese Torino Membri
dell'Accademia delle Scienze di Torino. L'intelligenza
umana e la PAROLA (dal greco, parabola) sono due termini,che mostrano l'uno
verso l'altro armonica corrispondenza e vicendevolmente si spiegano e
s'illustrano, come lo spirito ed il corpo nell'uomo. Il conoscere ed il sapere
umano ritrae dalla ‘parola’, che lo riveste, una peculiare impronta, che lo
distingue dal conoscere proprio degli spiriti puri, e la lingua rivela la tempra
mentale. L'intelligenza infantile si schinde dal suo germe in grazia della
‘parola’, con essa va via via sviluppandosi e progredendo, con essa ha comuni
le vicende e le fasi. Infatti, la ‘parola’ torna necessaria all'effettivo
pensare, all'effettivo conoscere. Finchè il pensiero non si concreta nella ‘parola’,
ed in essa per così dire non s'incorpora, nès'incarna, è inconsistente, sfuggevole,
vago, non per anco formato, ma solo rudimentale ed appena sbozzato. Le
percezioni, che si hanno degli oggetti esterni mercè isensi, sono confuse,
indistinte, e si dileguano col dileguarsi degli oggetti percepiti. Ben si possono
in certo qual modo fissare colle immagini, le quali rimangono anche nell'assenza
degli oggetti materiali. Ma le immagini sono pur sempre *individuali*, come gli
oggetti, cui si riferiscono, e per di più sfuggevoli e vane.Veri pensieri e
vere cognizioni propriamente dette non si hanno se non mercè la ‘parola’. E e
questa torna tanto più necessaria, quanto più la idea da SIGNI-ficare (o
segnare) e generale ed astratta, ed ecco ragione per cui I BRUTI NON ‘PARLANO’
(Monkeys can talk) siccome quelli, che sono destituiti della facoltà di
generaleggiare e di astratteggiare. Che se ponga si mente non più alla
percezione esteriore, ma alla ragione ed alle funzioni diverse della
riflessione, la necessità della ‘parola’ si chiarisce ancora più evidente a segno
che senza di essa tornerebbe impossibile la formazione di qualsi voglia specie
dell'umano sapere. Se adunque la ‘parola’ è vincolo necessario, che lega la
mente col mondo delle idee e mezzo es -- Vedi la nota g in fine del
volume. Due altre ragioni si aggiungono a confermare vie meglio la
necessità di siffatto studio, l'una sociale, pedagogica l'altra. La ‘parola’ non
solo è mezzo alla formazione dei pensieri e delle idee, ma altre sì organo il più
acconcio A MANIFERSTAR la proposizione ALTRUI, epperò vincolo necessario, che
congiunge l'uomo co'suoi simili in comunanza di vita, condizione potissima
della società umana. Gli spiriti umani, perchè ravvolti nell'involucro dell'organismo
corporeo, non possono rivelarsi l'uno all'altro, nè intendersi, nè mutuamente
rispondersi senza qualche MEZZO SENSIBILE riposto in qualche atto o movimento
del corpo: quale è appunto la ‘parola’, la cui potenza ed efficacia sugli animi
altrui è meravigliosa. Ancora, essa non solo è una necessità sociale, ma altre sì
pedagogica, perchè è vincolo essenziale, che unisce in armonia di intendimenti
e di voleri l'educatore coll'alunno, il maestro col discepolo, tanto chè senza
di essa ogni educazione ed istruzione vera ed efficace rimane un vano e sterile
desiderio. La ‘parola’ e l'immaginazione, quando vengono raffrontate l'una coll'altra,
appariscono convenire insieme in ciò, che entrambe importano una dualità di
elementi, sensibile ed intelligibile [[psico-fisico]] insieme accoppiati, e
sono potenze individualizzatricie rappresentative dell'idea sotto forma
sensibile. Ond'è che tal fiata l'immagine ridesta la ‘parola’, tal altra la ‘parola’
ri sveglia l'immagine, ed amendue rinvengono un punto di comune contatto nel
linguaggio metaforico, figurato, immaginoso. Ciò nulla meno evvi tra queste due
potenze siffatto divario, che l'immagine essenzialmente si di spaia dal
semplice SEGNO, ed oltre di ciò la ‘parola’ è un sensibile tolto dall'organismo
umano, l'immagine per contro è un sensibile attinto dalla natura esterna.
Riguardata nella sua nativa essenza la ‘parola’ può venire definita un
sensibile umano SEGNANTE (o significante) un intelligibile. Umano, dico, perchè
riposto in qualche atto o movimento del nostro corporeo organismo, quale il
gesto, la voce pronunciata ed udita. Rintracciando la ragione spiegativa
dell'essenza della ‘parola’ noi la rinveniamo nell'essenza stessa dell'uomo.
Infatti i due costitutivi della ‘parola’, quali sono IL SEGNO [o SEGNANTE] sensibile e l'e lemento intelligibile [IL SEGNATO],
ritrovano la ragione ed il fondamento loro nei due supremi costitutivi
dell'essere umano, quali sono l'organismo corporeo [il segnante] e la mente [il
segnato]; e come all'essenza dell'uomo torna tanto necessario lo spirito,
quanto il corpo, così è tanto necessario alla ‘parola’ il SEGNO quanto l' idea
significata [IL SEGNATO]. Onde si vede ragione, percui ai bruti, destituiti di
mente, fallisce la ‘parola’. Inoltre a costituire la ‘parola’ non basta la
dualità degli accennati elementi, ma occorre, che siano contemperati ad unità,
essendochè il sensibile debbe essere SEGNO [segnante] di un
intelligibile. -- esenziale alla formazione de' pensieri ed all'acquisto
delle conoscenze effettive, appare manifesto, che l'intelligenza umana, ad
essere compiutamente compresa, va altresì studiata nelle sue attinenze colla ‘parola’.
Ora quest'unità importa un primato dell'intelligibile sul sensibile, ed ha la
sua ragione nel dominio della mente sull'organismo corporeo, ciò è dire
nell'armonia stessa dei due supremi costitutivi dell'uomo. In fatti la mente
nostra padroneggiando l'organismo, con cui è naturalmente congiunta, essa è che
eleva i gesti, la voce, l'udito, il moto delle membra alla virtù di significare
[O SEGNARE] una idea o un sentimento dell'animo, vincolando questi con quelli.
Di qui la bella sentenza di Cicerone intorno l'origine della ‘parola’. Vox
principium a mente ducens (De natura Deorum). Nella parola adunque il segno O
SEGNANTE sensibile e l'idea, o IL SEGNATO, sono due termini inseparabili tanto,
quanto sono nell'uomo indisgiungibili lo spirito ed il corpo. Da siffatto interiore e naturale
compenetramento fluiscono alcuni corollarii, che reputo opportuno di accennare.
Il pensiero progredisce di pari passo col linguaggio. La lingua corre le
medesime sorti e segue le stesse fasi che il pensiero,tanto chè la ragion
spiegativa delle origini, dei progressi, delle trasformazionie del corrompersi
di un idioma va rintracciata nello studio delle vicende, a cui soggiace il
pensiero di un popolo, che lo parla. Dichesi pare quanto vadano errati non pochi
cultori della filologia, i quali la segregano onninamente d allo studio del
pensiero umano, di cui il linguaggio è l'ESPRESSIONE esteriore, togliendole di
tal modo il carattere di scienza, non solo, ma trasmutandola in un tessuto di
errori. Lo stampo e l'indole peculiare di un idioma arguisce uno stampo o
tempra singolare di mente in chi lo adopera. Epperò come gli è vero, che la
lingua genericamente presa è nota specifica, che distingue l'umano pensare e
conoscere da quello di altri esseri intelligenti, così è pur vero, che i
differenti idiomi in particolare sono note altresì distintive, che
differenziano le une dalle altre le menti umane individue e nazionali. Tuttavia
in mezzo a questa tra grande varietà di lingue etnografiche apparisce un
fondo comune, su cui tutte sono intessute, e, direi, uno spirito universale,
che tutte le informa e le solleva ad una unità superiore, essendochè la mente
umana, se si manifesta molteplice e varia nelle molteplici nazioni e nei varii
individui, risguardata nella suas pecifica essenza è una ed identica, perchè,
governata dalle medesime leggi logiche e rivolta all'universalità del vero. E
quest’unità radicale delle lingue riverberata dall'unità specifica della mente
umana arguisce logicamente l'unità originaria e specifica del genere umano, come
la loro moltiplicità arguisce la varietà delle razze,in cui esso è distribuito
sulla faccia della terra. Consegue ancora dal principio stabilito, che il
tradizionalismo, il quale pronuncia, che l'uomo riceve dalla società insieme
colla ‘parola’ anche le idee e la virtù dello intendimento, apparisce erroneo,
siccome quello, che disconosce il primato dell'idea sul segno vocale, e
l'ingenita virtù della mente di elevare la voce a dignità dinunzia del
pensiero. Se l'uomo impara dalla società il linguaggio, ciò è dovuto alla
virtù, che possiede la sua intelligenza, di intenderne il significato o SEGNATO.
Infine discende quest'altro corollario, che non manca della sua importanza
pedagogica. Vera istruzione non è, quando il discepolo riceva passive la parola
del maestro, come se questa dia bell'e fatta all'alunno l'idea, la quale invece
vuol essere un portato del suo lavoro mentale, e quindi si deve cooperare alla
forma zione della ‘parola’. Poichè altro è ricevere la ‘parola e meccanicamente
ripeterla, altro è FARLA NOI. IMPLICATURA. La’ parola’ ‘altrui ha sempre
alcunchè di vago, di incerto e di oscuro per CHI LA RICEVE, mentre presenta un
SENSO FERMO e più o men definito per chi
se la forma, come si avvera nella formazione di un neologismo come
‘implicatura’. Il linguaggio umano trae le sue prime origini da quell'impulso
spontaneo della NATURA, che spinge l'infante a significare O SEGNARE mercè di
una GRIDA INARTICOLATA il suo BISOGNO, il suo desiderio, la sua sensazione, e
già abbiamo chiarito altrove, come a poco a poco egli ne abbia svolto il suo
linguaggio ARTICOLATO. Ma la grida primitiva, onde si svolse il linguaggio
articolato e convenzionale, non costituiscono tutto quanto il linguaggio
naturale, spontaneo o di azione, il quale abbraccia altresì IL GESTO, il movimento,
la fisionomia ed altri segni ed atteggiamenti esteriori della persona. Ora
GESTO può anch'esso svolgersi e perfezionarsi, o come complemento del
linguaggio o accompagnando e compiendo il linguaggio articolato, o da sè solo
sotto forma di linguaggio mimico, quale lo scenico dei drammatici e lo
educativo dei sordo-muti. Il linguaggio articolato primeggia sul naturale,
perchè il suono articolato o l'organo vocale, accompagnato dall’organo auditivo,è
più pie ghevole, più facile, più svariato e perfettibile,più acconcio ad
esprimere le idee in tutte le loro articolazioni. Esso può essere o parlato, o
scritto. La ‘parola’ parlata riesce più viva della scritta, più ESPRESSIVA, più
animata, ma alla sua volta questa è stabile e permanente, quella sfugge vole e
mobile. Il linguaggio articolato riveste forme diverse corrispondenti alle forme
progressive dell'intelligenza nelle varie età degli individui. Quindi si
distingue un linguaggio proprio dell'intuizione e del sentimento, un altro
della riflessione e della coscienza, un altro della scienza e dell'arte. Il
linguaggio dei popoli e degli individui fanciulli è povero, sintetico,
metaforico e figurato. Quello dei popoli e degli individui adulti è più o meno
concettoso, la grammatica ne è fissa, la prosa misurata. Quello dei popoli
colti e dei pensatori è dotto, analitico e sintetico ad un tempo. Imparare a parlare
è qualche cosa di più elevato che non imparare le lingue particolari; e noi
impariamo a parlare apprendendo LA LINGUA MATERNA. Questa lingua, che abbiamo
imparato da piccini, quando la nostra intelligenza cominciava a schiudersi, costituisce
per noi il linguaggio per eccellenza. Ogni altra nuova lingua, che sia pprenda,
si capisce soltanto mediante il suo paragone o rapporto colla lingua materna,
ed a questa con maggior ragione convengono tutte le lodi, che noi attribuiamo
alla lingua dei Romani come mezzo di coltura. Il bambino è sempre tanto
desideroso di udirvi, che spesso vi interroga anche su cose conosciute,
unicamente per aver occasione di ascoltarvi. Or bene tutto il mondo esteriore
vien fatto comparire e brillare davanti alla fantasia del bambino mediante il
nome, con cui vien designato ciascun oggetto. Tutto ciò, che è corporeo, venga
analizzato sotto gli occhi del fanciullo durante i suoi due primi lustri, ma
non gli si faccia analizzare affatto tutto ciò, che è solo spirituale. La
lingua materna siccome e la più innocente delle filosofie pel fanciullo,
siccome il più valido esercizio di riflessione. Parlategli molto e con
precisione, ed anche da lui esigete la precisione.Una PROPOSIZIONE oscura, ma
che diventa chiara se ripetuta una volta, provoca l'attenzione e rinforza
l'intelligenza. Non temete mai di non essere intesi, e nemmeno se si tratta di
intere proposizioni. La vostra faccia, il vostro accento, e il vivo bisogno che
sente il fanciullo di comprendere, rendono chiara la cosa per metà. E questa
prima metà farà col tempo capire anche l'altra. Pensate che I fanciulli. [SVILUPPO
DELLA TENDENZA ALLA COLTURA DELLO SPIRITO] come facciamo noi per la lingua
greca o per qualunque altra lingua straniera, imparano prima a CAPIRE la nostra
lingua, che a ‘parlar’-la. Al bambino parlate sempre come se avesse qualche
anno di più. L'educatore, il quale a torto attribuisce al suo insegnamento troppa
parte di ciò, che impara l'alunno, ricordi che il bambino porta già pronto in
se medesimo ed imparato tutto il suo mondo spirituale (cio è le idee morali e metafisiche),
e che la lingua con tutte le sue immagini sensibili non serve che a rischiarare
questo mondo interiore. Qui trova suo luogo la questione dello studio della
lingua dei romani come mezzo di coltura mentale. Lo studio della lingua de
romani e come una ginnastica dello spirito, che ne riceve una scossa ed
eccitazione salutare.Esso studio, non tanto in virtù del mero vocabolario, quanto
in forza della grammatica, che è la logica della lingua, costringe lo spirito a
ripiegarsi sopra di sè, a riflettere sulla ‘parola’, considerandole come un
riverbero della propria attività intuitiva. Dal linguaggio si passa a dire
dello scrivere, ed anche su questo punto non sono meno assennati ed acuti I
suoi accorgimenti. In sua sentenza, lo scrivere, ancora più che il ‘parlare’,
separa e concentra le idee, perchè il suono meccanico della ‘parola’ parlata
insegna a scosse e passa rapido, mentre i caratteri della scrittura ‘parlano’ in
modo continuato e distinto. Lo scrivere facilita la produzione delle idee assai
più che il suono rapido della ‘parola’, essendo esse una veduta interiore più
che un'audizione esteriore. Sotto altri riguardi la ‘parola’ parlata assai
sovrasta alla parola scritta, essendochè quella è ‘parola’viva, che esce
animata dall'interiore organismo e discende potente nell'anima di chi la
ascolta, mentre questa è parola morta, che esce dalla penna inanimata e non è
che una debole eco della prima. Esercitate di buon’ora, e gli prosegue, il
fanciullo a scriver e I pensieri suoi proprii piuttostochè ivostri. Risparmiategli
i temi comunissimi, quali sarebbero le lodi della diligenza, del maestro di
scuola,dei governanti ecc.Niente più nuoce a qual siasi componimento, quanto la
mancanza di un oggetto proprio e di inspirazione. Una lettera, provocata
unicamente dalla volontà del maestro, e non da un bisogno del cuore, diventa
una morta apparenza di pensiero,un inutile consumo di materia mentale. Se
fate scrivere lettere, siano rivolte ad una persona determinata e sopra un
determinato oggetto. Lo scrivere una pagina eccita e sveglia l'intelligenza
assai più che il leggere un libro intiero. Vi è tanto poca gente,che sappia
scrivere con un po'di garbo, quanto son pochi coloro, che sanno dire quattro
periodi continuati [2. Dell'attenzione. È avviso dell'autore,che
l'attenzione,riguardata non in generale,ma specialeerivolta ad un particolare
oggetto,non va raccomandata,nè suscitata o promossa con mezzi esteriori, quali
sarebbero il premio od il castigo, poichè in tal caso il fanciullo più che
all'oggetto proposto all'osservazione, terrebbe l'animo attento al premio, che
lo attrae, od al castigo minacciato. Pongasi mente, che esso non è atto a sostenere
un'atten zione prolungata e non mai interrotta;perciò non pretendete, che anche
trattandosi d'un argomento, che possa interessarlo, vi presti la sua attenzione
in qualunque ora e luogo e per tutto il tempo prescritto dai nostri regolamenti
scolastici. La novità è pure una potente attrattiva per l'attenzione, m a per
ciò stesso non va sciupata ripetendo troppo spesso le medesime cose sicchè
diventino monotone e stucchevoli.] Chi dovrà un giorno fare giustizia e
scrivere veramente la storia del pensiero filosofico italiano nell’ultimo
secolo, non potrà non dare una gran parte allo spiritualismo: del quale certo
uno dei più illustri e combattivi rappresentanti è stato ed è»1. Le parole di
Calò attestano una realtà difficilmente discutibile per chi si approcci anche
alle vicende della pedagogia italiana nel mezzo secolo successivo all’Unità. A.
compì gli studi al seminario arcivescovile di Vercelli. Vinta una borsa al collegio
Carlo Alberto di Torino, si iscrive nella Facoltà di filosofia della Regia
Università. Si distinse per la preparazione e l’applicazione negli studi. In un
saggio pubblicato sulla «Rassegna Nazionale», Cottini riporta una lettera
scritta da Aporti che comunica ad A. la vincita di un premio che ammontava a
trecento lire per i suoi meriti filosofici, segno premunitore di una carriera
accademica di primo piano. Laureato, e chiamato alla direzione di una scuola di
metodo presso Novara. Iniziò così una serie di seminarii che lo portarono in
diversi centri piemontesi. Trasferito a Domodossola, poi ad Ivrea, quindi nel
collegio di Ceva e successivamente a Casale Monferrato. E destinato
all’insegnamento di filosofia al Regio Liceo di Porta Nuova a Milano. Calò, A.
Filosofo, in Vita e mente di A., Torino, Scuola Salesiana; Gerini, Filosofi italiani,
Torino, Paravia; Braido, A., Dizionario Enciclopedico, Torino, S.A.I.E.; Biagini,
A. Enciclopedia; Brescia, La Scuola; Cottini, A. «Rassegna Nazionale», ogica e
metafisica, all’Academia Scientifica – Letteraria. Ebbe modo di stringere
rapporti con alcune delle personalità di spicco della cultura milanese:
Pestalozza, Poli, Cantù, Dandolo. Continua a tenere i rapporti con l’università
torinese, dove supera l’aggregazione nella Facoltà di lettere e filosofia, con
giudizi molto positivi di Mamiani ROVERE (si veda) e di Rayneri. Sonno anni di
intenso studio. Torna a Torino nominato insegnante di filosofia al Regio Liceo
Cavour e incaricato del corso all’Università, dopo la morte di Rayneri. Continua
ad insegnare nella scuola sino a quando e nominato titolare della cattedra.
Divenne ordinario ed insegn ininterrottamente all’Università di Torino. La sua
produzione e copiosa. I suoi saggi più importanti sono: Saggi filosofici, Della
filosofia in Italia, L’antropologia e l’hegelismo, L’Hegelismo e la scienza, la
vita, L’educazione e la nazionalità, L’educazione e la Scienza, Del positivismo;
Delle idee dei Greci, Studi, Riforma 4 Cottini riporta un ricordo di Parato,
risalente al giorno A. passa il concorso per l’aggregazione a Torino. Parato,
anch’esso decoro e vanto della scuola italiana, dice nella sua Vita, che avendo
nel giorno stesso della pubblica prova incontrato Rayneri, allora professore
nel Torinese Ateneo, gli venne dal medesimo annunciato con trasporto di gioia
che il Collegio Universitario ha allora allora accolto nel suo seno una sicura
speranza della filosofia italiana. Cottini, A. Nel suo articoli, Cottini
trascrive una lettera di A. indirizzata a Raineri, rinvenuta dallo studioso Roca
tra le carte che Raineri affide agl’archivi dei padri rosminiani. Si tratta di
pagine molto significative, scritte poco dopo la morte del figlio Giulio,
deceduto all’età di soli dieci anni: «Professore carissimo, Vi sonon grato e
riconoscente della vostra lettera consolatoria. La profonda e grave ferita, che
mi sta aperta nell’animo, è insanabile, ma pure ringrazio di cuore gl’uomini
del loro pietoso ufficio. L’immagine del mio povero Giulio mi accompagna
dovunque, eppure so che vivo non lo rivedrò mai più sulla terra. La mia mente è
con lui nel sepolcro, dove assisto col pensiero alla dissoluzione delle sue
povere membra, che si confondono colla polvere della terra e in ogni passo che
faccio, mi pare ci sentirmi dire: Padre, perché mi calpesti? Ah, se io avessi la
sventura di essere materialista, vedendo che il mio Giulio è tutto finito in un
pugno di polvere, non saprei resistere all’idea di rinunciare anch’io alla vita
in modo violento. La fede, solo la fede cristiana, mi fa forte nella lotta
tremenda, e rassegnato ai duri, eppur sempre adorabili voleri di Dio. La natura
mi ha strappato dal seno il mio diletto per convertirmi il corpo in poca
polvere; la fede miaddita il suo spirito sempre vivo in cielo e mi assicura che
quella poca polvere si rifarà corpo vivo per mantenerla. Non ho voluto che la
salma di mio figlio giacesse qui a Milano, dove non si pensa più ai poveri
morti: l’ho fatto in quel campestre cimitero, accanto ai sepolcri, dove
riposano lacrimate le ossa de’ miei genitori. E vorrei anch’io abbandonare per
sempre Milano, ma non posso nulla per me. I molti miei amici vivamente mi
solleticano di chiedere la cattedra di pedagogia vacante nell’Università di
Torino, e ci andrei volentieri, ma io mi tengo forte nel mio proposito di non
chiedere più nulla al Potere. Ieri mi è giunto notizia che è morto un mio
fratello ammogliato, lasciando dietro di sé tre creature. E quasi tutto ciò non
bastasse, ho il mio ultimo bimbo di quatto anni ammalato da 25 giorni di febbre
miliare, in grave pericolo di vita ed ormai disperato dai medici. Sono
infelice, ma l’infelicità non è così, quando si è con Dio, il quale ci addolora
quaggiù per bearci in cielo. Ricambiate i mieri saluti a quall’anima di Iacopo
Bernardi: ditegli che gli sono proprio riconoscente della parte che prese al
mio dolore, e voi vogliatemi sempre bene»] dell’educazione mediante la riforma
dello Stato, Esame dell’hegelismo, La filosofia antica, Opuscoli, Rousseau
filosofo; Breve compendio di filosofia elementare ad uso de’ licei; Elementi di
filosofia ad uso delle Scuole normali del Regno e il Compendio di Etica ad uso
dei Licei, con più edizioni e ampiamente adottati nelle scuole italiane. A.
collabora attivamente alla pubblicistica pedagogica e filosofica del tempo. Con
Passaglia e il principale animatore del Gerdil, organo dei giobertiani e
spiritualisti torinesi, che ha però breve durata non riuscendo a superare
l’anno. Vi scriveno, tra gli altri, Bertini e Bertinaria. Diresse “Il campo dei
filosofi,” un periodico fondato a Napoli da Milone, poi trasferito a Torino. Si
tratta di un’esperienza pubblicistica che ha una certa rilevanza nel dibattito
filosofico italiano, come ha già sottolineato Garin. Vi collaborarono autori
come Giovanni, Toscano, Morgott, Peyretti, Rayneri, Tagliaferri, Bonatelli,
Marsella, Tiberghien, e Bosia, Cfr. Chiosso, La stampa filosofica scolastica in
Italia, Brescia, La Scuola. Dopo aver citato alcuni brani della rivista, Garin
osserva. Il “Campo dei filosofi”, la rivista vissuta a Napoli e poi passata a
Torino sotto la direzione d’A., si propone di combattere soprattutto
l’idealismo dell’Hegel e il positivismo del Comte – come scrive A. nel
programma, continuando del resto l’attività iniziata a Napoli dal barnabita
Milone. Oltre i saggi di critica all’hegelismo, altri ve ne comparvero, d’A., di
Giovanni, di Donati, di Selvaggi, e di Tagliaferri. E l’attività della rivista
in questo settore merita di essere studiata tanto più che non è privo
d’interesse il legame subito stabilito fra hegelismo e positivismo, quasi
gemelli nemici. Dopo aver ricordato la facilità con cui diversi idealisti si
convertirono al positivismo negli anni seguente all’Unità, Garin spiega questo
fenomeno riprendendo e valorizzando l’analisi d’A. che vede in queste due
teorie apparentemente distanti, un comune denominatore. Quell’onesto filosofo
che e A., professore a Torino, che alimenta una vivace e seria discussione
intorno all’hegelismo sul “Campo dei Filosofi Italiani”, che mette insieme un
onesto libretto su L’hegelismo, la scienza e la vita, pubblicando a Torino, un
Esame dell’hegelianismo, che vuole essere un bilancio, crede di poter
individuare una convergenza profonda fra positivismo e hegelismo. L’Hegelianismo
– scrive – e il positivismo, che a tutta prima hanno sembianza di due dottrine
diametralmente opposte e riluttanti, in realtà sono fra loro congiunti da un
punto di contatto intimo e profondo. Assoluta IMMANENZA, realtà come processo e
sviluppo, celebrazione della scienza. Ecco alcuni dei punti su cui insiste A.,
pur avverso a entrambe le concezioni. Ma comunque si valuti la sua disamina, e
al di là dei casi degl’hegeliani passati al positivismo, una cosa certa A.
coglie esattamente: l’esistenza di una ‘riforma’ in atto della dialettica del
senso dell’evoluzionismo, con tutto quello che una veduta del genere implica,
in metafisica, in politica, in diritto, e in morale, per usare le sue parole.
Proprio dentro questo processo, già avviato nell’ambito dell’eredità
feurbachiana, si muove fra tensioni e polemiche Labriola: contro
l’evoluzionismo spenceriano al posto del moto dialettico della storia, contro
il socialismo neo-kantiano-positivistico al posto del marxismo, per una
rinnovata filosofia della prassi, ma anche – lo dichiara a Engels per una
sostituzione del metodo genetico a quello dialettico, il che non e solo
questione di parole. Garin, Filosofia in Italia, Bari, De Donato. Polla,
Leonardi, Naville, Passaglia e altri. In seguito pubblica una serie di articoli
sulla Rivista filosofica. Quando e ormai divenuto uno tra i principali
protagonisti del dibattito nazionale, A. assunse la direzione de «Il Baretti»,
un foglio dedicato a questioni scolastiche. Qui vi apparvero per lo più una
serie di saggi utili a lumeggiare le sue posizioni in merito alla libertà e,
più in generale, alla politica ministeriale. A. rappresenta una delle
personalità di primo piano del spiritualismo italiano. I suoi saggi divennero
un punto di riferimento per la riflessione, trovando una considerevole
circolazione pedagogica, per riprendere una categoria riproposta da Prellezo. La
Bertoni Jovine ne parla come il maggiore esponente dello spiritualismo, sino a
considerarlo, esagerando, come la guida della corrente. A. insegna in un Ateneo
come quello torinese che oltre ad avere con quello napoletano il primato, rappresenta
uno dei poli principali del dibattito italiano, sia in campo accademico, che in
quello pubblicistico e scolastico. Cfr. Chiosso, La stampa scolastica in Italia;
Chiosso, I giornali scolastici torinesi dopo l’Unità; Stampa nell’Italia
liberale. Giornali e riviste. In un saggio dedicato a Rayneri, a cui ne segue
uno analogo su A., Prellezo invita ad approfondire la capacità di influenza dei
spiritualisti più impegnati teoreticamente con la realtà filosofica. Egli parla
della necessità di promuovere ricerche puntuali allo scopo di definire limiti e
portata dell’incidenza delle dottrine non solo nell’ambito delle riforme
dell’insegnamento pubblico, ma anche, ad esempio, in quello dell’azione dei
fondatori e primi membri delle istituzioni dedicate all’insegnamento. Prellezo,
Pensiero e politica scolastica. Il caso di Rayneri, in «Annali di Storia delle Istituzioni
scolastiche», Brescia, La Scuola, Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia
della scuola italiana, Roma, Editori riuniti, Il neo spiritualismo d’A. se
riuscì a creare una corrente alla quale aderirono studiosi come Conti e Alfani
e tutto il gruppo della Rassegna Nazionale non ha la capacità intrinseca di
operare un capovolgimento della filosofia e neanche quella di combattere
efficacemente il positivismo che, benché debole dal punto di vista speculativo,
e portatore di vivissime esigenze socali, sostenute dai partiti democratici» D.
Bertoni Jovine, La scuola italiana, Roma, Editori Riuniti; Serafini, Cultura
italiana, Roma, Bulzoni. Riguardo alla circolarità d’A. nello spiritualismo,
merita di essere accennata la collaborazione con i salesiani. Il docente
vercellese poté conoscere presumibilmente l’esperienza educativa della
congregazione già negli anni dell’Università, prima come studente della città
di Torino, e poi quando divenne professore. Diversi collaboratori di Don Bosco
frequentarono infatti l’ateneo subalpino. In seguito, uno dei suoi figli studiò
al collegio salesiano di Mirabello. Il docente vercellese si avvicinò sempre
più alla congregazione: collaborò nel collegio salesiano di Valsalice,
partecipò alle numerose manifestazioni scolastiche e culturali dei salesiani in
città15, fece spesso visita in qualità di «esperto» alle scuole del santo
piemontese. Alcuni studiosi salesiani hanno parlato di una vera e propria
amicizia tra Don Bosco e il pedagogista vercellese16. Un episodio risulta
significativo nella ricostruzione di questo rapporto. Quando l’oratorio di
Valdocco rischiò di essere chiuso per dei provvedimenti voluti dal Ministro
Correnti, A. si offrì per cercare di salvare l’istituto. Aiutò don Bosco nella
compilazione dell’istanza da inviare al Ministero e si impegnò per inoltrare un
ricorso al Consiglio di Stato. Negli anni seguenti mantenne stretti i rapporti
con gli altri salesiani più giovani, soprattutto con don Durando, direttore
generale degli studi delle scuole salesiani. Il pensiero dello studioso
vercellese ispirò anche alcune opere dei primi pedagogisti salesiani17.
Prellezo documenta l’influenza della pedagogia di A. sulla Storia della
pedagogia di Cerruti e sugli Appunti di pedagogia di Barberis18. Una certa
influenza è anche rilevabile nelle Lezioni di pedagogia di don Vincenzo
Cimatti. Sul tema si rinvia al documentato e approfondito studio di: J. M.
Prellezo, A.negli scritti pedagogici salesiani, «Orientamenti pedagogici»,
Proverbio ricorda la presenza dell’A. alla seconda rappresentazione del
Phasmatonices di Rosini. «Le insistenza per la replica furono tali che il
sipario si riaprì l’otto giugno: vi accorsero molti torinesi, tra cui il
professor G. A., docente di pedagogia alla Università di Torino, il quale
“andava per la sala del teatro a trarre innanzi persone ragguardevoli”, mentre
negli intervalli venivano eseguite le romanze verdiane di G. Cagliero» G.
Proverbio, La scuola di don Bosco e l’insegnamento del latino, in F. Traniello
(ed.), Don Bosco nella storia della cultura popolare, Torino, Sei,
Trat tando del santo piemontese, Braido ha osservato: «reali furono le
relazioni, perfino di cordialità e di amicizia, con alcuni teorici della
pedagogia contemporanei, come A. Rosmini, Rayneri, G. A.» P. Braido,
L’esperienza pedagogica preventiva, Don Bosco, in Id. (ed.), Esperienze di
Pedagogia cristiana nella storia, Si veda anche: J. M. Prellezo, A.negli
scritti pedagogici salesiani, Su tale legame Pietro Braido ha rilevato:
«Giannantonio Rayneri e A.esercitarono un palese influsso diretto su due note
figure di studiosi salesiani di pedagogia, rispettivamente Cerruti e Barberis;
gli inediti Appunti di Pedagogia sacra di quest’ultimo rivelano un’evidente
dipendenza. A., benefattore e sostenitore di Don Bosco, si batté strenuamente
per la sopravvivenza delle scuole di Valdocco, mettendo a disposizione, in
difesa della libertà educativa, la sua energica contrarietà al centralismo
burocratico del Ministero della P.I.» in P. Braido, L’esperienza pedagogica
preventiva nel secolo XIX, Don Bosco, in Id. (ed.), Esperienze di Pedagogia
cristiana nella storia, 313. 18 J. M. Prellezo, A.negli scritti pedagogici
salesiani, 406-412. 19 413. 26 verità, anche altri manuali
pedagogici del tempo si ispirarono alla riflessione dell’A.20. Se l’opera del
vercellese fu accolta subito con favore dal circuito cattolico liberale e da
quello salesiano, il gruppo intransigente non sembrò accorgersi del suo
contributo. Solo all’inizio del Novecento, quando la dialettica interna nel
mondo cattolico assunse toni meno aspri, anche «La Civiltà cattolica» lo
menzionò per le sue posizioni a favore della libertà d’insegnamento21. Sebbene
l’opera di A. mantenne una dimensione prevalentemente nazionale, egli attirò
l’attenzione di alcuni studiosi stranieri come Naville, Daguet, Blum. Dopo una
lunga esistenza spesa interamente alle riflessione educativa si spense a Torino.
Influenze rosminiane e dimensione europea Alla costruzione del sistema
pedagogico e filosofico dell’A., contribuirono molteplici scuole e sollecitazioni.
Gran parte degli studi dedicati al pedagogista vercellese hanno rilevato
un’«evidente traccia della riflessione rosminiana»22, come già aveva
sottolineato nelle sue ricerche Gentile23. Per cogliere le ragioni di tale
influenza, occorre in primo luogo considerare il peso del rosminianesimo nella
cultura pedagogica e filosofica piemontese della prima metà dell’Ottocento.
L’Ateneo torinese rappresentò con i seminari lombardi uno dei maggiori centri
di influenza e propagazione della filosofia del roveretano24. Si tratta di un
afflato radicato, che si conservò ancora a lungo nella cultura subalpina25. A.
trascorse, pertanto, gli anni della sua formazione universitaria in un contesto
permeato dal pensiero rosminiano. Diversi dei suoi professori erano discepoli
rigorosi del roveretano. Grazie ad un suo docente, A. poté avere un primo
contatto con Rosmini: Pier Antonio Corte inviò al pensatore roveretano un breve
scritto dello studente vercellese per averne un parere. Poco tempo dopo,
Rosmini rispose all’invito del professore e 20 Tra gli altri, Arcomano,
sottolinea come il saggio di Costanzo Malacarne, Sunti di pedagogia, un
classico della manualitstica pedagogica del tempo, appaia fortemente
influenzato dalla pedagogia di A.. Cfr. A. Arcomano, Pedagogia, istruzione ed
educazione in Italia, Chiosso, Editoria e stampa scolastica tra otto e
novecento, in L. Pazzaglia (ed.), Cattolici, educazione e trasformazioni socio
– culturali in Italia tra Otto e Novecento, Chiosso, Novecento pedagogico,
Brescia, La Scuola, Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in
Italia. I platonici, Messina, Principato, Gambaro, Antonio Rosmini nella
cultura del suo tempo, «Il Saggiatore», Traniello, Cattolicesimo conciliarista,
Rosmini e il Piemonte. Studi e Testimonianze, Stresa, Edizioni rosminiane] apprezzò
il lavoro pur sottolineando i limiti dello scritto di A., allora solo
ventiduenne26. Pochi anni dopo, il pedagogista vercellese ebbe anche
l’occasione di conoscere personalmente il Rosmini, poichè allora dirigeva un
corso di Metodica a Domodossola, frequentato da alcuni allievi dell’Istituto di
Carità. Del roveretano ebbe una impressione eccezionale. Ricordando quella
circostanza, ne parlò come di una persona dotata di una «modestia pari alla sua
grandezza», ma anche di una profonda serenità, probabilmente legata, in quel
periodo, al recente Dimmitantur per le sue opere. Il legame con il
rosminianesimo fu corroborato da Giovanni Antonio Rayneri, da cui A. ereditò la
cattedra all’Università di Torino. Professore e sacerdote, il Rayneri
rappresentò un protagonista nel fermento educativo e pedagogico piemontese tra
gli anni ’40 e ’50 dell’Ottocento. Il suo sistema pedagogico si innestava
sull’impianto filosofico del roveretano, di cui offrì un’organica riproposizione
in chiave educativa. L’elaborazione di Rayneri fu di vitale importanza per la
circolazione della pedagogia rosminiana. La lezione del suo predecessore rimase
un costante punto di riferimento per l’A.. Lo studioso vercellese curò a
pubblicazione postuma del saggio Della pedagogica, una summa in cinque volumi
del pensiero del Rayneri, «supplendo il libro e mezzo, che mancava, con pochi
appunti rinvenuti fra le carte dell’autore»29. Si tratta di un’opera
considerata da A. come una delle maggiori confutazioni agli errori della
pedagogia moderna30. In una delle sue prime opere più importanti,: L’Hegelismo
e la scienza, la vita si trova una dedica molto significativa al suo maestro31.
26 In una lettera datata 17 febbraio 1852, il Rosmini scrisse al Corte: «La
ringrazio d’avermi comunicato lo scritto del signor Giuseppe A.. L’ho letto con
piacere e confermo pienamente il giudizio favorevole da lei portato e mi
congratulo colla R. Università se fa di tali allievi, mi congratulo con Lei e
coll’autore del detto scritto, che mi par l’ugna del leone. Quello che può
mancare alla proprietà del linguaggio verrà in appresso, essendo cosa che solo
s’impara cogli anni... Queste sottili osservazioni però non impediscono che il
lavoro favoritomi sia degnissimo di lode» Citata in G. B. Gerini, La mente di A.,
Torino, Tipografia S. Giuseppe degli artigianelli, A., Il concetto pedagogico
di Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini, Milano, Cogliati, Chiosso, Rosmini
e i rosminiani nel dibattito pedagogico e scolastico in Piemonte in Antonio
Rosmini e il Piemonte. Studi e Testimonianze, 102. 29 G. Cottini, A., 71. 30
Nella commemorazione già citata scrive: «La Pedagogica mi apparisce una
spiccata antitesi dell’Emilio di Gian Giacomo Rousseau; in quella tutto è
semplice, connesso, lucido, ordinato e preciso: in questo tutto è sconnesso,
incoerente, saltuario; il nostro Pedagogista ha la coscienza del suo pensiero,
misura i suoi conoscimenti, non trascorre mai gli estremi; il ginevrino scatta
fuori con grandi paradossi che colpiscono, con pensieri sublimi, grandi
originali, dove la verità è in lotta continua con l’errore; Un’altra idea della
vita, un giusto sentimento della natura umana, un vivo ed operoso concetto del
dovere, sono questi i principi filosofici, che informano la Pedagogica del
RAYNERI, principi diamentralmente opposti a quelli dell’umanismo contemporaneo,
che fa dell’uomo Dio a se stesso» G. A., Commemorazione del primo Centenario
della nascita di Rayneri, letta in Carmagnola, Asti, Tipografia Popolare
Astigiana, La dedica recita: «Alla cara e venerata memoria di Rayneri, Che
primo fra gl'italiani tentò elevare all'unità sistematica della scienza la.
Pedagogica da lui per un ventennio professata all'Università di Torino questo
tenue lavoro con riverenza di discepolo piamente consacro». Il vercellese
fu invitato a tenere un discorso in occasione del centenario dalla nascita di
Rayneri32. Ormai prossimo alla pensione, ripercorrendo quasi cinquant’anni di
insegnamento universitario, ricordò con queste parole il maestro: «Gran parte
della mia vita pedagogica sta collegata col nome di lui, essendochè negli anni
miei giovanili, sedendo sui banchi dell’Università io ascoltava la sua
magistrale parola, e che egli ha illustrato per poco più di un ventennio quella
cattedra, che io tengo da quasi mezzo secolo»33. Durante gli anni del suo
magistero, A. rimase sempre in contatto con gli ambienti rosminiani,
collaborando anche ad alcune riviste ad esso legato34. Diversi concetti e
posizioni del sistema del vercellese sono chiaramente mutuati dall’alveo
rosminiano. Un primo elemento è l’idea della personalità, che A. pone al centro
della sua pedagogia35. In questo campo, accolse gran parte dell’impianto
psicologico e antropologico del roveretano, riproponendo la tripartizione delle
facoltà: senso, volontà e intelletto, largamente utilizzate e approfondite dal
professore piemontese. Al Rosmini lo legano anche ragioni e argomenti di
critica alla filosofia moderna. Al pari del roveretano, ma anche di altri
autori spiritualisti, A. riunì Kant e i pensatori idealisti sotto la stessa
etichetta di «scettici». Un altro elemento riguarda l’unità di filosofia e
pedagogia, di cui A. si fece araldo di fronte agli eccessi di metodologismo cui
erano tentati anche alcuni studiosi cattolici36. All’idea di unità, è collegato
un altro concetto rosminiano accolto da A., vale a dire quello del
«sintetismo»37, strettamente connesso a quello di «armonia», considerato nodale
per comprendere la sua idea di educazione38. Non senza motivo, Berardi
riassunse la teoria della personalità dell’A. come una «traduzione del
sintetismo di origine A., Commemorazione del primo Centenario della nascita di
Giovanni Antonio Rayneri, letta in Carmagnola.Tra le altre, offrì la sua
collaborazione alla rivista La Sapienza, Rivista di filosofia e di Lettere,
diretta da Papa. Cfr. Antonio Rosmini e il Piemonte. Studi e Testimonianze, 65.
35 Giovanni Calò sostenne come, in fondo, «Quella del Rosmini è una pedagogia
della personalità» G. Calò, Pedagogia del Risorgimento, Sansoni, Firenze,
Commentando un breve intervento dello studioso vercellese sulla pedagogia del
Rosmini, Cavallera ho osservato come «l’A. individua nel concetto di unità la
forza del pensiero pedagogico rosminiano uscendo dai consueti schemi della
illustrazione della metodica, ma non va oltre tale precisazione» Cavallera,
Rosmini nella Pedagogia dell’Ottocento, Come conferma Mazzantini: «Rimasero
sempre per lui fari di orientamento, nella sua vita di studioso, le dottrine
ontologiche (già in gioventù manifestateglisi evidenti) della gradualità e del
sintetismo degli esseri» Mazzantini, I capisaldi del sistema filosofico
pedagogico di G. A., «Rivista Pedagogica» In merito la Quarello, che ha dato
alle stampe uno dei lavori più precisi ed elaborati sull’A., ha osservato:
«Nella dottrina pedagogica dell’A. la legge fondamentale è dunque l’armonia,
legge che necessariamente deriva da quella suprema filosofica: “Il sintetismo
universale”» V. Quarello, G. A., studio critico, Lanciano, Carabba] rosminiana»39.
Sebbene il vercellese, ad esempio nei Saggi filosofici, sul tema si rifaccia
alle opere del Krug, le tracce del discorso rosminiano sono evidenti. Se tali
elementi mostrano un chiaro ancoraggio all’opera rosminiana, da una lettura più
attenta delle opere di A. emerge tuutavia anche una serie di differenze con il
roveretano che non permettono di ascrivere in toto l’opera del professore
piemontese tra quello del circuito rosminiano vero e proprio, rispetto al
quale, al contrario, manifestò l’esplicita intenzione di differenziarsi. Si
tratta di una posizione che, secondo uno dei più importanti pedagogisti di
scuola rosminiana, poteva tuttavia essere letto in modo positivo40. Già
Francesco Paoli, curatore di alcune delle più importanti opere postume del
Rosmini e suo ultimo segretario, nel saggio Della scuola di Antonio Rosmini,
recentemente ripubblicato, nel disegnare la geografia del rosminianesimo in
Italia sottolineava la dissonanza tra l’A. e il roveretano41. Questa
precisazione di Paoli, peraltro in un libro con toni marcatamente apologetici,
denota come tra i seguaci «osservanti» del roveretano, l’A. non fosse
considerato un rosminiano «ortodosso», nonostante la riconosciuta prossimità.
La distanza tra i due pensatori è documentata dal fatto che nelle opere del
vercellese i richiami e le influenze dell’opera rosminiana si diradano. La
maggior parte dei espliciti riferimenti al roveretano, infatti, si riscontrano
nei primi lavori dell’A., in specie nei Saggi filosofici, con chiari rinvii
all’ontologia, alla metafisica e alla logica. Ma già in un’opera dell’anno
seguente, Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866, il legame con il sistema
del roveretano appare più distaccato. In particolare, si coglie un certo
ridimensionamento dell’apporto del Rosmini. Delineando l’itinerario della
pedagogia italiana del primo Ottocento, sebbene non manchino apprezzamenti
positivi, A. sottolinea come il vero innovatore della pedagogia italiana fu il
Rayneri. Si tratta, senza dubbio, di un’interpretazione impensabile per
qualsiasi studioso rosminiano42. 39 R. Berardi, La libertà d’insegnamento in
Piemonte 1848-1859 e un saggio storico di A., «Quaderni di cultura e storia
sociale», febbraio 1953, p. 62. 40 Cottini rileva come: «Circa la discordia fra
l’A. e il sommo Roveretano, osservò giustamente il mio quondam condiscepolo
Prof. Giuseppe Morando, che il dissenso aperto e leale dell’A. porge maggiore
rilievo alla riverenza sconfinata che questi gli professò, ed all’omaggio,
ch’egli gli rese in ogni occasione» G. Cottini, Giuseppe A., 67. 41 Scrive il
pedagogista di Pergine: «Di presente l’onore della Filosofia e della Pedagogia
è sostenuto nell’Università di Torino dal Prof. Giuseppe A., che se non
professa del tutto la filosofia del Rosmini, l’accetta in gran parte e la onora
colla esemplarità della vita e colle molte gravi sue pubblicazioni pedagogiche»
F. Paoli, Della scuola di Antonio Rosmini (a cura di Ottonello), 38. 42 Scrive:
«Del Rosmini, per quel che spetta alla pedagogia rigorosamente intesa, non si
aveva che il Saggio sull’unità dell’educazione, opuscoletto di poche pagine. I
lavori del Tommaseo sono studi serii, monografie peregrine, pensieri,
desiderii, come egli stesso li intitola, sono preziosi elementi scientifici, ma
un organico sistema di scienza non fanno; egli stesso si tiene in guardia dalla
mania de’ sistemi anche in 30 In alcune opere degli anni ’70,
quando il sistema dell’A. si consolidò, il vercellese si discostò
esplicitamente da elementi non secondari della filosofia rosminiana. Nell’opera
in cui sistematizza con più rigore le sue teorie ontologiche, vale a dire Il
problema della metafisica, si affranca dal roveretano in merito alla dottrina
dell’essere. Mentre Rosmini crede che l’oggetto primo della metafisica sia
l’essere categorico, astratto e comunissimo, egli lo identifica nella realtà
infinita e finita considerate nel loro insieme e nelle «vicendevoli loro
attinenze». Nello stesso saggio, riconoscendo nel fatto di pensare il primo
noto della metafisica, si preoccupa di sottolineare l’assenza di tale idea in
Rosmini44. Sempre in campo gnoseologico, A. contesta inoltre la teoria secondo
cui dall’intuito si arrivi alla visione dell’essere ideale universalissimo.
Stando al pedagogista vercellese, l’intuito percepisce la realtà confusa ed
indeterminata, opponendosi così ad uno degli elementi caratterizzanti la
gnoseologia del roveretano, oltre che oggetto di aspre contese con la filosofia
neoscolastica. Pare ancora più netta la posizione esposta negli Studi
psicofisiologici in merito alla psicologia e al rapporto tra anima e corpo: «In
che ripone il Rosmini l’essenza dell’anima umana? È assai malagevole impresa il
cogliere su questo punto della psicologia capitalissimo il suo pensiero; tanto
parmi intricato, inconsistente, incerto!». E poi motiva: «Il concetto
psicologico del Rosmini oscilla incerto tra questi tre pronunciati: 1° l’anima
umana è sentimento dell’Io e niente di più: il sentire animale sta all’infuori
di essa, ossia non è contenuto nella sua essenza; 2° l’anima possiede di fatto,
siccome suoi essenziali costitutivi, il principio sensitivo animale ed il
principio intellettivo; 3° il principio sensitivo è virtualmente contenuto
nelle intellettivo». Contrario a tali posizioni considerate equivoche, proporrà
un duo dinamismo coordinato su cui avremo modo di trattare in seguito. La
valenza delle critiche mosse al pensatore roveretano dall’A., è confermata
dalle dure repliche di alcuni dei più «fedeli» epigoni di Rosmini. A questo proposito,
sono molto significativi due scritti di Pietro De Nardi, rosminiano ortodosso,
che stampò due severi pamphlet contro l’A.. pedagogia, e crede che addestrando
in maniera variata il pensiero si serva, meglio che con severe teoriche,
all’unità dell’idea. Il Rayneri seppe far tesoro de’ profondi e svariati lavori
parziali de’ pedagogisti, che lo precedettero, coll’intendimento di ricondurli
all’unità della scienza» A., La pedagogia italiana antica e contemporanea,
Torino, Tipografia Subalpina di Stefano Marino, 1901, pp. 148-149. 43 G. A., Il
problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a
Giordano Bruno, Torino, Stamperia reale, 1877, pp. 35, 46. 44 47. 45 G. A.,
L’uomo e il cosmo, Torino, Tipografia Subalpina, 1891, p. 298. 46 G. A., Studi
psicofisiologici, Torino, Tip. del Collegio degli artigianelli, 1911, p. 60; 47
Ibid., 62; 31 Nel 1883, pubblicò La teorica rosminiana dello
sviluppo graduato della ragione umana difesa da P. De Nardi contro la traccia
di contradditoria che ad essa ha dato G. A.. In questo saggio lo studioso
rosminiano considerava «gravissima nella sostanza»48 la critica mossa da A.
riguardo lo sviluppo della mente nell’opera del roveretano, esposta ne Il
positivismo in sé e nell’ordine pedagogico. L’anno seguente De Nardi pubblicò
Due sillogismi di A.contro la percezione intellettiva come viene percepita da
A. Rosmini49, nel quale contestava al pedagogista vercellese prima il merito di
un appunto sulla filosofia del roveretano riguardanti i rapporti tra l’anima
sensitiva e intellettiva, e poi criticò un presunto pensiero del vercellese
secondo il quale «oggetti» di natura diversa non possano comunicare fra loro.
Una prima risposta alle accuse del De Nardi appare ne L’uomo e il cosmo (1891),
dove A. confuta i pamphlet e una recensione apparsa su Il Rosmini del marzo
1887, sostenendo che fossero state travisate le sue parole. Dopo aver mostrato
l’infondatezza delle critiche fattegli, muove una critica molto significativa a
certi epigoni del Rosmini i quali «s’immaginano, che il sistema rosminiano sia
tutto quanto verità esso solo, sicché chiunque osa muovergli qualche appunto,
bisogna dire che cammina nella via dell’errore»50. Per lumeggiare più
chiaramente il rapporto tra A. e Rosmini, è inoltre indispensabile citare i due
testi in cui l’A. trattò specificatamente dell’opera del roveretano: il
brevissimo saggio, Il concetto pedagogico di A. Rosmini51 e il più sostanzioso
articolo dal titolo Antonio Rosmini uscito prima nella rivista universitaria
«Studium», e poi pubblicato nel 191252. Il primo lavoro, seppure breve, appare
tuttavia molto significativo. Tale saggio fa parte del già citato Per Antonio
Rosmini, un’opera che raccolse in due volumi gli interventi al congresso
commemorativo per il centenario dalla nascita del filosofo, organizzato
dall’Accademia degli Agiati di Rovereto nel Maggio del 1897. 48 P. De Nardi, La
teorica rosminiana dello Sviluppo Generale della Ragione umana difesa da Pietro
De Nardi contro la taccia di contradditoria che ad essa ha dato Giuseppe A.,
professore all’Università di Torino, Intra, Bertolotti, 1883, p. 3. 49 P. De
Nardi, Due sillogismi di Giuseppe A., Professore all’Università di Torino,
contro la percezione intellettiva come viene concepita da Antonio Rosmini
esaminati da Pietro De Nardi, Professore di Filosofia nel Collegio
Internazionale Italiano di Torino, con appendice del medesimo in risposta a T.
Mamiani, Modena, Vincenzi, 1884. 50 G. A., L’uomo e il cosmo, 417-418. 51 G. A.,
Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini, A. Antonio
Rosmini, Pavia, Tipografia Fratelli Fusi, 1912. 32 Nel suo intervento A.
riconobbe in prima istanza le virtù filosofiche di Rosmini53, attestando
l’importanza di lavori come il Saggio sull’unità dell’educazione e Del supremo
principio della metodica per lo studio della filosofia e della pedagogia. Tra i
principali meriti, individuò l’aver difeso l’idea che l’educazione è vera,
efficace e perfetta solo quando è «schiettamente cristiana». Un concetto che,
secondo A., intuirono in tanti ma «niuno meglio del Rosmini seppe farla
risplendere di quella lucentezza ideale, che scaturisce dalla ragione
speculativa»54. Nella stessa sede, tuttavia, A. volle sottolineare le
differenze tra il suo sistema e quello di Rosmini55. Questa precisazione in un
consesso con chiari intenti apologetici a pochi anni dal Post obitum, conferma
con limpidità la volontà di A. di smarcarsi dalla discendenza rosminiana. Il
secondo saggio citato, Antonio Rosmini, è molto più consistente e permette di approfondire
le idee di A. circa il roveretano. Introducendo il lavoro, fa notare la grande
risonanza che ebbe il pensiero di Rosmini, e cita tra i suoi discepoli
Tommaseo, Cantù, Sciolla, Berti, Cavour, Bonghi, Pestalozza, Corte, Rayneri.
Conduce poi un’analisi particolareggiata dell’opera filosofica e pedagogica del
Rosmini, muovendo una serie di critiche e «correzioni» al pensiero del
roveretano. Riguardo l’articolazione delle scienze nel sistema del roveretano,
parla di un’ambiguità del Rosmini circa il legame tra la psicologia e
l’antropologia56. In seguito contesta la seguente definizione di uomo tratta
dall’Antropologia di Rosmini: «l’uomo è un soggetto animale, dotato
dell’intuizione dell’essere ideale indeterminato e operante secondo l’animalità
e l’intelligenza». A. trova in questo enunciato un eccessivo risalto per la
parte «naturale» dell’uomo. Nel definire la persona, A. preferisce mettere
l’accento sulla natura spirituale dell’uomo, poiché in esso l’animalità «è
subordinata alla spiritualità, che la informa e la governa»57. Tale critica è
poi smussata tenendo conto del modo in cui Rosmini affronta e suddivide la
scienza antropologica. Riprende inoltre la critica al concetto dell’intuizione
primaria dell’uomo dell’essere ideale indeterminato: «Questo - dice A. - è un
pronunciato fondamentale del sistema di Rosmini, ma è impugnato da molti, e non
è una verità dimostrata con tanto rigore, che debba essere accettata da
tutti»58. Sempre in campo gnoseologico corregge l’espressione rosminiana di
«sentimento corporeo» che secondo 53 «È virtù propria del genio speculativo
risalire ai supremi principi dell’essere e del sapere, e nella loro unità
comprensiva raccogliere tutto un intero ordine di idee organate da questo
sistema» G. A., Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio
Rosmini. Ed io, sebbene da lui discorde in alcuni punti delle sue dottrine
filosofiche, mando questo mio lavoruccio in attestato della mia scienza sincera
e profonda ammirazione verso tant’Uomo» Ibid, vol. II, p. 523. 56 G. A.,
Antonio Rosmini, 8. 57 Ibid., 9-10. 58 10. 33 A. dovrebbe essere
«senso corporeo», e poi aggiunge: «Come pure io non so capire come mai il senso
intellettivo, la cui esistenza è innegabile, possa essere compreso come parte
nel tutto, nella sensitività animale, come fece l’autore»59. Anche in campo pedagogico,
fa degli appunti alquanto critici. Trattando dell’unità dell’educazione
sostenuta dal Rosmini, lamenta l’assenza di un adeguato approfondimento del
concetto di varietà60. Un'altra definizione contestata riguarda il rapporto tra
le affezioni casuali e l’ordine interiore. A. riporta senza rinvii al testo
originale: «si conduca l’uomo ad assimilare il suo spirito all’ordine delle
cose fuori di lui, e non si vogliano conformare le cose fuori di lui alle
casuali affezioni dello spirito suo». E poi ne prende le distanze, «correggendo»
le posizioni del Rosmini»61. Sullo stesso argomento, commentando poco dopo la
parte del Saggio sull’unità dell’educazione relativa all’«Unità degli oggetti»
sostiene che è «alquanto sconnessa». A. fa notare come il Rosmini abbia
dedicato molto spazio all’analisi dell’apprendimento e dell’educazione durante
l’infanzia, soffermandosi sullo sviluppo delle facoltà del bambino. Il
pensatore vercellese, tuttavia, fa notare come un corretto sistema pedagogico
debba tener conto dell’intervento educativo, e del fatto che spesso si
insegnino cose che il bambino non sa ancora, e che quindi lo studio delle
naturali facoltà del bambino non sia sufficiente ma debba essere integrato dai
metodi educativi esterni62. Anche se riconosce al Rosmini il contributo sulla
libertà d’insegnamento, a dispetto per esempio di un Gioberti giudicato
eccessivamente statalista, l’A. contesta al Rosmini l’affermazione secondo cui
la scuola dovrebbe «guardarsi dallo spirito individuale siccome 59 12. 60
«L’autore ripone nell’unità la legge suprema dell’educazione; nel che io non
convengo pienamente con lui. L’unità vera, effettiva, feconda non può andare
disgiunta dalla varietà, né questa può andare scissa da quella. Unità senza
varietà è arida, sterile, priva di moto e di vita; varietà senza unità è
sparpagliata, dissipata, che si sciupa nel vuoto. L’uno nel vario, il vario
nell’uno, ossia l’armonia è la legge suprema della vita in ogni ordine di cose.
Epperò all’umana educazione l’unità e la varietà tornano essenziali amendue ad
un modo. Certamente l’autore non esclude, né perde di vista la varietà, giacché
riconosce la molteplicità delle dottrine, che si insegnano, e delle potenze,
che vanno educate; ma occorreva che avesse in modo esplicito riconosciuta e
formulata la varietà accanto all’unità, siccome egualmente necessaria» G. A.,
Rosmini, «Però in riguardo alla dottrina
del Rosmini, a me par giusto l’osservare, che se per una parte sonvi nel nostro
spirito affezioni casuali, le quali vanno acconciate e conformate all’ordine
oggettivo delle cose fuori di noi, per l’altro anche nell’ordine esteriore vi
hanno accidentalità e turbamenti casuali e fortuiti, a cui lo spirito nostro
non che adattarsi, deve seguire una reazione, conservando intatta la sua
indipendenza. Anche nel nostro spirito esiste un ordine oggettivo posto dalla
nostra natura, sicché la formula del Rosmini sembra bisognevole di essere
corretta e parmi più conforme a verità l’affermazione che il supremo principio
pedagogico dimora nel mantenere in perfetta armonia l’ordine oggettivo dello
spirito dell’alunno coll’ordine oggettivo delle cose fuori di lui. S’intende da
sé, che quest’armonia importa il riconoscimento di un principio superiore
divino, ed inoltre supremo, in cui l’ordine oggettivo esteriore e l’ordine
oggettivo interiore hanno il loro centro di unità e la loro cagione
efficiente» «Il Rosmini, intento, alla
legge suprema direttiva dell’umano pensiero descrive per filo e per segno i
momenti successivi, per cui progredisce e per cui va condotta la mente
infantile, il Pestalozzi in iscuola tracciava sulla lavagna a’ suoi fanciulli
una proposizione, che di presente essi non comprendevano, ma avrebbero compreso
col tempo» 29. 34 da suo capitale difetto», e osserva: «Questa
opinione dell’autore parmi bisognevole di essere ritoccata. Sta bene che
l’educazione pubblica non debba tener conto delle singole famiglie e de’
singoli individui, ma se non vuole incorrere nel dispotismo e trasmodare,
occorre che essa rispetti mai sempre lo spirito informatore della famiglia e la
personalità individuale di ciascun uomo, essendochè lo stato è fatto per le
famiglie e per le persone singolari, non questo per quello»63. Oltre alle
critiche, emergono anche una serie di considerazioni positive. A. considera di
vitale importanza il contributo di Rosmini nell’aver mostrato la conciliabilità
tra lo spiritualismo e la realtà naturale dell’uomo64, di aver riportato la
pedagogia ad un metodo realista65, il richiamo all’armonia come principio
educativo, valorizza il tentativo di salvare l’unità della persona, l’idea di
sviluppo armonico delle facoltà umane ed elogia il merito di aver unito
didattica ed l’educazione. Vivo apprezzamento egli esprime circa il legame tra
pensiero e nazionalità. A. scrive che «è meritevole di nota il rapporto, che il
Rosmini istituisce fra il metodo filosofico e la diversa tempra degli ingegni
proprii delle singole nazioni». Lontano da tentazioni sciovinistiche e da forme
di autarchia culturale, il vercellese sostenne l’importanza di conservare le
tradizioni della filosofia italiana. In questo senso cita la lezione III Del
metodo filosofico in cui Rosmini scrive «Il vero metodo è indigeno all’Italia:
il carattere dell’ingegno italiano consiste nella chiarezza» e ne sottolinea
l’importanza66. Altri autori spiritualisti influenzarono A.. Tra questi
esercitò un considerevole ascendente il Bertini67, almeno «quello» precedente
alla conversione razionalista. Lo studio della sua opera, l’Idea d’una
filosofia della vita, rappresentò un momento importante nello sviluppo del
pensiero di A.. Il pensiero di Bertini lo convinse ad affermare il Primo
teologico, vale a dire Dio inteso come potenza, sapienza, amore infinito, il
Primo cosmologico e cioè che il creato è l’essere che partecipa della potenza,
amore di Dio, e 63 21. 64 «Come la sua filosofia è essenzialmente spiritualistica,
così il carattere, che informa la sua dottrina pedagogica, è lo spiritualismo,
non però lo spiritualismo gretto ed esclusivo, che sacrifica la materia allo
spirito, bensì lo spiritualismo largo e comprensivo, che riconosce come parte
anch’essa essenziale dell’umano composto l’organismo corporeo, ma lo vuole
subordinato all’impero dell’anima razionale» Trattando del contributo
pedagogico e scolastico dell’impostazione rosmininana osserva: «Un secondo
punto di capitalissima importanza per la scuola normale è questo: “prima regola
del metodo filosofico (scrive l’autore) è che l’osservazione precede il
ragionamento”. Questa norma riguarda propriamente il procedimento, che deve
tenere il pensiero nella costruzione della scienza» Sull’influenza del Bertini
sull’A., Virginia Quarello che pubblicò nel 1936 uno dei lavori più completi e
attenti sulla filosofia dell’A. scrisse: «L’influenza del Bertini sull’A.,
specie nel campo religioso, è stata fortissima tanto che il pensiero dell’uno
non solo si connette, ma perfettamente aderisce a quello dell’altro» V.
Quarello, G. A., studio critico, 62. 35 quindi il Primo
enciclopedico per cui «l’infinito s’intria nel finito»68. Secondo Vidari oltre
che il Rosmini, proprio al Bertini, A. dovrebbe la fondazione del suo sistema
filosofico69. Stretti rapporti ebbe anche con Augusto Conti. Nei Saggi
filosofici (1866) riportò tre scritti sull’opera del samminiatese: uno
riguardante la Storia della filosofia, una recensione di un libro scritto sul
toscano da Pietro Dotti, e un lavoro sui legami tra il pensiero di Naville e
quello di Conti, con particolare attenzione alle considerazioni espresse dal
filosofo ginevrino nel testo La vie éternelle. A. condivide una serie di
concetti del Conti, come la critica al principio moderno secondo cui la
filosofia nasca dal dubbio e non dalla sorpresa dell’essere70, l’analisi dei
criteri della filosofia e il legame con il senso comune, il concetto di errore
e di distinzione. Nel commento alla Storia della filosofia si possono
riconoscere diverse analogie tra le concezioni dei due pensatori. Del testo
citato, A. sottolinea diversi elementi positivi: l’idea che la storia della
filosofia debba essere un confronto tra le teorie filosofiche e la filosofia
perenne, l’importanza attribuita alla biografia e al contesto culturale per
cogliere la filosofia, e il criterio «cronologico» con cui il Conti conduce la
narrazione della storia della filosofia guidati da cause di relazione e
connessione. L’unico appunto mosso dall’A. al Conti riguarda la questione degli
universali71. A. fu anche un buon conoscitore del panorama culturale europeo e
dei maggiori pedagogisti e filosofi stranieri. Si tratta di un elemento non
così comune tra gli autori della seconda metà dell’Ottocento. Nonostante
diffidasse di una certa esterofilia, che contestava 68 G. Calò, Il pensiero
filosofico – pedagogico di Giuseppe A., «La Cultura filosofica», n. 5,
Sett-Ott. 1910, p. 447. 69 «Movendo dalla formula giobertiana «l’ente crea
l’esistente», che non lo soddisfaceva del tutto, e passando attraverso all’Idea
di una filosofia della vita del Bertini, che ad A. era parsa un’opera
provvidenziale per la filosofia italiana dopo i traviamenti a cui l’aveva
esposta il Gioberti, Egli si arresta al concetto cristiano – cattolico della
creazione, per cui da una parte è Dio infinito creatore libero, dall’altra gli
enti finiti e reali che trovano in quella la loro causa prima» G. Vidari,
Giuseppe A., Torino, Stamperia Reale Paravia, 1914, p. 6. 70 «Ripudiando il
criticismo come propedeutica della filosofia, egli vuole che il conoscere sia
fin dalle prime tenuto per vero, e come tale riconosciuto ed esaminato dappoi,
e non già posto in problema. La natura umana, perché ragionevole, è nella
verità, opperò il conoscere naturale è di per sè evidènte, non già problematico
nè bisognevol di prova. In questa evidenza del vero o del conoscere ci ripone
il supremo ed intrinseco criterio della filosofia, dal quale fluiscono poi e
nel quale si appuntano come criterii secondarii ed estrinseci l'affetto della
verità, il senso comune, la tradizione scientifica e la rivelazione» G. A.,
Saggi filosofici, Milano, Gareffi, Osserva il pedagogista: «Quanto è poi al
concetto filosofico del nostro Autore, sebbene mi paja più comprensivo assai e
più conforme a verità che non altri parecchi, durerei tuttavia non poca fatica
ad accoglierlo come definitivo e perfetto. E veramente (per tacere qui di altri
argomenti in contrario ) io non so fare buon viso a quella ontologia
scolastiso-wolfiana non ancora abbandonata a' di nostri, che egli pone come
parte integrale, anzi sublimissima della filosofia; giacché l'essere
astrattissimo e onninamente indeterminato, in cui si vogliono concentrati i
sommi universali di essa ontologia, ove si pigli da sè, disgiuntamente da Dio e
dalle realtà finite, convertasi in un aereo ed inconsistente fantasma, che mal
reggendosi di per sè è quindi impotente ad ammanire un saldo fondamento alla
protologia, cardine di tutto il sapere» Ibid., soprattutto ai positivisti e
agli hegeliani, accolse nel suo sistema diversi elementi di autori stranieri:
«Dello spiritualismo tedesco accetta e il sintetismo trascendentale del Krug
(l’io riflette sui “fatti della conoscenza” anzi nella coscienza, per
l’originaria armonia di pensiero e realtà, ideale e reale si sintetizzano) e in
concetto del Krause della personalità ed essenza divina (“l’essere Dio è il
principio personale del mondo”) e il suo Panenteismo, conciliante in sintesi
sia la ragione con l’esperienza, sia il processo analitico (dall’io e dal
finito a Dio) con il processo sintetico (da Dio all’io ed al finito.)»72. Nel
Krug apprezzò la capacità di conciliare il realismo con l’idealismo73. Dello
studioso riprese nei Saggi filosofici (1866)74 il principio della sintesi a
priori, nel tentativo di spiegare l’origine dell’unità tra oggetto e soggetto.
Si tratta di un concetto facilmente accostabile all’idea primaria di Rosmini. A.
raccolse così soprattutto le tesi di quanti cercarono di superare le antinomie
dell’idealismo75. Un altro autore molto importante nella biografia
intellettuale di A. fu Lotze76, il successore di Herbart all’Università di
Gottinga. Del filosofo sassone cita i Principes généraux de psychologie
physiologique77 che definisce un «lavoro magistrale»78. A. lo cita
nell’elaborazione della sua psicofisiologia, nel tentativo di sostenere con il
suo «duodinamismo coordinato» un approccio che coniugasse gli studi
sperimentali con la struttura spirituale della persona. Importante anche il
legame con Maine de Biran di cui accoglie le idee circa il legame tra la
persona umana e la persona divina, A. oltre che il principio de
«l’autocoscienza della personalità vivente»79. Spesso citato fu anche Heinrich
Pestalozzi. Il pedagogista vercellese fu quasi «devoto» all’esempio e alla
pedagogia dell’educatore svizzero. Non senza ragioni Calò lo definì un
«pestalozziano». L’unica critica che gli mosse riguardò l’utilizzo del termine
«organismo», al quale A. preferisce quello di persona. 72 V. Quarello, G. A.,
studio critico, cit., A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, Milano, Agnelli,
1868, p. 42. 74 G. A., Saggi filosofici, 30. 75 «E dirò che, con il Krause e
con il Jacobi, proprio lo Stahl fu sempre presente all’A., nella sua
opposizione decisa all’idealismo post-Kantiano» V. Quarello, G. A., studio
critico, 83. 76 A riguardo, la Quarello ha osservato: «Più forte, certamente,
fu l’influsso di Lotze specie nel campo psicologico, benché, a mio credere, si
possa pure far risalire al Lotze il concetto di Dio come suprema realtà
personale, che crea il mondo degli spiriti personali» 82. 77 H. Lotze Principes généraux
de psychologie physiologique, nouvelle edition, traduite de l'allemand par A.
Penjon, Paris, Bailliere, 1881. Si tratta
di una traduzione del primo capitolo del testo H. Lotze, Medizinische
Psychologie oder Physiologie der Seele, Leipzig, Weidmann’sche bucchandlung,
1852. 78 G. A., Studi psicofisiologici, cit. 79 V. Quarello, G. A., studio
critico, 29. 37 Altri autori hanno sottolineato il ruolo del
vercellese nella ricezione dell’herbartismo in Italia80. Sempre Calò lo giudicò
«più herbartiano di quello ch’egli stesso non creda»81, un giudizio che fu in
seguito emendato82. L’opera dell’A. è anche segnata dall’opera del Naville, a
cui lo accomuna la convinzione che alla base della pedagogia ci debba essere
l’antropologia e non l’etica come per Herbart o la psicologia scientifica come
per molti positivisti. Nella voce sull’A., presente nell’Enciclopedia
Filosofica di Sansoni83 e riportata in quella Bompiani84, Pozzo accosta A.
perfino a Plotino, riprendendo la valutazione del Gentile, sostenendo che il
vercellese aveva una concezione teistica di «tipo plotiniano (l’ente uno
infinito pone fuori di sé il molteplice e a sé lo richiama) da cui deriva il
concetto di armonia dell’universo, come “coesistenza” (o “sintetismo”) di
esseri che cooperano sotto l’imperio dell’inesauribile atto di Dio». In
sintesi, ci sembra di poter ragionevolmente sostenere che nonostante i diversi
apporti e «contaminazioni» con diversi autori, il professore piemontese abbia
preferito smarcarsi da discendenze unidirezionali. Più che di Rosmini, di
Pestalozzi, di Rayneri, egli si sentiva un rappresentante dello «spiritualismo
italiano». Egli considerava questa corrente come la più genuina tradizione
nazionale85, oltre che in linea con la più autentica pedagogia e 80 In merito
alla crisi del positivismo iniziata già negli anni ’80 dell’Ottocento,
Malatesta e la Bertoni Jovine commentarono: «Il Labriola prima, il Fornelli e
l’A. poi e in ultimo il Credaro, avevano prodotto una svolta molto sensibile
negli studi introducendo nella pedagogia i princìpi più validi
dell’herbartismo» D. Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia della scuola
italiana, 43. 81 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di A., Prato,
Tipografua Carlo Collini, Calò, Dottrine e Opere, Lanciano, Carabba, 1932, p.
262. 83 Enciclopedia Filosofica, Firenze, Sansoni, 1967, vol. I, pp. 192-193.
84 Enciclopedia Filosofica, Milano, Bompiani, Nel testo già citato Della
pedagogia in Italia ripercorre la storia della pedagogia italiana e chiosa: «Le
opere pedagogiche chiamate fin qui a rassegna rivelano un carattere comune, che
tutte le segna di una medesima impronta: lo spiritualismo. È questo il
carattere dominante e tradizionale di tutta la pedagogia italiana da Vittorino
da Feltre al Rayneri. Essa riconosce nel perfezionamento dell’uomo la
preccelenza del principio spirituale sull’organismo corporeo, l’immortalità
personale dello spirito umano e la dipendenza di esso da Dio risguardato come
spirito conscio di sé, distinto sostanzialmente dal mondo, causa creatrice e
finale di quanto sussiste. Essa considera la nostra temporanea esistenza
siccome tirocinio e preludio di una esistenza oltremondana, e conseguentemente
vuol preparare il fanciullo alla sua duplice destinazione, vuol educare in lui
l’uomo temporaneo che passa quaggiù soffrendo, e lo spirito immortale fatto per
una seconda vita. Essa ripudia siccome offensiva della dignità della persona
umana la dottrina che vuole il fanciullo esclusivamente allevato per la patria
e pel reggimento politico dominante, facendolo così, di essere avente ragione
di fine, un semplice mezzo agli arbitrii del Governo e della società. L’ideale
dell’uomo perfetto che la natura ha preformato nell’infante, essa lo addita
vivente in Cristo, assegnando per iscopo all’opera educativa la virtù
cristiana, non la virtù naturale, né la civile, né lo sterile misticismo. Per
lei non si da istruzione vera ed efficace senza l’educazione dell’animo; non
vera educazione morale senza religiosità; non religiosità vera senza
Cristianesimo cattolico, sicché l’educazione ha da abbracciare tutto l’uomo e
con tale universalità ed armonia, che i sensi vengano subordinati alla ragione,
il corpo allo spirito, la libertà a Dio, la vita temporanea alla oltremondana.
Mercé questo carattere dello spiritualismo la pedagogia italiana contemporanea
mantiensi fedele alle sue tradizioni secolari e si ricongiunge colla scuola
spiritualistica platonica di Firenze, perché discepolo ed amico di Giovanni di
Ravenna, il grande scuolaro del Petrarca» A. La pedagogia italiana antica e
contemporanea, 158. 38 filosofia greca86. A. era convinto che fosse
una tradizione che andasse difesa87, soprattutto dall’idealismo e dal
positivismo, considerate teorie di «importazione» aliene allo spirito
filosofico italiano. I. 2. Gnoseologia e metafisica I testi in cui A. affronta
i problemi più specificatamente metafisici e gnoseologici sono i Saggi
filosofici, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla
scuola Jonica a Giordano Bruno e Studi antropologici: l’uomo e il cosmo. Non si
può affermare che su tali questioni il contributo di A. abbia avuto una reale
originalità. Lo studioso si è limitato piuttosto alla ricerca di alcune basi
teoretiche che gli permettessero di fondare la sua pedagogia su una prospettiva
«realistica», com’è stata definita la sua filosofia88. La carenza di
approfondimenti è stata oggetto delle critiche di alcuni studiosi dell’A. come
la Quarello89 e Mazzantini90. Sebbene il contributo di A. non abbia apportato
novità rilevanti nel discorso gnoseologico e metafisico del tempo, espose
comunque il suo pensiero in modo organico e coerente. Egli considera la
Metafisica come il momento fondamentale della ricerca filosofica,
caratterizzata dall’universalità e dalla trascendenza. La definisce come
«scienza del Primitivo»91 o «Scienza de’ supremi principii del sapere e
dell’essere»92. Contro gli orientamenti antimetafisici di marca positivista e
scettica, considerava l’abrogazione del problema del senso e del «tutto» come
un tradimento della filosofia. Essa trovava la sua ragion d’essere in quel
mandato della persona umana, che strutturalmente e spontaneamente interroga
l’Universo e ne pretende un significato. In questo senso la metafisica
collocava la sua origine nel desiderio dell’uomo di «rendersi ragione di questo
86 G. A., Studi pedagogici, Torino, Tipografia Subalpina. Accusato di
nazionalismo, A. si difese: «Noi siam lontanissimi dall'assumere il
nazionalismo per sommo ed infallibil criterio del Vero; che anzi arditamente
sosteniamo, che nel principio di nazionalità qual è universalmente ammesso v'è
del troppo e del vano assai da tor via, e gli bisogna essere ricondotto entro a
più ragionevoli e modesti confini. Noi invece propugniamo l'italiana filosofia
non per ciò solo che è italiana, ma primamente e precipuamente perché fondata
sulla verità del Teismo cristiano, siccome ripudiamo l'Idealismo di Hegel ed il
Positivismo di A. Comte perché disformi entrambi dal Vero, e non già perché
l'uno di tedesca, l'altro di francese origine» A., L’Hegelismo e la scienza, la
vita, 14. 88 V. Suraci, A. filosofo e pedagogista, «Educare», maggio - giugno
1952, p. 151. 89 V. Quarello, A., studio critico, 21. 90 C. Mazzantini, Due
filosofi spiritualisti piemontesi della seconda metà del sec. XIX, «Archivio di
Filosofia, organo del R. Istituto di Studi Filosofici», Roma. A., Saggi
filosofici, 284. 92 G. A., Il problema metafisico studiato nella storia della
filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, 5. 39 gran tutto,
che dicesi universo»93, un’esigenza che non può essere soppressa, pena la
negazione dell’identità umana. Sulla scorta del rosminianesimo e di molta
filosofia cristiana, A. rileva come la crisi della metafisica fu prima
inaugurata dal soggettivismo di Cartesio e poi consacrata dal criticismo di
Kant. La gnoseologia moderna era soggiogata, a suo giudizio, da un equivoco
legato alla volontà di condurre in dubbio il valore veritativo e orientativo
dei criteri dell’evidenza e del senso comune insiti nell’uomo. Si tratterebbe
di un cortocircuito conoscitivo dai corollari disparati. Se, infatti, da un
lato si svaluta la ragione riducendone il dominio (kantismo), dall’altra si
arriva a «divinizzare» l’Io (idealismo), attribuendo alla razionalità umane
quasi gli stessi attribuiti che i teologi avevano sino ad allora riservato al
Creatore. Per superare l’impasse, A. sollecitò in coro con il resto degli
spiritualisti una correzione radicale della prospettiva. La filosofia non
poteva uscire dalla palude dello scetticismo, se non «attestando» e
«accettando» dei criteri conoscitivi immanenti all’uomo. Questa soluzione era
considerata l’unica possibilità per uscire dall’equivoco gnoseologico moderno.
Le sue posizioni gli costarono la critica del Gentile, che nel saggio sulle
origini della filosofia contemporanea, inserisce l’A. tra i «mistici», cioè tra
quei filosofi che continuavano a «credere» nell’esistenza di una realtà
«esterna» all’Io pensante. Non potendo «dimostrare» l’esistenza del mondo e
spiegare il suo rapporto con lo spirito, secondo Gentile, i realisti accettano
in modo fideistico il senso comune. Per questa ragione, ossrvò che quella di A.
è «una filosofia fondata sul mistero dell’evidenza»94, una critica poi ripresa
e approfondita dalla Quarello95. Il sintetismo, cioè un’interpretazione della
relazione intima tra l’essere e il pensiero in un’ottica realista, era
considerato da Gentile come una soluzione non fondata per motivare la relazione
tra la mente e il «supporto» mondo esteriore96. Questa visione armonica
dell’essere, è anzi letta da Gentile, nella sua tipica riduzione della storia
della filosofia a preambolo di un compiuto Io spirituale, come delle tesi
idealiste «mancate». 93 G. A., Il problema metafisico studiato nella storia
della filosofia dalla scuola ionica a Bruno, 2-3. 94 G. Gentile, Le origini
della filosofia contemporanea in Italia. I platonici, 366. 95 V. Quarello, A.,
sudio critico, 20. 96 «Il sintetismo dell’A., dunque, non vale più dell’ordine
del Conti. Anche per A. basta il sintetismo ad aprire tutte le porte e svelare
tutti gli enimmi. Così il gran problema gnoseologico del rapporto del pensiero
con l’essere, per A. è prima risoluto che formulato. Criticismo o scetticismo?
Separazione dell’essere dal pensiero, o identità dell’uno con l’altro? Ma il
sintetismo c’insegna che tutto è unito e distinto in natura, e ciascuna forza
opera consociata con tutte le altre! Anche il soggetto e l’oggetto vorranno
essere insieme connessi, ma non confusi: conciliati in un armonia, che non sia
per altro la negazione delle loro differenze» G. Gentile, Le origini della
filosofia contemporanea in Italia. I platonici, 366. 40 Il filosofo
siciliano riconobbe in ogni caso in A. «una certa inquietudine circa la
saldezza del suo principio filosofico»97, originata dal confronto con la logica
hegeliana, che gli avrebbe «turbato i sonni» nel corso della sua opera. Di
fronte alla tesi idealista, A. reputava l’accettazione dell’essere come l’atto
più consono alla natura razionale dell’uomo98. Si tratta di un’attestazione
«misteriosa», ma non per questo irrazionale99. Il primo dato della coscienza è
la percezione di un mondo fuori di noi, tale dato si può o accettare o
rifiutare, non si può dimostrare. Secondo A. la filosofia trova il suo
fondamento nella constatazione dell’esistenza dell’essere. Il pedagogista
sollecita perciò a tornare ad un sano realismo, a ripartire dal mondo delle
cose, dal dato semplice della sua esistenza, dal mistero del sé, per giungere
solo dopo all’Eterno. Ciò ha conseguenze gnoseologiche importanti, tra le quali
il fatto che stando all’A. il ruolo iniziale nel ragionamento risiede
nell’intuito che si muove verso la comprensione. Nel saggio Il problema
metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano
Bruno, egli traccia una serie di stadi, o passaggi, con cui si sviluppa un
pensiero filosofico compiuto. Un primo livello della riflessione riguarda la constatazione
dell’esistenza di un senso comune e di criteri con i quali di norma si valuta e
si giudica, in un secondo momento vi è un pensiero critico che si interroga
sulla veridicità di quanto pensato, nell’ultimo passaggio il pensiero
speculativo indaga e verifica con criteri validi e veritativi. Per l’A., la
riflessione speculativa non è la negazione del senso comune, ma ad esso è
strettamente legato, poiché i criteri veritativi emergono spontaneamente nella
persona, e non sono la costruzione dell’impegno filosofico. Il compito della
metafisica è dunque proprio quello di riconoscere la «realtà della vita, pur
mentre la spiega e si solleva al di sopra di essa per dominarla dall’alto: essa
rispetta le credenze universali del genere umano, conformasi alle esigenze
della natura umana, tien conto de’ suoi bisogni, soddisfa le sue imperiose
aspirazioni, e non disconosce veruno degli elementi integrali dell’umanità». Osserva
a proposito «Nel fatto della cognizione il soggetto e l’oggetto si compenetrano
misteriosamente l’un l’altro senza però smettere ciascuno la sua la propria ed
individua natura» A., Saggi filosofici, In un brano molto significativo, quasi
replicando a tale obbiezione, A. enuclea la sua concezione del mistero: «La
ragione ha certamente il diritto di respingere l’assurdo, perché l’assurdo
ripugna, ma non ha diritto di respingere il mistero, perché il mistero è una
proposizione, di cui si conoscono i singoli termini, che la compongono e non si
comprende bene il nesso, che collega il soggetto col predicato. Quindi possiamo
affermare che in ogni mistero dogmatico vi è sempre alcunché di conosciuto
accessibile alla ragione, come in fondo di ogni verità conosciuta dalla ragione
umana vi è sempre alcunché di ignoto, di tenebroso, un’ombra del mistero» A.,
Appunti di Antropologia e Psicologia, Torino, Carlo Clausen, A., Il problema
metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano
Bruno, 41 A. identifica nel «primo noto», evidente e concreto, la base
della sua speculazione metafisica. Si tratta di quanto il vercellese chiama
anche Io penso, da cui nasce la constatazione che l’essere esista e che possa
essere riconosciuto nella sua realtà e verità. Sulla relazione tra il pensiero
e il reale, si pone in continuità con il concetto di sintetismo esposto da
Rosmini. A. ammetteva un Universale ontologico assoluto a cui erano subordinati
i singoli universali ontologici, attraverso la legge del sintetismo e
dell’armonia101. Il suo realismo gli impedisce di ammettere sia tesi che vorrebbero
la causa del reale come qualcosa di non reale, sia quelle le forme di
spiritualismo che identificano Dio con qualsiasi essere ideale. Secondo A.
sebbene Dio sia l’origine dell’uomo e di tutte le cose non si identifica con
esse. E anche qui applica una delle regole classiche della sua filosofia, il
«Distinguere per unire», enunciato già nei primi libri, e posto alla base della
sua gnoseologia102. In questo senso, avversa sia l’identificazione del pensiero
con l’essere di origine idealista, sia il monismo materialista. La Quarello ha
considerato insufficiente la spiegazione della relazione tra l’Io e il non Io
nel pensiero del Vercellese: «Il punto debole del sistema d’A. è proprio qui,
in sede gnoseologica, nell’avere, cioè, posto a base della speculazione
puramente filosofica l’evidenza dei dati della realtà, nell’avere voluto che il
sapere filosofico non fosse che elaborazione del sapere naturale (oggettività
della conoscenza) ammettendo poi, senza spiegarla, un’intima “conciliazione”
fra ragione ed esperienza»103. E ribadisce «L’A. non ci spiega il come
dell’atto conoscitivo anche se ampiamente ha tentato di svolgere la sua tesi di
una corrispondenza tra pensiero e realtà, tra soggetto ed oggetto, tale da
essere considerata una unione stabilita da natura, secondo la legge dell’ordine
universale per la quale tutti gli esseri armonizzano in unità una molteplicità
di parti e cooperano e sono uniti fra loro, pur rimanendo distinti, sì da
formare una totalità armonica» Il principio della personalità. Suraci spiega
con le seguenti parole il «percorso» che va dal primo nota alla vera conoscenza.
A. nota che il pensiero, nel suo movimento dialettico, descrive un circolo non
vizioso, ma solido per cui dall’uno gnoseologico, l’universale oggetto
dell’intuito primitivo, si passa al molteplice della cognizione determinata,
distinta, oggetto della riflessione: dal molteplice si passa poi alla visione
comprensiva delle cose e quindi alla visione mentale dell’Uno ideale.
Dialetticamente la mente umana, secondo A., non fa che “discorrere dalla
cognizione intuitiva o virtuale dell’Uno gnoseologico alla cognizione riflessa
o attuale del suo molteplice ideale, e dalla cognizione attuale del molteplice
ideale alla cognizione attuale dell’Uno gnoseologico”. Questa formula del
movimento del pensiero somiglia molto da vicino a quella enunciata dal Rosmini
nel n. 701 della sua Logica, al quale A. si attiene, citandolo spesso nel corso
di questi “Saggi” e, potremo dire, in tutte le sue Opere» V. Suraci, A.
filosofo e pedagogista, 158. 102 G. A., Saggi filosofici, 3. 103 V. Quarello, A.,
studio critico, 21. Lesse all’Università di Torino una prolusione dal titolo,
Il ritorno al principio della personalità105. In quella occasione, ripercorse
l’itinerario delle sue opere identificando in questo concetto il punto cardine
di tutto il suo pensiero106. Questa considerazione fu poi ribadita qualche anno
dopo nella prefazione degli Opuscoli pedagogici107. Oltre a riprendere il
contenuto di questo principio e a mettere in luce la rilevanza nell’economia
del suo pensiero, diversi autori hanno considerato l’elaborazione del principio
della personalità come il più importante contributo di A. alla storia del
pensiero pedagogico e filosofico108. Calò ne ha ricordato la valenza
pedagogica, osservando come «nessuno con tanta consapevolezza e chiarezza aveva
prima di lui messo in luce quel principio e mostratane la fecondità e
illuminatane vivamente tutta quanta l’opera educativa»109. Con questo
principio, A. affronta la più profonda questione antropologica, vale a dire la
specificità dell’uomo rispetto al resto della natura. Di fronte alla domanda
«chi è l’uomo?» A. parla della persona come «una mente informante un organismo
corporeo»110. Egli individua due piani strettamente connessi: «nell’uomo la
mente ed il corpo sono due sostanze diverse, eppur fatte l’una per l’altra il
corpo è animato, l’anima è [A., Il ritorno al principio della personalità,
Prolusione letta all’Università di Torino. Torino, Tipografia degli
Artigianelli. Citò la prima prolusione letta all’Università nel 1870, in cui
già enucleò tale principio. Scrisse: «Questo nuovo concetto, che allora mi era
balenato alla mente, fece la sua prima apparizione nella mia Prolusione
universitaria del 1870, intitolata appunto Il principio della personalità, base
della scienza e della vita. “Questo principio (io scriveva allora) è quel
centro ideale, che vale a comporre le antinomie tra le dissidenti scuole
filosofiche nel mondo del sapere, ed i dissidi tra gli elementi sociali nel
mondo dell’operare, e questi due mondi della scienza e della vita insieme
composti solleva ad una unità superiore, che è il punto di contatto e di
armonia di entrambi. Enunciando in una breve e chiara formola questo concetto,
poniamo che, senza il riconoscimento speculativo e pratico della personalità,
non si dà né vera scienza, né vera vita per l’uomo.” Da quel punto questo
principio diventò il pensiero dominante della mia mente, il tema perpetuo delle
mie meditazioni, lo spirito animatore de’ miei lavori e delle mie lezioni, la
mia credenza filosofica rimasta incrollabile e costante in tanto volgere di
anni, in mezzo a tante rivolture e volteggiamenti d’ingegni e di dottrine,
l’arma della mia critica contro tutte quelle teoriche e quei sistemi che
inchiodarono la scienza e la vita sul nudo calvario dei fenomeni sensibili,
senza uno spirito che li animi e li illumini»
«Tutti i miei lavori pedagogici, a qualunque punto della umana
educazione si riferiscano, sono informati da una idea unica e suprema, il
concetto della personalità umana: da esso si vanno logicamente esplicando, in
esso si ritrovano il loro principio di armonia, in esso si compongono ad una
comprensiva e potente unità» G. A., Opuscoli pedagogici, Torino, Tipografia del
Collegio degli Artigianelli, Cannella, che peraltro afferma come il pedagogista
piemontese non sia stato «in Italia conosciuto ed apprezzato abbastanza» scrive
sul principio di personalità: «Lasciando da parte le sue critiche storiche,
acute, precise, e bene spesso pregevolissime, io credo, per esempio, che la sua
idea fondamentale pedagogica dell’educazione della personalità meriti molta
considerazione e racchiuda in sé il nucleo vero, intorno a cui si deve aggirare
una dottrina pedagogica. E così si può dire di molte sue opinioni sui problemi
pratici, dove tanta confusione regna oggi, e dove l’A. ha già disegnato
soluzioni assai giuste» G. Cannella, Opuscoli pedagogici inediti ed editi di
Giuseppe A., in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», Calò, Dottrine e Opere, 261-262. 110 G. A.,
La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, Torino, Tipografia Subalpina] incorporata»111.
L’uomo è definito «sintesi vivente di un’anima razionale e di un corpo
organico, insieme composti ad unità di essere; o meglio ancora è una mente
informante un organismo corporeo, prendendo qui il vocabolo mente come sinonimo
di spirito, ossia di anima razionale»112. Questo primo antropologico scaturisce
dalla sua profonda origine: «Lo spirito umano, ossia la mente sostanziale è
persona per essenza, il corpo umano con essa congiunto in unità di essere è
personale per derivazione e partecipazione, ossia è della nostra personalità
complemento estrinseco, non già principio intrinseco»113. Si tratta di una
prospettiva che ha implicazioni teologiche. Trattando di questo principio
Mazzantini ha osservato: «non è, dico, d’importanza suprema solo in quanto
rivela l’uomo a se stesso, ma in quanto altresì offre un principio supremo
interpretativo della realtà universale, compresa la stessa realtà divina»114.
Su questo versante, è stato osservato come il principio della personalità sia
imprescindibile dal teismo di A. Per il vercellese, infatti, il concetto di
persona trova la sua ragion d’essere e il suo compimento nella relazione con la
Persona infinita116. In una radicale e metafisica indagine antropologica, A.
individuava la questione nodale della scienza pedagogica: «Ora l’idea fra tutte
la più comprensiva, la più feconda, la generatrice di tutto il sapere
speculativo, è, se io ben veggo, l’idea della personalità. Il moto riformatore
della scienza debbe esordire da lei»117. Il destino della pedagogia era legato
al rispetto di questo principio, che invece considerava minacciato dalle teorie
coeve. Nel saggio già citato Sulla personalità umana, elenca una serie di
orientamenti che [A., Appunti di Antropologia e Piscologia, 3. 113 G. A.,
L’uomo e il cosmo, cMazzantini, Due filosofi spiritualisti piemontesi Ha
scritto in merito Suraci: «Il principio “personalistico” serve all'A. per
affermare senz'altro in sede pedagogica, che, “la personalità finita dell'educatore
e quella dell'educando si reggono sulla personalità infinita di Dio, trovano in
questa la loro ragione sulla personalità infinita di Dio, trovano in questa la
loro ragione di essere la loro causa efficiente”. Ebbene, bisogna porsi da
questo punto di vista ontologico ed essenzialmente religioso per intendere a
pieno il valore e il vero significato della pedagogia dell'A., nella quale
convergono con ricchezza di argomenti e di ampia e, spesso, di esauriente
trattazione scientifica, tutti i temi relativi all'essenza e allo svolgimento
della natura umana e della educazione dell'uomo. La religiosità, la credenza di
Dio e nella immortalità dell'anima, rimane, per il nostro autore, il punto di
partenza e di arrivo dell'azione educativa, il cardine essenziale in cui si
radica e gira la pedagogia; è luce inoffuscabile che deve rischiare l'idea e il
fatto dell'educazione: “l'uomo si muove in Dio, principio della sua vita, fine
supremo della sua esistenza”» V. Suraci, A. filosofo e pedagogista, La
coscienza personale è il primo, fondamentale pronunciato da cui esordisce la
scienza. La persona umana sovrasta per eccellenza e nobiltà di natura su tutto
il corporeo universo; ma finito qual è sottostà alla personalità infinita
divina. Non bisogna mai perdere di vista questa dualità di essere personali,
che si richiamano e si corrispondono; poiché, tolta la prima, l’uomo rimane
oltraggiato nella sua dignità personale e diventa una cosa; tolta la seconda,
si apre il varco al più ignobile egoismo, alla libertà più sfrenata, alla più
selvaggia indipendenza. L’uomo riconosce l’esistenza di un essere personale
infinito, dacchè egli stesso è una persona finita, e con esso si congiunge con
un vincolo d’intelligenza e di amore. Questo vincolo costituisce la religione,
la quale forma l’oggetto della disciplina religiosa» A., Il ritorno al
principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino. A.,
Sulla personalità umana, Torino, Fina, reputava nocivi a tale principio118.
Divide queste teorie in due gruppi. Nel primo inserisce i sistemi che
disconoscono la persona nella vita speculativa: il panteismo, il calvinismo, il
fatalismo, il materialismo e l’ipermisticismo. Si tratta di teorie accomunate
dalla svalutazione dell’apporto dell’individualità nella storia e nella vita.
Nel secondo raggruppa gli orientamenti che menomano il ruolo della persona
nella vita pratica: il socialismo, la statolatria, il dispotismo del costume.
Si tratta di teorie che riducono la persona ad un «mezzo» per il raggiungimento
del progresso della società. Nell’ultimo sistema citato, il dispotismo del
costume, A. si schiera contro certa sociologia «per cui ciascuno vien tratto a
conformare il proprio vivere e pensare, al vivere ed al pensare altrui come a
norma suprema»119. Oltre alle teorie citate, il pedagogista vercellese
denunciava il rischio di ingigantire il ruolo di un aspetto della persona a
discapito della sua totalità. Il professore vercellese riconosce questa
tendenza in due grandi sistemi che allora si contendevano il campo della filosofia:
il positivismo e l’idealismo. Secondo A. la mente non è quella degli idealisti,
staccata dal corpo e superiore ad esso, ma non è neanche quello dei positivisti
e di certi psicologi sperimentali che riducevano il pensiero ad un’espressione
materiale. Anche se non si confonde con essa, la vita della mente e dello
spirito è intimante connessa con quella carnale120. La loro relazione non deve
condurre all’assimilazione di una delle due nature che compongono l’uomo 121.
Entrambi i livelli sono distinti in una stretta «collaborazione»: «l’essere
umano possedendo un corpo organato alla vita materiale non può essere spiegato
tutto quanto senza la materia, ma neanco può essere spiegato colla sola
materia, dacchè il suo organismo è informato di una sostanza spirituale»122.
Sebbene il rapporto tra materia e spirito nell’uomo rimanga un «mistero»123,
non è ammissibile assimilare su questo presupposto la persona al resto della
natura determinata. Nella vita dell’uomo, infatti, emergono proprietà
irriducibili alle dinamiche delle entità. L’uomo è siffattamente costituito,
che non vi ha parte del suo essere, la quale non viva congiunta coll’universo
corporeo esteriore. Sentire, pensare, volere, sono i tre supremi attributi
costitutivi dell’umano soggetto; e tutti e tre si svolgono in intima ed operosa
corrispondenza colla natura, fuor della quale rimarrebbero atrofizzati» A.,
L’uomo e la natura, Torino, Carlo Clausen, La natura e lo spirito sono uniti
«ma sarebbe gravissimo errore il credere, che siffatta unione si converta in
una identità, negando così ogni sostanziale distinzione fra l’uno e l’altra, e
confondendoli in una comune essenza. La distinzione esiste e non distrugge
l’unione. Poiché nel mondo esteriore le sostanze sono corporee, e quindi i
fenomeni e le forze sono fisici; nel mondo interiore la sostanza è l’anima, i
fenomeni sono psichici, le forze sono facoltà o potenze. Ma il punto più
spiccato, che distingue questi due mondi, malgrado la loro cospicua armonia,
sta in ciò, che l’anima ha la coscienza de’suoi fenomeni, il dominio delle sue
potenze; e questa coscienza di sé, questo dominio di sé manca alla natura» A.,
La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, A., Studi psicofisiologici] fisiche. Come osserva
A.: «il punto più spiccato che distingue questi due mondi malgrado la loro
cospicua armonia, sta in ciò, che l’anima ha la coscienza de’ suoi fenomeni, il
dominio delle sue potenze»124. Negando la natura spirituale dell’uomo, la
realtà effettiva della persona sfugge alla comprensione: «È un dogma del senso
comune ed un pronunciato della sapienza filosofica tradizionale, che l’uomo non
è tutto quanto materia organata, come non è neppure uno spirito puro, bensì una
sintesi stupenda, un’armonia vivente di questi due distinti principii insieme
composti ad unità di persona: ponete che tutto il suo essere si risolva in un
composto di molecole organate a vita materiale, e voi non capirete più nulla
dei solenni problemi, che agitano la coscienza dell’umanità, più nulla delle
sublimi aspirazioni, che fervono indomabili nei penetrati dello spirito
umano»125. Per il vercellese, è lo spirito che dà dignità all’uomo,
sollevandolo dal resto della natura. La persona esprime il grado sommo
dell’essere e lega l’individuo all’eterno. La coscienza dell’esistere colloca
la persona in una dimensione irraggiungibile per qualsiasi altro essere della
natura. L’esigenza di sottolineare il primato spirituale lo portò il docente
piemontese a criticare in una serie di lavori la definizione aristotelica
dell’uomo come animale politico126, che reputava ambigua. Data la confusione
antropologica coeva, A. non reputava conveniente indicare primariamente
nell’uomo la natura animale. Si rischiava di avallare le tesi dei materialisti
positivisti e di un certo evoluzionismo, che volevano ridotto l’uomo ad un
«bruto», per usare le parole di A.128. Il pedagogista avvertiva il rischio di
ridurre lo studio della persona, al solo aspetto materiale: «Per conseguente
l’antropologia, anziché scienza distinta e superiore, apparirà niente più che
una parte della zoologia, parte la più sublime, se vuolsi, ma pur sempre una
parte» A., L’uomo e il cosmo. Osserva: «La tristissima definizione, l’uomo è
animal ragionevole, non solo capovolge l’ordine naturale, che regna tra questi
due elementi, ma soppianta ben anco la stessa personalità umana, la quale ha la
sua propria sede e radice nella mente imperante sull’organismo corporeo e
fornita di una perenne sussistenza, mentre essa pone l’animalità siccome
soggetto, di cui la ragionevolezza apparisce un mero e semplice predicato,
tantochè venendo meno la prima, cessa issofatto la seconda, né questa può
spiegare altra virtù, che non sia compresa nella cerchia di quella»127. In
seguito ribadisce che accoppiare «all’animalità la ragionevolezza come ad un
soggetto un attributo suo è un disconoscere il primato dello spirito sulla
materia e della mente sull’organismo corporeo nell’uomo, ed un aggiudicarlo
alla materia sullo spirito, al corporeo organismo sul principio pensante» A/, Della vecchia e della nuova antropologia
di fronte alla società, Genova, Tipografia del R. Istituto dei sordo – muti,
1874, p. 7. 128 «Mentre il bruto opera per impulso irresistibile di cieco
istinto, l’uomo opera consapevole di sé e del fine a cui mira, ed è arbitro
delle sue azioni. Questa potenza, per cui l’umano soggetto si determina da sé
ad operare per un fine conosciuto, è la volontà» A., La scuola educativa,
principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e
femminili, 46. 129 G. A., Della vecchia e della nuova antropologia di
fronte alla società, Per riscoprire l’autentica alterità umana, era invece
compito dell’antropologia evidenziare nello sviluppo della persona quegli
aspetti irriducibili al divenire determinato. A. richiama all’osservazione
dell’uomo, delle sue facoltà, e della sua azione. Egli afferma che in ogni uomo
inizia, prima o dopo, la «vita spirituale» che consiste nella coscienza del sé
e del mondo: «Io sono: con questo pronunciamento un essere personale si desta
alla vita, annunzia la propria esistenza, afferma se stesso, rivela sé a se
medesimo, e specificamente si differenzia dagli esseri impersonali che
esistono, pur non sapendo di esistere. Questa coscienza di sé può essere più o meno
viva, più o meno ampia e potente, ma è pur sempre necessaria all’io, poiché una
incoscienza assoluta ripugna alla natura di un essere intelligente, qual è la
persona»130. Nella visione di A., l’affiorare dell’Io, diviene così la prova
della natura spirituale della persona: «Il vocabolo io chiude esso solo in sé
la più decisiva confutazione del materialismo, essendochè il ripiegarsi che fa
l’io sopra di sé ed il riconoscersi siccome sostanzialmente identico nella
dualità del soggetto riflettente e dell’oggetto riflettuto è dote propria dello
spirito ed affatto ripugnante all’essenza medesima della materia, che è di sua
natura impenetrabile, cioè tale da non poter compenetrare interiormente sé
stessa e tutta riconcentratasi siccome in semplicissimo punto: chè in tal caso
cesserebbe di essere materia»131. L’emergere della individualità personale
all’interno del mondo, indica anche lo sviluppo della coscienza alla scoperta
della propria esistenza132. L’Io emerge primariamente in due connotati propri,
vale a dire l’intelligenza e l’attività volontaria133. In questo senso
definisce la persona come «sostanza dotata di intelligenza, mercé cui ha
coscienza di sé affermandosi quale unità vivente di vita sua propria distinta
dalla realtà esteriore e pur con questa unità, e di attività volontaria, per
cui possiede sé stessa e dispiega liberamente la virtualità sua in ordine al
fine universale segnato dalla personalità infinita di Dio»134. Questi due
attributi sono l’espressione della coscienza, in A., Il ritorno al principio
della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino A., Sulla
personalità umana, 17. 132 «La coscienza personale è l’io, che rivela sé a se
medesimo. Ora quali sono le rivelazioni della coscienza interiore? L’io sente
di essere uno od identico con se medesimo, di possedere un’esistenza effettiva
e reale, si riconosce e si afferma una sostanza sussistente, attiva, semovente,
operosa, che svolge la sua intima virtù in una molteplicità di pensieri, di
affetti, di voleri, ed in sé li raccoglie ad unità» A., Il ritorno al principio
della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino i«Lo studio della
personalità umana è lo studio dela mente contemplata primariamente in sé
medesima, poi nelle attinenze su coll’organismo corporeo. La mente, sede della
personalità, emerge da due supremi costitutivi, che sono l’intelligenza
conoscitiva e l’attività volontaria» G. A., Sulla personalità umana, 16.
134 55. 47 cui l’uomo trova la sua indipendenza, alterità e potenza
rispetto al resto della natura135. Con altre parole, A. osserva: «Dovunque c’è
la persona, cioè un soggetto dotato di intelligenza ed attività volontaria, là
vi è lo spirito. La persona è una energia, un’attività, una forza, non cieca,
ma intelligente e conscia di sé, non fatale e necessitata, ma libera e signora
di sé, lo domina e lo trasforma informandolo giusta il suo ideale: ma la
materia non conosce né se stessa, né lo spirito, non domina sé medesima, ma è
irrepugnabilmente dominata dalle forze, che la investono»136. Nell’uomo, infatti,
la volontà è radicata nell’intelligenza137. Solo una prospettiva simile, per A.,
è capace di comprendere la vita della persona, e salvare la sua unità138.
Commentando una parte del celebre libro di Smiles, Self – help, tradotto in
Italia con il titolo Chi si aiuta Dio l’aiuta, A. scrive che ognuno: «sente di
essere un’attività consapevole di sé ed arbitra del proprio operare, una forza
morale, che si muove all’atto non per esteriore costringimento, ma per
intrinseco impulso intelligente e libero. “Se ciò non fosse (scrive lo Smiles
nel capitolo VIII della sua opera Chi si aiuta Dio l’aiuta), dove sarebbe la
responsabilità? A che gioverebbe lo insegnare, l’ammonire, il consigliare, il
correggere? A che servirebbero le leggi, ove non fosse la credenza universale,
come è un fatto universale, che gli uomini obbediscono o no ad esse, secondo
che deliberarono individualmente?”»139. 135 «La persona è un tutto individuo e
sostanziale, che afferma sé come distinto dalla realtà universa; un soggetto,
che possiede sé stesso mercè il pensiero e la volontà; una monade, che è
conscia sui et compos sui, è presente a sé ed è tutta in ciascuna delle
molteplici sue forme, determinazioni, momenti e stati, sicché il secreto de’
grandi caratteri dimora nel conservare la propria individualità personale in
mezzo alle forze contrarie padroneggiandole; una sostanza dispiegantesi per
intrinseca sua virtù da un centro o principio supremo di vita suo proprio e che
nello esplicamento del suo contenuto compenetra tutta sé stessa in una viva ed
attuosa unità di intendere e di volere» A., Lo spirito e la materia
nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo, Torino, Carlo Clausen, 1903, p.
15. 137 Secondo A. l’attività volontaria è «la fonte secreta, inesauribile, da
cui prorompe tutta la corrente della vita umana, ed a cui rifluisce con
perpetuo circolar movimento. Il voglio pronunciato dall’io attesta l’atto di
una coscienza personale ed annuncia il lavoro. S’intende da sé che questa
forza, quest’attività interiore dell’io non è una volontà cieca, inconsapevole
di sé, bensì illuminata dall’intelligenza, essendochè chi dice coscienza, dice
conoscenza, e propriamente conoscenza di sé» A., Il ritorno al principio della
personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, 8.
138 «La coscienza è la rivelazione dell’anima a sè stessa nella sua natura e
ne’ suoi fenomeni, nella sua sostanza e ne’ suoi modi, nella sua essenza e
nella sua attività, nel suo essere e nelle sue manifestazioni. Così il concetto
della personalità umana, vale a dire di un soggetto sostanziale fornito di
intelligenza e di libera volontà, è il solo, che concilii la molteplicità dei
fenomeni coll’unità del loro comune soggetto, sicché questi due termini nello
sviluppo della vita umana si mantengano indisgiungibili, e si rischiarano l’un
l’altro» G. A., Studi psicofisiologici, 74. 139 G. A., La scuola educativa,
principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e
femminili, 47. 48 L’esistenza nella persona di una unità tra mente
e corpo, rappresenta una premessa incontrovertibile su cui dipanare il discorso
antropologico e pedagogico140. Negare questa dualità nell’uomo, significherebbe
disconoscere un dato di realtà. Stando al pedagogista, la stessa idea di
scienza appare contenere implicitamente l’affermazione dell’esistenza della
coscienza141. A. dedicò ampio spazio al rapporto tra la dimensione spirituale e
quella corporale. Com’è già stato osservato, l’uomo è sintesi tra persona e
corpo, due nature che si mantengono in una relazione di armonia nell’uomo. In
questo senso egli definisce l’uomo come «persona organata»142 o «persona
incorporata». Questa relazione, pone il problema di come i due livelli siano
coordinati tra loro. Come premessa a questo problema, A. scrive che «nell’uomo
non vi sono due esseri, ma uno solo; quindi in lui le potenze mentali
dell’anima e le funzioni animali del corpo si svolgono complicate insieme,
sicché non si può tracciare una linea di separazione tra i fenomeni psichici ed
i fisiologici»143. Contro i positivismi chiarisce in più di un’occasione che la
vita della mente va distinta da quella materiale. Osserva: «L’anima non trae la
sua origine dagli organi del corpo, ma (dicevano i pitagorici) vien dal di
fuori nel corpo è un’emanazione dell’etere, simbolo dell’anima universale,
ossia di Dio animatore supremo»144. Nel testo Studi psicofisiologici, si occupa
in specie della relazione tra la natura spirituale e quella fisiologica,
citando diverse opere di studiosi tra cui Marat, Lèlut, Lotze, Cerisem, Cabanis,
Broussais ed Herzen. Polemico contro il monismo scientista, propone una teoria
chiamata duodinamismo, che spiega in questo modo: «Mentre il monodinamismo
concentra la vita umana tutta quanta in una sostanza, cioè o nel solo spirito o
nella sola materia componente l’organismo corporeo, il duodinamismo riconosce
nell’uomo due centri di vita sostanzialmente distinti, cioè l’anima razionale e
la forza vitale, e da quella fa rampollare i fenomeni mentali, da questa i
fenomeni fisiologici ed animali»145. La teoria si 140 Per A. l’uomo è «La
persona, sostanza individua, sussistente in sé, volontariamente attiva; l’unità
è l’identità dell’io nella molteplicità e varietà dei suoi modi e dei suoi
fenomeni; la vita intima ed individuale intrecciata colla vita esterna e
comune; la vita mentale svolgentesi insieme colla vita organica. Ecco le
rivelazioni della coscienza personale, rivelazioni, che costituiscono le prime,
spontanee intuizioni dello spirito umano, salde, inconcusse, irrepugnabili. Ora
da ciascuna di queste rivelazioni la ragione vede spuntare una serie ordinata
di problemi, che ammaniscano la materia, su cui la scienza ordisce le sue trame
e compie il suo lavoro speculativo» A., Il ritorno al principio della
personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, 10.
141 «Così coscienza e scienza sono i due poli, fra cui si muove il mondo della
speculazione: la coscienza ci rivela la personalità dell’essere, ed alla luce
di questo principio la ragione costruisce la scienza» 10. 142 G. A., Della
vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, 14. 143 G. A., Studi
psicofisiologici, 26. 144 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, Cuneo,
Tipografia Subalpina di Pietro Oggero e C., A., Studi psicofisiologici,
69. 49 rifà ad autori come Barthez, Montpellier, Lordat. Essa
«concilia insieme la molteplicità della natura umana coll’unità dell’Io
individuale. Infatti l’anima razionale non essendo uno spirito puro, ma
congiunto colla materia, è essa che informa ed avvia il corpo, è il suo
principio ed animatore: così il principio corporeo produce i fenomeni della
vita fisica ed animale, ma in grazia della forza vitale ricevuta dall’anima, la
quale in tal modo produce direttamente e per se stessa i fenomeni della vita
mentale, ed indirettamente, ossia per mezzo del corpo i fenomeni della vita
corporea»146. Al naturalismo e al positivismo contestò, come già accennato, la
riduzione dell’antropologia a un «capitolo della fisiologia, ad un ramo della
zoologia»147. A. chiarisce è che non è contrario alla fisiologia, ma al
«fisiologismo». Negli Studi pedagogici cita il caso dei fisiologi come
Salvatore Tommasi, che sostengono come la disciplina non porti necessariamente
al materialismo148. Inoltre osserva come anche alcuni positivisti abbiano
ammesso una serie di difficoltà nello spiegare la vita mentale con la sola
fisiologia. Per suffragare la sua tesi rinvia al saggio Herzen, Il cervello e
l’attività celebrale, nel quale lo studioso riconosce quanto sia ancora lontana
la possibilità di chiarire aspetti fondamentali del funzionamento della mente
umana. A. trae queste conclusioni: «Così i più grandi rappresentanti del
positivismo contemporaneo riconoscono l’ignoto, che giace in fondo al problema
dell’unione tra la vita fisica e la vita mentale dell’uomo. Certamente la
fisiologia moderna co’suoi luminosi ed incontestabili progressi ha sparso molta
luce su questo problema, ma non ha svelato il mistero che lo avvolge»149. A. si
poneva come obiettivo di salvare insieme le esigenze spirituali e i dati
fisiologici. Osserva: «Il principio antropologico da me propugnato è antico
quanto l’uomo, il quale intuisce per natura la personalità del suo essere, ma è
pur fecondo di novità e di progressivo sviluppamento, perché ammette insieme
armonizzati i due supremi fattori della scienza, voglio dire l’esperienza, che
apprende la fenomenalità delle cose, e la ragione, che coglie il loro essere
sostanziale»150. Nel principio della personalità si palesa lo spiritualismo di
A., che viene spiegato così dalla Quarello: «Realismo spiritualistico e
spiritualismo teistico: tale è la filosofia d’A.. È realismo in quanto il
pensiero è l’ “attività” di un essere reale (io = persona); è spiritualismo in
quanto la persona è essere uno, sostanziale cosciente di sé (“lo 146 72 147 G. A.,
L’uomo e la natura, A., Studi pedagogici, A., Studi psicofisiologici, A., Il
ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di
Torino il 18 novembre 1903, 14. 50 spiritualismo, egli scrive,
proclama la personalità umana”); è teismo in quanto Dio è pensato come persona
(“il teismo proclama la personalità infinita di Dio”)»151. Lo spiritualismo
dell’A. trae alimento dal principio della personalità. Se da una parte,
infatti, si afferma una dimensione irriducibile alle dinamiche nell’uomo, e
dall’altra l’attestazione di questa «natura» dell’uomo conferma il suo
spiritualismo. «Preso nel suo ampio senso – osserva il pedagogista vercellese -
lo spiritualismo risiede nell’ammettere l’esistenza di sostanze immateriali,
che cioè non cadono sotto i sensi e non hanno le proprietà della materia, quali
sono la figura, la grandezza, l’estensione, la divisibilità, il movimento
locale, bensì sono fornite di intelligenza e di libera volontà»152. In questa
duplice difesa dello spirito e della realtà materiale, sembra di poter
affiancare A. al personalismo nato in Francia diversi decenni dopo, a cui lo
accomunò la volontà di «evitare che la persona umana fosse schiacciata dal
materialismo positivistico o assorbita nel vortice del monismo idealistico»153.
I. 4. Antropologia e pedagogia Secondo A., la pedagogia deve fare i conti con
la realtà educativa e le sue dinamiche154. La riflessione teorica e la vita
formativa rappresentano due poli indispensabili l’uno all’altro155. A.
prospetta, in questo senso, un metodo di ricerca pedagogico sia empirico che
razionale. Egli lo definisce «dialettico» in quanto «contempera insieme
l’esperienza e la ragione, i fatti e i principi»156. La storia della pedagogia
documenta come qualsiasi riflessione sistematica sull’educazione, abbia sempre
fondato le sue posizioni su una concezione dell’uomo e del suo ideale. Anche
per A., l’antropologia come «scienza dell’essere umano»157 si 151 V. Quarello,
A., Studio critico, A., Appunti di Antropologia e Psicologia, 8. 153 Pedagogie
personalistiche e/o della Pedagogie della persona, Brescia, La Scuola, 1994, p.
15. 154 «Siccome l’educazione è ad un tempo un’idea ed un fatto, così la
Pedagogia, che ne rampolla, assume il duplice carattere di scienza e di arte.
Essa è scienza perché l’esplicazione razionale di quell’idea; è arte, perché ideale
tipico di quel fatto. Come scienza è un sistema di cognizioni, una teoria
speculativa intorno l’educazione umana, epperò potrebbe appellarsi pedagogia
pratica» A., Studi pedagogici, cit., 1889, p. 25. 155 «Così la scienza
pedagogica è la teoria dell’educazione, l’arte pedagogica è la pratica
dell’educazione; scienza ed arte, teoria e pratica bisognevoli l’una
dell’altra. Poiché la mera pratica dell’educazione, non illuminata dalla
scienza pedagogica, non è vera arte, bensì cieco empirismo; la scienza
pedagogica alla sua volta, non tradotta in pratica, né fecondata dal magistero
dell’arte, rimane una vana e sterile teoria» A., Concetto generale della storia
della pedagogia, Pavia, Bizzoni, A., Studi pedagogici, A., L’uomo e il cosmo,
1. 51 prospetta come uno studio di fondamentale importanza tanto
per la teoria quanto per la pratica educativa158. A.colloca l’antropologia al
centro dell’organigramma di tutte le scienze. Egli individua il suo obiettivo
nella conoscenza dell’essenza unitaria della persona. A. non pensa
all’antropologia come ad una etnografia, ma come «scienza generale sull’uomo»
connotata da un orizzonte metafisico. Dallo studio generale sull’uomo,
discendono due gruppi di discipline, quelle che lo studiano nella sua accezione
individuale, e quante ne approfondiscono l’aspetto sociale160. Le scienze che
studiano l’uomo sotto l’aspetto individuale si dividono a loro volta in altri
due gruppi. Del primo fanno parte tutte le discipline che si occupano della
mente: logica, estetica, etica, eudemonologia, filologia, pedagogia. Al secondo
gruppo afferiscono le scienze che riguardano l’organismo corporeo: fisiologia,
anatomia umana, patologia, terapeutica, igiene, ginnastica. Le scienze che
riguardano l’uomo sociale sono secondo A. la politica, la giuridica, l’economia
pubblica colle scienze industriali e commerciali, la storia, l’etnografia, la
filosofia della storia. Tutte queste discipline sono legate all’antropologia,
che permea e fonda qualsiasi aspetto dello scibile umano. Secondo A., la prospettiva
sulla natura e il senso della persona, permea le possibili soluzioni avanzate
riguardo la vita della società, le sue leggi, le sue prospettive, il suo
sviluppo. Osserva: «Ogni problema sociale, vuoi politico, vuoi artistico, vuoi
religioso, cova in sé un problema antropologico»161. Questa relazione è ancora
più evidente per quanto concerne la scienza pedagogica, con la quale
l’antropologia ha un «vincolo indissolubile»162. Lo studioso piemontese,
infatti, pur riconoscendo un proprium alla pedagogia nell’affrontare dei
problemi fondativi e generali sull’educazione, considerava necessario il
contributo delle altre scienze, indispensabili per completare e integrare la
ricerca pedagogica163. Tra queste primeggia l’antropologia filosofica poiché
necessaria per chiarire 158 «L’educazione dell’uomo presuppone la conoscenza
dell’uomo stesso, epperò la pedagogia o scienza dell’educare e la didattica o
scienza dell’istruire, hanno il loro fondamento nell’antropologia, o scienza
che studia l’essere umano» A., La scuola educativa, principi di antropologia e
didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 3. 159 A. sostiene
che l’antropologia studia «l’uomo nella sua intima e generalissima essenza,
ossia nell’integrità e pienezza complessiva del suo essere» A., Studi
psicofisiologici, Cfr. A., Appunti di Antropologia e Psicologia, A., Della
vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, 4. 162 G. A., Studi
pedagogici, 39. 163 Nel seguente brano elenca le discipline ausiliarie alla
pedagogia, che sono: «1° L’antropologia generale, che studia l’uomo nella
dualità di anima e di corpo e nella unità della sua persona; 2° la psicologia,
che studia l’anima umana nelle proprietà della sua natura e nella varietà delle
sue potenze; 3° la logica riguardata siccome la teorica della verità e della
scienza; 4° l’etica, che studia il Buono, norma ed oggetto della libertà morale
umana; 5° la cosmologia, che è una spiegazione scientifica del mondo; 6° la
metafisica, 52 la natura e il fine dell’educando, e quindi
dell’educazione. Nonostante i diversi ambiti di ricerca «tra l’antropologia e
la pedagogia intercedono le due fondamentali attinenze della distinzione e
dell’unione»164. Se il principio della personalità è il fulcro dell’opera d’A.,
l’antropologia è il centro della pedagogia. Non a caso, quando il professore
vercellese sostituì Rayneri sulla cattedra di pedagogia all’Università di
Torino, cambiò il nome dell’insegnamento da «Metodica» in «Antropologia e
Pedagogia». Il carattere di ciascun sistema pedagogico dipende dalla
prospettiva antropologica: «le diverse e contrarie teorie pedagogiche
professate dai cultori di questa disciplina traggono appunto la loro ragione e
origine dai diversi e contrari concetti antropologici, da cui essi hanno preso
le mosse, e su cui hanno costrutto il sistema»165. Per capire e pensare
l’educazione occorre una chiara idea su cosa sia l’uomo, se ci sia e quale
debba essere il suo compito nel mondo: «Ogni dottrina pedagogica ritrae dai
principi antropologici su cui si regge, la virtù peculiare, che la informa, e
lo stampo singolare, che la individua»166. Non si possono slegare questi due
aspetti nella riflessione: «L’uomo e la sua educazione sono due termini insieme
compenetrati, come un principio e la conseguenza sua, e che li disgiunge, è
mente piccina che né l’uno, né l’altra intende. L’uomo spiega se stesso
nell’educazione e l’educazione riflette se stessa nell’uomo; e sempre il
concetto antropologico ed il concetto pedagogico serbano l’uno coll’altro
rispondenza esatta o veri o fallaci che siano entrambi»167. La correlazione è
necessaria. In un altro brano chiarisce gli scopi delle due discipline: «La
distinzione delle singole scienze origina dalla distinzione dei loro oggetti:
l’una non è l’altra, perché versa sopra un oggetto suo proprio, che non è
quello dell’altra. Per conseguente la scienza antropologica dalla pedagogica si
differenzia essendochè quella ha per oggetto suo l’essere umano, questa
l’educazione umana, l’una studia l’uomo nell’integrità e compitezza dell’esser
suo, l’altra sotto il peculiare riguardo della sua educabilità; la prima si
propone di rispondere alla domanda: Che cosa è l’uomo; la seconda ha per
ufficio di soddisfare all’inchiesta: Che l’educazione e come l’uomo va educato.
Ecco il rapporto di distinzione, ma da questo stesso già si rileva il vincolo
unitivo, che stringe l’una all’altra le due discipline, essendochè l’uomo e la
educazione sua sono due termini inseparabili. La pedagogia ha coll’antropologia
un vincolo così intimo e necessario, che trova in questa il fondamento e che
studia l’Essere primitivo in sé e ne’ suoi rapporti col mondo e coll’uomo» A.,
Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, Torino,Tipografia Subalpina di
Stefano Marino, A., Attinenze tra l’antropologia e la pedagogia, «Rivista
Pedagogica Italiana», Asti; A., Delle idee pedagogiche presso i greci, A.,
Opuscoli pedagogici, cit., 1909, p. 10. 53 la ragion sua ed in ogni
punto del suo processo si regge sui principii supremi della scienza antropologica»168.
Per fare pedagogia occorre dunque possedere una «conoscenza scientifica
dell’origine, della natura, del fine dell’uomo»169. Bisogna tenere conto del
fatto che nella temperie culturale in cui A. sosteneva queste posizioni, porre
l’antropologia filosofica a fondamento della pedagogia, non era un’ovvietà,
soprattutto quando essa era collocata entro un contesto metafisico. Porre il
baricentro del discorso pedagogico sulla questione antropologica, era
considerato da A. come la risposta emergente ad una problematica educativa
reale. Si trattava di un problema radicale che faceva da discriminante tra le
varie teorie. Le risposte alla questione circa la natura dell’uomo, non erano
infatti da considerare secondarie per la qualità della relazione pedagogica:
«Educare è sviluppare le virtù insite dell’uomo fanciullo. Ma che cosa e quale
è mai l’uomo che si vuol educare? Forse l’uomo di Molescott, un mero giuoco di
elementi chimici colla predominanza del fosforo pensiero, e niente più? O
l’uomo-scimmia de’ moderni naturalisti? O l’uomo de’ panteisti tedeschi fatto
una cosa sola con Dio? O l’uomo de’ razionalisti trasformato in libero
pensiero? O l’uomo de’ mistici che lo spiritualeggiano per intero, mentre i
materialisti lo abbruttiscono?»170. Per A., si trattava di domande impellenti.
La pedagogia esigeva nuova chiarezza sull’idea di persona: «Oggi più che mai
essa reclama un supremo principio vitale, che risponda al suo altissimo
compito, ricomponga ad unità di organismo potente la sua squilibrata compagine
e le additi l’ideale suo, verso cui cammina franca e sicura»171. Secondo il
pedagogista, la domanda circa la natura dell’uomo non poteva essere affrontata
con gli strumenti epistemologici delle scienze esatte, incapaci di cogliere
l’essenza della persona. Tale compito spetta alla filosofia, che diviene la
prima interlocutrice della pedagogia. In più di una occasione chiarì che la sua
era una «pedagogia filosofica»172 poiché si «fonda sopra un principio
essenzialmente vero ed inconcusso, quale è quello della natura umana riposta
nella personalità dell’io, e nel suo procedimento adopera non la sola
esperienza disgiunta dalla ragione, né la sola ragione astratta, che disdegna
la realtà dei fatti, bensì entrambe queste due potenze conoscitive, e l’una in
armonia coll’altra» A., Attinenze tra l’antropologia e la pedagogia, A., La
pedagogia italiana antica e contemporanea, A., Il ritorno al principio della
personalità, Prolusione letta all’Università di Torino, A., La nuova scuola
pedagogica ed i suoi pronunciamenti, Torino, Carlo Clausen. Stando a Calò, uno
dei punti centrali nell’opera dell’A. è questo: «Non trascurare le esigenze
dell’esperienza né quelle della ragione; ecco, secondo l’A., il primo canone
del metodo filosofico»174. Ciò è confermato anche dall’esigenza di rompere le
catene del misurabile, e allargare la pedagogia alla profondità e al mistero
della persona. Solo «La pedagogia filosofica riconosce nell’alunno un’anima
razionale non già separata dal corpo, ma con esso vitalmente congiunta in unità
di persona, sebbene da esso distinta, un’anima, che sviluppa di continuo le sue
energie in una successione di fenomeni, che formano la sua vita, epperò vuole
un’educazione, che si estenda a tutto quanto l’uomo nella dualità delle sue
sostanze e nell’unità della sua persona, alla vita temporanea e alla
futura»175. La natura delle domande che l’esigenza dell’educazione ci pone, non
si possono risolvere con il metodo scientifico176. A. non portò sostanziali
novità nella riflessione epistemologica, ma difese la prospettiva pedagogica
spiritualista, confutando i detrattori della metafisica in campo antropologico.
Secondo Serafini, nonostante «il modello disciplinare intorno al quale egli
lavora è ancora, in larga misura quello di una pedagogia come scienza pratica
(quantunque punti particolarmente sulla figura d’una disciplina complessa) che
si differenzia dal modello elaborato in ambito positivistico particolarmente
per gli effetti che su questo ha il suo personalismo»177. Un altro carattere
distintivo della pedagogia d’A. è l’idea della specificità nazionale della
pedagogia. Occorre secondo il pedagogista pensare in continuità con la storia
del proprio popolo e con le proprie attitudini. Su questo tema trovò una
consonanza con il saggio di Antonino Parato dal titolo «La scuola pedagogica
nazionale», non senza motivo diverse volte citato d’A.. I. 5. L’educazione 174
G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico d’A., 8. 175 G. A., La nuova
scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, Spiega A. «La pedagogia è la scienza
dell’educazione umana; e siccome l’uomo non può essere convenientemente educato
se prima non è conosciuto secondo verità, quindi è che la pedagogia dipende ed
attinge da tutte quelle scienze, che hanno per oggetto la conoscenza ragionata
dell’uomo riguardato in sé ed in rapporto colla realtà universale. Ciò posto,
che cosa è l’uomo, donde esso viene e dove va? Come si congiungono in lui ad
unità di vita il corpo e la mente? I suoi destini si compiono quaggiù o in una
vita ultramondana? Esiste la verità e la scienza, a cui aspira la sua
intelligenza? Esiste una legge morale, norma della sua libera volontà? Che
cos’è questo mondo esteriore, che lo circonda, ed in cui è posto a vivere? Qual
concetto dobbiamo formarci di quell’essere assoluto ed infinito, che è
l’oggetto della moralità e religiosità umana, origine prima e fine ultimo di
lui?» G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 245-246. 177
G. Serafini, L’idea di pedagogia nella cultura italiana dell’Ottocento, cIn più
di un’opera, il pedagogista vercellese denunciò una grave crisi educativa, che
egli imputava alla confusione imperante circa i caratteri di una formazione
adeguata178. Sulla base del principio della personalità, egli considerava
l’efficacia educativa legata alla previa soluzione data al senso della
perfettibilità dell’uomo179. Mancando, come già si è accennato, una concezione
adeguata sulla natura dalla persona, anche la pratica educativa ne veniva fuori
menomata. Tra i fondamenti pedagogici di A. si colloca questa massima: «Sul
sentimento e sul rispetto della dignità della persona si fonda l’arte
dell’educare»180. Al pari di un ampio stuolo di pedagogisti ed educatori, il
docente vercellese era convinto che non si dà autentico sviluppo della persona
senza un intervento formativo181. La natura esteriore, infatti, «non è per se
stessa educativa nel senso rigoroso della parola, bensì tale diventa
allorquando il fanciullo in sé accogliendola l’accompagna e la feconda colla
coscienza del suo sviluppo»182. Per tratteggiare i caratteri precipui
dell’educazione, A. si rifà alla lezione di Rayneri, che nella Pedagogica
enumerò cinque attributi imprescindibili: Unità rispetto al fine, Universalità
rispetto a tutte le facoltà umane che devono essere medesimamente sviluppate,
Armonia tra le potenze umane, Gradazione, Convenienza, cioè – oggi diremmo –
personalizzazione dell’intervento educativo183. Mentre il suo maestro
considerava la «convenienza» come la più importante di queste leggi, A.
sostiene il primato dell’armonia184, quale condizione necessaria per
un’educazione efficace185. 178 G. A., Studi pedagogici, 21-22. 179 «L’opera
educativa si modella sul concetto dell’uomo: quale noi lo conosciamo, tale lo
educhiamo, e per conseguente ogni dottrina pedagogica si informa e si esempla
sopra una dottrina antropologica.(...) L’educazione muove dalla natura
originaria dell’uomo, come da suo fondamento, lo segue nel corso progressivo
della sua vita governando lo sviluppo delle sue potenze, mira ad un ideale di
perfezione, a cui intende sollevarlo» G. A., G. G. Rousseau filosofo e
pedagogista, Tipografia Subalpina, Torino, 1910, pp. 81-82. 180 G. A., La
scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, 185. 181
G. A., Studi pedagogici, 67-68. 182 G. A., La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 68.
183 G. A., Studi pedagogici, 106. 184 109-112; 185 L’educazione deve essere
armonica rispetto a tutte le facoltà della persona «Che l’alunno debba essere
educato in armonico accordo colla natura fisica circostante, colla famiglia e
colla nazione, a cui appartiene, coll’organamento sociale, in cui vive, col
grado di civiltà e collo spirito proprio del tempo, è una verità già riconosciuta
e proclamata dalla pedagogia filosofica. Poiché l’alunno non è una monade
solitaria ed isolata, chiusa ad ogni comunicazione esteriore, bensì abbisogna
della convivenza di altri esseri, a fine di espandere la sua vitalità interiore
e compiere il suo esplicamento. Ma egli possiede una personalità sua, che non
può essere sacrificata al mondo fisico sociale; è fornito di una libertà
interiore, che gli conferisce il dominio di sé medesimo, sicché egli è quale
vuole essere, non quale lo fa la necessità insuperabile dell’ambiente; non
potrebbe vivere una vita comune nel consorzio con altri esseri se anzi tutto
non vivesse in se medesimo di una vita tutta sua propria; non potrebbe mettersi
in conformità di accordo coll’ambiente, se da prima non fosse in concorde
armonia con sé stesso; non potrebbe acconciarsi alle impressioni del grande
organismo 56 Sebbene guidata da un criterio unitario, l’educazione
può essere analizzata nella sua molteplicità. A. parla di un’educazione fisica,
intellettuale, estetica, morale, religiosa. Distingue tra quella naturale, che
segue lo sviluppo delle facoltà della persona, e quella esterna, guidata da
modelli valoriali, culturali e intellettuali dal discente. Il perno
dell’educazione della persona è la sua razionalità ed intelligenza. Riprendendo
la tripartizione rosminiana delle facoltà umane186, A. ricorda come
l’interiorità della persona sia il vero oggetto dell’educazione, mistero non
materiale187, ed eccedente i meccanismi fisiologici188. I fenomeni
dell’interiorità sono governati da leggi come quella di associazione,
simultaneità, successione, e si fondano sulla dinamica delle potenze umane,
tratto tipico della pedagogia rosminiana, che si dividono in corporee o fisiche
e in spirituali o mentali189. Compito dell’educazione è di sviluppare le
potenze umane, in cui l’intelligenza umana si esprime come desiderio
spirituale190. Se l’educazione è il mezzo attraverso cui l’uomo può essere se
stesso, questa va rivolta a chiunque. A. considerava necessario offrire a
qualsiasi persona l’educazione e l’istruzione, senza discriminazioni per le
condizioni economiche, sociali, o di genere. In questo senso contesta i
positivisti che negavano la possibilità e l’utilità di occuparsi dell’educazione
e dell’istruzione dei diversamente abili. Negli Opuscoli Pedagogici191 sostiene
la necessità di educare i sordomuti, i nevrastenici, i balbuzienti, i ciechi,
ed esorta ad approfondire gli studi sui mezzi con i quali sia meglio educarli,
richiamando a prendere esempio da altre nazioni europee come la Francia. Nel
saggio su Rousseau, contesta l’idea difesa nell’Emilio, secondo cui i della
natura, se anzi tutto non sentisse il vitale influsso dell’organismo corporeo
suo proprio; infine egli aspira ad un ideale della vita futura, il quale non
può trovar luogo nella cerchia dell’ambiente della natura tutto circoscritto ad
un punto del tempo e dello spazio» G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi
pronunciamenti, 19-20. 186 «Sentire, intendere e volere, in questa triplice
classe di fenomeni psicologici si raccoglie tutto lo sviluppo del nostro essere
spirituale» G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad
uso delle scuole normali maschili e femminili, 6. 187 «I fenomeni interni o
psicologici non si veggono cogli occhi del corpo, non si toccano, non si odono,
non si odorano: un pensiero, un affetto, un volere non hanno forma o figura,
non divisione o dimensione, non grandezza o misura: essi soltanto alla
coscienza si mostrano e sono oggetti di osservazione interiore» 7. 188 «I fenomeni
interni sono di loro natura superiori all’organismo; i sentimenti, i pensieri,
i propositi deliberati sono manifestazioni esclusivamente proprie dello
spirito, al cui compiuto sviluppo i fenomeni dell’organismo corporeo
intervengono bensì, ma come condizione soltanto, non some causa» 7-8. 189 «Ciò
posto, siccome i fenomeni interni ci vennero superiormente distribuiti in tre
classi supreme, affettivi cioè, intellettivi e volitivi, così siamo condotti ad
ammettere tre supreme potenze umane corrispondenti, la sensitività,
l’intelligenza e la volontà, intendendole con tale larghezza, che la
sensitività comprende tanto la sensazione animale, quanto il sentimento
spirituale, l’intelligenza abbracci tanto la percezione o fantasia sensitiva
quanto la ragione, e similmente la facoltà spirituale della volontà si mostri
preceduta dagli appetiti inferiori e con essi collegata» 12. 190 «Come
l’istinto animale provvede alle esigenze della nostra vita fisica, così
l’istinto spirituale fornisce alla vita mentale i beni, che le sono proprii.
Ora lo spirito vive del Vero, del Bello, del Buono, e vi si sente portato da
naturale istinto, il quale viene così a distinguersi in intellettivo, estetico
e morale» 29. 191 G. A., Opuscoli pedagogici, 94-97. 57
diversamente abili, A. parla di «storpi», non abbiano diritto all’istruzione e
all’educazione192, ribadendo la convinzione che l’educazione sia un diritto per
tutti. Tutti gli uomini sono persone, qualunque sia la loro condizione, e
ognuno merita di essere educato e istruito, anche se ciò deve essere fatto
secondo le inclinazioni e le potenzialità di ciascuno. Analogamente contestò
Platone quando estromette i «malconformati di corpo» dalla cerchia degli
educabili. Inoltre fa notare come «anche lo Spencer a’ di nostri muove rimprovero
alla società che si prende cure dei miserabili, dei poveri, degli infermi, fino
a dichiarare una grande crudeltà il nutrire gli inetti a spese dei capaci degli
operosi»193. A. considera questa prospettiva come una diretta conseguenza del
materialismo: disconoscendo il valore assoluto dell’uomo, non ha più senso la
cura di quanti non «funzionano», non «producono», quanti insomma sarebbero solo
un peso per il sistema economico. Secondo A. solo il riconoscimento della
dignità suprema dell’individuo permette il rispetto di ciascuno e la sua
valorizzazione. Dimenticata la persona nell’uomo, si elimina la ragione
dell’eguaglianza degli esseri umani e dunque il diritto all’educazione per
tutti. Sulla base del principio della personalità, il pedagogista vercellese fu
altresì un difensore dell’istruzione e dell’educazione delle donne. Anche per
l’A., come per molti altri studiosi della seconda metà dell’Ottocento, era
necessario concepire l’educazione della donna in armonia con l’ufficio della
maternità e la cura della famiglia, compiti a cui secondo il pedagogista la
donna era naturalmente destinata. Dopo aver difeso il ruolo della donna nella
famiglia, spiega: «Né altri di qui inferisca, che la donna circoscrivendo nel
recinto della casa il suo genere peculiare di vita debba crescervi e passarvi i
suoi giorni solitari, ignorante, incolta, spregiata e negletta. Anch’essa
possiede per natura tutte le facoltà costitutive della specie umana, a cui
appartiene; epperò ha, quanto l’uomo, diritto alla verità, alla felicità, alla
virtù, al rispetto della dignità umana, che in lei rifulge, al perfezionamento
suo proprio. E se abbia da natura sortito qualche raro pregio di mente e di
spirito, qualche felice attitudine al culto di qualche disciplina, od arte, o
nobile professione sociale, chè non venga mai meno alla sua prima e natural
missione, alla quale è chiamata nel santuario domestico»194. A. reputa che sia
necessario offrire un percorso educativo e di istruzione anche alle donne meno
abbienti. Dopo aver analizzato le opere della Saussure, contesta il fatto che
si parli dell’educazione solo per i ceti sociali più alti: «Però io non posso
passare sotto 192 G. A., G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, 160. 193 G. A.,
Delle idee pedagogiche presso i greci, 113. 194 117-118. 58
silenzio, che in questo eletto lavoro pedagogico della Saussure è tutto rivolto
alla coltura della donna di agiata e civil condizione, come lo sono altresì le
opere pubblicate dalle due egregie donne italiane, la Colombini e la Ferrucci
intorno l’educazione femminile. Eppure anche l’educazione della donna popolana
ed operaia può e deve fornire al cultore della pedagogia bello e grande
argomento di studio e di meditazione, per quantunque debba essere discorso
sott’altra forma ed in proporzioni più modeste»195. Nonostante l’inciso finale,
il discorso dell’A. sembra innovativo rispetto alle comuni pratiche e teorie
pedagogiche. La donna inoltre, in quanto persona, non poteva essere considerata
proprietà di alcuno. Per questo motivo critica Rousseau che aveva fatto di
Sofia una moglie totalmente asservita al marito. Al contrario: «La donna non è
nata per essere la schiava né dello Stato, né dell’uomo»196. L’attività
dell’educatore e della scuola deve anche essere in armonia con quella
familiare. La famiglia è l’inizio e il paradigma dell’educazione. Chi si occupa
di educazione deve avere come modello l’istituzione familiare. A. sostiene la
necessità di una famiglia generosa, laboriosa e aperta. Contesta la famiglia
rappresentata nell’Emilio, considerata isolata ed egoista. Invero, persistono
nella sua opera ancora alcuni stereotipi sul sesso femminile. A. parla di
un’inferiorità fisica197, e sostiene che «nella donna il sentimento e l’affetto
predominano sull’intelligenza e sulla volontà», e sebbene sottolinei i vantaggi
di questa caratterustica femminile198, considera l’uomo maggiormente capace di
sottomettere la volontà alla ragione199. Secondo A. la durata dell’educazione
abbraccia tutta la vita. L’uomo ha sempre da essere perfezionato. Il suo
cammino verso il compimento di se stesso è costante200. È tuttavia vero che la
vita è composta da diverse fasi, ognuna ha delle particolari esigenze
educative. A. contesta cesure nette nella teorizzazione dello sviluppo della
persona. 195 G. A., Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina
Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, Torino, Libreria
Scolastica di Grato Scioldo, 1884, p. 222. 196 G. A., G. G. Rousseau filosofo e
pedagogista, 159. 197 «Insegna la fisiologia, che l’organismo corporeo è più
gagliardo e più robusto nell’uomo, più esiguo e più delicato nella donna;
questa diversità di struttura deve naturalmente riuscire ad una differenza tra
le potenze fisiche del sentire e del muoversi corporeo» G. A., La scuola
educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali
maschili e femminili, 16-17. 198 «Essa pensa più col cuore, che col cervello.
La verità la sente più che non la mediti, la intuisce più che non la ragioni,
la crede senza avvolgerla fra le tortuose spire del dubbio, la accoglie tutta
quanta viva ed intiera senza dissolverla e notomizzarla col coltello
dell’analisi; pensa e riconosce Dio come un bisogno del cuore, anziché come un
principio della ragione; posa il suo pensiero sulla realtà concreta e vivente e
mal si rivolge alle aride astrattezze, alle generalità trascendetali» 17. 199
«Venendo alla volontà, anch’essa nella donna soggiace alla influenza del
sentimento, nell’uomo procede a tenore della ragione» 18. 200 «L’educazione
comincia colla vita e mai non cessa, perché la nostra perfettibilità dura
quanto la nostra mortale esistenza; però essa muta tenore ed ufficio ed
indirizzo secondo il mutare delle diverse età» G. A., Delle idee pedagogiche
presso i greci, 33. 59 La vita non può essere divisa in tappe con
demarcazioni rigide, dato che la crescita è graduale e soggettiva. A tal
proposito critica Rousseau, il quale «ha rotto l’uomo (e con esso l’educazione)
in tre pezzi, che spuntano non si sa come, l’un dopo l’altro, il fanciullo,
l’adolescente, il giovinetto: e sotto il taglio della sua anatomia psicologica
la personalità è finita»201. Tale istanza è legata ad uno dei principi cardine
dell’educazione in A., vale a dire l’armonia. «Se la virtù e l’anima e
l’universo e Dio medesimo e tutto quanto esiste è armonia, appar manifesto, che
anche essa l’educazione deve posare e reggersi tutta quanta sull’armonia, come
suo fondamentale principio, val quanto dire essenzialmente ed integralmente
ordinata all’armonico sviluppo delle forze del corpo e delle facoltà
dell’anima»202. Importanti appaiono alcune annotazioni sul rapporto
educatore-educando. Se la persona è libera e tende alla sua libertà,
l’educatore non può agire sull’educando non tenendo conto di questo aspetto
proprio della persona. Dato che l’uomo è libero, non si potrà ridurre
l’educazione ad un meccanismo, l’educatore non costringe, non forza, non
chiude, ma mostra, fa ammirare, interroga, sollecita, suscita. Su tale
principio l’A. riprende fortemente il modello della paideia greca, contrapposto
alla modernità che confusa sulla natura spirituale della persona e dunque sulla
sua libertà, ha costretto l’insegnamento in un procedimento vuoto e disumano.
Non c’è libertà senza l’autorità. La pedagogia moderna, di cui Rousseau è il
più alto rappresentante, ha disconosciuto tale evidenza. Nonostante sia giusto
assecondare la crescita naturale del bambino, non lo si può privare
dell’intervento esterno: «Mai non ci deve cadere di mente, che nell’educazione
umana suolsi seguire come infallibil maestra la natura medesima, sicché nulla
mai si tenti, né si faccia, che contraddica a’ suoi principii, nulla si
dimentichi, né si trascuri, che torni opportuno o necessario a secondarlo nel
suo spontaneo sviluppo. Ai dì nostri vide questa potenza educatrice della
natura Rousseau, ma di troppo la esaltò fino a bandire siccome inutile e nocivo
il magistero dell’arte. Aristotele non disconobbe la virtù educatrice, che
giace nella consuetudine o costume, e nella coltura della ragione o disciplina.
Poiché i germi del Bello e del Buono deposti in noi da natura non crescono già
né maturano mercé l’opera dei beni esterni, né il caso e la sorte fa sì che noi
diventiamo onesti; bensì richiedesi a tanto fine l’esercizio della facoltà del
volere e del sapere»203. 201 G. A., Delle dottrine pedagogiche di Enrico
Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard,
117. 202 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, 34. 203 155.
60 Per questo stesso motivo mette in guardia da una sopravvalutazione
dell’autodidattica: «L’io umano è un soggetto personale, e quindi fornito di
una energia pensante sua propria, per cui aspira scientemente e liberamente
alla conoscenza della verità, siccome suo naturale obbietto; ecco l’origine ed
il fondamento dell’autodidattica. Ma la personalità umana individua è limitata
per natura, e quindi bisognevole di un intervento esteriore: ecco la ragione
dei limiti, che circoscrivono l’autodidattica»204. La persona ha bisogno di
altre persone per essere introdotta nell’esistenza. In un altro brano, A.
individua nella «nuova psicologia» l’origine dell’equivoco: «L’autodidattica si
regge tutta quanta sulla personalità dell’io, riguardato come un soggetto
sostanziale fornito di una individualità singolare, per cui è consapevole che
l’energia pensante, di cui è fornito, è tutta sua propria, e che gli atti
intellettivi, in cui si svolge, vengono da lui ed a lui appartengono come loro
principio originario e comune soggetto. Ora i fautori della nuova psicologia
rinnegano apertamente la libera attività e la personalità dell’io umano
riducendolo ad un insieme complessivo di fenomeni mentali, che non appartengono
a nessun soggetto e si succedono a tenore di leggi ineluttabili, facendo
dell’anima umana una mera funzione dell’organismo corporeo»205. La prima regola
del maestro è il rispetto per il discente, che è l’attore principale dell’atto
educativo. Una vera educazione è contraddistinta dal rispetto e dalla pazienza.
L’educatore è chiamato a essere umile, non c’è inoltre insegnamento quando l’insegnante
non impara a sua volta: «Il maestro deve di sicuro sovrastare al discepolo per
ampiezza di dottrina, per coltura e sviluppo mentale, ma non dimentichi mai,
che in faccia all’immensità dello scibile quel tanto, che egli sa, è poco meno
che nulla, e gli bisogna perciò imparare sempre, ed imparare nell’atto
medesimo, che istruisce gli altri»206. A. riprende la celebre frase di Plutarco
che critica l’insegnamento come «riempimento», e sostiene che «Il vero imparare
è un lavorare colla propria mente ed avere consapevolezza della verità scoperta
e del come siamo giunti a scoprirla; il vero insegnare è un accendere la
scintilla del pensiero e mantener viva la fiamma della riflessione. La parola
del maestro riesce all’alunno necessaria in quella guisa, che ad un seme l’aria
e la luce esteriore del sole, il quale destando la virtù sopita in esso lo
schiude dal suo germe e lo tien vivo ed atto a spiegare le sue forme.
L’acquisto della scienza è un martirio per uno spirito giovanile abbandonato
alle solitarie ed isolate sue forze, come il possesso materiale 204 G. A., La
nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 16. 205 17. 206 G. A., Delle
idee pedagogiche presso i greci, 83. 61 della scienza non
conquistata colla nostra meditazione somiglia a splendido patrimonio avito,
eredato da nepoti degeneri e dappoco»207. Educare è dunque far cresce
armonicamente le capacità dell’alunno, è un atto della vita che fa entrare
nella vita, sviluppa e forma il carattere, ma soprattutto tende a far essere se
stessi, e cioè autocoscienza del mondo. Educare significa formare le capacità
umane, ma soprattutto interrogare il discente, contagiare l’esigenza di
conoscersi e di capire se stessi. Nel suo studio, la Quarello riporta una frase
della Marchesa di Lambert citata dall’A. nello Studio Storico critico di
pedagogia femminile (1896), in cui la pedagogista sostiene che: «La più grande
scienza sta nel sapere essere in sé»208. L’educatore è chiamato a condurre
l’educando a questa vetta. L’azione formativa risulta dunque una continua
interrogazione ed esortazione. È molto interessante la considerazione di Calò,
secondo cui l’A. puntava ad un’azione educativa che «correggesse con un
movimento centripeto verso il nucleo più profondo dell’io il movimento
centrifugo verso l’esterno, che sapesse fare procedere l’educazione dal di
dentro, non dal di fuori». 209. In questo «stare in sé» l’uomo scopre una
dimensione infinita che lo interroga, lo spiazza. La persona sente in sé il
richiamo di un’alterità misteriosa ma a cui si sente inesorabilmente legato:
«Dovunque si muova l’educazione trovasi in faccia all’infinito sempre, perché
l’educando è persona finita sì, ma che pur si muove e gravita verso
l’infinito». Su questi presupposti, A. è convinto che non si possa negare
l’educazione religiosa ai giovani: «La coltura impertanto dell’intelligenza, e
dell’attività volontaria va ordinata a Dio. Così la personalità finita
dell’educatore e dell’educando si regge sulla personalità infinita di Dio, e
trova in questa la sua ragion di essere, del pari che la sua cagione
efficiente. Educazione vera non è, che non sia personale sotto entrambi questi
riguardi. Il materialismo, che spegne nel fango la personalità dell’uomo,
l’ateismo, che nega a Dio la sua personalità infinita, il panteismo, che nega
all’uomo ed a Dio una personalità loro propria per confonderli in una medesima
sostanza, conducono ad un’educazione disumana, omicida, perché è negazione
della persona. La formazione del carattere, intorno alla quale si travaglia
tutta l’arte educativa, torna opera impossibile, ove non si regga sulla
personalità dell’essere infinito»210. Strettamente legato alla questione della
vocazione umana ed educativa, è il concetto di «carattere», con cui A. riprende
un tema caro ad altri pedagogisti cattolici e non. Il carattere è definito come
«quello stampo, o quell’impronta speciale, che configura 207 84-85. 208 V.
Quarello, G. A., Studio critico, 106. 209 G. Calò, Dottrine e Opere, 25. 210 G.
A., Opuscoli pedagogici, 31. 62 ciascuna natura umana»211. Con
questo concetto intende l’universalità dell’essere persona nella particolarità
del singolo. «L’alunno accoppia in sé l’umanità comune a tutti i suoi simili, e
l’individualità propria di lui solo»212. Un altro passo chiarisce tale
relazione: «il genere (umano) vive nell’individuo sotto forma del
carattere»213. È compito dell’ufficio educativo riconoscere e far fruttare
l’individualità della persona214. Secondo l’A.: «l’uomo di carattere è colui,
che pensa con verità e colla propria testa, è arbitro del suo operare e
conforma le sue azioni esterne coi suoi interiori convincimenti, sempre mirando
all’ideale divino della perfezione»215. Ma per condurre al vero carattere
bisogna educare, non basta istruire. A. definisce l’educazione del carattere
come il «punto di gravitazione» e l’ «apogeo»216 dell’educazione. All’educatore
spetta il riconoscere il carattere dell’alunno, la sua coltivazione, e l’aiuto
verso la vocazione personale di ciascuno. Così «Il fanciullo è persona, cioè
sostanza individua, che in sé armonizza la virtù conoscitiva, fonte della vita
operativa, congiunta con un organismo corporeo, sede della vita fisica e
ministro della vita spirituale. La vita speculativa si sviluppa mercé
l’acquisto del sapere, oggetto dell’educazione intellettuale, la vita operativa
mercé la formazione del carattere, compito dell’educazione civile, morale,
religiosa, la vita fisica mercé il rinvigorimento, la salute e la destrezza del
corpo, termine dell’educazione fisica; e tutte e tre queste forme di educazione
deggiono armonizzare insieme, come armonizzano dell’unità dell’umano soggetto
le tre forme di vita umana»217. Il carattere va educato sin dalla prima
infanzia, e in esso l’esempio è il principale fattore218. L’apice della
formazione è il carattere morale, vale a dire la libertà dell’uomo di obbedire
esclusivamente alla legge morale insita nell’uomo. A. considerava il rispetto e
obbedienza a questa legge, come il compimento della libertà, che certo non
riteneva essere un arbitrio assoluto del 211 G. A., L’uomo e il cosmo, 357. 212
G. A., Studi pedagogici, 336. 213 G. A., L’uomo e il cosmo, 357. 214 «La
formazione del carattere è opera nostra, sebbene abbia suo fondamento in
natura, e le occorra il sussidio dell’arte educativa» G. A., La scuola
educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali
maschili e femminili, 50. 215 G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi
pronunciamenti, 4. 216 G. A., Studi pedagogici, 322. 217 G. A., Opuscoli
pedagogici, 31. 218 «Il carattere morale non forma lì per lì come per incanto
nell’età virile; ma, come ogni opera grande e duratura, che sorge da piccoli
inizii, esso fa le sue prime prove nella puerizia, e progredisce con lento
lavorio sino alla compiuta sua forma mediante l’opera concorde dell’alunno, del
maestro, dei genitori, durante tutto quel lungo periodo educativo, che dalla
prima puerizia si stende sino al termine della gioventù» G. A., La scuola
educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali
maschili e femminili, 91. 63 soggetto219. Il pedagogista vercellese
è, infatti, convinto che «Volere liberamente il dovere, ecco, secondo me, la
formula di tutto l’ordine morale»220. Per un’educazione efficace è
imprescindibile lo sviluppo della capacità di volere e seguire ciò che è bene.
«La dignità umana rifulge nel carattere. Plasmare nel fanciullo il carattere
dell’uomo, che esprime la santità della vita in sé, nella famiglia, nella
patria, questo è dell’arte educativa il supremo, altissimo ufficio»221.
Parlando dell’insegnamento in classe dice che «ogni atto educativo dev’essere
un’affermazione, un’impronta della sua individualità personale. Così si forma
il carattere, così l’alunno impara a diventare uomo maturo di senno, esperto
della vita, arbitro delle sue sorti»222. L’ultima opera dell’A., datata 1913, è
dedicata allo studio comparato tra Giobbe e Schopenhauer. Contrapposto al
nichilismo, al pessimismo, e al disimpegno del secondo, Giobbe rappresenta la
vera statura umana, colui che nonostante le circostanza si spende per la
verità. Osserva A.: «L’operosità della vita, perché si compia con efficacia,
con dignità e decoro, richiede in noi la coscienza della nostra libertà
personale rivolta ad un ideale supremo, il sentimento della nostra propria
vigoria, il voglio imperioso dello spirito pronto a lottare contro le
difficoltà, gli ostacoli, con imperturbabile costanza sino al sacrificio,
riverente a quanto si presenta di grande, di nobile, di sacro, di divino»223. L’A.
critica la riduzione dell’intervento educativo all’istruzione, riprendendo una
battaglia tipica della pedagogia spiritualista. Sulla base dell’antimetafisica
e del relativismo etico di certo positivismo, più di un pedagogista ridusse il
compito dell’educazione all’istruzione, estromettendo dai suoi compiti la
formazione del carattere, e quindi dell’autocoscienza e della libera volontà.
Tale approccio ha come premessa fondamentale la convinzione che non ci sia
nulla di vero, e quindi di insegnabile, fuori dalle asserzioni scientificamente
dimostrabili. A questo proposito può essere utile richiamare un aneddoto
raccontato da A. riferito ad una visita di Padre Girard all’Istituto del
Pestalozzi: «Nell’atto che il Padre Girard stava visitando l’Istituto di lui,
egli uscì fuori con queste parole: “È mio intendimento, che i miei 219 Per
queste posizioni fu criticato da Santoni Rugiu: «L’A. ha della moderna
pedagogia una concezione normativa (come sempre, d’altronde, nella concezione
cattolica), la vede cioè non come un’indagine libera e obiettiva sulla natura e
sulle condizioni reali in cui si svolge la formazione dei soggetti, ma come
l’elaborazione di un insieme di indiscusse norme, appunto, che guidino alla
perfezione morale e spirituale. Guai a lasciarsi travolgere dal «gran movimento
sociale» e ritenere che esso indichi sempre la via del progresso e della
civiltà» A. Santoni Rugiu, Storia sociale dell’educazione, Milano, Principiato,
1987, p. 528. 220 G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico,89. 221
G. A., Opuscoli pedagogici, 18. 222 G. A., Principi fondamentali di Scienza
Pedagogica, in «Rivista Pedagogica», n. 10, 1930, p. 687. 223 G. A., Giobbe e
Schopenhauer, Torino, Tipografia Subalpina, 1912, p. 41. 64 alunni
non tengano per vero, tranne ciò solo, che possa essere loro dimostrato come
due e due fan quattro”. Al che il Girard rispose: “Se io fossi padre di trenta
figli, nemmeno un solo ve ne affiderei ad essere ammaestrato, perché non vi
verrà mai fatto di dimostrargli come due e due fan quattro, che io sono suo
padre, e che egli è tenuto di amarmi»224. Le parole di Padre Girard erano utili
a spiegare quali fossero i rischi dell’ipertrofia della ragione scientifica e
matematica. Limitando il veritativo al «misurabile», infatti, si escludevano
dall’educazione tutta una serie di apprendimenti e principi morali
indispensabili alla vita e alla formazione del carattere. Anche su questo punto
A. esorta a distinguere ma senza dividere. L’educatore deve far crescere tutte
le capacità umane, sia quelle del «cuore» che quelle della «mente». Era
convinto che «la natura non si riforma, bensì va riconosciuta e rispettata»225.
E la natura della persona non può essere ridotta alla pura istruzione, ma ha
bisogno della certezza morale, dei principi, dei criteri per distinguere bene e
male. I. 6. Critica all’idealismo e al positivismo Una parte considerevole
delle opere di A. è destinata alla critica dell’idealismo e del positivismo. A
tali correnti, sin dai primi lavori, A. addossò le responsabilità della profonda
«crisi»226 e confusione che ammorbava la filosofia italiana. Oltre ad una lunga
serie di studi dedicati a questi sistemi, anche negli altri saggi di A.
appaiono frequenti incisi polemici contro queste teorie. Calò ha rilevato come
questa ricorrente confutazione e polemica del positivismo e dell’idealismo,
rappresentò un tratto specifico del pensiero del pedagogista vercellese
«L’atteggiamento critico contro le due correnti suddette forma la
preoccupazione costante e costituisce, insieme con il principio della
personalità, svolto dall’A. in tutti i suoi aspetti, il motivo fondamentale e
la sostanza del suo pensiero filosofico»227. Secondo alcuni studiosi A. avrebbe
avuto nei confronti delle teorie coeve un atteggiamento difensivo ed
eccessivamente «polemista»228. Caramella, un gentiliano che certo non
concordava con le critiche dell’A. all’hegelismo e ai suoi epigoni, fu molto
severo con il pedagogista, e ne sminuì il contributo, riducendolo ad una
lamentela sterile e arretrata: «Ma venendo ai risultati effettivi della sua
vasta opera di più che mezzo secolo, 224 G. A., Delle dottrine pedagogiche di
Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio
Girard, 89. 225 G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 261. 226
G. A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, 6. 227 G. Calò, Il pensiero
filosofico – pedagogico di Giuseppe A., 4. 228 S. Caramella, Lo spiritualismo
pedagogico in Italia, «La nostra scuola», n 13-14, 1921, p. 9. 65
qual è il significato storico dell’A.? Niente di meno ma niente di più che
un’ostinata battaglia cattolica contro lo scientifismo, senza che dal cozzo si
generasse mai una scintilla nuova»229. Una critica analoga gli venne mossa da
Vidari230. È facile riscontrare nell’opera di A. toni duri, se non
apocalittici, nei confronti di teorie giudicate dannose non solo alla
pedagogia, ma anche alla vita educativa e sociale del paese. In molti saggi
mancano aperture concilianti, mentre le posizioni espresse sono spesso risolute
e poco inclini ad aperture. Ma, a onor del vero, va riconosciuto che le
critiche portate dal pedagogista sono sempre articolate e suffragate da una
conoscenza precisa degli autori e delle scuole esaminate. «L’A. non fa mai la
critica per la critica: il suo scopo è sempre molto preciso, quello di
dimostrare e di salvare certi principi e certe verità filosofiche»231.
All’interno del lungo itinerario delle opere dell’A. possiamo distinguere due
momenti. Sino agli anni ’70 dell’Ottocento, si concentrò in particolare
sull’idealismo, mentre in seguito si occupò quasi esclusivamente del
positivismo, data l’incipiente influenza che iniziava ad avere sulla pedagogia
e filosofia italiana. Già alla fine degli anni ’60, A. notava come il
positivismo si accingesse a dominare il clima nelle Università italiane e negli
studi filosofici e pedagogici, mentre l’idealismo era destinato a restare ai
margini del dibattito. Nel 1903, ricordando quel tornante storico, commentò:
«Il campo filosofico era in allora combattuto da due scuole di tutto punto
opposte, l’idealismo hegeliano, che andava declinando dal suo apogeo, ed il
positivismo anglo-francese, che si annunziava ristauratore sovrano della
scienza e della vita»232. In quegli anni, la scuola idealistica era viva quasi
esclusivamente a Napoli grazie a Spaventa e Vera. A., peraltro docente in una
sede dove l’idealismo era quasi inesistente, si misurò criticamente soprattutto
con i positivisti. Come accennato, i lavori di critica all’idealismo si
concentrano in larga parte nelle opere giovanili, in particolare nei Saggi
filosofici (1866) ne L’hegelismo, la scienza e la vita, (1868) e nell’ Esame
dell’hegelismo (1897), un saggio più breve di quello precedente dove riprende
pressappoco le stesse tematiche. 229 9-10. 230 «In tutti questi lavori la mente
dell’A. si presenta sempre nell’atteggiamento di chi, incrollabilmente fermo e
sicuro nelle proprie convinzioni maturate in uno studio severo e diuturno, vede
nell’avversario e nelle dottrine da lui rappresentate un pericolo esiziale per
la società e per la scuola, in cui esse si diffondano. Onde non tanto Egli mira
a penetrare ed esporre l’idea dell’avversario nella sua genesi e nelle sue
eventuali giustificazioni, quanto a metterne in rilievo le deficienze o le
contraddizioni o le inaccettabili conseguenze» G. Vidari, Giuseppe A., 8. 231
G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe A., 447. 232 G. A., Il
ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di
Torino il 18 novembre 1903, 3. 66 Alcuni cenni polemici contro
l’idealismo sono presenti anche in altri testi, tra cui L’antropologia e
l’umanesimo (1868), Della vecchia e della nuova pedagogia (1873),
L’Antropologia ed il movimento filosofico sociale (1869); La pedagogia e lo
spirito del tempo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia
(1877) Studi filosofici sul carattere delle nazioni Sulla personalità. Il testo in cui espone in
modo più articolato le sue tesi contro l’idealismo è L’hegelianismo la scienza
e la vita, un lavoro giudicato da Eugenio Garin «onestamente espositivo»233.
L’opera fu scritta in occasione del concorso Ravizza del 1865-1866, che
chiedeva agli scrittori di cimentarsi con questo tema: «Quali pratiche
conseguenze derivino dall’idealismo assoluto di G. Hegel nella morale, nel
diritto, nella politica e nella religione?». Il testo, che vinse il premio, fu
poi rivisto e pubblicato. Nell’opera, l’A. delinea l’origine dell’hegelismo,
mettendo in luce l’humus kantiano da cui nacque l’idealismo. Il pedagogista
enuclea i passaggi che portarono dalle posizioni del filosofo di Königsberg ad
Hegel. A. ricorda come Kant fosse allora considerato il nuovo «Socrate» per
aver salvato la scienza dallo scetticismo, mentre egli pensava che il kantismo
fosse stato la «tomba» della scienza e della filosofia234. L’errore di Kant fu
quello di disconoscere il primo dato filosofico, vale a dire l’evidenza
dell’essere. Egli perpetuò quella torsione prospettiva cartesiana che si piegò
sull’affidabilità della ragione, dimenticando lo stupore e l’attestazione del
mondo. A. osserva che l’uomo neanche penserebbe se non ci fosse quel «fuori».
Così Kant aveva «condannato il soggetto ad un perpetuo e violento celibato
segregandolo dalla realtà oggettiva»235. Osserva A.: «Scienza assoluta intorno
il pensiero umano, ignoranza assoluta intorno la realtà universale, ecco i due
poli del Criticismo di Kant, la finale risposta che egli diede alla sua prima
domanda. Con questo suo sistema originale Kant reputava di avere ricostrutto su
salda base il sapere speculativo, e quetati una volta i dissidii che da secoli
sconvolgevano il regno della metafisica: Ubi solitudinem faciunt (direbbe qui
Tacito), pacem appellant»236. Ma se lo scopo di Kant era quello di salvare la
scienza, egli superò lo scetticismo di Hume, in quanto non riuscì a riconoscere
il senso e i motivi della scienza metafisica. E ciò fu confermato dagli
sviluppi successivi della filosofia. Nei cinquant’anni trascorsi tra la
pubblicazione della Critica della Ragion Pura, 1781, e la morte di Hegel, 1831,
la Germania visse un radicale cambiamento culturale. Dallo scetticismo di Kant
si arrivò attraverso Fichte e Schelling, all’affermazione dell’idealismo 233 E.
Garin, Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l’Unità, 56. 234
G. A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, 22. 235 31. 236 29. 67
assoluto di Hegel, che secondo A. non fa altro che trarre le nefande
conseguenze di quel divorzio tra l’io e il mondo, che se aveva portato Kant
allo scetticismo, conduceva Fichte alla tesi dell’Io assoluto, origine e
creatore del mondo. Si trattò di una deriva di quelli che chiamò in un altro
testo i «trascendetalisti tedeschi», i quali «estendendo fuor di misura il
potere dell’io umano, lo posero creatore dell’essere e del sapere, e finirono
collo spogliarlo della soggettività ed individualità sua, confondendolo col
massimo degli universali»237. Nel saggio A. dedica diversi capitoli a questi
passaggi, concentrandosi dopo Kant, su Fichte e Schelling. In ultimo affronta
in modo analitico la figura e la filosofia di Hegel, introducendo il suo
pensiero con un’accurata esposizione della vita, oltre che un’analisi degli
apporti e delle influenze che ne condizionarono il pensiero. Successivamente,
ne enuclea il sistema filosofico, con un’analisi articolata. A. parte dal
concetto generale di filosofia, quindi affronta il metodo dialettico, il
concetto dell’Idea e il suo sviluppo nel Sistema. Poi tratta della Logica,
della filosofia della Natura e infine della filosofia dello Spirito. In
conclusione sintetizza i motivi della critica all’idealismo. Il seguente brano
compendia la critica di A.: «Il nome di Idealismo assoluto con cui viene
designata la dottrina di Hegel, ne rivela tutto lo spirito e ne compendia il
contenuto. Il suo sistema è tutto in queste due parole: Idea assoluta, od in
altri termini Idea e sviluppo, giacché l'essenza dell'Assoluto è un
esplicamento universale, un moto continuo e senza fine. Come per Condillac
tutto è sensazion trasformata, così per Hegel tutto è Idea trasformante. L'idea
essendo assoluta si fa tutte le cose, e con questo suo diventare universale
spiega successivamente tutto l'essere, perché riproducendolo rivela le intime
essenze delle singole cose, sicché l'Idea assoluta si manifesta ad un tempo
siccome il sistema della scienza e l'insieme della realtà, identità universale
delle idee e delle cose, del pensiero e dell'essere. Datemi materia e moto,
diceva Cartesio, ed io creerò l'universo. Hegel pigliando in senso
trascendentale il motto cartesiano avrebbe potuto ripeterlo dicendo: Datemi
Idea e sviluppo, ed io vi ridarò rifatta e spiegata la realtà universale»238.
L’identificazione dell’essere con l’idea conduceva l’idealismo a numerose
antinomie ed epicicli, elencati dall’A.. Il pedagogista fa notare come Hegel,
mentre tacciava di misticismo i realisti, chiedeva un atto di fede nel
riconoscimento dell’Io assoluto. In conclusione, A. ripropone la ragionevolezza
del realismo. Secondo il pedagogista vercellese, il reale anticipa, sporge e
supera il razionale. Una frase dell’Amleto di 237 G. A., Sulla personalità
umana, 18. 238 G. A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, 59. 68
Shakespeare è ripresa dall’A. come legge della filosofia, «v'hanno cose e in
cielo e in terra di cui le nostre filosofie non si sognano neppure»239. La
diaspora degli hegeliani e le numerose critiche fattegli dai suoi discepoli
evidenziano tanto il fascino della prospettiva hegeliana, quanto la sua
fragilità. L’errore cruciale dell’idealismo è la negazione della validità di
quella serie di evidenze e strumenti che l’uomo ha nel suo naturale rapporto
con il mondo: «il sistema dell’identità assoluta contraddice ai pronunciati
della coscienza e si oppone ai dati del senso comune e del sapere naturale;
dunque è insussistente»240. Per questa ragione, A. definisce Hegel come uno «spietato
Torquemada del senso comune»241. Il pedagogista riprende l’analisi rosminiana e
considera gli idealisti fondamentalmente degli scettici. Osserva: «La scienza è
la spiegazione razionale della realtà sussistente: ora la realtà va anzitutto
schiettamente osservata quale si presenta alla nostra percezione, e non già
indovinata a priori e ricercata attraverso le pieghe del nostro cervello. Una
teoria della realtà, costrutta col puro ragionamento e non fondata
sull’osservazione, non è scienza seria e verace, ma un tessuto di astruserie,
che potrà tutt’al più dimostrare la potenza immaginativa di chi l’ha costrutta.
L’idealismo trascendentale germanico de’ tempi nostri ha sacrificato
l’osservazione della realtà al puro ragionamento. Esso ha preso le mosse dal
concetto più astratto, a cui si possa giungere ragionando, e colla virtù di
quel concetto vuoto ed indeterminato pretese di costruire la realtà
universale»242. Prima Gentile243 e poi la Quarello244, criticarono all’A. una
conoscenza poco approfondita di Hegel. Se non si può considerare il pedagogista
vercellese tra i massimi studiosi di Hegel, dai suoi lavori emerge un confronto
nel merito con il cuore delle posizioni idealiste. Altri autori, come il
Suraci, parlarono dell’opere sull’Hegelismo come «una critica quanto mai acuta
e serrata»245. Anche per altre teorie, A. non bada ad una erudizione pedante
sulle vicende di una corrente, ma al cuore e al significato delle sue
principali direttrici filosofiche. Come è già stato accennato, dopo alcuni
lavori dedicati all’idealismo, A. diede largo spazio alla critica del
positivismo, che occupò gran parte della sua attenzione nella sua carriera
seguente. Il pedagogista si accorse della rapida diffusione del positivismo
nelle Università. Uno degli atenei in cui tali teorie presero piede e si
diffusero era proprio quello 239 143. 240 G. A., Saggi filosofici, 6. 241 372.
242 G. A., Antonio Rosmini, 33. 243 G. Gentile, Le origini della filosofia
contemporanea in Italia. I platonici, 370. 244 V. Quarello, G. A., Studio
critico, 128-129. 245 V. Suraci, A.filosofo e pedagogista, 84. 69
di Torino, che era stata sino a pochi anni prima una roccaforte del
rosminianesimo e dello spiritualismo cristiano. Come ha ricordato Giorgio
Chiosso: «Proprio a Torino la cultura positivista stava compiendo il massimo
sforzo con Moleschott, Lessona, Lombroso, Mosso per tracciare una antropologia
incentrata su esclusivi tratti fisio – psichici e fortemente condizionata dalla
cultura evoluzionista»246. Come ebbe a scrivere Norberto Bobbio, Torino
rappresentava sul finire dell’Ottocento «la citta più positivista d’Italia»247.
A. individuava come ragione della diffusione di tale corrente un forte appoggio
politico, che era diventato come abbiamo già rilevato, il braccio ideologico
dei gruppi anticlericali che spesso sedevano nelle poltrone più importanti del
neonato Stato italiano. Il pedagogista aveva una chiara percezione di tale
egemonia e non mancò di denunciarla. Scrisse a proposito «Il partito
iperdemocratico, che nei lontani sfondi della rivoluzione italiana del 47
appena s’intravvede indistinto e sfumato, prese a poco a poco forme più
spiccate e concrete, e fattosi potente tende oggidì a tenere esso solo il
campo. Esso novera potenti ingegni fra i suoi numerosi seguaci, che ne bandiscono
i principii dalle cattedre universitarie, dalle tribune parlamentari, dalle
officine della pubblica stampa. La sua arma è la critica, il suo dogma supremo
è l’umanesimo sociale, ossia il naturalismo pagano razionalizzato. E la
critica, dacché fu inaugurato il Regno dell’Italia una, si spiegò con forze
maggiori che mai. Essa si pose ad abbattere il principio di autorità
nell’ordine del pensiero e della vita, a dissolvere le credenze morali e
religiose dell’universale, a minare le fondamenta di tutta la dommatica del
cristianesimo, a snaturare l’indole nativa e tradizionale della filosofia
italiana»248. Nonostante il peso del positivismo fosse riscontrabile già nei
citati dibattiti del ’47, fu solo con l’Unità che ai positivisti fu concesso
quello spazio privilegiato col quale poterono diffondere le loro teorie e avere
una inaspettata diffusione. Come denunciò A.: «Ai seguaci e promotori della
nuova scuola pedagogica il Governo prodiga la pienezza de’ suoi favori, e sotto
la potente sua egida assicura il trionfo»249. Se i capi scuola europei del
positivismo meritarono, da parte dell’A., delle analisi approfondite e alcuni,
rari, apprezzamenti, la valutazione degli epigoni italiani fu molto severa.
Essi vennero ridotti al rango di semplici ripetitori di autori più organici
come Spencer, Comte, Bain. A. si limitò ad affrontarne in modo sbrigativo la
produzione positivistica italiana nel saggio La pedagogia italiana antica e
contemporanea (1901). In 246 G. Chiosso, L'interpretazione rosminiana di
Giuseppe A., «Pedagogia e vita», n. 6, 1997, p. 152. 247 N. Bobbio,
Introduzione, in E. R. Papa (ed.), Il positivismo e la cultura italiana,
Milano, Angeli, 1985, p. 13. 248 G. A., La pedagogia italiana antica e
contemporanea, 161-162. 249 168. 70 esse il pedagogista si lasciò
andare a valutazione in parte ingenerose e tranchant. Affrontò le teorie di
Angiulli, Siciliani, Gabelli, e di altri pedagogisti minori. Il primo è
considerato il «principe» fra i cultori del positivismo in Italia. Viene
definito come un «pensatore robusto e profondo, ma non originale»250 che
ricalca fondamentalmente le posizioni di Spencer, e dunque tutti i suoi errori.
La riduzione spencieriana dell’uomo ad un animale, mina le basi del pensiero di
Angiulli: «Lottando contro la realtà dell’io, che egli ha negato e che s’impone
inesorabile al suo pensiero, si vede costretto a ricorrere ad una novità di
linguaggio, ad una dicitura attortigliata ed involuta, ad un ritornello di
espressioni stereotipate, che spargono una nebulosa caligine sul tutt’insieme
della sua dottrina»251. Un altro errore a cui lo conduce la negazione del
principio della personalità è la statolatria nel campo dell’istruzione
pubblica. Pietro Siciliani è invece accusato di eclettismo e di aver mal
combinato istanze inconciliabili, producendo un sistema contradditorio e
instabile. In una prelazione risalente al 1882, rammentò il cambio di opinione
sul positivismo, prima criticato e poi elogiato252. Del sistema del Siciliani
l’A. denunciò l’incapacità di giustificare sui presupposti positivisti
l’esistenza della libertà e i fondamenti della morale. Negli Opuscoli lo accusa
di trasformismo e scrive che «muta di dosso i panni a tenor della moda»253.
Stando ad A., questa «accozzaglia» di principi spuri condanna alla mediocrità
la pedagogia del Siciliani: «Egli non si afferma né spiritualista, né
materialista, né idealista, né ontologista, né trasformista, né positivista, e
lascia capire che vuol essere qualche cosa di più e di meglio di tutto ciò; ma
non ci presenta un principio superiore a tutti questi sistemi, che impronti il
suo pensiero e lo determini per quello che è»254. Si occupò anche di altri
autori come Emanuele Latino, Aristide Gabelli, Edoardo Fusco in cui rileva
sostanzialmente gli stessi errori di Siciliani e dell’Angiulli. Saluta invece
con soddisfazione il ritorno allo spiritualismo di Ausonio Franchi, al secolo
Cristiano 250 169. 251 174. 252 Nel saggio cita direttamente le parole di
Siciliani e poi le commenta: «“Troppo scettici, noi Italiani abbiamo bisogno di
fede: troppo anneghittiti dal positivismo, abbiamo bisogno di sacro entusiasmo
nella scienza, nell’onestà, nell’onore, nei principii di giustizia,
nell’attività del lavoro, nell’autorità creata da noi stessi, nell’Italia.
Possiamo dunque accettare il Positivismo? No. Inteso come sistema, il
Positivismo è dottrina assolutamente negattiva, non ha storia, non ha
principii; è contrario allo spirito filosofico di nostra età, è dannevole nelle
sue applicazioni morali, estetiche, politiche, religiose, storiche. Nol
possiamo accettare come sistema, perché contrario alla nostra istoria, alla
mente dei nostri padri, all’indole nostra, al nostro genio, alle nostre
tendenze, contrario ai nostri bisogni fisici e intellettuali [in nota: P.
Siciliani, Critica del positivismo]”. Chi pubblicava or non è molto queste
righe contro il sistema positivistico, è quegli stesso, che oggi ha inalberato
il vessillo del positivismo dlla sua cattedra di pedagogia in una
celebratissima Università italiana, mutando dottrine con quella leggerezza medesima,
con cui altri muta di dosso i panni a tenor della moda» G. A., L’educazione e
la scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18 novembre 1881,
Torino, Marino, 1882, pp. 14-15. 253 G. A., Opuscoli pedagogici, 122. 254 G. A.,
La pedagogia italiana antica e contemporanea, 177. 71 Bonavino, di
cui esalta le Lezioni di pedagogia che viene indicato come un testo
fondamentale per la pedagogia spiritualista. Le considerazioni dell’A.
restarono severe. Valuto le teorie positiviste «disumane e liberticide»255.
Inoltre avversò una certa indifferenza degli epigoni di Comte che sembravano
sordi agli appunti delle altre correnti pedagogiche. In più d’una occasione A.
lamentò la loro indifferenza alle critiche, oltre alla poca onestà
intellettuale256 Come già accennato, i suoi studi si concentrarono soprattutto
sui fondatori del positivismo europeo: Comte, Spencer, e Bain. Le sue numerose
opere dedicate a questa corrente, rappresentano una prima sistematica reazione
dello spiritualismo italiano al positivismo europeo. Il lavoro più preciso e
sistematico su tale corrente è Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico
(1883), definito dalla «Civiltà Cattolica» come una «splendida e serrata
critica di questo sistema»257. Nella prelazione tenuta per l’anno accademico
1881-1882, A. annunciò che durante il corso sarebbe sceso «nell’arringo a
combattere il positivismo riguardandolo siccome una larva ingannevole della
scienza, siccome un pericolo esiziale della pedagogica»258. Nel solco di quelle
lezioni pubblicò poi il lavoro. L’opera si divide in due parti principali:
nella prima tratta delle origini del positivismo e ne mette in discussione i
fondamenti filosofici, nella seconda critica le conseguenze pedagogiche ed
educative. A. identifica come causa prima del positivismo, la stessa
dell’idealismo, vale a dire la crisi della metafisica avvenuta con la
modernità, che Kant sancì nella Critica della ragion pura, sostenendo la
sostanziale inconoscibilità del non sperimentalmente. Il metodo scientifico si
dogmatizzò, pretendendo di estromettere dalla conoscenza e dalla vita privata e
pubblica tutto ciò che non è misurabile. Il positivismo si configurò come una
nuova prospettiva epistemologica, metodologica e antropologica, fondata sulla
negazione di tutte le conoscenze non verificabili sperimentalmente. In questo
senso, si oppone a qualsiasi 255 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci,
I. 256 Nel saggio su La scuola educativa, A. riporta una critica fattagli da
Fornelli che nel testo La pedagogia e l’insegnamento classico, accusò il
professore vercellese di aver travisato le posizioni di Comte. Dopo essersi
difeso, critica anche una evidente storture delle sue posizioni, avendolo
assimilato all’idealismo: «Ma il più grosso abbaglio del mio critico è questo:
io non sono punto quell’idealista, che egli s’immagina mostrando di non aver
letti i miei lavori filosofici, o di averne frainteso il significato malgrado
la loro conveniente chiarezza. Mi additi un solo passo, da cui risulti che io
ripongo le origini prime del pensiero in concetti astrattissimi, anteriori e
superiori ad ogni realtà concreta e sussistente, ed io mi do’ per vinto» G. A.,
La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, 218. 257 Linee di pedagogia moderna, «La Civiltà
Cattolica», quaderno 1565, 1915, vol. III, p. 542. 258 G. A., L’educazione e la
scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18 novembre 1881,
15. 72 considerazione metafisica, di cui è «la sua negazione
assoluta ed esclusiva»259. In questo rifiuto consiste, per il pedagogista
vercellese, anche «il carattere direi negativo del positivismo»260. Va tenuto
conto, che A. riconosce l’apporto positivo delle scienze sperimentali e della
metodologia scientifica. Senza alcun timore verso gli esiti della ricerca
empirica, il pedagogista attribuisce alla scienza (non al positivismo) il
merito di aver accresciuto notevolmente la conoscenza del mondo e il benessere
materiale. Tuttavia, A. individua proprio nell’euforia per gli esiti della
tecnologia la presunzione di certo positivismo. Galvanizzata dalle scoperte
scientifiche: «esaltò l’esperienza sensibile siccome l’unica e suprema ed
assoluta fonte di tutto lo scibile umano, rigettò tra le illusioni tutto ciò,
che trascende i suoi confini, assegnò unico oggetto della scienza i fenomeni
disgiunti dalle sostanze e respinse la ragione siccome facoltà trascendente che
contempla la sostanzialità delle cose»261. A. ricorda come il metodo
sperimentale non possa racchiudere tutto il campo dello scibile, pena
l’esclusione di ambiti conoscitivi fondamentali per la vita umana. Rivolgendosi
ai positivisti A. scrive: «No, la mente umana non può fermarsi ai confini
dell’esperienza, come alle colonne di Ercole: i grandi problemi dell’esistenza,
soffocati dalla vostra dottrina, risorgono davanti alla ragione e le si
impongono irremovibili. Voi non riuscirete mai a cancellare dalla coscienza del
genere umano questo indestruttibile sentimento, che noi non siamo sfuggevoli
fenomeni, quasi ombre erranti alla ventura nel deserto, bensì persone vive,
forniti di una ragione che trascende la cerchia dell’esperienza sensibile e si
innalza alle supreme idealità della vita. Gli ingegnosi apparecchi meccanici,
di cui avete forniti i vostri laboratori di psicologia sperimentale, potranno
procacciarsi nuove ed interessanti notizie intorno la vita sensitiva dell’uomo
esteriore, ma non ci sapranno dir nulla intorno i misteri dell’anima, il
secreto lavorio della sua vita intima, le sue sublimi aspirazioni»262. La
scienza esatta e sperimentale non può esaurire tutto il campo della conoscenza
dell’uomo. Inoltre, secondo A., l’esautorazione della metafisica dal campo
dello scibile danneggia la stessa scienza. Essa, infatti, nasce da domande
metafisiche, si nutre di concetti e di una logica che non può essere rinvenuta
nella esperienza materiale, ma solo in quella spirituale. L’antimetafisica
getta il positivismo in un paradosso: lo scientismo, 259 G. A., Del positivismo
in sé e nell’ordine pedagogico, 13. 260 10. 261 G. A., Il ritorno al principio
della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903,
14. 262 14-15. 73 infatti, nega le premesse della scienza. Con
l’affermazione «non esistono che fatti» si esprime un giudizio generale e
veritativo sul mondo, portando avanti un discorso propriamente metafisico.
Scrive A.: «Dicono infine che, seguendo la dottrina evoluzionistica, le teorie
non sono più campate in aria quali sono foggiate dall’apriorismo, ma riescono
l’interpretazione oggettiva dei fatti. Sta bene: i fatti vanno adunque
interpretati; ma con quale criterio? Certamente con qualche concetto o
principio ideale, superiore ai fatti stessi, perché questi per sé sono lettera
morta, bisognevole dello spirito, che la vivifichi e la illustri. Eccon quindi
chiarita l’insufficienza dell’esperienza alla formazione della psicologia e
della pedagogia»263. Il positivismo si autodefinisce teoria delle scienze
positive, ma secondo A., la costruzione di un sistema filosofico accede già ad
una dimensione della riflessione che travalica i confini dell’esperienza
empirica. Si tratta di una «astrazione» che si serve della logica, del
giudizio, dell’argomento. In questo senso, se i positivisti volessero essere
coerenti con le loro posizioni, dovrebbero «liberarsi da concetti «metafisici»
come quelli di causalità, identità, o di non contraddizione. In questo senso,
per il pedagogista vercellese, l’assoluta antimetafisica del positivismo, si
traduce in un suicidio della scienza stessa: «Dacchè dunque l’antropologia
studia l’uomo pensante, il quale sovrasta alla materia e possiede in sé i
principi ideali necessarii alla costruzione del sapere, consegue che essa è lo
spirito informatore delle discipline positive e naturali, e che il naturalismo,
che la impugna, distrugge le stesse scienze della natura e contraddicendo a se
medesimo fa della metafisica col proclamare che la materia è l’essenza
universale di tutto, che è infinita, eterna, mentre tutto questo trascende i
limiti dell’esperienza e dell’osservazione sensibile»264. A. giudica la
posizione gnoseologica dei positivisti fondamentalmente scettica, in quanto le
loro premesse conducono all’inevitabile dissoluzione della conoscenza: «Una
critica priva di principii universali ed assoluti, che la rischiarino, è una
critica, che pretende di essere fine a se stessa, anziché mezzo potente per
giungere al Vero, ossia è criticismo scettico. Il positivismo contemporaneo ha
menato un gran guasto nel campo della critica odierna, la quale è insorta a
dissolvere e disfare quelle medesime verità universali, che è tenuta a
rispettare siccome fondamento della sua esistenza»265. A proposito di tali
nefande conseguenze, A. ebbe modo di criticare il Romagnosi, che vicino a
posizioni simili 263 G. A., Gli evoluzionisti e il metodo in pedagogia,
«Rivista Pedagogica Italiana», Asti, 1897, vol. I, pp. 305-306. 264 G. A.,
L’uomo e la natura, 17. 265 G. A., Delle dottrine pedagogiche di Enrico
Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard,
9. 74 sosteneva che è sano solo colui che la pensa come la maggior
parte dei suoi concittadini, non avendo più un riferimento metafisico su cui
fondare la validità delle posizioni266. Inoltre il materialismo non può che
portare ad una confusione nella scienza, in quanto se la conoscenza è un
prodotto necessario dell’esperienza personale, e nasce da questa in modo
spontaneo e incontrollabile, perde di significato la valutazione delle teorie
che non sono né vere né false, ma unicamente frutto della determinazione.
Scrive a proposito: «Ora se il pensiero è sempre di necessità quale lo forma
l’esperienza, ossia quale lo esige la condizione fisiologica, in cui versiamo,
allora cessa ogni distinzione tra un vero ed un falso pensiero, e così il
pensiero a priori, o sarà vero anch’esso, oppure dovrebbe negarsene
l’esistenza, siccome di un fatto impossibile, mentre l’evoluzionista lo piglia
ad oggetto della sua critica»267. Invece l’esistenza della scienza conferma la
presenza di una natura non materiale nell’uomo, solo la persona ha coscienza
del mondo e cerca la verità. Un altro nodo insolubile per il positivismo è
l’esistenza della libertà. La scienza esatta, come ha insegnato Kant, non può
attestare la sua esistenza, e il materialismo e determinismo di certi
positivisti la negano. Se l’uomo non è più libero, si chiede A., come lo potrà
essere la scienza? Inoltre ad A. pare pretestuoso l’uso della scienza contro la
metafisica e la religione. Le scienze naturali «anziché escludere di loro
natura la metafisica, rinvengono in questa sola la loro suprema ragione, sì che
non lasciano più luogo alla filosofia positiva. Infatti, un fisico, un chimico,
un astronomo, può ammettere i pronunciati del teismo e dello spiritualismo,
senza punto rinunciare ad un solo dei teoremi della propria scienza (valga
l’esempio di Newton, del Galilei, del Padre Secchi, del Pasteur)»268. Un'altra
«vittima» del positivismo è l’antropologia, che da tale corrente viene
snaturata. La negazione della metafisica ha notevoli ripercussioni sulla
scienza dell’uomo, poiché getta nell’indecifrabile la sua essenza personale. Il
positivista non può conoscere la vera essenza dell’uomo, in quanto la persona
non può essere raggiunta e compresa nell’esprit del finesse. Scrive A. «Colla
loro antropometria non giungeranno mai a misurare le profondità dell’anima, a
scandagliare gli immensi problemi, che si agitano nelle intimità dello spirito
umano»269. La persona non è rilevabile nell’esperienza come se fosse un
fenomeno fisico, è riscontrabile solo nella riflessione oltre il sensibile.
Occorre, stando ad A., sollevarsi dal fatto, per constatare l’Io: «Il
positivista vuol fatti, nient’altro che fatti, né vuol saperne di esseri
individui, di sostanze permanenti. Ma il factum (e chi nol 266 G. A., Studi
psicofisiologici, 29. 267 G. A., Gli evoluzionisti e il metodo in pedagogia,
304-305. 268 G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 16. 269 G. A.,
Lo spirito e la materia nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo, 6.
75 sa?) è un sostantivo verbale derivante dal verbo facere, è un
participio che presuppone l’ego facio, tu facis, ille facit: importa l’essere,
che fa, il soggetto operante, e rompe in una contraddizione il positivista
separando l’un termine dall’altro»270. Ma tale agnosticismo si trasformò presto
in una negazione. Infatti, per i positivisti, «L’uomo non è una sintesi vivente
di due sostanze, spirito e corpo essenzialmente distinte, eppur composte ad
unità di persona, bensì un complesso di fenomeni fisiologici e psicologici,
diversi di grado soltanto, ma non di essenza da quelli animali»271. Osserva nei
già citati Opuscoli pedagogici: «Negli intimi recessi dell’anima, dove non
penetra coltello di anatomico, dove non giunge lente microscopica di fisiologo
e naturalista, si nascondono secreti che accennano all’Infinito, si destano
aspirazioni, che vengono dall’alto e nell’alto ritornano. Quei secreti, quelle
aspirazioni il positivista riguarda quali vani fantasmi, e lo spirito umano
quale un fantasma multiforme errante fuori del mondo della realtà. Duri tempi
per questi tempi»272. Così la prospettiva epistemologica dei positivisti mette
in discussione la scienza dell’uomo e sfigura la persona. Osserva A.: «il
sistema antropologico dei materialisti non è la scienza nuova, che cerchiamo,
ma la negazione della scienza»273. La loro antropologia risulta dunque un
grande «equivoco»274. Per questo chi approccia l’antropologia positivistica è
«trascinato entro una selva intricata di osservazioni senza un’idea suprema
dominante, che lo sorregga e le dia unità, anima e vita a quel tritume di
particolari»275. Il miglior esponente di questa prospettiva è Spencer che
enuclea tali concetti nel Primi Prinicipii, così commentati dall’A.: «Per
quantunque la credenza nella realtà dello spirito individuale sia inevitabile,
e benché sia riaffermata non solo dall’unanime consenso del genere umano, ed
adottata da tanti filosofi, ma ben anco dal suicidio dell’argomento scettico,
pur tuttavia non può venire per nulla giustificata dalla ragione: havvi ancora
di più; allorquando la ragione è messa alle strette di pronunciare un giudizio
formale, essa condanna tale credenza... di guisa che la personalità di ciascuno
ha coscienza, e la cui esistenza è da tutti avuta per un fatto certissimo sopra
ogni altro, è tal cosa che non può in veruna guisa essere conosciuta; la
conoscenza della personalità è vietata dalla natura medesima del pensiero»276.
270 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, 87. 271 G. A., Del
positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 243. 272 G. A., Studi pedagogici,
13. 273 G. A., Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società,
13. 274 12. 275 G. A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, 58. 276 G.
A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 315. 76 Il
filosofo britannico non può che giungere ad un riduzionismo antropologico.
Scrive ancora A.: «Lo Spencer fa sua (né vi ha di che stupirne) l’osservazione
di uno scrittore, che cioè a riuscire nella vita occorre primamente essere un
buon animale»277. Tale prospettiva è inaccettabile per l’A., secondo cui l’uomo
è strutturalmente differente dal resto della natura: «L’umano soggetto, insino
dal primissimo istante della sua mortale esistenza, è non solo di grado, ma di
specie differente dal bruto, perché la mente, ossia l’anima razionale, che lo
costituisce uomo, ei la possiede per natura, e non l’acquista punto col tempo,
non la vede allo sviluppo progressivo dell’organismo corporeo. Questo
giustissimo concetto pitagorico, che tanto bene risponde al sentimento naturale
della dignità umana, sta diametralmente opposto alla moderna dottrina del
positivismo evoluzionistico, il quale sentenzia che nel neonato l’animalità si
viene a poco a poco trasformando in unità in virtù delle leggi fisiologiche
dell’organismo animale, il quale, mentre nella prima infanzia della vita si
manifesta mercé le sole funzioni inferiori del senso fisico e del cieco
istinto, proseguendo nel suo sviluppamento, acquista la virtù di esercitare
esso stesso la facoltà superiore dell’intendere, del ragionare e del volere,
sicché la mente, lo spirito, l’anima razionale, che tanto ci sublima e ci
differenzia dal bruto, non sarebbe già una sostanza diversa dall’organismo
corporeo, bensì rimarrebbe pur sempre in fondo l’animalità stessa che funziona
sott’altra forma più elevata»278. L’uomo è ontologicamente differente rispetto
al resto della natura. Il positivismo al contrario «afferma che l’io umano non
è un’energia vivente, un’attività libera e conscia della sua personalità
sostanziale, bensì un mero complesso di fenomeni che non appartengono a
nessuno»279. Queste posizioni antropologiche, denuncia A., portano ad
inevitabili corollari pedagogici: «ai giorni nostri e nella nostra Italia in
fatto di pubblica educazione si trascorre agli estremi, sicché questa gran
legge dell’armonia rimane offesa. All’educazione fisica si attribuisce una
importanza esorbitante, e assai più di quanto le convenga ed in suo servizio si
lavora in tutti i rami ed in tutte le guise, mentre la formazione del carattere
che è di tutta l’umana educazione la parte più nobile e più prestante, giace
pressoché dimenticata e negletta. Lo Spencer esaltando sopra misura la cultura
dell’organismo corporeo ha asserito che l’uomo debb’essere anzi tutto e
soprattutto un buon animale, ma ha dimenticato che si può essere un buon
animale ed un pessimo soggetto ad un tempo»280. 277 322. 278 G. A., Delle idee
pedagogiche presso i greci, 28-29. 279 G. A., Opuscoli pedagogici, 5-6. 280 G. A.,
Principi fondamentali di Scienza Pedagogica, 680. 77 Invece la
persona è quella briciola dell’Universo che appartiene a se stessa, e a ciò
deve essere educata. La persona sente, capisce e vuole. La riduzione dell’uomo
ad animale compromette la morale, e cioè l’immanenza dei criteri di bene e di
male e la responsabilità personale. A. individua le conclusioni di queste
premesse nell’opera di Spencer, il quale negando la libertà, «nella sua
psicologia riguarda la volontà quale una evoluzione dell’istinto fisico ed
assoggetta perciò l’opera umana ad un fatale e necessario determinismo, in cui
i fenomeni psichici si succedono gli uni agli altri con un intreccio
indissolubile. Torna quindi inutile, anzi contrario a ragione, il pronunciare,
che siamo moralmente tenuti a compiere le azioni per noi vantaggiose ed
astenerci dalle dannose se esse non dipendono dal nostro libero volere, ma sono
per insuperabile necessità predeterminate le une alle altre»281. Si tratta di
una posizione con nefandi corollari morali e pedagogiche. «Rigettando la
libertà – infatti - viene per ciò stesso a mancare ogni ragione di
responsabilità morale, in quella guisa che, rovesciato un principio, cadono
tutte le conseguenze sue»282. Si tratta di una corollario spesso negato dai
positivisti. A. ben evidenzia questa contraddizione e osserva «parlano della
necessità imperiosa di formare il carattere dell’alunno, di promuovere lo
sviluppo spontaneo della sua attività mentale, di educarlo alla libertà di
pensiero; ma in tal caso la logica li costringe ad accogliere il concetto
filosofico dell’uomo, da cui discendono tutte queste conseguenze pedagogiche, e
rigettare il concetto antropologico positivistico da cui fioriscono conseguenze
pedagogiche diametralmente opposte»283. Si tratta di un’aporia che emerge con
chiarezza nella «retorica» sull’autodidattica284. Privato della libertà e del
fine, l’uomo si rifugia nell’accidia: «Vivere adunque alla giornata secondochè
porta il caso fino a che venga l’unus interitus hominum et iumentorum, ecco
l’unica morale a cui possa logicamente far luogo il positivismo»285. A. critica
ancora lo Spencer quando nella sua Educazione morale, intellettuale e fisica
riduce la morale a «conservazione propria diretta», una considerazione che se è
281 G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 309. 282 109. 283 G.
A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 5. 284 Scrive
sull’argomento: «I propugnatori della nuova scuola positivistica vanno
proclamando la somma importanza dell’autodidattica e dell’educazione del
carattere, e se ne fanno banditori come di una loro scoperta; ma con ciò non si
avvedono, che danno una smentita alla loro dottrina, la quale facendo dell’io
umano un mero fenomeno senza sostanza, e rigettando fra le illusioni la libertà
dello spirito, toglie di mezzo quella personalità, per cui l’alunno colla sua
interiore energia conquista le conoscenze e vi attinge la fermezza incrollabile
del volere» G. A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta
all’Università di Torino il 18 novembre 1903, 13. 285 G. A., Del
positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 262. 78 spiegabile col suo
darwinismo non è accettabile ai fini di una convivenza e di una prassi
educativa. La vita diviene adattamento e sopravvivenza. Senza un fine ultimo
non può esistere educazione, ma solo adattamento, e cioè in qualche modo
abbruttimento e alienazione. Il positivismo è la negazione della vera
educazione e «non ha ragione di usurpare il posto della scienza, così
compromette fatalmente le sorti dell’educazione umana»286. In questo senso, non
sconsacra solo la fede e la metafisica, ma anche la vita umana, la fiducia,
l’amore, la morale, gli ideali. La nuova antropologia dei positivisti ha
conseguenze nefaste sull’educazione. Negato il principio della personalità e il
valore della libertà, l’educazione è declassata ad adattamento. Il fine della
formazione si riduce all’ «allevamento» di un buon animale, il suo unico
interesse e scopo dovrà essere quello di collaborare al benessere dell’Umanità.
Nella prospettiva positivistica perde di significato quella formazione del
carattere, della volontà, e di emancipazione dalle funzioni biologiche, in cui
risiede secondo A. lo scopo dell’educazione umana. Anche l’istruzione, come
contesta A. al Bain, è ridotta a comunicazione di nozioni, sempre funzionali
alla produzione o alle condizioni sociali, e senza nessun riferimento
all’educazione, agli ideali, ai valori. Non si bada più alla formazione del
carattere, ma alle capacità cognitive, privandole però del fine e della
direzione. L’educazione cessa di essere esortazione per divenire
condizionamento. Il suo senso nella pedagogia positivistica viene svilito in
quanto «manca il pensare grandioso, elevato, che raccoglie una molteplicità
svariatissima di idee particolari in una potente ed organica unità; manca quel
soffio di idealità, che innalza lo spirito dell’educatore al sentimento del suo
arduo e sublime magistero»287. Oltre all’idea di libertà, di morale, e di
educazione sono le stesse scienze umane che vengono ribaltate sulla base dei
principi antimetafisici, materialisti e naturalisti. A. denuncia che «Le
scienze della natura hanno usurpato il posto delle scienze dello spirito: la
psicologia, la morale, la filosofia in genere non hanno più una esistenza loro
propria e distinta, ma sono trasformate in altrettanti rami delle scienze
naturali»288. La pedagogia vede messi in discussioni i suoi principi
fondamentali: «Una scienza pedagogica senza verità universali e necessarie,
un’educazione senza ideale, ecco le conseguenze, che derivano dal principio,
che l’esperienza è la norma unica e suprema della disciplina pedagogica»289.
286 G. A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, 183. 287 G. A., La
nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 27. 288 G. A., Lo spirito e
la materia nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo, 4. 289 G. A., La nuova
scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 8. 79 Il primo dato
necessario alla pedagogia che il positivismo confonde è la natura non materiale
della persona: «La nuova scuola, mentre proclama di non voler accogliere nella
cerchia della scienza altro che fatti, inconseguente a se medesima rinnega
alcuni fatti di singolarissima importanza. Giacché è un fatto irrepugnabile,
che l’educatore e l’alunno, l’uno di fronte all’altro, sentono di essere non
già meri fenomeni insieme implicati, bensì due persone vive e reali, che hanno
ciascuna affetti, intendimenti e voleri suoi propri, ed affermano la loro
individualità col vocabolo io; sentono di essere attività libere, consapevoli
di sé, arbitre del proprio operare. Ora la nuova scuola proclama illusorii
questi due solennissimi fatti, che sono il fondamento primo dell’opera
educativa». L’antimetafisica mette in discussione un altro elemento necessario
per la pedagogia, vale a dire l’evidenza che «L’uomo è un soggetto educabile.
Questo concetto semplicissimo ed elementare trascende la sfera
dell’esperienza»290, e non può dunque essere incastonato nell’architettura
positivista. La persona inoltre ha bisogno di un ideale, di un fine a cui
piegare la sua esistenza. «Senza ideale non si vive da uomo, non si vive
personalmente; e l’ideale vero non ci viene da una scuola, la quale insegni che
la vita umana si risolve tutta quanta in un gabinetto di fisiologia, non ci
viene dalla nuda esperienza. Essa mi dirà quello che io sono di fatto, o
integro o corrotto che io mi sia; l’ideale invece mi rivela quello che io debbo
essere; quello dell’esperienza è l’ideale del momento che passa, del punto che
scompare; il vero ideale abbraccia l’universalità del tempo e dello spazio»291.
In un altro saggio osserva: «L’esperienza mi dice quello, che è di fatto, non
quel che debb’essere; mi apprende cioè che l’uomo viene realmente educato, ma
non già che lo debba essere; è dessa la ragione, che muovendo dal concetto
della persona umana ne argomenta che l’educazione le è necessaria ed
essenziale. Così la sola esperienza non vale a somministrarci la verità
universale e necessaria dell’educabilità»292 L’educazione ha bisogno di un ideale.
Questo brano sintetizza chiaramente i concetti suaccennati: «Che se il soggetto
educando de’ positivisti, conscia ed arbitra di sé e cagione efficiente degli
atti suoi, è niente più che una mera successione de’ fenomeni, i quali non
appartengono a nessuno, ognun vede, 1° che voi farete del vostro alunno non già
una libera individualità, che pensi da sé e si regga per virtù interiore, bensì
un meccanismo di fenomeni insieme raccostati dalla forza dell’abitudine; 2° che
la santità del dovere è sfatata e l’educazione morale torna impossibile, perché
i fenomeni passano senza lasciar traccia di sé, e le nostre risoluzioni 290 6.
291 G. A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta
all’Università di Torino il 18 novembre 1903, 15. 292 G. A., La nuova
scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 6. 80 volontarie sarebbero
una risultante di fenomeni ossia di forze meccaniche cooperanti; 3° che
anch’essa l’educazione religiosa non ha più ragione di essere, perché il
positivismo è la negazione della metafisica, come scienza dell’Essere assoluto,
e la negazione della religione, come amore intelligente ed operoso dell’Essere
divino»293. La pedagogia positivista viene inoltre criticata in quanto si
fregia di aver portato fondamentali novità per la pratica educativa. A.
chiarisce che: «I positivisti s’immaginano di avere dato alla scienza dell’uomo
e della sua educazione un impulso affatto nuovo e potente, di averle impresso
il suo vero indirizzo, di averla ricostruita sulle sue giuste fondamenta come
se tutti i grandi pensatori, che meditarono prima di essi intorno a queste due
discipline, avessero brancolato alla cieca; e tutta la riforma, della quale
vanno altieri, sta nell’aver circoscritto tutto il compito dell’antropologia e
della pedagogia allo studio de’ fatti umani ed alla ricerca delle loro leggi,
indipendentemente da ogni considerazione relativa alla sostanzialità del me, in
cui essi fatti hanno il loro comune principio, il loro punto centrale ed
armonizzatore»294. Ne La nuova scuola pedagogica analizza le novità che i
positivisti si prendono il merito di aver apportato alla pedagogia: metodo
intuitivo, autodidattica e adattamento. A. fa notare come siano tutte
intuizioni e nozioni assai note prima della nascita del positivismo e prima
ancora della comparsa della pedagogia. Per quanto riguarda le scienze umane, A.
contesta la trasformazione positivistica della psicologia in una branca della
fisiologia. Tale critica è legata alla battaglia per la difesa della
personalità umana e della sua libertà. Ciò che A. intendeva difendere era
l’idea che i fatti psicologici non fossero solo fisici, ma fondamentalmente
spirituali. Il mentale non può essere trattato come il biologico, per cui
l’oggetto della psicologia deve essere l’io sostanziale e non la sua espressione
fisiologica o fenomenica. Per tale motivo la psicologia deve seguire, a detta
di A., un metodo filosofico e non scientifico, con cui invece si può indagare
l’uomo da un punto di vista anatomico o fisiologico. Così per l’A. «la
psicologia è quella parte di filosofia, che ha per oggetto l’anima umana
studiata ne’ suoi fenomeni e nel suo essere sostanziale mediante la coscienza
perfezionata dalla riflessione al ragionamento»295. Tale concezione deve essere
contestualizzata in un periodo in cui la scienza italiana era parecchio lontana
dagli approcci e dai risultati dei laboratori psicologici svizzeri, tedeschi e
francesi. Questa difesa del collocamento della psicologia nella filosofia da
quanti la volevano ridotta a pura fisiologia, nacque dalla paura 293 G. A., Del
positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 409. 294 G. A., Delle idee
pedagogiche presso i greci, 87. 295 G. A., Appunti di Antropologia e
Psicologia, 24. 81 che tale prospettiva avallasse la riduzione
dell’essere umano a un mero meccanismo biologico. Occorre inoltre far notare
che A. tenne in grande considerazione le scienze sperimentali, anche se
denunciò l’alto rischio dello scadimento della scienza in scientismo. Osserva
«Non vi è amatore del vero sapere, che non riconosca e non ammiri i grandi
progressi fatti dalle scienze naturali, e lo splendido avvenire, a cui sono
chiamate, proseguendo per la retta via dell’osservazione sincera e compiuta dei
fatti fisici, fecondata da una lenta e prudente induzione verificata mediante
la prova e riprova di ben condotto esperimento. Questo successo e sicuro
progredire del pensiero nella scoperta delle leggi e delle forze della natura
avvantaggia le sorti dell’umanità e conferisce potentemente alla civiltà ed al
perfezionamento sociale, essendochè l’uomo la fa sua rivolgendola al compimento
del suo ideale. Se non che mentre per una parte il progresso delle scienze
naturali conforta l’animo di liete speranze, per l’altra si nota con
rincrescimento la tendenza di alcuni illustri ingegneri contemporanei a
trascendere i confini proprii di esse scienze e riguardarle siccome la vera e
sola scienza, a cui tutte le altre vanno sacrificate, come se in esse sole
fosse incarnato lo spirito scientifico»296. Appare dunque poco fondato
l’appunto mosso dalla Bertoni Jovine all’A., che criticò al vercellese una
presunta ostilità nei confronti della scienza e del suo valore educativo.
Secondo la studiosa emiliana, per A.: «Tutte le scienze che si valgano di
questo metodo e che inducono l’educando all’osservazione spregiudicata dei
fatti storici e naturali sono dunque scienze diseducative o quanto meno
non-educative, se per “educative” s’intendono soltanto le suggestioni che
rafforzano la fede»297. In un lavoro successivo provò a giustificare la
supposta contrarietà all’insegnamento della scienza, con l’esigenza di
difendere il «dogmatismo» in funzione dell’ostruzionismo al progresso sociale e
civile298. 296 G. A., L’uomo e la natura, 12-13. 297 D. Bertoni Jovine, Storia
della scuola popolare in Italia, Torino, Einaudi, 1954, p. 387. 298 «Ad ogni
modo, pur attraverso una prosa gonfia e nello stesso tempo reticente, è
opportuno districare il filo delle argomentazioni del pedagogista torinese. Il
punto sostanziale della sua polemica è la critica del valore educativo della
scienza. La scuola moderna si fa un feticcio della scienza sottovalutando altri
elementi formativi dello spirito umano. Ma di quale scienza parla A.? Lo
chiarirà in una nota inviata alla Reale Accademia di Scienze di Torino. Si
tratta soprattutto si quel complesso di problemi e di studi che si raggruppa
sotto il nome di “sociologia” e che interessa tutti i problemi della vita
moderna, compresi quelli educativi. Egli non avrebbe probabilmente trovato
tanto rivoluzionarie le teorie del positivismo, dello scientificismo, dello
storicismo, se tutte insieme queste nuove teorie non avessero giusitificata
l’esigenza di dare un nuovo sviluppo e un nuovo orientamento alla scuola; se in
altri settori della vita pubblica quell’esigenza non si fosse collegata con necessità
fatte sull’analfabetismo non avessero messo l’accento sull’influsso che una
struttura economica arretrata aveva sulla scarsa efficienza della scuola. In
questo legame l’A. trova il punto più pericoloso delle nuove dottrine
pedagogiche che segnavano il tramonto di quello spiritualismo al quale egli si
richiamava con nostalgia. Ad esse attribuisce il fallimento scolastico
italiano, richiamando gli educatori ad una maggiore prudenza nell’accettare
quel metodo positivistico che 82 Nel testo Studi Psico fisiologici
(1896) riprese diverse scoperte fatte in ambito sperimentale e ne valorizzò i
meriti e la valenza pedagogica. In più d’una occasione dovette difenderne
l’importanza per la pedagogia da quanti, come gli idealisti, ne contestavano il
senso e l’utilità299. Tale avvicinamento alla psicologia sperimentale gli costò
la critica dell’idealista Santamaria Formiggini che avversando l’ilemorifismo
dell’A. vide nell’apertura alla psicologia sperimentale un tradimento della
realtà spirituale:300 D’altra parte pare chiaramente inesatto il giudizio di
Vidari che fa dell’A. un osteggiatore della psicologia, sostenendo che il
principio della personalità è «anti-sperimentalista» e «anti – sociologico»301.
Invece l’armonia tra il materiale e lo spirituale, il loro “accordo”, era
proprio ciò a cui A. puntava. Le due discipline, psicologia e fisiologia, non
dovevano essere confuse ma ben distinte nel comune studio sull’uomo. Scrive a
proposito: «La psicologia si trova in intimo contatto colla fisiologia, ma
ciascuna di queste due scienze va distinta dall’altra, perché la prima ha per
oggetto suo proprio la mente co’ suoi fenomeni psichici, la seconda l’organismo
corporeo colle sue funzioni vitali; e tuttavia sono unite insieme da quel
medesimo vincolo, che congiunge nell’uomo l’anima razionale ed il corpo
organico, e così unite costituiscono l’antropologia»302. A causa di ciò A. non
può essere considerato come un nemico della psicologia sperimentale, ma contro
quella che esclude la «natura personale» nell’uomo. La critica del positivismo
e del materialismo è connessa a quella sull’evoluzionismo. A. fa notare come il
darwinismo non sia una necessaria conseguenza del positivismo, ciò è confermato
dal fatto che non fosse condivisa da autori come Auguste Comte o Stuart Mill.
Nella Nuova scuola pedagogica (1905) A. osserva: «La nuova scuola pedagogica
annovera nel suo seno alcuni seguaci dell’evoluzionismo darviniano, i quali
accusano la distruggerà il metodo dogmatico [in nota: G. A., L’indirizzo
storico e sociologico della pedagogia contemporanea, Torino, 1908]. Tutte le
scienze che si valgono di questo metodo e che inducono il fanciullo
all’osservazione spregiudicata dei fatti storici e naturali sono dunque scienze
diseducative o quanto meno non-educative, se per “educative” s’intendono
soltanto le suggestioni che rafforzano la fede» D. Bertoni Jovine, Storia
dell’educazione popolare in Italia, Bari, Laterza, 1965, pp. 221-223. 299 G. A.,
Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola
ionica a Giordano Bruno, 14. 300 «Forse l’A. si lasciò trascinare nella sua
vita dal desiderio di porre la sua psicologia in maggiore armonia con le teorie
scientifiche sull’emozione che allora si diffondevano in seguito all’indirizzo
di studi del Wundt; volle dimostrare la possibilità di coordinare il suo
sistema coi risultati della scienza più moderna; ma naturalmente non poté
riuscire bene nel suo intento, perché l’eclettismo è il più difficile di tutti
i sistemi» E. Santamaria Formiggini, La pedagogia italiana nella seconda metà
del secolo XIX, parte I, gli spiritualisti, Roma, A. F. Formiggini, 1920, p.
281. 301 Vidari sostiene che l’A. è contrario alla «psicologia fenomenistica,
che è per la Pedagogia rovinosa, negando essa il principio fondamentale della
sostanzialità e unità della Persona» G. Vidari, Giuseppe A., 8-9. 302 G. A.,
Appunti di Antropologia e Psicologia, 26. 83 vecchia pedagogia di posare
sopra una psicologia astratta e dualistica, per cui mancava di salde basi
scientifiche, adoprava un metodo puramente soggettivo ed astratto e toglieva di
mezzo ogni raffronto tra i fenomeni psichici dell’uomo e quelli degli animali.
Tutte queste accuse presuppongono che l’evoluzionismo, a cui si appoggiano, sia
una verità scientifica rigorosamente dimostrata, ma cadono l’una dopo l’altra,
dacché il Darwinismo è una mera ipotesi sostenuta da pochi pensatori, che lo
scambiano per un teorema scientifico dimostrato. Anche riguardato come una pura
ipotesi bisognevole di conferma, l’evoluzionismo è ben lontano dallo adempiere
i difetti ingiustamente attribuiti alla pedagogia filosofica e rinnovare di
sana pianta la scienza educativa nelle sue basi, nel suo metodo, nelle sue
attinenze sociali»303. In tale testo conferma una considerazione fatta già nel
1874: «L’alterazione della specie sostenuta da Darwin è una mera ipotesi, che
va ogni di più perdendo valore e seguaci»304. Di certo la previsione è
risultata sbagliata. Tuttavia, il fatto che A. considerasse la teoria
dell’evoluzionismo come una probabilità appare giustificabile sulla base delle
conoscenze scientifiche e delle prove addotte dal darwinismo alla fine
dell’Ottocento. Va peraltro tenuto conto che la critica dell’A. fu abbastanza
superficiale e incentrata su questioni filosofiche più che scientifiche (non ne
aveva gli strumenti). L’idea che il pedagogista vercellese difendeva era
comunque la stessa, l’irriducibilità dell’uomo alla natura. Nel testo L’uomo e
la natura (1906) si interroga: «possiamo noi ammettere che la specie umana
abbia avuto origine dalla materia universale diffusa nello spazio per via di
una lenta e progressiva trasformazione degli organismi viventi? Lo asseriscono
i seguaci dell’evoluzionismo materialistico, ma non lo hanno mai dimostrato
seriamente né punto, né poco; né dimostrare lo possono perché nemo dat, quod
non habet, e la materia bruta primitiva non racchiudeva certamente in sé il
germe di quella sublime razionalità, che è il carattere costitutivo della
specie umana. Carlo Vogt nelle sue Lezioni sull’uomo si sbraccia a dimostrare,
che le diverse razze umane originarono dalle differenti famiglie di scimmie, ma
ristrinse tutto il suo esame alla morfologia del cranio umano raffrontato con
quello scimmiesco, e non disse verbo delle facoltà mentali proprie
dell’umanità: che veramente avrebbe avuto un disperato partito per le mani, se
avesse preteso che la mentalità dell’uomo è sbocciata dalla brutalità della
scimmia»305 Stando all’A. il positivismo non è perdente solo sul piano
teoretico. È la vita a condannare questo sistema. Nell’introduzione degli Studi
Pedagogici, A. riprende il 303 G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi
pronunciamenti, 12. 304 G. A., Della vecchia e della nuova antropologia di
fronte alla società, 10. 305 G. A., L’uomo e la natura, 10. 84
romanzo di Dickens, Duri tempi per questi tempi, e cita diversi brani al fine
di mostrare la confusione a cui porta il positivismo nella vita reale, infatti
è inevitabile che venga svilito il compito dell’educatore, svalutata
l’immaginazione, sminuito il sentimento e l’amore. Il positivismo soffoca
l’esistenza. Anche se A. ricorda che «il cuore è tal forza che più di ogni
altra della natura scoppia irresistibile quanto più lungamente e violentemente
repressa»306, il positivismo conduce inevitabilmente alla «ruina e lo sfacelo
della vita domestica e sociale»307. A. contesta anche le posizioni
positivistiche sulla scuola. Critica Comte che impone alle prime classi un
quadro orario composto quasi esclusivamente con materie matematico
scientifiche, sminuendo quelle umanistiche. Nonostante le critiche A. riconosce
alla nuova pedagogia anche dei meriti308. Uno degli apporti importanti del
positivismo è stato quello di riavvicinare la scienza pedagogica all’analisi e
all’osservazione degli aspetti empirici dell’educazione. Comunque se A. dopo
gli anni ’70 risultava preoccupato per l’avanzata del positivismo, alla fine
della sua carriera ebbe occasione di esultare per la sua decadenza. A. poteva
scrivere che «Il positivismo pedagogico attraversa una grandissima crisi e va
via via smarrendosi in mezzo a diversi e contrari indirizzi. La mancanza
assoluta di critica, la cieca fidanza si sé, il dogmatismo sostituito al
ragionamento ed alla discussione, la noncuranza delle dottrine contrarie, il
disprezzo della tradizione, tolgono a questo sistema ogni efficacia scientifica
e segnano il suo decadimento»310. 306 G. A., Studi pedagogici, «Nessuno mai, che abbia fior di senno,
rigetterà siccome sciupato, fallito e contrario al vero tutto il lavoro della
nuova scuola pedagogica. Anch’essa ha le sue parti buone e commendevoli accanto
alle malsane e morbose; ha messo in bella luce alcuni punti, che non erano
stati sufficientemente lumeggiati; ha posto in rilievo alcuni fatti educativi
mediante un’analisi sottile ed accurata; ha dato un nuovo impulso
all’educazione fisica ed alla coltura del pensiero; ma il principio
fondamentale, su cui essa posa, è radicalmente sbagliato; epperò tutte le
verità, che essa contiene nella sua dottrina, non le può logicamente ammettere,
se non a condizione di rigettare il suo principio supremo, mentre la pedagogia
filosofica le può accogliere tutte quante, perché rientrano nel principio che
le è proprio» G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, «Il
positivismo (sarebbe ingiustizia il disconoscerlo) ha recato non poco
giovamento agli studi antropologici coll’averli ritirati dalla via
dell’incompiuto ed esclusivo metodo trascendentale dell’antica scuola e
condotti su quella dell’osservazione e della storia; ma è solenne errore quel
suo fermarsi alla nuda osservazione dei fatti e delle loro leggi senza punto
assorgere allo studio delle origini, della natura e della destinazione
dell’uomo che è causa efficiente e ragione spiegativa di quei medesimi fatti.”309
Osserva ancora: “Certamente dimostrerebbe ingiusto verso la nuova scuola chi le
negasse il merito di avere efficacemente contribuito all’incremento della
scienza pedagogica; ma dall’altro lato è giuoco – forza riconoscere, che nel
corso delle sue indagini ha passato sotto silenzio argomenti e problemi
pedagogici di altissimo rilievo» 27. 310 G. A., Opuscoli pedagogici, 6.
85 Concludendo, si può rilevare come A. abbia scovato nelle critiche al
positivismo e all’idealismo un errore comune. Entrambe mancano infatti di
realismo, e riducono sia il campo dello scibile che quello dell’esistente Il
contributo alla storia della pedagogia Gli studi di storia della pedagogia
costituiscono una parte cospicua nella produzione di A., che nella sua lunga
carriera si è occupato di diversi periodi, che vanno dalla pedagogia antica
greca e romana, all’itinerario della riflessione europea tra il XVIII e il XIX
secolo, alla storia dello spiritualismo italiano. L’importanza data agli studi
storici è inoltre confermata dal fatto che i testi in cui A. espone il “suo”
sistema pedagogico e filosofico sono lavori di storia della pedagogia, vale a
dire i Saggi filosofici, gli Opuscoli e Il problema metafisico. Tra le opere
più importanti vi è il già citato Del positivismo in sé e nell’ordine
pedagogico (1883), che non si limita ad una critica sui contenuti ma riprende
con precisione lo sviluppo delle teorie pedagogiche di Comte, Spencer, Bain.
Sulla stessa corrente, è particolarmente significativo il testo La psicologia
di Herbert Spencer: studio espositivo-critico (1898). Al contributo della
pedagogia svizzera dedica il libro: Delle dottrine pedagogiche di E.
Pestalozzi, A. Necker de Saussure, F. Naville e G. Girard (1884). Un altro
testo importante è Delle idee pedagogiche presso i Greci (1887). Nel 1901
pubblicò La pedagogia italiana antica e contemporanea in cui in un capitolo è
riportato un testo pubblicato quaranta anni prima: Della pedagogia in Italia
dal 1846 al 1866 (1867). Negli Opuscoli pedagogici (1909) presenta saggi su l’Helvetius,
Gerdil, Jacotot, Kant, Herbart, Blackie ed altri. Importante anche lo studio
sul fondatore della pedagogia moderna, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista
(1910) e l’ultima opera che rappresenta il testamento pedagogico dell’A.:
Giobbe e Schopenhauer (1912). Un altro importante contributo fu la traduzione e
l’introduzione della Levana di Richter, e lo studio su Maine de Biran e la sua
dottrina antropologica (1895). 311 Sui punti in comune delle due teorie scrive:
«Queste due specie di umanismo filosofico hanno due punti comuni in cui
convengono, ai quali corrispondono due punti di discrepanza, in cui esse
differiscono. Anzi tutto entrambe concordano nel proclamare l'autonomia
illimitata del pensiero umano, che nulla più riconosce oltre di sè: da ciò poi
che l'attività del pensiero si spiega e come ragione avente per oggetto il
mondo soprasensibile, immutabile ed assoluto delle essenze, e come esperienza
la quale coglie il mondo sensibile, mutabile e relativo de' fenomeni, ne viene
una ragion soggettiva per cui l'umanismo filosofico si specifica in
razionalismo assoluto ed in empirismo universale. Ancora, esse convengono nel
proclamare il moto indefinito delle cose e delle idee, mercè il quale l’uomo,
disertando il posto segnatogli dalla propria natura, o si faccia identico con
Dio, che gli sovrasta, trasumanando, o si confonda colla materia che gli
soggiace. disumanandosi; e di qui una ragione oggettiva, per cui l'umanismo
differenziasi in antropoteismo ed in naturalismo» G. A., L’Hegelismo e la
scienza, la vita, 9-10. 86 Uno dei periodi più studiati dall’A. fu
la pedagogia del XIX secolo. Nel testo Delle dottrine pedagogiche di Enrico
Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard,
(1884), innalza la scuola svizzera come un momento importante per l’intera
scienza e storia della pedagogia, una scuola che seppe integrare le spinte
della modernità con una prospettiva antropologica spiritualista. Un altro testo
molto significativo è il già citato Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866
(1867). Questo saggio ripercorre con precisione lo sviluppo della cultura
pedagogica e della legislazione scolastica in Piemonte e in Italia, in un
decennio decisivo per la costruzione della scuola italiana. Commentando questo
saggio Gerini ha scritto: «La monografia, composta per incarico del Ministro
della P.I., è il primo saggio di storia pedagogica scritto in Italia, che sarà
sempre consultato da quanti vorranno conoscere il nostro risorgimento
educativo»312. Dello stesso avviso anche Arcomano, che commenta: «È una
rassegna delle situazioni, delle attività e delle opere del ventennio
1846-1866, in fatto di istruzione ed educazione, e si può considerare un
capolavoro di chiarezza nella interpretazione degli avvenimenti e nella
presentazione delle idee che circolavano»313, anche se poi rileva come il testo
è forse troppo concentrato sulla realtà subalpina. Il testo ebbe vasta eco nel
dibattito pedagogico, lo troviamo spesso citato in opere di altri autori314,
abbastanza rare sono le critiche315. In questo saggio A. esalta i protagonisti
di quella stagione come Vincenzo Troya, Agostino Fecia, Vincenza Garelli, Carlo
Boncompagni. Riprende poi tutte le discussioni sulla riforma della scuola, e
trova nell’esperienza pedagogica del Piemonte e della Toscana nella metà dell’Ottocento
i due laboratori della nuova scuola e della nuova pedagogia. È molto
significativo il peso dato dall’A. alla «Società pedagogica» e anche alle
riviste del tempo. Questo testo, contribuì a dimostrare come fosse solo un mito
l’idea propagandata dai positivisti secondo la quale la pedagogia precedente
alla loro non avesse avuto nulla da dire. A. fa risaltare la pedagogia
spiritualista risorgimentale e quel clima di liberalismo educativo che sarà
tradito e defraudato dalla statolatria e dal positivismo. 312 G.
B. Gerini, La mente di Giuseppe A., 44. 313 A. Arcomano, Pedagogia,
istruzione ed educazione in Italia (1860-1873), 56. 314 Cfr. C. Uttini, Nuovo
compendio di pedagogia e didattica: ad uso delle scuole e delle famiglie, Torino,
Libreria scolastica di Grato-Scioldo, 1884, p. XIV. 315 Si vedano per esempio
gli appunti negativi di Vidari: «Abbastanza buono per la parte della pedagogia
contemporanea è il Saggio dell’A., il quale porta in esso il contributo delle
sue proprie memorie e impressioni; ma anche qui il senso della vita storica,
cioè della interiore unità onde si collegano nel loro svolgimento le dottrine,
è quasi del tutto assente, e invece prevalgono le preoccupazioni personali
dell’autore» G. Vidari, Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo
storico, 4. 87 Senza dubbio lo studioso può essere considerato uno
tra i primi storici della pedagogia italiana, e non solo per il numero dei
lavori pubblicati, ma anche per la teorizzazione dell’ambito disciplinare e
delle metodologie di ricerca. A. espone il suo pensiero circa il fine e il
metodo della Storia della pedagogia nel breve opuscolo Concetto generale della
storia e della pedagogia (1901), anche se accenna a tale questione in diversi
altri saggi. Nel lavoro citato, parte dalla considerazione dell’educazione come
fatto e concetto comune. La pratica e la teorizzazione educativa sono
imprescindibili, e la scienza pedagogica si sviluppò sotto la spinta di voler
vedere perfezionata l’arte educativa. In questo senso continua: «La necessità
di una scienza pedagogica emerge dal difetto inerente all’inconscia educazione
naturale, e quindi dall’insufficienza del suo concetto»316. Egli rivendica uno
statuto epistemologico propria alla storia della pedagogia, che distingue tanto
dalla pedagogia in sé, che dalla storia dell’educazione. In questa direzione
critica Paroz che nella Histoire universelle de la Pédagogie non separa le due
discipline317. A. distingue anche la storia dell’educazione in generale, vale a
dire i tratti tipici dell’educazione e la sua storia universale, dalla storia
dell’educazione di una particolare tradizione o società318. Nei suoi studi
richiama l’importanza della precisione storiografica ed uno studio approfondito
delle fonti. In particolare rimarca come la storia dell’educazione debba
essere: ordinata, veridica, ragionata, compiuta. Chiede di riferirsi sempre a
«fonti accurate e sicure»319. Uno degli aspetti innovativi dei lavori dell’A. è
il peso dato allo studio del contesto e della personalità dell’autore320. 316
G. A., Concetto generale della storia della pedagogia, 1. 317 «La storia
dell’educazione ha per ufficio suo proprio di esporre le diverse forme, che
prese l’educazione presso i diversi popoli antichi e moderni; per contro la
storia della pedagogia espone le origini e lo sviluppo di questa scienza
attraverso le dottrine, i sistemi, le teorie de’ pensatori, che la coltivarono.
[...] Per certo queste due specie di storie sono fra di loro congiunte da
intime attinenze e si lumeggiano a vicenda, ma la loro distinzione va tenuta in
conto per non confondere due ordini di cose affatto diversi, quali sono le idee
pedagogiche de’ pensatori e le azioni educative degli istitutori» 3. 318 «La
storia dell’educazione, riguardata rispetto alla sua estensione, viene a
diversi in universale, particolare e singolare. La storia universale si estende
all’educazione di tutti i tempi dai più remoti ai contemporanei, di tutti i
popoli e barbari e civili, e antichi e moderni. La particolare comprende un
periodo storico generale, quale sarebbe la storia dell’educazione antica, o
parte di un periodo storico, come ad esempio la storia dell’educazione dal 1500
a noi. In entrambi i casi abbraccia l’educazione presso tutti i popoli
ristretti però ad un tempo determinato. È altresì particolare quella, che
espone l’educazione di una nazione considerata o in tutta la durata della sua
esistenza (quale l’educazione presso i romani) o in uno de’ suoi periodi
storici (quale l’educazione dei romani nel periodo repubblicano). Infine è
singolare, se si restringe o ad un dato secolo (come la storia dell’educazione
ai tempi della rivoluzione francese), o ad un Istituto educativo, quale
l’Istituto pitagorico o l’Istituto educativo di Vittorino da Feltre; ed allora
piglia più propriamente nome di monografia storica» 3-4; 319 4. 320 Già in uno
dei primi saggi esponeva con chiarezza tale principio: «La critica ha da
descrivere la genealogia del genio speculativo; ha da seguirlo in tutto il suo
periodo evolutivo ricordando i sentieri e le vie riposte per cui è passato
prima di giungere al suo ideale definitivo; ha da studiare il movimento
speculativo dell'epoca in mezzo al quale si svolse; ha da sceverare nelle
pagine della storia le idee di cui ha elementato il proprio sistema e
significare come queste nel proprio sistema s'intrecciarono e vi ricevettero
un'impronta peculiare e sistematica. Tale è l'ufficio narrativo della critica.
Oltre a tutto questo, apprezzare nel suo giusto 88 Come la storia
dell’educazione, anche la storia della pedagogia si può dividere in generale e
particolare. Il suo fine non si limita ad una narrazione asettica della
riflessione educativa, ma trova il suo senso nella valutazione delle teorie
pedagogiche rispetto all’autentica scienza pedagogica. Scrive A.: «Da queste
generali considerazioni intorno al come si forma e si va svolgendo la pedagogia
emerge da sé il concetto della sua storia, la quale apparisce una ordinata e
razionale narrazione dello svolgimento progressivo della scienza pedagogica
attraverso i tentativi fatti dai pensatori di tutti i tempi e luoghi a fine di
determinare l’ideale tipico dell’umana scienza»321. In particolare, sono
significativi alcuni brani presenti negli Studi pedagogici (1889)322 e ne La
nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti (1905)323, in cui mostra come
lo scopo dell’approfondimento storico è strettamente connesso al fine della
scienza pedagogica. L’A. sostiene che l’educazione possa essere studiata o nel
suo svolgimento pratico o da un punto di vista speculativo. La pratica
educativa può essere di tre tipi: quella che normalmente le persone attuano,
quella di una determinata società, e la vera arte di educare. Come
l’educazione, anche la teoria pedagogica sembra connaturale alla vita umana.
Per tale motivo in ogni epoca l’uomo si è fatto un’idea circa il miglior modo
di educare. Così, secondo A., esistono tre tipi di teorie pedagogiche: la
pedagogia volgare, quella del singolo pensatore, e la scienza pedagogica. Il
compito della storia della pedagogia quello di individuare il differenziale tra
quanto pensato in passato e la scienza pedagogica. La storia ha così un valore
fondamentale della riflessione pedagogica, poiché propone agli studiosi
interlocutori di vaglia, anche sé A. ricorda di distinguere la scienza dalla
storia324. Il seguente brano ben lumeggia la distanza tra ciò che si è pensato
e la scienza: «Fu detto che la storia universale è tutta una congiura contro la
verità: nell’ipotesi che stiamo valore il punto iniziale da cui un sistema
piglia le mosse, il processo a cui s'informa il suo sviluppamento, il termine
finale in cui si è chiuso; pronunziare se nella storia del pensiero speculativo
esso segni un periodo di sosta o di progresso; giudicare se il problema
filosofico sia stato concepito in tutta la sua integrità e giustezza, e
risoluto a dovere; epperò se siano state convenientemente satisfatte le
esigenze del pensiero spéculativo senza punto disconoscere i pronunziati
universali della sapienza comune, anzi armonizzandoli colle conclusioni della
ragion filosofica: ecco l'altro ufficio della critica che discute» G. A.,
L’Hegelismo e la scienza, la vita, 18. 321 G. A., Concetto generale della
storia della pedagogia, 6. 322 G. A., Studi pedagogici, 28-31. 323 G. A., Delle
dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure,
Francesco Naville e Gregorio Girard, 7. 324 «I cultori della pedagogia trovano
nella storia una saggia maestra, che additando gli errori dei pensatori che li
precedettero, da un lato, e dall’altro le verità da essi scoperte e lumeggiate,
li consiglia a procedere ammisurati e guardinghi nei loro tentativi, li anima e
li sorregge all’amore ed alla conquista del vero, ed allarga l’orizzonte del
loro pensiero. Riconoscendo l’utilità e l’importanza della storia della
pedagogia, guardiamoci però dall’ingrandirla oltre il convenevole.» G. A.,
Concetto generale della storia della pedagogia, 8. 89 discutendo,
bisognerebbe ripetere, che anch’essa la storia della pedagogia è tutta una
congiura contro la scienza pedagogica»325. Nel stesso saggio critica il
Siciliani e il suo testo Storia critica delle teorie pedagogiche nel quale
sostiene che la scienza pedagogica si fonda sulla esperienza storica
dell’educazione326. Se per Siciliani la scienza pedagogica è frutto di
evoluzione, per lo spiritualista A. la «vera» scienza pedagogica è una, e ad
essa ci si può avvicinare o allontanare. Entra poi in merito a come si fa la
storia della pedagogia. Spesso si è costretti a raccogliere le «idee slegate e
frammentate» in opere non propriamente pedagogiche, scovando le «teorie
particolari intorno a qualche punto di educazione, o sia che esse formino un
tutto da sé distinto da ogni altro, o sia che giacciano implicata ed involte in
opere di altra natura», ma anche «i trattati che abbracciano un compiuto
sistema pedagogico, dove l’educazione è contemplata in tutta l’integrità del
suo organismo, quali ce ne porge in copia moderna». Bisogna quindi studiare le
opere dell’autore, i frammenti della sua opera presente in altri autori, la
tradizione su di lui. «Gli scritti originali di un pedagogista sono essi soli
le vere fonti, da cui si attinge limpida e netta la sua dottrina, mentre i
frammenti registrati nelle opere di altri scrittori, e la tradizione scritta od
orale, anziché fonti, sono rivi più o meno puri». Dai suoi scritti occorre
innanzitutto cogliere in concetto centrale di un autore, cercandone poi le
cause. Occorre comunque valutare la pedagogia degli autori studiati: «Ma il
compito più elevato, più grave e ad un tempo più arduo della critica storica
risiede nel cernere nelle esposte dottrine la parte vera dalla erronea, la
certa dall’incerta ed opinabile, l’elemento soggettivo, particolare, relativo,
dall’oggettivo, universale, assoluto, che solo può passare nel dominio della
scienza pedagogica»327. Lo storico dovrà stare attento ad ancorarsi sempre alla
scienza pedagogica328. In conclusione sintetizza così il compito dello storico
della pedagogia: «Ai quattro uffici propri della storia pedagogica ora
accennati fanno natural corrispondenza quattro distinte e successive forme
speciali, che essa può rivestire nel suo progressivo sviluppo. La storia della
pedagogia rintraccia primamente i materiali, che entrano a comporla, ed in
questo suo primo studio riveste la forma di memorie e frammenti. Poi si accinge
ad esporre e descrivere le raccolte dottrine, e qui assume la forma di cronaca,
alla quale succede la forma di storia propriamente detta, 325 9. 326 10. 327
15. 328 «Lo storico deve scansare due estremi; da un lato la troppa fidanza di
sé ed il cieco immobilismo nelle proprie idee, dall’altro l’incostanza e la
volubilità del pensiero, a cui potrebbe essere trascinato dallo spettacolo di
tanti sistemi diversi e contrari» 16. 90 che corrisponde all’ufficio
etiologico od inquisitivo, finché s’innalza alla sua più perfetta forma, quale
è la filosofia della storia, che risponde all’ufficio critico e
speculativo»329. Il senso della Storia della pedagogia ha appunto lo scopo di
rilevare il differenziale presente sia tra i modi che le popolazioni che ci
hanno preceduto avevano di educare in confronto con la vera arte di educare,
sia il confronto tra le varie teorie pedagogiche e la vera scienza pedagogica.
Osserva A.: «Quindi ancora ne consegue, che introno al medesimo oggetto
conoscibile (ad esempio intorno l’essenza dell’educazione, od al suo fine, od
alle sue leggi) possono darsi e si danno di fatto molte teoriche, e quel che è
più le une dalle altri discordi ed avverse, mentre una sola è la scienza e
sempre a se stessa concorde, perché una sola è la verità, in quella guisa che
nell’ordine geometrico tra due punti dati non può correre che una sola linea
retta, mentre di linee curve se ne possono condur chi sa quante». Il senso
della Storia della pedagogia è analizzare i sistemi pedagogici confrontandoli
con la vera scienza pedagogica. Dunque: «La storia de’ sistemi pedagogici è
sostanzialmente la storia de’ tentativi felici od infelici, retti o traviati,
fatti dai cultori dell’arte educativa per giungere al Vero siccome fondamento
di essa; per lo contrario la storia della scienza pedagogica è la storia della
Verità educativa riguardata nel suo progressivo esplicamento»330. Sulla base di
questa prospettiva, i numerosi studi di storia della pedagogia di A., sono un
dialogo rispetto a determinati principi pedagogici con gli autori trattati, più
che un’esposizione oggettiva del loro pensiero. Lo studio della storia della
pedagogia secondo A. può condurre a una migliore comprensione dell’educazione e
a quei tratti unici e particolari che la caratterizzano. Per tale ragione nelle
sue ricerche spesso trova degli spunti per confermare alcune delle sue tesi o
muove critiche agli altri sistemi pedagogici, in primis ai già citati
positivisti. I testi sono dunque ripetutamente accompagnati da valutazioni
personali, commenti, paragoni, e non pochi giudizi sferzanti. Ha scritto
puntualmente Vidari «Si comprende da tutto questo come l’A. nei suoi studii di
storia delle dottrine antropologiche e pedagogiche fosse guidato e mosso più
che dal proposito di comprenderle nel loro processo di formazione, di
inquadrarle nel momento storico a cui appartennero, di seguirle nei loro
sviluppi, nelle loro irradiazioni e conseguenze, da quello piuttosto di
saggiarle e 329 16. 330 G. A., Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi,
Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, 6.
91 giudicarle in rapporto a quei principi fondamentali di scienza
dell’educazione, che egli andò illustrando in tutto il resto della sua
produzione filosofica»331. Dalle posizioni prese di fronte al «laboratorio
della storia della pedagogia» si precisa ancora meglio il sistema pedagogico di
A.. Forse anche per questo la lettura di questi testi aiuta a cogliere il cuore
e le preoccupazioni pedagogiche dell’A.. Il tema principale su cui A. si
confronta è per la maggior parte legato a prospettive antropologiche e alle
loro conseguenze in campo educativo e scolastico. Giustamente Valdarnini
osserva: «qual criterio adotta l’A. per giudicare della verità o della falsità
delle dottrine di cui è intessuta la storia della Pedagogia? Questo: il
sentimento e il concetto della dignità propria della specie umana»332. Da
Seneca a Rousseau ciò che l’A. valuta è quale l’idea di uomo essi comunicano e
difendono. Ma tale prospettiva ha secondo alcuni studiosi portato a esiti
negativi. La Quarello, ad esempio, critica il fatto che certi giudizi storici
siano «troppo soggettivi»333 e fa notare che alcune valutazioni dell’A. partono
«talora da “presupposti dommatici” più che da dimostrazioni convincenti»334.
Tra le altre, critica la scarsa considerazione data al Kant della Critica della
ragion pratica. Di un’idea contraria è Vidari quando osserva che «alcune delle
osservazioni critiche che l’A. muove alla dottrina morale di Kant, per quanto
non nuove, sono giuste e fondate»335. Come già accennato, sempre stando alla
Quarello, A. non avrebbe colto il contenuto della filosofia di Hegel, riducendo
la portata dello Spirito e dell’Assoluto hegeliano336. Tra gli altri, il
principio della libertà d’insegnamento è uno dei criteri con cui valuta le
teorie pedagogiche. Nel testo Delle idee pedagogiche presso i greci la
questione della libertà d’insegnamento decide della divisione degli autori. A.
affronta prima Pitagora e Socrate, che sono considerati i difensori di
un’educazione libera, e poi Senofonte, Platone e Aristotele, che considera
difensori di una visione spartana e statolatrica dell’educazione. Affrontando
tali autori esprime la sua idea di educazione e di libertà. Scrive: «Plutarco
non separa la famiglia dallo Stato, né la confonde con esso. Per lui la
famiglia non è solo un grado della gerarchia dello Stato, ma un centro, che ha
uno sviluppo suo proprio. 331 G. Vidari, Il contributo di A. alla Storia della
Pedagogia, «Rivista Pedagogica», n. 10, 1930, p. 689. 332 A. Valdarnini, A.storico
della pedagogia, in Vita e mente di Giuseppe A., cit., 1913, p. 56. 333 V.
Quarello, G. A., Studio critico, 124. 334 124. 335 G. Vidari, Il contributo di A.
alla Storia della Pedagogia, 692. 336 V. Quarello, G. A., Studio critico,
128-129. 92 L’educazione, senza punto dimenticare di preparare il
fanciullo a divenire buon cittadino, ha sovra tutto per compito suo di formare
in lui l’uomo mercè il culto della famiglia»337. Sugli «avversari» della
libertà scrive invece: «Platone aveva confuso la famiglia collo Stato fino ad
introdurre il Governo nei penetrali del santuario domestico, e colla famiglia
anch’esso l’individuo veniva assorbito nella comanza politica. Aristotele
giunse a distinguere la famiglia dallo Stato, ma il suo pensiero su questo
grave argomento mostrasi perplesso ed oscuro, tant’è che l’uomo in sua sentenza
non è tale, perché persona individua, perché padre o marito, o figlio, ma
perché cittadino»338. Un altro brano su Platone mostra la pertinenza tra il
concetto di persona e quello della libertà d’insegnamento, e come la perdita
del primo faccia necessariamente scivolare nello statalismo: «Il massimo e
capitale errore, che falsa la politica e conseguentemente la pedagogia di
Platone e scorre e s’inviscera in tutte le parti della sua teoria, questo è di
avere sacrificato l’attività personale dell’individuo all’onnipotenza dello
Stato, di avere assorbito l’uomo nel cittadino. La dottrina politica di Platone
è un esplicito socialismo governativo: l’individuo esiste e vive in servigio
esclusivo dello Stato, è niente più che una molla, un ordigno del gran
meccanismo sociale, giacché nell’assoluta ed oppressiva unità della comunanza
politica si perde ogni libertà personale. Epperò l’educazione riesce
essenzialmente ed onninamente politica, mentre dovrebb’essere primamente e
sostanzialmente personale: l’umana persona, spogliata della sua dignità finale,
viene educata come semplice mezzo e strumento della civil società»339.
Concludendo la parentesi greca scrive: «Lo Stato adunque non prevale
sull’individuo, bensì gli sottostà come effetto della sua cagione; e quando
Aristotele a sostenere la supremazia naturale dello Stato sulla famiglia e sui
singoli uomini osserva, che il tutto trionfa sulla parte, perché distrutto
quello, anche questa vien meno, possiamo ritorcere il suo argomento contro di
lui avvertendo che la parte congregandosi con altre parti, forma essa il tutto,
e se quella scompare, anche questo ruina. In una parola non l’individuo è fatto
per lo Stato, bensì lo Stato è fatto per tutti e per ciascuno, epperò
l’educazione debb’essere umana e personale, prima che politica e civile»340 In
alcuni punti le valutazioni dell’A. sono decisamente esagerate. Nel testo su
Giobbe e Schopenauer apre una parentesi molto sommaria contro il popolo
ebraico341, rasentando il razzismo. In altre occasioni il suo giudizio è
palesemente sproporzionato. 337 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci,
163. 338 162. 339 131-132. 340 148. 341 G. A., Giobbe e Schopenhauer,
36-37. 93 Come quando nell’introduzione al lavoro su Delle idee
pedagogiche presso i greci (1887) osserva «Pitagora e Socrate ci appariscono
gloriosi campioni di una pedagogica, che si muove libera di sé, franca da ogni
ressura governativa, sorretta da un ideale divino, che consacra la persona,
santifica il dovere, suggella l’immortalità della vita personale. Platone ed
Aristotele ci si mostrano fautori dello Stato educatore, che disconoscendo ne’
singoli uomini la dignità della persona individua, trae con sé a perdimento
tutta la Grecia»342. Anche Santamaria Formiggini contesta all’A. la scarsa
precisione su taluni lavori, in particolare fa riferimento agli studi su
Rousseau ed Herbart. Inoltre sostiene che l’A. non riuscì a «penetrare
oggettivamente nel pensiero degli autori che studia e che critica»343. Però poi
ammette che «Come pedagogista egli lascia a grande distanza gli altri per la
larga informazione storica, che è uno degli elementi essenziali per la trattazione
ponderata ed illuminata delle questioni educative, è condizione per un vero
progresso delle teorie. Egli può considerarsi veramente uno dei primi
pedagogisti che abbiano indirizzato gli studiosi italiani a mettere in
raffronto e in rapporto i loro studi con i risultati del pensiero pedagogico
straniero, perché dai confronti scaturisca più viva e più nuova la verità,
perché si evitino ripetizioni di teorie discusse e superate»344. Oltre ad
imprecisioni, i lavori dell’A. risultano approfonditi e curati. Lo studio su
Rousseau criticato dalla Formiggini, è ricco di riferimenti bibliografici ma
soprattutto offre una chiave di lettura molto interessante del pensatore
ginevrino non temendo di evidenziarne i pregi, ma anche le contraddizioni, le
ambiguità e i rischi. Non pensiamo di essere lontani dal vero affermando che
nonostante la sterminata bibliografia sull’autore dell’Emilio, il libro di A.
risulta ancora oggi ricco di spunti e di considerazioni. Il merito di A. come
storico della pedagogia emerge ulteriormente se paragonato ai lavori coevi di
storia della pedagogia, dai quali si distanzia per riferimento alle fonti e
immedesimazione. Senza dubbio si può affermare che A. può essere considerato
uno tra i primi storici della pedagogia italiani. I. 8. La scuola educativa 342
G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, II. 343 E. Santamaria Formiggini,
La pedagogia italiana nella seconda metà del secolo XIX, parte I, gli
spiritualisti, 12. 344 322-323. 94 Nel corso della sua carriera, A.
diede ampio spazio alla riflessione sulla scuola, cui attribuiva un ruolo
decisivo per il destino delle nazioni345. Se riferimenti e accenni su questioni
scolastiche sono disseminati in molti dei suoi libri, in un saggio del 1904, La
scuola educativa, è presente una sistematizzazione più articolata e completa
delle sue posizioni. Riflettendo sulla funzione di questo istituto, A.
racchiude le questioni più importanti del problema in quattro semplici domande:
«1° in servizio di chi è ordinata la scuola? 2° a chi spetta il diritto di
governarla? 3° in quale giusto rapporto deve serbarsi colla famiglia e colla
società? 4° come debb’essere organata l’educazione e l’istruzione nella
scuola?»346. A. è convinto che l’autentico e principale scopo della scuola sia
lo sviluppo perfettivo della persona nella sua totalità. Caratterizzata da una
appassionata ricerca della verità e del bene dell’alunno347, auspicava fosse
animata da un vero «culto della personalità dell’alunno»348. Contro il
determinismo di certa didattica, sosteneva l’idea di una scuola in cui il
rispetto della vera libertà potesse divenire il fine e lo stile della vita
educativa349. Su queste prospettive invocò una convergenza dell’istruzione e
dell’educazione, che dovevano coabitare e collaborare in vista di uno sviluppo
integrale della personale350. La conoscenza e l’educazione, dovevano
potenziarsi a vicenda. In questo senso considerava l’istruzione anche come un
aspetto necessario per la formazione solida del carattere351. 345 «La casa
dunque, il tempio, la scuola sono i tre grandi centri dell’umana coltura, i tre
solenni convegni sacri alla comune educazione. La scuola segnatamente apparisce
il santuario del sapere, il tirocinio della vita sociale, il vivaio della
civiltà; epperò essa racchiude nelle sue modeste pareti le sorti di un popolo e
collo splendore o coll’oscuramento del suo ideale segna i giorni di grandezza o
di decadenza di una nazione. Dall’importanza massima della scuola agevolmente
si misura la necessità di formarcene un concetto adeguato e verace, che
risponda al suo intimo organismo ed al suo ideale» G. A., La scuola educativa,
principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e
femminili, 68. 346 69. 347 «La scuola è luogo sacro al culto del Vero e del
Buono, ciò è dire è il santuario della sapienza, essendochè questa congiunge in
sé il lume speculativo della scienza e la pratica onestà della vita. Oggidì il
carattere educativo della scuola è misconosciuto. La scienza ha cacciato fuor
della scuola la virtù e la divinità. Si è consumato un divorzio tra
l’istruzione della mente e l’educazione del cuore. Istruzione in iscuola,
educazione in casa. Si aprono ogni dì nuovi edifizi scolastici per piantarvi
l’albero della scienza, senza badar più che tanto, se all’ombra dell’albero
germogli e si spieghi il fiore delle virtù domestiche, civili e religiose.
Quest’eresia pedagogica va ogni di più propagandosi, e minaccia giorni luttuosi
alla famiglia ed alla patria. La scuola (ripeto col Tommaseo) se non è tempio,
è tana; e quando mai fosse tana, dovrei ripetere col Rousseau: L’uomo che
pensa, è animal depravato. Gli è allora che la scuola diventa davvero un
semenzaio di socialismo, perché i giovani ne escono poi gonfi di borra
enciclopedica, quanto vuoti di ogni principio morale e religioso, e
riversandosi nella gran società diffondono la corruzione, che portano in seno,
pretensioni, sprezzanti, spostati, scontenti di tutti e di tutto, gittando qua
e là il disordine e lo scompiglio» 78. 348 70. 349 «Se l’alunno non è lui il
primo educatore di se medesimo, che spiega la personalità sua e la afferma
spiegandola, gli altri educatori persona la vera loro ragione di essere, perché
non formano più una persona, ma foggiano una macchina» 67. 350 G. A., Studi
pedagogici, 65-67. 351 «Lo studio è un dovere, e dall’idea del dovere sorge
appunto il carattere» G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica
ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 92. 95 Uno degli
errori maggiori individuati da A. era quanto chiamava «enciclopedismo», vale a
dire la riduzione del ruolo della scuola a veicolo di nozioni da sommare nelle
menti degli allievi: «L’enciclopedismo (perché tacerlo?) è il verme roditore
delle nostre scuole, il cancro dell’educazione moderna»352. A. auspica che
l’accumulo di conoscenze si coniughi con lo sviluppo di uno spirito libero e
creativo: «L’enciclopedismo violenta, tortura, conquide, le potenze mentali del
giovine: la virtù intellettiva, che concepisce l’ideale, il sentimento, che lo
accalora, l’immaginazione, che lo colorisce, giacciono spossate»353. Il
pedagogista osservò come la scuola somigliasse sempre più «all’aria morta di
una biblioteca»354. Mancava quella spinta ideale che è invece propria
dell’educazione. A questa stortura del compito educativo, concorse un
traviamento del ruolo dell’insegnante: «Pur troppo si è ormai perduta di vista
questa gran verità pedagogica, che il maestro, segnatamente delle scuole
elementari e secondarie, debb’essere non solo l’insegnante, ma ben anco
l’educatore de’ suoi alunni, interessandosi delle loro persone, vegliando sulle
loro sorti, vivendo con essi la vita del cuore, come fa un padre, una madre co’
figli suoi»355. Da queste premesse, era convinto che il “cuore” degli educatori
fosse il ganglio vitale della pratica educativa e al contempo il discriminante
della sua efficacia356. A. si sofferma a considerare come l’insegnamento sia un’azione
propria della persona, ed espressione della sua specificità. Si impara e si
insegna con le parole, suoni che uniscono nel significato le coscienze e le
conoscenze dell’educatore e dell’educando. Poter capire costituisce la
superiorità dell’uomo sulle cose357. In questo senso, A. sottolinea come: «Lo
sviluppo dell’intelligenza è intimamente connesso colla parola, la quale è un
segno sensibile esteriore, che esprime un’idea»358. La parola si impone così
come 352 G. A., Opuscoli pedagogici, 14. 353 425. 354 G. A., Delle dottrine
pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco
Naville e Gregorio Girard, 250. 355 249. 356«Pestalozzi, Girard, De la Salle
furono grandi istitutori, perché furono grandi cuori, che sentirono la santità
del loro apostolato, e fecero di sé nobile sacrificio per loro alunni. Senza
cuore non si educa con dignità, non si ammaestra con verità, non si impara con
senno; e la scuola diventa essa stessa corpo senz’anima. Ed in quella guisa che
le istituzioni politiche anche ottime declinano, si disfanno e finiscono,
quando sono guaste dallo spirito settario, dall’ambizione sfrenata dei
reggitori, dal dispotismo sotto maschera di libertà, così gli istituti
scolastici anche meglio organati languiscono e cadono giù, quando nei
governanti che li dirigono e nei maestri che professano, sottentra
l’indifferenza e l’apatia, il mestierismo e la cupidigia del guadagno, la
vanità pretensiosa e lo scetticismo demolitore» in G. A., La scuola educativa,
principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e
femminili, 182-183. 357 G. A., Studi pedagogici, 102-107. 358 G. A., La scuola
educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali
maschili e femminili, 44. 96 «necessità pedagogica», da indirizzare
verso l’educazione della persona359. Per tali motivi il fulcro della scuola è
la spiegazione360. La sua importanza è attestata, secondo A., anche dalle
difficoltà di relazione e di formazione dei sordo - muti361. Considerava un
grave errore pensare che la mera istruzione potesse bastare all’educazione:
«Che l’istruzione faccia colla educazione un’adequazione perfetta e si converta
con essa, è fatale errore, il quale trascina la società a distrette più
deplorande, che non quelle medesime dell’ignoranza e della rozzezza. L’uomo non
vive di sola conoscenza, ma ben anco di virtù e d’amore, perché alla potenza
dell’intendere accoppia la libertà del volere e la facoltà del sentire. Laonde
la scienza è sibbene una splendida manifestazione dell’umana essenza, ma non è
punto l’umanità tutta quanta: nell’immensa sfera dello svolgimento umano essa
tiene un posto luminoso, ma non il solo, né il più elevato, sottostando alla
vita morale e religiosa»362. Questa mancanza, era colta da A. soprattutto nella
scuola secondaria, dove lo sviluppo razionale e il prossimo approccio alla
vita, meritavano una relazione educativa e valoriale piena, e non solo limitata
all’istruzione: «La nostra scuola secondaria non educa, perché è tutta
nell’istruire: le materie di studio sono tenute estranee allo sviluppo del
sentimento morale e religioso. La cattedra non è un apostolato di civile e
morale insegnamento, ma di puro sapere: rilassati e pressochè spezzati i
vincoli tra la scuola e la famiglia, e maestri ed i discepoli». L’assenza di
un’educazione morale e religiosa, senza la quale lo sviluppo integrale della
persona era reputato da A. impossibile, fu variamente ripresa: «Questa
idolatria della scienza fa le sue tristissime prove nel campo della pubblica
istruzione; l’istruzione è come una gran fiumana che allarga il santuario della
scuola e caccia via la coltura morale e religiosa, come se vi fossero soltanto
teste da riempire, e non anco anime da ispirare, cuori da educare. Questa
specie di fanatismo per il culto del sapere è la piaga precipua, che vizia
oggidì l’organismo della pubblica educazione.»363 Due delle sue citazioni
preferite erano la celebre frase di Tommaseo: «La scuola se non è tempio, è
tana» e il motto socratico Non scholae sed vitae discendum. Oltre che culto 359
«La parola è pur anco una necessità pedagogica, perché vincolo essenziale, che
unisce le intelligenze e le volontà del maestro e del discepolo, dell’educatore
e dell’alunno, ma a tale riguardo occorre, che la parola del maestro sia luce
intellettuale piena d’amore, e che il discente non la riceva passivo, ma la
faccia ripensandola. Un insegnamento parolaio sciupa se stesso in un’intrinseca
contraddizione, essendochè appartiene all’essenza medesima della parola
l’ufficio di significare un’idea» 45. 360 «Il programma governativo è, per così
dire, l’embrione della materia d’insegnamento, il didattico ne mostra le
giunture, le articolazioni in forma di compagine, il libro di testo porge
l’organismo in carne ed ossa e polpa e sangue, la spiegazione del testo è la
vita, che circola per entro l’organismo» 103. 361 98. 362 G. A., L’educazione e
la scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18 novembre 1881,
6. 363 G. A., G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, 59. 97 della
verità, la scuola doveva infatti divenire tirocinio alla vita, e non doveva
essere staccata da essa364. Ciò implicava anche un assetto didattico in cui era
prevista la formazione professionale e la ginnastica. Sotto questo profilo
critica la proposta educativa di Platone365, considerata eccessivamente
spiritualista. La scuola deve preparare soprattutto alla partecipazione alla
società, della quale essa può diventare importante fermento di progresso e
umanizzazione. In questo senso, contestò posizioni come quelle di Rousseau, che
mettevano in evidenza le ingiustizie perpetuate nella socialità scolastica,
invece che i suoi aspetti formativi366. A. sottolinea il rapporto virtuoso tra
educazione e società. Solo se cresce il singolo, progredisce la comunità.
Giustamente A. ricorda che «La personalità umana giustamente intesa ed educata
a dovere porta la floridezza sociale»367. La scuola non poteva, tuttavia,
essere vista come funzione della società, e soprattutto del suo potere
politico368. Il controllo sociale esercitato mediante la scuola rischiava di
tradire il principio della personalità369. Il legame con la vita e l’unità
dell’educazione, doveva essere corroborato da una stretta collaborazione tra
gli istituti scolastici e la famiglia. Per questa ragione propone l’abolizione
dei convitti, preferendo che gli allievi restassero nella loro famiglia370. In
caso di necessaria lontananza dalla propria casa, A. indica come modello le
pensioni libere inglesi in cui gli alunni seppur lontano dalla propria casa
vivono con un’altra famiglia, a 364 «Quest’armonia tra la scuola e la società
esige che nell’ordinamento delle discipline scolastiche si abbia speciale
riguardo a quelle che sono peculiarmente reclamate dallo spirito del tempo, dai
bisogni sociali, dall’indole della nazione. Però anche qui non va dimenticato,
che la scuola, pur mentre si attempera alle condizioni della società, non debbe
servire alle medesime, come se fossero l’ideale supremo e definitivo di ogni
umano consorzio» G. A., Opuscoli pedagogici, 37. 365 G. A., Delle idee
pedagogiche presso i greci, 103. 366 «Il mio concetto della persona umana, in
servigio della quale dico ordinata la scuola, è ben altro dal concetto della
natura umana, in cui Rousseau vuole riposto il fine supremo della educazione.
Nell’essenza medesima della persona umana, che è intelligenza ed attività
volontaria, io scorgo la fonte medesima della socievolezza, ossia la virtù di
stringersi in comunanza di intendimenti e di voleri con altre persone, mentre
l’autore dell’Emilio reputa le istituzioni sociali natefatte a snaturar l’uomo,
spogliandolo dell’unità sua per assorbirlo come parte nel tutto» G. A., La
scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, 71. 367 71. 368 «La scuola non può, non
debb’essere una funzione della società, perché ne verrebbe essenzialmente
snaturata. Infatti, la scuola è un santuario di persone, ossia di creature
intelligenti e libere, e non già una agglomerazione di bruti o di cose. Ora la
persona non è uno strumento ai voleri altrui, ma è una creatura sacra, fornita
di diritti, che vanno rispettati da qualunque potere sociale, da qualunque
autorità umana, il diritto all’esistenza, alla verità, alla felicità, alla
virtù, sicché se ad esempio la prosperità di un popolo intiero costasse la
schiavitù o la distruzione di una sola creatura umana, già per ciò stesso
dovrebb’essere detestata come un delitto. Orbene, ponete che la scuola sia una
funzione,una proprietà, un’appartenenza della società e soggiaccia al suo
assoluto dominio, e allora gli alunni non verranno più educati siccome persone,
che appartengono a sé stesse, ed ordinate ad un fine, da cui hanno diritto di
non essere deviate, bensì come mancipii del volere sociale, come cose o
strumenti in servizio della società» G. A., La nuova scuola pedagogica ed i
suoi pronunciamenti, 23. 369 «L’individualismo egoistico ed il socialismo
oppressivo sono due estremi, che contraddicono agli intendimenti della natura,
la quale mentre chiama gli uomini alla convivenza sociale, vuole ad un tempo
salva la personalità di ciascuno». G. A., G. G. Rousseau filosofo e
pedagogista, 99. 370 G. A., Studi pedagogici, 333-335. 98 volte la
stessa dei propri insegnanti. Ciò aiuta a supplire la funzione dei genitori,
che deve rimanere un paradigma. Non è un caso che parlò della scuola come
«seconda famiglia»371. In merito all’organizzazione della scuola avanzò una
serie di proposte. Sosteneva il primato degli asili italiani rispetto a quelli
fröbeliani372, auspicava una scuola elementare unica senza distinzione di
censo373, mostrandosi fortemente preoccupato per una divisione della scuola
classista374. Propose la fusione del ginnasio con la scuola tecnica per
rimandare la scelta della scuola superiore di tre anni, ipotizzando così la
nascita di una scuola media unica. Sostenne il valore dell’educazione classica,
un insegnamento della filosofia armonico con le altre discipline, un più ampio
spazio alla storia italiana. Della scuola superiore critica l’eccessivo numero
di materie, e il quadro orario troppo lungo. Inoltre contestò i criteri di
valutazione negli esami, nei quali si preferisce la quantità alla qualità degli
apprendimenti, inducendo ad una mentalità enciclopedica e non critica. Anche
per questo motivo propone di eliminare la Giunta centrale per gli esami di
licenza liceale. Per quanto riguarda le scuole normali prospetta un quadro
orario in cui si affermi il 371 G. A., La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 86.
372 «I nostri asili infantili sono una creazione del genio nazionale e per un
trentennio conservarono la loro originale impronta. Verso il 1860 entrarono in
lotta coi seguaci della scuola germanica, che insorsero coll’intendimento di
atterrarli e sulle loro rovine costrurre i giardini fröbeliani. I novatori
lottarono e lottano tutt’ora coll’opera e colla parola, nelle Conferenze
pedagogiche e nei privati convegni, con ardore sempre vivo, invocando ben anco
in loro aiuto la potenza ministeriale (Vedi l’opuscolo Società dei giardini
d’infanzia di Udine, ecc. Udine, 1981, pag. 24). Ed il Ministero non nascose la
sua simpatia pel fröebelismo. Già nel regolamento del 188°, all’art. 28, esso
sostituiva alla denominazione asili d’infanzia il vocabolo giardini; poi impose
ai professori di pedagogia presso le scuole normali l’obbligo di insegnare alle
allieve maestre in teoria ed in pratica il metodo di Fröebel, prescrivendo lo
stesso metodo alle scuole italiane aperte all’estero, e nella sua Circolare del
27 gennaio 1889 manifestava l’intendimento di «trasformare man mano i numerosi
asiloi, secondo vecchi metodi governativi, in istituti educativi informati a
una dottrina che prenda il nome dal Pestalozzi o da Fröebel, o meglio da
entrambi; tal fine si può ben dire ci abbia segnata la via, nella quale
dobbiamo metterci». Nel fervore della lotta non mancarono valenti istitutori,
che, come l’Uttini a Piacenza, il Colomiatti a Verona, la Goretti – Veruda a
Venezia, si adopravano con saggio accorgimento a riparare gli abusi ingenerati
nelle scuole aportiane da sbagliate applicazioni pratiche, ad adempiere i
difetti ed introdurvi le ragionevoli migliorìe, pur conservando intatto il
principio interiore della loro origine» 127-128. 373 Attacca quanti volevano
fare una scuola per il popolo e una per la classi agiate e scrive: «Quindi si
fa necessaria una scuola, la quale abbia appunto per iscopo di fornire quella
coltura, la quale occorre a tutte le classi sociali senza riguardo ed eccezione
di sorta. La scuola che risponde a questo fine universale è appunto la scuola
elementare, così denominata, perché ha per oggetto gli elementi della coltura
umana. Da questo suo concetto si scorge che essa non ammette disparità tra i
figli dell’operaio e i figli del facoltoso, perché la coltura primordiale è la
stessa per tutti: non deve mirare agli uni piuttosto che agli altri, ma va
ordinata in servigio di ambedue: essa è ad un tempo democratica ed
aristocratica, rurale ed urbana, popolare e borghese. Alle corte, intendete voi
che la scuola elementare accolga a comune ammaestramento i figli di tutte le
classi sociali, o quelle soltanto della classe operaia? Nel primo caso, la
trasformazione, che propugnate, non più ragione di essere: nel secondo caso,
create un dualismo irragionevole» 140. 99 «primato» alla pedagogia,
mentre nei licei, legandosi ad una battaglia tipica di quegli anni, fu fautore
della centralità della filosofia375. Da un punto di vista metodologico richiama
alla necessità di conoscere le facoltà psicologiche dell’A. e denuncia
l’ignoranza della classe magistrale su tali tematiche. Gli insegnanti sembrano
essere più preoccupati di offrire agli alunni conoscenze precise e copiose,
rispetto a capire quanto i loro alunni possano imparare. Un altro aspetto
avversato dall’A. è un’idea caporalesca della disciplina, che dimentica
l’importanza della libertà e del consenso per un’educazione efficace. Voleva
che la scuola educasse al patriottismo. Ciò non deve far pensare ad un A.
nazionalista e sciovinista, il pedagogista era però convinto che la scuola
dovesse difendere la tradizione, la cultura e la filosofia italiana376, di cui
i giovani avrebbero dovuto acquisire consapevolezza e orgoglio. Inoltre
considerava importante l’assimilazione dell’idea di nazione, intesa come
comunità a cui appartenere e da servire. Per questo propose di sostituire all’
«educazione civile», la materia di «educazione italiana». Riguardo al tema
dell’obbligo scolastico, che coinvolse il dibattito pedagogico durante la
costruzione del sistema scolastico nazionale, A. si oppose alla sua
applicazione, perché lo considerava illiberale. Il pedagogista non intendeva
restringere il diritto all’educazione ad un’élite, ma riteneva che l’obbligo
non fosse un mezzo adatto per la diffusione dell’istruzione e
dell’educazione377. Egli era altresì convinto che bisognasse convincere alla
scuola e non costringere378. Come non si possono obbligare le persone ad essere
virtuose o a lavorare, così non le si può costringere ad istruirsi, mentre può
moltiplicare le scuole e formare bravi insegnanti che attirino le famiglie ad
iscrivere i figli nelle scuole379. Dove c’è costrizione, secondo l’A., non può
esserci una vera educazione. I. 9. La libertà d’insegnamento e la riforma della
scuola 375 «Nelle scuole normali spetta alla pedagogia il posto supremo ed
intorno ad essa vanno coordinate tutte le altre materie. Nei licei la filosofia
deve tenere il campo, siccome quella, che in virtù del suo carattere universale
è atta a collegare in armonico accordo tutte le altre discipline» 116. 376 Cfr.
G. A., Studi pedagogici, 36. 377 G. A., Dell’istruzione obbligatoria, Torino,
Tipografia Subalpina. Sull’argomento, in un saggio cita Lambruschini, che in
una relazione presentata al Ministro Berti scrisse »L’istruzione e l’educazione
son cosa di sì alto ordine, e così degna di essere desiderata e cercata per se
medesima, che la violenza nell’imporle ne scema il pregio agli occhi si chi
deve riceverle, e ne spegne l’amore. Da un altro canto, comechè si adoperi il
Comune acciocchè l’istruzione sia ricevuta da tutte le famiglie, non riuscirà
mai nell’intelletto, se nelle famiglie non nasce l’amore dell’istruzione”, dopo
di ciò commenta “In Prussia erasi organizzato un sistema di polizia, per cui
allorquando un fanciullo si rifiutava di recarsi a scuola, né il padre ve lo
mandava egli stesso, un poliziotto lo pigliava a casa e lo trascinava a scuola
come un pubblico malfattore» G. A., La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
137. 379 G. A., Dell’istruzione obbligatoria, 12. 100 Le posizioni
di A. sulla scuola e sulla libertà d’insegnamento sono state in parte già
oggetto di studio380. Si tratta, infatti, di un contributo di rilevante
importanza nell’economia delle vicende scolastiche del secondo Ottocento. Le
opere più importanti in cui affronta tali questioni sono: L’educazione e la
nazionalità (1875)381, La legge Casati e l’insegnamento privato secondario,
Intorno le scuole normali e gli asili di infanzia fröbeliani, Lo Stato
educatore ed il Ministro Boselli, Della istruzione obbligatoria e La scuola
educativa, poi rivisto e pubblicato. A questi vanno aggiunti altri come: La
Riforma dell’educazione moderna mediante la riforma dello Stato, Il Classicismo
nelle scuole, Esposizione critica delle opinioni di illustri pedagogisti
intorno il rapporto tra l’educazione privata e la pubblica, Delle condizioni
presenti della pubblica educazione (1886)391, raccolti negli Opuscoli
pedagogici (1909). In realtà, l’intera produzione dell’A. è disseminata di
richiami e rilievi su tali questioni392. 380 I lavori sinora pubblicati
lasciano spazio per ulteriori studi e considerazioni. Il testo di Bonghi, Idee
di A. circa la libertà d’insegnamento, «Cultura», è scritto nel vivo delle
polemiche scolastiche del tempo e manca di una necessaria distanza critica e
storica; il lavoro di R. Berardi, La libertà d’insegnamento in Piemonte
1848-1859 e un saggio storico di G. A., 60-74, prende in esame una sola opera
del pedagogista, vale a dire Della pedagogia in Italia, e soffre di una
conoscenza parziale dell’opera del pedagogista; il saggio di A. Consorte,
Scuola e Stato in Giovanni A., «Ricerche Pedagogiche, seppur significativo,
approfondisce soprattutto le polemiche tra lo studioso piemontese e l’apparato
ministeriale, tenendo peraltro conto solo di alcune sue opere. A., L’educazione
e la nazionalità, Torino, Tip. del giornale Il Conte Cavour, A., La legge
Casati e l’insegnamento privato secondario, Torino, Tip. Salesiana, 1879. 383
G. A., Intorno le scuole normali e gli asili di infanzia fröbelliani, Torino,
Tip. Subalpina,1888. 384 G. A., Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli,
Torino, Tip. del Collegio degli artigianelli, 1889. 385 G. A., Della istruzione
obbligatoria, Torino, Tip. Subalpina, 1893. 386 G. A., La scuola educativa.
Principi di antropologia e didattica: pedagogia elementare, Torino, Tip.
Subalpina, 1893. 387 G. A., La scuola educativa. Principi di antropologia e
didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., 1904. 388 G. A.,
La Riforma dell’educazione moderna mediante la riforma dello Stato, Torino,
Tip. Subalpina, 1879. 389 G. A., Il classicismo nelle scuole, Torino, Tip. M.
Artale, A., Esposizione critica delle opinioni di illustri pedagogisti intorno
il rapporto tra l’educazione privata e la pubblica, «Rivista pedagogica
italiana», 1-2, 1898. 391 G. A., Delle condizioni presenti della pubblica
educazione. Prolusione letta nella R. Università di Torino il 25 novembre 1886,
Torino, Tip. Subalpina, 1886. 392 In tutte le opere dell’A. sono ricorrenti
degli incisi nei quali lo studioso propone parallelismi con le condizioni
scolastiche coeve. Il seguente brano pare particolarmente paradigmatico. Dopo
aver esposto i caratteri della pedagogia romana, ad esempio, A. riporta un
passo di una lettera scritta da Plinio il giovane ed indirizzata a Corellia
Ispulla, nel quale le suggerisce di scegliere con oculatezza l’insegnante di
retorica per il figlio. Subito dopo, A. chiosa: «Qual profondo divario tra i
tempi di Plinio ed i nostri in riguardo ai pubblici studi! Allora la scuola si
muoveva libera da ogni potere governativo, epperò la scelta dei maestri
spettava ai genitori come un sacro e coscienzioso dovere. Ora invece lo Stato
impone alle famiglie i maestri da lui solo fabbricati ad immagine e somiglianza
sua. Una radicale riforma intorno a questo rilevantissimo punto della vita
civile e sociale è una necessità pedagogica. La libera attività dei cittadini,
su cui posa in gran parte la civiltà moderna, non consente che essi vengano
trattati come fanciulli, i quali hanno nel governo il loro supremo educatore ed
assoluto maestro. La libertà non è privilegio esclusivo di nessuno.
101 Il problema della libertà d’insegnamento occupa un posto privilegiato
nell’opera di A.. Quest’attenzione è indubbiamente legata all’evoluzione del
sistema scolastico italiano, di cui il pedagogista vercellese denunciò la
deriva monopolistica ed un assetto contrario alla libertà d’insegnamento.
Stando allo studioso, tali politiche avevano profonde radici filosofiche e
pedagogiche. In particolare, erano la conseguenza da una parte della crisi del
concetto di libertà, e dall’altra, del «mito» dello Stato nato con la
modernità. Lo sbriciolamento della metafisica, inaugurato nel ‘600, condusse
alla confusione circa l’esistenza e il ruolo della libertà personale. Ciò portò
ad una certa sfiducia verso l’iniziativa privata, preferendo al rischio
educativo la gestione del processo formativo. D’altra parte con la modernità si
impose il profilo di uno Stato simile al «Leviatano» prospettato da Hobbes, nel
quale il governo di pochi si arrogava il diritto di fagocitare e sacrificare le
singole individualità in nome del bene della collettività. Un «mostro», come lo
definì A., ingombrante, fatto di meccanismi politici e burocratici. Da ciò la
scuola e l’educazione non erano più considerate una responsabilità della
famiglia, ma dello Stato393. Il vercellese definiva questo statalismo anche
«socialismo governativo». In una sua opera spiega: «socialismo dico ogni
istituzione che la santa autonomia della persona e della famiglia disconosca in
qualsiasi modo, rimestando ad arbitrio quella convivenza sociale che ha da
posare sicura sulle leggi eterne dell’umanità»394. In un altro saggio commenta:
«Socialismo governativo è lo Stato moderno; socialismo pedagogico è
l’educazione moderna. Lo vuole la logica, lo proclamano i fatti. Onnipotente è
lo Stato? Dunque onnisciente. Creazione sua la società? Dunque suo feudo la
scuola. Esso, che si reputa l’umanità, ben può dire di sé: l’educatore sono
io»395. Secondo A., da tale pretesa nacque il controllo sul sistema scolastico,
sui programmi, sul reclutamento degli insegnanti, sull’organizzazione degli
esami, sui libri di testo. La monopolizzazione della scuola era sentita dall’A.
in modo catastrofico: «Là dove l’educazione propria della famiglia viene
sacrificata all’educazione dello Stato, vano è lo sperar bene delle sorti di
una nazione»396. Scrive: «Non si dà libero cittadino senza il governo di sé, né
si da governo Governi lo Stato le sue pubbliche scuole; ma siano libere le
famiglie di associarsi insieme per fondare istituti educativi ed imprimere ad
essi un indirizzo rispondente alle loro aspirazioni egualmente che allo spirito
del tempo. Così sorgerebbe una nobile gara, da cui la pubblica educazione
trarrebbe singolare e felice incremento», in G. A., La pedagogia italiana
antica e contemporanea, 40. 393 Commentando il progetto di legge di Baccelli
sul riordinamento degli studi universitari, lo studioso vercellese scrive: «Il
Ministro, che l'ha proposto, sente che nella coscienza universale ferve
irrefrenabile l'aspirazione alla libertà; ma ad un tempo è imbevuto del
dominante pregiudizio, che il Governo è lui il primo e sovrano motore di tutta
la vita pubblica e civile, è lui l'unico ed assoluto maestro ed educatore della
nazione, che la legge è lui, come Luigi XIV proclamava sé lo Stato» G. A.,
L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da
Giuseppe A., Torino, Tip. Subalpina, 1899, p. 5. 394 G. A., Opuscoli
pedagogici, 11. 395 11-12. 396 G. A., G. G. Rousseau filosofo e pedagogista,
89. 102 di sé quando lo Stato siede arbitro e donno di tutte le
attività umane. Tolta di mezzo l’autonomia personale de’ singoli cittadini
anche l’indipendenza della nazione diventa ingannevol menzogna; e verrà giorno
in cui suprema battaglia per un popolo quella sarà che esso combatterà non per
l’indipendenza dalla straniero, ma dalla statolatria»397. Va notato che nella
prospettiva di A., il concetto di Stato è ben separato da quello di Nazione,
come giustamente ha rilevato polemicamente la Bertoni Jovine398. Per il
pedagogista la Nazione è espressione della civiltà, di valori, di tradizioni,
di una storia, mentre lo Stato non necessariamente ne rappresenta e asseconda
gli interessi. La famiglia rappresenta il punto di congiunzione tra l’individuo
e la Nazione, e ad essa lo Stato deve rispondere nell’organizzazione della
scuola. Lo stato è nato per servire la famiglia, e suo compito è garantirne la
libertà. Secondo A.: «È necessario far penetrare nella coscienza sociale questa
gran verità, che principio, cardine e ragion d’essere dello Stato è la
famiglia, che fondamento e centro unificatore della vita pubblica e civile è la
vita domestica, e che perciò i primi educatori per diritto e per natura sono i
genitori, che lo Stato non possiede un diritto pedagogico e scolastico assoluto
e supremo, ma relativo soltanto e derivato dalla famiglia»399. Per queste
ragioni: «Il Governo non può avere altro diritto scolastico, se non quello, che
gli venga implicitamente o esplicitamente consentito dalla famiglia, ciò è a
dire un diritto relativo, non assoluto, secondario e non supremo, partecipato e
non originario»400. Non sembrano dunque fondate le critiche mosse ad A., circa
la connessione tra l’antistatalismo e un presunto individualismo scaturigine
del principio della personalità, segnalato da Vidari401. Il pedagogista non
professava una totale anarchia in campo educativo, ma esautorava lo Stato dal
diritto assoluto sull’educazione. 397 G. A., Opuscoli pedagogici, 18. 398 «Uno
dei più forti oppositori della preminenza dello Stato nell’educazione fu
Giuseppe A., dell’università di Torino, che svolse il concetto di “nazione”
distinguendolo da quello di Stato. Lo Stato non ha alcun diritto ad educare,
mentre la nazione che “è lo stesso uomo collettivo”, influisce con tutti i suoi
elementi sullo sviluppo dell’individuo; onde nazionalità ed educazione sono due
fatti inseparabili. È naturale che fra i più importanti elementi della nazione
l’A. collochi la religione e la Chiesa pur accettando dagli avversari alcuni
elementi più moderni diventati realtà con le vittorie liberali. Con l’esigenza
di uscire dal ristretto cerchio della famiglia, si assimila infatti, in questa
ideologia, il concetto basilare di patria. Si supera così il punto critico che
divideva i liberali dai clericali: “Dio, patria e famiglia” divengono i tre
pilastri fondamentali dell’educazione sui quali i cattolici più avanzati e i
liberali moderati vi ritrovano la concordia; ma se i clericali assimilavano
l’educazione patriottica, esigevano che i liberali accettassero l’educazione
religiosa. E questo era possibile perché nonostante la vittoria laicista
ottenuta con la legge Coppino, non era mai stata definita la questione
dell’insegnamento del catechismo» D. Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia
della scuola italiana, 25. 399 G. A., Opuscoli pedagogici, 43. 400 G. A., La
scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, 73. 401 «In fondo l’impronta fortemente individualistica,
un po’ derivata dal principio della persona, ma molto anche da una deficienza
del senso della continuità e unità storica nella vita dello spirito, è
prevalente in tutta la pedagogia dell’A.; e si presenta poi in forma estrema là
dove, applicando alla politica e al diritto i 103 Sulla paternità
della responsabilità educativa, famiglia o stato, si giocò il dibattito
pedagogico sul tema, considerato tale non solo in ambito spiritualista402. A.
attribuisce alla famiglia la responsabilità educativa. La famiglia è il nucleo
che solo può permettere il futuro della Nazione e una vera educazione delle
giovani generazioni. Sugli stessi principi, critica aspramente anche Fröbel per
non aver riconosciuto il primato della famiglia sulla società.403 Sotto questo
profilo sono evidenti i richiami alla tradizione del cattolicesimo liberale,
che attribuiva alla famiglia un valore educativo centrale, nelle opere di
autori come Berti, Gustavo di Cavour e Rosmini, i quali fondavano la libertà
d’insegnamento proprio sul principio della libertà e sul protagonismo educativo
della famiglia. Attacca in più di un’occasione gli hegeliani come Spaventa e i
positivisti come Siciliani, Angiulli, De Dominicis, considerati fiancheggiatori
della statolatria. Il seguente brano lumeggia le sue idee: «Riponendo nella
famiglia la suprema autorità scolastica noi ci troviamo collocati nel giusto
punto di mezzo tra i due opposti sistemi, dei quali l’uno attribuisce al
Governo un assoluto e supremo diritto sopra la scuola, l’altro gli niega ogni e
qualunque siasi ingerimento pedagogico. Se lo Stato possiede bensì un’autorità
nell’ordine scolastico, ma subordinata a quella della famiglia e de’ privati
cittadini, ne consegue che esso deve lasciare luogo alla libertà della scuola,
e potersi con questa conciliare. E qui si vede la ragione di ammettere, oltre
le scuole pubbliche governative, anche le scuole private, le quali però non
devono essere una storpiatura, una copia forzata e stereotipata delle scuole
governative, ma hanno diritto di muoversi libere e spontanee dentro un’orbita
loro propria. Il libero insegnamento va riconosciuto siccome una delle più
splendide forme della libertà politica e civile, che informa la scuola
moderna»404. Egli non teorizzava l’anarchia in campo educativo, ma uno Stato
meno opprimente e più rispettoso della libertà. Come ha fatto notare Giorgio
Chiosso, egli preferiva allo «Stato educatore» uno «Stato regolatore»405. Egli,
infatti, non escludeva il controllo dello Stato suoi concetti, arriva a
concepire la libertà d’insegnamento in modo essenzialmente antistatale, così da
affermare che “lo Stato non possiede un diritto pedagogico e scolastico
assoluto e supremo, ma relativo soltanto e derivato dalla famiglia”» G. Vidari,
Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico, 86-87. 402 Non è un
caso che la voce “Libertà d’istruzione” curata da Fornari nel Dizionario
Illustrato di pedagogia di Credaro e Martinazzoli, che rappresenta uno spaccato
della pedagogia italiana di fine Ottocento, introduca il tema con la domanda «A
chi appartengono i figlioli?» Cfr. P. Fornari, Libertà d’istruzione, in A.
Martinazzoli e L. Credaro (ed.), Dizionario illustrato di Pedagogia, Milano,
Vallardi, 1895, vol. II, p. 62. 403 G. A., Delle dottrine pedagogiche di Enrico
Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard,
117. 404 G. A., Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, 24-25. 405 G.
Chiosso, Alfabeti d’Italia, Torino, Sei, 2011, p. 93. 104
sull’istruzione406. Nonostante la comune rivendicazione della libertà di
insegnamento, le tesi dell’A. si discostavano da quelle allora prevalenti nel
mondo cattolico, in particolare negli ambienti dell’intransigentismo. In questo
caso il principio della libertà d’insegnamento era alquanto strumentale e
sostenuto più per ragioni pragmatiche che per la sua validità pedagogica. La
vera scuola era quella «cristiana» e in nome di questa si avvertì l’esigenza di
creare una scuola cristiana parallela a quella statale, in linea con quella
logica «separatista» dal “paese legale” che ebbe largo corso dopo Porta Pia.
Per questo motivo era chiaro che una rivendicazione simile sarebbe stata
immotivata in uno Stato rispettoso dell’educazione religiosa e cristiana407.
Per A. invece, la libertà rappresentava un valore effettivo per la scuola. In
questo senso contestava la contraddizione di molti sedicenti liberali, che in
molti paesi europei negavano la «lotta»408, cioè la concorrenza, proprio in
campo educativo. Secondo il pedagogista il concorso di soggetti privati
all’istruzione del popolo, il confronto e il «gareggiamento» tra le diverse
realtà, rappresentava un volano per il miglioramento della scuola. Per mostrare
i vantaggi dell’applicazione di tale principio, A. approfondì con appositi
studi i sistemi di istruzione di Gran Bretagna e degli Stati Uniti, dove i
principali liberali avevano forgiato anche le istituzioni scolastiche. Un altro
stato indicato come modello da A. per quanto riguarda l’autonomia scolastica è
il Belgio, di cui cita ed elogia gli articoli della Costituzione concernenti la
libertà d’insegnamento409. Alla realtà educativa degli Stati Uniti dedicò un
saggio dettagliato intitolato Dell’educazione pubblica negli Stati Uniti
D’America410. In esso sostiene come la peculiarità del sistema scolastico
americano fosse la libertà dei cittadini di fondare e 406 Sempre criticando il
citato progetto di legge Baccelli sull’Università scrive: «Ecco il primo
articolo della sua proposta: “Alle regie Università e a tutti gli altri
Istituti d'istruzione superiore è concessa personalità giuridica ed autonomia
didattica, amministrativa, disciplinare sotto la vigilanza dello Stato”. È cosa
manifesta, che autonomia e vigilanza sono i due concetti supremi, a cui
s'informa questo disegno di legge; ma è pur evidente, che il giusto significalo
dell'autonomia dipende dai limiti, che vengono segnati alla vigilanza. Che lo
Stato vegli, bene sta: ma la vigilanza sua va circoscritta entro determinati
confini, sicché non trasmodi in un illimitato ingerimento e soppianti la
libertà» G. A., L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed
esaminata da Giuseppe A., 5. 407Luciano Pazzaglia ha rilevato come, soprattutto
dopo l’Unità, più che la difesa del principio della libertà d’insegnamento in
quanto tale, prevalse nella Chiesa la rivendicazione della sua prerogativa
educativa. Commentando la significativa allocuzione di Pio IX alla Gioventù
italiana del 6 gennaio 1875, lo studioso della Cattolica osserva: «Pur
continuando a sostenere la tesi del monopolio educativo della Chiesa e a
condannare, parallelamente, la libertà d’insegnamento come principio che mal si
conciliava con i diritti della verità di cui solo il magistero sarebbe
l’autentico interprete, concedeva che in certe condizioni la libertà
d’insegnamento potesse diventare per i cattolici uno strumento essenziale al
raggiungimento dei loro obiettivi» in L. Pazzaglia, Educazione e scuola nel
programma dell’Opera dei Congressi (1874-1904), in Cultura e società in Italia
nell’età umbertina, 426. 408 G. A., L’autonomia universitaria proposta dal
Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe A., 8. 409 G. A., Lo Stato
educatore, in Opuscoli pedagogici, 68-69. 410 Il saggio è inserito negli
Opuscoli pedagogici, 380-406. 105 mantenere delle scuole. Secondo A.
ciò permise di far sorgere tantissime scuole pubbliche non statali che hanno
accresciuto la vita scientifica e sociale della giovane nazione, che seppur
fondata da poco, aveva di gran lunga superato nella libertà e nella
preparazione le scuole del vecchio continente. Sostiene inoltre che
l’Università americana fosse molto più democratica di quella italiana. Seppur
finanziata dalle tasse di tutti i cittadini le Università italiane erano
frequentate quasi solo da persone benestanti, a causa delle alte tasse che
venivano chieste alle famiglie di studenti. Negli Stati Uniti invece anche se
le Università si mantengono quasi esclusivamente sulle tasse degli studenti
gravando relativamente poco sui bilanci statali, esistevano numerose borse di
studio che permettevano agli studenti capaci, ma con pochi mezzi, di poter
frequentare prestigiose Università. Nel testo valorizza anche le «Scuole di
scienza» e cioè le Università scientifiche di medicina e ingegneria che si
diffondevano nel paese. Gli Stati Uniti erano un chiaro esempio del fatto che
il monopolio dell’istruzione fosse in contraddizione con i principi dello
stesso liberalismo. A. sostiene che «Il libero insegnamento va riconosciuto
siccome una delle più splendide forme della libertà politica e civile, che
informa la società moderna»411, i liberali italiani erano incoerenti con i loro
stessi principi. Scrive su tale contraddizione: «La libertà delle scuole è la
suprema necessità del momento, se già non fosse un principio sacrosanto scritto
nel codice della civiltà vera; è l’unica tavola di salvamento nel presente
naufragio della nostra istruzione. Ma qual è l’opinione dominante su questo
vitale argomento? Anche qui dissidio di menti e lotta di idee. Propugnatori del
libero insegnamento non mancano, ma ad esso non sanno fare buon viso i novatori
e gli iperdemocratici, i quali lo vogliono angustiato in tale strettoie
governative da farne un monopolio per sé e per i loro seguaci. Ingrato
spettacolo di gente che vela con una mano la statua della libertà dopo di
averla coll’altra levata alla pubblica venerazione»412. Ma le posizioni dell’A.
erano in controtendenza rispetto agli indirizzi del Ministero. La lobby
massonico liberale che tenne le fila della Minerva nei decenni successivi
all’Unità contrastava la battaglia per la libertà d’insegnamento dietro la
quale vedeva la mano della Chiesa preoccupata di non perdere l’egemonia
sull’istruzione e sull’educazione, messa in seria discussione dopo l’Unità.
L’istruzione pubblica e l’Università resteranno sotto il totale controllo del
Ministero, le scuole libere saranno tollerate, ma discriminate sotto il profilo
giuridico ed economico. Niente fu fatto per una vera parità nell’erogazione dei
titoli di studio, una delle questioni da 411 G. A., Lo Stato educatore, in
Opuscoli pedagogici, 68. 412 G. A., La pedagogia italiana antica e
contemporanea, 164-165. 106 cui dipende l’effettiva libertà
d’insegnamento. Lo statalismo scolastico, infatti, è primariamente un monopolio
di «abilitazioni», controllando le quali il governo «obbliga» e i giovani a
frequentare le sue scuole. D’altra parte, costringeva le scuole libere ad
adeguarsi ai dettami governativi. In un testo osserva: «Bella concorrenza
davvero sarebbe quella di Istituti privati ridotti ad una storpiatura o
miserevole copia dei governativi! Bella libertà scolastica quella di chi fosse
legato mani e piedi ai ceppi dell'Autorità ufficiale»413. Paradossalmente il
percorso di statalizzazione della scuola e di riduzione degli spazi di
autonomia per le iniziative educative libere iniziò in un periodo in cui la
pedagogia sembrava andare in una direzione opposta. La libertà d’insegnamento
fu, infatti, un tema largamente sviluppato nella riflessione cattolico liberale
che aveva caratterizzato la stagione risorgimentale. Lambruschini, Rosmini,
Tommaseo, Gioberti, con le dovute differenze, auspicavano per lo Stato un ruolo
da supervisore nell’educazione pubblica, non quello di gestore e macchinatore
dell’istruzione e dell’educazione. Il percorso di statalizzazione tradiva quei
principi di libertà caratteristici del clima culturale del ’48. A. denunciò
questa inversione di tendenza, riprendendo i temi della Società pedagogica: «Il
primo Congresso generale tenuto dalla Società in Torino nell’ottobre del ‘49
rivelava in modo solenne l’unità di disegno e l’universalità del concetto che
la governava: senatori del Regno e deputati del Parlamento, autorità
ministeriali e scolastiche, membri di Accademie scientifiche e reggitori di
istituti educativi, professori e dottori di Università e maestri elementari,
sacerdoti e laici, esuli degli altri Stati della patria comune illustri per
sapere, intelligenti promotori della pubblica educazione, là convenivano a
pubblica discussione, e nella arena del dibattimento discendevano insieme
affratellati i cultori degli studi classici e speculativi coi maestri
dell’istruzione tecnica e professionale, i reggitori di pubblici e governativi
istituti scolastici ed i favoreggiatori del privato e libero insegnamento. Così
il Piemonte, appena sorto a nuova vita, adoperava in servigio di nobilissima
causa il diritto di libera associazione allora sancito nel nuovo Statuto
Carlalbertino, ma, prima che negli stati politici, scritto a caratteri
indelebili nel gran codice della natura; così esso porgeva uno splendido
esempio di attività cittadina e di privata entratura, che sole sanno a tenere a
modo la podestà del governo così lesta ad invadere diritti non suoi. E si fosse
mantenuta costante quell’attività e quell’entratura privata, e propagatasi più
rigogliosa e compatta in tutte le regioni d’Italia! Chè ora la pubblica
istruzione del nostro paese non gemerebbe soffocata da alcuni anni sotto lo
strettoio del potere esecutivo»414. Già nel saggio sull’hegelismo del 1868
attribuì a A., La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, A., La
pedagogia italiana antica e contemporanea, Cavour e al «cavourinismo» la colpa
per il profilo illiberale della scuola italiana415. Una simile lettura del
pensiero e delle responsabilità dello statista piemontese sembra essere
confermata dall’iter della legge Lanza416. Esso quindi vedeva nei principi
della legge Casati degli aspetti positivi, poi traditi dalle politiche
successive. Le polemiche con la Minerva Il docente dell’ateneo subalpino non si
limitò a teorizzare i princìpi intorno a cui si sarebbe dovuta realizzare la
libertà scolastica, ma entrò in diretta polemica con gli esponenti politici più
o meno «statolatri» che, tra la sua giovinezza e la maturità, governarono il
Dicastero dell’Istruzione Pubblica. Qualche anno dopo la laurea, già noto per
alcune pubblicazioni, A. fu incaricato dal Ministro Berti di scrivere un saggio
sulla scuola e la pedagogia italiana in occasione della mostra universale della
Arti e delle industrie a Parigi. Ne uscì il saggio Della pedagogia in Italia,
che, tuttavia, non incontrò il parere positivo del ministero, motivo per il
quale il libro non fu presentato alla fiera419. Commentando quell’episodio
Gerini osservò come mentre il positivismo fosse una dottrina «protetta in
alto», «agli avversari della pedagogia spiritualistica furono prodigati tutti i
favori del Ministero, a lui l’oblio»420. Le posizioni espresse dall’A.,
considerando le quali non desta meraviglia la censura ministeriale, sono utili
per introdurre le sue critiche alla politica scolastica post unitaria. Già
nello scritto del 1867, l’A. nel ripercorrere gli anni del riformismo 415 G. A.,
L’Hegelismo e la scienza, la vita, Morandini, Da Boncompagni a Casati:
l’affermazione del modello centralistico nella costruzione del sistema
scolastico preunitario, in Pruneri, Il cerchio e l’ellisse, centralismo e
autonomia nella storia della scuola dal XIX al XXI secolo, 50. 417 Tale lettura
è confermata in un opera della fine del secolo. Scrive: «Or mezzo secolo fa
veniva promulgata la legge pel riordinamento della pubblica istruzione, che
ancora oggidì governa il nostro insegnamento universitario. Quella legge porta
l'impronta del tempo, che l'ha inspirata, fervido di nobili aspirazioni e di
grandi speranze. La libertà non era un nome vano ed illusorio, ma una santa
realtà potentemente sentita, lealmente riconosciuta, mirabilmente armonizzata
col rispetto dello patrie istituzioni. Gli animi tutti erano assorbiti nella
grande idea dell'indipendenza nazionale, e davanti alla coscienza del popolo
italiano splendeva l'ideale di un nuovo glorioso avvenire. Ora non ci
riconosciamo più. Siamo discesi sempre più giù per la china del decadimento. Lo
Stato andò sempre più invadendo il campo riservato all'attività dei cittadini
comprimendo sotto il suo strettoio le energie individuali» A., L’autonomia
universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da A., A., Della
pedagogia in Italia dal 1846 al 1866, cit.; poi in A., La pedagogia italiana
antica e contemporanea, 84-168. 419 Lo stesso pedagogista racconta la vicenda
in A., Della pedagogia in Italia; Gerini, La mente d’A., pedagogico subalpino
all’origine della riforma Boncompagni del 1848421, lamentava che gli ideali
originari – ispirati al principio della libertà scolastica – fossero stati in
seguito gravemente compromessi dalle iniziative successive che avevano invece
rafforzato il ruolo dello Stato422. Secondo Gerini, l’ostilità del ministero
ebbe delle conseguenza nella progressione di carriera dell’A.: Straordinario
nel 1871, ottenne la promozione ad Ordinario solo nel 1878423. In un’altra
occasione sembrò al pedagogista vercellese di aver subito un torto dalle
autorità politiche, quando cioè, eletto consigliere comunale, fu volutamente
escluso dall’assessorato all’istruzione424. La lettura di A. sull’evoluzione
del sistema scolastico italiano fu ripresa nel già citato La Legge Casati e
l'insegnamento privato secondario apparso nel 1879. In questo scritto l’A.
denunciava la contraddizione tra le norme a tutela della libertà scolastica
prevista dal testo del 1859 e la loro attuazione pratica, sulla base del
principio politico secondo cui il Governo «sopravveglia il privato a tutela
della morale, dell'igiene, delle istituzioni dello Stato e dell'ordine
pubblico». Per quanto la Casati riconoscesse l’utilità di una proficua
«concorrenza degli insegnamenti privati con quelli ufficiali»426, le norme e
gli atti successivi andarono contro questo principio. Per A. era evidente che
politiche simili fossero dettate dal timore del Clero e della sua presenza
educativa, ma ciò non poteva minimamente giustificare la soppressione della
libertà. Va sottolineato come il principale redattore del testo legislativo, fu
il sacerdote Rayneri. Cfr. M.C. Morandini, Da Boncompagni a Casati:
l’affermazione del modello centralistico nella costruzione del sistema
scolastico preunitario A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, 90.
423Secondo Gerini, genero dell’A. (ne aveva sposato la figlia), curatore di
numerosi saggi sul pedagogista, il ritardo non fu casuale. Citando una lettera
dello stesso A. al ministro De Sanctis e alcune considerazioni di Parato, egli
sostiene che ci fu una ostruzione ministeriale alla carriera del vercellese,
motivata dal suo credo spiritualista e dalle sue posizioni critiche nei
confronti delle politiche ministeriali. Cfr. Gerini, La mente di A., Come
racconta Gerini: «Dopo le elezioni amministrative del 1895, essendo riuscito
con bella votazione consigliere (il 20° su 80), l’A. venne chiamato a far parte
della Giunta. Costituita la quale “l’opinione generale e più favorevole, specie
nel corpo insegnante di tutti i gradi d’istruzione, dalla elementare alla
universitaria, era che nella distribuzione dei varii rami di amministrazione
fra gli assessori, al prof. A. sarebbe toccato il governo dell’istruzione,
essendo egli la persona meglio indicata, per attitudini particolari ben note, a
tenerlo: invece venne destinato dal sindaco alla direzione della Biblioteca dei
Musei”. Naturalmente l’A. con sua lettera in data 5 luglio rinunziava
all’assessorato. Il sindaco Rignon, cui non menziono in questo luogo a titolo
d’onore, non gli affidava l’ufficio dell’istruzione perché non si conoscevano
ancora abbastanza le sue idee intorno al governo delle scuole, pur essendo
disposto a commetteglielo quanto avesse avuto campo di far conoscere il suo
modo di pensare (Osservatore scolastico di Torino, 13 luglio 1895). Il fatto
non abbisogna di commenti. Basti il dire, che qualche tempo dopo il Rignon
chiamava all’assessorato dell’istruzione un avvocato, il quale non aveva mai
dimostrato d’intendersi d’amministrazione scolastica. – Nelle successive
elezioni l’A. declinò in modo irremovibile la candidatura» R. D. art. A., La
legge Casati e l’insegnamento privato secondario, 12. 427 “La potenza che voi
paventate nel clero; non la distruggerete colla forza dei divieti, ma la fortificate
colla mostra della persecuzione e colla vostra sfiducia nella libertà. Voi la
volete la libertà, ma per voi e per 109 Nell'appendice l’A.
dimostra tale tesi, analizzando nel dettaglio i diversi provvedimenti elaborati
dai successori di Casati, tra cui Natoli, Coppino e Correnti, criticandone lo
scarto rispetto ai principi della legge fondativa del ’59. E così icasticamente
conclude: «Da vent'anni e più anni la legge riconobbe e sancì il principio del
libero insegnamento: da quasi venti anni il Governo continua a misconoscerlo,
la burocrazia a manometterlo»428. La stessa lettura dell'evoluzione
dell'ordinamento scolastico italiano è confermata in un altro testo di
vent’anni dopo. Un caso esemplare del «tradimento della Casati» riguarda la
figura dell’istitutore libero. Come spiega A., secondo la legge: «L’istitutore
è governativo o libero, secondochè la scuola, in cui esercita il suo magistero
educativo, è retta dallo Stato o da privati cittadini. All’uno il governo
prescrive la sostanza e la forma del suo insegnamento, la misura, il
procedimento, il criterio direttivo. Dall’altro la vigente legge 13 novembre
1859 esige i titoli, che lo autorizzano, ed il rispetto dell’igiene, della
morale e delle patrie istituzioni, epperò la sua libertà non è assoluta; ma non
concede al Governo di sindacare, se e quanto, e come egli educhi e insegni; chè
altramente la libertà dell’istitutore si risolverebbe in una vana parola»430.
Ma alla libertà riconosciuta dalla Casati, conclude l’A., corrisposero norme
restrittive che di fatto compromisero l’iniziativa dei liberi insegnanti. Non
meno severa era la denuncia dei rischi dell’ingerenza statale sull’identità
delle scuole private: «Dalle recenti statistiche – così scriveva nel 1879 – si
rileva come gli istituti secondari liberi affidati alle provincie, ai comuni
alle corporazioni religiose, ai privati, gareggino per numero con quelli del
Governo; il che è splendido argomento del grande amore, che nutrono i
cittadini, per l’incremento degli studi e lo sviluppo della coltura sociale; ma
non si può non provare ad un tempo un sentimento increscevole e doloroso in
veggendo come tanti nobili sforzi vengano in gran parte sciupati dallo smodato
ingerimento del Governo, il quale introduce la monotona e rigida uniformità de’
suoi gli amici vostri; a siffatta guisa di libertà anche i vostri avversarii
potrebbero fare buon viso, anche la Czar delle Russie: di una veneranda matrona
ne avete fatto una brutta ed intollerabile Megera.” A., La legge Casati e
l’insegnamento privato secondario, 28. 428 Ibid, p. 26. 429 Un passo di un
saggio del 1899 conferma la lettura di A.: «Or fa mezzo secolo fa veniva
promulgata la legge pel riordinamento della pubblica istruzione, che ancora
oggidì governa il nostro insegnamento universitario. Quella legge porta
l'impronta del tempo, che l'ha inspirata, fervido di nobili aspirazioni e di
grandi speranze. La libertà non era un nome vano ed illusorio, ma una santa
realtà potentemente sentita, lealmente riconosciuta, mirabilmente armonizzata
col rispetto dello patrie istituzioni. Gli animi tutti erano assorbiti nella
grande idea dell'indipendenza nazionale, e davanti alla coscienza del popolo
italiano splendeva l'ideale di un nuovo glorioso avvenire. Ora non ci
riconosciamo più. Dal 1859 al 1899 siamo discesi sempre più giù per la china
del decadimento. Lo Stato andò sempre più invadendo il campo riservato
all'attività dei cittadini comprimendo sotto il suo strettoio le energie
individuali» A., L’autonomia universitaria proposta da Baccelli ed esaminata da
A., 3. 430G. A., La scuola educativa. Principi di antropologia e didattica:
pedagogia elementare, metodi, de’ suoi programmi, de’ suoi studi là dove
dovrebbe lasciare, che si svolga libera, varia e feconda la vita
scolastica»431. Ciò dipendeva, a giudizio del pedagogista piemontese, dal
monopolio statale dei titoli di studio, mediante il quale il Governo
disincentivava l’iscrizione negli istituti liberi. Inoltre il «pareggiamento»
delle scuole libere, condizione per erogare titoli equiparati a quelli statali,
era regolamentato da norme restrittive e obbligava all’omologazione con il
sistema statale. Come denunciò il vercellese: «A chiunque si muova fuori
dell’orbita degli studi segnata dal Governo, è chiuso irrevocabilmente l’adito
alle professioni liberali; potrà procacciarsi una coltura scientifica e
letteraria ampia ed eletta per quanto si voglia, ma prima pur sempre di un
carattere pubblico e legale, e ridotta ad un puro ornamento dell’animo e nulla
più»432. A. leggeva bene la situazione della concorrenza tra scuole statali e
non statali. La Talamanca, riprendendo il dibattito parlamentare su tali
argomenti, fa notare come le scuole private cattoliche avessero un numero
maggiore di studenti rispetto a quelle statali. Cita il senatore Menabrea che
nel maggio del 1872 fa notare come sui 4136 studenti che avevano sostenuto la
licenza liceale, ben 2670 provenivano da scuole private e seminari433. Ma come
dimostrano le vicende successive, il sistema nato dalla Casati avrebbe portato,
come denunciato dall’A., all’assottigliamento delle scuole private. Sulla
volontà del governo di attuare la libertà d’insegnamento è particolarmente
significativo un breve saggio dal titolo: L’autonomia universitaria proposta
dal Ministro Baccelli ed esaminata da A.434. Il testo non riporta la data di
pubblicazione, ma si può desumere da alcuni brani che sia stato dato alle
stampe nel 1899. A. critica nel testo della legge una profonda ipocrisia. Da
una parte si affermava il principio dell’autonomia, ma nei fatti esso rimaneva
un flatus vocis, in quanto veniva contraddetto dal resto della legge. Infatti
il progetto non segnava i limiti della “vigilanza” governativa; sanciva che i
confini dell’autonomia sarebbero stati in seguito definiti dal Consiglio
Superiore e dal Consiglio di Stato (senza contrattazione con gli atenei);
affermava che la nascita di nuove Università, Istituti o Scuole d'istruzione
superiore, o di Facoltà poteva avvenire esclusivamente per decreto; attribuiva
al Ministero il potere di respingere le 431 G. A., Opuscoli pedagogici,
Talamanca, La scuola tra Stato e Chiesa dopo l’Unità, in Chiesa e religiosità
in Italia dopo l’Unità, cit., vol. I, p. 365. 434G. A., L’autonomia
universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da A., proposte di
nomina o di conferma dei professi ordinari e straordinari avanzate dalle
Università. In questo modo, ironizza A., «il Governo lascia alle Università il
governarsi da sé, purché si governino a modo suo»435. Il pedagogista guarda
così al modello medioevale, tornando a contestare l’idea secondo cui gli
istituti nascano per legge e non dalla libera associazione. Conclude citando
Villari, correlando la mancanza di autonomia con la crisi dell’Università437.
Un altro aspetto che A. considerava illiberale e nefasto era il controllo dei
libri di testo, con cui il Ministero poteva indirizzare politicamente e
culturalmente l’insegnamento. Lo stesso pedagogista pubblicò un pamphlet nel
quale difese un saggio di un professore siciliano438 che, stando alla sua
narrazione, incorse ingiustamente nella censura ministeriale439 a motivo del
suo orientamento filo cattolico440. 435 7. 436 «Seguendo l'ordine numerico del
disegno di legge, passiamo all'art. 3 che suona cosi: “La creazione di nuove
Università, Istituti o Scuole d'istruzione superiore, o di loro Facoltà o
sezioni, non potrà avvenire se non per legge”. Anche qui abbiamo un segno del
tempo. Sentendo proclamare l'autonomia degli Istituti scolastici superiori, il
nostro pensiero corre spontaneo alle gloriose Università medioevali, che
sorsero e fiorirono non per decreti di Stato, ma per libero valore di insigni
maestri, di studiosi discepoli, di privali cittadini, fervidi amatori della
scienza, e ci immaginiamo di essere ritornati a quo' felici tempi di scolastica
libertà. Illusione! A nessuno si concede di creare nuove Università, o facoltà
universitarie, o Scuole d'istruzione superiore senza il placet regio o
parlamentare. Non si osa proclamare francamente e incisamente il principio, già
sancito dal Belgio coll'articolo della sua Costituzione: “L'insegnamento è
libero; ogni misura preventiva è vietata”» «Io potrei proseguire più oltre la
mia critica, ma dalle poche considerazioni, clic sono venuto fin qui esponendo,
emerge, per quel che a me ne pare, la conclusione, clic la proposta autonomia è
irretita fra tali e tante strettoie da essere ridotta ad una vana parvenza,
mentre la vigilanza dello Stato non ha confini, che la circoscrivano, non ha
norme, da cui sia vincolata. 11 segnare i giusti limiti della vigilanza
governativa, non è qui luogo da ciò: questo solo panni di potere
ragionevolmente affermare, che questo disegno di legge conferisce al Governo
poteri assolutamente inconciliabili colla autonomia universitaria veramente
intera. Qualche anno fa Pasquale Villari scriveva: “Colle libertà, eolie nuove
leggi, regolamenti e mutamenti, con nuovi professori italiani e stranieri, noi
non siamo ancora riusciti a far nascere nelle nostre Università una vera vita
scientifica: esse non rispondono all'aspettazione giustissima del paese. E
perché, dimando io? Perché il Ministero arrogandosi il diritto supremo ed
assoluto della pubblica istruzione ed educazione, ha governato a sua posta le
Università invece di mostrarsi ossequente alla legge non mai abolita, informata
ai più larghi o giusti principii di libertà /in nota cita il libro di Martelli,
La decadenza dell’Università italiana”» Si tratta del libro di G.B. Santangelo,
La Famiglia e la Scuola, letture proposte alle allieve delle classi femminili,
esercizi fondamentali di lettura, scrittura e calcolo per le bambine, Palermo,
Amenta, A., Clericalismo e liberalismo, ossia i libri di lettura del prof.
Santangelo censurati dal Ministero della Istruzione pubblica e difesi da A.,
Palermo, Tip. delle letture domenicali, Nella relazione del Ministro in cui si
valutava negativamente il testo difeso dall’A., si accusava il libro di un
certo «odore di sagrestia». A tale accusa, lo studioso piemontese replicò: «Ah
finalmente ecco qui la chiave omerica, che apre l’arcano di una critica
spigolistra, permalosa, assassina! L’Autore per ragione pedagogica e per debito
di programma ha qua e là nei suoi libri (e non dalla prima all’ultima parola,
come, bugiardamente asserisce il Relatore) parlato di Dio e delle cose sante:
dunque giù botte da orbo sulla sua mal battezzata cervice! In verità addolora
il vedere il Ministero suggellare coll’autorità sua il giudizio di chi parla un
linguaggio tanto plateale e lacera il primo articolo dello Statuto fondamentale
del Regno e l’articolo della vigente legge organica della pubblica istruzione!
Ma già il sentimento religioso è puzza di sagrestia, che ammorba e va
proscritto in nome della nuova Igiene! L’Ermenegarda morente del Manzoni
sclamava: “Parlatemi di Dio, sento ch’ei giunge”: il moderno epicureo grida: Non
parlatemi di Dio, sento che mi si guasta la digestione. Se il Santangelo fosse
stato un prete spretato, che avesse gettato il tricorno alle ortiche, o
L’unico momento in cui sembrò potersi fermare la parabola monopolistica, fu la
nomina a Ministro dell’istruzione del senatore palermitano Perez. Il
neoministro mostrò la volontà di mettere mano ad una riforma della scuola volta
a difendere il principio della libertà d’insegnamento. L’A. prese subito le
difese del Ministro in un articolo pubblicato nella Gazzetta piemontese e stese
il saggio La riforma dell’educazione moderna mediante la Riforma dello Stato,
che trovò l’apprezzamento del neoministro. Gerini documenta come Perez avesse
l'intenzione di chiamare A. stabilmente al Ministero, con lo scopo di redigere
una riforma della scuola e dell’Università incentrata sulla libertà
d’insegnamento e contraria alla deriva monopolistica intrapresa dai suoi
predecessori442. L’A. fu infatti presto coinvolto nella compilazione di un
nuovo Regolamento per la licenza liceale in sostituzione di quello precedente
definito dal ministero Correnti. Il nuovo regolamento, nel quale A. ebbe «non
poca e vivissima parte, intendeva ricondurre gli esami di licenza liceale alla
loro «primiera forma legale, allorquando l'alunno privato si presentava a
sostenerli presso qualunque pubblico liceo dello Stato e senz'obbligo
dell'attestato di licenza ginnasiale e del percorso triennio. Il suo scopo era
quello di restituire più ampia libertà agli studenti delle scuole non statal.
Il pedagogista documentò nel saggio sulla legge Casati come il testo trovò il
consenso della maggior parte dei provveditori e dei presidi sui quali era stato
fatto un sondaggio preliminare. Ma il progetto suscitò anche numerose
polemiche. Accusato dagli ambienti liberal-democratici di voler favorire la
scuola libera (e quella cattolica in specie), a pochi mesi dal suo
insediamento, Perez dovette abbandonare il un frate sfratato, che avesse
bruciato il convento per andare a godersi la vita, i suoi libri avrebbero incontrato
ben altro giudice ed altro mecenate» in A., Clericalismo e liberalismo, ossia i
libri di lettura del prof. G. B. Santangelo, In un autografo il Ministro
scrisse ad A. «...m’accorgo come Ella sia fra quei pochi cui non travolge la
mente l’idolatria dello Stato onnipotente e onnisciente» in A. Consorte, Scuola
e Stato in A., Gerini, La mente d’A., A., La legge Casati e l’insegnamento
privato secondario, Così il professore piemontese sintetizza i punti salienti
del Regolamento: «Gli articoli più sostanziali di esso Regolamento, che
avrebbero radicalmente mutato l'attuale sistema degli esami di licenza, sono:
il quinto, che restringe l'esame sulle materie nei limiti, in cui esse furono
svolte nel terzo anno, quando si siano superati gli esami di promozione dei due
primi anni; il settimo, che lascia libero il candidato privato di iscriversi
presso qualunque pubblico liceo del Regno; il nono, che lo proscioglie
dall'obbligo dell'attestato di licenza ginnasiale e del percorso triennio; il
dodicesimo, che incarica i professori liceali della preparazione di temi per le
prove scritte, ed inchiude l'abolizione della Giunta centrale. Eppure quel
regolamento era un semplice richiamo alla legge Casati: si intendeva di
ricondurre gli esami d licenza liceale alla loro primiera forma legale,
allorquando l'alunno privato si presentava a sostenerli presso qualunque
pubblico liceo dello Stato e senz'obbligo dell'attestato di licenza ginnasiale
e del percorso triennio. E se ne fece una questione di clericalismo, mentre era
una questione di legalità. dicastero. Il caso sembra confermare quanto annotato
da Limiti: «Il problema della scuola privata sembra essere fatale per la sorte
di taluni ministri della Pubblica Istruzione e qualche volta per la sorte degli
stessi governi!»449. Sebbene impossibilitato ad incidere effettivamente negli
indirizzi della scuola, la sua collaborazione con il Ministero continuò negli
anni seguenti. Come ricorda Prellezo: « esprime il suo parere sui programmi
delle Scuole normali; nel 1885 viene incaricato dal Ministro Coppino
dell’ispezione delle Scuole normali del Piemonte e della Liguria; lo stesso
Ministro Coppino lo chiama a far parte della Commissione reale per il
riordinamento della scuola popolare. Molto più duro fu il rapporto con il
Ministro Paolo Boselli, che guidò la Minerva durante i due primi governi
Crispi. Qualche mese dopo il suo insediamento, A. criticò Boselli a motivo
della censura di un testo già citato. Questo iniziale contrasto probabilmente
convinse il pedagogista piemontese, chiamato a far parte della commissione
presieduta da Villari per stendere i nuovi programmi delle scuole elementari, a
non partecipare a buona parte delle sedute. Pesò probabilmente la convinzione
di rappresentare un’esigua minoranza all’interno della commissione, formata in
larga maggioranza da studiosi di area laicista e positivista. Qualche tempo
dopo l’A. attaccò più severamente il Ministro con il pamphlet dal titolo Lo
Stato educatore ed il ministro Boselli452. Si tratta di un saggio con toni
molto 448Così commentò l’A.: «Il Ministro Perez, rara avis, ritornando al
concetto della legge arditamente si accingeva a spastoiare le scuole private ed
a redimere gli istituti governativi da quel formalismo artifiziato e da quel
enciclopedismo, che insieme congiuravano a sciupare gl’intelletti giovanili e
sfibrare i caratteri. Ma il dio Stato colpiva a mezzo del lavoro la mano
ribelle del suo Ministro. La genìa burocratica con ignobili e subdole manovre,
la stampa liberalesca con una critica sleale ed assassina lo precipitarono ben
presto di seggio miterandolo da clericale! Come avevano adoprato alcuni anni
prima verso il Ministro Berti, propugnatore sincero di libertà» in A., Lo Stato
educatore ed il Ministro Boselli, 4. 449G. Limiti, Momenti e motivi della
legislazione sulla scuola non statale in Italia, in S. Valitutti, Scuola
pubblica e scuola privata, Bari, Laterza. Prellezo, A. negli scritti pedagogici
salesiani. Introducendo il lavoro A. denuncia: «Questa turba liberalesca altro
non vede e non adora che se medesima, e va gridando: l’Italia siamo noi, noi
siamo il patriottismo, la libertà, la Costituzione, lo Stato: chiunque non ci
appartiene è nemico della patria, chi non è con noi, è contro di noi. Sì, i
clericali sono contro di voi, perché i nemici della patria siete voi, voi i
demolitori delle franchigie costituzionali e della indipendenza politica, gli
oppressori della libera attività dei privati cittadini. Oh benedette
rimembranze del 1848, allorchè si vagheggiava, anelando, un ideale di unità e
di floridezza sociale, di dignità e di indipendenza nazionale, di vera e larga
libertà politica e civile, sorretta dalla religiosità e dall’integrità del
costume! In omaggio a quell’ideale languivano nelle carceri del dispotismo
austriaco o cadevano decapitati sul palco i martiri italiani; cimentavano sui
campi lombardi la vita contro gli stranieri i prodi. Orta quel santo ideale
conquistato con inauditi sacrifici di sangue e di danaro, è buttato nel fango
da una turba di affamati, di ambiziosi e di settarii» in G. A., Clericalismo e LIBERALISMO,
ossia i libri di lettura di Santangelo censurati dal Ministero della Istruzione
pubblica e difesi da A.. Solo la prima parte del saggio, intitolata Lo Stato
educatore, è stata ripubblicata in G. A., Opuscoli pedagogici. aspri, ma
composto da critiche precise e circostanziate come è stato notato da Bonghi.
Nel saggio ribadì le accuse al sistema statolatrico italiano e stigmatizzò una
serie di provvedimenti emanati dal Ministro: criticò il decreto il quale
prescriveva che, per le sole scuole statali, la licenza elementare fosse titolo
sufficiente per l’ammissione alla prima classe del ginnasio e della scuola
tecnica; contestò la circolare dell’8 agosto 1889 con cui, in mancanza di
maestri legalmente abilitati, dava la possibilità ai militari congedati che
avevano superato l'esame prescritto per gli aspiranti sergenti, di insegnare
nelle scuole assicurando la metà della copertura con fondi ministeriale, al contrario
di quanto avveniva per gli altri insegnanti; protestò contro una circolare
ministeriale nella quale, a dispetto dell’art. della legge Casati, s’impediva
ai parroci di presiedere gli esami di istruzione religiosa; recriminò che il
corso di pedagogia non risultasse tra i corsi obbligatori per il conseguimento
della laurea in Lettere e Filosofia454. Criticò, inoltre, i toni di una
circolare finalizzata al riordino degli Orfanotrofi e dei Conservatorii e
stigmatizzò la «faziosità» con cui il Ministro gestì i trasferimenti tra le
diverse Università per influenzare le vicende concorsuali. Questi elementi
condussero A. a tacciare Boselli di «cesarismo scolastico». In conclusione
avanzò una proposta provocatoria e risoluta: «Delenda Carthago. Il ministero
della pubblica istruzione va annullato. La proposta dell'abolizione del
dicastero, peraltro avanzata già in Parlamento dal deputato libertario e
socialista Morelli, non rappresentava in effetti agli occhi di A. la condizione
ideale per il governo dell’istruzione pubblica, ma costituiva la fatale
soluzione alla «metastasi statalista» che soffocava la scuola italiana.
Confermò le stesse posizioni in un 453 Commentando il saggio, il Bonghi
osserva: «L’A. è professore di pedagogia come tutti sanno, e tanto ha scritto
della scienza che professa, e posto molta cura a’ problemi, che vi si trattano,
da meritare, di certo, che un suo studio sulla materia dell’educazione, teorica
e pratica, non passi inosservato. Quello che annunciamo, è diviso in due parti.
Nella prima tratta la questione se e quale parte spetti allo Stato
nell’educazione; e viene alla conclusione media e vera, che la suprema autorità
scolastica risiede nella famiglia, e allo Stato spetta un ufficio complementare
e di vigilanza. La seconda è una critica minuta – e talvolta, il che non è
bene, acre – della condotta dell’attuale ministro di Pubblica Istruzione. Né si
può negare che una buona parte dele osservazioni sia giusta, e a ogni modo
consigliamo il ministro di darvi peso, e non immaginarsi, che, prima o dopo,
non ne avranno. Soprattutto le considerazioni intorno al concetto e alla
condizione dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari, come appaiono
nelle più recenti circolari del ministro, ci paion degne ch’egli vi rivolga la
sua attenzione» R. Bonghi, Idee di A. circa la libertà d’insegnamento, Sullo
stesso tema il pedagogista aveva già scritto un pamphlet: A., Il ministro
Coppino e la pedagogia, Torino, Borgarelli, A., Lo Stato educatore ed il
Ministro Boselli, Concludendo il saggio A. ricorda la sua fedeltà alle
istituzioni dello Stato Italiano: «Pubblicando questo lavoro io non ho inteso
di venir meno ala ragionevole riverenza dovuta all'autorità ministeriale; e ne
fa prova manifesta il rispetto, che io professo sincero per le leggi dello
Stato, per le patrie istituzioni, per le franchigie costituzionali, per la
nazionale indipendenza. Ho censurato gli atti governativi adoperando quella
crudezza di forma, che risponde alla gravità del male, esercitando un diritto,
che lo Statuto conferisce ad ogni libero cittadino, adempiendo un dovere
impostomi dalla carità del loco natio e dalla coscienza del mio mandato. Ho
parlato il linguaggio dei fatti; ed i fatti li smentisca chi può, li riconosca
chi deve. articolo intitolato Salviamo la scuola!, nel quale dopo essersi
soffermato sulle storture della scuola statale e sul suo ordinamento illiberale
ritornò a prospettare la soppressione del Ministero. Un attacco così diretto
non restò senza conseguenze. All’opuscolo del pedagogista replicò infatti un libretto
anonimo intitolato Lo Stato educatore – botte di un educatore – risposte di un
educato458 che, stando al Gerini, sarebbe stato redatto negli uffici del
ministero. La risposta alle critiche è non solo pungente quanto, del resto, le
denunce d’A., ma scade a livello di attacco personale. Oltre a difendere ogni
singolo provvedimento annotato dallo studioso vercellese, l’autore si abbandona
alla denigrazione della sua attività didattica e scientifica: «Ha una famiglia
pedagogica A.? No. E la ragione è una sola, ed è naturale e chiara, non si può
dar famiglia senza amore. Omnia vincit amor. Ma l’A. non ha amore, se non verso
sé medesimo. Il sentimento che noi scorgiamo nel prof. A. non è, no, mal
volere; è piuttosto un affetto immoderato che lo muove a far troppo di sé
centro a sé stesso; talmente che egli rende, senza forse accorgersene,
l’immagine dantesca di cosa che sé in sé rigiri; e rigirandosi, egli nella sua
vaga visione si esalta così, che gli par di poggiare su, ad un punto superiore
a quello di chi nella scala sociale e nella realtà dei fatti è più alto di
lui»460. L’acida polemica continuò con un ulteriore passaggio in una replica
d’A. nel breve saggio: Risposte di un educato: un educato. Fin dalla prima
pagina lo scritto era poco conciliativo, sia nel difendere le sue tesi sia nel
contestare le accuse, così chiosando ironicamente lo statalismo ministeriale:
«Beati i popoli (ripiglio io), retti da un governo così raccolto ne’ suoi
giusti confini, così ossequiante alle leggi ed ordinato in ogni atto suo, così
alieno dallo esclusivismo e tanto rispettoso della libera attività de’
cittadini All'educazione nazionale peggior ventura che quella del Ministero di
Boselli non è toccata mai. Il dilemma si affaccia irrevocabile. Delenda
Carthago! L’abolizione del Ministero di pubblica istruzione si impone
imperioso, urgente, indeclinabile. La salute della nostra grande ammalata, che
è la scuola, è a questo prezzo. Per questa via sola si giunge a smantellare la
roccia della vastissima setta, che impera sovrana alla Minerva. Dacchè il
parlamentarismo rasenta la bancarotta, può ben far senza di un Ministero,
liberandoci da quella smania di legiferare, da quel subisso di leggi e
regolamenti e decreti e circolari scolastiche, che intralciano il regolare
processo della pubblica istruzione e comprimono la libertà degli studi»
Salviamo la scuola! in «La libertà d’insegnamento. Bollettino trimestrale della
“Unione pro Schola Libera”», Torino, Tip. S.A.I.D. Lo Stato educatore – botte
di un educatore – risposte di un educato, Roma, Stabilimento Civelli. segnatamente
nel campo pedagogico, che alla famiglia non venga impedito di comporsi
nell’ordine suo ed adempiere la sua missione educatrice. Torna a criticare
Boselli sulle pagine de Il nuovo Risorgimento. Alle accuse precedenti ne
aggiunse altre come quelle circa l’ingerenza della Minerva sulla scuola
dell’infanzia, la nomina di un impiegato di biblioteca ad ispettore scolastico
di prima classe, e il fatto che «il ministro Boselli con una sua ordinanza
deferiva l’anno scorso alle singole Commissioni esaminatrici la proposta dei
temi per le prove scritte della licenza liceale, offendendo l’articolo del R. regolamento allora vigente. Si
trattava secondo l’A. della persistenza di una serie di «abusi del potere
esecutivo», in cui scorgeva il tradimento dello Stato di diritto e della
libertà: L’Italia è tutta infesta da una turba di pseudo-liberali, che la
libertà fanno strumento di servitù, e della patria, delle franchigie
costituzionali, delle leggi dello Stato si fanno sgabello per salire in alto
sitisbondo di dominio e di oro, corrompendo il pubblico costume e le
istituzioni politiche e civili della nazione»464. Un altro episodio che segnò
lo scontro con la Minerva, risale al pensionamento di A., quando il dicastero
era guidato dall’onorevole Credaro. Il pedagogista, ormai anziano e con poche
forze, chiese al Ministero che gli affidasse un sostituto. La Facoltà nominò il
pedagogista Romano, «ex» spiritualista e cattolico convertito al positivismo.
Lo studioso era già stato bocciato in una serie di concorsi per conseguire la
libera docenza a Torino, Milano, Palermo e Bologna. A Catania addirittura tutti
e cinque membri della commissione esaminatrice diedero esito negativo. La
nomina di un candidato simile come suo supplente, peraltro agli antipodi
rispetto alla sua linea pedagogica, portò l’A. a prendere dura posizione contro
la Facoltà e il preside Vidari, e poi a chiedere di andare definitivamente in
pensione, per impedire al Romano di insegnare sulla sua cattedra. Raccogliendo
una serie di articoli apparsi su giornali e riviste come Italia Reale, L’Unione
di Vercelli, Il Momento, Il Corriere d’Italia, I diritti della scuola Studium,
fu pubblicato un pamphlet sulla vicenda. Furono inserite anche due lettere
inviate da A. a due di queste riviste come ringraziamento della solidarietà
dimostrata, e un piccolo scritto dallo stesso pedagogista in cui chiariva
ulteriormente i contorni della vicenda. La posizione di A. sulla vicenda è
molto significativa: G. A., Un educato anonimo, Torino, Tip. Subalpina, A.,
Boselli e la legge, «Il nuovo Risorgimento. A. e la sua cattedra, Torino, Tip.
S, Giuseppe degli artigianelli. emergono sia un vivo attaccamento all’impegno
pedagogico e magistrale466, ma anche forti dissidi con l’ambiente
universitario. Nelle sue ricostruzioni A. attribuì a Vidari, allora preside
della Facoltà di Lettere e Filosofia di Torino, la responsabilità dello smacco
subito, collegando l’appoggio da parte del preside del Romano e un generale
poco rispetto dimostrato anche con altri episodi, in virtù della sua aderenza
ai principi spiritualisti e alla sua fede. Un altro testo in cui attacca il
Ministero è il testo Del realismo in pedagogia, nel quale contesta le posizioni
espresse da SANCTIS (vedasi) in uno scritto pubblicato ne la «Gazzetta
letteraria di Torino», in cui lo statista napoletano sosteneva come la classe
magistrale dovesse ispirarsi ad un realismo di impronta pragmatista. A. è
invece convinto che l’anima della scuola poteva essere un solido ideale umano.
Senza valori certi, Si tratta di una
lettera inviata a l’Unione di Vercelli, per ringraziare delle parole in sua
difesa. Scrisse: «Io non sono più maestro. Non è la morte, che mi abbia rapito
alla cattedra, ma è qualche cosa di peggio. In questi ultimi anni la mia vita
universitaria fu amareggiata da grandi dolori. Pur tuttavia avrei continuato
nel mio insegnamento; ma quando mi si volle imposto per supplente un rifiuto di
tutti i concorsi universitari, a cui egli si è presentato, esclamai: Basta
così; e mi ritirai nel santuario della vita privata, abbandonando alla
dimenticanza ed all’oblio quei tra infelici che malignavano sulla mia persona.
Abbandono con certo qual rammarico la cattedra, che per più di cinquant’anni mi
fu cara compagna di lotta del pensiero, nella conquista della verità, e vedendo
scomparire a me d’intorno quella folla sempre nuova di giovani studiosi che nel
volgere degi anni veniva ad ascoltare la mia povera parola, mi pare quasi che
la mia vita si spenga nell’isolamento. No, non si spegne, ma semplicemente si
trasforma. Veggo che la mia più che attuagenaria esistenza volge al tramonto,
ma io mi esalto pensando al Divino Maestro, al Pedagogo eterno, al Verbo
vivente, al Redentore dell’umanità. Dopo aver accennato i concorsi falliti da
Romano, A. commenta l’ultimo a Catania «quest’ultimo poi gli fu veramente
disastroso, non avendo riportato nemmeno un voto favorevole. Tanto è che coloro
stessi fra i miei colleghi che per lo passato lo avevano sempre protetto e
difeso a spada tratta, in faccia a quel disastro esclamarono: È un uomo
liquidato! Ma che? Questi medesimi lo proposero per mio supplente e poi
riuscirono ad insediarlo sulla Cattedra di Pedagogia da me lasciata vacante.
Viva la libertà del dire e del disdire! Il Romano deve il presente suo
splendido successo a Vidari, il quale rifiutando di interpellarmi intorno la
scelta del mio supplente, sostenne in Consiglio di Facoltà insieme con sei
altri professori presenti all’adunanza (senza contare tre altri, che diedero
voto contrario) che fosse proposto il libero docente, fallito in tutti i
concorsi universitari di pedagogia specie in quel disastroso di Catania. A.
riporta nello scritto un brano di una lettera uffficiale scritta da Vidari in
occasione delle sue dimissioni, e così la lo commenta: Egli mi rivolse un
saluto perché abbandoni l’Università, ma non aggiunge sillaba, che esprima il
menomo rincrescimento di aver perduto in me un collega, e quando presentai le
mie dimissioni non mi ha significato il menomono desiderio che fossero
ritirate. L’augurio anche’esso mi sa di forte agrume. Che nel placido riposo io
possa lungamente deliziarmi nei prediletti miei studi? – Ma questi cari miei
studi prendono forma e vita dalla pedagogia italiana tradizionale fondata sul
teismo cristiano. Ora questa pedagogia l’avete cacciata via dalla mia Cattedra
per fare luogo alla dottrina razionalistica del mio supplente, sicché l’augurio
a me rivolto viene a tradursi in questi termini: Deliziati senza fine negli
studi tuoi, ma non qui in queste aule universitarie in mezzo a noi e nella
realtà della vita sociale, ma in mezzo alle mi- stiche regioni del
soprannaturale, nelle sedi beate dei Campo elisi conversando cogli spiriti
magni di Aporti e Rayneri. Sì, io serberà sempre viva la mia ragione filosofica
sorretta dalla fede religiosa in Cristo; ma voi vi vantate razionalisti e
calpestate la scienza collocando sulla cattedra chi non la possiede; voi
esaltate la libertà del pensiero, e v’inchinate a tutte le dottrine, fossero
pur dissolventi e scettiche: soltanto il pensiero cristiano non trova grazia
presso di voi. A., Del realismo in pedagogia, Torino, Roux e Favale, 1878
inserito in Id., Opuscoli pedagogici, si sarebbero abbandonate le giovani generazioni
a progetti e prospettive volgarmente materiali e pragmatiste, condannandole
all’alienazione. La battaglia d’A. in favore della libertà d’insegnamento si
tradusse – per quanto egli fosse già avanti negli anni – nel sostegno alla
fondazione, nel 1907, dell’associazione «Unione pro schola libera. Società
nazionale per la libertà d’insegnamento», fermamente voluta da Piovano e da Bettazzi,
finalizzata diffondere le ragioni della libertà scolastica, contro lo
statalismo e i suoi fautori. A. è scelto come presidente generale effettivo,
carica che ricoprì solo per un anno, dopo il quale si allontana
progressivamente dal nucleo direttivo e organizzativo dell’associazione, a cui
continuarono a legarlo comunque lo spirito e le motivazioni di fondo. Inizia ad
essere pubblicato anche il Bollettino dell’associazione, La libertà
d’insegnamento, un trimestrale a diffusione nazionale pubblicato inizialmente
in circa tremila copie. La nascita e l’attività del sodalizio ebbero notevole
risonanza contribuendo a vivificare il dibattito sulla libertà scolastica che
stava registrando in quegli anni una notevole ripresa. In un convegno svoltosi
a Genova, dal titolo Istruzione ed educazione cristiana del popolo italiano gli
eredi dell’Opera dei Congressi, confluiti nelle Unioni Cattoliche, lodarono
l’iniziativa d’A. e nella seconda delle tre risoluzioni fu sancito uno stretto
rapporto con l’Unione torinese. La Civiltà Cattolica – che a lungo aveva
praticamente ignorato le tesi d’A. – dedicò al Convegno un articolo, riportando
le conclusioni dell’assise cattolica ed encomiando l’operato dell’A. e
dell’«Unione pro schola libera. Appaiono significative le affermazioni
conclusive dell’articolo, nel quale si celebrano affianco agli allievi i più
importanti rappresentanti del cattolicesimo liberale francese. G. Chiosso, La
stampa pedagogica e scolastica in Italia. Chiosso, Gentile, i cattolici e la
libertà di insegnamento nei primi anni del Novecento, in G. Spadafora (ed.),
Gentile. La pedagogia, la scuola, Roma, Armando. Nella seconda delle tre
risoluzioni fu scritto che il Congresso «Plaude all’Unione pro schola libera
sorta in Torino sotto gli auspici del venerando prof. A., e a tutte le altre
istituzioni aventi lo scopo di tutelare i diritti dell’insegnamento libero; Fa
voti che l’azione in favore della scuola libera sia efficacemente coadiuvata
dai padri di famiglia, dagli insegnanti degli istituti privati e specialmente
dall’azione illuminatrice della stampa quotidiana; Delibera di affidare
all’Unione stessa l’incarico di studiare ed attuare quei mezzi pratici, che
valgano a salvare quanto resta ancora di libertà d’insegnamento nella vigente
legislazione e di ottenere dai pubblici poteri quegli immediati temperamenti,
che servano a sopprimere le più odiose disposizioni regolamentari contro
l’insegnamento privato» Il congresso cattolico di Genova, La Civiltà Cattolica,
quaderno. Scrive l’autore dell’articolo: Dopo queste semplici osservazioni
intorno alla prima risoluzione, lasciamo ai lettori di apprezzare l’importanza
della seconda risoluzione del congresso; in cui si traggono con un senno
pratico degno di ogni encomio, le conseguenze legittime del principio fissato
nella prima. Quale campo fecondo di attività, non meno benefica che urgente
nelle singole deliberazioni di questa seconda Èa partire da questo periodo
che il pensiero pedagogico del pedagogista vercellese iniziò a essere
apprezzato e diffuso anche al di fuori del circuito del cattolicesimo liberale.
Lo confermano una serie di articoli pubblicati sulla «Civiltà Cattolica,
l’attenzione delle «Rivista di Filosofia neoscolastic, i meriti riconosciutigli
da Meda, e un celebre saggio di Monti, La libertà della scuola in cui si
trovano citati gli scritti d’A. e si ricordano le sue battaglie scolastiche.
Nel frattempo A.aveva lasciato questo mondo. risoluzione! Le ponderino
attentamente i cattolici italiani; i giornalisti, i conferenzieri e gli stessi
sacerdoti, in Chiesa e fuori di Chiesa, ne facciano il soggetto del loro
apostolato, finché il popolo se ne impossessi e ne sappia fare buon uso
specialmente in tempo di elezioni: da ciò dipende la salvezza della gioventù e
della patria! Noi ne siamo sì profondamente persuasi, che non possiamo fare a
meno di mandare da queste pagine un saluto e un augurio solenne all’Unione pro
schola libera di Torino e al suo venerando presidente A., il più illustre pedagogista che oggi
vanti l’Italia, degno rappresentante delle tradizioni filosofiche ed educative
veramente italiane; la cui fama è pur troppo assai inferiore al merito, perché
ingiustamente eclissata dal predominio del positivismo anglo – sassone e
teutonico negli atenei e nelle scuole normali del regno. Possa il suo nome
tramandarsi ai posteri con quelli di Montalembert, di Falloux e di Dupanloup
per la Francia, come simbolo della conquistata libertà d’insegnamento per
l’Italia!” Il congresso cattolico di Genova. In tre articoli pubblicati sulla
pedagogia contemporanea sono citate le opere di A. e le sue critiche al
positivismo. Cfr: Linee di pedagogia moderna, cFinalità educative, quaderno;
L’opera educativa positivista, quaderno; Cannella, Opuscoli pedagogici inediti
ed editi di Giuseppe A., cMeda, Universitari cattolici italiani, Monti, La
libertà della scuola, principi, storia, legislazione comparata, Milano, Vita e
Pensiero. Antropologia e di pedagogia nell'Università di Torino
Torino,Carlo,Clausen. In un'opera assai importante pubblicata dall'illustre
prof. A., della quale ho a suo tempo discorso in questa autorevole
Rivista,leggeşi un capitolo inscritto: Prime origini dei problemi psico.
fisiologici,checontieneingermelamateria della presente memoria, la quale
richiama a sè l'attenzione di tutti coloro che s'interessano dei più gravi
problemi della scienza antropologica. Pigliando le mosse dall'origine storica e
psicologica dell'Antropo logia,dellaqualedeterminapurei limiti,l’A.poneinsodo
ilVero, l'incerto e l'ignoto di questa disciplina, per dichiarare quindi l'ana.
logia tra il mondo esteriore della natura ed il mondo interiore dell'anima. Ma
se il mondo esterno ed il mondo psicologico interiore si rispecchiano e si
rassomigliano sotto certi riguardi, tra l'anima ed il corpo nell'uomo,
intercedono analogie assai più intime, spiccate e na• turali, intorno alle
quali si trattiene a lungo l'Al. Ora uno dei più cospicui punti di
corrispondenza tra l'anima ed il corpo si manifesta nel parallelismo di
sviluppo attraverso le successive età della vita umana: parallelismo però, che
non è nè assoluto, nè continuato,tanto meno poi un'identità. Un'altra
corrispondenza è quella che intercede tra la mente sada ed il corpo sano, tra le
malattie dell'anima o quelle del corpo. L'A. Studi antropologici– L'uomo ed il Cosmo
Unvol. in 8gr. circa Torino Tipogr. Subalpina editrice. Psicologia. Studi
psico-fisiologici. Memoria di A., professore BOLLETTINO PEDAGOGICO E
FILOSOFICO. ripone la sanità della mente nell'armonico e regolare sviluppo
della medesima, e la sanità del corpo, nell'equilibrio operoso delle funzioni
fisiologiche. Conseguentemente distingue una duplice specie d'igiene, di
patologia e di terapeutica, corrispondenti alle due sostanze componenti
l'essere umano. Anche i duestati della veglia e del sonno si corrispondono fra
di loro, essendochè su ciascuno di essi le potenze dell'anima e le funzioni dell'organismo
si mostrano sotto forme speciali edana. loghe. Lo spirito poi ed il corpo in tutto
ilcorso ascensivo del loro perfezionamento si prestano vicendevoli uffici,
poichè lo spirito deve ai sensi esterni la prima conoscenza del mondo sensibile
corporeo; a LA PAROLA, che è un SEGNO SENSIBILE ordinato ad esprimere un
intelligibile, lo svilnppo del suo pensiero; alla mano (nella cui struttura
Elvezio non dubita di riporre la superiorità dell'uomo sul bruto) lo strumento
della sua attività artistica e morale. Lo spirito alla sua volta ricambia dei
suoi servigi ilcorpo,inpalzandolo alla dignità prco pria della persona umana,e
conferendogli virtù singolari,assai supe jiori alla sua costitutiva essenza.
Iofatti il corpo umano, informato dalla mente che lo governa, è reso capace di
compiere azioni a cui non arrivano i corpi dei bruti, sia che venga riguardato
nell'intiera compagine del suo organismo, sia che lo si consideri nella
speciale struttura delle sue parti e nelle funzioni de'suoi sensi particolari. A
questo punto l'A. richiama ad un'ordinata rassegna la molteplice varietà dei
fenomeni, che si svol gono nell'interiorità del nostro essere, e che forniscono
argomento di una specialedisciplina,lapsico-fisiologia,dellaqualetraccialelinee
generali, non senza avvertire che di essa ai nostri tempitrovansicenai
nelSaggio sui'principiiedilimitidellascienzadeirapportidelfisico e del morale
del Cerice, e più ancora nei Principi generali di psico login fisiologica di Lotze.
La scienza psico-fisiologica, dice l'A.,suppone come sua condizione la
psicologia e la fisiologia e facendo tesoro delle cognizioni che le ammannisce
l'unaintorno all'anima umana,l'altra intornoall'organismo corporeo,s'innalza a
studiare ilsupremo principio generatore di tutti i fenomeni della vita umana
che forma il problema fondamentale di tale disciplina.Ilquale può ricevere due
soluzioni principali, secondo che ilprincipio generatore di tutti ifenomeni
riponsi in una sostanza o nei fenomeni stessi. Nel primo caso abbiamo il
dinamismo; nel secondo il fenomenismo. Il primo può essere mono-dinamismo, se
riconduce tutti i fenomeni umani ad una sola sostanza, la quale potendo essere
o l'anima od il corpo, bipartisce il mono-dinamismo in animismo e materialismo:
duo-dinamismo se pone una differenza essenziale tra ifenomeni mentali ed i fisiologici.
Il fenomenismo si bipartisce pure, potendo essere dualistico od e
voluzionistico, secondo che riconosce una linea di distinzione trai due ordini
di fenomeni, ovvero sostiene che sitrasformano gli uni ne gli altri. A. esamina
con singolare lucidezza di pensiero e grande chiarezza d'esposizione queste
diverse classi di sistemi psico-fisiologici, considerandoli nei loro più noti
rappresentanti; ed è degno di consi derazione l'esame della dottrina di Serbatti
su questo punto. Venendo allo scioglimento del problema,vuolsi distinguere il
duodinamismo esclusivo dal temperato. Ora se il primo non risolve il problema
perchè separa l'uno dall'altro idue principii costitutivi dell'uomo, per guisa
chel'anima razionale è causa unica essa sola di tutti e soli i fenomeni mentali
e non interviene per nulla nella produzione dei fenomeni fisio logici ed animali,
il principio vitale poi è esso solo il generatore dei fenomeni della vita
corporea e mantiensi affatto estraneo ai fenomeni mentali; il secondo pel
contrario siccome quello che mantiene distinti i due principii costuitutivi
dell'uomo, e riconosce ad un tempo la loro vicendevole influenza, talch è i fenomeni
mentali si compenetrano coi fenomeni animali e si condizionano a vicenda, dà
un'equa soluzione al problema. a Cosi, conclude l’A., il concetto della
personalità umana, vale a dire di un soggetto sostanziale fornito
d'intelligenza e di libera volontà, è il solo,che conciliila molteplicità dei
fenomeni coll'unità delloro umano soggetto, sicchè questi due termini nello
sviluppo della vita umana, si mantengono indiegiungibili, e si rischiarano l'un
l'altro. Su questo concetto si fonda appunto la notissima divisione della psi
cologia in empirica e razionale.» Tale è nelle sue linee generali lo studio
dell'insigne filosofo subal pino che mostra un ingegno vigoroso sempre ed
acutissimo:e siamo certi che l'accoglienza fatta alle altre opere di lai, sarà
rinnovata per questa memoria,nella quale si scrutano ipiù ardui problemi della
scienza dell'uomo. Giuseppe Allievo. Keywords. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Allievo” – The Swimming-Pool Library. Allievo.
Luigi Speranza --
Grice ed Allioni: deutero-esperanto – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino).
Filosofo italiano. Roma, Lazio. Con Allioni. Novecento novantanove Cod.: codice
di corrispondenza amichevole internazionale, Torino, Impronta. Dulichenko’s Boellu is
a misspelling). A code for friendly international correspondence. Digital
pasigraphy is indicated in DIAL under the number 901.121. In the same
edition, Dulichenko mentions the linguistic project Arioni-Boera, number
854.74, referring to Fuishiki Okamoto (Rikichi, or Fuishiki, Okamoto.
Perhaps we are dealing with the same project. Indeed, in the introduction,
Okamoto lists several works that influenced the Babm9 language, including
Arioni-Boera. Taking into account that Oka moto’s native language is Japanese,
it can be assumed that the Japanese spelling is the source of the
confusion. The thing is that there is no “l” sound in the Japanese language.
Instead, they pronounce “r” (voiced alveolar flap [ɾ]). The surnames
Allioni and Boella could easily have been transformed into Arioni-Boera in some
Japanese source. In order to distinguish cardinal numerals from other
numbers corresponding to code words, they are written in parentheses:
(1), (2), (3), etc. References:
[2], [17], [45], [53]. Ernesto Boella. Boella. Keywords:
deutero-esperanto. Grice e Boella.
Con
Boella. 999 Cod.: coice di corrispondenza amichevole internazionale. Keywords:
deutero-esperanto. Refs.L Luigi Speranza, “Grice ed Allioni”. Allioni.
Luigi Speranza -- Grice ed Alminusa:
all’isola – l’implicatura conversazionale dei nobili siciliani – filosofia
siciliana – la scuola di Catania -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo
siciliano. Filosofo italiano. Catani, Sicilia. Grice:
“Cutelli is like Hart, a jurisprudent, rather than a philosopher!” Si laurea a
Catania. Un saggio e il “Patrocinium pro regia iurisdictione inquisitoribus
siculis concessa”. Vuole escludere dal "privilegium fori" numerosi
delitti come la resistenza a pubblico ufficiale, ed omicidio anche tentato. Altro saggio: “Codicis legum sicularum libri
quattuor” dove manifesta un'idea di politica amministrativa che mira a creare
un centro unificatore e un ministro superiore, cui fosse affidato il compito di
amministrare e dirigere la monarchia, ottenendo il rilancio economico, la
riduzione delle spese e il riequilibrio del conto fiscale. Si reca a Napoli.
Acquista il feudo di Mezza Mandra Nova.
Altro saggio: “Catania restaurata”. Altro saggio: “Supplex
libellus.”Acquista il feudo di Alminusa e il borgo già creato da Giuseppe
Bruno, figlio del fondatore Gregorio, per atto del notaro Pietro Cardona di
Palermo. Ad Aliminusa dota la chiesa di Santa Anna e stabilisce un legato di
maritaggio di dieci onze l'anno in favore di una figlia dei suoi vassalli, come
si scorge dal suo testamento redatto innanzi al notaio Giovanni Antonio
Chiarella di Palermo. Acquista il feudo di Cifiliana. Il suo testamento rivela la volontà di
destinare una parte dei suoi possedimenti alla fondazione di un collegio
d'huomini nobili in cui si dovesse studiare filosofia: il Convitto Cutelli, o
Cutelli.A Catania gli sono dedicati una piazza sita sul percorso della centrale
via Vittorio Emanuele II e il Liceo Classico "Mario Cutelli". Dizionario biografico degl’italiani. Una utopia di governo. La formazione
dell'élite in Sicilia tra Settecento ed Ottocento. Il "Collegio
Cutelliano" di Catania, in "Quaderni di Intercultura". Conte di
Villa Rosata. Conte Mario Cutelli di Villa Rosata e signore dell’Alminusa.
Alminusa. Keywords: i nobili, i nobili siciliani, homosocialite,
boys-only, male-only, Convitto Cutelli, élite filosofica, all-male
establishment, Oxford as non-co-educational – the coming of Somerville! –
Grice’s play group as an all-male play group, the idea of nobilita, nobility.
--. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Alminusa” – The Swimming-Pool Library.
Luigi
Speranza -- Grice ed Alopeco: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia
italiana – Lugi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. According
to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), Alopeco was a Pythagorean.
Luigi Speranza -- Grice
ed Altan: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del soggeto
-- simbolo, valore – ermeneutica antropologica – la scuola di San Vito al
Tagliamento – filosofia friulana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (San Vito al Tagliamento). Filosofo friulano. Filosofo
italiano. San Vito al Tagliamento, Pordenone, Friuli-Venezia Giulia. Grice: “I like Altan; he is
of course an anthropologist and not a philosopher, although his first rambles
were on Croce and philosophy as synthesis of history! – but then I lectured on
Peirce’s misuse of ‘symbol,’ and Altan, not a philosopher, just like Peirce was
not – repeats the mistake – Welby should possibly know better – Grice: “Altan
fails to explain why the Romans felt the need to borrow ‘symbolum’ from the
Greeks, and never return it!” Grice: “The examples in Short and Lewis for the
Roman use of ‘symbol’ are extravagant – Peirceian almost!” – Grice: “Altan’s
point is that a ‘soggeto,’ to communicate via ‘logos’ with another ‘soggeto’ in
a colloquium, must rely on this or that symbol, which means that he must rely
on this or that ‘valore’ – and unless you share those values, you don’t quite
grasp the implicatum in the use of the symbol.” Nato da un'antica famiglia friulana. Uno dei massimi
esperti di antropologia culturale. Destinato dalla famiglia alla carriera
diplomatica, si laurea in giurisprudenza a Roma. In Albania durante la
seconda guerra mondiale, partecipa alla resistenza, militando nel partito d'azione.
Dopo le vicende belliche, conosce CROCE (si veda) grazie a cui fa il suo
ingresso nel panorama culturale italiano. L'incontro con CROCE, avvicina la
sua filosofia all'idealismo crociano ed allo spiritualismo etico, come
testimoniano i suoi saggi di questo periodo. Trascorre quindi dei periodi di
studio e di ricerca a Vienna, Parigi e Londra, dove si accosta pure
all'antropologia e all'etnologia. Grazie all'influsso di MARTINO (si
veda), CANTONI (si veda) (di cui e anche assistente volontario) e Tentori, si
dedica all'antropologia secondo un approccio che non si basi esclusivamente
sulla ricerca sul campo e l'etnografia ma che fa soprattutto ricorso alla filosofia.
Influenzato pure da Malinowski, si oppone allo strutturalismo, aderendo
successivamente al FUNZIONALISMO nonché a un marxismo mediato dalla scuola
francese degl’Annales. Insegna antropologia culturale alla Facoltà di
Filosofia di Pavia, Trento, Firenze e Trieste. Organizza a Roma un convegno di
antropologia della società complessa. Vive tra Milano e la sua villa a Grado.
Sulla base della sua iniziale formazione in filosofia del diritto nonché della
sua vasta conoscenza filosofica generale, dopo una fase di ricerche sulla
fenomenologia del simbolo, volge la sua attenzione verso i metodi applicati
all'analisi semiotico, quindi si dedica allo studio dei comportamenti e dei
valori che lo hanno poi condotto ad approfondire, da una prospettiva
storico-culturale e con una visione alquanto critica, la dimensione identitaria
degl’italiani. A. cerca di far capire sia all'opinione pubblica che ai
politici italiani l'importanza e la necessità di dare al loro paese una
religione civile, come la degl’antichi romani. In questo progetto, vanno
inserite alcune fra le sue opere come La coscienza civile degl’italiani e il
manuale di Educazione civica. Si dedica allo studio delle basilari
componenti simboliche dell'identità etnica italiana – specialmente friuliana --,
concentrandosi, a tale scopo, sulla categoria dell'ethnos, individuandone ed
analizzandone cinque principali componenti: I l'"epos" -- cioè, la
memoria storica collettiva; II l'"ethos" -- cioè, la sacralizzazione
di una norma e di una regola in un valore) III il "logos" -- cioè, il
linguaggio interpersonale e la conversazionale; IV il "genos" -- cioè,
l'idea di una comune discendenza: la ‘gens’ degl’antichi romani -- ed V il
"topos" -- cioè, il SIMBOLO di una identità collettiva comunitaria
stanziata su un dato territorio – come il Friuli -- allo scopo di trovare una
possibile soluzione razionale, dal punto di vista dell'antropologia, ai
conflitti tra i vari etno-centrismi. Altre saggi: “La filosofia come
sintesi esplicativa della storia. Spunti critici sul pensiero di CROCE e
lineamenti di una concezione moderna dell'Umanesimo” (Longo e Zoppelli,
Treviso); “Pensiero d'Umanità. Sommario breve d'una moderna concezione
speculativa dell'Umanesimo” (Bianco, Udine); “Parmenide in Eraclito, o della
personalità individuale come assoluto nello storicismo (Udine); “Lo spirito
religioso del mondo primitivo” (Saggiatore, Milano); “Proposte per una ricerca
antropologico-culturale sui problemi della gioventù” (Mulino, Bologna); “Antropologia
funzionale” (Bompiani, Milano); “La sagra degl’ossessi: il patrimonio delle
tradizioni popolari italiane nella società settentrionale” (Sansoni, Firenze);
“Personalità giovanile e rapporto inter-personale” (ISVET, Roma); “Le origini
storiche della scienza delle tradizioni popolari” (Sansoni, Firenze); “Atteggiamenti
politici e sociali dei giovani in Italia” (Mulino, Bologna); “I valori
difficili. Inchiesta sulle tendenze ideologiche e politiche in Italia”
(Bompiani, Milano); “Comunismo e società” (Mulino, Bologna); “Valori, classi
sociali, scelte politiche” (Bompiani, Milano); Manuale di antropologia
culturale. Storia e metodo” (Bompiani, Milano); “Modi di produzione e lotta di
classe in Italia” (Mondadori, Milano); “Tradizione e modernizzazione: proposte
per un programma di ricerca sulla realtà del Friuli (Campo, Udine); “Antropologia.
Storia e problemi” (Feltrinelli, Milano); “La nostra Italia: arretratezza socio-culturale,
clientelismo, trasformismo e ribellismo dall'Unità ad oggi” (Feltrinelli,
Milano); “Populismo e trasformismo. Saggio sull’ideologie politiche”
(Feltrinelli, Milano); “Per una storia dell'Italia arretrata” (Monnier,
Firenze); “Una modernizzazione
difficile. Aspetti critici della società italiana” (Liguori Editore, Napoli); “Soggetto,
simbolo e valore. Per un'ermeneutica antropologica” (Feltrinelli, Milano); “Un
processo di pensiero” (Lanfranchi, Milano); “Ethnos e Civiltà. Identità etniche
e valori democratici” (Feltrinelli, Milano); Italia: una nazione senza
religione civile. Le ragioni di una democrazia incompiuta” (IEVF-Istituto
editoriale veneto friulano, Udine); “La coscienza civile degli italiani. Valori
e disvalori nella storia nazionale” (Gaspari, Udine); “Religioni, simboli,
società: sul fondamento umano dell'esperienza religiosa” (Feltrinelli, Milano);
“Gl’italiani”: Profilo storico comparato delle identità nazionali europee” (Mulino,
Bologna); “Per un dialogo fra la ragione e la fede” (Olschki, Firenze); “Le
grandi religioni a confronto. L'età della globalizzazione (Feltrinelli,
Milano); Identità etniche, Una religione civile per l'Italia d'oggi, emsf. biografie/
anagrafico.asp?d=328 Il crogiolo, archive. web/ emsf.rai/biografie/ anagrafico ?d=328;
“L'esperienza dei valori”, “Identità etniche e valori universali” archive./ /http://emsf.
biografie/anagrafico.as Modelli concettuali antropologici per un discorso inter
disciplinare tra psichiatria e scienze sociali, in: Psicoterapia e scienze
umane, polser.wordpress.carlo-tullio-%altan-modelli- concettuali- antropologici-per-un-discorso
-interdisciplinare-tra-psichiatria- e-scienze-sociali-in- psicoterapia- e-scienze
-umane -Citazioni «Per la destra l'antropologia è roba per selvaggi; la
sinistra pensa solo all'economia; altri sono ancorati a schemi anglosassoni,
che vedono le strutture politiche come realtà a sé», da un'intervista
rilasciata a Rumiz e pubblicata in La secessione leggera, Roma, Riuniti, Cfr. il
saggio autobiografico: C. Tullio-Altan, "Un percorso di pensiero",
Belfagor. Rivista di varia umanità, nonché il testo autobiografico Un processo di
pensiero, Lanfranchi Editore, Milano, Cfr. U. Fabietti, F. Remotti, Dizionario di
Antropologia. Etnologia, Antropologia Culturale, Antropologia Sociale,
Zanichelli, Bologna, voce A. 772.
Cfr.//controluce notizie-old-html/giornali/a 14n03/18-culturaecostume- altan.htm Cfr.//segnalo/ TRACCE/ NONPIU/ tullio-altan
Frutto di questo nuovo programma di ricerca, e peraltro la monografia Lo
spirito religioso nel mondo primitivo.
Cfr. A. Rigoli, Lezioni di etnologia, Renzo e Reau Mazzone editori, Ila
Palma, Palermo, Cfr. Fabietti, Remotti, cit.
Fra cui Catemario, Cardona, Galli, Lanternari, Musio, Remotti, Rigoli, Satriani,
Tentori. Cfr. Tentori, Antropologia
delle società complesse, Armando, Roma. Da un punto di vista storico, è da
ricordare come l'antropologia culturale ha origini giuridiche. Invero, molti
dei maggiori antropologi della seconda metà Professore sono giuristi o,
quantomeno, avevano una formazione giuridica. Ciò fondamentalmente è dovuto al
fatto basilare per cui nessuna società umana è priva di una qualche forma di
diritto, anzi tutte le istituzioni sociali hanno una imprescindibile dimensione
giuridica; cfr. Fabietti, Remotti, "Antropologia giuridica". Cfr. Ignazi, "Populismo e trasformismo
nell'analisi di A.", il Mulino. Rivista di cultura e politica. Angioni,
"A.: un antropologo "anti-italiano". Familismo amorale e
clientelismo tra i mali del Paese", in: Il Sole 24 Ore, Cfr. Enciclopedia delle scienze
filosofiche in. Cfr. A., "La dimensione simbolica
dell'identità etnica", Finis e Scartezzini,
Universalità e differenza. Cosmopolitismo e relativismo nelle relazioni tra
identità e culture, Angeli, Milano. Qui,
per regola, si intende una norma, in genere non necessariamente codificata,
suggerita dall'esperienza o stabilita per convenzione o consuetudine, spesso in
riferimento al modo usuale di vivere e di comportarsi, sia individualmente che
collettivamente; cfr. A. Ethnos e
civiltà. Identità etniche e valori democratici, Feltrinelli, Milano -- nonché i
ricordi di Galimberti e di Massenzio comparsi su La Repubblica e reperibili
all'indirizzo Cfr. pure Rigoli, A., Un
processo di pensiero, Lanfranchi, Milano; A. "Un percorso di
pensiero", Belfagor. Rassegna di varia umanità, Ferigo, di A., Metodi et Ricerche.
Rivista di studi regionali, Atti del
Convegno Storia comparata, antropologia e impegno civile. Una riflessione su A.,
Udine-Aquileia, i cui sunti sono stati pubblicati, Candidi, sulla rivista
Italia Contemporanea. Fascicolo speciale dedicato ad A. della rivista Metodi et
Ricerche. Rivista di studi regionali.
L'antropologia italiana. Laterza, Roma; Alliegro, Antropologia italiana.
Storia e storiografia, SEID, Firenze, A., C. Signorelli, "A proposito di
alcune critiche: dibattito A.-Signorelli", in Rivista della Fondazione
Italiana dei Centri Sociali, Roma; Forniz, "Il Palazzo A. in S. Vito al
Tagliamento: dimore illustri nel Friuli occidentale", in Itinerari. A. su
Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana; A. Dizionario biografico dei
friulani. Nuovo Liruti; Istituto Pio Paschini per la storia della Chiesa in
Friuli. Biografia su feltrinellieditore.
Biografia, su blog.graphe. Convegno in memoriam, su qui. uniud. Ricordo
biografico, su contro luce. Filosofia Sociologia Sociologia Categorie: Antropologi italiani Sociologi
italiani Filosofi italiani Professore, San Vito al Tagliamento Palmanova Accademici
italiani Studenti della Sapienza Roma Professori dell'Università degli Studi di
Pavia Professori dell'Università degli Studi di Trento. Carlo Tullio-Altan.
Altan. Keywords: soggeto, simbolo, valore – ermeneutica antropologica, Croce,
filosofia come sintesi, Velia, la porta rossa di Velia, fascismo, ideologia
politica italiana, ideologie politiche italiane, simbologia, simbolismo,
ermeneutica, mercurio, ermete, mercurio, humano, uomo, umanesimo, Altan e
Passolini, Palazzo Altan – Altan nobile friulese, il conte Carlo Tullio-Altan –
la etnia friulese, ‘friulese, non italiano’ – dizionario biografico dei
friulesi – friul – la lingua friulese – la base romana – la occupazione romana.
Aquileia – i friulesi durante il fascismo – contro il friulese, italisazzione –
Altan e la resisenza – etnia e italianita, -- romanita ed italianita –
friulesita -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Altan” – The
Swimming-Pool Library. Altan.
Luigi Speranza -- Grice ed Alvarotti: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale retorica – la scuola di
Padova – filosofia padovana –filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Padova). Filosofo padovano. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Padova,
Veneto. Nacque nell'antica famiglia nel palazzo di famiglia in contrà
Sant'Anna. Il padre e archiatra di Leone X. Insegna semiotica a Padova e studia
a Bologna sotto Pomponazzi (si veda) Alla morte di Pomponazzi, ritorna a Padova
dove insegna fino al decesso del padre; dopo di ciò dove occuparsi attivamente
della sua famiglia. A questo periodo risale la composizione che verranno
pubblicati da Barbaro con il titolo di dialoghi
filosofici: Dialogo d'amore”, “ Dialogo della dignità delle donne”; “Dialogo del
tempo di partorire delle donne” e “Dialogo della cura famigliare”; due dialoghi
lucianei “Della usura” e “Della Discordia”, seguiti da quello “dialogo delle
lingue” e da “Dialogo della retorica” e infine quello “Delle laudi del Catajo,
villa della S. Beatrice Pia degli Obici e quello Intitolato Panico e Bichi.
Questi dialoghi sono le opere più note di A., nonostante siano stati pubblicati
a sua insaputa e non siano mai stati riconosciuti, e hanno avuto decine di
ristampe. C’e anche un “Dialogo della vita attiva e contemplativa” che
non venne però inserito nei Dialogi per motivi tuttora sconosciuti. Degl’infiammati,
amico di Tasso, si occupa della revisione della Gerusalemme liberata. Autore
della Canace, pubblicata a Venezia,
tragedia che da seguito a un'accesa polemica tra l'autore e
Cinzio. In seguito intervenne anche nella polemica tra lo stesso Cinzio e
Pigna a proposito dell'”Orlando furioso” e del romanzo come genere letterario.
Si trasfere a Roma dove divenne amico di Caro. Tornato a Padova compose i
“Discorsi Su Alighieri”, “Sull'Eneide”; “Sull'Orlando furioso” e il “Dialogo
della istoria.” Fautore di un classicismo ancor più estremo di quello del
vicentino Trissino, cui rimprovera di aver tratto dalla storia e non dalla
mitologia il soggetto della sua Sofonisba. Conformemente all'uso greco e,
naturalmente, nel pieno rispetto delle unità aristoteliche, si ispira all’Eroides
ovidiane per la Canace. Sepolto nella Cattedrale di Padova negl’avelli
degl’Alvarotti. Nell'andito della porta settentrionale gli venne eretto un
monumento ad opera di Campagna. A Opere tratte da' mss. originali,
Forcellini, Venezia, Occhi, A., in Trattatisti, Pozzi, Milano-Napoli,
Ricciardi, Cammarosano, La vita e le opere di A., Empoli, Tipografia R.
Noccioli; Bruni, A. gl’infiammati, in Filologia e letteratura, Bruni, Sistemi
critici e strutture narrative, Ricerche sulla cultura fiorentina del
Rinascimento, Napoli, Liguori, Fano, Notizie storiche sulla famiglia e
particolarmente sul padre e sui fratelli di A., in Atti e memorie
dell'Accademia di Padova, Padova, Randi; Fano, A., Saggio sulla vita e sulle
opere, Padova, Drucker; Floriani, I
gentiluomini filosofi. Il dialogo culturale, Napoli, Liguori; Fiorato, Fournel,
Il “camaleonte” e il “cuoco”. A. e la critica del romanzo, in « Schifanoia,
Jossa, Rappresentazione e scrittura. La crisi delle forme poetiche
rinascimentali, Napoli, Vivarium; Jossa, Verso il barocco. A. e Borromeo: tra
retorica e mistica, in Aprosiana, Pozzi,
Le lettere familiari d’A., in «Giornale storico della letteratura italiana »
Pozzi, La critica fiorentina fra Bembo e Speroni: Varchi, Lenzoni, Borghini, in
M. Pozzi, Ai confini della letteratura. Aspetti e momenti di storia della
letteratura italiana, Alessandria, Edizioni dell'Orso, Sperone Speroni, volume
monografico di « Filologia veneta », Padova, Editoriale Programma,
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Camillo Guerrieri Crocetti, Sperone Speroni,
in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Sperone Speroni, su sapere, De Agostini. Luca Piantoni, Sperone Speroni, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Sperone Speroni, su Liber
Liber. Opere di Sperone Speroni, su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Sperone Speroni,. Audiolibri di
Sperone Speroni, su LibriVox. Michele
Messina, Sperone Speroni, in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. DIALOGO DELLE UNGVE. I NT ERLttC VTO R I, Tìembo l Lazaro,
Cortegwo, Scolte, 1 Lafcari, Perette. odo dir,mcffer Lazaro, che la
Signoria di Vettetia iìb\é condotto a legger greco, la» tino nello jìudto di
Padoua:è ite ro qucUot Lai. Monfignorp. BtM. Che prouificnc è lauo* fira:Ls z.
Trecào feudi d'oro. SEM. Mcffir Lazaro,io me n'allegro co mi,con le buo ne
lettere, cr con li lludiojì dtqucUeicon noi prona,pe» roche mnonsòbuomonifjuno
della uojìraprofcfiiioue t che andaffe prejjb d quclfegnOìOite fetc armato :
eoa le buone lettere pOÌ,le qualida qui innanzi non mendicherà no la uìta loro
pot(erc s <£r nude; cerne fono ite per Io puf* fitojrì allegro etìandia con
lo jìudioj^rglijiudkfidi pa doua;cut finalmente è tocca in forte tale macero
iquale tingo tempo hanno cercato,?? difidetatoMabuauifo^ the egli ui bifognerà
fedisfar r.an tanto aSmmetsjo difiàtrio, che hanno gli huomn i i d'imparare,
quanto adunai infinta {paranza, che sha diuoijZrdetk uojha dottrina. Ikhe fare
nuoua cofanon iti farà i cofifetc tifato d'affati* carni, cr con le uofbre
bieuoli fatiche operar gloria in uoi,et in
aiuruiuertù.LA2.Mojignor,(cmpremaiionba pregato Dommcdio^hc mi du grattaci
occajìosc una N uotd DIALOGO me ut concia: patti catdtopmow di Kd.RU per
ztr* LtLmi^rtouoglu lidia, ^nadoncam ritti che mfTuno a* è ^op^ etw / M
g" S I itine pnfettmcntc . On* egl. e Jt m* CT MU fi hLnU Éfee«W»e«^
è Aium» fi fattamente, f, prtri n***rrL«i Hetmi /ìmilmcOTtnaa *d £
feeinpret». ^mbeamcj^e^ndcmg^dacbe m fammorttlipcrfM*. LA2, Ifcgjucojif
<U«,fenr icWi delolw&tectwto altre f ^«"f* frtae:>£ di
<pdk<dtre ne il deh «e W4, DELLE LINGVE. t)g può recare il
parlar bene attamaniera del uolgo. Bem. 1*2$ è ben uero,cbe tanto più
uolontieri fi dotterebbe iin parar lalingua grecarla latina, che la Tofcanaì
quan to di quc^a quelle altre due fono più perfette, er più ca* re. ma che la
Tcfcafia da [prezzare dei tutfypermcn* te lo direi j parte per non
èrebugia,parte per non parer dbauer perduto tutto quel tempo,che prender udii in
ap prenderU DcUa bebrea.io non ne fo nulla: ma per quel* lo che io n'oda
dirc,quan;o la Utina gli italiani, altrettan to o poco meno fiata la li
Genna>ua.LAT.A me pare, quando m guardo, che talefia la uolgar Tofcana perù*
fretto atta lingua Uttna ; quale la feccia al u'mo : pero* che la uolgar e non
ì altroché la latina guatla^? corrot U boggimai dalla lunghezza del tempo, o
dalla forza de barbari ; o dalla mjira uiltlPer la qual cofa gli italiani, U
quali atto'ftudto della Imgualatina la uolgarc anttpon gono,o fono fcnzagiudiw,
non dtjcerncndo tra ytcU lo, chcè buono, crnon buono io priui in tutto d'inge-
gno non fon poffenti di pofiedert il migliore . Onde quthììauuiene,che noi
ueggiamo auucnire di alcuna human* compietene :la quale fiemadi uigor natura* le
nonbauendouertùdifare del cibo fangue, onde m m ilfuo corpo, quello in flemma
cornate, che rende lo buomo da pocoì^r nelle proprie operatimù il fa ef= fere
conforme atta qualità dcWbumore . Ma egli fi ud- rebbe dare per legge ad
ogn'uno :a uolgariilncn parla- re latinamente, per non diminuir la riputatione
di me- fìa lingua diurna: a letterati, che mai da loro, fe non . cojbrtìti di
alcuna ncceftità, non fi parlale volgare U i atta Si maniera de gli
ignorantùacciocbel uclgo arrogante ton Vcfiempio&r autoritàde grandi
huamini, no» preti* iefle argomento di far conferita delle fue proprie brutta
rei et ai arte ridurre la fu* ignorantia. cort e G.Mef* (er haxaro, qui tranoi
ditene il male che uoi tioiete di ùueflilmgm Tofamaifolamente quello non falche
fe- ce Vanno pacato mejfer ROMOLO (vedasi) in quejia città ; il quale orando
pubbcamente,con tante, er taliraghni biafimo total lingudAordfujbc innanzi
bareitolto d'effer mor to famiglio di CICERONE (vedasi), per batter bene
latinamente par iato : che uiuer bora con quejia Tdpa Tofcano. L a z. Se io
crcdefii bifognami perfuadere <t ifcokridi Padova, che la lingua latina
fuffe cofa da feguitare, er da fuggir U Tofcana ; 6 io non u onderei a legger
latino, ofbcrc* rei che delle mie letttoni paco frutto fe ne doueffe piglia*
re, ebe dafe flcfli noi conofcendo t giudicarei,cb'ef$i man zafferò
d'intelletto,non fapendodtilmgueretra pnnei* pij perfe noti, strale conclufioni
: il quale difetto non ha rimedio niffuno . Onde io tti dico, che pia toflo
«or* retjiper parlare, comeparlaua Marco TuUio latino, che effer papa Clemente
. Costig, Et io cono* feo di motti kuomini, che per effer mediocri Signori, fi
(ontentarebbono d'effer muti, già non dico che iofta una didaeSo numero -.ma
dico bene dicob con uofbra grati*, poi che il affitto è dal mio poco
intetiettojo non tiedo per qual ragione debba Ibuomo apprezzare la Un gua greca,
ne la latina > che per f aperte [prezzare, mi* tre, er corone, che fe ciò
fujjfc, flato ferebbe di maggior égtàti il«iteJMK>i ol cuoco di Demoéìhene,
er di CICERONE (vedasi): che non è bora f imperio, et il Papato, EhmbJ Non
creggiate, etw incjjèr L«&fre bramifolamente Lt lingua latmadi Cicerone, la
quale era commune a lui t cr gli altri Romani : ma mfieme con le parole latine
e* gli difìdera [eloquenza » o 1 ftpienza di lui : che fu fu* propria y ertoli
d'altriita quale tanto più ecceUentt dee riputar fi d'ogni mondana grandezza,
quanto aWal* tezza de principati fi [ale per fucccfbonc,o perforte,out a quella
delle feienze monta. [anima nofira non con altre: ali, che con quelle del fuo
ingegno,%r della fua indù* foia . Io fo nuUa per rifletto a quegloriofi : ma
qudpo* coccio nefo delle lingue, non lo cangierei al Marche* fttodi
t&antoua . Laz, lonontredo Monfìgnor mio, ckeuoicrcggiate>cbe molti de
Senatori, vde Confala* ri di Roma, non che tutta la plebe coft latino parlale »
come faceua lAarco TuIlioiaMicuilìudijpiu fu Rem* obligata,èic alte vittorie di
Cefare. Onde io difli,ty />£>= n dicodinuouo, che più i)limo,& ammiro
U linguaio» tino, di ciccronctcbe [imperio d'AUgujìo. T>eUe laudi del la
qual lingua parlarci al predente >non tantoperfodhfa* re aldiftderio di
quefìo gentiluomo da bene, quato per che io fono obligato di farlo.ma otte
uoificte,non fi con* «iene, ée altri che uoi ne ragioni : 0* chi faceffe altra'
mcnteftrebbe ingiuria alla linguai egli farebbe («ih» toprofontuofo. Bem,
Quejlo ufficio dilodar Ulingu* latina per molte ragioni dee effere mjbro ;
parte per ef» fergiàdejlinatoad infegnarla pubicamente : parte per ejferltpiu
partigiano che non fono io, il quale non tifli* no cotante: fi che però io
difèregi la uolgare Tofana : n $ cr <jr a tcbe io non la prepofi fe
non ad un Mirebefatoyoue ci Ihauctc me [fa difopra all'imperio di tutto l mondo
. Dunque a uoi tocca il lodarlaicbe il lodandola farete grt to iUa ]xngui,atta
quale il nome uoflro,cr la fama uofhra è grandmane obligata: cr con quello
buongentilbuo* ma corte fanente apcrarcte, il quale dianzi non fi curò di
confeffire d'bauere anzi dello feemo, che nò, per udir uoi ragionar della fua
ecceUenZd.L AZ.Et io, poi che UO lete cofi ; uolontieri la loderò, con pitto di
potere ìnfìe* inamente bufano- la uolgarcje uoglii me ne uerrà; feri* ZA che
uoi (babbiate per mule. B e m. San contento : mi fu ilpatto communc,cbe quaio
uoi uituperarete; io pofa fa difendere. L a z . Volontieri. ma a noi gentiVbmmo
dico,cbc io poffo bene incominciare a lodare labuond lin gua latina,
rendendouila ragione perche io la preponga, atta fignark del mondo ; ma finire
non neramente, tanto ho da dire intorno a quella materia : non per tato mi ren
do fìcuro, che quelpoco } cliio ne dirò, ui perfuadcrà ai efferle molto più
amico, che uoi non fiete al prefente al* Ù corte di Roma. Corteg, Qucfto uoi
farete da* poi. bora io uoglio per lamia parte, che qual bora cofi direte,cbe
io non intenda, interrompendo il ragionamen to,poffapregarui, che la chiariate.
Laz. So» contento. Dunque fenza altro proemio farejo dico incornine cimio,cbt
quantunque in mite cofe ftamo differenti dalli Muti animali, in quejl'una
principalmente ci difcoliiamo da Lorójche ragionado^fcriuèdo comunichiamo (un
(al tro il cuor nojbro: laqualcofanon poffano fare le bel tic. Dunque fe cofi
è, quettipiu diuerfo fari dotta natura dé bruti, il qu*k parto ì er fcriuerà
meglio. Per la cofa chiunque ama d'ejfer kuomo perfettamente, ceti o= giti
Audio dee cerare 'dì parlare, er fcriuere perfetta* mente : er chi ha ucrtìi di
poterlo fare, ben fi può dire * ragione lui effer tale fra gli
altribuomini,quali fatigli buomini iftcfc per ricetto alle tejiie . qua! tutti
di parlare,^ deferiucre i Greci e? Latini quafi uguabnè* te j appropriarono.
Onde le loro lingue uègono adefur qucUexbcfole tra tutte {altre del mondo ci
(anno diuerfi per eccellenza dalle barbare^ dalle irratioitaU creata re. Et è
hi drittoiccnciofta cofa che tra poeti volgari ufi
tiouerìhabbiajhy.taleagiudicio de liarcntinipcffitag* guagliarft a virgdio,ad
Homero, ne tra foratori a De= molibene,oaì\ùrco Tullio, Lodate quaiouoltte il?c
trarca,et i 1 Bocca«io,Nci no farete fi arditi,cbe ne egua Upò>ne inferiori
troppo nicini li facciate alli antichwn- Zi da loro tanto lontani li
lrouerete,cbe tra quei rifares- te cft d'annoverarli . Hcra no ucglio nominar
d'un in n* no i jeriffori Greci, et Latini di gradcjcccllòta,cb'io «3 ne Marci
a capo in unmefe : ma fon cotento di quelle due copie. troucrajii a cofloro in
altra lingua alcun paref di" rò di memai no fono di fi rea uoglia,ej fi
fW/to.cbe leg* gelido i lor uer/i er Icrationi Icro^on mirallegri . tutti gli
altri piacer iMtigU altri diletti, fejìcgiuochijuoni, caulinno dietro a
que^uno.ne dee b«omo merauigliar fene,però the gli altri folazzifono del corpo
jet quello è dell'animo . onde quanto èpiunobile cofa rinteflettodel Jen/o,
tante è maggiore et più grato quejlo diletto di tutti gli altri. Coki. Beri iti
credo ciò ebe dicete iperoche qunlunche uolta io leggo «tirane noueUe del
nojbro Boccaccio, hnorno certamente di minor fa\na t che Cice- rone nmè,Ìo mi
fento tutto cangiare : majìtmamente leg genda quelli di Rujlico,&- d'
Alibechrf Akthiel, di Pc ranella,^ altre cot4li,liqualtgouernatioiftntimenti di
chi le legge, cr fanno fagli a lor modo, Ver tutto ciò io non direi ioutr buomo
arguire f eccellenza d'alcuni lingua : più lofio credo U natura de le cofe
deforme bd= vere uirtà d'immutare il cerpo,er la. mente di chi legge. B e m.
Qucjìo nò,ma la facondia è fola,o principale c#> gtone di far in noi cofi
mirabili effati. ey elicgli fìa ti ue rojeggetc Virgilio uolgareMo'-o Remerò,
ey il Boc* caccio mnthofcanoiv non faranno quefti miracoli, dunque meffer
Lazaro dice il «ero, quando di idi effetti pone la cagione nelle lingue . JM i
non proua per qucjìo tafua ragione non fi doucr imparar altra, lingua, che U
Istmo, i ej la greca : perocbejc la nofha volgare froggi= di no» è dotata di co
fi nobili autori: già nonècoftimpof: fMe,cbe ella nbabbia,quando chejia poco
meno ecc cl- ienti di Virgilio,©* d*Romero : cioè che tali fiano nella Ungi
wAgare,qualifono cofloro nella greca,ty nella la* lina. Lai. Quando cgliamtcrra,
che la hngtu hoU gxrehabbiaifuoi Ciceroni,ifuoi Virgili j,ifuot Romes rUy i
[noi Xìemoflbcni iOÌlhoraconpglierò che ella fia cofa da imparare, come è bora
la latina, ©- lagreca Ma qucjìo mai non
farà: conciona cofa che la lingua non lo patifee per efjer barbara,fi come ella
è ; er non capace ne di numerose di ornamento . Che fe que quat* tro,non che
altri, rinafeejfero un'altra uolta, © con l'ingegno. pgm,e con {"industria
mcdefima,con la quale grecami" te cr ùtinmente poetarono cr orarono,
parlaffero er feriueffero uoìgmncte^i no [{irebbero degnidel nome foro . Non
uedete mi qaejìa pouera lingua batterci no* mi non declinabili, i utrbifetrzA
coniugatone, cr /f nzd participio ;er tutta finalmente fetxtd niffuna bontà*
CJ* meritamente per certo: contiofiaa>fa,cbe per quello che io n oda dire da
fuoifeguaci, la fua propria perfettionc eofftc nel dilungarfi dalla
lamaìneUaquale Miele parti dell or adone fono intere e? perfette.cbe fe ragione
mi tajje di biafmurla, quejìofuo primo principio, cioè/co* farfi dalla latina,*
ragione dùneflrdtìua dcSafua pravi* tà . Ma che i ella moiira ncUafua fronte
d'bauer battuto la origine,e taccrtfeimcnto da barbari, cr da quelli pritt
cipalmente,piu che odiarono li Komam t cioè da fracefv, tt da Provenzali : da
quali non pur i nomi,i uerbi, ©* gii tduerbi di leim torte anebora deh"
orare,*? del poeta* refiderittò. O gloriofo linguaggio . nominatelo come ni
piacevole che italiano nòn lo chiamiate s effendo uenm to tra noi d'oltre il
mare, 0* di Ila daUdpi } onde è chtufc f [Un : che gii non è propria de Frane*
fi la gloria, che fiatine fiano inuentori,cjr accrefeitorim deh" inclinata
ncMlmperiodiRomain quamainon uennein Italia ttatiom niffuna fi barbara,??
«>fi primi dtbumanità, Hwwi > Goffi, Vandali* Umgobardi,ctiaguifadi tro*
pheo, non ni lafcùffe alcun nome, o alcun nerbo de pi» eleganti,
ctìeUababbiaifj mi diremmo ibe Hoig<o» mente parlando poffa nafeere CICERONE
(vedasi), o Virgilio i Ve rmente fequejhkngM fujjc colonia delklatina ;non
oferei «/era eonfefftrb : moiro meno il dirò,effendo lei una m óiftinti
canfufione di tutte le barbarie del mondo.nelqui k Cbioi prego Dio che mandi
ancbora li fu* difcordia ; U quale sparando una par oh daU altra, er ognun* di
loro mandando alla propria fua regione ; finalmente ri* mmga a queHapouera
Italia il fuo primo idioma : per lo quale non meno fu merita dalle altre
prouincie ; che te muta per le anni . Io uerame nte poco ho letto di quefte
tofe uolgari,?? guadagnato pimi d'baucre affai in per Aere di fìudiarlexb'egli
è meglio non lefdpere che faper termi quante uolte per mia disgratia rìbo
alcuna ueduta iltrettante meco medefmo ho Ugrimatokncftri mi/és ridtpenfando
fra me quale fu già, er quale è bora li Un* gud,onds parliamo er fcriuiamo.zT
noi uedranogUmai Cicerone } o Virgilio tbofcanofpiu tojto rmaf. eranno Schiumi,
che Italiani uolgari ; faluo fe per gioco non fi dirà in quel modo, che iferui
fanno ri lor Re ; er i prU gionieri iUor poderi. Ma tal Virgilio, er Mi
Cicerone, Morder Turchi pofìonobauer nelle lor liiiguc;pa-ò parlando una uolu
con un mio amico, che moto ben sin tendea della lingua Arabefca ; ini ricordo
udir dire, chi Auicenna banca, compojìe di molte opere ; Uqualt fi con nofceumo
efferfuenon tutto iWinuentione delle cofa quanto allo fide, ndquale di gran
lunga auanxaua tutti gli altri fcrittori di quella lingua, eccetto quelbde
l'Ai* corano. Dunque come proportioneuobncntc Auicenm fi direbbe Marco Tullio
fi-agli Arabi ;cofi confeffodi.* vere nafcare,<mzi effer già nato er forfè
morto il Virgi* Ito uolgare ; ma èco bene che tal Virgilio è un Virgilio.
dipmto. Ma il buono cr il nero Virgilio, ìlquale, k* f dando fornire da
canto, dotterebbe rbuomo abbraccia* re,ba Ut lingua Latina, come k Greca ha f
Homero ; cr facendo altramente fimo a peggìor conditione, che non fono gli
oltramontani, li quali esaltano cr riucrijcono fommamentek nojìralmgua Latina
;er tanto ne ap* prendono, quanto poffono adoprar ? ingegno ; il quale fe pare
in loro fuffe al difio ; mirendo certo che di breue k Gcrmmia,et kGallia
produrrebbe di molti ueri Virgilif Ma noi altri fuoi cittadini(cclpa er
uergogna del nojiro pocogiudicio)non fokmcnte non l'honoriamoynaa guì*
ftdiperfone feditiofe tutta uk procuriamo di cacciarla della fuapdtrkìzr in fuo
luoco far federe queffaltra-Ael U quale ( per non dir peggio ) non fi fa
patria, ne nome. Cori, A me pare meffer Lax<iro,che le uofbre ragia
mperfuadano dltruia non parlar mai uolgarmente :U qulcofd non ft può far e,
fatuo fenon fifabric&ffetmd nmua città* k quale habìtajferoìlitterati ; oue
non fi parUfjefe non latino . Ma qui iti Bologna chinop. par.* laffe uolgare t
non barebbecbil'intcndeffi,ey pareb* be un pedante; ìlquale con gli artigiani
fitceffe il TwI* Ho fuor di propofito . L a z. Anzi uoglio, che cofi come per U
granari dì quelli ricebi fono grani d'ogni manierd,orzo,migUo,fromentOiO- altre
biade fi fata- te, dtUe quali altre mangiano gli buemini, altrele be*
fliediqueUa caja;cofi fi parli diuerjamente bor lati* no, bar uolgare, oue er
quando è mejlieri . Onde fe Ibuomo è in piazza, in uiSa, o in cafa col uolgo,
co* contadini, co' ferui, parli uolgare, cr non altramente : ma nelle
[cole delle dottrine er tra i dotti, oue pofii/cmo Cr debbiamo effer huominifu
bumano,eioè Ittino il ra* $jonamento.cr altrettanto fia detto della
fcrittura:k* quale fard ti/Agar Lnecefìita,ma la elettrone latina, «taf
imamente quando alcuna cofa faiuemo per defide* rio di gloria ; la quale mal ci
può dar quella lingua, che «acque, er crebbe conia nofbra calmiti* fj tuttauia
fi tonfava con krouina dinoi.'B et m. Troppo afpr amen \e acculate qucfta
innocente lingua: la quale pare che molto più ui fu in odio : che non amate la
lattina er k greca.Terocbe oue ci baueuatepromeffo di lodar quel* k
principalmente, er k thofcana alcuna mito, uencndo il cafo,mtuperare; bora
bautte fatto in contrario: quelle non bauete lodatoci quella una fieramente ci
biafimate; et per certo a gran tcrto: peroebe ella non è punto fi bar tarara,
ne fi priua di numero er ibarmonia, come la ci bauete dipinta, che fe la
origine di lei fu barbara da prùt ciptoi non uolete uoi che in ifyatio di quattrocento
o cin* qucccntoannifia diuenuta cittadina d'Italia? per certo fhaltramente
liKomanimedefmi,liqualidi phrigia cac dati uennero ad babitarc in Italia,
farebbero barbari: le perfone, i coflumi,ryk Imgualoro farebbe barbara :
lUalia, k Grecia, ©" ogni altra prouinàa, quantunque manfueta, er bumana
fi potrebbe dir barbara fe l'erigi* ne delle cofefuffe bafìate di recar tcro
quefìa infame de» nominatione . Confcffo adunque k lingua nojtramaterz
tiaeffere una certa adunanza non con fu fa, maregokta di molte er diuerfe uocijnomi,uerbi
t ZF altre parti dora tione ile quali primier amenti da prone ©* mie natani
d e 1 1 v l i H o v i. ro^ in Italia iiffemirutcpid cr
artificiofa cura denojìn prò genitori in fime raccolje : er ad m fuono, ad uru
nor* md, dà un ordine ft fittamente compofe, ebe c$i ne/or* «uro» qttctk imgtu,
k quale bora è propria nofha,cr tion d'alai, imitando in quefìo ld madre nofbd
natura: U qudle di quattro elementi diuerfi molto fra loro per qua» liti, er
per [ito ci ha formiti noi altri più perfetti, er più nabli i che gli clementi
non fono, imaginatcui, mefi fer UXtro, di uedere [imperio, k dignità, le ricche
zc, le dottrine, er finalmente le perfone, er la lingua £ Italia in forza de
barbari in maniera, che il trark lor Me mani fu cofa quafi imponibile : ttoi
non vorrete m uerc al mondo imercantarie ifiudiarc! parkre uoicuo fb-i
figliuoli ì Ma kfckndo da parte [altre cofe t parla* rete latino, cioè
inguifa,cbe no it intendano iBolognefi; o parlante in maniera ch'altri
intenda,^ rif^odat Dan qut una uolta il parkr uolgarmente era fona in ìtalk ;
ma in proceffo di tempo fece Ibuomo ( come fi dice > di quella faxa, er
neceflita torte, er l'inéujìria detUfud lingud.Zt co/ì come nel principio del
mondo gli fcuouii- mdaUefiere fi difendevano fuggendo,®- uccidendo few za
altro; bor paffundo pia oltre a beneficio er ornamene to deUd perfona ci
uefiiamo delle lor petit: co/ì da primi, d fine follmente d'effere intefi da
chi regnata, perlaM* mo uolgdre: bord a diletto,er a menarla del nojbo no me
parliamo, crfcriuiamo uolgdre . O egli farebbe me* g(io che fi rdgiondffe
latino: non lo nego; ma meglio }w febbe anebord, che i barbari mai non
baueffero prefa, ne dibatta [Udii i cr the l'imperio dì Komafuffe du- motato in
eterno, Dunque fendo altramente., àie fi dee fa* re f uoglùtm morir il dolore!
réiar mutolii V non partar man finche torni arinafcere Cicerone Virgàoì Le afe,
i feinpi/jCr finalmente ogni artificio moderno, i difegni, i ritratti di
metallo er di marno non fono da e\ fer pareggiatiagli antichi-Aoutrno però
habitare tri ho fchi f non dipingere, noufmdcre, non ifculpirc, nanfa criccare,
non adorar Dio i bafla a rfciwwo mffer L*= zaro mio caro, che egli faccia ciò
che egli fa, er può fa* re,wfi contcntideUefue fòrze. Coniglio adunque, et mmonifco
ciafcuno, che egli impare la lìnguagreca,er Utina, quelle abbracàe,queHehabbia
career con l'aiu* to di quelle fludie a farfi immortale.m a tutti quanti no ha
partito ugualmente nomenedio ne Fmgegno,neUcm po P w ui uuò dtre, farà alcuno
perauentura,cui ne na* turale wdufb-ianon mancherà ;nu&tdimeno egli ferì
auafi che dalle fiette mimato a parlare o-fcrwer me* vUouolgare, ée latino
inunfeggetto, rjmuna ma ìerkmedefma; che dee fare egli f Cbecio fiadueroi
vedete le cofe latine del Petrarca, cr del Boccaccio, et tagliatele aUc loro
uolgarUi quelle niuna peggiore iiquelicniunamigUore giudicarete. Dimqmda capo
confei» et ammonifeo noi meffer Lazaro, [cratere er parlare Unno, comequetio
che $ai meglio jatuete& parlate latino, che non uolgare : tua ira
gcntilhuomo, il quale ì Ut pratica della corte,o {inclinatione del uoftro
nlcanentollrmgedfar altramente, olir amente confidio • cf /scendo altramente
nmfolmente non muerett l^ Q mrato, m4mopmghrÌpfo,qimtofamndo,&
parlando" bene ttolgarc t almeno a ualgari farete caro ; ouetnalamentc
fcrtuendo,et parlando latino,udt farelìe a dottiparimentc,cr indotti Ne
làperfuadaTtloquen* tiadimejfer L-axaro più tofio a diuenir mutuiate com pontre
uolgarmcnte,peroche co/i la prcja 7 comeil uerfo della lingua moderna, è in
alcune materie poco meno nu torrefa, & di ornamenti capace delia grecai
della fd=» ima. I uerft hanno lor piedijor harmonia,lor numeri le profe il
lorfluffo di orationeje lorjigure,ey le loro eie* gonfie di parlare,
rcpetitioni, conucrfioni } complefiioni cr altre tai cofe-per le quali uon è
forfe t come credetegli uerfa una lingua dall'altra : chefe te parole fono
diuerfr. Torte del cottiporteiet deU 'adunarle è una eoft mede firn* nella
Lima, ey nella tbojcana . Se meffer tataro ci ne gaffe quefio: io li
dcm4ndercì,onde è adunque ^che le cen to noueUe non fono beUe egualmente,™
ifcnettt delVe trarca tutti parimente perfetti* Certo bifognarcbbe,che egli
dkeffe niuna or ottone, niun uerfo tbofeano non ef* fer più brutto, ne piti
bello dell'olir o,w per confeguen* te il Serapbmo ejfcr eguale al Petrarc&o
neramente con feffarebbefra le molte compojìtioni uolgari alcuna più, alcuna
meno clegóte et ornata demolirà trouarfhla qual cofa non farebbe cojj, quando
eUefuffero del tutto priue dell'arte de Tarare, zj del portare. Lai.
Alou/ignore io negai k lingua moderna bauer infe numero, ne orno* ' mentore
confonantia,w lo nego di nuouo, non per ejbe rknta ch'io rìbabbiama per
ragione;chefc Thmmo,fttt za punto faptr fonare ne camburro, ne tromba, jolo che
gUoiama mito, per la loro fpiacciiokzxa, pttogùtdicare ure non effere firomcnti
atti tifare hamtmU, ne Mo ; coft udendo, formando per me mcdefimo que* fte
parole uolgari, alfuomdi ciafeunadi loro feparat*. tkU'altreifcnza ch'io la
compone altramente affai bene comprendo, che diletto poffanorecare agli orecchi
de gii afeokanti le profe, <y i uerfuchefe ne fanno : itero è, che
queflogiudicianon Uhi ogrìuno t ma colora foUmcn te, i quéi fono ufatx a
ballare al fuano de i liuti, er de i titoloni . E mi ricorda, emendo una nota
in Ve:ietii,oue eri/io giunte alcune natii de Turchi, udire in quelle mi
tornare di molti fbramenUi dei quale nel più. fpkceuole, nel piti noiofo non
udì mai alla ulta tnkynondimeno a\co loro, che non fono ufi Se dclkie fìtalit,
pareua quella una dolce muftea ndtrettanto fi puodire della numero? fità
dett'omianc, er delnerfo di quefta lingua. Alcuna ttolta qualche confonanza ui
fi ritratta, che meno i»gr*« (4 er mcn brutta fa CtmdeR'altrayna quella infe è
tur* mania?? mufm di tamburri,anzi d'archibufì e di falco* netti, che introna
altrui [intelletto, er fere,?? (ìroppia fi fattamente, che egli non è pw atto a
riceuere impref* Clone di pindelicatoflromento, ne fecondo quello ape* rare.
Per la qual cofa chi non ha tempora «erta di food* re i liuti, er i unioni deUa
latina; più toflofi dee fare o* tiofo, che por mano a i tambum traile campane
delia volgare: imitandoieffempio di PaUadede quak-per non fi dilìorcere ttelk
faccia fonandogittò uia la piuaji che era data inuentrice va' fu a lei più
gloria il partirla da .f<„er nondegnar d'dppreffarlafi attafuabocca, che non
fu utile a mrfia il ruoglterla, a 1 fonarla,, onde ne perdette
DELLE I.IHGVI, IOJ perdette la pelle. Vero écefìe Mofignore
quéprinùm tiebi Tofani efferc fiati sforzati a parlare inquet?amd nicrjjHow
udendo con /fatto trappaffar la hr uita : er àie noialtri pojìeriori habbiomo
fatto dellahriii forza titsjba virtù i qucflo è uero : ma maggior laude dà
altrui quelli violenza ; che a nei non reca quefla virtù . gloria fu a loro
l'ejjlr folerti nelle miferie : ma biafmc,crfcor* noianatltrijhora che liberi
femojl dar ricette &con jeruare lungamente un perpetuo tejlimcnio della
ncjìra utrgognd>o quello ncnfoLmcntc nudrire j ma ornare : altro non
effetido quefla ìmgua ualgarc, che uno iv.ditio dimojlratiuo della ftruitù che
gli Italiani Guerreggiane do una j olla U uoibra Rcp iìbhca,crnon le baftavdo
fo= ro tri argento a pagare t faldati ;fcc e ( cerne fi dice) Rampare gran
quanta di danari di cuoio cotto col cerno di fan Marco, er con quelli fcjlcntò,
tj uùifc laguerrai cr fu fapientùt Venetiana quefla .mafea tempo di pace
hmeffero continuato a prendere quella moneta, ejrafar h digiorno in giorno più
bclla,tj dimiglior ccramegià farebbe contienila in auaritia lafapienza. tiara
fc alcuno ci hiuejfejl quale, prezzato loro, cr f argento,fa* eeffe del cuoio
the foro ; non farebbe egli pazzo coftuiifì ueramtnte . Ma noialtri, cui
mancando iltheforo lati* no, li ncftrd calamità fece prouedere dimoneta uolgare
; quelli non cibajla di jpendere tuttauia col uolgo*he étto nonne conofee, «e
tocca, ma uenutone fatto di ri* courarlc perdute ricchezze ; lei tuttauia
conferiamo : crne ijecreit dell'anima nofca, ouefùkuano ferrar lo* ro, er
l'argento di Roma, diamo ricetto alle reliquie di O tutta DI A I O
G O iultta la barbaria deh nondo. Cori. A me paremef* fer Lazaro,che
quello non fu ne lodar la lingua Latin*, ne uitupcrar la uolgareyna più tojlo
un certo lamentar fi drtìti reuma, d'ìtalia : la qual cefi, cerne i poco
fruttile >ft t cofi è molto difcojla dal nofiro proponùnento ; onde non vi
uedo partir ttobntieri. L a z. Varui che"! bufimo di quefta lingua fta
poco, quando io congiungo ilnafcimen to di lei alla diftruttione deU'hìipaio,0'
del nome latinai CT l'accrefcimcnto dilei dimane mento delnojìro intel* letto
tgi'a me non laudante in que&a maniera, per farmi piacere . Cor t. Citi non
giudico biafmo-ma me* Tauìglia più to&o : che gran cofa dee effer quella,
di cui non può Ihuómo parlare y tacendo larouìna di Rem, che fu capo del mondo
. cr che quello fta ucro ì poniamo che non i Barbari, ma i Greci Ib^ejfcro
disfatta,cr che da indi In qnaparlaffero Atemefegli Italiani ; un biaft* mrefte
la lingua Àttica iperoebe tufo di lei fuffe con- giunto alla frittiti nojhra-L
a 7. Se ciò jiato fujfe,no finb be fulaguafta,ma riformata l'Italia .perche non
fola* mente non biaftmerei il disfacimento di quejio imperio, ma loderei Dio
che lui batte ffc uoluto ornare di linguag già conueneuoU alla fu* dignità.
Cobt. Dunque mag giare il danno Sbatter perduta la lingua, che la libertà ì L A
z. Si fenxadubbio : peroche in qualunque Stato fu fbuamo,o franco,ofoggettOì
fempremai è huomo, ne da ra più d"huomo ima li lingua Latinaha uirtudiftre
di buomini Dei, cy di morti, non che di mortali che ftamo, immortali
perfamx.V,tcbe ciò fia uero$imperù> stoma* pò, efee/t dijìefe per tutto, è
gii guajìo ; m U memori* dm IQ<
J detta grZdexza di hà conferita* neUhijhrie ai Saltijlh, CT di Limojura
ancora, durerà fin cbe'l deh fi mal uerauzr altrettanto fi può dire delF
imperio^- della /w* gita de Greci. Cor. Quejìa ttirtà di far leperfone fmà le p
molti fccoli non l'ba,cb'io credala bijùria arerai latinawne Greca, e Latinayna
come l'bifiorid ch'èttà èi laqualejn qualuque idioma fu feruta da alcuno:i
fempre mai (tome alcun due) testimonio del tempo, luce della ucriù, utta della
memora, maefko della ima d'altrui, crnnoucUamento dell'antichità. Lat.
Voiditeilucro no effer propria qucfla uirt* delibijìorie Greche,?? La Une,non
che altra lingua ne fa partecipe, ma percioebe tutte l h,)lorie Gre. he, et Latine
non hanno battuto tal pnuilegioi ma quelle jolamente, li quali artificio) ameme
compoje alcuno hitomo eloquente ; fendo perfette quelle die lingue. Onde gli
animali di KomaM quali lenza aiu no ornamento, ccnfanplki, er anclwra rozze
parole, narrammo gli auenimenti di lei, non durarono molti an* ni m di hro fi
parlerebbe ; fe altro fcrùtore,quafidaco paltone molfo, non ne faceffe parola.
Dunque fe quelli il tempo ha fato dtuenir nulli, li quali affai doueuam ha* tur
di elegantia, effeuio ferini latinamente, bar che}* dell btjhrie uolgart ì cui
ne naturale dolcezza di lingua, ne artifiaofa eloquenza diferittori non può far
care, ne gratiofegiamaif corteo. Non intendo anchcra ben bene in che coft
confitta la foauit* della lingua, cj-dcUe parole latine, er la barbara
jbiaceuotezza deRe uM* gari, anzL,conje}fandoui liberamente la mia ignoranza,
grandìfiÒM numero di nomi, participi Latini con O 1 Lro toro ftrana
prowntidtione, le più mite mi fuortd.no non fo che Bcrgamtfco nel capo :
àkrdtant ù fogliano forcai ami modi cr tempi de ucrbi ; ttUe quéi parole una
fimilc ielle uolgari la nojira corte Rom<m<t non degnerebbe di proferire.
hte.louiricordogentil'buomocbe l'autori' Ù concijtor iole non è giudice
competente del fuow, CT degli accenti deSe parole latine ; onde fé alcuna nota
k Itnguaktindle pare tener della BergamafcdìeUd noni però Bergamafcd : ne
perche tdefidgiudicdta^iumdo ffete merdMgliare,cbegia ui fiate merauiglkto,
hiueda letto in Ouidio, lAida Re più falere lodare Io Ridere delle cannucae di
Vdth che kfoautù deUd cetra fApal Ìo. C o r t. Ecco io fon contento
diconfejfxrui, chele crecchie in tal eafo non fidilo bumanc, ma d'Afmojc uoi
\nì due, per qual cagione la imncrofiù, ej confotidnza delle ordtioni, er de
uerft di queftd lingua chiamale ma ftutarcbàuft : condofucofd che i gran mdejlri
di con' tOyeui è propria profefÀone Ibannonidi rade uolte,o non mùfamo canto, o
mottetto,cbe le parole di lui nofiano Sonetti, o Casoni uelgari.qucflo è pur
fegno che i no» fai uerft fon da fe pieni dì melodia . l a 2. Già non è,
gentilbuomo)come forfè penfate ) l'harmonk del canto, CT quella delle profe, cr
de' uerfi una cofa medefimam suite fono,& diuerfe, onde non fotmente delle
coft malgari, ma di chirìe anchcra,cr de ifantut fi fanno con fi, c>~
mottetti t della cui barmonix generabnente sinica 4c ogni oreccbia;pcroche
quali fono ifaporidUa lingua, fj a gli occhi, CT di ndfo i colori, et gli odori,
tale i il J'iuw u gli orecctó degUhuoìnini ; li <{u4li per lor tutura, etfenzd
jìudio ueruno facilmente difcmtono trai pia ccuotc,cl dijjikceuole.Mail
numero,?? -Ubarmonk dei l'or ationc,&- del uerfo latino, nonè altroché
artifìcio* fa dijpofitione di parole ; dalle cuifittabe, fecondo labrt uitì, er
li lunghezza di quelle, nafeono alcuni nmerk che noi altri cbimkmopicdi, onde
mi fioratamente carni m dal principio atta fine il utrjb, <cr loratione . er
fono dìdiuerfe maniere quefìitai piedi, facendo i loro pafii lunghi,®- corti,
tardi,?? ueloci, ciascheduno alfuo mo- do, er c beWarte quelli inficine adunare
fi fattamète,cht iten disordino fra fc ftefiijna tuno, atfaltroyt? tutti in*
ficmefiano conformi al foggetto : peroebe d'alcune ma* teric alami piedi fono
qujfi peculkrhetfra lor piedi qua li meglio,quali peggio s'accompagnano al loro
ukggio i CT qualunque perfona quelli a cafo congiugne, no bauen do riguardo ne
atta natura diqueUitne atte cofe,diche iit tende di ragionare i uerfì,^
torationifue nafeono zop* pe,CT non dourebbe nutrirgli: et' di queftd eotal
melodia non ne fono capacigli orecchi del uolgo : ne lei altreft poffmto
formare le uocidella lingua uolgare : k cuipro* faianonfodireperquairagione
fiammerofa chiama* ta,fe Hbuomo in lei non s'accorge,o non cura ne di fpon*
dei,ne didattili, ne di trocbei,ne danapejU, er finabnè* te diniuna maniera di
piedi : onde fi moue l'oraitone bea regolata . Veramente quefìa nuoua befìia di
profit uol* gare,o èfenza piedi, er fdrucciok aguìfa di bifeia, o ha quelli
dijpetie diuerfe molto dati Greca, er dalla Latina : er per confeguente dì coft
fatto animale, come di tncftro <t cafo creato,oltrdticojlume,a- l'ùitentione
di O 3 egli 6%ni buono inteUclto ; non fi dovrebbe fare ne arte, ne
faenza . iuerfi neramente, inquanto fon fatti iundiàfìl libc t rion.paionoin
tutto priui di piedi, che lefllibe in loro hanno luogo, rj- nfficio di piedi :
ma in quanto qneUc cotal poffono effer lunghe, er breui a lor uoglia; m ti
non.d'trò che fia diritto il lor eaUefaluo fe M ojìgnor non Jkeffelc rime effer
fabpo^gio de uerfi, rbe zìi fi* ftaigono,zr fano andare dirittamente, la qual
ofa non itti par itera ; pcroche, per quelle ch'io n'oda dir; le rime fono pia
tefìo come catena del Sonetto&aUa Cannone; che piedino nunì, di uerfi loro,
et tanto uoglio che ne fu detto da me breuemente certo ; per rijpetto a quello
che fe ne può ragionare ; ma a bajlanza, fe alla uofbra richie jìacr troppa
forf?, (e aUaerefenza Monfignore firn guarderà : il quale meglio di me conofe,
er piton'ame* rare i difetti diquefla lingua. B e m. Quefta cofa de mt
mcrì,come fi (lia&fe cofi la prefa, come il ucrfo Tofa no riha lafua parte,
er m à>e modo la fi babbix, per ef fere affé facile da uedere,ma lontana dal
noftro propos nimento ; bora con effò uoi non intendo di iifbutarldan* zi
confidando quello effer itereche ne dicelie, non tan* to perche fa uero, quoto
perche fi ueda ciò che nefegm io ni dico quefla linguamoderna, tutteche fidanzi
dttem patena che nò-, effer però anchora affi picchia, er fot* tile uerga la
quale non haappieno fioritolo che i frutti prodottile ella può fare: certo non
per difetto della ni tura di lei,effcndo co/i atta agenerare s come le altre;
ma p:r colpa di loro, che Fbebbero in guardia, che no la col tiuorono abaftazam
aguiftt dipianta feludggiajn quel medeftmo deferto, atte perfe a nafctre
cominciò, fenzai vidi ne adacquarU,ne potarla, ne difenderla da i pruni, che le
fano ombra,lbdnno Itfciata inocchiare, et quafi morire . Etfeque primi antichi
Romani foffero fiati jì negligenti in colature la Latina, quanto 4 pullular co*
tnwciò i per arto in fi poco tempo non farebbe diuenu* td fi grande ; ma cfii,*
grafi di ottimi agricoltori, lei pri* interamente tramutarono da
luogofdudggioadomeftU co ; poi,percbe er pw toflo,cy piit belli, rt maggior
frut ti faceffe,leuandolc aia dattorno le inutili frafchezn lo* ro (ambio
lùmcftarono d'alcuni ramo felli maefircuol* mente detratti dalla Greca : li quali
fóltamente inguift le t'appiccarono,^ in guifa.fi fama fintili al tronca che
boggimat non paiono rami adottiuijna naturali . Quin* di nacquero in lei que
fiorì, et qui frutti fi coloriti deli e - hquetiza-con quel numero,?? con qucU
ordine ifltffo, A quale tanto cfftliate : li quali non tanto per fua natura
> quanto d'altrui artificio aiutata, fuol produrre ogni Un gua . Perochel
numero nato per magiflero di Tbraft* macho,di Gorgia,di Tbecdoro ; ìfocrate
finalmente fc* ce perfetto dunque f Greci, er Latini huominì pi» foUeciti alia
coltura della lor lingtù,ckc noi non fetno al* U nofka j noi; trouarono in
quelle fe non dopo alcun tmpo,cr dopo molta fatica, ne leggiadria:, ne numero i
già non de parer marauiglia, fenoi anebora non rìbaue* mo tanto, che bafìì,
neSa uolgare ; ne quindi de prcn» der Ihuomo argomento a [brezzarla, come uil
cefa, er dapoco . Oja Latina è migliore d'affai . ò quanto fa* rtbbt meglio dk
fu >z? none una fa Ilota, per lo paf* o 4 /fife, fato, cr fa
Mchor tuttauid fi gentil cofa : tempo forfè uerrà, che (f altra tinta
eccellenza fia la volgere dotatd, che [e per effer e a wfhi giorni di ninno
flato s crmen gradita,non fi doueffe apprezzare U Greca; la quale e* ra gii
grande fui nafeimento della Latina : ne uoftri ani mi non douea kfeiar fermare
le radici furi ultra lingua nomila altrettanto direi àcllt Grecaper rifletto aU
la Hebrea, Cancludcrebbefi finalmente dalle uofh-epre miffe Àouer effere al
mondo fola una lingua t ej non più » anele [ertueffero, ey parkfjero li mortali,
cr aiterebbe #f>e oue uoi crederefle d'argomentar folamente cantra U lìngua
Thofcani, cr quella con uofbre ragioni efìirpare del inondo, uoi parlarefle
etiandto cantra li "Latina, et U Greca . benché <j:«/f a pugna ftefìtn
'crebbe non fo* lamente contrai linguaggi del mondo ima cantra Dio: ilquale ab
eterno diede per legge immutabile ad agni co fa creata non durare eternamente ;
ma di continuo duna in altro fiato mulxrfi: bora duanzando,et bora diminuì* do
fin che jinifea stili uolta che mai più pofcUnon rìno* ttarjt. Voi mi direte }
troppo indugia boggitìtai la perfet* tione della lingua, materni : er io ui
dico che cofs è,come dite imitale indugio non dee far credere altrui effer co*
fi imponibile, che elk diuenga perfetta : anzi ui può fif eerto lei douerfi
lungo tempo godere la fua perfezione, quarhora egli auuerrà ch'eUafe l'babbia
acquiftata. Che cofì usici la natura : la quale ha deliberato, che qual or* ber
tojlo nafce,fìorifcc,& fa frutto: tale tofla inuecebìe, ZTfs muoia : er in
contrario, che quello duri per molti ami, il quale lunga Ragione bar a penato a
far fronde. Sarà adunque U nofira lingua in conferuarfì la fua dota» ti
perfettione lungamente difidcrata, ey cerati* lìmite forfè dd alami ingegni ;
fi quali, qmnì o tnen fàa'&ttenfe dpprcnJoro le (kttrine;f auto pi»
dijjìcìtmcntr le fi k/ei< no «/ciré (fella memoria. Q,eUa è tcjlìmonio della
noftré vergogna >effendo uenuta in Italiainfieme con la rovi* wa di lei .
Viu f o/Ìo efid è teftmonio dcUa nofìra folertia, cr del noflro buono or
dimenio : che, cofì come uenenda Enea dt Troia in Italia ad bonor fi recò
lafcìare fcrìtto in un certo trofico drizzato da lui,queUe cjfere (lato fe
armideuincitoridelkfu4palm t cofi vergogna non ci puooffere l'hauer cofa in
Italia tolta di mano a coloro, che noitolfero di libertà .
virtifinabnente^itando effer uolcfti maligno, più toflo douerfì adorar daRe
genti il So le orientc^c l'occidente: la lingua Greca & "Ldtinagii
effer giunte ah"occafo:ne quelle effer più lunge,ma ebar tafoUmente tj
ingk>flro:ouc quanto fio, difficile cof* Imparare a parlare : ditelo uoi per
me,cbe non ofate dir cofa latinamente con altre parole, ebe con quelle di Ciee
reme . Onde quanto parlate, uferiuete latino non è al* tro,che CICERONE
(vedasi) trafyoflo più tofio da ebarta a Siria, ebedamaterka materia : benebe
queflo non è fi uofhro peccato, che egli non fu anebe mio s c d'altri affai tj
maggiori, er migliori di me i peccata però non indegno difeuft, non
poffendofarfi altramente . Ma quejìepo* che parole dette da me cantra U lingua
latina per land gare non difiiper uero dire : /o/o uolfmcfbrare quanto bene
difenderebbe ejucjla lingua nouette chiper lei far uolcjfedifféfa : quando a
lei non mancOttK cuore, ne or* mictoffendere lAtrui. Cori. Pormi Monfignore che
cofUetniatc dì dir maledeUa lìngua lattina ; cernie fe eU U f 'offe k lingua
del uoflro Sant o di Padoua : alla quale è ditanto conforme, checome quella fu
dipcrfimagin ui uaUctàfantitÀè cagione che bora pofla in un taberna* colo di
criHallo fu dalle genti adorata; cofi quejU degna reliquia del capo del mondo R
orna, guaflo er corrotto fià molto tempo, quantunque boggimai fredda crfecca fi
taceu inondimene fatta idolo dalcune pqcbeeyjuper jlieiofe per folte, colui da
loro non è Cbrtfìiano tenuto t the non l adora per Dio . lAa adoratela a
uojb-ofetmo, fola che non parliate con effo ki. er «olendo tenerla in tocca
cofi morta come è, firn lecito di poterlo fare : ma parlate tra uoi ciotti le
uofhe morte Latine parole ; er d noi idioti le noflre uiue uolgari,con la
lingttd che Dio ci dteiejafitte in pace parldre.BE ti . Doueuate, per ag*
Quagliarla compitamente alla lìngua del j 'anta, foggion* gere qualmente
torationidi Cicerone,* i tierfi divirgì Uo le fono degnLcr pretioftftimi
tabernacoli ; onde ki co tuie cofa beata riuerìamo,et incbìniamoMa per certo ne
lma,nt [altra non mcritaua che la tenejìe per morta-fi* perando tutt'horanewrpi
nofìri et nei 'anime quella fa* httc,qnefla utrtutez con tutto ciò lodo
fommamente la no fha lingua uotgare,cioè Thofcana ; aceìoebe non fta al arno
che intenda della uolgare di tutta italia: Toscana dicojion la moderna, che vfa
il nolgr hoggidi ;ma fanti eamde fi dolcemente pariamo il Petrarca tj il Boccac
ào:rhe la lingua di "Dante fente bene^et fyeffo più del lo bardo,chc del
Tbofcanoì tt oue è Thofcam, è più toflo Tbofrdiìo di contado,ehe di città.
Cunque di quella par* h,quella lodo,queÙa vi perfuado apparare, ebequantm que
ella nenfugiunta aìlafua uera perfettione, ella non dimeno le è gii uenutafi
preffo ; che poco tempo ut è 4 uolgere ; oue poi che arriuata farà ; non
itibito punto, che quale è nella Grecaci nelk Latina, talefia in lei us- ti di
far uiitere altrui mirabilmente dopò la tnorte, cr «I Ibora fi k uedremo mi
fare dimoltinon tabernacoli, m*t tempi;, V ultori : alla cui uìfitatione
concorrerà, da tutte, le parti del mondo brigata di fpirii i pellegrini j che
le fi ranno lor tìo!t,er far amo efpatditi da lei . Co ut. Dime quefeiouorrò
bene fcriuere uolgarmète, couerramitòr nare anafeer Tbof^ano! Bem. Kafcer nò ma
fìudìar Tbofcano,cb"egli è meglio per auentura nafeer Lombar do,che Fior
ent ino i per oche Tufo del parlar Thofcobog gidiètanto cÓtrario dUe regole
della buona lingua ibo /tini, che piti nuoce altrui e ffernato di quella
prpuincia. cbenongligiaua. Cosi, ÌDunque unaperfenamedefì ma wn può effer
Thofca per natura cr per arte B E v. Difficilmente per certo^ffendoTujanza,che
per lughe% za di tempo è quafi ccnuertita in natura, diuerfa in tutto dalTarte,Onde,eome
cbiè Giudeo,o Ueretico,rade mi tediuienebuon Cbrijìiano, arpia crede in Cbrijh
chi mila credcua,q'ianto fu battexata ; cofì qualunque tton è nato Tbofcano più
meglio imparare la buona lingui Tbofcana, cfie colui non fa, il quale da
fanciullo in fu, fempremai parlò peruerfamente Thifcano . Cort. Io, the mai non
nacqui,ne fludiai Tbofcano, male pofjò rivendere alle ucftre parole ; mndimmo 4
me pare.cbe DIALOGO piti fi cormengd col uofho Boccàccio il parlar
Fiorentino madcrno;cbe non fi il Bergamasco. Onde eglipotreb he effcr molto
benebbe huomo nato in Milano,fenza b4 Ucr mai parlato alla maniera Lombarda,
meglio appren ieffe k regole deUa buona lingua Thofcana,cbe nanfarebbe il
Fiorentino per patruàtia che egli nafca,et park lombardo boggidì,crdiman
d^matàmparle,etfcrìud regolatamente Thofcano meglio, e? pi» facilmente del
Thofcano medcftmo i non mi può entrare nel capo : al trainane a tempo antico
per bene parlare Greco,& Ld t ino, farebbe (iato meglio nafeere
Spagnuolo,cbe Komai HOì& Macedone, che Atbenkfc. Bem. Quefìotw: perche h
Uugud Greca et Latina a lor tépo erano egual tnevtc in ogni perfona pure,et non
contaminate dSk bar borie dell'altre UnguexT coft bene fi parlauadalpopolo per
le pìtzZCcottte tra dotti nelle lor [cole fi ragionata. Onde egli fi legge di
Theophrafìo, che fu tun de lumi della Greca elcquenza,effendo in Atbene,*Ue parole
ef fer fiato giudicato foreftiere da una pouera feminetta di contado . Cojt. lo
per me non fo come fi fila quejì* coja; ma fi ui dico, che douendo Studiare in
apprendere dama lingua ; più tcflo uoglio imparar la Latina c h Greca, che la
uolgar : la quale mi contento ihauer por* tato con effo meco dalla cuna et dotte
fafcie t fenz* eer* caria altramaite, quando tra te prefe, quando tra uerft
degliauttorìThofcaniB i m. Cofi facendo ucifcriue* rete, et parlante a cafo,non
per ragione: peroebe nium altra lìngua ben regolata a tltalkfenon queu n ma,di
cui vi parlo, Cosi, Almeno dirò quello che io baucrò BELI, I t I M fi T li HI
in cuore et Io jludìo che. io porrei in wfik&parolctte di qucfh et di
quellofi lo porrò in trottare et dijporrc i con cotti del? animo mioionde fi
Aerina la uitadellafcrittura: che male giudicò poterfi ufare da noialtri a
figafkttre i nofìri concetti qucUalingtia, Thofca, o Latina ch'ella fi fu.U
quale impariamo,®- effercàiamo non ragionando tra noi i nojbi accidenti,ma
leggendo gli altrui, QueSa d di notori chiaramente fi uede in un giouane
Vadouano di nobili^imo ingegno, ilqttdk>ben che talhoracon mol- to (indio,
che egli ui mette, akutid coft componga atU manieri di Petrarca, er fld lodato
dulie perfone non» dimeno non fono da pareggiare i Sonetti, er le Canzo* ni di
lui atte fu* comedie, le quaUnelldfua lingua natk Mturabnente,<cr damma arte
aiutato par che gli efebi* no della bocca: non dico però che huomo farina ne
Vada uano, ne Eergdmafco ; mt uoglio bene, che di tutte le lingue d'Italia
paliamo accogliere parole,?? alcun mo* do didire, quello tifando cornea
noipiacaji fdttMcntti ehe'l nome non fi difcordi dal uerbo > ne l'adiettro
dalfo? Slantiuù; la qual regola di parlare fi può imparare in tre giorni, non
tra grammatici nelle [cole ; ma nelle corti ed gentilhiiommnon ijìudiando,
maginocattdo er ritów do, fenza alcuna fatica » er con diletto de difcepoli, cT
de precettori . B e m. Bene jlarebbe,fe quefìa guift di fiudio bajtaffe altrui
a far cofa degna di laude,®- dt me r duiglu, ma egUftrebbe troppo leggera cofa
il farli e* terno per fama, er d numero de buoni er lodati lentia* ri in
picelo/ tempo denterebbe molto maggiore, che egli non è. Btfognageuù^uomamio
caro, uolèdo andar e f> perlemmì,w per le bocScdeUe perfonedel monda, lungo
tempo jcderfi ntUafua camera, er chi morto m fé flclfo } difa di ù Mammona
degli huomintjudar et agghiacciar più wltetct quanto altri itungii, et dùT* me
a tuo Agio . pmr /urne, et mgghure .Cor t. Contatto ciò muffirebbe faalcofail
diuemr ghrwfo j cucaltrc bifogna chcfaperfauelìarc.ée ne dite Hot mef (er
Lataro.iopermefoncontento^ontenlandof: Hon- fenorèi che (i «o/ìr a JcntetEci
ponga fine die nojhrt M L a z. Cote/io non/Vò w, cb'w uorrei éetditfen
(oridiquefìa lingua uolgare foffero difeordt tra (ora, « cùct» d«ettt ^guìfa
diregno partito, pw ^«ofmm- *erorà#ro kdifknfkmciiiilL Cobt. Dmpem Memi contro
aftopimm dì lAonftgnore, moffo noiifoU mente dati 'amor denutriti lavale douete
amare, er riuerire fapra ogm cofa, ma daltodw che uoi portate 4 ùue&a lingua
uolgare,che mncendo,utncerete il miglior- «JiWtijidgmafdo del quale
prende dmodo argomento impararla, a «ti • L A C"»^* fM ^ totidcchdie
con quelle armi mcdcfme,òe noi opra* tecomr*ULatùia,v la GrecaM wMra lingua
«olg** refi M«> CT fi 4mua. Cobi. MWigmw . ne i rwilaretóe giorti Kwer me
debole combattitore, et gii itinco«e& battagltadianzi Stinti conmeffer
Lazaroì tauttonta, et dottrina Kotfro ledili ambedue mfiane mi
datmaguerra fi fjwmte/b'uni conojco qualpm. perche, non ttokndo mjfer
Lazmcongwar con ejjo *. - meco <t difendermi^ ego uoifrgnor Scolare, che con
fi lungo I '.kntìo, cj fi attentamente ci bauete afcoltatUcbe baimdo alcuna
arma,con la quale noi mi poetate aiuta* re, fiate contento di trarla fuori per
me,che poi che <jue« fla pugna non è martak,potete entraruifenza pma^ac
cofiandoni a quella parte,cbe piti ui piace: benché più to fio ui douete
accodare aSa mia,ouejete ricbie8o,ct oue è gloriai' effer uintodacofi degno
auuerfarìo.S c no u Gcntffbuomo io non parlifìnhcra,pcrocbe io non japed che m
dire, non effendo mia profetatone lo fatato delle linguema uolontieri afcoltati
bramando, CT fperando pur d'imparare. Dunque bauenda a combattere m difejtt
d'alcuna uo&ra ftntenza > non ui pojfendo aiutare, to ui coniglio, che
fenzame combattiate; che eghè meglio per uoi il combatter foh,che da perfona
accompagnato* la quée, come inejperta deformi, cedendo in fui prin- àpio della
battagli ui dia cagione di temere, Cf fard dare al fuggire. Corteo. Con tutto
ciò,fe mipo* tete aiutare, che a pena credo che fia altramente } fendo fiato ft
attento al nvfìro contratto, aiutatemi, che io uc ne prego,faluofe non
jprexzate tal queBione, come uil cofa, (jdift poco ualore, che non degniate di
entrare in campo con cjfonoi.ScHÓL A. Come non degnarci di parlar di materia,
di che ti Bembo al prefente, cr altra uoìtail Peretta mio precettore inficine
conme})er Lrf* fcari con non minor fapienz*, che eleganza ne ragionò ì troppo
mi degnarei,jei fapefii, ma di ognicvja tufo poco, cr delle lingue niente, come
queiio, che della tìr«4 comfc<ì a pena, le kttere, CT dsfo togfM Lati*
B I A L o e o tu. Unto follmente importi i quanto baflaffe
per farmi intendere t li&rt di philofophia d'Arrotile ; U quali,per tjueUo
che io noda dire di meffer Lazaro,non fena ktU ni,ma barbari: della uolgare non
parb;cbe di fi fatti Un* guaggì mai non feppi,ne maìcurdidifapercjdlua ilmio
Fado nano ; del quale, dopo iilatte delia nutrice, mi fu il uolgomaeSlro . C o
r t. Tur a wi cor.ucrrà diparlare, fenm altro, quello almeno,cbe ri apparale àd
vcreito, eydal Lafcari ; liquali cofi fauuinente ( ceree mi dite) parlarono
intorno a qucUa mai erid .Scaoi, Poche cofe delle infmite,che a tal materia
pertengono,puo im» parare > in un giorno, chi non le afcolta per impa* rare;
penfando che non b'tfogni imparare, Beh. Dit ene almeno quel poeo, che ut
rimafe neUi memòrid} che a mefic caro [intenderlo . Laz, Volentieri in tal cd/o
udirò recitare lopenione del mio macibro Peretta il quale, auiiegna cheniuna
lingua fapeffe dalla Manto' ima infuori; nondimeno come huomo giudiciofo, er
ufi rade uoltc a ingannar fi, ne può bauer detto alcuna cofi eo'l Ldfcorixbe
Fafcoltarla mi pucerà. Pregoui adùqu e, chefe niente ue ne ricordatdlcuna cofa
delfuo paffuto n gionamentonon ni flagrane diriferire.S c h o l, Cofi ft faccia,
poi che iti piace ; che anzi uogUo effer tenuto ignorante,cofa dicendo non
canofeiuta da. mei ebedifeor tc/e rifiutando que prieghi^be deano effermi
common* fomenti, ma ciò fi faccia conpatto, che cornea me non è bonore il
riferirui gli altrui dotti ragionamenti ', cofi il tacere alcuna parali, li
quale dailbora in qua mi fu «« fcit4detitt memoria t nonmifia ferino a
vergogna. Corte g. Ad ogni paltò mifottofcriuo t purche dicU te. Se ho L. L.
"ultima itolta che mcjfer Lafckari uen* ne di Trancia in Italia j fondo in
Bologna, oueuolontie ri habkaua i cr tuffandola il Perttto,come era ufo di fu
re; un di tra gli nitri, poi che alquato fu dimorato con ef* fo lui, lo dimandò
meffer Lafcbari, Vofira cccelienza macflro Piero mio caro,chc legge quejYamoiP
e k. Si* gnor mio io leggo i quattro libri della Meteora d'Anito tele, L asc.
Per certo bella lettura è la ucshra: ma come fate d'cjpofitorìt Per, De latini
non troppo bene ; ma alcun mio amico m'ha feritilo duna AkffandrO. Lasc.
"Buona ckttioncfacejìciperocbe Aleffandroè Ariftcte le doppo Arinotele :
ma io non credeua che noi fapefìe lettere greie . P b ». Io t'ho Uttno,non
greco. Lasc. Poco frutto doucte prendere, pir. Perche? Lasc. Perche io giudico
Aleffandro Apbrodifco greco come c, tanto diuerjo da fé medejìmo, poi che
latino è ridotto, quanto è uiuo damorto. Per. Qnejìo potrebbe efjer che uero
fuffe : ma io non uifaceua differenza, anzi pai faua, che tanto mi doueffe
gwuare la lettione latina, cr uolgare(fe uolgttre fi ritrattale
Aleffandro)quàto a gre ci la grecai con quefia jperanza incominciai a jiudiar
fo. Lasc. Vero è,cbe egli è meglio che noi I'babbut* te latino, che non
Chabbiate del tutta, ma per certo la noe jka dottrina farebbe il doppio,^
maggiore, cr mr^/io* re, che ella non è,fc Aratotele cr Akffandro fuffè'ktto da
uot inquelLi ltngua,nella quale l'imo fcnffe,cr l'altro lejpoje. Per. Per qual
cagione,'Lajc, Verciocht piufacilryeittc, cr con maggiore eleganza di parole jo
P no DIALOGO no tfbrefii da là ifuoi concetti ntUa fud
Ungiti, che nel* l'altrui.V e r.V ero forfè direfìefe io fufiigreco,fi come
nacque Aristotile : mw che huomo lobardo fludid greco, per douer far fi più
facilmente pbdcfopbo,mi pur cofa. no ragioncuok,anzi difconuencuole, non
ifcemandof pun* to,maraddoppiandoji U faccia dell'imparare: percioebe meglio, et
più toh può àudiar lo [colare Loic<*/ok,o fa lamente pbibfopbu,cbc non
farebbe, dando opera alla, grammatica-, fcetiahnente alla grcca.L \ s c . Per
quefla ijtcffd ragione non doueuate imparar ne Latino,™ Greco ; ma follmente il
uolgare Mattonano ; a" con quefo phibfopkare. Pee.Dk) uoleffe in feruigio
di cbi uerri doppo mc,cl:c tatui libri di.ogni fdenzA, quanti ne fono greci,cjr
latinùcr bebrei; alcuna dotta, et pictofa perfo* ni fi deffe a fare uolgari :
forfè i buoni phibfopbantiff rebbom in numero affai pia jbefii,che a di noétri
non/o* iios er k loro eccellenza diuentarebbe più rara. La se, O non u intendono
uoiparlate con ironia. Peb. Anzf parlo per dire il nero ; er conte buomo tenero
deU'honor degli Italiani, che fc ^ingiuria de nofbri tempi, cofì pre*
f°nti,come paffuti «olle priuanni di quciìa gratin dio mi guardi,cbe io fu
pienone cofi ar fo d'inuidta, che io dift* deri di priuarne chi nafeeràdoppo
me. La s c. Volon* ticri tidfcokcròje ui da. il cuor di prouami quefìa nuo* tu
conclufìone,cbc io non fintendo,ne la giudico intelligibile. p e r.
DttcmiprintOyOnde è,cbc gUbuominidi quella età generalmente in ogni fetenza fon
men dotti, et di minor prezzo, che gii non furon gli antichi f Oche e centrati
dome icondofu copi che molto meglio, et DELIE LINGVt, 114 pia
fàcilmente fi poffa aggiugnere Acmi cofa alla dot* trina trouaU, che trovarla]
da fe medcfimo ? La st. Che fi può dire altrove non che indiamo diw.ée in peg-
giof? t r. Queflo è uerojtta le cagioni fon molte, tra le quéi mia ne n'ha, er
ofo dire la principale, che noi aM modeniuiuiamo uhiirnogran tempro, confinando
la mi glior parie de nolbi anni la qual cofa non aueniua agli anticbi.epcr
dijling'iere il mio parlare, porto ferma i pe nione,che lojludio della lingua
Greca, cr Latinaji* ca gione dell'ignoranza: che fc'l tempo, che intorno ad
effe perdiJìno,li fbendejfc da noi impavido phihfophiaipcr auetitura Feta
miderna generarebbe quei piatovi, ry quelli A rifloteh, che proda eua Cantica .
M<i noi tim più che le canne,pentitiquafi Shauer UfcUto la cuna,ey
efierhuemini diuemti, torniti un altra uoita fanciulli, altro non facciamo
dieci,cr urtiti anni di quella uita,cbe imparare a parlare chi
hiino,chigreco,cs akuno(ccme Dio utiolc) Tofano : li quali anni finiti,??
finito con ef= fo loro quel uigore,zr quella prontezza, la quale natu* ralmente
/«o/c recare alTtnteUettolagioucntù ; aVhora procuriamo difarcipbilofopbi,
quando non ftamo atti al Ufheculatione delle cefe . Onde feguendo l 'altrui
giudi* ciò altra cofa non uìcne ad e(fere quejla moderna Yilofo fa, che
ritratto di quell'antica . però coft come ìlritrat= to,quaiitunquefato d'
artificio f fimo dipintore, non può efier del tutto fintile all'idei ; cofi
noi,benche forfè per al tezza d'ingegno nofamoputo inferiori a gli antichi ! 0*
dimeno in dottrina tanto fiamo minori, quanto lungi > ì m po fiati fuiati
dietro aUefaucle dcUe parole colera final* p i mente n I A
LOGO mente mitwnopHklophando m^UakunACofié^ emiendodcemnw knojtra mduUru.
Lasc. Dm IJcljhdiodeUe lingue nuoce altrui finalmente, co* Itici ditele fi dee
f^kieivb? 9t% AnjA JW/i far deismo per taire, che d ogni coja per tutto
Imoniopoffaparlcreogmlmgua. La se. Come wdfro pietrose i ciò cbc«oì4itef D«gtó
d-reWe- uiihuorc diphilofopbare wlgarmenteta-fenxa bauer cogmtionedellalingua
Greca, er UHM Vt% fiLrfupur che gli autori Greci,V Latmifmduceffe* rou dlani,
Lasc. Tinto farebbe fruire Anftoff ledi line** Grw tn umbri ; fatto
trafbmtareun MMCKfi unaolm di un ben colto horUceUojn un bo* C CQ di
pruni.oltracbe le cofe di plnlofophufono pefo A ai tre (ballcòe da queRe di
aueU lìngua Volgare Per. Io bo per ferra*!* le Imgucd'ogm paefe, cefi 1 Arabi*
ta er r ibJww, come U Kòmma, cr 1 Atemefefma d'un medino wforr.rt d« mortoli^
un fine ccnungm dici* formatele io non uorreiebe uoine parlato come di coLdaUa
natura prodotte ; effendo fatte,cr regolate dallo artifìcio delle perfone a
beneplacito loro, non pian ^Jmih^io^mimcemiAv^.
ondetutto^belecofedanamturacreate^tlejcicnzedi «uekJtatomMoytttro le
parte delmndo una cofa mdefum ^nondimeno, perciò che diuerfi huomm fono
didaerfo m lere,perèicriuono,o- parlano dwcrjamcnte, la qitaU diucrfttà, er
confufìane delle uoglìe mortali degnamente è nominata torre di B<tM. Dunque
non nafcono k ''»g" e pw f e medefme, a giàfadi albergo <fber he ;
quale debbolc,w inferma nella fua fyetic,qu*kfaif<t ^rrobufla, etatU meglio
aportarlafommsdinofbi kit mani concetti . ma ogni loro uertit nafce al mondo
dal uo ter de" mortali, Per la qualcofa, cofi come fcn%a mutarfi di
co!ìume,o di natione, il Trandofo,et l'lngle{e,non pur il Qfccojy il Romano, fi
può dare a philefophare, coft eredo ebe la fua lingna natia poffa dir iti
compiutamente communicare la fua dottrina. Dunque traducendof; a no flri giorni
la pbilofophia jeminata dal nofìro Arrotile nebuoni campi tf Atbene, dilegua
Greca in uolgare,ciò farebbe non gittarU trafili in mezo a bofcbi.oue fìerile
àueniffejna farebbe fi di kntam propinqua, V di for e* {licra > cbe etU è y
cittadina (fogni prouinàa . Et forfè in quel modo che le fbeciarie^zr i'^rc
cofe orientali ano* yroutile porta alcun mercatante d'india in ìtalia,oue
meglio perauentura fon ccnofciute,cr tratMc,cbe da co loro non fono the olirà
Umore lefeminorno > er ricolfc* ro; fnnihnente le fpeculaticm delnofko
Arrotile cidi* ucmbbono più famigliarle non fon lwra-&' più faci* mente
farebbero mtefedanai, fe di Greco in ttòlgare al* cuna dotto Imomo le
riducejfe. L a s c. Hiuerfe Imguefo* no atte afìgmficarc diuer fi concetti,
alcune i concetti di dotti,alcune altre de gli indotti, la. Greca ueramente Un
to fi conuiaw con le dcttrincycbe a doucr quelle fignijicd re,natura ifieffxjio
banano prouedimeto pare che ihab bu formata : er fe credere non mi miete,
credete abne* P 3 f» no d Platone, mentre ne parla mljuo CrrfiRo .
Onde ci fi può dir di tal lingua., che (piale è il lume a colori, tale di i fu
alle dijcipkne ifenza il cui lume nulla itcdrcbbc il ivijiro bumano intelletto;
mi in continua notte d'ignoran tii fi dormirebbe. Per. Più toilo uò credere ad
Arijìo tilt, CT alla ucriùycbc lingua alcuna del mondo{fu editai fi uoglia) non
pojfa hauer da fe jlcjfa priuilegio di fignifi care i concetti del nollro animo
>ma tutto confìtta nello arbitrio delle perfone. onde chi uorrì parlar di
pbilofo* phia con parole Mamouane,o Milane fi inoligli può ef* /tv difdetto a
ragione ; pia òe difdetto gli jìa il pbibfa* pbarc,or l'intender la cagion
delle cofe, nero è,cbe,per* ebe limonio nonba incollameli parlar di phibfophia
jc non greco et latino sgià credimi che far non pojfa aU frinente : cr fain di
uiene ebe follmente di co/e tuli, er algori uolgarnun'e parla, orferiue la
nofhra eti Et co m: i corpi,®- le reliquie de fanti non con kmani,ma con alcuna
uerghsita per riuerenza to:cbiamv ; cafi i fieri mhleri della diurna
philofophia più tojlo c5 le lettere del l'altrui lingue, che con li tiiua uoce
di queila noBra mo* icrn a,à muiamo a lignificare : il quale errore conofei» to
da molti, ninno ardtfcediripigliarb. Ma tempo forfè pochi anni apprejfo uerrà
ebe alcuna buona perfona non meno arditi,che ingcnÌofx,porrà mano a cofufatto mercatantia
: cr per giouare aUdgente, non curando dell'oc dio,ne della inuidia de
litterati, condurrà d'altrui lingua dia noilra le gioie, ryi frutti delle
feicntie j le quallibo r.i perfettanente nongujliamo.nc compriamo. Lasc,
Veramente ne di fama, ne di gloria fi curerà, chi uvrrà prender la imprefa di
portar k philofophk dati lìngua £-A tbene nella Lombarda : che tal fatica
itow,cr bufi" mo gli recar a. P a s. Noia con/rflò, per fa Doniti dc/k
ic/j<,ttM non kiir/rmo,cow:e credete: clic per uno che<U prima ne dica
male,poco da pei mille, er mille altri lode. ramo,tt benediranno
ìlfuoj\udio,queUo ritenendogli che antenne di Giefu Cimilo ; iìquale, togliendo
di mo* rir per la fallite degli buomim,fcbernito primieramen* te,bujmato,cr
trucifìffo d'alcuni tippocriti.hcra alla fi ne da chi! conof<e,come iddio,
et Saluttor noflro ft ritte rifce.& adora, Lasc. Tanto dkefte di <jae/fo
uoftro buonbuomo; che di picciolo mercatante l'bxuete fatta Mefia : il quale,
Dio uogliacbefta fintile* quello che anebora affrettano li giudei; acciò che
berefia cofi itile mai non guafìi per alcun tempo k philofophk d'Arifioti le .
Ma/e noi fitte in effetto di cofi fìrano parere ; che non ut fate a di noflri
il redentore di quejla lingua uoU gare f Per. Perche tardi ccnobbi la ucritk
;er a tari po,qumdo la fòrza dettinteQetto non è eguale al uolere. Lasc. Cofi
Dbirìaiuti ;comc io credo che motteg* giite;faluofe,comè fanno i maliticft,
queQovicco no bU fonate, ebe non potete ottenere. Per. Mon/ìgnor le ragioni dk
nxi addotte da n!e 3 non fono lieui ; che io deb* ha dirle per ifberxare
icrnonè cofi eoft éffiàle U co* gnition delle lingue ; che bucino di meno che
di me* diocre memoria, er fenz* ingegno ueruno, non le pcfft imparare : quando
non pur a dotti, ma d forfennati Atbenicft, er Romani, folea parlare
eloquentemente CICERONE (vedasi),?? Demojlhette, er era intefo (Utero . Cerio
P 4 «tfnif «inijgr Ufirimiferamente poniamo in apprender queU le dite
lingue t non per grandezza d'oggetto ; ma) olamen, te perche aUo lludio delle
parole contri la naturale meli nxtione del nojlro bumatio intelletto ci
riuolgiamoul qua le difiderofo di fermar)] nella cognitione detle.cofè, onde
diurna perfetto, non contenta d'efferc altroue piegato, otte ornando la lingua
di parolctte er di dande refli uas ttd Li nofbra mente. Dunque dal contrailo
che è tnttauid tra la natura dell'animi, er trai cojlume del nojlro jlu*
dio,dipende la difficultàdcRa cogmtion delle lingue, de* gna neramente non
d'wuìdktma d'odio: non di fatica 3 mt difajlidio : er degna finalmente di
douere effere non ap prefajna ripreja dalle p.rfone : fi come coftMqualc non è
cìboma fogno, er ombra deluero cibo delTinteUetto . V a s c, Mentre noi
piatiate cofi, io imaginaua di ittderc krittalapbitcfopbiad'Ariftotikin
Unguabm* barda udirne parlai e tra loro ogni tùie maniera di
gentcJaecbinUontadinhbarcaroli, er altre tali per fané, con certi fuoni,<cr
con certi accenti, i più noiofi, er ipitt {brani, che mai udijii alla tòta mia
. In quejlo mezzo, mi fi paraua dinanzi effa madre philofopbia utilità affai po
veramente di rontagniuolo piangendo, er lamentando^ i' Arijlotih,cbe
difprezzando lafua eccellcnzatbautft fediate condotta, et minacciando di non
twlre fior piti in terra : fi bello bonore ne te era fatto dalle fue opere :
ilquale ifeufandofi con effo lei „ negaua d'bauerU offefa giamai : fempremai
bauerla amata, er lodata ne me* no che borreuolmente batterne fcritto, o
parlato men* tre egli luffe ; lui effer nato tj morto greco,non Brefciae no
ncVergomafco, er mentire chi dir uolcffc aUranvm te : olla qui uifione
diftderaua che noi mfujHe prefetste. •P e i. Et io (e fiato ui f«j?t > harei
tetto non douerfi U pbthfopkia dolere ; perche ogni buomofer ogni luogfc con
ogni linguai (ho ualorc effàhaffc : quefiofarfi an# a gloria, che a ucrgogm di
hi . la quale (e non fi (degni Stergare negli intelletti Lombardi, non fi dee
ancb$ (degnare (Teff, r tratta daHU br lingua : l'Indù, la Srtf tbia,CT f
Egitto, cue babitaua fi uokntieri, produrrc gc* ti cr parole molto pi.i jkane e
pi» bai bare, che non fono bora le Mantouanc, er le Eoiogw/i : lei lo (ìndio
tkU Ungua greca,® 1 latina bauer quaft delnoflro mondo crftf ciato ; mentre
hv.cmo non curando di faper, che fi dica } nanamente fnok imparare a parlarci
et lafciandof Intel letto dormire, fucglu er opra la lingua. Notar in ogni
ct4,m ogni prouincid, cr in ogni babùo effer (emprcnai ma cofa medeftma ;
Lupaie, cefi cerne uolonticrifa fuz arti per tutto l mcndc,non meno in tcrra,cbc
in cielo; cr per effer intenta aUa produttione delle creature rationa* Unon
fifeorda delle irratiotitlii ma con eguale artifìcia genera noi,er t bruti
animaliicofi da ricchi parimentc,et peneri huommi, da nobili, er «ili perfone
con ogni Un* glia, greca, latina, hebrea, cr lombarda, degna
d'effere&-conofcittta,cr lodata. Gli auge Hypcfci er tre be(ìie terrene
d'ogni maniera,bora con un (uovo, ho u con altro fenza dijìintione di parolai
loro affetti f già (icore ì molto meglio douer ciò (are noi buomini, ciafeu no
con la fua liìtgud ;fcnz<tricorrere aWaltruidcfcrittu* re,cr i linguaggi
efferc fiati trottati ma ajaltite teUa n* turala quahicome diumd,cbe etk è)non
ha mefticri iti mftro diutojmafolamentea utilitaet commodità nojìra, gecioée
abfenti, prcfenti 3 uiui,& marti, manife\ìando (un Ultra ifecreti dei cuore,
più facilmente canfeguias no la noflra propri* fe liciti ; laquale è pefìd
neUmtcU tetto delle dottrine > non nel fuono delle parole : er per
confeguente quella lingua,?? quella fcritturddouerfi u* fare da mortali, la
quale con più agio apprtndemo: er €omemeglio farebbe itatele foffe fiato
pofiibilc) Chaue re un sol linguaggio, l'i quale naturalmente fuffe ufato
da gli huomiri, cofi bora ejfer meg^ebe tbuoma (crina, et ragioni neUamaniera,
ebemen fi fcofladatta natura : k qualìTumicrd di ragionare appcnanati impariamo
:ey a tempo-, quando altra ecft non fono atti ad apprendere, et étrotavto barri
detto al mio maeflro Anjlotilc ideila etti eleganza goratione poco mi i urarei,
quando fènza ragione fusero da lui ferita i fuoi libri ; natura bauer lui
mietuta per figliuolo, non pcrtffer nato in Atbcne, ma per bauer bene in atto
intefo<bcne pérldtOi&benclcrit to di tei : la verità trouata da hi,
tadifpofitene, cr Cor* dine delle coje,la grauità er breuitì del parlare
eflerfua propria,®- non d'alìrme quella poter)] mutare per mu* tomento di uoce
: il nome falò di lui difeampagnato dalla ragione ( quanto a me ) ejjere di
affai piatola auttoritd, a lui fiore, fe ( emendo Lem bardo ridotto) effer
uelef* fc Annotile .noimirtali di quella eùcojì bauer cani f noi libri tramuta
incluùm i '.inguaiarne glibcbberoi greci = mentre greci gli jludu iurta . li
quai libri con ogni iniujbia procuriamo d'intendere per diuenire una uolta
non Athcniefi ima philofophiicr con quefìa riftojl* mi farci pai-tito da
lui . L a s c. Di'fe pure, CT diff derate aè che uolete j m i io Jprro, òe a di
uoftri non utdrete Arijhtik fitto minare. Per. Perciò mi doglio
delhmiferaccnditione di quefli tempi moderni, ne quali fi finiti non ad ejfer,
mt a parer fauio : che ohc fola una liti di ragione in qualnnque linguaggio può
con du ne alla cogniimedeìh iteriti ; quella da canto lafdi ta, ci mettiamo per
jìrada,ti quale in eff. tto tanto ci dfc lunga dal noftrofme {quanto altrui
pare, che ni ci metà uicini ; che affai credemo d'alcuna cofa faperc, quando,
fenza conofeerc la natura di ki:pofi mio dire in che mo- do In nominali CICERONE
(vedasi), PLINIO (vedasi), tmctfo, cr VIRGILIO (vedasi) tra latini fcrittori
;cr tra greci Platone, Arijhtile t De mojlbene, cr Efclme ideile cuifemplici
parolctte fan- noglìbuominidiquefta etàlc loro arti, cr fcicntiejn giujx, che
dir lingua greca, C latina par dire lingua di ulna, cr che la lingua volgare fa
una lingua inhu* man, prilli al tutto del difeorfo dcU 'intelletto ; for* fe
non per altra rdgione, faluo perche qucftunx da fanciulli, cr fina jhidio
imperimi) ; oue a quel* laltre con molta cura ciconuertiamo icome a lingue,
lequali giudichiamo più conuenirji con le doArine, che non fanno le parole
della E «griffa, cr del batte f* ino con ambidue tai facramentii la quale
feioccaop* penione è fi fiffanc gli animidc mortai, che molti fi fanno a
credere, che a douere farfi philofophi bxjti lo* rofapcrefriuere, cr leggere
greco fenza più : non aU tramente, chefe lo fòirito dì Ari] fatile, aguija
difolkt* to in cr&aUofieffe rmchiufo neWabhabeto di Grechiti
con lui mfiemefuffc corretto a entrar loro neWinteSct* tea fargli propbeti:
onde molti n'ho già vedutiti miei giorni fi arroganti,cbe priid in tutto d'ogni
fdcnza,con fidundofi folamentc neUacognition della lingua, bmm hauuto ardimento
di por mano afuoi libri, quelli a guifa de gli altri libri d'bumanità
publicamtnie ponendo . Dùque a colìoro il far uolgan le dottrine di Grecia par
rebbe opra, perduta fi per la indegniti della linguaicome per l'angujHa de'
termini, dentro a quali col fuo Ikguag gioè r'màiiufahtaha, uanaiflimando
l'imprefa dello Jciuere, er delparlare in maniera, ebe non [intendano, li
iìudiofi di tuttol mondoMa quello che non è fiato ue* duto da meìfpero douer
uedere (quando che fia) chi no* /ceni dopo mc&r 4 tempo t che le perfone
certo piti dot' te t ma meno ambitiofe delie brefenti, degneranno £ef* jer
lodate nella lor patria, femy. curar fi, che la Magna, c .diro fìrano paefe
riticrifca i lor nomi ichefela forma delle parole, onde i futuri pbibfopbi
ragioneranno, er fermeranno delle fetenze, farà commune alla plebe, tin*
iellato, er il fentimento di quelle farà proprio de gli a* autori, V jiudiofi
delle dottrinerò quali hanno ricetto, noiicUelinguefmanegUatiimidimcrtali.S c a
ol.Gw sapparcccbiauamcffer LafcariaUarijj>ojla,quando fo* prauenne brigata
di gentillniomini, che ueniuano a uifì* tarb, da quali fu interrotto [incominciato
ragionamene toipercbc faktati [un [altro con prameffa di tornare al* tra
uoltajl Peretto,et io co lui ci partimmo. Cojteg. Co fi bene mi difendere con
[annidelmacftro Peretta che DELLE UNCVt. "9 che l'I por mano
alle uojire, farebbe cofdfuperfbd per- ii <M cofa auegnd,cbe Hparkrt intorno
a quefìamate rid fulfe iiojìra profetane > nondimeno io mi contento, ée uì
tacciate: ma del foccorfo preftatcmi.partt dd Tdii tariti di coft degno
philofophofdrte dette rdgionUnte* dettelo ue ne muto immite grdtici&uiprometto,
che perfinire ilfdjìidio dello imparare a parlare con le Un gue de' morti;
feguitando il coniglio del maeflro Perei* tadorne fon nato.cofi uoglio iti uere
Romam,parlar Ko mano, 0-fcriutre Romano : V * uoì meffer L4Zaro, cornea perjona
d'altro parere,predico,che indarno tcn* tate di ridurre Mjuo lungo eftlio in
ltdlidktwjhra Un* gua Latina, cr dopo la totale réna di tei, fottcuM*
terraxhefc quando Jk comineidud a cadere,nonfu huo mojhefojlcnere ue la
poteffext chiuque atta rumasi pofe>aguifd di Polidamante fu oppreffodalpefoi
feoM, cUgìdce del tutto, rotta parimente dal principio et dal dal tempo; quale
Aéletd, o qual gigante potrà uantarft ii rQtmWne a me parere a uofbri fritti
riguardose ne uogliate far pruoua-xonftderando chel mètro jerme* re latino non
è altroché mandare ritogliendo per que» fì'auttore, cr per queUo,bora un nome,
bora un ucrbo, hard un'dduerbo della fu lingua: il che facendo,/e noi fperate
(quafmuouo Efculapio) che il porre mjir.ne
cotdikagmentipo^farldrifufcitdre^iu'mgamuU; non ui accorgendo, che nel cader ^
dififuperbo edificio, una parte diuenne poluerej? un'altrd dee effer rotta («
più pczzdt quali uolcre in uno ridurre, farebbe cofdim* paRibik Jenzd, 'he
molte fono dell'altre parti, k quii r ' ' ruiwfe timafè in fondo delmucchio, o
mudate daltempo,Hen fon trottate d'dkwno:onde minore,cy men ferma rifarete
lafabrica, ch'eUa non erida prima : cr uettendoui fatto di ridur lei alla fu*
prima grandezza ; mai non fa acro, (he «01 le ditte Inferma, che antkaincte
ledicrono que" fn'mi buoni architetti, quado mona la [abbicarono: anzi
oucfoleua effer la fala, farete le camere, cmfjnddrete le pori e, cr delle
jineftre di lei } que&a alta, quell'altra baffa nformarete: iuifode tutte,
£r intere rifugeranno tefue mmtglie, onde primieramente s'i&unwaua il pa*
lazzo:?? altronde dentro di lei con la luce del Sole alctt fiato di trijlo
uento entrerà, che fari inferma la flanzd, finalmente fari miracolo più, che
httmano prottadimen* fo il rifarla mai più cguale,o fintile a quetTantic^ejfen*
do mancata (idea, onde il mondo tolfe l'effempio di edì* ficatU . perche io ui
etnforto et lafciar ttmprefa dì uoler faruifmguUre dagli altri buominh
affaticandoti uana* mente fenz4prouolhro ì et 1 d'altrui. Lai. Perdonate*
migentdbuomo f uoinonponeSeben mentealle parole delmiomacftro
perettoUqualenonfolainentenon rie» faua,eome Mifdtc^i^&Mgr&^O'bxmmzifi
bt* puntava d'effere a farlo sforzato ; dtftdcrando macia, neUd quaUfenzA
l'aiuto di quelle lmgue,potef]e il popò* b }ludiare,& farft perfetto in ogmjaenzaJa
quale ope nione io non hudo, ne uitupero, perche quello nonpofa fo,quejlo non
uogUoìdico follmente non effere Hata hene intefa da uoimde la deUberatione
uoiìra non hauerk origine ne de£t4Utorità 3 nc delle ragioni del maejiro Pe*
retto :m àalm&ro appetita ì hqmlefeguite quanta n'aggrada, che
altrettanto iofaròdelmioiéhefcl «ag- gio, the io tenga, è più lungo cr piti
fatkofo del «oSroì ptraftenttar* non fjajluanoiO'd fine delk magioni* ti a
buona albergo fmo 3 quantimqic Sa no, mi condur* ù, B £ m, Mefier LdZaro dice
il uero,& u\ggiungù cbe'l Peretta in qucll'hota{comefime pare) attuto del
le UngueMuendo ricetto ali* phibfophk,et altre /imi li fetente. Perche
po\ìo,che uerafu kfua cpmonr.zT cofì bene poteffe pbilofopbareil contadino, come
il gen (fl/7«o»io,er il Lombardo, come il Romano; non è però the in ogni lingua
egualmente fi poJ?rf poetar eg? crare^ tonciofiacofa che fra loro luna frn pia
et meno dotata de gli orn ament i della profa, er del uerfojbe taUra non è. ha
cjualcofafu tra noi difputata da prima, fenZftjar p< role deBe dottrinexT
eome albera ui difìi,cofi uì dico di nuouoìche fe uoglia ut urna mai di
comporre o canzoni; c noueUe al modo uoiìro, cioè in lingua, che fia diuerft
dalla Thofca>ìd,etfenza unitateli Petrarca, o Boccac tioyper duentura noi {irete
buon cortigiano, ma. poeta,o oratore non mai. Onde tmto diuoifi ragionerà,ej
fare* te conofeiuto dal mondo, quanto k usta uidurerà, ey no più ; < ociofta
che la uofbra lingua RotiMiw hébk uerti tt forili piutoBogratiofo, cheghriofo.
Dialogo della rhetorica. Valerio, Brocdrio, Soranzo. A l. Horrf mentre,
che noi ridiamo,?? giuochiamo o Bro cardo Jl Cardinale Don Her* cole col
Friuli, e col Nauagc* ro,w cafa de lambafciador co t armi, dieno effere a
quejlion* dijputado fra loro detta nojìra mrnortalìtkq-im forfè n'iettano, ej
duole loro il nofbro tardare, perche a me pare, cbcfenz* indugio niuuo noi
andiamo a trouarlikqual cofajhieri diferainful par tir fi da lorojagionduamo
diàouer farext quello, fenoli penaltrofi atmeno t percbe il soràio fludiofifìimo
gioua ne,©" no bene ufo difoler perder te fuegiornate,delfm iffer co noi
coglier poffa alcun frtitto.w pur otwxt joU l.tZZo.'B r o. Io ho openiane*
cbeiefferprefente a loro dotti ragionamenitfarebbe indarno per noixociofìa t
cht «Ut nojbri fludij mal fi confaccia k questo dijputata.per chepiutofìo
configlierei,chefra tui,cofa parlando, (he ti conuenga,fì comoartiffe qwcjta
giornata* t /ìa la co/a, qtule il Soranzo U eleggerai al cuiferuigio il prww
di, che iol iQnabbi t di tutto cuore moferfi, et offero hoggi, (ytuttauia. Val.
Dite-id^ueo Sorarc?o,aò che ut parcchemifacciamo, chelparer ucftro d'mbidue noi
uotenticrifijeguarà. S o a. Forfè accettando le uoihre offerte farò tenuto
profontiwfo; ma a mio danno non io fdrò. Quiftaremoje egli tdpidce, w a phdojopbi
io fbc cular rimettendo,dcUa ulta ciuile,nolha humana profef*
fione,dìquaittodegnaretc di [duellarmi. Chiamo uiuci* mìe nonfoUmcnte la bontà
de cojlumi col morahnete o per ore, ma il parlar beat a beneficio ddl'haucre.,
delle ferfoneg? deKbonore de mortali: Lt qua! cofa perauentura è utrtu non mcn
bella infe jlefi^omen gicucuole al li bumankjJeUa prudenza, et detkgwfiitUi ma
in m* siero difficile do poter effer'apprefdst effercitata da noi tbenuUdpiu.lo
ueramente quato ho di tempo, cr dOnge gtìo uohntmi tutto dono dllo jìudio dell'
eloquenzdMcbc faccio $arte leggendo, parte fcriuende ; er quei precetti
tdempicndo^he CICERONE (vedasi), ey Quintiliano con meli* cu ra lìudivrono
d'infegnore : eoa tutto ciò io non nc jò nuU k ; nefo s'io fyerifaperncjcrm.,
rj legga quanto io mi troglker ciò è, perciobe a me pare t cbe iprecettìdeSar
te loro fono infittiti i e7$<$é uolte (òche io m'inganno) f uno aSdkro fi
contradice : io giudico, Cicerone tfferc fitto oratore moka miglior, che
Rbetore:fì come quel* b,cbe meglio parla,chenon ci infogna a parlare . Oltr4 di
quejlty, io fono in dubbio fe Torte Oratoria deSd Un* pia Latina fi conuegno
con Poltre lingue, jbetuimaitc con la Tofcana,die noi uftamoboggià > nel
quale io ho opinione che a dilettare alcunmamnconico, mutando il Boccaccio
gualche noueUéft pojfafcriuere fenzdpm co fa ueramente ditterfa dalle tre guifh
dicduje .; le quali da latini fcrittori fola, cr generd!t materia deUd loro
arte Rhetowa fi nominarono . Do quejH adunque, rydaah* <C tri tdi dubij,
che di continuo mi s'aggirano neu"inte n etto t infm bor j. non ho
trottato chi mi fuiluppi ; che di miti, che io n'ho pregati più mite, a tale
manca ilfapere, a U le il modo dellinfcgnare : mi affai nefapcte,er d'ogni cofa
da uoifapuU con bcUo, er difereto ordine [lete ufo.* tidiragionare.
percbe,hora, che uaipottte,io ttiprego, che de precetti di cotale arte, quanto
a uoi pare, che mi fu lecita di conoscerne, liberamente mi [duelliate. V Ala
Cerio egli è il nero quel che uoi dite, cheli Khetorica è buoni parie di nojtra
iuta cmU ; fenZA là quale rimane mutola ogniutrtu : ma ella è cofa da ogni
parte infini* t a, er è difficile parimente il tronarui cofi il principio, come
il fine, quindi ddiuiene, che Cicerone in molti fuoi libri parlandone, mai non
ne parla in un modo : come e Adunque pojiibile che dWimproiafo in un giorno,
tale& Unti arte vii fu mojìrata da noi ì Bróc. Quejìo è cofi imponibile m
lo dimanda il Stronzo, ma alprc ferite tf una parte dì Uì, er fu la parte che
uoi uorrete, famìgliarmente parlando, è ben degno che'l campiacia* te. Vai. Io
per me in quanto poffo pronto fono d douerU piacere > dicale? chiede ciò che
a lui piace,ch'io ne ragioni. S o tL.Miodifiderio farebbe da principio face»
doro/, (fogni fua parte infmo afta fine mformareùkbe effere non potendo,
ditejni almeno una cofa, cioè,chefetf do ufficio decoratore il perfuader
gliafcoUanti dilef tando,infegnando,rj mouédo,ìn qual modo di quefìi tre, più
conueneuole affarte fua con maggior laude dife, re chi ad effetto il fua
diftderio .Val. Molte cofe in foche parole mi domandate; onde io comprendo j
che piu fapete dcSa Khctortca, che non ui atunza impararne. La quefiione è
bellif?ima,aMa quale non terminando* me dijputondo rifonderò.
Voiopporecchiateuinonfo* Unente od udire, ma a contradire : cr cefi ficài il
Bro cardo, il cui parere nella preferite materici perauentura farà diuerfo dal
mio. B r oc. Senza altramente poi* faruijl mio parere fi è, cbe'l diletto fta U
uertu deKord* tione,onde ella prende la bcttezzd,zr U forza d perfua* derechìl
accolta : che poflo cafo che f Oratore, quanto è in lui,habbia uirtu
£mfcgnare,ct di mjiiere,infinitifon gli accidenti, dalli quali impedito non può
fornire a fuo ufficio. Ciò fono U bruttezza del corpo fuc,U dijpropor tion
della itoccj.i mala fama del fuo cliente, h dtshonc fladclla confa, cr
finalmente la (lanchezza de glt auditori, li quali lungamente fiati attenti
alle parole de gli auuerfarij,fchùà fono daffofcoltare : fenza che il fuo nome
altrui ad ira, a mifericordia, o ad altro affit « to coUle, dee effere co/a non
sforzala, ej per confeguente noiofa 5 ma fornmamente piaceuole a quel cotale,
cui egli muoue, ©" jojpmge . Segno ueggiamo, che A precettori dell'arte
non bafiando il darci tonofeereinge nerale in qual modo lOratorria poffentt di
comouere li noftri affètti idiflintamentc quali fiata i coflumi de ighuani,
uecebi nobili, itili, ricchi, c poueri cidi* moftrano : itile nature de i quali
con bell'arte tantedet* to lor motùmento uomo cercando dtaccommodare .
Dettinfegnare non parlo, che non ha il mondo la mag* gior pena, che [imparare
mal mtontieri.quefìojàoe grìwto, che fi morda, fofferc fiato fanciullo, cr
f>l* fb io,per quel ch'io prono al prefente mczo vecchio Jì co me io fono ;
che mai non odo il Koinojne leggo Bartolo, c Bili) (il che faccio ognigiorno
per compiacere a mio fière ) ch'io non bclìemmi gii occhigli orecchilo ingcgno
fflio,©" lo uitamia condannata innocentemente afa ucr cofa imparare, che
mi fio noia il faperhMdarm adu que iinfegnare, 0" dì moucr non dilettando
ci fatichi uno i zi dilettando fenza altro(quanta è la forza del com
piactre)ftasno polenti di perfuader gliafcoltantitripor tondo U difiato
tintoria non per forzarne quali merito di ragione, ma come gratta a noi fatta
da gli afcoltanti, per quel diletto, che nelle menti di quelli fuol partorire
Torà* tione ben compojìd, ©" bea recitata, E f ucr amete quella ì buono
Oratore, il quale parlando £ alcuna cofa princi palmcntcnon con U confa
trattata, fi come fanno ì philo fophi,mo con tarbìtrio^ol nuto&col piacere
degli au* ditori,tenta,cr procura dì convenire,qucUi allcttando in maniera, che
altrettanto dì gioia rechi loro loratione la otte eUamoue, ©" infegna,
quanto fare ne la ueggiamo mentre ci lo adorna per dilettare . er queSio è
quanto mi par di dire nella prefente materia . Val. No» pen* pie dtcofi tatto
ifbedirui dalla imprefa già cominciata, the le ragwtJJ,efw ci adducete, quelle
meglio non diflm* guendo, nonfonbajlattti di farne credere fopenicne prò polla,
adunque egliè meflicri che in qnefla confa medefì* ma argomentiate altramente
:ilche fatto, perche al So* rmzopienainentefcÀisfocciatejpmmimfacédouitCoa
bello ordine mofhrarete in che modo, er per qual uia prò udendo coté uicà del
dilettar gli afcoltanti poffa acquifiarft f orario)» uotgare : che a tal
fineife io non ntingaa mìgli udimmo fjre kfm dimanda. Broc, Molte fon le
ragioni, per le quali fi può Koftrar chiarantnteipet fetto Oratorcdilettandopiu
che tnfcgnxndo,omouenda ti fttóttfficio adempire: te quai ragioni, {Indiando
dejfet brieue,perche a uoi pia tojlo il douer dire uemffe,dc(ibt rai di tacere
s ma fé mi o Scròto, cotanto difiderate (fòt lèderle, er ciò ut pare che molto
bene al fatto uojiro per Ugna io che ne parlo per cMpiaccrtà aclentieri
incornili darò i quindi ti principio prendendo j che la Rhetoriat non è
étro,cbe un gentile artificio d'acconciar bene, et leggiadramente quelle parole,
onde noi buominifignifi* marno Um (altro i concetti de nofìri cuori. Diremo adu
que, che le parole nafeono al mondo dalla bocca del noi* goderne i colori dulie
herbe ì ma il Grammatico <fWf Orator famigliare t quafi fante di
dipintore,queBa decada* Cr polifcctonde il macjlro della Khetorka dipingendo U
ucritiyparlit er ori a fuo modo. Che cofi come col pendei 10 materiale t
uolti, er i corpi delle perfonefa dipingere 11 dipintore la natura
imitando, che cefi fatti ne generò s cofi k lingua decoratore con lo flilc
delle parole bora in Senato, bora ingiudkio, bora al uotgo parlando, ci
ritragge la ueritÀ ila quale proprio obietto delle dottrine fyecuUtiuejwn
altroue che nelle fcboleg? tra pbilo* fophi corniciando ; finalmente dopo alcun
tempo d grufi pena con molto fludio impariamo .Ut è il nero, che coji come a
ben dipingere Ut mia effgie,è afpti il ueder>ni,fn Za Altramente hauer
contezza de miei coltumi, o lunga* «ente con effo meco domfkarf: » dipingendo
l'artefice DIALOGO miffabra cofa di me.faluo U ejhrema mixfuperficie,nota
agli occhi di ciafcheduno j fmitmcnte a bene orare in o* giù materia ball<i
ti conofecre un certo no /o che detta tic ritk che di continuo ci jia innanzi
fi come cofa, ti quale ne i nofìri aitimi naturalmét e difaperk itftderofi, fin
di principio uoik imprimer Domenedio, Può bene effere, tyfbefic uolte adiiuenc
che la ignoranti* del uutgo f 0« rotore afcoltando,colga in f cambio cotale
effigie dipinta, lei ifìimando U uerità ; non altr umente per anenturd>chc
l'idolatra plebeioje dipinture^- le 0atttc,nojkc buma* ne operationi s f accia
fuo Dio, er come Dio le riuerifed* Può anche ejfere che Foratore ori a fine
d'ingannar le. perfonerfando loro ad intendere, che'lfuo diffegm fìa il
uero,non del nero ftmilitudìne ; nclquat cafo quello coM lejnon ofìante il fuo
ingegno merauigtivfo, meritarebbe, che fi sbandiffe del mondo itydift fatti
oratori fi deono intender le parole di chi biafima la Khetorka ; cioè colo ro
che ad altro fine la effercùancyhe tindulìria ciuile no U fermò. La qual cofi
no pur a lci,ma a qualunque altra più honoreuole,et utile arte è tra
noi,facilmente intrauit ne.Uora al propofito ritornado, certo per le cofe già
det te, in qualche parte no fìa difficile il giudicare la queflian coiiiweiittJ,
percioebe Cinfegnare, il quale è jtrada alla uerità propriamente parlandolo è
cofa da Oratore; piti tofto è opra diUe dottrine fpectdatitte; le quali fono
fden Ze non di parole, mi di cofe, parte dìuine, parte prò* dotte dadi natura .
Kelìa adunque che noi tteg giamo quale ufficio f ìa più proprio deli"
Oratore trai ddstta* re, zi d mouere, fi mamme, che innanzi tratto; un COROLARIO
inferiamo ; cioè, conciofia cofi chel perfetta Oratore tuie fappia,qual parli ;
e quale in fegna tale imm par affé i troppo ora chi ha opinione cbe'lfuo
intelletto^ che non fa nidla 3 fìa uno armarlo d'ogni fetenza : non per Unto
fempremai in ogni età rari furono non pur li buoni ma i mediocri Oratori ;
ertili nofìri fono ronfimi ino gm lingua ; fi è coft diffìcile non follmente il
faper bene U miti, ma ii pxrcr difaperk, Hor di quejìo non più i er aUe l te
del diletto, et del mouimento conferiate che io ini riuolga .
Certo,nattfrabnente parlando,ogni dilettofièiHomnentojna. in contrario, fiando
ne itcrmini di quella arte, ogni Oratorio mouimento è diletto; concio», fu cofi
che'l perfetto Oratore muoue altrui non per fcr za, er con uìoknx.4, in quel
modo che noi mouiamo le cofe graia aRinju, o k leggieri a!? ingiù ;md fempremai
muoue ha cotifome affindination del fm affetto : U* <jiol cofa non può effer,
che non glifia altra modo pù* ce«oJr,cr giowfi molto i ne ad altro fine ( fi
come dian* Xt io diceua)da maefhideUa Khetonca fono dijìinte. «•mutamente le
dijhofitioni degli ascoltasti : i cui affet» ti col mutamento della fortuna, rj
degli anni fono u* fati di ttarùrfi ifalxo, accioebe tomfeenda il buon».
Oratore otte pieghino k pacioni de petti lpro,iui col ut* gore delle parole
(indie, ©" f enti dì ritirarli. Et per «r (o,fèl mouimento rhetorico fuffe
Saltra maniera } ogni mgenua perfona come sforzata, ty tiranneggiata dall’Oratore
mortalmente Codiarebbe : ne pofp credere che ninna Kepublica, bene o male
ordin.it*, fol che tJU tmajfe U l/bcrtà, comporujje 4 fuoì cittadini befferei*
SI 4 Urft in una arte; con k quale non porgli equaU,m i mi gijbr-ttiiZr
le leggi loro di dominar stttgegniffro . Re* jta a dirut in qttal inoliti
diletti tal mcwmai ù, er onde uegm cfje*/ diletto che ne gli afitti dcUbuomo
partorii fcc i'orotiùne,fia muramento appellato: che tutto che co* taitofe
paiono alquanto più pkfcefoWie . ck orione, tttttauia egli è hello ilfaperlt;
miggiormenle Se alla ma tem di che partiamo, grandemente fon pt t'inaiti . Mi
deUa prima brievemente miefbedirò : Che fi come i^di* pintore, or il poeta t
dite artefici il? Oratore fmbùnti, per diletto di noi fanno tterfì, er imagim
di diuerfe mi* nieraquali hombili,quai pkceuolì,qtat dolenti^ qud liete *po/i
i't buono Oratore nm folamente con le [accie, con gli ornamentici co numeri, ma
ad ira, ad odio or ai inuidia mentendo, fuol dilettar gli afcoltanti . lo
ucramen te mai non leggo in Virgilio k tragedia di ElijajVìo no pianga con
effofeco ilftto mah;non per tanto eonfideran io con che gentile artificio ci
dipingefp il poeta l'amor fuo,et k morte fua : cofì uinto, come io mi trotto
d.dli pie tà,non pofio itero che fomm&ìientc allegrarmi ita qual cofa non
dee parer merauiglia a chi per troppa aUegrez ti alcuni uolti fu cofbrctto di
lagrimare . E ti uero che una tallettione è polènte di più, or meno
commettermi, fecondo che et più t er meno fon dijhojh a compaflione t ma in
ogniguifa più mi è agrado il lagrùnnr con virgi* Ito, die non è Under con
klartkle : Md tornando oSl* rottone,ame pare che in quel modo 3 cheti trafitto
dalli l 'aranti pudendo il fuono coniteniente alfuo morfoji le* uifufo i er
filta tanto fin che fbwmor perturbato fi rifolitc in [udore er qaafi marefenzà
onda queto flafii nr! Iwcgo jtto ;/MHfciiefiff><UJc parole d'uno Oratore
eceet* lòtte ntoffo udirà alcuno buono «r(icondo,nonfenz<t mal to piacere
sfoga il cédo f cbe k complelìione naturale, o altro tirano accidente gli tiene
accefo nell'animo ; il quat piacere.perciocbe nafee da cofa per fe medefxma
óifpk* ceuole,et noiofa moltOtcbc non diletta,fe non per queU4 conformiti eb'è
tra lci,ty l'affetto deWafcoltanteila quaì cofa mafie PbikRrato effóndo Re
detta fm giornata i « comandare a ciimpagni, che di cokrojcuiamorimiferé méte
fìn'mmojfi ragionaffe)perb è ben fatto ebe proprii mente park ndo,taipmere non
diletto, nw mournié to ft& nomiìuto'a cuinatura odioft.acciocbe a litigo
andàe non « fi (àcckfentire i ty altrotanto per feci annoienti* to dinar zi nel
conformar fi aWaffctto nedtkttaua(concia fia coft che corta fìa k concordia
delle cofe non buone ) pere uolferoiKbetorkbe l'oratore bricuemente,^- in pothe
parole fe ne doueffe efpedòrt.Mtnel nero il diletto di l mouimento è coni un
rifo nato innoinondi uerà atte* fktIBtijm di foUetìco ; il quale continuato da
noi final» mente in doglia,cr foafmo fi conuerte . Md le facetie » ì
motti,kfcntemie,k figurej colori,k elettione, il nume» rorfilfitodcUeparole ;
l'ufeer fuord delkmateria, et al quanto,a guifa d'buomo di fokxzo
difiderofo,per logkr dino dell'altre cofe uicinegir uagando con l'inteHcttofo*
no cofe tutte quante per far natura fommamente pìaeeuo li i nelle quali di
continuo non altramente fuol compiacer fi k nofkd mentCiChe degli odori,de fuoni,
er de colorì materiali fi dilettino ì fentimenti del corpo. V a l. Fera
tutetà tnatetà m poco o Brocardo, mentre ancora ( benché di kmge ) noi
feorgiamo l 'entrata del cominciato ragiona" mento,z? innanzi che la
dolcezza deldtlettog? del max fttmento tratto ultracorte più altra yio at
flagrate d'in- dire eiòy che ante pare di poter dire con uertta de gli *f*
fettig? de movimenti di quelli: perciò cheto ho per fera ino, che f Oratore
principalmente habbkatra non di co movere, ma £ acquetar le procelle, che neUe
parti pia bajfe de nofbri animi, Ora, fottìo, er la màdia (uenti contrari] al
fereno deJkragionc ) fono ufatidi coautore; 0- ciò può far l Oratore non
folamente nel fine, ma mi principio del fio fermane jnutando foratone, chefe
Cefare nel Senato a [onore de' congiuntati prigioni. E k il Vero the quello
iiìeffo Oratore che ha uirt* di rafferend re, può turbare i fentimeni: ma chi
ciò face,o è perfom vittima, che male adopera lo [uà fetenza > quafi medico,
che auelena gl'infermi ; o è di farlo corrette, fendo coft mbojjibilt il torre
altrui fèdamente dallo ejlremodel* f oiioit? nel mezo della ragiaue riporlo,
fenza alquanto fargli jentire dell'altro efìremo contrario, La qual cofé
auegnadio che ver afta, non per tanto, uolgarmente par landò, fìamoufai Udire
efjer proprio deU" Oratore ìt cominoiter gii jifeta, fecondo il qual modo
di faueUare fece il Soranzoùfua dimanda :percìocbe il mouimento
èautÀgaripmnoto,a'pareopradimagporforzache la quiete mnè: fenza che la maggior
parte de gii Or j* tori orano apnc non d'acquetare, ma di commouere gli af
cattanti. Io iter amen te per una terza ragione, ho api mone, che ali Oratore
{hu portegna d commouere, che tacqm^ tacqttetare iconcioftacofacbe
iartefua non fokmente turbando(ilche è noto per fe medeftmo ) m componete
dogUaffettì t queUimmua > a'fofp'tngaìche grandifiima noientu deeefferqueUa
decoratore ne nofhri animi» qtulbora a benfare ne perlmde,cofaoprandù con le p4
role in unahor^che inmolti anni utrtuofanentc uiuen* do,a gran penartele
acquijiarfi il pbtiafopho . Hor ne* dete hoggimaific k R betono* è atte
comeniente atta ci ittita della uita,cr aUa public* libertà) cr fe ilcommottcr
gli affètti è operatione piti, ometto aU 'Oratore bonore* itole de$infegnare,w
del dilettare, Eroc. Certo fe il mouimento oratorio fuffe tale, er ft
fatto,quale dianzi il defcr'iMuatejmakfecel Ariopago a divietarlo agli Athenkfi
i maio non uedoebe egli fiatale, confideranno the Foratore nel trattar de gli
affitti, ponga mente pili tofio aUa etagj atta fortuna che ciperturba,òealkr4
gione,cuifola tocca di temperarne . Ma pojìo cèfo che eofi }ìa, come mi dite,
io ho per fermo, che cofi come per le ragioni già dette concludemmoicbc la
dottrina del foratore a gli afcoltanti infegnata non è (denta di ueri td.nw
opinione, cr di nero Jhntlitudwe,fmelcmentc k quiete dcfeiitimeiiti,che negli
animi bumani fuolgene rarela Grattane none umii,ma dipintura delia, uirtu:
eonciofia cofa che U uirtù è un buono babito di cofiunù, ilqualencn con parole
in ijlantejnu con penfieri,or con opre a lungo andare ci guadagmmo . Wrf
accioche non creggute che U buona arte Rhe* torica di tutte Urti reinajia una
eerta buffonariadd far ridere t benché egli tibabbhdi queUi chealk cucina cimi
la^imigliarono) noi douete fapere, che dd numero dcu"arti,altre fono
piaceuolij^ altre utili : quelle fono le utili, le quali communementc nominiamo
mecanke: delle piaceuolt parte Im uiriù di dilettar l'animo, parte il cor» po
delle perfonew parlando più chiaramente pjrte il feti fojparte la mente fuol
dilettare. La dipintura,et la rnufì* Citigli occhiagli orecchi'; gli
unguentari},il j;<j/ó i! cww co, li gujìo j er la Jiufa ccn la temperanza
del c.ddo Ino, tutto l corpo con magHìerio piaceuolc,fono tifali di con*
fortareittu te artiche Ciiìtdletto dlcitano,qvMtù al prò pofito fi conuiene,fono
due ; cioè rhetorica cr Voefta: le quali, muegnadio che altramente che per gli
orecchi paffando, non peruegnano aU\ntelletto, nondimeno perciò fono da effer
dette intctkttudi, che elle fono arti deU le parole, ijkometi deltinteuettoi
con li quali figmfìchia tao lun tauro ciò che intende U nojira mente. Certo del
la «o£rc,cr de fuoni è la mufìca, con la quale annoucrando igrauijzr gli acuti
} quegli in manier4 tempriamole diuerfì ( fs come fono ) jì congìungono infieme
a generar thartnoniaxhe non pur noijma moki bruti animali muo* «c,CT diletta
mirabilmente; ma la Rbeloricajy la pot* fia fono artifici] delle noci de gli
huomini, nocome gratti C7 acute t ma propriamente come parole, cioè in quanto
elle fonfegni delTinteUetto, quelle accordando fi fatta' mente, che ne nefea.
una confonantia, U quale, metaphoriamente parlandola primi rhetori al numero mufteo
dflimighandola, numero anch'effa fu nominata: fcnxA d qital numero,non è
oratione la erottone; er col qml nu* imo ogni mlgarttet inerudite ragionamento
più hauer nome ioratìone. Ma quello è punto ì che aben uolcrlo
mm0are(conciofucbe in Mfolo,quaf in contro /ir* mifiimo, è fondato il dìfcorfo
di tutu Urte oratori* ) c mefòeri che un'altra nolta per altrajìrada noi ci
faccia tuo da capo,conftderando che tutto ì corpo detta eloquen tia quanto
egliè grande, non è altro che cinque membra, CT non piu,cìoè parlando
latinamente jnttentione,difj>o* fttione, elocutione, attiene, CT memoria .
Infra le quali, finta alcun dubbio la ebcutioneè la prima parte, quafì fuo
cuora effe anima la chiamafihnon crederei di mentire: dalla quale, non
chealtrojl nome proprio della eh* quentìa, comeuiuodauitauien deriuando . Et
per certa la muentioncjty dift>ofttione,fono parti che alle cofe per tengono
: le quS ritrattate nelle feienze uà ordinando U erottone } ma la terza, per
quel chefuona il uocabob,i propria parte delle parole, le quali non à cafo, ma
eoa giudicio eleggiamo,*? dette leghiamo. Adunque aiate* gna che la elocutionc
fia un terzo membro della chqitett tia, iiuerfomolto da primi duci nondimeno
ella è fuo membro fj principale, che netta ifleffa elocutione nuoti*
inuentìone, et dijpofitionc oratoria ut fi poffono annouerare. etctoè, perciochenon
ciafehedma elocutione è or* toru,anxi in ogni linguaggio «vite fon k
paroltjequali ttilitroppa,o uabgari,o afbre,o uecch'te, umciuile per* fona
mninfmtofi in gtudicio, m con gli amici, cr co' famigliari parlandoci
guarderebbe di proferire: etguar derebbeft fxcèntnte fenxA arte adoperare, foi
che un tempo dèh fu uiti con gentili^ difereii kuomwifuffe ufato di conuerfaram
le parole gUruromte dfikhcbia fe,& fotmtijporreinftemeycr otte prima ddfe
mdefime <tUc cofe fignifkite faccomodawtno, hor trifefìeffe gli decenti
loro,cr le loro fiUibe inmuerandoyidmark è «-ti/few: it quale folo,o primo fa
Orator lOrat ore. Et ttenmente,fc quello è nero che io trono fcritto né"
Rbeto ri, ftmtentione,cr dijba fittone (fette co/e effere opri più toflo di
prudenti, cr accorti huomini, che di eloquenti Oratori Job il [ito Me parole è
tutta Ixrte Oratoria: onde tutu è k quejìione del dilettare, del mettere, cr
AcU'infegnire . Che, come il mcttere,& Sdegnare fono frutti cCinuentione,
le cui parti fon proemio^arrattone, diuifione, eonfìmationc, confutinone, cr
epilogo; cofi il diletto fi dee dire opra deUi Oratoria elocutione. "gorfe
io u annoio mentre con le parole ualgari, k Ixtine, CT le greche uà
mcfcolxndogr contri quello ch'io ui di* teua pur dianzi > non difecrnendo
frale parole come io U trotto coft le ammaffo, cr confondo. Ma che poffo iot
cèrto qucjti è colpi de nofki padri Tbofcamjt quali fion curando k cofe grani,
che aUedottrmepertengono, follmente deUeamorofe con nouellettt, cr con rime fi
dettarono dt parkreiben u y hi di quelli che fumo arditi in tentar le fetenze^
pochi fono,crfeit&t fama ; CT fi anticbiycbel ngionarne co' uocaboli loro,
per la loro UtcchiaXi, uta più jirani che i Latini non fono, fareb* he opri
perduta . Io uermente qualunque wua in uece ài njtrationcii amftrmdtme.cr di
confutarne, diui* [mento, confirmamento, cr dif ermamente dicefii, me tnedefìmo
tra gli intrichi di total nomi facilmente rauol perei m marna* ebe in qudparte
Sortitone fidjc intra. topcr to per ragionarne, potrebbe effcrcbe io r,d
fcorclifii . F, v adunque mn mule iìrkorrere a forrejìicri, le cuiuoci
intendiamo, che a mftrani che non i'mtcnàano,imàando i Latmìi quatt dd padri
Grechi le dottrine,?? le parole prendendo, ferono lor priuitegio di poter tffer
Ro>w« ne cornetti in lor feruigio le adoperarono .Val. Infitto a qui uoi non
ufajle parola, che alcun uolgare a fiottandola fe ne douefa merauigUd re: ; ma
procedendo pinoltrit uoi incaperete in concetti che ragionandone, a volere
efiere intefo, uifid meflieri di proueder di «dei* toh, che a gli orecchi di
Italia fi confacciano un poco meglio, che t Latini non fanno, B k o c.
Ragionando con efio uoi netti prefente materia, la cui mente di gran lunga
lentie parole preuiene, non ho paura di doucr dire ucabolo che peregrino to
ejitjlimiaie . Val. kvxgnadio che delta arte oratoria tra mi pochi, et con jtiUrimofio
molto (quale* camera fi conmene > habbiate tolto a parlare: nientedimeno io
tri configlio, che cenquetTammo, er in epteimodonefautUiate, che
mifartpejeinprefentia di motti cofi dotti, comeigno untine ragionafte;
laqualcofa perauentura auerrà t perciochtl Soranxo Mgentifiimo gnardatort de
ho* fhi detti, quelli in uno raccoglier k, CT raevUì, non pò* irà fare che moki
just amici diftderofi di novità, non ne faccia partecipi .So% Certo m fui
partir di Vincgia mio germano mefier eteronimo grettamente mi comandò, che
mentre io \\efiiin Kotogna, d'ogni cofa^he h giudicaci notabile, ne lo donefit
auifare, er botte fot* to infttìhmspenfate qutUhe io fatò permmvdicoft DIALOGO
tmbit r<tgtonmento:dopol qua^permio gtudkb, um* ito ì
Papi,ctgflmpcrddorì.B boc. Ben conofeo meffar Gieronimo, atk prefenza dd quale
ne paroline oprc,fe non elette jion fon degne diperuenire . Ma noi Soranzp
foche fare ilpotrejle) farcjìe bene, detto che io xrihébk mia opinione,queUa
jlelfa con altro jìilc di feri uere,che non V udite dame; che una coft è il
pastore prk «diamente,?? dà omico,fi come io fdfeio con ttcixt altro, i lor
fmuere altrui d perpetudmemork de paffati ragio- namenti .r?ncl aero,fcciò
hauefii penfato *thor, the fejle li qucjìione.Q io taceua del tatto, o cofì
tojio non r| fbondetm cbelcpdrote>a' le cofeche a cotale arteper' tengono,*?
foprd tutto il porle inficine, con heUo or« ime ckfcheduna afuo luogo
dijliutamctc efbticareèfat tura di motti giorni, non d'unbora, o diàicsna rio
errai neWmcomnciare, forfè net perfegwe tiimaidarò, Se otte io pen fitte
hoggidiaìqnanto ufctndo detta mteritt di tutta l'arte oratoria (che ch'io
nefappk) Ifaermcnte- parkruiiadoprando quelle parolesou le quali tw Latini
frittali '.ftitdki d'imparark i bora alcune poche cofette^ che al fitto
mffroccwengonojwieucmente percorrerò: coft ài un tratto pagarò il debito del
dmer dirui mia opi Bi«te,et ddftQgli dth)e parole latine, nelle opali d lungo
Mudare il parlamento fi ramperebbcbelkmcnte miguar dirómpili faggio nocchiero
di me kfeiando k cura di do utrfarefi perigliofa «àggio, nùque al prcpofito
ritorni do,bécbe diati ftcÓdo i rhctorijo ui dicefU £mfegnarc,e U mauere effer
due opre d'muentione conciofiacofa che
quoto motte il proemio,®- [epilogavamo infegtia la tur rottone,
ratione,et cottftrmatione ; nondimeno mutando in meglio mi* openione,cr cofa a
coft proportionando j a me pare di douer direbbe impegnare propriamente alia
dijj>oft* tiene portegna ; tome in contrario k confufion delle cofe ci
partorifee ignoranti, Adunque [empremai col mo lamento la àutentione, et con k
dijfccfitione Cuifegnare > dm il dilettoci che parliamo, con lafua madre
clocutio* ne,forma,',a' aita dell'eloquenza, meritamente accampi gnarerao.
Quindi pacando alle treguife di caufe dall'O rotore confìderatcg? a tre jìiU
ucnendo,cioè che tre mo di di dbrejuna aU "altro con mijura agguagliatilo,
io li con giungo in maitiera,cbe la ciufa giudicale, cui è proprio la grattiti
dello jlilc,al mouuncntow inucntvmeJa deli beratiua coljuo }Ul bajfo,&
minuto alla dtfbofitìonc, cr aUo infegnarcuuimamente la caufa dimojiratiua
medio* cremente trattata.aUa elocutione,et al diktto,dirittamctt ttfta
ribadente. Le quai cofe m cotal modo difpoéìe,pro cedendo più oltra facilmente
fi può concludere, che cofì come tra le parti d oratìone la elocutione è la
prima, CT k caufa dimojiratiua è k più nobiie,ct più capace d'opti ornamento,
che d'altre ducnonfono&glifìili del dtre, l'I più perlettto,zx più uirtuofo
è il medmera ilquale non è auarojx prodigo,ma liberale wn fuperbo,ne abietto,
ma altero, non audace, ne piiftUxiìimo, ma ualorofo; non kfciuojte (lupido, ina
temperato,coful diletto oratorio al mouimento, ey affmfegnare è ben degno, che
fi pre* ponga . Però ueggiamo non fempre mauere,o magnar Voratore > ben
quello ijleffo per ogni parte ioratione, in ogni cauja con parole
elegàttjiudiarc di dilettarne: dqtu K le
te non contento del diletto delle parole, per raddoppiar* ne il
piacere*? compitamente addolcirne,r icone ai ge* flo^dff 'attiene detoratione
condimento, cr mele, er Zucchero foauifiimo degli orecchi, et degli occhi
nojìri, X)aQaqu<tleattione,perqueliagratia,cbe è in ki.dcpen de in gwi/rf la
uertù deli'oratu ne, che ella è nuUajcn* %ieffa;la quale fentenza da Dcmojlhene
data, E/cIn* lìt fuo auuerfmo poco appreffo con bcllaproua ci con' fermò i
mentre leggendo a KhodianiU oratione di De* tnojlhene, marauigliandofi gli
afeoitanti, bebbe a dire Ueramente m^rauigliofa effere Hata la oratione, effoDe
tnojlhme recitandola iquafi dire mlejle,Cattentioncdel recitatore potere
feentare,cr accrescer forza aU'oratio* tic j er in maniera da fe mcdeflma
tramutarla che non pa rejjè pia d'ejfa. Val. inu jrc&cfori/ Soranzo
eonfentd^ cbedikttattdopiu, che infegnando, omoitcndopcrfuadd la oratione,egli
difetta d'intendere con quat ragioni con tra la mente di Cicerone gli
protiarcfe, che la caufa de* mofìrattua fiapiu nobile dell'altre due,0-che
defliliil migliore fia il mediocre : ef per certo da due colali pre* ìmffe più
tojfofalfe,che dubbiofe^alanetcfipuo decide re U queflion dijbutota. ErOc. Qui
dfbcttaud,che inter rompere le mie parole ì fendo certo,chcctò io difii dcUd
tanfi dmoflratiua, cr delio Me mediocre Subitamente
rifìiitarejle.Peròfxppidte,ct)dppìalo anche il Soranzo» che ragionata di cotai
cofe con mufemplice narrattone, cr fenza dkmodrgomentojvbebbiinanimodich'giun*
gere infime ì tre jhU,te tre caufe, er i tre modi del per* imicretCW k tre fwM
d'erottone m maniera che atta in ucn l^O ucntione il mouimentonelkcdufa
giuàicìak t conlo jUl graie principalmente correfpondelfe : ma éU dtfeofuio ne
Fmfegnare,tiella caufa, deliberatila con lo /iti baffo:ul tintamente ti diletto
ali a docutioue, nettd caufa demojìra tiut con lo Ihlc metano propriamente
fmferiffe Al qud* le ordine da tutti i Rbetori cofi greci,come latini, effere
flato offriuto,cbi le loro opre riguarda, fidimele giudi cari laqual cofafe
eofi è(cbe certamente è cofi)uoi me de fimi per una ijleffa ragione
argomentando k oratoria. tlocutione,con tutta quanta la fchierd fua, alle altre
due partid'oraticne con le loro ordinate debitamente prepo nercte;cbs no è
honejlo ilbncn col ti ijlo agguagliarexia. il tuono al buono,etal migliorejl
miglior fliie,fwfe-,c<t« fdyCt per Jual ione, co rdgtoneuolmtfura dee
pareggiai, M a de (itli poco appreffo perauctura ragionaremoye del diletto fi
èfauellato a bajlàza. Dunque alle caufe ucnen* 4o>come io dilUjtoji ridico
di nuouo, che la caufa demo* fìratiudè laputborreuole, la più perfetta, la più
difficì le&finahnente la più oratoria,che tutina deU'dltrc due: la qual
cofa mentre io tento di dimofirarui, io iti prega, che non guardando alh fama
de gli faritlori detta Kheto rka, poniate mente atta uerka : la quale da
ragione aiti* tataro mi apparecchio di palcfarui. Perciò che altra co* fa è il
parlar di quejla arte, le ucne fue, ifuoi membri » l'offa, i ncrui, er la carne
fud dnnoaerdndo, partendo: la quA guifd d'anatomia, hi infegmtndo con Itrd*
gioii! operiamo ; cr altra cofa è il parlare oratoriamen* te al uolgo,
àgiudteio, d Senatori, <fteìUaUettando,cr mouendo iti che non faccio ai prefente
orje una uol* Ri U U(che Dio noi uogtkyjl farò : quando t ubìdiendo,a mio
padre, la «o«,er il fìtto, che ei mi donò penderò a litiganti. Hot di quefio
non più, et al propoftto ritorniamo. Io ucrmentc le tre caufe oratorie per li
lor fini, per Ufo ro ufficij,et per te loro materie 3 con diligenza confiderai
dojia pojfo akro,ée credere, che la cattfa dimofkatm fta infra tutta la
principdled cui fine è koncflà; U cui ma teria è uertù^cr il cui ufficio è il
dilettar intelletto, ®- di ien fare ammonirlo. Quindi nacque il coflunte nella republica
ateniese, publicamente ognanno queicittadi* ni lodare,iquali fortemente per la
br patria combattei dojfuffero flati ammazzati. La quale annua aratiom (fe A
Vintone crediamo}lodando i morti,® le uertti lorojut to in un tempo le madrij
padri,® le mogli confolaua he nignamente 5 ma ifrate&j figliuoli,®- i
«ipoteche doppo lor rimaneuano, a douer quelli imitare, ®- farfì loro fintili
mirabilmente accendeua . Adunque non indarno fo ìeua dir CiceroneCICERONE
(vedasi), ninna guisa d'or ottone potere efferne più ornila nel dire,ne più
utile alle Kep.di quefia una,di mojìr attua : i cui precetti bornio uertu non
folamente di farne buoni oratori,ma a douer uiuere honejìamente con bella arte
ne efortano ; il che di queUìdeUaltre due non amene ; con effe qudifpeffe fiate
guerre mgiuBe perfm demo, er uendieando le nofìre ingiuricjhor gliimtocenti
offendiamo, bor difendiamo i nocenti.Confufamente peruuentura più, che io non
debbio, uà comparando fra loro le tre caufe oratorie ; il che faccio, perche io
difidt* ro divedimene, ®-adar luoco al Valerio^he s'appre flaper contradire: mi
ambiiue col uojìro ingegno il mio difetto adempiendoci parte in parte k mie
parole d$in guerete. Adunque,feguitando il ragionmnento t etfra me jìeffo confìderando
ciò, che dianzi dicem deltoration di Demollkene, fomm<mentc daWattion
dependente Jbofer minima openione,cbe nelle caufe deliberatine, cr guidi* cidi
molto più opri la natura decoratore, cr della mate rid,cbe non ftttarte
oratoria, il cetraria è della caufa di* mojhratiud,neUd quale kggendo,non è men
bella U ora» tione, che recitando iperò ueggiamo mediocri Oratori bene
informiti delle ciudi materie, cr aiutati dattattio* ne, tj dalla memoriajn
Senato^ er in giudiciofoler par htre affai bene : che in té cafi dalle cofe
trattate nafeono in noi le parole ; le qualiconcordate con li concetti deffa
nimo, ne riejce queUa barmonia, che fa 3upir chi l'afols td.Verk qual cofa
molte fiate ne comandano i Kbctori, che non curado della uaghezza delle parole
efqmftte, ad alcune altre non coft beUe,ma proprie molto» cr di gran forza
neWefplìcare i concetti,uolgarmente parlando, ci debbiamo appigliare : ma nella
caufa dimoflratiua è ine* flierinon foLonente di concordare le parole a i
concetti^ ma quelle fcielte,ey dette fi fattamente ddunare, chepa* re a pare t
tyfmile a fimik con belld arte fi referifed :& quelle ijìefji parole bor
raddoppiare, er replicarle pia mite jhora a contrari) eògiungerlc ; imitando la
projpet tùia de depintori,iquali molte fiate il negro al bianco oc*
compignano,a fme,che più beUa&r più alta, et più ilhi* (Ire cifimojbri
lafua bianchezza- Le quai cofe,tutte qua* te fono puro artificio, ma in mdniera
difficile, che dWitnprouifo poter lodare, o uituperare eloquentemente, farette
opra miracolosa. E il uero che nell'altre due cdU f edema uolta tutta betta, er
tutti ornata ua emulando U oratione ; cioè a dire negli epiloghi, V ne proemij
i il quali proemij ; benché primi fi proferivano, nondimeno ft come co/c più
oratorie,et di «tàggìor magiflerio, gli ut timi fono > che fi compongono :
cr li quali CICERONE (vedasi), padre, cr principe degli ebquéù douédo orda rc, di
parolai» parola bnparaua^ 4 memoria gli fi man dalia. Adunque può bene
efjer,cbe le due guife, Senato* riae giudicale ftano agli fotimmi pi»
neceffarie di que* &a terza demo\bratiua;et che da loroifi come prime che
fi trattarono ) Thiftd, Corace, o altro antico Qra ore l'arte Rbetorica
i'infegnaffe di generare ima lepiuuot te quel, ch'è ultimo per origine,àuenta
primo in perfet* rione j fempremai neUbumxne oper adoni, iui è »wggior
l'artificio, oueil bìfogno è minore : eonciofiacofa, che nei bifognila nojlra
madre Naturaper fe fola, da niund arte aiutata è tenuta diprouederne. Naturalmente
con le xmpe, O* «> danti pugna t Orfeo" fi L ione ; et U damma con U
preSexx.* del cor/o /ho fifotragge aU fmgittrié. F<* ilfuo nido la Kondine ;
nj la Ragna teffendo fi pr xura di nutricar ji una noi buominicrea'ure
ciuilicontaiutodeUe parole, mefU cfegnideU'inteUet* to, con gli amici dell'
auenir configliamo ; a" raffrenai* dole mani delTìrdccndia minijìre,hor
dar.entcid noi prefenti ci difendiamo ;hor quelli tfìejii offendiamo. Poco
adunque miai caft ci puoinfegnar l'artificio ìfc non dijponere, er ordinare U
inueiuione naturale ì ma mila caufa demo(bratm non ncceffamalk wftraui ti a k
parole, le cofe col loro ordine, CT col /j(o /cw ro jóro puro artificio : il
<jMd!e /cmiiufo nefk «afwa <fc/» le due prime, cr dafl 'indujlria nudrito
divenne grande » CT neilff f er^J dcmojiratiua,quafi terza fui età, fi fc in*
tiero.et perfetta,?? coft intiero cr perfetto, non pur ititi lira la buona
confà demojìratiuà, itero nido Mfuo iplen dcre,ntà riflettendo ifuoi ràggi le
altre due pia inferiori f caldai alluma mirabilmente. Quindi adititene, che
v.ei kcaufegiudicialild gii$itia,eyleleggimoltc uolte fon laudate, erbiafunato
cln le perturba ;et ne confglidel* k Kepttblicc la libertà, la pace, er la
giuda guerra con /ornine Ludi fi effaltano ; er i tirami con uùuperiofon U
cerati . Là quaUnijlura di oratione nelle Pbilippice di DemoBbcne,neUe Verrine
et Antonimie di Cicerone,, riufei opra meraitigliofa. Finalmente Carte jet le
caufe 0* ratorie a fentùnem di nofìra uita agguagliando, ofo di* rcj che le due
prime fono il fenfo del tatto, fenzà le quili non nafceua,ne uiuerebbe la
oratione : ma la caufa demo flratiuotornamcnto della Kbetorka,è oeebìoet luce
->che fa chiara la uitd ju.tykiagr.de inalzandole nulla del* Maitre iutnon
èpofjcnte dipcruentre . Sia dimando m buono buomo pien d'ELOQUENZA,??
d'ingegnojlqudle u* feito della fua patria folo,z? mdo{quafi utìaltro BÙnteX
«e/ig.1 a Harfi in Bologna^ be farà egli deSarte fuaife e*. gli accu[a,o
difcnde,ecco un tale amocato, che uendc al uolgo lefue parole :fe delibcra,non
fendo parte deUs Re publica, i fuoi configli non fono uditi . tacerà egli, er
jiafua uita otiofa ì non ueramentc, ma di continuo con lajua penna nella caufa
danofìratiuabiafìttmdùtty R 4 lo toltitelo Ufua eloquenza
effercitara . La qttat cofa non per odio>o per premio, ma per itero dire
facendo jn poco tempo non follmente da pari fuoijma da /ignori, et da regi (ari
temuto,?? Stonato. Sor, Qkc/ìo ttojìro eh t{! lente (fe non m'inganna
lafimiglianza)è il ritratto delt Aretino. Enoc, Io non nomino alcuno; ma chiun*
quefì è,einon può efferefe non grand'bmmo,ondc ante pare, che quefìa caufa
demofkatiaa tale fid alla fenatoria, w giudidale, quali fono le dignità
ecclefiafticbe aUe grandezze de fecolari ; queUe fono naturali fucceftioni t
qnejieper propria indufbia acquisiamo . er ro/ì come un ^articolar gentWhuomo
fatto Papa è adorato da (noi /ignori, cofì al buono Oratore per la fua caufa
demofbra tiua cedono igrandi del mondo : che ilcaufidico,w il Se nitore non
degnarebbeno di guardare. Ncn per tanto jon de uegnaxbe neff altre due cavfe i
parlaméti aratori) per li lor grattiti nonfonmen cari ad udire deU'orationi
demoflratiue, non è difficile il giudicare. Perciò che ifog* getti di quelle
due fon cofe trance pertinenti parte alla uita della perfona, parte aUo Hata
della Kepublìca : wt4 quefU terza demoftr attua i uiui,imorti lafciando flare,
folmente gli altrui nomi, cr memorie, d*ogn'm(orno di tode,z? biafimi ita
dipìngendo . Adunque, cofì come il tteder pugnare a. corpo a corpo due nemici
in camifeia co le coltella affilate, è affetto non men grato per le ferite
typel ftngue, che fta il combattere a giuoco esercitato da fehermidori con
artificio merauighofo,caft te caufe ciudi altrettanto per le materie trattate
fono ufate di di* Iettarne, quanto quefìa demofkatm con Ufua arte del dire ne
recagioia,cr fotiaxzo. Quindi adiuiene(fì come dmziio dicetu)cbein Senato, et in
giudkio i medio* tri Oratori uolontieri affidino, out il difetto dell'arte col
[oggetto ali che ragionano, facilmente fi ricompenfaz m le orationi demofkdtiue
( fi come ancora i poemi ) /e «ori fon cofd perfetta,non è chi degni ne
d'udire, ne di He ocre . Et queflo batti al diletto, ey dSd cdujd demojbati
Ud-m Vderìo,cbe ccnofcctc i miei falli, ghdicateìi, et correggeteli. Val. Può
ben effer, che quel ck'è detto bdjlì al diletto^ alìd ciuf a demollratiua, ma
non balli a gli Mi,dc quali,fbecialmentedel mediocre, fiete obli' g<rto di
(duellare, B e o c. Veruna ifteffit ragione po tria parlare de gii ornamenti^
delle fomcdcldirt,o' dello flil mediocrexoneicfìd cofd che L ebcutionc è quei k
punte della Kbctoriat, antiquate,®- col diletto, cf con lo jìil mediocre
kbltondcaufd demofhriìiua fa decompdgnata da me : mi qucflaè opra d'altro
ingegno, et tfdlìriindufhridrcbedetli urna, fenza che ciò farebbe uri njcir
fuori di quel proposto, interno di quale pideque al Soranxo,cbeiofaueUaffc,
Sor. Come Brocdrdo, è fuor di propofito il ragionar dello fìile, con effol quale
Urationc genera in noi il diletto,cbt al mouimento,r? d l'infegnate facete
proua di proferìref Broc. Ocià ìfuordipropofito,oiofonfuor dimeflcffo, cr non
Cmtendo come io deurei i per la qua! cofa in ogniguifd io ho ragion di tdeere,
Val, Ecco Brocardo noi conferii' tìamo,che'l parlamento de lìili,quando a
uoipiace,in ah trofempo fi diffcrifcd.Uori(il che negare noncipctete)
infegnatene ài che nwùera ì O' quai precetti o fermando, IL TOSCANO ORATORE
[cf. Grice, “The Oxonian philosopher”] in ciafcheduna delle tre cdufe,pof* fa
ornarli di quel diletto, il qual impreffo ne noftri annui ne perfuade a
douerfarc a fsto modo :che con ul patto noi rijbemdefìe alia qucjìian del
SorM^o. Bnoc, Guardate che d dbrcofa non m'induciate, che la lingua Tofcana tri
faccia battere in difbctto,cbe molte co/è puh tio beUe,cr nobili molto, quando
fon fitte ; la cui origine è ui\ifiimd,et ripiena d'ognibruttura . V a l. Già a
feotari di medefima,per fare ogni amo urta anatomia di cor pi bitmani,cj in
quelli uedera,oue er come notte meft ne portino le nojìre madri,®' portati
cipartortfconojio fon men care te belle donne,che elle fxmo agli idioti, che té
fccreti non fanno : però dite ficur amente, che'l parlamen toma cominciato
farebbe nuUa.fe in tal fmeiton terminaf fe. B r oc. Vorrò pofeia, che
minfegnate an àie noi i udiri madidi
perfuadere, con li quali, benché molto taoff.-ndano.me al prefente fignor
ergiate sfor, %ate . Sor. Duolui t-mto ch'io impari t B r oc. Per certo fi,
percioebe attendendo aSe mie panie, noi iatparsrete quel? ijteffa ignoranza,
che in mollami con moka indultria, er con poco honore la mia fcioccbexzA mha
guadagnato : cmciofucofa,cbe i precetti ch'io ubo da dtre nonfono altro,che la
bidona de i miei dudij; con effo i quali fon fatto t Acquale io mi fono. Sor.
ogni punto mi pare una bora yebe de precetti mi faiieUutc,con U quali brutti er
uih{came diccjie)diuenti atto a far bel* la la or ariane italgare. Adunque
incominciate,(euci me am.tte, CT quanto più facilmente potete,diclmtr atemi il
itero, che non ha faccia ài uerijmile, Broc, ìacil cofa fìe Udopra-e
ìprecem,Uquali intendo di dìmojtrar uima al mio iudìcio non fon cofa,che uno
ingegno par 110 fìro debbia degnarfi d'adoperarli i però uditemi, ma con animo
d'ammendarmi, non d'imitarmi, lo neramente fin da primi anni dijìierando altra
modo di parlare, cr di fcriuerc twlgarmente i concetti del mìo intelletto, c
que* /io «on tanto per deuere eflere intefo(il che è cofa da ogiù mlgare)quanto
a fine chc'l nome mio co qualche latt de tì-a ifamofi fi tiumeraffe;ogn 'altra
curapofipojìa,aU(t tettiott del Petrarca~,ey delle cento Nouelk, confommo
fludio mi riuolgeÌJicUa qual lettione con poco frutto non pochi meft per me
mede fimo effercìi atomi, ultimamente da Dio infbirato, rkorfi al noftro Mefjer
Tripbon GabrieUe-AÀ qiule benignamente aiutato uidi, Cr intefi per fett amente
<]i<ei due autori i li quak\nonfapcndo,cbe no* tar mi doueffe,hauea
trafeorfo piu uolte . QKejìo noliro buon paére primieramente mi fece noti i
uocabolipci mi die regole da conofeere le declinationi-,et coniugationide nomi,
er uerbi Tofcani : finalmente gli articoli j prono* ttiij participif,glì
aduerbii,^ l'altre parti dtoratìone di* fiìntmentc mi dichiarò : tanto, che
accolte in uno le co* fette imparate, io ne compofi una mia grammatica : con la
quale fcrìuendo, io mi reggeua : in maniera,che in po* co tempo il mondo
m'hebbe per dotto, ty tienimi anche* ra per tale. Sor. infmhcra non dite
cofaxbe ci peti* tiamo ^udirla icr cofifbero the dek'auanzo atterrà, fe
colmaefko,eycon gli autori antedetti d'impararlo ut configliajle . Bkoc. Dunque
al rimanente ucnendo, poi che a me parue ieffer fatto un foknne grammatico,
DIALOGO tonfberanzagrandijlima di ekfcheduno,cbe miconofce m,
io ini diedUlfar uerfiiaUbora pieno tutto di numeri, ài fententie,pr di parole
Vetrarcbefcbe ì er Boccacciane, per certi anni feicofe amici amici marauiglhfe
. po* fck parendomi,ehe la mia uena iincmtinckffe afeccare ipcrcioebe alcune
uoìtemi mancaua i uocabott, er non battendo che dire in dmerfi fonetti, uno
ifleflò concetto mera venuto ritratto ) a quello ricorfì, chefe il mondo
boggidi ; er congraudifiima diligenza feì un rimario, o vocabolario «algore:
nelqualeperàlphabeto ognipa* rok,cbegk ufarono cjueftc due,dijiintamenteripofmy
tra di ciò in un altro libro i modi loro del deferiuer le co* fegiorno, notte,
ira, pace, odio, amore, paura, jberan* Xst, bellezza fi fattamente racolfi, che
ne parolaie con* tetto non ufcitu di me, che le NootSc, er ì Sottetti foro non
me nefuffero effempio. Vedete uoi boggimai <t qual haffex&t dijeefi ; er
È» che Bretta prigione, cr con che Ucci m'incatenai . Ma molto più bo da dirui,
che io non u'hodettofm'qukperciocbe bauèdo io(come dinoto {Tom biàut foro)ogni
lor cofa cofi latina come uolgarc trafeor fb i cr ueggendo le foro cofe latine
per rifletto alle To* fee, non effer degne de nomi lorogiudicéctò douere aite
ttircperciocbe a uarie lingue uarie grammatiche, fegtien temente uarie arti
poetiche, er uarie arti oratorie corre fpondcfferczrcbe Petrarca, e Boccaccio
le lor uol garifapcndo, ma le latine (colpa o" agogna de tempi loro)
ignorando, tante bene Tofcdnamente fcriueffero; quanto male latinamente
poetarono; er orarono. Perk qual coftkfciaifiareitonfìgli detnofoo padre Mejfer
Triphone, Triphonejlquale a poetar uolgarmente con Forticcio U tino mi
richiamano, tener uoUi altra (froda : per la quale mcttendomijon giunto a tale
} cbe io ueio il male^non lo poffofchiuarcMaperchc il tutto fappiate.foleua
dir* miMejfer Tripbone,che al Petrarca teffer nato To/r,c m,&fiper ben kfua
lingua,et in contrario il non [aper- ta latina, benché Torte tenefje, fu
cagione difarbgran* de neffuna, ma neSaltra molto manco, che mediocre .
UaaVincontro mi fi paratia tefoerienza ; percioche 4 di nojhri U città di
Fiorenza cofì Tbofcana, come è,non ha poeta, ne oratore pare al Bembo
gentiluomo Vini* tiano . A dunque potuto barebbe PETRARCA (vedasi) con VIRGILIO
(vedasi), cr con CICERONE (vedasi) far fi tal oratore, ®- tal poeta latino,
quale U Bembo con Petrarca, cr con le Ranelle è diuenti to Tofcano : la
qualcofi non emendo auucnuta,/cgno è t óc in due lingue ha due arUi però il
Petrarca con l'arte fui uolgare componendo latinamente,^ minor dife flef*
fomentre egli fcrifjh nella fualingua Tofcana. Conftr* mauamiaopenione iluedere
ogni giorno alcuni buomi* ni pur Tofcani latrati, er digrand^ima fama, li quali
tolti dal Petrarca&hor Tibulb,bora Ouidio,hor Vir gilio imitando faceuan
uerfi uolgari ; li quali mezzo tré volgari,®" latmi,parimentc a volgari,??
a latini jpiace* nano iinfra li quali chiunque con nuoua gutfa dt rime t
afenzarima ninna ilatini inùtaua, meno errano- al mio parere, er con
giudiciopiu ragioneuale kpoeftecon* fundeuaipcrciocbe toglièdo a uerfi la
rimo,o delfuo loco mouendolx fileiubro gran parte di quella formami* gare ; che
i latini, er loro arte naturalmente ékonfee . qualcoft fi pronai ia in quel
tempo, quando (q&tfì nitouù akbimilìa)lungamente mi faticai per trottare
ìhe roteo ; il qual nome ninna guifa di rima dehetrarca tef* futa, itone degnai
appropriar fi. Mouemianchora <t douer creder eofi la nojbra guifa dì uerfa
il quale contri i precetti latini fenz<t piedi, er con rime non è mai dolce
Agli orecchi, ne men leggiadro nel caminare, di qual jì uttol dcgliantiévAc
quaipiedi poco appreffo perauen* tura fi parlari . Vinto adunque dalle ragioni,
er effe* rienze predette, a primi jludif tornai ; er aU'bora, oh tra'l continuo
ejfercitarmineUa lettion del Petrarca ( U quakofa perfe fola fenza altro
artificio può partorire di gran bene ) con maggior cura di prima ponendo mente
«fmìmoài alcune coje offernai fommamente (come io tredeua) al poetai
all'oratore pertinenti ; le quali,poi che uokte,che tal faccia, brieuemente ui
cjblicarò. Pria meramente le [ite parole d'una in una annouerando ey penfando,
ninna uile,niuna turpe,ajbre pocbe,tutte cbk re, tutte eleganti, mi fu auifo di
ritrouarle ; er quelle in modo al commttne ufo conuenienti, che eglipareua, che
col cònfigUo di tutta. Italia, thaueffe elette, er molte, In frale quali (
qttafifìeUe per lo jereno dimezzami* te ) nluccunto alcune poche, parte antiche,
ma di uec* Metz* non difaiaceuole s buopo, unquanco,fouentc : parte mghe, er
leggiadre molto, le quali, quafi gemme belle agli occhi di cufcbeduno,folamente
digentiti, et alti ingegni fono adoprate : quali fòno>gioia, fpeinejrai,
dijìojoggmno jjekà, er altre a lor fmglianti ; le quali mm lingua erudii* non
parlerebbe, ne ferimebbe k mano. Ci maio, fé gli orecchi noi
cofcntiftero. L ungo farebbe ti co Uriti dijimtamète tutti i uerbiigli
aducrbijxt l'altre parti doratione> che fanno illumini juoi iter fuma una co
fa non tacerò.cbe parlado della fua dbna,et di la bora il corpo, hard
Tamma,bora ìlpiantojbora il rt)o,hora ràdare,hor lo (ìdrc,hor ltifdegno,horla
pietà,bor la etàfmfinalmé te bar uiua 3 bor morta deferiuendo, ty magnificando,
k più mite i propri) nomi tacendo* mirabilmente ogni cof<t dell'altrui
Uocifuote adortiarxbiamàdo la teiìa oro }mo t tj tetto d'oragli occhi
folitfìelletZapbiro, nido cr alber go d'amore de guancie,bor neue et rofe,bor
latte cr fuo co; rubini i labri, perle i dentista gola cr 1/ petto, bora moria,
bora akbaBro appellando : cr quejìo bajìi alle ditùonhiai dalpoco,cbe io dìcojl
rimanente, che è ntols to,pcr tioi medefsmi oficru&rete. Hor venendo alia
ora* tiotte, mila quale quejlo raro buomo le parole, che io ui lodai co bella
arte ua coponendojifguardado alla copia, io m'accotfi che bauedo detto Una mlta
litme,fitoco,cate ftajdilcttOjdoloreft altri tai nomi,maì 1 mede fimi in quel
Sonetto no ridiceuajna in lor loco raggio,luce,fp lèaorei
fÌMU^rdoreffamUe^nodOfUccioJegame^ioia^piaccre,
pena,doglia,martiro,fìrato,affatmo et tormèto }i ddetta ua di reppticare. Oltra
di ciò io comprefrxbe egli *<naM di contraporr e i cantrarif& a quelli i
propri) affetti, cr le proprie opre, propriamente parlandoci cogmnger di
ftderauddella difeordia de quiltj'uno aU'altro co mijura
correjpotidcndo)ì,ufciuafuora il contètOicbejente 1 gn'u noi cr pochi fanno la
[ita cagione . Ma ueramaiteqicHx cracoja mdrmghejx,iry-dcgn*certQ didouerc
e);cre uff tan diligenza offeruata, che té contrari], crtaiuod, quafi
(ili della fua telajn teffendo U ormone fono ordì* te in manieri, che ne afare
per U fhrettezza, ne troppo motiijO <dUrg<Uc > ma falde.piane,et
eguali per ogni parte (tanno mfiemc le fue giunture : il che è tanto maggior
uertu, quanto men della profa i noBri uer(t uotgart atte lor rime legati fon
tenuti di adoprarU. Ma perciò che nei la orationc,non folamenle le dittimi, cr
il loro [ito confi deriamojni farma,et fine determinato, cifrai quale non
fpetie, è mefiierì di fiatubrr. la qualcofa non è altro che'l numero ( cofi il
cbiamorno gli antichi ) del qual numero hoggipromifì, gt incomìnàai, ma non
compiei di par* Urui. accioche piena informatione d'ogni mio jtudio por
tiatCyitoi douete [opere che'lnoftro numero fi come quel lo demolire lingue :
propriamente è mifura della gra&ez ZA del utrfo : le cui parole ben
dijpojte, er ben termi* nate a Urotanto, er più piacciono a&'inteUetto
quanto ti fuono, quanto lauoce, quanto ilntouerdeUdperfona t CT de piedi de
baRatori, er de muftei gli occhi, er gli orecchi fuol dilettare . Onde io
giudico al tempo antico forfè in Prouen%a,o in Skika,queimedeftmi, che erano
mujìci cr danzatori, effere flati poetiiiquati pareggiati do i lor uerftai
balli, aicami,ejafuoni, borfonettì bor canx,one,et hor ballate i lor poemi fi
nominarono. E l'I «ero che altramente mifurauano i uerft foro i latini, er
altramente noi uolgari li mifurìamo: quelli, in fillabe d l ui dendo le
ditioni,di effeftàabe alcuna %J,er alcuna brie ne feceuatmk quali infteme
adunate norie mifure,cr uà rie forme di numeri (piedi dicono li fcrittori)
iombi,tro cheì,fboiidci,dattili, er mapcfti ne uaiimnoa rùtfcirc : con effe i
quali i'ìorucrfi a oncia a oncia fmifuralfcro', et ttmerajfero. Ma noi altri i
wflri ucrfi uotgari con mi nore arte, a 1 con più ragion mijuradofrutto eguale
ala. tini finalmente ne riportiamo, percioche non curando del la
htngbezz<t,nc breuità delle ftltabe piamente contane dclc, quelle in.uno
accogliamo; o~ cofi accolte ceti dilete to de gliafcoltanti rendono intiera la
claufula,cr in ucr< fo ne la cpnuertcno . il quai modo da mifurjrc è ccffyu*
ra,w falcerà moho.cbenon perturba le fiUabe, nell'epa, ro'.e di cuifon parti,
fccma,o rompe nel meza : ma ne lor. luoghi co lorofuoni&r intendimenti
kfcÌMidole,fanr,cr falue per tutto l v.erfo le ci conferitale quai cofe non
finno forfè i Latóri, o non le [aiuto fi bene : i quali cenfidee randa IcfUabe
non come patii di dittionc, ma inquanto brietii, cr iti quarti lunghe, troncando
col loro /««ae- re le parole, cr non parole tendendole, fanno numeri, (he non
fon numeruna pagi, o braccia, o altra cofa cou lemifurante la oratione, non
altramente, chefe ella M* fe\unafuperftcic ben continua, cr di un ptzzo /c/o :
nel qual cahjpejfe mite quello <t Latini fuole auuenire men- tre efii
fondono i ucrfi faro,, he a Latini, cr a noi con li cantori adiuienc-J quali
concordando le parole al/e note, fenza curar de lignificanti, fan barbarifmi
nonfoppor tèdi. Non uuò però,che crcggLte,che la volgare fcan* fioncfiapuro
numcro,tai:to, àie fole undici fdlabe, co» munqttc infoile fe adunino, facciano
il uerfo Tofcano; ma è meltìeri in ntmeràdolc anziché all'ultima fi
perucgna^lquuuoinfa la quarta a in fu k fefia, o infila otta S ua Ua
fèdere; ouerkogkcndo lo fpirko,fdcilmenlònfmo al fine ci conduciamo. Bifogna
adttque che la quartajafe* (ìa,& la ottaua fiUaba fu ecft piana, in maniera,
che k uocegia faticata comodamele uifiripofi,et adagie.Verò non è uerfo, Voi
ch"m rime fparfo afeohate il f nono ; ne quelk.Voi Min rime fparfo il
fuono afcoltate.ma bene è bello, et buon uerfo con tutti gli altri di quel sonetto,
Voi che afcoltate in rime fparfo il fuono . Forfè direte co yual ragia da poeti
udgm la undecima fiRaba(quafì Fu* M delie colme d'Hcrcele)fu pofta al uerfo per
termine, oltre al quale non fi mettejje f A che rijpondo, che cofi uolfero i
primi padri del uerfo di quefla lingua; li quali per auentura mal poteuano
accommoiarlo a fuoni, a contà& <* balli lom fi più oltra lo
diflendeuatto, o è più to iìocbe'lnojhronerfo Tofcano allhora è uerfo perfetto,
quando egli è giunto alla rima. Adunque perche più fo* Ilo ft conducete a
perfetti: ne, di fole undici fillabe, alla più
lunga,ilformarono,concedendo il priuilegio di poter farft più brieue : er col
conftglio di chi l'afcolta, alcuna folta con cinque, mafouente con fette fiUabe
mtieramat te prommtiarfi.Molte altre cofe uipotrei dir delk rima, ma non ho
tempo da ragionarne iperò paffando alla prò fa, nofhra propria materia, nella
quale [e egltu'hanume ro alcuno ; noi il togliamo dal uerfo,ty in lei lo
trappian turno, o inefliamo -.facilmente dalle cofe già dette fi può coeludere
che i fuoi numerino so dattiliffle fpodei, mafo Ito appunto i medefmi che noi
trouiamo nel uerfo, fc non che! uerfo ripofando in fu le quattrojinfu le fei,o
in fu le vttofue ftltabe^ neUe undici terminando, ha più certi, r pi» noti ifuoi numeri che U profi non hainéSa
quale farebbe uitio non picciolo, fc k fua ckufuk po(ata alqua to in fui quarto
paffo,totalmente in fu l' undecime fi fer» maffc . Dunque in qual moda iti dirò
io cbe'l boccaccio fuggendo iluerfo, loratione deUe fue Cento noueUe sin*
gegnaffe di numeraref certo quejU no è imprefa dafeher Zo, ne io l'ho prefa
perche io mi uantidi confumark, Z7 condurk k buon fine ; ma aecioche conofeiate
quali, er quanti infm horafiano jlati i miei Budip et di che piccia k utilità ;
doppo lunga faticaci fono futi cagione. Voi hoggidl,fè non altro, fi almeno di
meglio fpcndere il uo* flro tempo,che io il mio ncnfeppifarejmpararete a mie
fpefe. Conftderando con diligenza hor le parole, le quali ufi il Boccdccio, et'4i
cui dunzi ui ragionai,hor k kr co pofitkmejbora i fini de alcune ckufuk, hor le
materie del le NoKeifo ninna cofa mi fi paraua innanzi che numero fa s cioè
compita, ®- da ogni parte perfetta non mi pareffe di ritrouark.E' il ucro
cheper diuerfe cagioni ciò auuenir giudicaudtCr hor natura, et bora arte lo
cfiftimaua ; C per dirui ogni cofa, hor con gli orecchi del corpo,hor con la
mente deh" intelletto di cofì credere mi configliuà . La elegantk, er
antichità de uocaboli, co ì loro fuonipkeeuoU, le mie orecchie naturalmente di
diletto defiderofe, compitamente addolcivano, La proprietà, er trasktione, k
natura d'alcune cofe perfettamente aU [intelletto rapprefentando,fenz<t modo
mi diUttauano. Tanno anebora in unaltraguifa numerofe le fue Nouek te i pari,
ifmili, er i contrariai quali fi come è loro natura, alcune stolte in alcune
ckujule pienamente corre* $ x fyondcndofìjiel paragone acquetandomi, non
poteuano non contentarmi . Per U qud ragione,a me par tua di po- ter dire gli
au uenbnenti di Pinnuccio, cr di Nicotofaji Spinelloccio, er del Ceppa di
Cimone, di Salabetto, di Mibrogiuolo, er di Bernabò, beffa a beff ^ingiuria ad
ingiuria, er cafo a cafo totalmente quadrando, le ter no uelk far numerofe.
Kmneroja altrcfi poliamo dire la orationc,oue il fante di frate Cipolla guccìo
imbratta, oue la bellezza iella uaUe dette donne, la greffezza di Fero» do, la
uanttà dinudana Lifctta, la cofcjUonedi Ser Ciap pettetto, «r finalméte la
mortalità di Firenze ci è deferite ta,ft fattamente, che più altra non fi
defidcra : parla anebora in alcun hiogbibarkLìcifca, bar ta Bentiuegna del
Mazza, hor lafuoccra di Arriguccio, bar la moglie di quel di Cbinzica,®- dice
o>/fr,er parole in maniera al la ojona comtcnicti,cbe par che intiera ne la
ritraggono; quello Jonnado co'lpuro inchiollro,cheTitianófoléni0 mo dipintore
co colorile con l'arte fua no potrebbe adont bfare. Ma il numcrofo,di che ubo
detto fin qui,pche può effcre, ej è forje non poche uolte dàniun numero accorri
pagnato,non è il buono,di cui ho tolto a parlarui, bene è cofa da farne fltma,
er ebeà trottare quel, che cerehiamo facilmente r.e può guidare,?? far lume :
però, pajjan do più altra al componer dette parole, ©" <d finir deU le
claufaie,come douemo, armiamo . Dette quali due cofe, l'una
nonèpoftibile,cbcfenr.amtmero fu numero* fa U 'altra è fontana del mmero,et
d'ogni bene che fa par fetta {a oratici ne. Adunque incominciando dalla
fontana, quindi a rufeetti imiendo 3 a me pare, er in effetto è cojì, che
torrione delle noucìle è talmente coìnpofli, che chi hi orecchie non
inbumane,ftcibnente s'auede quanto eU U tiene di perfetto, er di numcrefo: la
cagione oltre a queUo,che pur dianzi ucne diceua > non le orecchie, ma
[intelletto dee far prona di ritrouare.zt per certa yuan tunque uolte
ddiuiene,che con parole gentili^ fi tra fos ro adunatele ne aftra. ne aperta la
lorofabrica ne rie fca,akun concetto cfplichimo; altrotanto fenza altro mt mero
è mtmerofa la oratione. Et talee quella delle novd le : alla qaale\fu fi
intento il Boccaccio, che alcune uolte uno, cr due ucrfi iv.fcendcne,o non gli
uidc, o minti di kuarli non fi\urè,ma qua}] hellci-a [o caprifico che da fe
8efiifvafxf.o,et faffo germogliano, nelle fitc profe li coportò, &U cefi
cane dalle parole ben compojle,frafe medefme alcuna uolta per k profa
deUe\nouclle nafeono verfi,de quali quanto fono miglìori,ta)ito è peggio abbati
dare; coft in effe molte fiate, anzifanpre uarij nmrteri dì oratione parte
graui,parte uaglù,cr leggiadri fono ufati dipulkhre . con effo i quali U
Boccaccio non più a cafo t per natura delie parole, ma cv leggiadro
artificio ua te gando le fue fentcntte ; quelle in quadro acconciando, eP fra i
termini delle Icr claufule compitamente acceglièdo, 1 quài mauri
moderando la oratione,et la vaghezza del torfqfuo con piaceuolì intoppi
foauanente a frenando, hamio uertù non fokmente di dilettarne, ma dì
giouarne,che in quelmodo, che la dejhezza della perfona con lapofjanza
congiunta, le mftre forze fa gròtte fe^ mi defbuamonel difender fi pi» ficuro,
ey neUo fendere più itnpctuofo, cr più fiem coft k profa da cotainume ri
rfceofflprfgriirtrf è più cara ad udire ; cr <J»« concrfft,
cb'ellafignifica, con maggiore efficacici fuol imprimer neWinteSetto . Forfè
affrettate ch'io ue li nomini t cr che in trocbei,iambi 3 dattiÙ, CT piedi
colali latinamente parlàdogli uì dìlìinguafmain darno affrettate, che {enei
acrfo,ouc nafeono, er onde li prende toratione,non fon nomati, ne figurati 3
neRa profa, oue cfiìfon peregrini, quai figure, quai nomi può toro dare che ne
ragiona ì Adunque a luoghi dotte efii albergano conducendotti, et quafì muto
additandogli, il rimanente al uofbrofiudio co metterò. Ma itoi deuete fapere
che enfi come la compofì tion della profa è ordinanza delle noci delle
porole,ccfj i numeri fono ordini delle fiUabe loro i con U quali dilet* tondo
gli orcchbi, la buona arte oratoria incominciamoti tinua, er finifee la oratone
: percioche ogni cUufula co* me ha principio cofi ha mezp, cr fine, nel
principio fi M mouendo, cr afeende meUnezo quafi fianca dalla fati* cacando m
piè fi pofa alquantopoi difende, cr uola a\ fine per acquetarfi. Hora in quoti
luoghi deUa fua uia di qua dal fine debbia pofarfì l'oratione,et quote fiUabe
dal principio fta totani la prima paufa, no è precetto che nel comanàixt
comodandolo, ragion farebbe il no ubbidirlo; ft perche la profa uttók effer
liberajonde il numero no le è legamela compimento ; fi per fuggire ilfafiidio
ycbe co i medefimi numeri,detthet ridetti più udtc,ci recar eh be loratione :
fi anchora perche afententie.er affètti di* jfrari,partinteruaUi diparole non
fi couengono . Che fe'l nerfonon fallidifce, ciò odimene perche ì fuo numero è
puro numero, cr quafi muro della fua fabrica ; il male [mattato con altri
numeripiu rileuatifdrijmàli, cr co» trurifcr d'ognintorno di
rime,d'tpitbeti,& di figure di* pinto perde il colore, maggiorméte che
molte mite il fin del ucrfò è principio, et talhor mezo della fentcn%a i ma
nelk proft un medefmo numero è dette co/c, cr delle pa role iperò abondando ài
dipintore farebbe operaaffet* tata,nm dilettevole jet oratoria,ma ridienti,
puerile . Adunquerkoghendo le cofe dettcjpfrafe ftcfji para* gonandok,
concluderemo mi medefima oratione per di ucrfe cagioni poter effer numerofa, cr
non numero fi, perciocbel uerfo può effer nero, ma di parole ÙSfóme, €7 mal
compofte: zrètdhora che la rima,et quei cafri* ., rij.ct quei fimili fan
fonorajtta afyra molto lorationezr la caporione elegante [beffe fiate guafla il
ucrfox? non uerfofagiudicarlo, Similmente la profa alcuna uolta ben capane le
parok non bette, cr dura wka belle malamcn te ua componendo 5 et può occorrere
che cofì come nella mufìca bencfpefjh le buone uoci difeordano,^ k no bua ik,o
per ufanza, per arte fono tra loro concordi ì cefi ì pari>i fnmliw i
contrari}, cofe tutte per lor natura ben rifonanti,qualche uolta co uoce
a$ra,ty àfforme, qual, che uolta feioce mentc^ et a bocca aperta ua e faticando
U oratione. finalmente molte fiate intrauienecke Ltpm /<* perfettamente
compofta, quafi fiume del proprio cor p dppagandofi,nonfi cura non cht
digìugere al fine,m di pofarft per lo camino,^ uafemprawfe'l fiato non le
mancale, continuamente tutta firn uita eminareb* be . però a numeri ricorriamo,
lìquali attrauerfando I4 (tratte pkccxoinmtc con Infinge, cr con uezzi ariti*
' £ 4 jre* f-efcarfi,ey albergare con loro la vantino, er non ualcn do la
cortcfta,ucgliom uftr le forze; er per benfuo,mal fio grado,con violenza
tarrefìino. Sor. Qae/fd leg gede nwnerideUa profauolgarepar molto incerta, er
confufa nondOìinguendo otte, quando, et quante fiate dì qua dal fine debbia
fermarli Toratione ; ne con quai pie* di cammì,o a qual termine fi conduci per
ripofarfi . Md che è quello che ttoi dicefìe,che a fententie, er affetti di*
fiori, pari intervalli non fi contengono f er come è uero che nella profa
pitiche neluerfi,un medefimo numero fta delle cofe,ct delle parole tBxoc.
BrieuementerìjbS derò,uoi(comefate)attentamcnte afcoltatemUo pur dia zi
detCoratore,^ del muftcP-XT àc hr numeri ragiona ioui,hebbi a dire, che mufico
ponedo infieme le mei gra tii,<y acute, et co fuoi numeri mifwrandolc
campuceua a gli orecchimi lo ratore con le parole della mente fìmiii
tudìnuVanìma noftra difoUazzo difiderofa, s'ingegna di dilettare. Adunque egli
è ufficio d'oratore dir parole non solamente ben rifonanti, mamtctligibìli } ey
a comete ti signiftcati correfhonientì, chc si come nei ritraiti dì Titiano, oltra
il diffegno, la fimiglianzà confideriamo(et fendo tali(fi come sono veramente) che
i loro essempij pie namente ci rapprefentìno, opra perfetta, eydilui degni gli
efiiflìmiamo > co fi ancora nell’oratione conia teflura delle parole, con i
loro numeri, er con la loro concinnità tintentionifigrìfìcate paragoniamo:
procurando che le parole pronunciate si pareggino alla sentenza, et co quel lo ORDINE
[Grice, “Be orderly”] le significhino, che [ha notate la mente. Ver la qual
cofafe i concetti sono gravi, le parole a dover loro rifondere deano farjì di
fiUabe>cbe U lingm peni alcjua to nel PROFERIRLE [Grice, UTTER]; fiano
jpefiiiripofi, ey non s’mdugie il finire ìil contrario nelle parole jo' nella SENTENZA
piace* uoliueggofare a BOCCACCIO (si veda), w altrettanto pofimo dir degl’affetti.
Perciocke i colerici con parole udibili, e prcjìe molto, mu imanm conicipi gramentc
y agguaglun= do conle parole ?humor e, sono da esser PRO-NUNCIATI: che
tuiegnadio chel Tbcfctno nel numerar delle ftlabe non pc ngd mente alla
Uinghezz^o BREVITÀ (Grice, “Be brief, avoid unnecessary prolixity [sic]) loro,f,
che piedi [e ne cempongd ; nondimeno nci prouiamo ogni giorno, che in cffefUabe
con pia tcmpo, et più dffrdn; entefi prò fc.ifconoleconfoiuntii bclciiocaliìion
fanno, llke Da te considerando,alcund tic Ita nelle canzoni ; er nella ce*
mcdia,non d cdfo,o per confuctudìtte,md a bello fludic e<f léffe rime molto
dfprc, non per dltrofaluo perche al feg getto di che pdrhatdyi^ro molto, er
priuo aitato d'u- gni dolcezza fi comtemffero. i\u per cicche 1 poeta altro non
uuole, che dilettarne,!* l’oratore dilettando ci per» fuade ; però è
mefticrìche le parole decoratore totalmente si confacciavo a CONCETTI
SIGNIFICATI, er che i ntmte ri deÙa prefa, cioè il principio i! mezo, et il fin
fuo.uada <t paro col mezo, et col principio della SENTENZA, ikhe de uersi
non adiviene, i cuinumsri non da concetti deWinttì IcttoTtiaddbdUifunm acanti
fon dependenti, El efuin* di uiene, cbe I PERFETTI ORATORI SONO RARI IN NUMERO piu,chc
i poeti non femodi quali auegnadio ebegradanente fimo obligati d lor numeri, et
però il uerso paia oprat Uberto fd&digrmdifiimo magislerio ; nondimeno
certieffm do jnqualfad parte cotdimnerifmpariiiOffenztttnol to lo
penfari(ifufo,fufo i . fubitamcnte li ritrouiamùì CrdagU orecchi guidati A
mezo,ey al fine facilmente con esso lo ro ci conduciamo. Ma altra cofa è la
profa,laquale dilet tondo er pervadendo congl’orecchi,- con Cintetiettcr, fumo
oblìgati di misurare; guardando sempre che te parò le nonfian più corte, opiu
lunge della SENTENZA SIGNIFICA fa : che ciò effendo, troppoo fcura, o troppo
fredda riufei rcbbcTcratione. Sono adunque i fuoì numeri meno [enfi Mùtua affé
più nobiliiun po più Uberi, ma non men certi di quei del uerfo i manon appare
Uhr certezza, albergando neUe SENTENZA <>kquai sono cose intellettuali.
E< ofo dirc, che cq/ì come più perfetta è la muficddelletre uod the deUe
due; come mchoraè pm perfeita U dipintura de più coìori s che non è queUa de
pockixojììa prefa, nelhi quale agl’orecchi ci all'inteUetto fi cecorda la
lingua è oratione più numerosa del uerfome la Ungua, ctgl’orecchi aiue sole
membra del nostro corpo t sono usate dì co Uenirsi Qjtefioè il conto de fludij da ine fatti
fmhorA in PETRARCA (si vda), et nelle NoueUe con fatica grandifimu, er con quel
frutto che uoi uedete; ne me ne pento del tutto, fyeràdo che i mici errori funo
altrui occafione di dauer bene opcrareia me nmgii, tiquale auezxo a fallire
appe na ueggo ti miofallom cheiopoff a ammendarmi Sor. Seti uojbro fallo è fi
picciolo che uoi peniate a uederb, fiate certo che agli altrui occhi fe
totalncte imtiféile^e rò potete non curare. BkOc. L'errore è grande et da fe
flefouffainoto t imldmk uifta ufa alle tenebre deWigno ronzammo che bafìi, nÓ
lo difcernc:ct(che è peggiorai taddlme diuerttà non puo affiffarfinel fuo
fbkndorc. Sor, Ver grulli additatemi quefìo more, er fe k m* (fra ignoranza ha
prìmlegio di potarmi giouare infogni domiaicana cofa,non ktentteociofa. B«oc.
Hohijono gli mori onde io mi trotto impacciato; ma tutti nafcono daìiaradiccji
che dianzi ui RAGIONAI [conversazione e ragione]: cioè, che torte lati tu
deh"orare>o- dei poetatela diverfa dalla Toscani, tìqttakerrore
doterebbe effer e a cufchedtmo manifejliffimo. quindi or gomento^bek mie
lunghe, zrpueriliof fauationifiano'morì j fbetkbnente quelli de numeri, deUa
cui l’armonia k mie orecchie s di miglior [nono difi* derofe, compitamctite non
fi contentano. Sor. Deffrf m<t ierk de numeri poco baurete dafaueUare, fe a
lombi, er 4 dattili non ricorrete, maionottuedoin qual modo co te MISURE LATINE
knojira prof a uolgarefi pojfafar numero fa. B roc N«o ii uedo,ma altri forfè
fri ueder. Sor. Vrimier amente Magnerebbe far uerfi effametri, er peti
tametriin quefla littgua, dando loro quei piedi^nde itati tiifono ujatidi
cammare-.pofckaUa profawnendo, con quei medefmi in altra guifa dijpofli
faticarci dinumerar la . ma ciò è cofa impofiMe,però il ?etrarca,iie il Boc<
caccio non k tentò, Noiadtmque che fatto hr militiamo, per le loro-orme uenendo
procuriamo difeguitarli, con* tentandoci ebe dopo loro nei loro ordme,non
fecondi,ma terzi quarti ci nominiamo. Bsoc. Certo quefìo bo fat (io, mentre io
era d'opinione che k nojbra arte oratoria, cr poetica, attro non foffè che
imitar loro ambidue; prò fa,zj uerfi a loro modo fmuenàoxs' al prcfente,piu che
tnaifcfitilfarei^into dal piacer della lettione, ry dal di* fw dclfhonore, chcfa
ilmatido 4 ebigliafitmiglia j fe do non Mn fcffe che CICERONE (si veda)
in alcun libro àeUdfud arte orato rid, cotdlguifa difludio da Carbone
adoprdtcgrandemé tefuol bùftmare; lodando aWmcontro il tradurre cCun4 ìingua
iti un'altra i poemi, er la ratiomdc piufamofrXa* qual cofa(per uero dire)
ionon bo fatto fin qui dubitarti do per le ragioni antedette, che la fententia
fritta da CICERONE (si veda) delle due lingue piudnì'.cbe^eHa moderna non fi
effequiffe cofi ufeito de i primi liudif, w ne fecondi no fendo ofo di
effercitarmi, molti mefi fono'uiuuto otiofo et fél Valeriononmi conftglia t non
fo che farmine Waue* iwe. V a l. Hord4 uoi tocca di configliare Soranzoì '
perojdfcidndo i afa uofhri ne loro termini fiore, condii dete IL RAGIONAMENTO principiato;
il cui fine ( fc il difiderio deU'afcoltar non m'inganna) ci è lontano
parecchie yùglia. Broc, Anzi io parlotta defdttimìeh percbe di quei di Soranzo
non mièrimafo chefauellaretcbe battedo detto per quii ragioni, fecando me,il
diletto fta la airtit de![ordtione,zT la eattfa demoftratiud, inquato io poj
fo, foprd t 'altre effahttd, olirà di ciò della forma deWcf ferrite che tiene
Umondo hoggìdì, zrde numeri quel io n intendo, er quanto io dubìto ragiona tom,o
bene, c male che io ne parlafiijo pretendo ibaucr rifpofìo 4* Idcjueflìone
ifahofe io non entraci tra quei PRECETTI INFINITI [Grice: “Conversational
maxims – how many? Ten: a decalogue!] precetti infiniti H far proemij, di
narrare J argomentare, er di epi \ogar rATaratìone, o a fitte, ake figure, a GL’ORNAMENTI
DEL DIRE, o dltattione, odUa memoria mi riuoglie(fe, o degl’afctti, o de flati
dipintamente uifaueUajìi. ìlebe fare ttonfaperei s'io nolefti, ne dotterei fe
io fdpef.ifendo cofa mnpertmente, a fuori al tutto di qucl propojìto, tutor no
al quelle fcìlsoranzo la fita dimanda. Val. Vc&t tdrtìi farebbe qucUadeS
Oratore, feragionando fuor di propofito dilcttajfe in maniera che chi ludiffe
noi difeet neffe. B eocar. Alita cofa è IL PARLAMENTO [PARABOLA] àeWQra*
torc,cj -altra è quello del KhetorcSun diletta,®- l'altro infegnaj bench'ìo fia
rhetore atto meglio a dovere irnpa rarc, chc IN-SEGNARE. Val. Almeno
rttinfegnarete rìfho dere a gli argomenti d'alcuni grandi, i quali confcffcmdo
{quel che noi dite ) la Rhetorica essere arte, U quale ne nofkri animi piacere,
®- gratta partorifea figuentementt non àmie utrtit, maperuerfa adulatione fi
fanno lecito di chìmxrU,<£r,come uirìo di makguifajei fbandifeono delle Republiche.
Bkoc. Dell’ACCADEMIA parlateci quale inperfonadi Socrate jtonper uer dire, ma
Polo,®- Gcrgià tettando, coquello animo bìafimò U rhetorica, che altra uolta a
Trafimacho, et Glaucone fe leuar Fingiuftì f i'i . Che cofì come fecondo lui, a
cittadini, ey guardiani delle republiche è neceffaria la muftea, arte più
ditette uole che utile, cofi a medefmi è buona cofa tmparare et teffercitarfì
nella rhetorica, gioia s cr ditetto dell’inteletto. Ma accioche molto bene
ilmio intento dpprendidte, Koi douete fipcre che i sentimenti degl’animali{ da
i qualicomeda cose più note, è bé fatto che il nofhro efìent pio prciidiitmo) inféntcndo
gli obietti loro, fe buoni fono s'allegrano, ® fe rcì,cioè àamofì alle ulti
loro, fono ujati di contriftarft. Adunque, come ti cane ha piacere di ue deregr
fiutare, etmngiare cibo che lo conferma li di fbiuciono tema-zzate, cofì
tamente di fapere defidcroft ji dtletta del uero, cr ilfaljb, cofa contraria al
fdo difiderio, twjommmenteper sua natura abbonda : er per c erto quale è il
cibo càio Homaca, tale è k uerità all’intelletto} ma la bugia è il veleno che
lo difhrugge: cr d'immortale die nacque, peggio che morto fa divenirlo. Hora et
(enfi tornando, cetto l'huomo è animale pia gentilefco, et di na tura migliore
che le bcHie non fono,il quale foUeuato dai LA BRUTTURA DI BRUTTI ad altro
attende, che ad empiexfi U gold, er molte fkte, per uedere una. dipintura,
udire una muflcafaniettfete pdtifcejoglknda anzi dipafeer gli occhi, er gl’orecchi,
non jenzA damo della perfona, the di uuundcm MeridlineUa cucina ingnfftrfi. Laqml
cofd,fì carne è uera de fentimetiicofi ha luogo nell’inteìlct to,alqmle
fimilméte dee ejfer tecitojafckndo il uero che b mtrica.akuna uoìta per
dilettar fupoter gujiare il pk ceuole. Nclqual cafo perauentura il noftrohumino
intel letto è più dttànOytbe humano,percioche inquanto bumno cioè nudo d'ogni
dottrinaci <f imparare difìderofo,cor re al uero che'l fatiama co uerft,et
co profeper fuo dilet to fcherzando fimile è molto alle inteMigèzeJe quali non
per faper più ch'elle sappiano, ma per fokzzo fotta d pì« di,miradofi,fono
uaghe di riguardarne. Che }e noi forno FILOSOFI, tali a noi fono k Retorici et
k poefid quali i frutti dUe tduole de fgnoriìlt quali dopo ceni quando fon
fatiji Cùpiacendo al pakìo } alquanti per gentilezza ne ma giano-Mi d coloro
che gii no fono, et fon perfarfì FILOSOFI, ledue arti predette fono i fiori che
innanzi d i frutti JeRe fcienze, ù miti loro di fruttare difiderofe^uafi pia ta
k primauera, fi dilettano di fiorare. Aluotgo poi che non fa mJkjte fa péfier
di ftpere^tpur i parte delk rc piètica, pub\ka,loratiani,et U rime fon
tatto l cibori tutto l fi-ut ta deUd fui tàa . li qttd «oìgo non Ktutndo «irti
didige rir ìefcknzejzT mfm prò conuertirk,de hro odori* cr delle toro
finulitudmi gli Oratori afcoltandofuokiippat gdrfyo'coft ume,et mantienft,
Dunque io non uedo per quul cagion k Rhetor icet debbufbanda fi delle Repiéli
che, fendo arte che baper fubietto te nojhre bumane opt rttionkonde hanno
origine le Republkhe: che bauegn<t dio che Foratore con ragioni probabili,
cr anzi ùiccrte che nòidilettando, cr pervadendo giudichi, cr regga le diali
operationii nondimeno fommamente è di con* mcndaretCr dbauer cara la fua
folertiaxkfla quale le co fawflre perfettamente, zrproprimente, m quel moda che
a loro effèrt fi conukne,fono trattde&r còfiderate. Quejlodko prefupponedo
che uoifappiate(ikhe è noto ad ognuno)cbe l'huomo e mezzo teagf animali, cr
fuitcUigenze, però comfee fe (ìeffo in un modo mezzana tra la fcienza,ebe egli
ha de Brutti, cr ti fede, onde egli adora Domenedio, Il qual modo non è amo che
openione generata dalla Rbetorka, con U quale il uohrfuo Cr faitrtuka parenti,
cr amici, neUafua patria ciuil* mente uiuendojee curar di corregger cxbe}e una
opera medefima in uarij tempi dalle leggi cktadinefcbe,hor uie tata,<er hor
comnandata può effer aitio,®- uirtà-ragio* ne è bene che k nollrc Republkhe,
non <k faenze dima firatiue, uere,^ certe per ogni tempojma con Rhetori che
opmiotìiuariabih^rtramutabiìi(,qual fontopre,^ U kggi nojhre)pr udentemente
finn gouermte. Vero Sa erate dannato a torto dell'ignoranza de giudici, abbi*
DIALOGO dendo dUaopinione della fin patrìd,uolontieri fi fe
incori tra alla inortc:U quale, pbilojophicamente argomentane do,come iniqua,??
mgruffc peiujoue tentar di fuggire. Etne! uc ro,comc il pinlofopbo ufo di
intender nuTaltrd cofa filno quelk, che per li fenfi uenendogli ua ad dlber
gare neffbitcUeitOjtMto men crede, quanto più fa cojj il medcfimo,ufo aVopre
della natura,laquale eterna co leg g'e eterna,ct mconiutabilc ijuoi effetti
produce,makmcn te può effere atto algouerno deRa Repubtica: le cui leggi per
boneHe cagioni battendo ricetto a tempi, a hogbi % dUa
!<tiht4,dUefttefoize,ct 4Wakm,fyeffc fiate da (tv. di altro mutano
fornu&fembiahte; però ji creaiìo i magi- iìrati, li quali non altramente
reggano lorotbc effe noi Sono adunque le legginon acri dei, quali fono la
natura,. CT rinteUtgéze,nu fono idoli da quelli ijlefii adorate poi che fon
fatte,che con loro arti le fabricaroiio.'Però è ben fatto,che con faenza non
necefforia, ma ragioneuole,no pcrfctta,ma aìl'cffer loro perfettamente
correfyondente, foratore, di cui parliamo, kèbia cura di conferuarle : chefe il
noBro intelletto intendendo fi fa fimile alla cofi intefa, come può effer àie
Thnomo auczzo a contemplar hfutìanza, er le maniere de bruttifi confacela col
xege giment o della, città f più toflo c da credcre,quel che ogni giorno
ueggiamo, che quejlo tale al fio fapcrfimiglim- dofi,udda cercado k}'olitndme,w
in quella phiiofipbM do (ìfepelifca. li contrario fa Foratore, la cui arteji
cui gouerno,i cui cafìumi, er le cui parole fono cofe propria, mente
ciuadinefcbe,non credutc,non japutenu perfuafe co maggior dMtatione di qtfeUa,
che k fciéza dnnojh-a tìwt det altre cofe più biffe, cr meno a noi pertinenti
ci 4pporta:che maggior dtlettatione è il ueder jokmentc, o fenz4 <tiiro,udir
parlare tino amico da noi amato, ®- ha* vuto caro,che ttedtrc,udire,gttjiare,
er toccare tuttele befìic del mondo : con k quàl dilettatone perfttadcndo^
gloria,®- (tinte afuoi cittadini fuolgcnetar loratcre t non altramente, che co
i dilpttt carnati gli mimali fenz* ragione generUo l un labro, facciano intera
k toro fpt eie che altro non fendo k nójìra gloru, che openione, che hanno gl’uomini
dell'altrui fenno cr ual/orejagio nt è bene, che k rhetoricótartipcio delle
ciuHiopcnioni, fenza altramente philofophare, de nofiri nomi k partorifea,,
Quatito adunque è più nobile,®- più amabtlco* fa del generar de figliuoli
latterà gloria frutto (temo della uirtii,per k quale, a Dio ottimo mafiimo
ueramen* te ci afiimigliamo, tanto è più utile aUa Kepublica labuo ita arte
oratoria di qualfi ueglk fetenza, che delle cofe de&ttnatuxt. con ragioni
infallibili puQacquijlar fi k no* iira mente . VoLadunque Soranzo ( che già è
tempo, che t ttoi riuotga il parlare,®- in (otMx, cerne 4.a mi ì incominciò }
continuate Imtprcfa, ® alloflu* dio detfelpquentia, che fi per tempo tentajìe,
bora, che già ne è tempo, con tutto i[ cuore donai cut, cr confacrateui,
Conofco per. mote pruouc il ualor dello ingegno uoftroal quale benché fio,
attoafapere, ®- operare ogni coft,che a gentiluomo pertenga, nondimeno,fea fan*
biantidellaperfonajcjìimoni dell'anima, fi dcedarjede, conftderando la figura
deUafacck,et del corpo uopro, i mouùnenti di queko,U leggiadria defk linguaja
uoce,ei T i fìait {fianchi piati tutti di molto &mta, chiaramente
compri do uoi c/Jir nato 4 cfowere effer oratore,il quale neUa wo« firn Rep,tra
Scnatori,e tragittici acculiate,et deliberi* tc,o nella corte di Roma tra
letterati uiuendo,pcr diletto Ìel mondo,ccn grandilf ma uojbra ghria,bkfimando^
lodando componiate CT fermiate, quale bo fperanza che mi farete, fe
accompagnando co la natura la indujhriajn quella parte riuctgtrete la mfte, oue
tti chiama U uojìrd neUd x contentandola d'effer buomo,le cofebumanehua
mattamente curaretc,ey apprezz&ctejche ejfendo imagine e finuglknxa di Dio,
ben può bajlam che la uojìra fetenza fia una nobile dipintura,deUa medefma
turiti dì tettante la ttoflra mcnte,m quel modo che de ritrattimi* terialifiwl
dilettar fi U ttijìa. Che fe l'anima rationalefor Iftdjef uitd de noflri corpi,
è immortale intelletto ( il che hoggiXambafciadot Contarmi col Cardinale »Cf
cogli akri,fì come io ttimo,a ncluderanno > creder debbiamo t che'l itero
cibo,cbe la nutrica, fia non faenza mortale da\ mi in terra aequijìdta, ma
alatm cofa diurna conuenìéte ti f ito efferrJcUa quale alia gran menfa di Dio
eipafcìd* moticlparadifo. ryurtqueintalcafofolamentea dilettar (intelletto
fludiaremo t rt impararmoMpingendo con le parole la ucritk daquale liberi fatti
dalla prigìo della cor* tte,in propria forma uede,et confèpla la mjlra méfe.Mi
polio cafo(cbe Dio noi uoglia)che la ragione fta cofa hit mana,come noi
ftamojaqual najca uiua,et inora con effo noijcertofuo ufficio dee effere
ildifeorrere hunanamen» tejetqueUo principalmente confidcrare, ebefìconuiene
éUa bumanità, torte oratoria adoprando,con la quale in I^ff tjue (là uita
ciuSe,lemfìre Immane opcratiotà moderi» mo,et reggiamo. Ef per certo conte i
colori materiali^* do fermine luoghi loro, mandano a gli occhi Fmagini, per lo
cui mezo ti a>nojciamo,coft il itero dcUa naturai di Dio,m>n
mfejìe([o,chenon poliamo, ma nell'ombra delle noBre opinioni contentiamo di
Acculare: le quati (pitto piti ne dilett<tno t t<tnto più douemo credere
che fio* nofmtli altiero, oue è npojh il piacere, che neramente ne fa felici.
Ma acciò che neU'tmparar cr effercUar U Khetorica,queUo a uoi che a me auate,
non intrauegtiai appigliateti intieramente a configli di Meffcr Tripbon
Gabric&c,nmuo Socrate diquefìa etile cui uiue parole bene ìntefe da uoi,piu
dì bene u'apportaraimo in un gior* nojolo,che a me non fece in due mefi la
lettion del Boc* caccio,col rimario ch'io ne carni . Qjufìinon men corte fe,che
dotto uohntieri il fentiero^h'à buono albergo co* duce con diligenza Hi
moftrark con quello uno il Petrar ca V il Boccaccio leggendo } non pur le
ciancie da me of* feruate,(y notate, ma i fecreti dettate laro mi ben notf a
mlgarUfacihnente penetrarcte: imparando in qualma do latinamente, cr grecamente
parlando 3 queUi imitiate, CT loro fintile diuctitiatc . il quale M.
Tripbonefebora fufic in Bobgna s me certamente dagli errori del mìo paf fato
ragionamento, et il Valerio dalla fatica del fuo fuiu ro,perauentttra
hbcrarebbe, terminando la quejìione in manierarne poco,o nulla uauanzarcbbe da
dubitarci!} tanto uoi udirete il Valerio, ilquale fi puodirluidopà UUal
cuiparere(che dianzi io dicefii) io ui conforto che iààttentate. Vai.
Ricordini.maca alcuna cosa. Keywords: “Dialogo della lingua”--. Speroni degli
Alvarotti. Speroni degl’Alvarotti. Alvarotti. Keywords: retorica. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice ed Alvarotti” – The Swimming-Pool Library.
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