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Tuesday, February 11, 2025

LUIGI SPERANZA -- GRICE ITALO A-Z A AL

 

Luigi Speranza -- Grice ed Allievo: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di San Germano Vercellese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library  (San Germano Vercellese). Filosofo piemontese. Filosofo italiano. San Germano Vercellese, Vercelle, Piemonte. Grice: “I love Allievo; of course he reminds me of all those scholars back in the day that I relied on for my philosophising on ‘intending’ – since isn’t this an act of the ‘soul’ – I mean Stout, and the rest – I once was a Stoutian, and then for better or worse, I became a Prichardian!” --  Grice: “Now Oxford never knew what to do with people like Stout – surely ‘the Wilde’ readership was a possibility, but Lit. Hum. and the Sub-Faculty of Philosophy always considered ‘mind’ – (as in the journal, ‘a journal of psychology and philosophy’) secondary to metaphysics! We thought The Aristotelian Society had more prestige than the Mind Association, and we still do!” – Grice: “So Allievo, like myself, was fascinated by Stout and Spencer and Bain and – in the continent, closer to Allievo, and always having more prestige than the barbiarian islanders! – Grice: “Add to that the charm of his italinanness versus the Germanic coldness of a Wundt – his name is unpronounceable to Allievo – and you get to the heart of his philosphising on ‘psicofisiologia’ – where the ‘io’ meets the ‘tu’ – and his focus, having studied the philosophical tradition in Rome – to ‘educatio fisica’ – which obviously needs to be psicofisica!” -- Wundtan d Flechner!”. Frequenta la facoltà di filosofia di 'Torino e segue l'insegnamento di Rayneri, filosofo di matrice rosminiana. Laureatosi, insegna a Novara e Domodossola -- dove conosce SERBATI (si veda), Ivrea e Ceva. Collabora alla Rivista contemporanea di Chiala. Arriva alla cattedra a Torino. Spiritualista, e propugnatore del cosiddetto sintesismo degl’esseri, principio secondo il quale nessuna parte di un ente può sussistere divisa dal tutto dell'ente stesso, e nessun essere può sussistere né operare diviso dagl’enti che costituiscono l'universo. Socio dell'Accademia delle scienze di Torino. Critico dell'hegelismo, A. sostene doversi rifare alla tradizione filosofica spiritualista per combattere sia la dottrina hegeliana che quella positivista si sta in diffondendo. Si dedica a ricerche di antropologia. E autore anche di un saggio di vaste proporzioni dedicata a Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia, dalla scuola ionica a Bruno (Torino).  Altre saggi:  “Saggi filosofici”; “Studi antropologici”; “L’uomo e il cosmo”; Si espone e si disamina l'opinione di Brothier. Si espone e si giudica la teoria di Hirn. Segue l'esposizione critica della teoria di Hirn. Büchner. Si pone la questione e si accenna il come risolverla. Si accenna la differenza tra l'uomo ed il bruto. Concetto definitivo dell'antropologia. Valore ed importanza dell'antropologia. Del metodo in antropologia. Divisione dell'antropologia. Concetto della persona umana. Analisi della persona umana. La virtù intellettiva. Della coscienza personale. La coscienza di sè e la conoscenza esteriore. Individualità soggettiva della conoscenza esteriore. Universalità oggettiva della conoscenza esteriore -- Il potere animatore ed affettivo -- Del corpo umano in sè e nelle sue attinenze col potere animatore -- L'organismo esanime ed il potere animatore -- Unità sintetica della persona umana TEORICA DELLA VITA UMANA -- La vita latente anteriore alla nascita -- L'infanzia -- Le prime origini dei problemi psico-fisiologici. L'attività volontaria -- La suprema libertà dello spirito -- Varie forme della personalità umana derivanti dall'attività volontaria -- Attinenze tra la facoltà conoscitiva e l'attività volontaria -- Corrispondenza dell'organismo col potere affettivo -- Trapasso dalla teorica dell'essenza umana alla teorica della vita umana -- Il corso della vita umana -- Della conoscenza esteriore -- Mente e corpo distinti ed uniti nella persona umana -- La gioventù -- La virilità -- I poteri della vita  -- Teorica della sensitività -- L'atteggiamento esteriore dell'organismo ed il potere animatore -- Concetto comprensivo della persona e dell'essenza umana La vita maschile -- La vecchiaia -- Delle potenze in riguardo all'oggetto -- Delle potenze in rapporto col soggetto umano -- Delle potenze umane in particolare -- Specie del potere affettivo -- Del potere animatore -- Distinzione essenziale tra la mente e l'organismo corporeo -- Unione personale della mente coll'organismo corporeo -- Del potere affettivo -- Carattere universale ed ufficio del sentimento -- Concetto e forme della vita umana -- La vita propria e la vita comune -- Divisione del corso temporaneo della vita ne'suoi periodi fondamentali -- Durata della vita umana -- Dei periodi della vita umana in particolare -- Considerazioni generali in torno i periodi della vita -- La vita oltremondana -- Delle potenze umane in generale -- Delle potenze considerate nel loro sviluppo -- La vita fisica e la vita mentale -- Del senso fisico e delle sensazioni -- Del senso spirituale e de' sentimenti -- Del sentimentalismo -- Dell'istinto -- Della percezione sensitiva -- Della fantasia sensitiva -- Teorica dell'intelligenza -- Della speculazione e della memoria. Dell'intelligenza in riguardo al soggetto conoscente -- Dell'intelligenza in riguardo all'oggetto pensabile -- L'esperienza e -- L'intelligenza umana e LA PAROLA --  Dell'immaginazione. Concetto generale dell'immaginazione. Specie dell'immaginazione. Efficacia dell'immaginazione. Delle potenze estetiche. Teorica della volontà. Potere della volontà. L'operare della volontà. La libertà del volere. TEORICA DEL CARATTERE UMANO E DEL TEMPERAMENTO -- Ragione e genesi del carattere -- Concetto generale del carattere id. Dell'intuizione. Dell'attenzione intermedia tra l'intuizione e la riflessione -- Della riflessione -- Dell'istinto in ordine all'oggetto -- Trapasso dalla teorica della sensitività alla teorica dell'intelligenza -- Concetto generale dell'intelligenza -- Dell'intelligenza in riguardo al soggetto pensante -- La libertà del volere e la scuola positivistica -- Critica del determinismo positivistico -- La libera volontà e l'ambiente Art.7. Sintesismo dei poteri della vita -- Del senso -- Dell'istinto rispetto allo scopo la ragione. Dell'intelligenza in riguardo all'oggetto conosciuto -- Del carattere in ispecie -- Del carattere riguardato nella sua fonte -- Del carattere rispetto alle potenze ed alle forme dell'attività umana -- Del carattere morale -- Il carattere umano nella specie, nelle stirpi, nelle nazioni -- Del temperamento -- De'temperamentiinparticolare -- De'temperamenti in rapporto fra di loro “Studi pedagogici”; “Attinenze tra l'antropologia e la pedagogia”; Il linguaggio e la scrittura -- Dell'attenzione -- Dell'immaginazione sensitiva -- Dell'arguzia -- Della riflessione -- La memoria ed il ricordo -- Educazione del senso del bello -- La Levana di Giovanni Paolo Richter – Cenni biografici dell'autore --- Concetto generale -- Importanza ed efficacia dell'educazione -- La Levana o Scienza dell'educazione -- Appendice: Dell'educazione fisica infantile -- Dell'educazione della donna. “Esame dell'hegelianesimo”; “Il ritorno al principio della personalità”.  Corvino, Dizionario biografico degli Italiani alla voce corrispondente  in F. Corvino, Op. cit. ibidem   A., su accademia delle scienze. A., su Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Giuseppe A., in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  A. in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Giuseppe A., su open MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Giuseppe A.,  Filosofia Filosofo  Filosofi San Germano Vercellese Torino Membri dell'Accademia delle Scienze di Torino. L'intelligenza umana e la PAROLA (dal greco, parabola) sono due termini,che mostrano l'uno verso l'altro armonica corrispondenza e vicendevolmente si spiegano e s'illustrano, come lo spirito ed il corpo nell'uomo. Il conoscere ed il sapere umano ritrae dalla ‘parola’, che lo riveste, una peculiare impronta, che lo distingue dal conoscere proprio degli spiriti puri, e la lingua rivela la tempra mentale. L'intelligenza infantile si schinde dal suo germe in grazia della ‘parola’, con essa va via via sviluppandosi e progredendo, con essa ha comuni le vicende e le fasi. Infatti, la ‘parola’ torna necessaria all'effettivo pensare, all'effettivo conoscere. Finchè il pensiero non si concreta nella ‘parola’, ed in essa per così dire non s'incorpora, nès'incarna, è inconsistente, sfuggevole, vago, non per anco formato, ma solo rudimentale ed appena sbozzato. Le percezioni, che si hanno degli oggetti esterni mercè isensi, sono confuse, indistinte, e si dileguano col dileguarsi degli oggetti percepiti. Ben si possono in certo qual modo fissare colle immagini, le quali rimangono anche nell'assenza degli oggetti materiali. Ma le immagini sono pur sempre *individuali*, come gli oggetti, cui si riferiscono, e per di più sfuggevoli e vane.Veri pensieri e vere cognizioni propriamente dette non si hanno se non mercè la ‘parola’. E e questa torna tanto più necessaria, quanto più la idea da SIGNI-ficare (o segnare) e generale ed astratta, ed ecco ragione per cui I BRUTI NON ‘PARLANO’ (Monkeys can talk) siccome quelli, che sono destituiti della facoltà di generaleggiare e di astratteggiare. Che se ponga si mente non più alla percezione esteriore, ma alla ragione ed alle funzioni diverse della riflessione, la necessità della ‘parola’ si chiarisce ancora più evidente a segno che senza di essa tornerebbe impossibile la formazione di qualsi voglia specie dell'umano sapere. Se adunque la ‘parola’ è vincolo necessario, che lega la mente col mondo delle idee e mezzo es -- Vedi la nota g in fine del volume. Due altre ragioni si aggiungono a confermare vie meglio la necessità di siffatto studio, l'una sociale, pedagogica l'altra. La ‘parola’ non solo è mezzo alla formazione dei pensieri e delle idee, ma altre sì organo il più acconcio A MANIFERSTAR la proposizione ALTRUI, epperò vincolo necessario, che congiunge l'uomo co'suoi simili in comunanza di vita, condizione potissima della società umana. Gli spiriti umani, perchè ravvolti nell'involucro dell'organismo corporeo, non possono rivelarsi l'uno all'altro, nè intendersi, nè mutuamente rispondersi senza qualche MEZZO SENSIBILE riposto in qualche atto o movimento del corpo: quale è appunto la ‘parola’, la cui potenza ed efficacia sugli animi altrui è meravigliosa. Ancora, essa non solo è una necessità sociale, ma altre sì pedagogica, perchè è vincolo essenziale, che unisce in armonia di intendimenti e di voleri l'educatore coll'alunno, il maestro col discepolo, tanto chè senza di essa ogni educazione ed istruzione vera ed efficace rimane un vano e sterile desiderio. La ‘parola’ e l'immaginazione, quando vengono raffrontate l'una coll'altra, appariscono convenire insieme in ciò, che entrambe importano una dualità di elementi, sensibile ed intelligibile [[psico-fisico]] insieme accoppiati, e sono potenze individualizzatricie rappresentative dell'idea sotto forma sensibile. Ond'è che tal fiata l'immagine ridesta la ‘parola’, tal altra la ‘parola’ ri sveglia l'immagine, ed amendue rinvengono un punto di comune contatto nel linguaggio metaforico, figurato, immaginoso. Ciò nulla meno evvi tra queste due potenze siffatto divario, che l'immagine essenzialmente si di spaia dal semplice SEGNO, ed oltre di ciò la ‘parola’ è un sensibile tolto dall'organismo umano, l'immagine per contro è un sensibile attinto dalla natura esterna. Riguardata nella sua nativa essenza la ‘parola’ può venire definita un sensibile umano SEGNANTE (o significante) un intelligibile. Umano, dico, perchè riposto in qualche atto o movimento del nostro corporeo organismo, quale il gesto, la voce pronunciata ed udita. Rintracciando la ragione spiegativa dell'essenza della ‘parola’ noi la rinveniamo nell'essenza stessa dell'uomo. Infatti i due costitutivi della ‘parola’, quali sono IL SEGNO [o SEGNANTE]  sensibile e l'e lemento intelligibile [IL SEGNATO], ritrovano la ragione ed il fondamento loro nei due supremi costitutivi dell'essere umano, quali sono l'organismo corporeo [il segnante] e la mente [il segnato]; e come all'essenza dell'uomo torna tanto necessario lo spirito, quanto il corpo, così è tanto necessario alla ‘parola’ il SEGNO quanto l' idea significata [IL SEGNATO]. Onde si vede ragione, percui ai bruti, destituiti di mente, fallisce la ‘parola’. Inoltre a costituire la ‘parola’ non basta la dualità degli accennati elementi, ma occorre, che siano contemperati ad unità, essendochè il sensibile debbe essere SEGNO [segnante] di un intelligibile.  -- esenziale alla formazione de' pensieri ed all'acquisto delle conoscenze effettive, appare manifesto, che l'intelligenza umana, ad essere compiutamente compresa, va altresì studiata nelle sue attinenze colla ‘parola’. Ora quest'unità importa un primato dell'intelligibile sul sensibile, ed ha la sua ragione nel dominio della mente sull'organismo corporeo, ciò è dire nell'armonia stessa dei due supremi costitutivi dell'uomo. In fatti la mente nostra padroneggiando l'organismo, con cui è naturalmente congiunta, essa è che eleva i gesti, la voce, l'udito, il moto delle membra alla virtù di significare [O SEGNARE] una idea o un sentimento dell'animo, vincolando questi con quelli. Di qui la bella sentenza di Cicerone intorno l'origine della ‘parola’. Vox principium a mente ducens (De natura Deorum). Nella parola adunque il segno O SEGNANTE sensibile e l'idea, o IL SEGNATO, sono due termini inseparabili tanto, quanto sono nell'uomo indisgiungibili lo spirito ed  il corpo. Da siffatto interiore e naturale compenetramento fluiscono alcuni corollarii, che reputo opportuno di accennare. Il pensiero progredisce di pari passo col linguaggio. La lingua corre le medesime sorti e segue le stesse fasi che il pensiero,tanto chè la ragion spiegativa delle origini, dei progressi, delle trasformazionie del corrompersi di un idioma va rintracciata nello studio delle vicende, a cui soggiace il pensiero di un popolo, che lo parla. Dichesi pare quanto vadano errati non pochi cultori della filologia, i quali la segregano onninamente d allo studio del pensiero umano, di cui il linguaggio è l'ESPRESSIONE esteriore, togliendole di tal modo il carattere di scienza, non solo, ma trasmutandola in un tessuto di errori. Lo stampo e l'indole peculiare di un idioma arguisce uno stampo o tempra singolare di mente in chi lo adopera. Epperò come gli è vero, che la lingua genericamente presa è nota specifica, che distingue l'umano pensare e conoscere da quello di altri esseri intelligenti, così è pur vero, che i differenti idiomi in particolare sono note altresì distintive, che differenziano le une dalle altre le menti umane individue e nazionali. Tuttavia in mezzo a questa tra grande varietà di lingue etnografiche apparisce un fondo comune, su cui tutte sono intessute, e, direi, uno spirito universale, che tutte le informa e le solleva ad una unità superiore, essendochè la mente umana, se si manifesta molteplice e varia nelle molteplici nazioni e nei varii individui, risguardata nella suas pecifica essenza è una ed identica, perchè, governata dalle medesime leggi logiche e rivolta all'universalità del vero. E quest’unità radicale delle lingue riverberata dall'unità specifica della mente umana arguisce logicamente l'unità originaria e specifica del genere umano, come la loro moltiplicità arguisce la varietà delle razze,in cui esso è distribuito sulla faccia della terra. Consegue ancora dal principio stabilito, che il tradizionalismo, il quale pronuncia, che l'uomo riceve dalla società insieme colla ‘parola’ anche le idee e la virtù dello intendimento, apparisce erroneo, siccome quello, che disconosce il primato dell'idea sul segno vocale, e l'ingenita virtù della mente di elevare la voce a dignità dinunzia del pensiero. Se l'uomo impara dalla società il linguaggio, ciò è dovuto alla virtù, che possiede la sua intelligenza, di intenderne il significato o SEGNATO. Infine discende quest'altro corollario, che non manca della sua importanza pedagogica. Vera istruzione non è, quando il discepolo riceva passive la parola del maestro, come se questa dia bell'e fatta all'alunno l'idea, la quale invece vuol essere un portato del suo lavoro mentale, e quindi si deve cooperare alla forma zione della ‘parola’. Poichè altro è ricevere la ‘parola e meccanicamente ripeterla, altro è FARLA NOI. IMPLICATURA. La’ parola’ ‘altrui ha sempre alcunchè di vago, di incerto e di oscuro per CHI LA RICEVE, mentre presenta un SENSO FERMO  e più o men definito per chi se la forma, come si avvera nella formazione di un neologismo come ‘implicatura’. Il linguaggio umano trae le sue prime origini da quell'impulso spontaneo della NATURA, che spinge l'infante a significare O SEGNARE mercè di una GRIDA INARTICOLATA il suo BISOGNO, il suo desiderio, la sua sensazione, e già abbiamo chiarito altrove, come a poco a poco egli ne abbia svolto il suo linguaggio ARTICOLATO. Ma la grida primitiva, onde si svolse il linguaggio articolato e convenzionale, non costituiscono tutto quanto il linguaggio naturale, spontaneo o di azione, il quale abbraccia altresì IL GESTO, il movimento, la fisionomia ed altri segni ed atteggiamenti esteriori della persona. Ora GESTO può anch'esso svolgersi e perfezionarsi, o come complemento del linguaggio o accompagnando e compiendo il linguaggio articolato, o da sè solo sotto forma di linguaggio mimico, quale lo scenico dei drammatici e lo educativo dei sordo-muti. Il linguaggio articolato primeggia sul naturale, perchè il suono articolato o l'organo vocale, accompagnato dall’organo auditivo,è più pie ghevole, più facile, più svariato e perfettibile,più acconcio ad esprimere le idee in tutte le loro articolazioni. Esso può essere o parlato, o scritto. La ‘parola’ parlata riesce più viva della scritta, più ESPRESSIVA, più animata, ma alla sua volta questa è stabile e permanente, quella sfugge vole e mobile. Il linguaggio articolato riveste forme diverse corrispondenti alle forme progressive dell'intelligenza nelle varie età degli individui. Quindi si distingue un linguaggio proprio dell'intuizione e del sentimento, un altro della riflessione e della coscienza, un altro della scienza e dell'arte. Il linguaggio dei popoli e degli individui fanciulli è povero, sintetico, metaforico e figurato. Quello dei popoli e degli individui adulti è più o meno concettoso, la grammatica ne è fissa, la prosa misurata. Quello dei popoli colti e dei pensatori è dotto, analitico e sintetico ad un tempo. Imparare a parlare è qualche cosa di più elevato che non imparare le lingue particolari; e noi impariamo a parlare apprendendo LA LINGUA MATERNA. Questa lingua, che abbiamo imparato da piccini, quando la nostra intelligenza cominciava a schiudersi, costituisce per noi il linguaggio per eccellenza. Ogni altra nuova lingua, che sia pprenda, si capisce soltanto mediante il suo paragone o rapporto colla lingua materna, ed a questa con maggior ragione convengono tutte le lodi, che noi attribuiamo alla lingua dei Romani come mezzo di coltura. Il bambino è sempre tanto desideroso di udirvi, che spesso vi interroga anche su cose conosciute, unicamente per aver occasione di ascoltarvi. Or bene tutto il mondo esteriore vien fatto comparire e brillare davanti alla fantasia del bambino mediante il nome, con cui vien designato ciascun oggetto. Tutto ciò, che è corporeo, venga analizzato sotto gli occhi del fanciullo durante i suoi due primi lustri, ma non gli si faccia analizzare affatto tutto ciò, che è solo spirituale. La lingua materna siccome e la più innocente delle filosofie pel fanciullo, siccome il più valido esercizio di riflessione. Parlategli molto e con precisione, ed anche da lui esigete la precisione.Una PROPOSIZIONE oscura, ma che diventa chiara se ripetuta una volta, provoca l'attenzione e rinforza l'intelligenza. Non temete mai di non essere intesi, e nemmeno se si tratta di intere proposizioni. La vostra faccia, il vostro accento, e il vivo bisogno che sente il fanciullo di comprendere, rendono chiara la cosa per metà. E questa prima metà farà col tempo capire anche l'altra. Pensate che I fanciulli. [SVILUPPO DELLA TENDENZA ALLA COLTURA DELLO SPIRITO] come facciamo noi per la lingua greca o per qualunque altra lingua straniera, imparano prima a CAPIRE la nostra lingua, che a ‘parlar’-la. Al bambino parlate sempre come se avesse qualche anno di più. L'educatore, il quale a torto attribuisce al suo insegnamento troppa parte di ciò, che impara l'alunno, ricordi che il bambino porta già pronto in se medesimo ed imparato tutto il suo mondo spirituale (cio è le idee morali e metafisiche), e che la lingua con tutte le sue immagini sensibili non serve che a rischiarare questo mondo interiore. Qui trova suo luogo la questione dello studio della lingua dei romani come mezzo di coltura mentale. Lo studio della lingua de romani e come una ginnastica dello spirito, che ne riceve una scossa ed eccitazione salutare.Esso studio, non tanto in virtù del mero vocabolario, quanto in forza della grammatica, che è la logica della lingua, costringe lo spirito a ripiegarsi sopra di sè, a riflettere sulla ‘parola’, considerandole come un riverbero della propria attività intuitiva. Dal linguaggio si passa a dire dello scrivere, ed anche su questo punto non sono meno assennati ed acuti I suoi accorgimenti. In sua sentenza, lo scrivere, ancora più che il ‘parlare’, separa e concentra le idee, perchè il suono meccanico della ‘parola’ parlata insegna a scosse e passa rapido, mentre i caratteri della scrittura ‘parlano’ in modo continuato e distinto. Lo scrivere facilita la produzione delle idee assai più che il suono rapido della ‘parola’, essendo esse una veduta interiore più che un'audizione esteriore. Sotto altri riguardi la ‘parola’ parlata assai sovrasta alla parola scritta, essendochè quella è ‘parola’viva, che esce animata dall'interiore organismo e discende potente nell'anima di chi la ascolta, mentre questa è parola morta, che esce dalla penna inanimata e non è che una debole eco della prima. Esercitate di buon’ora, e gli prosegue, il fanciullo a scriver e I pensieri suoi proprii piuttostochè ivostri. Risparmiategli i temi comunissimi, quali sarebbero le lodi della diligenza, del maestro di scuola,dei governanti ecc.Niente più nuoce a qual siasi componimento, quanto la mancanza di un oggetto proprio e di inspirazione. Una lettera, provocata unicamente dalla volontà del maestro, e non da un bisogno del cuore, diventa una  morta apparenza di pensiero,un inutile consumo di materia mentale. Se fate scrivere lettere, siano rivolte ad una persona determinata e sopra un determinato oggetto. Lo scrivere una pagina eccita e sveglia l'intelligenza assai più che il leggere un libro intiero. Vi è tanto poca gente,che sappia scrivere con un po'di garbo, quanto son pochi coloro, che sanno dire quattro periodi continuati  [2. Dell'attenzione. È avviso dell'autore,che l'attenzione,riguardata non in generale,ma specialeerivolta ad un particolare oggetto,non va raccomandata,nè suscitata o promossa con mezzi esteriori, quali sarebbero il premio od il castigo, poichè in tal caso il fanciullo più che all'oggetto proposto all'osservazione, terrebbe l'animo attento al premio, che lo attrae, od al castigo minacciato. Pongasi mente, che esso non è atto a sostenere un'atten zione prolungata e non mai interrotta;perciò non pretendete, che anche trattandosi d'un argomento, che possa interessarlo, vi presti la sua attenzione in qualunque ora e luogo e per tutto il tempo prescritto dai nostri regolamenti scolastici. La novità è pure una potente attrattiva per l'attenzione, m a per ciò stesso non va sciupata ripetendo troppo spesso le medesime cose sicchè diventino monotone e stucchevoli.] Chi dovrà un giorno fare giustizia e scrivere veramente la storia del pensiero filosofico italiano nell’ultimo secolo, non potrà non dare una gran parte allo spiritualismo: del quale certo uno dei più illustri e combattivi rappresentanti è stato ed è»1. Le parole di Calò attestano una realtà difficilmente discutibile per chi si approcci anche alle vicende della pedagogia italiana nel mezzo secolo successivo all’Unità. A. compì gli studi al seminario arcivescovile di Vercelli. Vinta una borsa al collegio Carlo Alberto di Torino, si iscrive nella Facoltà di filosofia della Regia Università. Si distinse per la preparazione e l’applicazione negli studi. In un saggio pubblicato sulla «Rassegna Nazionale», Cottini riporta una lettera scritta da Aporti che comunica ad A. la vincita di un premio che ammontava a trecento lire per i suoi meriti filosofici, segno premunitore di una carriera accademica di primo piano. Laureato, e chiamato alla direzione di una scuola di metodo presso Novara. Iniziò così una serie di seminarii che lo portarono in diversi centri piemontesi. Trasferito a Domodossola, poi ad Ivrea, quindi nel collegio di Ceva e successivamente a Casale Monferrato. E destinato all’insegnamento di filosofia al Regio Liceo di Porta Nuova a Milano. Calò, A. Filosofo, in Vita e mente di A., Torino, Scuola Salesiana; Gerini, Filosofi italiani, Torino, Paravia; Braido, A., Dizionario Enciclopedico, Torino, S.A.I.E.; Biagini, A. Enciclopedia; Brescia, La Scuola; Cottini, A. «Rassegna Nazionale», ogica e metafisica, all’Academia Scientifica – Letteraria. Ebbe modo di stringere rapporti con alcune delle personalità di spicco della cultura milanese: Pestalozza, Poli, Cantù, Dandolo. Continua a tenere i rapporti con l’università torinese, dove supera l’aggregazione nella Facoltà di lettere e filosofia, con giudizi molto positivi di Mamiani ROVERE (si veda) e di Rayneri. Sonno anni di intenso studio. Torna a Torino nominato insegnante di filosofia al Regio Liceo Cavour e incaricato del corso all’Università, dopo la morte di Rayneri. Continua ad insegnare nella scuola sino a quando e nominato titolare della cattedra. Divenne ordinario ed insegn ininterrottamente all’Università di Torino. La sua produzione e copiosa. I suoi saggi più importanti sono: Saggi filosofici, Della filosofia in Italia, L’antropologia e l’hegelismo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, L’educazione e la nazionalità, L’educazione e la Scienza, Del positivismo; Delle idee dei Greci, Studi, Riforma 4 Cottini riporta un ricordo di Parato, risalente al giorno A. passa il concorso per l’aggregazione a Torino. Parato, anch’esso decoro e vanto della scuola italiana, dice nella sua Vita, che avendo nel giorno stesso della pubblica prova incontrato Rayneri, allora professore nel Torinese Ateneo, gli venne dal medesimo annunciato con trasporto di gioia che il Collegio Universitario ha allora allora accolto nel suo seno una sicura speranza della filosofia italiana. Cottini, A. Nel suo articoli, Cottini trascrive una lettera di A. indirizzata a Raineri, rinvenuta dallo studioso Roca tra le carte che Raineri affide agl’archivi dei padri rosminiani. Si tratta di pagine molto significative, scritte poco dopo la morte del figlio Giulio, deceduto all’età di soli dieci anni: «Professore carissimo, Vi sonon grato e riconoscente della vostra lettera consolatoria. La profonda e grave ferita, che mi sta aperta nell’animo, è insanabile, ma pure ringrazio di cuore gl’uomini del loro pietoso ufficio. L’immagine del mio povero Giulio mi accompagna dovunque, eppure so che vivo non lo rivedrò mai più sulla terra. La mia mente è con lui nel sepolcro, dove assisto col pensiero alla dissoluzione delle sue povere membra, che si confondono colla polvere della terra e in ogni passo che faccio, mi pare ci sentirmi dire: Padre, perché mi calpesti? Ah, se io avessi la sventura di essere materialista, vedendo che il mio Giulio è tutto finito in un pugno di polvere, non saprei resistere all’idea di rinunciare anch’io alla vita in modo violento. La fede, solo la fede cristiana, mi fa forte nella lotta tremenda, e rassegnato ai duri, eppur sempre adorabili voleri di Dio. La natura mi ha strappato dal seno il mio diletto per convertirmi il corpo in poca polvere; la fede miaddita il suo spirito sempre vivo in cielo e mi assicura che quella poca polvere si rifarà corpo vivo per mantenerla. Non ho voluto che la salma di mio figlio giacesse qui a Milano, dove non si pensa più ai poveri morti: l’ho fatto in quel campestre cimitero, accanto ai sepolcri, dove riposano lacrimate le ossa de’ miei genitori. E vorrei anch’io abbandonare per sempre Milano, ma non posso nulla per me. I molti miei amici vivamente mi solleticano di chiedere la cattedra di pedagogia vacante nell’Università di Torino, e ci andrei volentieri, ma io mi tengo forte nel mio proposito di non chiedere più nulla al Potere. Ieri mi è giunto notizia che è morto un mio fratello ammogliato, lasciando dietro di sé tre creature. E quasi tutto ciò non bastasse, ho il mio ultimo bimbo di quatto anni ammalato da 25 giorni di febbre miliare, in grave pericolo di vita ed ormai disperato dai medici. Sono infelice, ma l’infelicità non è così, quando si è con Dio, il quale ci addolora quaggiù per bearci in cielo. Ricambiate i mieri saluti a quall’anima di Iacopo Bernardi: ditegli che gli sono proprio riconoscente della parte che prese al mio dolore, e voi vogliatemi sempre bene»] dell’educazione mediante la riforma dello Stato, Esame dell’hegelismo, La filosofia antica, Opuscoli, Rousseau filosofo; Breve compendio di filosofia elementare ad uso de’ licei; Elementi di filosofia ad uso delle Scuole normali del Regno e il Compendio di Etica ad uso dei Licei, con più edizioni e ampiamente adottati nelle scuole italiane. A. collabora attivamente alla pubblicistica pedagogica e filosofica del tempo. Con Passaglia e il principale animatore del Gerdil, organo dei giobertiani e spiritualisti torinesi, che ha però breve durata non riuscendo a superare l’anno. Vi scriveno, tra gli altri, Bertini e Bertinaria. Diresse “Il campo dei filosofi,” un periodico fondato a Napoli da Milone, poi trasferito a Torino. Si tratta di un’esperienza pubblicistica che ha una certa rilevanza nel dibattito filosofico italiano, come ha già sottolineato Garin. Vi collaborarono autori come Giovanni, Toscano, Morgott, Peyretti, Rayneri, Tagliaferri, Bonatelli, Marsella, Tiberghien, e Bosia, Cfr. Chiosso, La stampa filosofica scolastica in Italia, Brescia, La Scuola. Dopo aver citato alcuni brani della rivista, Garin osserva. Il “Campo dei filosofi”, la rivista vissuta a Napoli e poi passata a Torino sotto la direzione d’A., si propone di combattere soprattutto l’idealismo dell’Hegel e il positivismo del Comte – come scrive A. nel programma, continuando del resto l’attività iniziata a Napoli dal barnabita Milone. Oltre i saggi di critica all’hegelismo, altri ve ne comparvero, d’A., di Giovanni, di Donati, di Selvaggi, e di Tagliaferri. E l’attività della rivista in questo settore merita di essere studiata tanto più che non è privo d’interesse il legame subito stabilito fra hegelismo e positivismo, quasi gemelli nemici. Dopo aver ricordato la facilità con cui diversi idealisti si convertirono al positivismo negli anni seguente all’Unità, Garin spiega questo fenomeno riprendendo e valorizzando l’analisi d’A. che vede in queste due teorie apparentemente distanti, un comune denominatore. Quell’onesto filosofo che e A., professore a Torino, che alimenta una vivace e seria discussione intorno all’hegelismo sul “Campo dei Filosofi Italiani”, che mette insieme un onesto libretto su L’hegelismo, la scienza e la vita, pubblicando a Torino, un Esame dell’hegelianismo, che vuole essere un bilancio, crede di poter individuare una convergenza profonda fra positivismo e hegelismo. L’Hegelianismo – scrive – e il positivismo, che a tutta prima hanno sembianza di due dottrine diametralmente opposte e riluttanti, in realtà sono fra loro congiunti da un punto di contatto intimo e profondo. Assoluta IMMANENZA, realtà come processo e sviluppo, celebrazione della scienza. Ecco alcuni dei punti su cui insiste A., pur avverso a entrambe le concezioni. Ma comunque si valuti la sua disamina, e al di là dei casi degl’hegeliani passati al positivismo, una cosa certa A. coglie esattamente: l’esistenza di una ‘riforma’ in atto della dialettica del senso dell’evoluzionismo, con tutto quello che una veduta del genere implica, in metafisica, in politica, in diritto, e in morale, per usare le sue parole. Proprio dentro questo processo, già avviato nell’ambito dell’eredità feurbachiana, si muove fra tensioni e polemiche Labriola: contro l’evoluzionismo spenceriano al posto del moto dialettico della storia, contro il socialismo neo-kantiano-positivistico al posto del marxismo, per una rinnovata filosofia della prassi, ma anche – lo dichiara a Engels per una sostituzione del metodo genetico a quello dialettico, il che non e solo questione di parole. Garin, Filosofia in Italia, Bari, De Donato. Polla, Leonardi, Naville, Passaglia e altri. In seguito pubblica una serie di articoli sulla Rivista filosofica. Quando e ormai divenuto uno tra i principali protagonisti del dibattito nazionale, A. assunse la direzione de «Il Baretti», un foglio dedicato a questioni scolastiche. Qui vi apparvero per lo più una serie di saggi utili a lumeggiare le sue posizioni in merito alla libertà e, più in generale, alla politica ministeriale. A. rappresenta una delle personalità di primo piano del spiritualismo italiano. I suoi saggi divennero un punto di riferimento per la riflessione, trovando una considerevole circolazione pedagogica, per riprendere una categoria riproposta da Prellezo. La Bertoni Jovine ne parla come il maggiore esponente dello spiritualismo, sino a considerarlo, esagerando, come la guida della corrente. A. insegna in un Ateneo come quello torinese che oltre ad avere con quello napoletano il primato, rappresenta uno dei poli principali del dibattito italiano, sia in campo accademico, che in quello pubblicistico e scolastico. Cfr. Chiosso, La stampa scolastica in Italia; Chiosso, I giornali scolastici torinesi dopo l’Unità; Stampa nell’Italia liberale. Giornali e riviste. In un saggio dedicato a Rayneri, a cui ne segue uno analogo su A., Prellezo invita ad approfondire la capacità di influenza dei spiritualisti più impegnati teoreticamente con la realtà filosofica. Egli parla della necessità di promuovere ricerche puntuali allo scopo di definire limiti e portata dell’incidenza delle dottrine non solo nell’ambito delle riforme dell’insegnamento pubblico, ma anche, ad esempio, in quello dell’azione dei fondatori e primi membri delle istituzioni dedicate all’insegnamento. Prellezo, Pensiero e politica scolastica. Il caso di Rayneri, in «Annali di Storia delle Istituzioni scolastiche», Brescia, La Scuola, Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia della scuola italiana, Roma, Editori riuniti, Il neo spiritualismo d’A. se riuscì a creare una corrente alla quale aderirono studiosi come Conti e Alfani e tutto il gruppo della Rassegna Nazionale non ha la capacità intrinseca di operare un capovolgimento della filosofia e neanche quella di combattere efficacemente il positivismo che, benché debole dal punto di vista speculativo, e portatore di vivissime esigenze socali, sostenute dai partiti democratici» D. Bertoni Jovine, La scuola italiana, Roma, Editori Riuniti; Serafini, Cultura italiana, Roma, Bulzoni. Riguardo alla circolarità d’A. nello spiritualismo, merita di essere accennata la collaborazione con i salesiani. Il docente vercellese poté conoscere presumibilmente l’esperienza educativa della congregazione già negli anni dell’Università, prima come studente della città di Torino, e poi quando divenne professore. Diversi collaboratori di Don Bosco frequentarono infatti l’ateneo subalpino. In seguito, uno dei suoi figli studiò al collegio salesiano di Mirabello. Il docente vercellese si avvicinò sempre più alla congregazione: collaborò nel collegio salesiano di Valsalice, partecipò alle numerose manifestazioni scolastiche e culturali dei salesiani in città15, fece spesso visita in qualità di «esperto» alle scuole del santo piemontese. Alcuni studiosi salesiani hanno parlato di una vera e propria amicizia tra Don Bosco e il pedagogista vercellese16. Un episodio risulta significativo nella ricostruzione di questo rapporto. Quando l’oratorio di Valdocco rischiò di essere chiuso per dei provvedimenti voluti dal Ministro Correnti, A. si offrì per cercare di salvare l’istituto. Aiutò don Bosco nella compilazione dell’istanza da inviare al Ministero e si impegnò per inoltrare un ricorso al Consiglio di Stato. Negli anni seguenti mantenne stretti i rapporti con gli altri salesiani più giovani, soprattutto con don Durando, direttore generale degli studi delle scuole salesiani. Il pensiero dello studioso vercellese ispirò anche alcune opere dei primi pedagogisti salesiani17. Prellezo documenta l’influenza della pedagogia di A. sulla Storia della pedagogia di Cerruti e sugli Appunti di pedagogia di Barberis18. Una certa influenza è anche rilevabile nelle Lezioni di pedagogia di don Vincenzo Cimatti. Sul tema si rinvia al documentato e approfondito studio di: J. M. Prellezo, A.negli scritti pedagogici salesiani, «Orientamenti pedagogici», Proverbio ricorda la presenza dell’A. alla seconda rappresentazione del Phasmatonices di Rosini. «Le insistenza per la replica furono tali che il sipario si riaprì l’otto giugno: vi accorsero molti torinesi, tra cui il professor G. A., docente di pedagogia alla Università di Torino, il quale “andava per la sala del teatro a trarre innanzi persone ragguardevoli”, mentre negli intervalli venivano eseguite le romanze verdiane di G. Cagliero» G. Proverbio, La scuola di don Bosco e l’insegnamento del latino, in F. Traniello (ed.), Don Bosco nella storia della cultura popolare, Torino, Sei, Trat tando del santo piemontese, Braido ha osservato: «reali furono le relazioni, perfino di cordialità e di amicizia, con alcuni teorici della pedagogia contemporanei, come A. Rosmini, Rayneri, G. A.» P. Braido, L’esperienza pedagogica preventiva, Don Bosco, in Id. (ed.), Esperienze di Pedagogia cristiana nella storia, Si veda anche: J. M. Prellezo, A.negli scritti pedagogici salesiani, Su tale legame Pietro Braido ha rilevato: «Giannantonio Rayneri e A.esercitarono un palese influsso diretto su due note figure di studiosi salesiani di pedagogia, rispettivamente Cerruti e Barberis; gli inediti Appunti di Pedagogia sacra di quest’ultimo rivelano un’evidente dipendenza. A., benefattore e sostenitore di Don Bosco, si batté strenuamente per la sopravvivenza delle scuole di Valdocco, mettendo a disposizione, in difesa della libertà educativa, la sua energica contrarietà al centralismo burocratico del Ministero della P.I.» in P. Braido, L’esperienza pedagogica preventiva nel secolo XIX, Don Bosco, in Id. (ed.), Esperienze di Pedagogia cristiana nella storia, 313. 18 J. M. Prellezo, A.negli scritti pedagogici salesiani, 406-412. 19 413.  26  verità, anche altri manuali pedagogici del tempo si ispirarono alla riflessione dell’A.20. Se l’opera del vercellese fu accolta subito con favore dal circuito cattolico liberale e da quello salesiano, il gruppo intransigente non sembrò accorgersi del suo contributo. Solo all’inizio del Novecento, quando la dialettica interna nel mondo cattolico assunse toni meno aspri, anche «La Civiltà cattolica» lo menzionò per le sue posizioni a favore della libertà d’insegnamento21. Sebbene l’opera di A. mantenne una dimensione prevalentemente nazionale, egli attirò l’attenzione di alcuni studiosi stranieri come Naville, Daguet, Blum. Dopo una lunga esistenza spesa interamente alle riflessione educativa si spense a Torino. Influenze rosminiane e dimensione europea Alla costruzione del sistema pedagogico e filosofico dell’A., contribuirono molteplici scuole e sollecitazioni. Gran parte degli studi dedicati al pedagogista vercellese hanno rilevato un’«evidente traccia della riflessione rosminiana»22, come già aveva sottolineato nelle sue ricerche Gentile23. Per cogliere le ragioni di tale influenza, occorre in primo luogo considerare il peso del rosminianesimo nella cultura pedagogica e filosofica piemontese della prima metà dell’Ottocento. L’Ateneo torinese rappresentò con i seminari lombardi uno dei maggiori centri di influenza e propagazione della filosofia del roveretano24. Si tratta di un afflato radicato, che si conservò ancora a lungo nella cultura subalpina25. A. trascorse, pertanto, gli anni della sua formazione universitaria in un contesto permeato dal pensiero rosminiano. Diversi dei suoi professori erano discepoli rigorosi del roveretano. Grazie ad un suo docente, A. poté avere un primo contatto con Rosmini: Pier Antonio Corte inviò al pensatore roveretano un breve scritto dello studente vercellese per averne un parere. Poco tempo dopo, Rosmini rispose all’invito del professore e 20 Tra gli altri, Arcomano, sottolinea come il saggio di Costanzo Malacarne, Sunti di pedagogia, un classico della manualitstica pedagogica del tempo, appaia fortemente influenzato dalla pedagogia di A.. Cfr. A. Arcomano, Pedagogia, istruzione ed educazione in Italia, Chiosso, Editoria e stampa scolastica tra otto e novecento, in L. Pazzaglia (ed.), Cattolici, educazione e trasformazioni socio – culturali in Italia tra Otto e Novecento, Chiosso, Novecento pedagogico, Brescia, La Scuola, Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia. I platonici, Messina, Principato, Gambaro, Antonio Rosmini nella cultura del suo tempo, «Il Saggiatore», Traniello, Cattolicesimo conciliarista, Rosmini e il Piemonte. Studi e Testimonianze, Stresa, Edizioni rosminiane] apprezzò il lavoro pur sottolineando i limiti dello scritto di A., allora solo ventiduenne26. Pochi anni dopo, il pedagogista vercellese ebbe anche l’occasione di conoscere personalmente il Rosmini, poichè allora dirigeva un corso di Metodica a Domodossola, frequentato da alcuni allievi dell’Istituto di Carità. Del roveretano ebbe una impressione eccezionale. Ricordando quella circostanza, ne parlò come di una persona dotata di una «modestia pari alla sua grandezza», ma anche di una profonda serenità, probabilmente legata, in quel periodo, al recente Dimmitantur per le sue opere. Il legame con il rosminianesimo fu corroborato da Giovanni Antonio Rayneri, da cui A. ereditò la cattedra all’Università di Torino. Professore e sacerdote, il Rayneri rappresentò un protagonista nel fermento educativo e pedagogico piemontese tra gli anni ’40 e ’50 dell’Ottocento. Il suo sistema pedagogico si innestava sull’impianto filosofico del roveretano, di cui offrì un’organica riproposizione in chiave educativa. L’elaborazione di Rayneri fu di vitale importanza per la circolazione della pedagogia rosminiana. La lezione del suo predecessore rimase un costante punto di riferimento per l’A.. Lo studioso vercellese curò a pubblicazione postuma del saggio Della pedagogica, una summa in cinque volumi del pensiero del Rayneri, «supplendo il libro e mezzo, che mancava, con pochi appunti rinvenuti fra le carte dell’autore»29. Si tratta di un’opera considerata da A. come una delle maggiori confutazioni agli errori della pedagogia moderna30. In una delle sue prime opere più importanti,: L’Hegelismo e la scienza, la vita si trova una dedica molto significativa al suo maestro31. 26 In una lettera datata 17 febbraio 1852, il Rosmini scrisse al Corte: «La ringrazio d’avermi comunicato lo scritto del signor Giuseppe A.. L’ho letto con piacere e confermo pienamente il giudizio favorevole da lei portato e mi congratulo colla R. Università se fa di tali allievi, mi congratulo con Lei e coll’autore del detto scritto, che mi par l’ugna del leone. Quello che può mancare alla proprietà del linguaggio verrà in appresso, essendo cosa che solo s’impara cogli anni... Queste sottili osservazioni però non impediscono che il lavoro favoritomi sia degnissimo di lode» Citata in G. B. Gerini, La mente di A., Torino, Tipografia S. Giuseppe degli artigianelli, A., Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini, Milano, Cogliati, Chiosso, Rosmini e i rosminiani nel dibattito pedagogico e scolastico in Piemonte in Antonio Rosmini e il Piemonte. Studi e Testimonianze, 102. 29 G. Cottini, A., 71. 30 Nella commemorazione già citata scrive: «La Pedagogica mi apparisce una spiccata antitesi dell’Emilio di Gian Giacomo Rousseau; in quella tutto è semplice, connesso, lucido, ordinato e preciso: in questo tutto è sconnesso, incoerente, saltuario; il nostro Pedagogista ha la coscienza del suo pensiero, misura i suoi conoscimenti, non trascorre mai gli estremi; il ginevrino scatta fuori con grandi paradossi che colpiscono, con pensieri sublimi, grandi originali, dove la verità è in lotta continua con l’errore; Un’altra idea della vita, un giusto sentimento della natura umana, un vivo ed operoso concetto del dovere, sono questi i principi filosofici, che informano la Pedagogica del RAYNERI, principi diamentralmente opposti a quelli dell’umanismo contemporaneo, che fa dell’uomo Dio a se stesso» G. A., Commemorazione del primo Centenario della nascita di Rayneri, letta in Carmagnola, Asti, Tipografia Popolare Astigiana, La dedica recita: «Alla cara e venerata memoria di Rayneri, Che primo fra gl'italiani tentò elevare all'unità sistematica della scienza la. Pedagogica da lui per un ventennio professata all'Università di Torino questo tenue lavoro con riverenza di discepolo piamente consacro». Il vercellese fu invitato a tenere un discorso in occasione del centenario dalla nascita di Rayneri32. Ormai prossimo alla pensione, ripercorrendo quasi cinquant’anni di insegnamento universitario, ricordò con queste parole il maestro: «Gran parte della mia vita pedagogica sta collegata col nome di lui, essendochè negli anni miei giovanili, sedendo sui banchi dell’Università io ascoltava la sua magistrale parola, e che egli ha illustrato per poco più di un ventennio quella cattedra, che io tengo da quasi mezzo secolo»33. Durante gli anni del suo magistero, A. rimase sempre in contatto con gli ambienti rosminiani, collaborando anche ad alcune riviste ad esso legato34. Diversi concetti e posizioni del sistema del vercellese sono chiaramente mutuati dall’alveo rosminiano. Un primo elemento è l’idea della personalità, che A. pone al centro della sua pedagogia35. In questo campo, accolse gran parte dell’impianto psicologico e antropologico del roveretano, riproponendo la tripartizione delle facoltà: senso, volontà e intelletto, largamente utilizzate e approfondite dal professore piemontese. Al Rosmini lo legano anche ragioni e argomenti di critica alla filosofia moderna. Al pari del roveretano, ma anche di altri autori spiritualisti, A. riunì Kant e i pensatori idealisti sotto la stessa etichetta di «scettici». Un altro elemento riguarda l’unità di filosofia e pedagogia, di cui A. si fece araldo di fronte agli eccessi di metodologismo cui erano tentati anche alcuni studiosi cattolici36. All’idea di unità, è collegato un altro concetto rosminiano accolto da A., vale a dire quello del «sintetismo»37, strettamente connesso a quello di «armonia», considerato nodale per comprendere la sua idea di educazione38. Non senza motivo, Berardi riassunse la teoria della personalità dell’A. come una «traduzione del sintetismo di origine A., Commemorazione del primo Centenario della nascita di Giovanni Antonio Rayneri, letta in Carmagnola.Tra le altre, offrì la sua collaborazione alla rivista La Sapienza, Rivista di filosofia e di Lettere, diretta da Papa. Cfr. Antonio Rosmini e il Piemonte. Studi e Testimonianze, 65. 35 Giovanni Calò sostenne come, in fondo, «Quella del Rosmini è una pedagogia della personalità» G. Calò, Pedagogia del Risorgimento, Sansoni, Firenze, Commentando un breve intervento dello studioso vercellese sulla pedagogia del Rosmini, Cavallera ho osservato come «l’A. individua nel concetto di unità la forza del pensiero pedagogico rosminiano uscendo dai consueti schemi della illustrazione della metodica, ma non va oltre tale precisazione» Cavallera, Rosmini nella Pedagogia dell’Ottocento, Come conferma Mazzantini: «Rimasero sempre per lui fari di orientamento, nella sua vita di studioso, le dottrine ontologiche (già in gioventù manifestateglisi evidenti) della gradualità e del sintetismo degli esseri» Mazzantini, I capisaldi del sistema filosofico pedagogico di G. A., «Rivista Pedagogica» In merito la Quarello, che ha dato alle stampe uno dei lavori più precisi ed elaborati sull’A., ha osservato: «Nella dottrina pedagogica dell’A. la legge fondamentale è dunque l’armonia, legge che necessariamente deriva da quella suprema filosofica: “Il sintetismo universale”» V. Quarello, G. A., studio critico, Lanciano, Carabba] rosminiana»39. Sebbene il vercellese, ad esempio nei Saggi filosofici, sul tema si rifaccia alle opere del Krug, le tracce del discorso rosminiano sono evidenti. Se tali elementi mostrano un chiaro ancoraggio all’opera rosminiana, da una lettura più attenta delle opere di A. emerge tuutavia anche una serie di differenze con il roveretano che non permettono di ascrivere in toto l’opera del professore piemontese tra quello del circuito rosminiano vero e proprio, rispetto al quale, al contrario, manifestò l’esplicita intenzione di differenziarsi. Si tratta di una posizione che, secondo uno dei più importanti pedagogisti di scuola rosminiana, poteva tuttavia essere letto in modo positivo40. Già Francesco Paoli, curatore di alcune delle più importanti opere postume del Rosmini e suo ultimo segretario, nel saggio Della scuola di Antonio Rosmini, recentemente ripubblicato, nel disegnare la geografia del rosminianesimo in Italia sottolineava la dissonanza tra l’A. e il roveretano41. Questa precisazione di Paoli, peraltro in un libro con toni marcatamente apologetici, denota come tra i seguaci «osservanti» del roveretano, l’A. non fosse considerato un rosminiano «ortodosso», nonostante la riconosciuta prossimità. La distanza tra i due pensatori è documentata dal fatto che nelle opere del vercellese i richiami e le influenze dell’opera rosminiana si diradano. La maggior parte dei espliciti riferimenti al roveretano, infatti, si riscontrano nei primi lavori dell’A., in specie nei Saggi filosofici, con chiari rinvii all’ontologia, alla metafisica e alla logica. Ma già in un’opera dell’anno seguente, Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866, il legame con il sistema del roveretano appare più distaccato. In particolare, si coglie un certo ridimensionamento dell’apporto del Rosmini. Delineando l’itinerario della pedagogia italiana del primo Ottocento, sebbene non manchino apprezzamenti positivi, A. sottolinea come il vero innovatore della pedagogia italiana fu il Rayneri. Si tratta, senza dubbio, di un’interpretazione impensabile per qualsiasi studioso rosminiano42. 39 R. Berardi, La libertà d’insegnamento in Piemonte 1848-1859 e un saggio storico di A., «Quaderni di cultura e storia sociale», febbraio 1953, p. 62. 40 Cottini rileva come: «Circa la discordia fra l’A. e il sommo Roveretano, osservò giustamente il mio quondam condiscepolo Prof. Giuseppe Morando, che il dissenso aperto e leale dell’A. porge maggiore rilievo alla riverenza sconfinata che questi gli professò, ed all’omaggio, ch’egli gli rese in ogni occasione» G. Cottini, Giuseppe A., 67. 41 Scrive il pedagogista di Pergine: «Di presente l’onore della Filosofia e della Pedagogia è sostenuto nell’Università di Torino dal Prof. Giuseppe A., che se non professa del tutto la filosofia del Rosmini, l’accetta in gran parte e la onora colla esemplarità della vita e colle molte gravi sue pubblicazioni pedagogiche» F. Paoli, Della scuola di Antonio Rosmini (a cura di Ottonello), 38. 42 Scrive: «Del Rosmini, per quel che spetta alla pedagogia rigorosamente intesa, non si aveva che il Saggio sull’unità dell’educazione, opuscoletto di poche pagine. I lavori del Tommaseo sono studi serii, monografie peregrine, pensieri, desiderii, come egli stesso li intitola, sono preziosi elementi scientifici, ma un organico sistema di scienza non fanno; egli stesso si tiene in guardia dalla mania de’ sistemi anche in  30  In alcune opere degli anni ’70, quando il sistema dell’A. si consolidò, il vercellese si discostò esplicitamente da elementi non secondari della filosofia rosminiana. Nell’opera in cui sistematizza con più rigore le sue teorie ontologiche, vale a dire Il problema della metafisica, si affranca dal roveretano in merito alla dottrina dell’essere. Mentre Rosmini crede che l’oggetto primo della metafisica sia l’essere categorico, astratto e comunissimo, egli lo identifica nella realtà infinita e finita considerate nel loro insieme e nelle «vicendevoli loro attinenze». Nello stesso saggio, riconoscendo nel fatto di pensare il primo noto della metafisica, si preoccupa di sottolineare l’assenza di tale idea in Rosmini44. Sempre in campo gnoseologico, A. contesta inoltre la teoria secondo cui dall’intuito si arrivi alla visione dell’essere ideale universalissimo. Stando al pedagogista vercellese, l’intuito percepisce la realtà confusa ed indeterminata, opponendosi così ad uno degli elementi caratterizzanti la gnoseologia del roveretano, oltre che oggetto di aspre contese con la filosofia neoscolastica. Pare ancora più netta la posizione esposta negli Studi psicofisiologici in merito alla psicologia e al rapporto tra anima e corpo: «In che ripone il Rosmini l’essenza dell’anima umana? È assai malagevole impresa il cogliere su questo punto della psicologia capitalissimo il suo pensiero; tanto parmi intricato, inconsistente, incerto!». E poi motiva: «Il concetto psicologico del Rosmini oscilla incerto tra questi tre pronunciati: 1° l’anima umana è sentimento dell’Io e niente di più: il sentire animale sta all’infuori di essa, ossia non è contenuto nella sua essenza; 2° l’anima possiede di fatto, siccome suoi essenziali costitutivi, il principio sensitivo animale ed il principio intellettivo; 3° il principio sensitivo è virtualmente contenuto nelle intellettivo». Contrario a tali posizioni considerate equivoche, proporrà un duo dinamismo coordinato su cui avremo modo di trattare in seguito. La valenza delle critiche mosse al pensatore roveretano dall’A., è confermata dalle dure repliche di alcuni dei più «fedeli» epigoni di Rosmini. A questo proposito, sono molto significativi due scritti di Pietro De Nardi, rosminiano ortodosso, che stampò due severi pamphlet contro l’A.. pedagogia, e crede che addestrando in maniera variata il pensiero si serva, meglio che con severe teoriche, all’unità dell’idea. Il Rayneri seppe far tesoro de’ profondi e svariati lavori parziali de’ pedagogisti, che lo precedettero, coll’intendimento di ricondurli all’unità della scienza» A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, Torino, Tipografia Subalpina di Stefano Marino, 1901, pp. 148-149. 43 G. A., Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, Torino, Stamperia reale, 1877, pp. 35, 46. 44 47. 45 G. A., L’uomo e il cosmo, Torino, Tipografia Subalpina, 1891, p. 298. 46 G. A., Studi psicofisiologici, Torino, Tip. del Collegio degli artigianelli, 1911, p. 60; 47 Ibid., 62;  31  Nel 1883, pubblicò La teorica rosminiana dello sviluppo graduato della ragione umana difesa da P. De Nardi contro la traccia di contradditoria che ad essa ha dato G. A.. In questo saggio lo studioso rosminiano considerava «gravissima nella sostanza»48 la critica mossa da A. riguardo lo sviluppo della mente nell’opera del roveretano, esposta ne Il positivismo in sé e nell’ordine pedagogico. L’anno seguente De Nardi pubblicò Due sillogismi di A.contro la percezione intellettiva come viene percepita da A. Rosmini49, nel quale contestava al pedagogista vercellese prima il merito di un appunto sulla filosofia del roveretano riguardanti i rapporti tra l’anima sensitiva e intellettiva, e poi criticò un presunto pensiero del vercellese secondo il quale «oggetti» di natura diversa non possano comunicare fra loro. Una prima risposta alle accuse del De Nardi appare ne L’uomo e il cosmo (1891), dove A. confuta i pamphlet e una recensione apparsa su Il Rosmini del marzo 1887, sostenendo che fossero state travisate le sue parole. Dopo aver mostrato l’infondatezza delle critiche fattegli, muove una critica molto significativa a certi epigoni del Rosmini i quali «s’immaginano, che il sistema rosminiano sia tutto quanto verità esso solo, sicché chiunque osa muovergli qualche appunto, bisogna dire che cammina nella via dell’errore»50. Per lumeggiare più chiaramente il rapporto tra A. e Rosmini, è inoltre indispensabile citare i due testi in cui l’A. trattò specificatamente dell’opera del roveretano: il brevissimo saggio, Il concetto pedagogico di A. Rosmini51 e il più sostanzioso articolo dal titolo Antonio Rosmini uscito prima nella rivista universitaria «Studium», e poi pubblicato nel 191252. Il primo lavoro, seppure breve, appare tuttavia molto significativo. Tale saggio fa parte del già citato Per Antonio Rosmini, un’opera che raccolse in due volumi gli interventi al congresso commemorativo per il centenario dalla nascita del filosofo, organizzato dall’Accademia degli Agiati di Rovereto nel Maggio del 1897. 48 P. De Nardi, La teorica rosminiana dello Sviluppo Generale della Ragione umana difesa da Pietro De Nardi contro la taccia di contradditoria che ad essa ha dato Giuseppe A., professore all’Università di Torino, Intra, Bertolotti, 1883, p. 3. 49 P. De Nardi, Due sillogismi di Giuseppe A., Professore all’Università di Torino, contro la percezione intellettiva come viene concepita da Antonio Rosmini esaminati da Pietro De Nardi, Professore di Filosofia nel Collegio Internazionale Italiano di Torino, con appendice del medesimo in risposta a T. Mamiani, Modena, Vincenzi, 1884. 50 G. A., L’uomo e il cosmo, 417-418. 51 G. A., Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini, A. Antonio Rosmini, Pavia, Tipografia Fratelli Fusi, 1912. 32  Nel suo intervento A. riconobbe in prima istanza le virtù filosofiche di Rosmini53, attestando l’importanza di lavori come il Saggio sull’unità dell’educazione e Del supremo principio della metodica per lo studio della filosofia e della pedagogia. Tra i principali meriti, individuò l’aver difeso l’idea che l’educazione è vera, efficace e perfetta solo quando è «schiettamente cristiana». Un concetto che, secondo A., intuirono in tanti ma «niuno meglio del Rosmini seppe farla risplendere di quella lucentezza ideale, che scaturisce dalla ragione speculativa»54. Nella stessa sede, tuttavia, A. volle sottolineare le differenze tra il suo sistema e quello di Rosmini55. Questa precisazione in un consesso con chiari intenti apologetici a pochi anni dal Post obitum, conferma con limpidità la volontà di A. di smarcarsi dalla discendenza rosminiana. Il secondo saggio citato, Antonio Rosmini, è molto più consistente e permette di approfondire le idee di A. circa il roveretano. Introducendo il lavoro, fa notare la grande risonanza che ebbe il pensiero di Rosmini, e cita tra i suoi discepoli Tommaseo, Cantù, Sciolla, Berti, Cavour, Bonghi, Pestalozza, Corte, Rayneri. Conduce poi un’analisi particolareggiata dell’opera filosofica e pedagogica del Rosmini, muovendo una serie di critiche e «correzioni» al pensiero del roveretano. Riguardo l’articolazione delle scienze nel sistema del roveretano, parla di un’ambiguità del Rosmini circa il legame tra la psicologia e l’antropologia56. In seguito contesta la seguente definizione di uomo tratta dall’Antropologia di Rosmini: «l’uomo è un soggetto animale, dotato dell’intuizione dell’essere ideale indeterminato e operante secondo l’animalità e l’intelligenza». A. trova in questo enunciato un eccessivo risalto per la parte «naturale» dell’uomo. Nel definire la persona, A. preferisce mettere l’accento sulla natura spirituale dell’uomo, poiché in esso l’animalità «è subordinata alla spiritualità, che la informa e la governa»57. Tale critica è poi smussata tenendo conto del modo in cui Rosmini affronta e suddivide la scienza antropologica. Riprende inoltre la critica al concetto dell’intuizione primaria dell’uomo dell’essere ideale indeterminato: «Questo - dice A. - è un pronunciato fondamentale del sistema di Rosmini, ma è impugnato da molti, e non è una verità dimostrata con tanto rigore, che debba essere accettata da tutti»58. Sempre in campo gnoseologico corregge l’espressione rosminiana di «sentimento corporeo» che secondo 53 «È virtù propria del genio speculativo risalire ai supremi principi dell’essere e del sapere, e nella loro unità comprensiva raccogliere tutto un intero ordine di idee organate da questo sistema» G. A., Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini. Ed io, sebbene da lui discorde in alcuni punti delle sue dottrine filosofiche, mando questo mio lavoruccio in attestato della mia scienza sincera e profonda ammirazione verso tant’Uomo» Ibid, vol. II, p. 523. 56 G. A., Antonio Rosmini, 8. 57 Ibid., 9-10. 58 10.  33  A. dovrebbe essere «senso corporeo», e poi aggiunge: «Come pure io non so capire come mai il senso intellettivo, la cui esistenza è innegabile, possa essere compreso come parte nel tutto, nella sensitività animale, come fece l’autore»59. Anche in campo pedagogico, fa degli appunti alquanto critici. Trattando dell’unità dell’educazione sostenuta dal Rosmini, lamenta l’assenza di un adeguato approfondimento del concetto di varietà60. Un'altra definizione contestata riguarda il rapporto tra le affezioni casuali e l’ordine interiore. A. riporta senza rinvii al testo originale: «si conduca l’uomo ad assimilare il suo spirito all’ordine delle cose fuori di lui, e non si vogliano conformare le cose fuori di lui alle casuali affezioni dello spirito suo». E poi ne prende le distanze, «correggendo» le posizioni del Rosmini»61. Sullo stesso argomento, commentando poco dopo la parte del Saggio sull’unità dell’educazione relativa all’«Unità degli oggetti» sostiene che è «alquanto sconnessa». A. fa notare come il Rosmini abbia dedicato molto spazio all’analisi dell’apprendimento e dell’educazione durante l’infanzia, soffermandosi sullo sviluppo delle facoltà del bambino. Il pensatore vercellese, tuttavia, fa notare come un corretto sistema pedagogico debba tener conto dell’intervento educativo, e del fatto che spesso si insegnino cose che il bambino non sa ancora, e che quindi lo studio delle naturali facoltà del bambino non sia sufficiente ma debba essere integrato dai metodi educativi esterni62. Anche se riconosce al Rosmini il contributo sulla libertà d’insegnamento, a dispetto per esempio di un Gioberti giudicato eccessivamente statalista, l’A. contesta al Rosmini l’affermazione secondo cui la scuola dovrebbe «guardarsi dallo spirito individuale siccome 59 12. 60 «L’autore ripone nell’unità la legge suprema dell’educazione; nel che io non convengo pienamente con lui. L’unità vera, effettiva, feconda non può andare disgiunta dalla varietà, né questa può andare scissa da quella. Unità senza varietà è arida, sterile, priva di moto e di vita; varietà senza unità è sparpagliata, dissipata, che si sciupa nel vuoto. L’uno nel vario, il vario nell’uno, ossia l’armonia è la legge suprema della vita in ogni ordine di cose. Epperò all’umana educazione l’unità e la varietà tornano essenziali amendue ad un modo. Certamente l’autore non esclude, né perde di vista la varietà, giacché riconosce la molteplicità delle dottrine, che si insegnano, e delle potenze, che vanno educate; ma occorreva che avesse in modo esplicito riconosciuta e formulata la varietà accanto all’unità, siccome egualmente necessaria» G. A., Rosmini,  «Però in riguardo alla dottrina del Rosmini, a me par giusto l’osservare, che se per una parte sonvi nel nostro spirito affezioni casuali, le quali vanno acconciate e conformate all’ordine oggettivo delle cose fuori di noi, per l’altro anche nell’ordine esteriore vi hanno accidentalità e turbamenti casuali e fortuiti, a cui lo spirito nostro non che adattarsi, deve seguire una reazione, conservando intatta la sua indipendenza. Anche nel nostro spirito esiste un ordine oggettivo posto dalla nostra natura, sicché la formula del Rosmini sembra bisognevole di essere corretta e parmi più conforme a verità l’affermazione che il supremo principio pedagogico dimora nel mantenere in perfetta armonia l’ordine oggettivo dello spirito dell’alunno coll’ordine oggettivo delle cose fuori di lui. S’intende da sé, che quest’armonia importa il riconoscimento di un principio superiore divino, ed inoltre supremo, in cui l’ordine oggettivo esteriore e l’ordine oggettivo interiore hanno il loro centro di unità e la loro cagione efficiente»  «Il Rosmini, intento, alla legge suprema direttiva dell’umano pensiero descrive per filo e per segno i momenti successivi, per cui progredisce e per cui va condotta la mente infantile, il Pestalozzi in iscuola tracciava sulla lavagna a’ suoi fanciulli una proposizione, che di presente essi non comprendevano, ma avrebbero compreso col tempo» 29.  34  da suo capitale difetto», e osserva: «Questa opinione dell’autore parmi bisognevole di essere ritoccata. Sta bene che l’educazione pubblica non debba tener conto delle singole famiglie e de’ singoli individui, ma se non vuole incorrere nel dispotismo e trasmodare, occorre che essa rispetti mai sempre lo spirito informatore della famiglia e la personalità individuale di ciascun uomo, essendochè lo stato è fatto per le famiglie e per le persone singolari, non questo per quello»63. Oltre alle critiche, emergono anche una serie di considerazioni positive. A. considera di vitale importanza il contributo di Rosmini nell’aver mostrato la conciliabilità tra lo spiritualismo e la realtà naturale dell’uomo64, di aver riportato la pedagogia ad un metodo realista65, il richiamo all’armonia come principio educativo, valorizza il tentativo di salvare l’unità della persona, l’idea di sviluppo armonico delle facoltà umane ed elogia il merito di aver unito didattica ed l’educazione. Vivo apprezzamento egli esprime circa il legame tra pensiero e nazionalità. A. scrive che «è meritevole di nota il rapporto, che il Rosmini istituisce fra il metodo filosofico e la diversa tempra degli ingegni proprii delle singole nazioni». Lontano da tentazioni sciovinistiche e da forme di autarchia culturale, il vercellese sostenne l’importanza di conservare le tradizioni della filosofia italiana. In questo senso cita la lezione III Del metodo filosofico in cui Rosmini scrive «Il vero metodo è indigeno all’Italia: il carattere dell’ingegno italiano consiste nella chiarezza» e ne sottolinea l’importanza66. Altri autori spiritualisti influenzarono A.. Tra questi esercitò un considerevole ascendente il Bertini67, almeno «quello» precedente alla conversione razionalista. Lo studio della sua opera, l’Idea d’una filosofia della vita, rappresentò un momento importante nello sviluppo del pensiero di A.. Il pensiero di Bertini lo convinse ad affermare il Primo teologico, vale a dire Dio inteso come potenza, sapienza, amore infinito, il Primo cosmologico e cioè che il creato è l’essere che partecipa della potenza, amore di Dio, e 63 21. 64 «Come la sua filosofia è essenzialmente spiritualistica, così il carattere, che informa la sua dottrina pedagogica, è lo spiritualismo, non però lo spiritualismo gretto ed esclusivo, che sacrifica la materia allo spirito, bensì lo spiritualismo largo e comprensivo, che riconosce come parte anch’essa essenziale dell’umano composto l’organismo corporeo, ma lo vuole subordinato all’impero dell’anima razionale» Trattando del contributo pedagogico e scolastico dell’impostazione rosmininana osserva: «Un secondo punto di capitalissima importanza per la scuola normale è questo: “prima regola del metodo filosofico (scrive l’autore) è che l’osservazione precede il ragionamento”. Questa norma riguarda propriamente il procedimento, che deve tenere il pensiero nella costruzione della scienza» Sull’influenza del Bertini sull’A., Virginia Quarello che pubblicò nel 1936 uno dei lavori più completi e attenti sulla filosofia dell’A. scrisse: «L’influenza del Bertini sull’A., specie nel campo religioso, è stata fortissima tanto che il pensiero dell’uno non solo si connette, ma perfettamente aderisce a quello dell’altro» V. Quarello, G. A., studio critico, 62.  35  quindi il Primo enciclopedico per cui «l’infinito s’intria nel finito»68. Secondo Vidari oltre che il Rosmini, proprio al Bertini, A. dovrebbe la fondazione del suo sistema filosofico69. Stretti rapporti ebbe anche con Augusto Conti. Nei Saggi filosofici (1866) riportò tre scritti sull’opera del samminiatese: uno riguardante la Storia della filosofia, una recensione di un libro scritto sul toscano da Pietro Dotti, e un lavoro sui legami tra il pensiero di Naville e quello di Conti, con particolare attenzione alle considerazioni espresse dal filosofo ginevrino nel testo La vie éternelle. A. condivide una serie di concetti del Conti, come la critica al principio moderno secondo cui la filosofia nasca dal dubbio e non dalla sorpresa dell’essere70, l’analisi dei criteri della filosofia e il legame con il senso comune, il concetto di errore e di distinzione. Nel commento alla Storia della filosofia si possono riconoscere diverse analogie tra le concezioni dei due pensatori. Del testo citato, A. sottolinea diversi elementi positivi: l’idea che la storia della filosofia debba essere un confronto tra le teorie filosofiche e la filosofia perenne, l’importanza attribuita alla biografia e al contesto culturale per cogliere la filosofia, e il criterio «cronologico» con cui il Conti conduce la narrazione della storia della filosofia guidati da cause di relazione e connessione. L’unico appunto mosso dall’A. al Conti riguarda la questione degli universali71. A. fu anche un buon conoscitore del panorama culturale europeo e dei maggiori pedagogisti e filosofi stranieri. Si tratta di un elemento non così comune tra gli autori della seconda metà dell’Ottocento. Nonostante diffidasse di una certa esterofilia, che contestava 68 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe A., «La Cultura filosofica», n. 5, Sett-Ott. 1910, p. 447. 69 «Movendo dalla formula giobertiana «l’ente crea l’esistente», che non lo soddisfaceva del tutto, e passando attraverso all’Idea di una filosofia della vita del Bertini, che ad A. era parsa un’opera provvidenziale per la filosofia italiana dopo i traviamenti a cui l’aveva esposta il Gioberti, Egli si arresta al concetto cristiano – cattolico della creazione, per cui da una parte è Dio infinito creatore libero, dall’altra gli enti finiti e reali che trovano in quella la loro causa prima» G. Vidari, Giuseppe A., Torino, Stamperia Reale Paravia, 1914, p. 6. 70 «Ripudiando il criticismo come propedeutica della filosofia, egli vuole che il conoscere sia fin dalle prime tenuto per vero, e come tale riconosciuto ed esaminato dappoi, e non già posto in problema. La natura umana, perché ragionevole, è nella verità, opperò il conoscere naturale è di per sè evidènte, non già problematico nè bisognevol di prova. In questa evidenza del vero o del conoscere ci ripone il supremo ed intrinseco criterio della filosofia, dal quale fluiscono poi e nel quale si appuntano come criterii secondarii ed estrinseci l'affetto della verità, il senso comune, la tradizione scientifica e la rivelazione» G. A., Saggi filosofici, Milano, Gareffi, Osserva il pedagogista: «Quanto è poi al concetto filosofico del nostro Autore, sebbene mi paja più comprensivo assai e più conforme a verità che non altri parecchi, durerei tuttavia non poca fatica ad accoglierlo come definitivo e perfetto. E veramente (per tacere qui di altri argomenti in contrario ) io non so fare buon viso a quella ontologia scolastiso-wolfiana non ancora abbandonata a' di nostri, che egli pone come parte integrale, anzi sublimissima della filosofia; giacché l'essere astrattissimo e onninamente indeterminato, in cui si vogliono concentrati i sommi universali di essa ontologia, ove si pigli da sè, disgiuntamente da Dio e dalle realtà finite, convertasi in un aereo ed inconsistente fantasma, che mal reggendosi di per sè è quindi impotente ad ammanire un saldo fondamento alla protologia, cardine di tutto il sapere» Ibid., soprattutto ai positivisti e agli hegeliani, accolse nel suo sistema diversi elementi di autori stranieri: «Dello spiritualismo tedesco accetta e il sintetismo trascendentale del Krug (l’io riflette sui “fatti della conoscenza” anzi nella coscienza, per l’originaria armonia di pensiero e realtà, ideale e reale si sintetizzano) e in concetto del Krause della personalità ed essenza divina (“l’essere Dio è il principio personale del mondo”) e il suo Panenteismo, conciliante in sintesi sia la ragione con l’esperienza, sia il processo analitico (dall’io e dal finito a Dio) con il processo sintetico (da Dio all’io ed al finito.)»72. Nel Krug apprezzò la capacità di conciliare il realismo con l’idealismo73. Dello studioso riprese nei Saggi filosofici (1866)74 il principio della sintesi a priori, nel tentativo di spiegare l’origine dell’unità tra oggetto e soggetto. Si tratta di un concetto facilmente accostabile all’idea primaria di Rosmini. A. raccolse così soprattutto le tesi di quanti cercarono di superare le antinomie dell’idealismo75. Un altro autore molto importante nella biografia intellettuale di A. fu Lotze76, il successore di Herbart all’Università di Gottinga. Del filosofo sassone cita i Principes généraux de psychologie physiologique77 che definisce un «lavoro magistrale»78. A. lo cita nell’elaborazione della sua psicofisiologia, nel tentativo di sostenere con il suo «duodinamismo coordinato» un approccio che coniugasse gli studi sperimentali con la struttura spirituale della persona. Importante anche il legame con Maine de Biran di cui accoglie le idee circa il legame tra la persona umana e la persona divina, A. oltre che il principio de «l’autocoscienza della personalità vivente»79. Spesso citato fu anche Heinrich Pestalozzi. Il pedagogista vercellese fu quasi «devoto» all’esempio e alla pedagogia dell’educatore svizzero. Non senza ragioni Calò lo definì un «pestalozziano». L’unica critica che gli mosse riguardò l’utilizzo del termine «organismo», al quale A. preferisce quello di persona. 72 V. Quarello, G. A., studio critico, cit., A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, Milano, Agnelli, 1868, p. 42. 74 G. A., Saggi filosofici, 30. 75 «E dirò che, con il Krause e con il Jacobi, proprio lo Stahl fu sempre presente all’A., nella sua opposizione decisa all’idealismo post-Kantiano» V. Quarello, G. A., studio critico, 83. 76 A riguardo, la Quarello ha osservato: «Più forte, certamente, fu l’influsso di Lotze specie nel campo psicologico, benché, a mio credere, si possa pure far risalire al Lotze il concetto di Dio come suprema realtà personale, che crea il mondo degli spiriti personali» 82. 77 H. Lotze Principes généraux de psychologie physiologique, nouvelle edition, traduite de l'allemand par A. Penjon, Paris, Bailliere, 1881. Si  tratta di una traduzione del primo capitolo del testo H. Lotze, Medizinische Psychologie oder Physiologie der Seele, Leipzig, Weidmann’sche bucchandlung, 1852. 78 G. A., Studi psicofisiologici, cit. 79 V. Quarello, G. A., studio critico, 29.  37  Altri autori hanno sottolineato il ruolo del vercellese nella ricezione dell’herbartismo in Italia80. Sempre Calò lo giudicò «più herbartiano di quello ch’egli stesso non creda»81, un giudizio che fu in seguito emendato82. L’opera dell’A. è anche segnata dall’opera del Naville, a cui lo accomuna la convinzione che alla base della pedagogia ci debba essere l’antropologia e non l’etica come per Herbart o la psicologia scientifica come per molti positivisti. Nella voce sull’A., presente nell’Enciclopedia Filosofica di Sansoni83 e riportata in quella Bompiani84, Pozzo accosta A. perfino a Plotino, riprendendo la valutazione del Gentile, sostenendo che il vercellese aveva una concezione teistica di «tipo plotiniano (l’ente uno infinito pone fuori di sé il molteplice e a sé lo richiama) da cui deriva il concetto di armonia dell’universo, come “coesistenza” (o “sintetismo”) di esseri che cooperano sotto l’imperio dell’inesauribile atto di Dio». In sintesi, ci sembra di poter ragionevolmente sostenere che nonostante i diversi apporti e «contaminazioni» con diversi autori, il professore piemontese abbia preferito smarcarsi da discendenze unidirezionali. Più che di Rosmini, di Pestalozzi, di Rayneri, egli si sentiva un rappresentante dello «spiritualismo italiano». Egli considerava questa corrente come la più genuina tradizione nazionale85, oltre che in linea con la più autentica pedagogia e 80 In merito alla crisi del positivismo iniziata già negli anni ’80 dell’Ottocento, Malatesta e la Bertoni Jovine commentarono: «Il Labriola prima, il Fornelli e l’A. poi e in ultimo il Credaro, avevano prodotto una svolta molto sensibile negli studi introducendo nella pedagogia i princìpi più validi dell’herbartismo» D. Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia della scuola italiana, 43. 81 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di A., Prato, Tipografua Carlo Collini, Calò, Dottrine e Opere, Lanciano, Carabba, 1932, p. 262. 83 Enciclopedia Filosofica, Firenze, Sansoni, 1967, vol. I, pp. 192-193. 84 Enciclopedia Filosofica, Milano, Bompiani, Nel testo già citato Della pedagogia in Italia ripercorre la storia della pedagogia italiana e chiosa: «Le opere pedagogiche chiamate fin qui a rassegna rivelano un carattere comune, che tutte le segna di una medesima impronta: lo spiritualismo. È questo il carattere dominante e tradizionale di tutta la pedagogia italiana da Vittorino da Feltre al Rayneri. Essa riconosce nel perfezionamento dell’uomo la preccelenza del principio spirituale sull’organismo corporeo, l’immortalità personale dello spirito umano e la dipendenza di esso da Dio risguardato come spirito conscio di sé, distinto sostanzialmente dal mondo, causa creatrice e finale di quanto sussiste. Essa considera la nostra temporanea esistenza siccome tirocinio e preludio di una esistenza oltremondana, e conseguentemente vuol preparare il fanciullo alla sua duplice destinazione, vuol educare in lui l’uomo temporaneo che passa quaggiù soffrendo, e lo spirito immortale fatto per una seconda vita. Essa ripudia siccome offensiva della dignità della persona umana la dottrina che vuole il fanciullo esclusivamente allevato per la patria e pel reggimento politico dominante, facendolo così, di essere avente ragione di fine, un semplice mezzo agli arbitrii del Governo e della società. L’ideale dell’uomo perfetto che la natura ha preformato nell’infante, essa lo addita vivente in Cristo, assegnando per iscopo all’opera educativa la virtù cristiana, non la virtù naturale, né la civile, né lo sterile misticismo. Per lei non si da istruzione vera ed efficace senza l’educazione dell’animo; non vera educazione morale senza religiosità; non religiosità vera senza Cristianesimo cattolico, sicché l’educazione ha da abbracciare tutto l’uomo e con tale universalità ed armonia, che i sensi vengano subordinati alla ragione, il corpo allo spirito, la libertà a Dio, la vita temporanea alla oltremondana. Mercé questo carattere dello spiritualismo la pedagogia italiana contemporanea mantiensi fedele alle sue tradizioni secolari e si ricongiunge colla scuola spiritualistica platonica di Firenze, perché discepolo ed amico di Giovanni di Ravenna, il grande scuolaro del Petrarca» A. La pedagogia italiana antica e contemporanea, 158.  38  filosofia greca86. A. era convinto che fosse una tradizione che andasse difesa87, soprattutto dall’idealismo e dal positivismo, considerate teorie di «importazione» aliene allo spirito filosofico italiano. I. 2. Gnoseologia e metafisica I testi in cui A. affronta i problemi più specificatamente metafisici e gnoseologici sono i Saggi filosofici, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola Jonica a Giordano Bruno e Studi antropologici: l’uomo e il cosmo. Non si può affermare che su tali questioni il contributo di A. abbia avuto una reale originalità. Lo studioso si è limitato piuttosto alla ricerca di alcune basi teoretiche che gli permettessero di fondare la sua pedagogia su una prospettiva «realistica», com’è stata definita la sua filosofia88. La carenza di approfondimenti è stata oggetto delle critiche di alcuni studiosi dell’A. come la Quarello89 e Mazzantini90. Sebbene il contributo di A. non abbia apportato novità rilevanti nel discorso gnoseologico e metafisico del tempo, espose comunque il suo pensiero in modo organico e coerente. Egli considera la Metafisica come il momento fondamentale della ricerca filosofica, caratterizzata dall’universalità e dalla trascendenza. La definisce come «scienza del Primitivo»91 o «Scienza de’ supremi principii del sapere e dell’essere»92. Contro gli orientamenti antimetafisici di marca positivista e scettica, considerava l’abrogazione del problema del senso e del «tutto» come un tradimento della filosofia. Essa trovava la sua ragion d’essere in quel mandato della persona umana, che strutturalmente e spontaneamente interroga l’Universo e ne pretende un significato. In questo senso la metafisica collocava la sua origine nel desiderio dell’uomo di «rendersi ragione di questo 86 G. A., Studi pedagogici, Torino, Tipografia Subalpina. Accusato di nazionalismo, A. si difese: «Noi siam lontanissimi dall'assumere il nazionalismo per sommo ed infallibil criterio del Vero; che anzi arditamente sosteniamo, che nel principio di nazionalità qual è universalmente ammesso v'è del troppo e del vano assai da tor via, e gli bisogna essere ricondotto entro a più ragionevoli e modesti confini. Noi invece propugniamo l'italiana filosofia non per ciò solo che è italiana, ma primamente e precipuamente perché fondata sulla verità del Teismo cristiano, siccome ripudiamo l'Idealismo di Hegel ed il Positivismo di A. Comte perché disformi entrambi dal Vero, e non già perché l'uno di tedesca, l'altro di francese origine» A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, 14. 88 V. Suraci, A. filosofo e pedagogista, «Educare», maggio - giugno 1952, p. 151. 89 V. Quarello, A., studio critico, 21. 90 C. Mazzantini, Due filosofi spiritualisti piemontesi della seconda metà del sec. XIX, «Archivio di Filosofia, organo del R. Istituto di Studi Filosofici», Roma. A., Saggi filosofici, 284. 92 G. A., Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, 5.  39  gran tutto, che dicesi universo»93, un’esigenza che non può essere soppressa, pena la negazione dell’identità umana. Sulla scorta del rosminianesimo e di molta filosofia cristiana, A. rileva come la crisi della metafisica fu prima inaugurata dal soggettivismo di Cartesio e poi consacrata dal criticismo di Kant. La gnoseologia moderna era soggiogata, a suo giudizio, da un equivoco legato alla volontà di condurre in dubbio il valore veritativo e orientativo dei criteri dell’evidenza e del senso comune insiti nell’uomo. Si tratterebbe di un cortocircuito conoscitivo dai corollari disparati. Se, infatti, da un lato si svaluta la ragione riducendone il dominio (kantismo), dall’altra si arriva a «divinizzare» l’Io (idealismo), attribuendo alla razionalità umane quasi gli stessi attribuiti che i teologi avevano sino ad allora riservato al Creatore. Per superare l’impasse, A. sollecitò in coro con il resto degli spiritualisti una correzione radicale della prospettiva. La filosofia non poteva uscire dalla palude dello scetticismo, se non «attestando» e «accettando» dei criteri conoscitivi immanenti all’uomo. Questa soluzione era considerata l’unica possibilità per uscire dall’equivoco gnoseologico moderno. Le sue posizioni gli costarono la critica del Gentile, che nel saggio sulle origini della filosofia contemporanea, inserisce l’A. tra i «mistici», cioè tra quei filosofi che continuavano a «credere» nell’esistenza di una realtà «esterna» all’Io pensante. Non potendo «dimostrare» l’esistenza del mondo e spiegare il suo rapporto con lo spirito, secondo Gentile, i realisti accettano in modo fideistico il senso comune. Per questa ragione, ossrvò che quella di A. è «una filosofia fondata sul mistero dell’evidenza»94, una critica poi ripresa e approfondita dalla Quarello95. Il sintetismo, cioè un’interpretazione della relazione intima tra l’essere e il pensiero in un’ottica realista, era considerato da Gentile come una soluzione non fondata per motivare la relazione tra la mente e il «supporto» mondo esteriore96. Questa visione armonica dell’essere, è anzi letta da Gentile, nella sua tipica riduzione della storia della filosofia a preambolo di un compiuto Io spirituale, come delle tesi idealiste «mancate». 93 G. A., Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Bruno, 2-3. 94 G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia. I platonici, 366. 95 V. Quarello, A., sudio critico, 20. 96 «Il sintetismo dell’A., dunque, non vale più dell’ordine del Conti. Anche per A. basta il sintetismo ad aprire tutte le porte e svelare tutti gli enimmi. Così il gran problema gnoseologico del rapporto del pensiero con l’essere, per A. è prima risoluto che formulato. Criticismo o scetticismo? Separazione dell’essere dal pensiero, o identità dell’uno con l’altro? Ma il sintetismo c’insegna che tutto è unito e distinto in natura, e ciascuna forza opera consociata con tutte le altre! Anche il soggetto e l’oggetto vorranno essere insieme connessi, ma non confusi: conciliati in un armonia, che non sia per altro la negazione delle loro differenze» G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia. I platonici, 366.  40  Il filosofo siciliano riconobbe in ogni caso in A. «una certa inquietudine circa la saldezza del suo principio filosofico»97, originata dal confronto con la logica hegeliana, che gli avrebbe «turbato i sonni» nel corso della sua opera. Di fronte alla tesi idealista, A. reputava l’accettazione dell’essere come l’atto più consono alla natura razionale dell’uomo98. Si tratta di un’attestazione «misteriosa», ma non per questo irrazionale99. Il primo dato della coscienza è la percezione di un mondo fuori di noi, tale dato si può o accettare o rifiutare, non si può dimostrare. Secondo A. la filosofia trova il suo fondamento nella constatazione dell’esistenza dell’essere. Il pedagogista sollecita perciò a tornare ad un sano realismo, a ripartire dal mondo delle cose, dal dato semplice della sua esistenza, dal mistero del sé, per giungere solo dopo all’Eterno. Ciò ha conseguenze gnoseologiche importanti, tra le quali il fatto che stando all’A. il ruolo iniziale nel ragionamento risiede nell’intuito che si muove verso la comprensione. Nel saggio Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, egli traccia una serie di stadi, o passaggi, con cui si sviluppa un pensiero filosofico compiuto. Un primo livello della riflessione riguarda la constatazione dell’esistenza di un senso comune e di criteri con i quali di norma si valuta e si giudica, in un secondo momento vi è un pensiero critico che si interroga sulla veridicità di quanto pensato, nell’ultimo passaggio il pensiero speculativo indaga e verifica con criteri validi e veritativi. Per l’A., la riflessione speculativa non è la negazione del senso comune, ma ad esso è strettamente legato, poiché i criteri veritativi emergono spontaneamente nella persona, e non sono la costruzione dell’impegno filosofico. Il compito della metafisica è dunque proprio quello di riconoscere la «realtà della vita, pur mentre la spiega e si solleva al di sopra di essa per dominarla dall’alto: essa rispetta le credenze universali del genere umano, conformasi alle esigenze della natura umana, tien conto de’ suoi bisogni, soddisfa le sue imperiose aspirazioni, e non disconosce veruno degli elementi integrali dell’umanità». Osserva a proposito «Nel fatto della cognizione il soggetto e l’oggetto si compenetrano misteriosamente l’un l’altro senza però smettere ciascuno la sua la propria ed individua natura» A., Saggi filosofici, In un brano molto significativo, quasi replicando a tale obbiezione, A. enuclea la sua concezione del mistero: «La ragione ha certamente il diritto di respingere l’assurdo, perché l’assurdo ripugna, ma non ha diritto di respingere il mistero, perché il mistero è una proposizione, di cui si conoscono i singoli termini, che la compongono e non si comprende bene il nesso, che collega il soggetto col predicato. Quindi possiamo affermare che in ogni mistero dogmatico vi è sempre alcunché di conosciuto accessibile alla ragione, come in fondo di ogni verità conosciuta dalla ragione umana vi è sempre alcunché di ignoto, di tenebroso, un’ombra del mistero» A., Appunti di Antropologia e Psicologia, Torino, Carlo Clausen, A., Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, 41  A. identifica nel «primo noto», evidente e concreto, la base della sua speculazione metafisica. Si tratta di quanto il vercellese chiama anche Io penso, da cui nasce la constatazione che l’essere esista e che possa essere riconosciuto nella sua realtà e verità. Sulla relazione tra il pensiero e il reale, si pone in continuità con il concetto di sintetismo esposto da Rosmini. A. ammetteva un Universale ontologico assoluto a cui erano subordinati i singoli universali ontologici, attraverso la legge del sintetismo e dell’armonia101. Il suo realismo gli impedisce di ammettere sia tesi che vorrebbero la causa del reale come qualcosa di non reale, sia quelle le forme di spiritualismo che identificano Dio con qualsiasi essere ideale. Secondo A. sebbene Dio sia l’origine dell’uomo e di tutte le cose non si identifica con esse. E anche qui applica una delle regole classiche della sua filosofia, il «Distinguere per unire», enunciato già nei primi libri, e posto alla base della sua gnoseologia102. In questo senso, avversa sia l’identificazione del pensiero con l’essere di origine idealista, sia il monismo materialista. La Quarello ha considerato insufficiente la spiegazione della relazione tra l’Io e il non Io nel pensiero del Vercellese: «Il punto debole del sistema d’A. è proprio qui, in sede gnoseologica, nell’avere, cioè, posto a base della speculazione puramente filosofica l’evidenza dei dati della realtà, nell’avere voluto che il sapere filosofico non fosse che elaborazione del sapere naturale (oggettività della conoscenza) ammettendo poi, senza spiegarla, un’intima “conciliazione” fra ragione ed esperienza»103. E ribadisce «L’A. non ci spiega il come dell’atto conoscitivo anche se ampiamente ha tentato di svolgere la sua tesi di una corrispondenza tra pensiero e realtà, tra soggetto ed oggetto, tale da essere considerata una unione stabilita da natura, secondo la legge dell’ordine universale per la quale tutti gli esseri armonizzano in unità una molteplicità di parti e cooperano e sono uniti fra loro, pur rimanendo distinti, sì da formare una totalità armonica» Il principio della personalità. Suraci spiega con le seguenti parole il «percorso» che va dal primo nota alla vera conoscenza. A. nota che il pensiero, nel suo movimento dialettico, descrive un circolo non vizioso, ma solido per cui dall’uno gnoseologico, l’universale oggetto dell’intuito primitivo, si passa al molteplice della cognizione determinata, distinta, oggetto della riflessione: dal molteplice si passa poi alla visione comprensiva delle cose e quindi alla visione mentale dell’Uno ideale. Dialetticamente la mente umana, secondo A., non fa che “discorrere dalla cognizione intuitiva o virtuale dell’Uno gnoseologico alla cognizione riflessa o attuale del suo molteplice ideale, e dalla cognizione attuale del molteplice ideale alla cognizione attuale dell’Uno gnoseologico”. Questa formula del movimento del pensiero somiglia molto da vicino a quella enunciata dal Rosmini nel n. 701 della sua Logica, al quale A. si attiene, citandolo spesso nel corso di questi “Saggi” e, potremo dire, in tutte le sue Opere» V. Suraci, A. filosofo e pedagogista, 158. 102 G. A., Saggi filosofici, 3. 103 V. Quarello, A., studio critico, 21. Lesse all’Università di Torino una prolusione dal titolo, Il ritorno al principio della personalità105. In quella occasione, ripercorse l’itinerario delle sue opere identificando in questo concetto il punto cardine di tutto il suo pensiero106. Questa considerazione fu poi ribadita qualche anno dopo nella prefazione degli Opuscoli pedagogici107. Oltre a riprendere il contenuto di questo principio e a mettere in luce la rilevanza nell’economia del suo pensiero, diversi autori hanno considerato l’elaborazione del principio della personalità come il più importante contributo di A. alla storia del pensiero pedagogico e filosofico108. Calò ne ha ricordato la valenza pedagogica, osservando come «nessuno con tanta consapevolezza e chiarezza aveva prima di lui messo in luce quel principio e mostratane la fecondità e illuminatane vivamente tutta quanta l’opera educativa»109. Con questo principio, A. affronta la più profonda questione antropologica, vale a dire la specificità dell’uomo rispetto al resto della natura. Di fronte alla domanda «chi è l’uomo?» A. parla della persona come «una mente informante un organismo corporeo»110. Egli individua due piani strettamente connessi: «nell’uomo la mente ed il corpo sono due sostanze diverse, eppur fatte l’una per l’altra il corpo è animato, l’anima è [A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino. Torino, Tipografia degli Artigianelli. Citò la prima prolusione letta all’Università nel 1870, in cui già enucleò tale principio. Scrisse: «Questo nuovo concetto, che allora mi era balenato alla mente, fece la sua prima apparizione nella mia Prolusione universitaria del 1870, intitolata appunto Il principio della personalità, base della scienza e della vita. “Questo principio (io scriveva allora) è quel centro ideale, che vale a comporre le antinomie tra le dissidenti scuole filosofiche nel mondo del sapere, ed i dissidi tra gli elementi sociali nel mondo dell’operare, e questi due mondi della scienza e della vita insieme composti solleva ad una unità superiore, che è il punto di contatto e di armonia di entrambi. Enunciando in una breve e chiara formola questo concetto, poniamo che, senza il riconoscimento speculativo e pratico della personalità, non si dà né vera scienza, né vera vita per l’uomo.” Da quel punto questo principio diventò il pensiero dominante della mia mente, il tema perpetuo delle mie meditazioni, lo spirito animatore de’ miei lavori e delle mie lezioni, la mia credenza filosofica rimasta incrollabile e costante in tanto volgere di anni, in mezzo a tante rivolture e volteggiamenti d’ingegni e di dottrine, l’arma della mia critica contro tutte quelle teoriche e quei sistemi che inchiodarono la scienza e la vita sul nudo calvario dei fenomeni sensibili, senza uno spirito che li animi e li illumini»  «Tutti i miei lavori pedagogici, a qualunque punto della umana educazione si riferiscano, sono informati da una idea unica e suprema, il concetto della personalità umana: da esso si vanno logicamente esplicando, in esso si ritrovano il loro principio di armonia, in esso si compongono ad una comprensiva e potente unità» G. A., Opuscoli pedagogici, Torino, Tipografia del Collegio degli Artigianelli, Cannella, che peraltro afferma come il pedagogista piemontese non sia stato «in Italia conosciuto ed apprezzato abbastanza» scrive sul principio di personalità: «Lasciando da parte le sue critiche storiche, acute, precise, e bene spesso pregevolissime, io credo, per esempio, che la sua idea fondamentale pedagogica dell’educazione della personalità meriti molta considerazione e racchiuda in sé il nucleo vero, intorno a cui si deve aggirare una dottrina pedagogica. E così si può dire di molte sue opinioni sui problemi pratici, dove tanta confusione regna oggi, e dove l’A. ha già disegnato soluzioni assai giuste» G. Cannella, Opuscoli pedagogici inediti ed editi di Giuseppe A., in «Rivista di Filosofia Neoscolastica»,  Calò, Dottrine e Opere, 261-262. 110 G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, Torino, Tipografia Subalpina] incorporata»111. L’uomo è definito «sintesi vivente di un’anima razionale e di un corpo organico, insieme composti ad unità di essere; o meglio ancora è una mente informante un organismo corporeo, prendendo qui il vocabolo mente come sinonimo di spirito, ossia di anima razionale»112. Questo primo antropologico scaturisce dalla sua profonda origine: «Lo spirito umano, ossia la mente sostanziale è persona per essenza, il corpo umano con essa congiunto in unità di essere è personale per derivazione e partecipazione, ossia è della nostra personalità complemento estrinseco, non già principio intrinseco»113. Si tratta di una prospettiva che ha implicazioni teologiche. Trattando di questo principio Mazzantini ha osservato: «non è, dico, d’importanza suprema solo in quanto rivela l’uomo a se stesso, ma in quanto altresì offre un principio supremo interpretativo della realtà universale, compresa la stessa realtà divina»114. Su questo versante, è stato osservato come il principio della personalità sia imprescindibile dal teismo di A. Per il vercellese, infatti, il concetto di persona trova la sua ragion d’essere e il suo compimento nella relazione con la Persona infinita116. In una radicale e metafisica indagine antropologica, A. individuava la questione nodale della scienza pedagogica: «Ora l’idea fra tutte la più comprensiva, la più feconda, la generatrice di tutto il sapere speculativo, è, se io ben veggo, l’idea della personalità. Il moto riformatore della scienza debbe esordire da lei»117. Il destino della pedagogia era legato al rispetto di questo principio, che invece considerava minacciato dalle teorie coeve. Nel saggio già citato Sulla personalità umana, elenca una serie di orientamenti che [A., Appunti di Antropologia e Piscologia, 3. 113 G. A., L’uomo e il cosmo, cMazzantini, Due filosofi spiritualisti piemontesi Ha scritto in merito Suraci: «Il principio “personalistico” serve all'A. per affermare senz'altro in sede pedagogica, che, “la personalità finita dell'educatore e quella dell'educando si reggono sulla personalità infinita di Dio, trovano in questa la loro ragione sulla personalità infinita di Dio, trovano in questa la loro ragione di essere la loro causa efficiente”. Ebbene, bisogna porsi da questo punto di vista ontologico ed essenzialmente religioso per intendere a pieno il valore e il vero significato della pedagogia dell'A., nella quale convergono con ricchezza di argomenti e di ampia e, spesso, di esauriente trattazione scientifica, tutti i temi relativi all'essenza e allo svolgimento della natura umana e della educazione dell'uomo. La religiosità, la credenza di Dio e nella immortalità dell'anima, rimane, per il nostro autore, il punto di partenza e di arrivo dell'azione educativa, il cardine essenziale in cui si radica e gira la pedagogia; è luce inoffuscabile che deve rischiare l'idea e il fatto dell'educazione: “l'uomo si muove in Dio, principio della sua vita, fine supremo della sua esistenza”» V. Suraci, A. filosofo e pedagogista, La coscienza personale è il primo, fondamentale pronunciato da cui esordisce la scienza. La persona umana sovrasta per eccellenza e nobiltà di natura su tutto il corporeo universo; ma finito qual è sottostà alla personalità infinita divina. Non bisogna mai perdere di vista questa dualità di essere personali, che si richiamano e si corrispondono; poiché, tolta la prima, l’uomo rimane oltraggiato nella sua dignità personale e diventa una cosa; tolta la seconda, si apre il varco al più ignobile egoismo, alla libertà più sfrenata, alla più selvaggia indipendenza. L’uomo riconosce l’esistenza di un essere personale infinito, dacchè egli stesso è una persona finita, e con esso si congiunge con un vincolo d’intelligenza e di amore. Questo vincolo costituisce la religione, la quale forma l’oggetto della disciplina religiosa» A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino. A., Sulla personalità umana, Torino, Fina, reputava nocivi a tale principio118. Divide queste teorie in due gruppi. Nel primo inserisce i sistemi che disconoscono la persona nella vita speculativa: il panteismo, il calvinismo, il fatalismo, il materialismo e l’ipermisticismo. Si tratta di teorie accomunate dalla svalutazione dell’apporto dell’individualità nella storia e nella vita. Nel secondo raggruppa gli orientamenti che menomano il ruolo della persona nella vita pratica: il socialismo, la statolatria, il dispotismo del costume. Si tratta di teorie che riducono la persona ad un «mezzo» per il raggiungimento del progresso della società. Nell’ultimo sistema citato, il dispotismo del costume, A. si schiera contro certa sociologia «per cui ciascuno vien tratto a conformare il proprio vivere e pensare, al vivere ed al pensare altrui come a norma suprema»119. Oltre alle teorie citate, il pedagogista vercellese denunciava il rischio di ingigantire il ruolo di un aspetto della persona a discapito della sua totalità. Il professore vercellese riconosce questa tendenza in due grandi sistemi che allora si contendevano il campo della filosofia: il positivismo e l’idealismo. Secondo A. la mente non è quella degli idealisti, staccata dal corpo e superiore ad esso, ma non è neanche quello dei positivisti e di certi psicologi sperimentali che riducevano il pensiero ad un’espressione materiale. Anche se non si confonde con essa, la vita della mente e dello spirito è intimante connessa con quella carnale120. La loro relazione non deve condurre all’assimilazione di una delle due nature che compongono l’uomo 121. Entrambi i livelli sono distinti in una stretta «collaborazione»: «l’essere umano possedendo un corpo organato alla vita materiale non può essere spiegato tutto quanto senza la materia, ma neanco può essere spiegato colla sola materia, dacchè il suo organismo è informato di una sostanza spirituale»122. Sebbene il rapporto tra materia e spirito nell’uomo rimanga un «mistero»123, non è ammissibile assimilare su questo presupposto la persona al resto della natura determinata. Nella vita dell’uomo, infatti, emergono proprietà irriducibili alle dinamiche delle entità. L’uomo è siffattamente costituito, che non vi ha parte del suo essere, la quale non viva congiunta coll’universo corporeo esteriore. Sentire, pensare, volere, sono i tre supremi attributi costitutivi dell’umano soggetto; e tutti e tre si svolgono in intima ed operosa corrispondenza colla natura, fuor della quale rimarrebbero atrofizzati» A., L’uomo e la natura, Torino, Carlo Clausen, La natura e lo spirito sono uniti «ma sarebbe gravissimo errore il credere, che siffatta unione si converta in una identità, negando così ogni sostanziale distinzione fra l’uno e l’altra, e confondendoli in una comune essenza. La distinzione esiste e non distrugge l’unione. Poiché nel mondo esteriore le sostanze sono corporee, e quindi i fenomeni e le forze sono fisici; nel mondo interiore la sostanza è l’anima, i fenomeni sono psichici, le forze sono facoltà o potenze. Ma il punto più spiccato, che distingue questi due mondi, malgrado la loro cospicua armonia, sta in ciò, che l’anima ha la coscienza de’suoi fenomeni, il dominio delle sue potenze; e questa coscienza di sé, questo dominio di sé manca alla natura» A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, A., Studi psicofisiologici] fisiche. Come osserva A.: «il punto più spiccato che distingue questi due mondi malgrado la loro cospicua armonia, sta in ciò, che l’anima ha la coscienza de’ suoi fenomeni, il dominio delle sue potenze»124. Negando la natura spirituale dell’uomo, la realtà effettiva della persona sfugge alla comprensione: «È un dogma del senso comune ed un pronunciato della sapienza filosofica tradizionale, che l’uomo non è tutto quanto materia organata, come non è neppure uno spirito puro, bensì una sintesi stupenda, un’armonia vivente di questi due distinti principii insieme composti ad unità di persona: ponete che tutto il suo essere si risolva in un composto di molecole organate a vita materiale, e voi non capirete più nulla dei solenni problemi, che agitano la coscienza dell’umanità, più nulla delle sublimi aspirazioni, che fervono indomabili nei penetrati dello spirito umano»125. Per il vercellese, è lo spirito che dà dignità all’uomo, sollevandolo dal resto della natura. La persona esprime il grado sommo dell’essere e lega l’individuo all’eterno. La coscienza dell’esistere colloca la persona in una dimensione irraggiungibile per qualsiasi altro essere della natura. L’esigenza di sottolineare il primato spirituale lo portò il docente piemontese a criticare in una serie di lavori la definizione aristotelica dell’uomo come animale politico126, che reputava ambigua. Data la confusione antropologica coeva, A. non reputava conveniente indicare primariamente nell’uomo la natura animale. Si rischiava di avallare le tesi dei materialisti positivisti e di un certo evoluzionismo, che volevano ridotto l’uomo ad un «bruto», per usare le parole di A.128. Il pedagogista avvertiva il rischio di ridurre lo studio della persona, al solo aspetto materiale: «Per conseguente l’antropologia, anziché scienza distinta e superiore, apparirà niente più che una parte della zoologia, parte la più sublime, se vuolsi, ma pur sempre una parte» A., L’uomo e il cosmo. Osserva: «La tristissima definizione, l’uomo è animal ragionevole, non solo capovolge l’ordine naturale, che regna tra questi due elementi, ma soppianta ben anco la stessa personalità umana, la quale ha la sua propria sede e radice nella mente imperante sull’organismo corporeo e fornita di una perenne sussistenza, mentre essa pone l’animalità siccome soggetto, di cui la ragionevolezza apparisce un mero e semplice predicato, tantochè venendo meno la prima, cessa issofatto la seconda, né questa può spiegare altra virtù, che non sia compresa nella cerchia di quella»127. In seguito ribadisce che accoppiare «all’animalità la ragionevolezza come ad un soggetto un attributo suo è un disconoscere il primato dello spirito sulla materia e della mente sull’organismo corporeo nell’uomo, ed un aggiudicarlo alla materia sullo spirito, al corporeo organismo sul principio pensante»  A/, Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, Genova, Tipografia del R. Istituto dei sordo – muti, 1874, p. 7. 128 «Mentre il bruto opera per impulso irresistibile di cieco istinto, l’uomo opera consapevole di sé e del fine a cui mira, ed è arbitro delle sue azioni. Questa potenza, per cui l’umano soggetto si determina da sé ad operare per un fine conosciuto, è la volontà» A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 46.  129 G. A., Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, Per riscoprire l’autentica alterità umana, era invece compito dell’antropologia evidenziare nello sviluppo della persona quegli aspetti irriducibili al divenire determinato. A. richiama all’osservazione dell’uomo, delle sue facoltà, e della sua azione. Egli afferma che in ogni uomo inizia, prima o dopo, la «vita spirituale» che consiste nella coscienza del sé e del mondo: «Io sono: con questo pronunciamento un essere personale si desta alla vita, annunzia la propria esistenza, afferma se stesso, rivela sé a se medesimo, e specificamente si differenzia dagli esseri impersonali che esistono, pur non sapendo di esistere. Questa coscienza di sé può essere più o meno viva, più o meno ampia e potente, ma è pur sempre necessaria all’io, poiché una incoscienza assoluta ripugna alla natura di un essere intelligente, qual è la persona»130. Nella visione di A., l’affiorare dell’Io, diviene così la prova della natura spirituale della persona: «Il vocabolo io chiude esso solo in sé la più decisiva confutazione del materialismo, essendochè il ripiegarsi che fa l’io sopra di sé ed il riconoscersi siccome sostanzialmente identico nella dualità del soggetto riflettente e dell’oggetto riflettuto è dote propria dello spirito ed affatto ripugnante all’essenza medesima della materia, che è di sua natura impenetrabile, cioè tale da non poter compenetrare interiormente sé stessa e tutta riconcentratasi siccome in semplicissimo punto: chè in tal caso cesserebbe di essere materia»131. L’emergere della individualità personale all’interno del mondo, indica anche lo sviluppo della coscienza alla scoperta della propria esistenza132. L’Io emerge primariamente in due connotati propri, vale a dire l’intelligenza e l’attività volontaria133. In questo senso definisce la persona come «sostanza dotata di intelligenza, mercé cui ha coscienza di sé affermandosi quale unità vivente di vita sua propria distinta dalla realtà esteriore e pur con questa unità, e di attività volontaria, per cui possiede sé stessa e dispiega liberamente la virtualità sua in ordine al fine universale segnato dalla personalità infinita di Dio»134. Questi due attributi sono l’espressione della coscienza, in A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino A., Sulla personalità umana, 17. 132 «La coscienza personale è l’io, che rivela sé a se medesimo. Ora quali sono le rivelazioni della coscienza interiore? L’io sente di essere uno od identico con se medesimo, di possedere un’esistenza effettiva e reale, si riconosce e si afferma una sostanza sussistente, attiva, semovente, operosa, che svolge la sua intima virtù in una molteplicità di pensieri, di affetti, di voleri, ed in sé li raccoglie ad unità» A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino i«Lo studio della personalità umana è lo studio dela mente contemplata primariamente in sé medesima, poi nelle attinenze su coll’organismo corporeo. La mente, sede della personalità, emerge da due supremi costitutivi, che sono l’intelligenza conoscitiva e l’attività volontaria» G. A., Sulla personalità umana, 16.  134 55. 47  cui l’uomo trova la sua indipendenza, alterità e potenza rispetto al resto della natura135. Con altre parole, A. osserva: «Dovunque c’è la persona, cioè un soggetto dotato di intelligenza ed attività volontaria, là vi è lo spirito. La persona è una energia, un’attività, una forza, non cieca, ma intelligente e conscia di sé, non fatale e necessitata, ma libera e signora di sé, lo domina e lo trasforma informandolo giusta il suo ideale: ma la materia non conosce né se stessa, né lo spirito, non domina sé medesima, ma è irrepugnabilmente dominata dalle forze, che la investono»136. Nell’uomo, infatti, la volontà è radicata nell’intelligenza137. Solo una prospettiva simile, per A., è capace di comprendere la vita della persona, e salvare la sua unità138. Commentando una parte del celebre libro di Smiles, Self – help, tradotto in Italia con il titolo Chi si aiuta Dio l’aiuta, A. scrive che ognuno: «sente di essere un’attività consapevole di sé ed arbitra del proprio operare, una forza morale, che si muove all’atto non per esteriore costringimento, ma per intrinseco impulso intelligente e libero. “Se ciò non fosse (scrive lo Smiles nel capitolo VIII della sua opera Chi si aiuta Dio l’aiuta), dove sarebbe la responsabilità? A che gioverebbe lo insegnare, l’ammonire, il consigliare, il correggere? A che servirebbero le leggi, ove non fosse la credenza universale, come è un fatto universale, che gli uomini obbediscono o no ad esse, secondo che deliberarono individualmente?”»139. 135 «La persona è un tutto individuo e sostanziale, che afferma sé come distinto dalla realtà universa; un soggetto, che possiede sé stesso mercè il pensiero e la volontà; una monade, che è conscia sui et compos sui, è presente a sé ed è tutta in ciascuna delle molteplici sue forme, determinazioni, momenti e stati, sicché il secreto de’ grandi caratteri dimora nel conservare la propria individualità personale in mezzo alle forze contrarie padroneggiandole; una sostanza dispiegantesi per intrinseca sua virtù da un centro o principio supremo di vita suo proprio e che nello esplicamento del suo contenuto compenetra tutta sé stessa in una viva ed attuosa unità di intendere e di volere» A., Lo spirito e la materia nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo, Torino, Carlo Clausen, 1903, p. 15. 137 Secondo A. l’attività volontaria è «la fonte secreta, inesauribile, da cui prorompe tutta la corrente della vita umana, ed a cui rifluisce con perpetuo circolar movimento. Il voglio pronunciato dall’io attesta l’atto di una coscienza personale ed annuncia il lavoro. S’intende da sé che questa forza, quest’attività interiore dell’io non è una volontà cieca, inconsapevole di sé, bensì illuminata dall’intelligenza, essendochè chi dice coscienza, dice conoscenza, e propriamente conoscenza di sé» A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, 8. 138 «La coscienza è la rivelazione dell’anima a sè stessa nella sua natura e ne’ suoi fenomeni, nella sua sostanza e ne’ suoi modi, nella sua essenza e nella sua attività, nel suo essere e nelle sue manifestazioni. Così il concetto della personalità umana, vale a dire di un soggetto sostanziale fornito di intelligenza e di libera volontà, è il solo, che concilii la molteplicità dei fenomeni coll’unità del loro comune soggetto, sicché questi due termini nello sviluppo della vita umana si mantengano indisgiungibili, e si rischiarano l’un l’altro» G. A., Studi psicofisiologici, 74. 139 G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 47.  48  L’esistenza nella persona di una unità tra mente e corpo, rappresenta una premessa incontrovertibile su cui dipanare il discorso antropologico e pedagogico140. Negare questa dualità nell’uomo, significherebbe disconoscere un dato di realtà. Stando al pedagogista, la stessa idea di scienza appare contenere implicitamente l’affermazione dell’esistenza della coscienza141. A. dedicò ampio spazio al rapporto tra la dimensione spirituale e quella corporale. Com’è già stato osservato, l’uomo è sintesi tra persona e corpo, due nature che si mantengono in una relazione di armonia nell’uomo. In questo senso egli definisce l’uomo come «persona organata»142 o «persona incorporata». Questa relazione, pone il problema di come i due livelli siano coordinati tra loro. Come premessa a questo problema, A. scrive che «nell’uomo non vi sono due esseri, ma uno solo; quindi in lui le potenze mentali dell’anima e le funzioni animali del corpo si svolgono complicate insieme, sicché non si può tracciare una linea di separazione tra i fenomeni psichici ed i fisiologici»143. Contro i positivismi chiarisce in più di un’occasione che la vita della mente va distinta da quella materiale. Osserva: «L’anima non trae la sua origine dagli organi del corpo, ma (dicevano i pitagorici) vien dal di fuori nel corpo è un’emanazione dell’etere, simbolo dell’anima universale, ossia di Dio animatore supremo»144. Nel testo Studi psicofisiologici, si occupa in specie della relazione tra la natura spirituale e quella fisiologica, citando diverse opere di studiosi tra cui Marat, Lèlut, Lotze, Cerisem, Cabanis, Broussais ed Herzen. Polemico contro il monismo scientista, propone una teoria chiamata duodinamismo, che spiega in questo modo: «Mentre il monodinamismo concentra la vita umana tutta quanta in una sostanza, cioè o nel solo spirito o nella sola materia componente l’organismo corporeo, il duodinamismo riconosce nell’uomo due centri di vita sostanzialmente distinti, cioè l’anima razionale e la forza vitale, e da quella fa rampollare i fenomeni mentali, da questa i fenomeni fisiologici ed animali»145. La teoria si 140 Per A. l’uomo è «La persona, sostanza individua, sussistente in sé, volontariamente attiva; l’unità è l’identità dell’io nella molteplicità e varietà dei suoi modi e dei suoi fenomeni; la vita intima ed individuale intrecciata colla vita esterna e comune; la vita mentale svolgentesi insieme colla vita organica. Ecco le rivelazioni della coscienza personale, rivelazioni, che costituiscono le prime, spontanee intuizioni dello spirito umano, salde, inconcusse, irrepugnabili. Ora da ciascuna di queste rivelazioni la ragione vede spuntare una serie ordinata di problemi, che ammaniscano la materia, su cui la scienza ordisce le sue trame e compie il suo lavoro speculativo» A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, 10. 141 «Così coscienza e scienza sono i due poli, fra cui si muove il mondo della speculazione: la coscienza ci rivela la personalità dell’essere, ed alla luce di questo principio la ragione costruisce la scienza» 10. 142 G. A., Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, 14. 143 G. A., Studi psicofisiologici, 26. 144 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, Cuneo, Tipografia Subalpina di Pietro Oggero e C., A., Studi psicofisiologici, 69.  49  rifà ad autori come Barthez, Montpellier, Lordat. Essa «concilia insieme la molteplicità della natura umana coll’unità dell’Io individuale. Infatti l’anima razionale non essendo uno spirito puro, ma congiunto colla materia, è essa che informa ed avvia il corpo, è il suo principio ed animatore: così il principio corporeo produce i fenomeni della vita fisica ed animale, ma in grazia della forza vitale ricevuta dall’anima, la quale in tal modo produce direttamente e per se stessa i fenomeni della vita mentale, ed indirettamente, ossia per mezzo del corpo i fenomeni della vita corporea»146. Al naturalismo e al positivismo contestò, come già accennato, la riduzione dell’antropologia a un «capitolo della fisiologia, ad un ramo della zoologia»147. A. chiarisce è che non è contrario alla fisiologia, ma al «fisiologismo». Negli Studi pedagogici cita il caso dei fisiologi come Salvatore Tommasi, che sostengono come la disciplina non porti necessariamente al materialismo148. Inoltre osserva come anche alcuni positivisti abbiano ammesso una serie di difficoltà nello spiegare la vita mentale con la sola fisiologia. Per suffragare la sua tesi rinvia al saggio Herzen, Il cervello e l’attività celebrale, nel quale lo studioso riconosce quanto sia ancora lontana la possibilità di chiarire aspetti fondamentali del funzionamento della mente umana. A. trae queste conclusioni: «Così i più grandi rappresentanti del positivismo contemporaneo riconoscono l’ignoto, che giace in fondo al problema dell’unione tra la vita fisica e la vita mentale dell’uomo. Certamente la fisiologia moderna co’suoi luminosi ed incontestabili progressi ha sparso molta luce su questo problema, ma non ha svelato il mistero che lo avvolge»149. A. si poneva come obiettivo di salvare insieme le esigenze spirituali e i dati fisiologici. Osserva: «Il principio antropologico da me propugnato è antico quanto l’uomo, il quale intuisce per natura la personalità del suo essere, ma è pur fecondo di novità e di progressivo sviluppamento, perché ammette insieme armonizzati i due supremi fattori della scienza, voglio dire l’esperienza, che apprende la fenomenalità delle cose, e la ragione, che coglie il loro essere sostanziale»150. Nel principio della personalità si palesa lo spiritualismo di A., che viene spiegato così dalla Quarello: «Realismo spiritualistico e spiritualismo teistico: tale è la filosofia d’A.. È realismo in quanto il pensiero è l’ “attività” di un essere reale (io = persona); è spiritualismo in quanto la persona è essere uno, sostanziale cosciente di sé (“lo 146 72 147 G. A., L’uomo e la natura, A., Studi pedagogici, A., Studi psicofisiologici, A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18  novembre 1903, 14. 50  spiritualismo, egli scrive, proclama la personalità umana”); è teismo in quanto Dio è pensato come persona (“il teismo proclama la personalità infinita di Dio”)»151. Lo spiritualismo dell’A. trae alimento dal principio della personalità. Se da una parte, infatti, si afferma una dimensione irriducibile alle dinamiche nell’uomo, e dall’altra l’attestazione di questa «natura» dell’uomo conferma il suo spiritualismo. «Preso nel suo ampio senso – osserva il pedagogista vercellese - lo spiritualismo risiede nell’ammettere l’esistenza di sostanze immateriali, che cioè non cadono sotto i sensi e non hanno le proprietà della materia, quali sono la figura, la grandezza, l’estensione, la divisibilità, il movimento locale, bensì sono fornite di intelligenza e di libera volontà»152. In questa duplice difesa dello spirito e della realtà materiale, sembra di poter affiancare A. al personalismo nato in Francia diversi decenni dopo, a cui lo accomunò la volontà di «evitare che la persona umana fosse schiacciata dal materialismo positivistico o assorbita nel vortice del monismo idealistico»153. I. 4. Antropologia e pedagogia Secondo A., la pedagogia deve fare i conti con la realtà educativa e le sue dinamiche154. La riflessione teorica e la vita formativa rappresentano due poli indispensabili l’uno all’altro155. A. prospetta, in questo senso, un metodo di ricerca pedagogico sia empirico che razionale. Egli lo definisce «dialettico» in quanto «contempera insieme l’esperienza e la ragione, i fatti e i principi»156. La storia della pedagogia documenta come qualsiasi riflessione sistematica sull’educazione, abbia sempre fondato le sue posizioni su una concezione dell’uomo e del suo ideale. Anche per A., l’antropologia come «scienza dell’essere umano»157 si 151 V. Quarello, A., Studio critico, A., Appunti di Antropologia e Psicologia, 8. 153 Pedagogie personalistiche e/o della Pedagogie della persona, Brescia, La Scuola, 1994, p. 15. 154 «Siccome l’educazione è ad un tempo un’idea ed un fatto, così la Pedagogia, che ne rampolla, assume il duplice carattere di scienza e di arte. Essa è scienza perché l’esplicazione razionale di quell’idea; è arte, perché ideale tipico di quel fatto. Come scienza è un sistema di cognizioni, una teoria speculativa intorno l’educazione umana, epperò potrebbe appellarsi pedagogia pratica» A., Studi pedagogici, cit., 1889, p. 25. 155 «Così la scienza pedagogica è la teoria dell’educazione, l’arte pedagogica è la pratica dell’educazione; scienza ed arte, teoria e pratica bisognevoli l’una dell’altra. Poiché la mera pratica dell’educazione, non illuminata dalla scienza pedagogica, non è vera arte, bensì cieco empirismo; la scienza pedagogica alla sua volta, non tradotta in pratica, né fecondata dal magistero dell’arte, rimane una vana e sterile teoria» A., Concetto generale della storia della pedagogia, Pavia, Bizzoni, A., Studi pedagogici, A., L’uomo e il cosmo, 1.  51  prospetta come uno studio di fondamentale importanza tanto per la teoria quanto per la pratica educativa158. A.colloca l’antropologia al centro dell’organigramma di tutte le scienze. Egli individua il suo obiettivo nella conoscenza dell’essenza unitaria della persona. A. non pensa all’antropologia come ad una etnografia, ma come «scienza generale sull’uomo» connotata da un orizzonte metafisico. Dallo studio generale sull’uomo, discendono due gruppi di discipline, quelle che lo studiano nella sua accezione individuale, e quante ne approfondiscono l’aspetto sociale160. Le scienze che studiano l’uomo sotto l’aspetto individuale si dividono a loro volta in altri due gruppi. Del primo fanno parte tutte le discipline che si occupano della mente: logica, estetica, etica, eudemonologia, filologia, pedagogia. Al secondo gruppo afferiscono le scienze che riguardano l’organismo corporeo: fisiologia, anatomia umana, patologia, terapeutica, igiene, ginnastica. Le scienze che riguardano l’uomo sociale sono secondo A. la politica, la giuridica, l’economia pubblica colle scienze industriali e commerciali, la storia, l’etnografia, la filosofia della storia. Tutte queste discipline sono legate all’antropologia, che permea e fonda qualsiasi aspetto dello scibile umano. Secondo A., la prospettiva sulla natura e il senso della persona, permea le possibili soluzioni avanzate riguardo la vita della società, le sue leggi, le sue prospettive, il suo sviluppo. Osserva: «Ogni problema sociale, vuoi politico, vuoi artistico, vuoi religioso, cova in sé un problema antropologico»161. Questa relazione è ancora più evidente per quanto concerne la scienza pedagogica, con la quale l’antropologia ha un «vincolo indissolubile»162. Lo studioso piemontese, infatti, pur riconoscendo un proprium alla pedagogia nell’affrontare dei problemi fondativi e generali sull’educazione, considerava necessario il contributo delle altre scienze, indispensabili per completare e integrare la ricerca pedagogica163. Tra queste primeggia l’antropologia filosofica poiché necessaria per chiarire 158 «L’educazione dell’uomo presuppone la conoscenza dell’uomo stesso, epperò la pedagogia o scienza dell’educare e la didattica o scienza dell’istruire, hanno il loro fondamento nell’antropologia, o scienza che studia l’essere umano» A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 3. 159 A. sostiene che l’antropologia studia «l’uomo nella sua intima e generalissima essenza, ossia nell’integrità e pienezza complessiva del suo essere» A., Studi psicofisiologici, Cfr. A., Appunti di Antropologia e Psicologia, A., Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, 4. 162 G. A., Studi pedagogici, 39. 163 Nel seguente brano elenca le discipline ausiliarie alla pedagogia, che sono: «1° L’antropologia generale, che studia l’uomo nella dualità di anima e di corpo e nella unità della sua persona; 2° la psicologia, che studia l’anima umana nelle proprietà della sua natura e nella varietà delle sue potenze; 3° la logica riguardata siccome la teorica della verità e della scienza; 4° l’etica, che studia il Buono, norma ed oggetto della libertà morale umana; 5° la cosmologia, che è una spiegazione scientifica del mondo; 6° la metafisica,  52  la natura e il fine dell’educando, e quindi dell’educazione. Nonostante i diversi ambiti di ricerca «tra l’antropologia e la pedagogia intercedono le due fondamentali attinenze della distinzione e dell’unione»164. Se il principio della personalità è il fulcro dell’opera d’A., l’antropologia è il centro della pedagogia. Non a caso, quando il professore vercellese sostituì Rayneri sulla cattedra di pedagogia all’Università di Torino, cambiò il nome dell’insegnamento da «Metodica» in «Antropologia e Pedagogia». Il carattere di ciascun sistema pedagogico dipende dalla prospettiva antropologica: «le diverse e contrarie teorie pedagogiche professate dai cultori di questa disciplina traggono appunto la loro ragione e origine dai diversi e contrari concetti antropologici, da cui essi hanno preso le mosse, e su cui hanno costrutto il sistema»165. Per capire e pensare l’educazione occorre una chiara idea su cosa sia l’uomo, se ci sia e quale debba essere il suo compito nel mondo: «Ogni dottrina pedagogica ritrae dai principi antropologici su cui si regge, la virtù peculiare, che la informa, e lo stampo singolare, che la individua»166. Non si possono slegare questi due aspetti nella riflessione: «L’uomo e la sua educazione sono due termini insieme compenetrati, come un principio e la conseguenza sua, e che li disgiunge, è mente piccina che né l’uno, né l’altra intende. L’uomo spiega se stesso nell’educazione e l’educazione riflette se stessa nell’uomo; e sempre il concetto antropologico ed il concetto pedagogico serbano l’uno coll’altro rispondenza esatta o veri o fallaci che siano entrambi»167. La correlazione è necessaria. In un altro brano chiarisce gli scopi delle due discipline: «La distinzione delle singole scienze origina dalla distinzione dei loro oggetti: l’una non è l’altra, perché versa sopra un oggetto suo proprio, che non è quello dell’altra. Per conseguente la scienza antropologica dalla pedagogica si differenzia essendochè quella ha per oggetto suo l’essere umano, questa l’educazione umana, l’una studia l’uomo nell’integrità e compitezza dell’esser suo, l’altra sotto il peculiare riguardo della sua educabilità; la prima si propone di rispondere alla domanda: Che cosa è l’uomo; la seconda ha per ufficio di soddisfare all’inchiesta: Che l’educazione e come l’uomo va educato. Ecco il rapporto di distinzione, ma da questo stesso già si rileva il vincolo unitivo, che stringe l’una all’altra le due discipline, essendochè l’uomo e la educazione sua sono due termini inseparabili. La pedagogia ha coll’antropologia un vincolo così intimo e necessario, che trova in questa il fondamento e che studia l’Essere primitivo in sé e ne’ suoi rapporti col mondo e coll’uomo» A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, Torino,Tipografia Subalpina di Stefano Marino, A., Attinenze tra l’antropologia e la pedagogia, «Rivista Pedagogica Italiana», Asti; A., Delle idee pedagogiche presso i greci, A., Opuscoli pedagogici, cit., 1909, p. 10.  53  la ragion sua ed in ogni punto del suo processo si regge sui principii supremi della scienza antropologica»168. Per fare pedagogia occorre dunque possedere una «conoscenza scientifica dell’origine, della natura, del fine dell’uomo»169. Bisogna tenere conto del fatto che nella temperie culturale in cui A. sosteneva queste posizioni, porre l’antropologia filosofica a fondamento della pedagogia, non era un’ovvietà, soprattutto quando essa era collocata entro un contesto metafisico. Porre il baricentro del discorso pedagogico sulla questione antropologica, era considerato da A. come la risposta emergente ad una problematica educativa reale. Si trattava di un problema radicale che faceva da discriminante tra le varie teorie. Le risposte alla questione circa la natura dell’uomo, non erano infatti da considerare secondarie per la qualità della relazione pedagogica: «Educare è sviluppare le virtù insite dell’uomo fanciullo. Ma che cosa e quale è mai l’uomo che si vuol educare? Forse l’uomo di Molescott, un mero giuoco di elementi chimici colla predominanza del fosforo pensiero, e niente più? O l’uomo-scimmia de’ moderni naturalisti? O l’uomo de’ panteisti tedeschi fatto una cosa sola con Dio? O l’uomo de’ razionalisti trasformato in libero pensiero? O l’uomo de’ mistici che lo spiritualeggiano per intero, mentre i materialisti lo abbruttiscono?»170. Per A., si trattava di domande impellenti. La pedagogia esigeva nuova chiarezza sull’idea di persona: «Oggi più che mai essa reclama un supremo principio vitale, che risponda al suo altissimo compito, ricomponga ad unità di organismo potente la sua squilibrata compagine e le additi l’ideale suo, verso cui cammina franca e sicura»171. Secondo il pedagogista, la domanda circa la natura dell’uomo non poteva essere affrontata con gli strumenti epistemologici delle scienze esatte, incapaci di cogliere l’essenza della persona. Tale compito spetta alla filosofia, che diviene la prima interlocutrice della pedagogia. In più di una occasione chiarì che la sua era una «pedagogia filosofica»172 poiché si «fonda sopra un principio essenzialmente vero ed inconcusso, quale è quello della natura umana riposta nella personalità dell’io, e nel suo procedimento adopera non la sola esperienza disgiunta dalla ragione, né la sola ragione astratta, che disdegna la realtà dei fatti, bensì entrambe queste due potenze conoscitive, e l’una in armonia coll’altra» A., Attinenze tra l’antropologia e la pedagogia, A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino, A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, Torino, Carlo Clausen. Stando a Calò, uno dei punti centrali nell’opera dell’A. è questo: «Non trascurare le esigenze dell’esperienza né quelle della ragione; ecco, secondo l’A., il primo canone del metodo filosofico»174. Ciò è confermato anche dall’esigenza di rompere le catene del misurabile, e allargare la pedagogia alla profondità e al mistero della persona. Solo «La pedagogia filosofica riconosce nell’alunno un’anima razionale non già separata dal corpo, ma con esso vitalmente congiunta in unità di persona, sebbene da esso distinta, un’anima, che sviluppa di continuo le sue energie in una successione di fenomeni, che formano la sua vita, epperò vuole un’educazione, che si estenda a tutto quanto l’uomo nella dualità delle sue sostanze e nell’unità della sua persona, alla vita temporanea e alla futura»175. La natura delle domande che l’esigenza dell’educazione ci pone, non si possono risolvere con il metodo scientifico176. A. non portò sostanziali novità nella riflessione epistemologica, ma difese la prospettiva pedagogica spiritualista, confutando i detrattori della metafisica in campo antropologico. Secondo Serafini, nonostante «il modello disciplinare intorno al quale egli lavora è ancora, in larga misura quello di una pedagogia come scienza pratica (quantunque punti particolarmente sulla figura d’una disciplina complessa) che si differenzia dal modello elaborato in ambito positivistico particolarmente per gli effetti che su questo ha il suo personalismo»177. Un altro carattere distintivo della pedagogia d’A. è l’idea della specificità nazionale della pedagogia. Occorre secondo il pedagogista pensare in continuità con la storia del proprio popolo e con le proprie attitudini. Su questo tema trovò una consonanza con il saggio di Antonino Parato dal titolo «La scuola pedagogica nazionale», non senza motivo diverse volte citato d’A.. I. 5. L’educazione 174 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico d’A., 8. 175 G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, Spiega A. «La pedagogia è la scienza dell’educazione umana; e siccome l’uomo non può essere convenientemente educato se prima non è conosciuto secondo verità, quindi è che la pedagogia dipende ed attinge da tutte quelle scienze, che hanno per oggetto la conoscenza ragionata dell’uomo riguardato in sé ed in rapporto colla realtà universale. Ciò posto, che cosa è l’uomo, donde esso viene e dove va? Come si congiungono in lui ad unità di vita il corpo e la mente? I suoi destini si compiono quaggiù o in una vita ultramondana? Esiste la verità e la scienza, a cui aspira la sua intelligenza? Esiste una legge morale, norma della sua libera volontà? Che cos’è questo mondo esteriore, che lo circonda, ed in cui è posto a vivere? Qual concetto dobbiamo formarci di quell’essere assoluto ed infinito, che è l’oggetto della moralità e religiosità umana, origine prima e fine ultimo di lui?» G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 245-246.  177 G. Serafini, L’idea di pedagogia nella cultura italiana dell’Ottocento, cIn più di un’opera, il pedagogista vercellese denunciò una grave crisi educativa, che egli imputava alla confusione imperante circa i caratteri di una formazione adeguata178. Sulla base del principio della personalità, egli considerava l’efficacia educativa legata alla previa soluzione data al senso della perfettibilità dell’uomo179. Mancando, come già si è accennato, una concezione adeguata sulla natura dalla persona, anche la pratica educativa ne veniva fuori menomata. Tra i fondamenti pedagogici di A. si colloca questa massima: «Sul sentimento e sul rispetto della dignità della persona si fonda l’arte dell’educare»180. Al pari di un ampio stuolo di pedagogisti ed educatori, il docente vercellese era convinto che non si dà autentico sviluppo della persona senza un intervento formativo181. La natura esteriore, infatti, «non è per se stessa educativa nel senso rigoroso della parola, bensì tale diventa allorquando il fanciullo in sé accogliendola l’accompagna e la feconda colla coscienza del suo sviluppo»182. Per tratteggiare i caratteri precipui dell’educazione, A. si rifà alla lezione di Rayneri, che nella Pedagogica enumerò cinque attributi imprescindibili: Unità rispetto al fine, Universalità rispetto a tutte le facoltà umane che devono essere medesimamente sviluppate, Armonia tra le potenze umane, Gradazione, Convenienza, cioè – oggi diremmo – personalizzazione dell’intervento educativo183. Mentre il suo maestro considerava la «convenienza» come la più importante di queste leggi, A. sostiene il primato dell’armonia184, quale condizione necessaria per un’educazione efficace185. 178 G. A., Studi pedagogici, 21-22. 179 «L’opera educativa si modella sul concetto dell’uomo: quale noi lo conosciamo, tale lo educhiamo, e per conseguente ogni dottrina pedagogica si informa e si esempla sopra una dottrina antropologica.(...) L’educazione muove dalla natura originaria dell’uomo, come da suo fondamento, lo segue nel corso progressivo della sua vita governando lo sviluppo delle sue potenze, mira ad un ideale di perfezione, a cui intende sollevarlo» G. A., G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, Tipografia Subalpina, Torino, 1910, pp. 81-82. 180 G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,  185. 181 G. A., Studi pedagogici, 67-68. 182 G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 68. 183 G. A., Studi pedagogici, 106. 184 109-112; 185 L’educazione deve essere armonica rispetto a tutte le facoltà della persona «Che l’alunno debba essere educato in armonico accordo colla natura fisica circostante, colla famiglia e colla nazione, a cui appartiene, coll’organamento sociale, in cui vive, col grado di civiltà e collo spirito proprio del tempo, è una verità già riconosciuta e proclamata dalla pedagogia filosofica. Poiché l’alunno non è una monade solitaria ed isolata, chiusa ad ogni comunicazione esteriore, bensì abbisogna della convivenza di altri esseri, a fine di espandere la sua vitalità interiore e compiere il suo esplicamento. Ma egli possiede una personalità sua, che non può essere sacrificata al mondo fisico sociale; è fornito di una libertà interiore, che gli conferisce il dominio di sé medesimo, sicché egli è quale vuole essere, non quale lo fa la necessità insuperabile dell’ambiente; non potrebbe vivere una vita comune nel consorzio con altri esseri se anzi tutto non vivesse in se medesimo di una vita tutta sua propria; non potrebbe mettersi in conformità di accordo coll’ambiente, se da prima non fosse in concorde armonia con sé stesso; non potrebbe acconciarsi alle impressioni del grande organismo  56  Sebbene guidata da un criterio unitario, l’educazione può essere analizzata nella sua molteplicità. A. parla di un’educazione fisica, intellettuale, estetica, morale, religiosa. Distingue tra quella naturale, che segue lo sviluppo delle facoltà della persona, e quella esterna, guidata da modelli valoriali, culturali e intellettuali dal discente. Il perno dell’educazione della persona è la sua razionalità ed intelligenza. Riprendendo la tripartizione rosminiana delle facoltà umane186, A. ricorda come l’interiorità della persona sia il vero oggetto dell’educazione, mistero non materiale187, ed eccedente i meccanismi fisiologici188. I fenomeni dell’interiorità sono governati da leggi come quella di associazione, simultaneità, successione, e si fondano sulla dinamica delle potenze umane, tratto tipico della pedagogia rosminiana, che si dividono in corporee o fisiche e in spirituali o mentali189. Compito dell’educazione è di sviluppare le potenze umane, in cui l’intelligenza umana si esprime come desiderio spirituale190. Se l’educazione è il mezzo attraverso cui l’uomo può essere se stesso, questa va rivolta a chiunque. A. considerava necessario offrire a qualsiasi persona l’educazione e l’istruzione, senza discriminazioni per le condizioni economiche, sociali, o di genere. In questo senso contesta i positivisti che negavano la possibilità e l’utilità di occuparsi dell’educazione e dell’istruzione dei diversamente abili. Negli Opuscoli Pedagogici191 sostiene la necessità di educare i sordomuti, i nevrastenici, i balbuzienti, i ciechi, ed esorta ad approfondire gli studi sui mezzi con i quali sia meglio educarli, richiamando a prendere esempio da altre nazioni europee come la Francia. Nel saggio su Rousseau, contesta l’idea difesa nell’Emilio, secondo cui i della natura, se anzi tutto non sentisse il vitale influsso dell’organismo corporeo suo proprio; infine egli aspira ad un ideale della vita futura, il quale non può trovar luogo nella cerchia dell’ambiente della natura tutto circoscritto ad un punto del tempo e dello spazio» G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 19-20. 186 «Sentire, intendere e volere, in questa triplice classe di fenomeni psicologici si raccoglie tutto lo sviluppo del nostro essere spirituale» G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 6. 187 «I fenomeni interni o psicologici non si veggono cogli occhi del corpo, non si toccano, non si odono, non si odorano: un pensiero, un affetto, un volere non hanno forma o figura, non divisione o dimensione, non grandezza o misura: essi soltanto alla coscienza si mostrano e sono oggetti di osservazione interiore» 7. 188 «I fenomeni interni sono di loro natura superiori all’organismo; i sentimenti, i pensieri, i propositi deliberati sono manifestazioni esclusivamente proprie dello spirito, al cui compiuto sviluppo i fenomeni dell’organismo corporeo intervengono bensì, ma come condizione soltanto, non some causa» 7-8. 189 «Ciò posto, siccome i fenomeni interni ci vennero superiormente distribuiti in tre classi supreme, affettivi cioè, intellettivi e volitivi, così siamo condotti ad ammettere tre supreme potenze umane corrispondenti, la sensitività, l’intelligenza e la volontà, intendendole con tale larghezza, che la sensitività comprende tanto la sensazione animale, quanto il sentimento spirituale, l’intelligenza abbracci tanto la percezione o fantasia sensitiva quanto la ragione, e similmente la facoltà spirituale della volontà si mostri preceduta dagli appetiti inferiori e con essi collegata» 12. 190 «Come l’istinto animale provvede alle esigenze della nostra vita fisica, così l’istinto spirituale fornisce alla vita mentale i beni, che le sono proprii. Ora lo spirito vive del Vero, del Bello, del Buono, e vi si sente portato da naturale istinto, il quale viene così a distinguersi in intellettivo, estetico e morale» 29.  191 G. A., Opuscoli pedagogici, 94-97. 57  diversamente abili, A. parla di «storpi», non abbiano diritto all’istruzione e all’educazione192, ribadendo la convinzione che l’educazione sia un diritto per tutti. Tutti gli uomini sono persone, qualunque sia la loro condizione, e ognuno merita di essere educato e istruito, anche se ciò deve essere fatto secondo le inclinazioni e le potenzialità di ciascuno. Analogamente contestò Platone quando estromette i «malconformati di corpo» dalla cerchia degli educabili. Inoltre fa notare come «anche lo Spencer a’ di nostri muove rimprovero alla società che si prende cure dei miserabili, dei poveri, degli infermi, fino a dichiarare una grande crudeltà il nutrire gli inetti a spese dei capaci degli operosi»193. A. considera questa prospettiva come una diretta conseguenza del materialismo: disconoscendo il valore assoluto dell’uomo, non ha più senso la cura di quanti non «funzionano», non «producono», quanti insomma sarebbero solo un peso per il sistema economico. Secondo A. solo il riconoscimento della dignità suprema dell’individuo permette il rispetto di ciascuno e la sua valorizzazione. Dimenticata la persona nell’uomo, si elimina la ragione dell’eguaglianza degli esseri umani e dunque il diritto all’educazione per tutti. Sulla base del principio della personalità, il pedagogista vercellese fu altresì un difensore dell’istruzione e dell’educazione delle donne. Anche per l’A., come per molti altri studiosi della seconda metà dell’Ottocento, era necessario concepire l’educazione della donna in armonia con l’ufficio della maternità e la cura della famiglia, compiti a cui secondo il pedagogista la donna era naturalmente destinata. Dopo aver difeso il ruolo della donna nella famiglia, spiega: «Né altri di qui inferisca, che la donna circoscrivendo nel recinto della casa il suo genere peculiare di vita debba crescervi e passarvi i suoi giorni solitari, ignorante, incolta, spregiata e negletta. Anch’essa possiede per natura tutte le facoltà costitutive della specie umana, a cui appartiene; epperò ha, quanto l’uomo, diritto alla verità, alla felicità, alla virtù, al rispetto della dignità umana, che in lei rifulge, al perfezionamento suo proprio. E se abbia da natura sortito qualche raro pregio di mente e di spirito, qualche felice attitudine al culto di qualche disciplina, od arte, o nobile professione sociale, chè non venga mai meno alla sua prima e natural missione, alla quale è chiamata nel santuario domestico»194. A. reputa che sia necessario offrire un percorso educativo e di istruzione anche alle donne meno abbienti. Dopo aver analizzato le opere della Saussure, contesta il fatto che si parli dell’educazione solo per i ceti sociali più alti: «Però io non posso passare sotto 192 G. A., G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, 160. 193 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, 113. 194 117-118.  58  silenzio, che in questo eletto lavoro pedagogico della Saussure è tutto rivolto alla coltura della donna di agiata e civil condizione, come lo sono altresì le opere pubblicate dalle due egregie donne italiane, la Colombini e la Ferrucci intorno l’educazione femminile. Eppure anche l’educazione della donna popolana ed operaia può e deve fornire al cultore della pedagogia bello e grande argomento di studio e di meditazione, per quantunque debba essere discorso sott’altra forma ed in proporzioni più modeste»195. Nonostante l’inciso finale, il discorso dell’A. sembra innovativo rispetto alle comuni pratiche e teorie pedagogiche. La donna inoltre, in quanto persona, non poteva essere considerata proprietà di alcuno. Per questo motivo critica Rousseau che aveva fatto di Sofia una moglie totalmente asservita al marito. Al contrario: «La donna non è nata per essere la schiava né dello Stato, né dell’uomo»196. L’attività dell’educatore e della scuola deve anche essere in armonia con quella familiare. La famiglia è l’inizio e il paradigma dell’educazione. Chi si occupa di educazione deve avere come modello l’istituzione familiare. A. sostiene la necessità di una famiglia generosa, laboriosa e aperta. Contesta la famiglia rappresentata nell’Emilio, considerata isolata ed egoista. Invero, persistono nella sua opera ancora alcuni stereotipi sul sesso femminile. A. parla di un’inferiorità fisica197, e sostiene che «nella donna il sentimento e l’affetto predominano sull’intelligenza e sulla volontà», e sebbene sottolinei i vantaggi di questa caratterustica femminile198, considera l’uomo maggiormente capace di sottomettere la volontà alla ragione199. Secondo A. la durata dell’educazione abbraccia tutta la vita. L’uomo ha sempre da essere perfezionato. Il suo cammino verso il compimento di se stesso è costante200. È tuttavia vero che la vita è composta da diverse fasi, ognuna ha delle particolari esigenze educative. A. contesta cesure nette nella teorizzazione dello sviluppo della persona. 195 G. A., Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, Torino, Libreria Scolastica di Grato Scioldo, 1884, p. 222. 196 G. A., G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, 159. 197 «Insegna la fisiologia, che l’organismo corporeo è più gagliardo e più robusto nell’uomo, più esiguo e più delicato nella donna; questa diversità di struttura deve naturalmente riuscire ad una differenza tra le potenze fisiche del sentire e del muoversi corporeo» G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 16-17. 198 «Essa pensa più col cuore, che col cervello. La verità la sente più che non la mediti, la intuisce più che non la ragioni, la crede senza avvolgerla fra le tortuose spire del dubbio, la accoglie tutta quanta viva ed intiera senza dissolverla e notomizzarla col coltello dell’analisi; pensa e riconosce Dio come un bisogno del cuore, anziché come un principio della ragione; posa il suo pensiero sulla realtà concreta e vivente e mal si rivolge alle aride astrattezze, alle generalità trascendetali» 17. 199 «Venendo alla volontà, anch’essa nella donna soggiace alla influenza del sentimento, nell’uomo procede a tenore della ragione» 18. 200 «L’educazione comincia colla vita e mai non cessa, perché la nostra perfettibilità dura quanto la nostra mortale esistenza; però essa muta tenore ed ufficio ed indirizzo secondo il mutare delle diverse età» G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, 33.  59  La vita non può essere divisa in tappe con demarcazioni rigide, dato che la crescita è graduale e soggettiva. A tal proposito critica Rousseau, il quale «ha rotto l’uomo (e con esso l’educazione) in tre pezzi, che spuntano non si sa come, l’un dopo l’altro, il fanciullo, l’adolescente, il giovinetto: e sotto il taglio della sua anatomia psicologica la personalità è finita»201. Tale istanza è legata ad uno dei principi cardine dell’educazione in A., vale a dire l’armonia. «Se la virtù e l’anima e l’universo e Dio medesimo e tutto quanto esiste è armonia, appar manifesto, che anche essa l’educazione deve posare e reggersi tutta quanta sull’armonia, come suo fondamentale principio, val quanto dire essenzialmente ed integralmente ordinata all’armonico sviluppo delle forze del corpo e delle facoltà dell’anima»202. Importanti appaiono alcune annotazioni sul rapporto educatore-educando. Se la persona è libera e tende alla sua libertà, l’educatore non può agire sull’educando non tenendo conto di questo aspetto proprio della persona. Dato che l’uomo è libero, non si potrà ridurre l’educazione ad un meccanismo, l’educatore non costringe, non forza, non chiude, ma mostra, fa ammirare, interroga, sollecita, suscita. Su tale principio l’A. riprende fortemente il modello della paideia greca, contrapposto alla modernità che confusa sulla natura spirituale della persona e dunque sulla sua libertà, ha costretto l’insegnamento in un procedimento vuoto e disumano. Non c’è libertà senza l’autorità. La pedagogia moderna, di cui Rousseau è il più alto rappresentante, ha disconosciuto tale evidenza. Nonostante sia giusto assecondare la crescita naturale del bambino, non lo si può privare dell’intervento esterno: «Mai non ci deve cadere di mente, che nell’educazione umana suolsi seguire come infallibil maestra la natura medesima, sicché nulla mai si tenti, né si faccia, che contraddica a’ suoi principii, nulla si dimentichi, né si trascuri, che torni opportuno o necessario a secondarlo nel suo spontaneo sviluppo. Ai dì nostri vide questa potenza educatrice della natura Rousseau, ma di troppo la esaltò fino a bandire siccome inutile e nocivo il magistero dell’arte. Aristotele non disconobbe la virtù educatrice, che giace nella consuetudine o costume, e nella coltura della ragione o disciplina. Poiché i germi del Bello e del Buono deposti in noi da natura non crescono già né maturano mercé l’opera dei beni esterni, né il caso e la sorte fa sì che noi diventiamo onesti; bensì richiedesi a tanto fine l’esercizio della facoltà del volere e del sapere»203. 201 G. A., Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, 117. 202 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, 34. 203 155.  60  Per questo stesso motivo mette in guardia da una sopravvalutazione dell’autodidattica: «L’io umano è un soggetto personale, e quindi fornito di una energia pensante sua propria, per cui aspira scientemente e liberamente alla conoscenza della verità, siccome suo naturale obbietto; ecco l’origine ed il fondamento dell’autodidattica. Ma la personalità umana individua è limitata per natura, e quindi bisognevole di un intervento esteriore: ecco la ragione dei limiti, che circoscrivono l’autodidattica»204. La persona ha bisogno di altre persone per essere introdotta nell’esistenza. In un altro brano, A. individua nella «nuova psicologia» l’origine dell’equivoco: «L’autodidattica si regge tutta quanta sulla personalità dell’io, riguardato come un soggetto sostanziale fornito di una individualità singolare, per cui è consapevole che l’energia pensante, di cui è fornito, è tutta sua propria, e che gli atti intellettivi, in cui si svolge, vengono da lui ed a lui appartengono come loro principio originario e comune soggetto. Ora i fautori della nuova psicologia rinnegano apertamente la libera attività e la personalità dell’io umano riducendolo ad un insieme complessivo di fenomeni mentali, che non appartengono a nessun soggetto e si succedono a tenore di leggi ineluttabili, facendo dell’anima umana una mera funzione dell’organismo corporeo»205. La prima regola del maestro è il rispetto per il discente, che è l’attore principale dell’atto educativo. Una vera educazione è contraddistinta dal rispetto e dalla pazienza. L’educatore è chiamato a essere umile, non c’è inoltre insegnamento quando l’insegnante non impara a sua volta: «Il maestro deve di sicuro sovrastare al discepolo per ampiezza di dottrina, per coltura e sviluppo mentale, ma non dimentichi mai, che in faccia all’immensità dello scibile quel tanto, che egli sa, è poco meno che nulla, e gli bisogna perciò imparare sempre, ed imparare nell’atto medesimo, che istruisce gli altri»206. A. riprende la celebre frase di Plutarco che critica l’insegnamento come «riempimento», e sostiene che «Il vero imparare è un lavorare colla propria mente ed avere consapevolezza della verità scoperta e del come siamo giunti a scoprirla; il vero insegnare è un accendere la scintilla del pensiero e mantener viva la fiamma della riflessione. La parola del maestro riesce all’alunno necessaria in quella guisa, che ad un seme l’aria e la luce esteriore del sole, il quale destando la virtù sopita in esso lo schiude dal suo germe e lo tien vivo ed atto a spiegare le sue forme. L’acquisto della scienza è un martirio per uno spirito giovanile abbandonato alle solitarie ed isolate sue forze, come il possesso materiale 204 G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 16. 205 17. 206 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, 83.  61  della scienza non conquistata colla nostra meditazione somiglia a splendido patrimonio avito, eredato da nepoti degeneri e dappoco»207. Educare è dunque far cresce armonicamente le capacità dell’alunno, è un atto della vita che fa entrare nella vita, sviluppa e forma il carattere, ma soprattutto tende a far essere se stessi, e cioè autocoscienza del mondo. Educare significa formare le capacità umane, ma soprattutto interrogare il discente, contagiare l’esigenza di conoscersi e di capire se stessi. Nel suo studio, la Quarello riporta una frase della Marchesa di Lambert citata dall’A. nello Studio Storico critico di pedagogia femminile (1896), in cui la pedagogista sostiene che: «La più grande scienza sta nel sapere essere in sé»208. L’educatore è chiamato a condurre l’educando a questa vetta. L’azione formativa risulta dunque una continua interrogazione ed esortazione. È molto interessante la considerazione di Calò, secondo cui l’A. puntava ad un’azione educativa che «correggesse con un movimento centripeto verso il nucleo più profondo dell’io il movimento centrifugo verso l’esterno, che sapesse fare procedere l’educazione dal di dentro, non dal di fuori». 209. In questo «stare in sé» l’uomo scopre una dimensione infinita che lo interroga, lo spiazza. La persona sente in sé il richiamo di un’alterità misteriosa ma a cui si sente inesorabilmente legato: «Dovunque si muova l’educazione trovasi in faccia all’infinito sempre, perché l’educando è persona finita sì, ma che pur si muove e gravita verso l’infinito». Su questi presupposti, A. è convinto che non si possa negare l’educazione religiosa ai giovani: «La coltura impertanto dell’intelligenza, e dell’attività volontaria va ordinata a Dio. Così la personalità finita dell’educatore e dell’educando si regge sulla personalità infinita di Dio, e trova in questa la sua ragion di essere, del pari che la sua cagione efficiente. Educazione vera non è, che non sia personale sotto entrambi questi riguardi. Il materialismo, che spegne nel fango la personalità dell’uomo, l’ateismo, che nega a Dio la sua personalità infinita, il panteismo, che nega all’uomo ed a Dio una personalità loro propria per confonderli in una medesima sostanza, conducono ad un’educazione disumana, omicida, perché è negazione della persona. La formazione del carattere, intorno alla quale si travaglia tutta l’arte educativa, torna opera impossibile, ove non si regga sulla personalità dell’essere infinito»210. Strettamente legato alla questione della vocazione umana ed educativa, è il concetto di «carattere», con cui A. riprende un tema caro ad altri pedagogisti cattolici e non. Il carattere è definito come «quello stampo, o quell’impronta speciale, che configura 207 84-85. 208 V. Quarello, G. A., Studio critico, 106. 209 G. Calò, Dottrine e Opere, 25. 210 G. A., Opuscoli pedagogici, 31.  62  ciascuna natura umana»211. Con questo concetto intende l’universalità dell’essere persona nella particolarità del singolo. «L’alunno accoppia in sé l’umanità comune a tutti i suoi simili, e l’individualità propria di lui solo»212. Un altro passo chiarisce tale relazione: «il genere (umano) vive nell’individuo sotto forma del carattere»213. È compito dell’ufficio educativo riconoscere e far fruttare l’individualità della persona214. Secondo l’A.: «l’uomo di carattere è colui, che pensa con verità e colla propria testa, è arbitro del suo operare e conforma le sue azioni esterne coi suoi interiori convincimenti, sempre mirando all’ideale divino della perfezione»215. Ma per condurre al vero carattere bisogna educare, non basta istruire. A. definisce l’educazione del carattere come il «punto di gravitazione» e l’ «apogeo»216 dell’educazione. All’educatore spetta il riconoscere il carattere dell’alunno, la sua coltivazione, e l’aiuto verso la vocazione personale di ciascuno. Così «Il fanciullo è persona, cioè sostanza individua, che in sé armonizza la virtù conoscitiva, fonte della vita operativa, congiunta con un organismo corporeo, sede della vita fisica e ministro della vita spirituale. La vita speculativa si sviluppa mercé l’acquisto del sapere, oggetto dell’educazione intellettuale, la vita operativa mercé la formazione del carattere, compito dell’educazione civile, morale, religiosa, la vita fisica mercé il rinvigorimento, la salute e la destrezza del corpo, termine dell’educazione fisica; e tutte e tre queste forme di educazione deggiono armonizzare insieme, come armonizzano dell’unità dell’umano soggetto le tre forme di vita umana»217. Il carattere va educato sin dalla prima infanzia, e in esso l’esempio è il principale fattore218. L’apice della formazione è il carattere morale, vale a dire la libertà dell’uomo di obbedire esclusivamente alla legge morale insita nell’uomo. A. considerava il rispetto e obbedienza a questa legge, come il compimento della libertà, che certo non riteneva essere un arbitrio assoluto del 211 G. A., L’uomo e il cosmo, 357. 212 G. A., Studi pedagogici, 336. 213 G. A., L’uomo e il cosmo, 357. 214 «La formazione del carattere è opera nostra, sebbene abbia suo fondamento in natura, e le occorra il sussidio dell’arte educativa» G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 50. 215 G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 4. 216 G. A., Studi pedagogici, 322. 217 G. A., Opuscoli pedagogici, 31. 218 «Il carattere morale non forma lì per lì come per incanto nell’età virile; ma, come ogni opera grande e duratura, che sorge da piccoli inizii, esso fa le sue prime prove nella puerizia, e progredisce con lento lavorio sino alla compiuta sua forma mediante l’opera concorde dell’alunno, del maestro, dei genitori, durante tutto quel lungo periodo educativo, che dalla prima puerizia si stende sino al termine della gioventù» G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 91.  63  soggetto219. Il pedagogista vercellese è, infatti, convinto che «Volere liberamente il dovere, ecco, secondo me, la formula di tutto l’ordine morale»220. Per un’educazione efficace è imprescindibile lo sviluppo della capacità di volere e seguire ciò che è bene. «La dignità umana rifulge nel carattere. Plasmare nel fanciullo il carattere dell’uomo, che esprime la santità della vita in sé, nella famiglia, nella patria, questo è dell’arte educativa il supremo, altissimo ufficio»221. Parlando dell’insegnamento in classe dice che «ogni atto educativo dev’essere un’affermazione, un’impronta della sua individualità personale. Così si forma il carattere, così l’alunno impara a diventare uomo maturo di senno, esperto della vita, arbitro delle sue sorti»222. L’ultima opera dell’A., datata 1913, è dedicata allo studio comparato tra Giobbe e Schopenhauer. Contrapposto al nichilismo, al pessimismo, e al disimpegno del secondo, Giobbe rappresenta la vera statura umana, colui che nonostante le circostanza si spende per la verità. Osserva A.: «L’operosità della vita, perché si compia con efficacia, con dignità e decoro, richiede in noi la coscienza della nostra libertà personale rivolta ad un ideale supremo, il sentimento della nostra propria vigoria, il voglio imperioso dello spirito pronto a lottare contro le difficoltà, gli ostacoli, con imperturbabile costanza sino al sacrificio, riverente a quanto si presenta di grande, di nobile, di sacro, di divino»223. L’A. critica la riduzione dell’intervento educativo all’istruzione, riprendendo una battaglia tipica della pedagogia spiritualista. Sulla base dell’antimetafisica e del relativismo etico di certo positivismo, più di un pedagogista ridusse il compito dell’educazione all’istruzione, estromettendo dai suoi compiti la formazione del carattere, e quindi dell’autocoscienza e della libera volontà. Tale approccio ha come premessa fondamentale la convinzione che non ci sia nulla di vero, e quindi di insegnabile, fuori dalle asserzioni scientificamente dimostrabili. A questo proposito può essere utile richiamare un aneddoto raccontato da A. riferito ad una visita di Padre Girard all’Istituto del Pestalozzi: «Nell’atto che il Padre Girard stava visitando l’Istituto di lui, egli uscì fuori con queste parole: “È mio intendimento, che i miei 219 Per queste posizioni fu criticato da Santoni Rugiu: «L’A. ha della moderna pedagogia una concezione normativa (come sempre, d’altronde, nella concezione cattolica), la vede cioè non come un’indagine libera e obiettiva sulla natura e sulle condizioni reali in cui si svolge la formazione dei soggetti, ma come l’elaborazione di un insieme di indiscusse norme, appunto, che guidino alla perfezione morale e spirituale. Guai a lasciarsi travolgere dal «gran movimento sociale» e ritenere che esso indichi sempre la via del progresso e della civiltà» A. Santoni Rugiu, Storia sociale dell’educazione, Milano, Principiato, 1987, p. 528. 220 G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico,89. 221 G. A., Opuscoli pedagogici, 18. 222 G. A., Principi fondamentali di Scienza Pedagogica, in «Rivista Pedagogica», n. 10, 1930, p. 687. 223 G. A., Giobbe e Schopenhauer, Torino, Tipografia Subalpina, 1912, p. 41.  64  alunni non tengano per vero, tranne ciò solo, che possa essere loro dimostrato come due e due fan quattro”. Al che il Girard rispose: “Se io fossi padre di trenta figli, nemmeno un solo ve ne affiderei ad essere ammaestrato, perché non vi verrà mai fatto di dimostrargli come due e due fan quattro, che io sono suo padre, e che egli è tenuto di amarmi»224. Le parole di Padre Girard erano utili a spiegare quali fossero i rischi dell’ipertrofia della ragione scientifica e matematica. Limitando il veritativo al «misurabile», infatti, si escludevano dall’educazione tutta una serie di apprendimenti e principi morali indispensabili alla vita e alla formazione del carattere. Anche su questo punto A. esorta a distinguere ma senza dividere. L’educatore deve far crescere tutte le capacità umane, sia quelle del «cuore» che quelle della «mente». Era convinto che «la natura non si riforma, bensì va riconosciuta e rispettata»225. E la natura della persona non può essere ridotta alla pura istruzione, ma ha bisogno della certezza morale, dei principi, dei criteri per distinguere bene e male. I. 6. Critica all’idealismo e al positivismo Una parte considerevole delle opere di A. è destinata alla critica dell’idealismo e del positivismo. A tali correnti, sin dai primi lavori, A. addossò le responsabilità della profonda «crisi»226 e confusione che ammorbava la filosofia italiana. Oltre ad una lunga serie di studi dedicati a questi sistemi, anche negli altri saggi di A. appaiono frequenti incisi polemici contro queste teorie. Calò ha rilevato come questa ricorrente confutazione e polemica del positivismo e dell’idealismo, rappresentò un tratto specifico del pensiero del pedagogista vercellese «L’atteggiamento critico contro le due correnti suddette forma la preoccupazione costante e costituisce, insieme con il principio della personalità, svolto dall’A. in tutti i suoi aspetti, il motivo fondamentale e la sostanza del suo pensiero filosofico»227. Secondo alcuni studiosi A. avrebbe avuto nei confronti delle teorie coeve un atteggiamento difensivo ed eccessivamente «polemista»228. Caramella, un gentiliano che certo non concordava con le critiche dell’A. all’hegelismo e ai suoi epigoni, fu molto severo con il pedagogista, e ne sminuì il contributo, riducendolo ad una lamentela sterile e arretrata: «Ma venendo ai risultati effettivi della sua vasta opera di più che mezzo secolo, 224 G. A., Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, 89. 225 G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 261. 226 G. A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, 6. 227 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe A., 4. 228 S. Caramella, Lo spiritualismo pedagogico in Italia, «La nostra scuola», n 13-14, 1921, p. 9.  65  qual è il significato storico dell’A.? Niente di meno ma niente di più che un’ostinata battaglia cattolica contro lo scientifismo, senza che dal cozzo si generasse mai una scintilla nuova»229. Una critica analoga gli venne mossa da Vidari230. È facile riscontrare nell’opera di A. toni duri, se non apocalittici, nei confronti di teorie giudicate dannose non solo alla pedagogia, ma anche alla vita educativa e sociale del paese. In molti saggi mancano aperture concilianti, mentre le posizioni espresse sono spesso risolute e poco inclini ad aperture. Ma, a onor del vero, va riconosciuto che le critiche portate dal pedagogista sono sempre articolate e suffragate da una conoscenza precisa degli autori e delle scuole esaminate. «L’A. non fa mai la critica per la critica: il suo scopo è sempre molto preciso, quello di dimostrare e di salvare certi principi e certe verità filosofiche»231. All’interno del lungo itinerario delle opere dell’A. possiamo distinguere due momenti. Sino agli anni ’70 dell’Ottocento, si concentrò in particolare sull’idealismo, mentre in seguito si occupò quasi esclusivamente del positivismo, data l’incipiente influenza che iniziava ad avere sulla pedagogia e filosofia italiana. Già alla fine degli anni ’60, A. notava come il positivismo si accingesse a dominare il clima nelle Università italiane e negli studi filosofici e pedagogici, mentre l’idealismo era destinato a restare ai margini del dibattito. Nel 1903, ricordando quel tornante storico, commentò: «Il campo filosofico era in allora combattuto da due scuole di tutto punto opposte, l’idealismo hegeliano, che andava declinando dal suo apogeo, ed il positivismo anglo-francese, che si annunziava ristauratore sovrano della scienza e della vita»232. In quegli anni, la scuola idealistica era viva quasi esclusivamente a Napoli grazie a Spaventa e Vera. A., peraltro docente in una sede dove l’idealismo era quasi inesistente, si misurò criticamente soprattutto con i positivisti. Come accennato, i lavori di critica all’idealismo si concentrano in larga parte nelle opere giovanili, in particolare nei Saggi filosofici (1866) ne L’hegelismo, la scienza e la vita, (1868) e nell’ Esame dell’hegelismo (1897), un saggio più breve di quello precedente dove riprende pressappoco le stesse tematiche. 229 9-10. 230 «In tutti questi lavori la mente dell’A. si presenta sempre nell’atteggiamento di chi, incrollabilmente fermo e sicuro nelle proprie convinzioni maturate in uno studio severo e diuturno, vede nell’avversario e nelle dottrine da lui rappresentate un pericolo esiziale per la società e per la scuola, in cui esse si diffondano. Onde non tanto Egli mira a penetrare ed esporre l’idea dell’avversario nella sua genesi e nelle sue eventuali giustificazioni, quanto a metterne in rilievo le deficienze o le contraddizioni o le inaccettabili conseguenze» G. Vidari, Giuseppe A., 8. 231 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe A., 447. 232 G. A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, 3.  66  Alcuni cenni polemici contro l’idealismo sono presenti anche in altri testi, tra cui L’antropologia e l’umanesimo (1868), Della vecchia e della nuova pedagogia (1873), L’Antropologia ed il movimento filosofico sociale (1869); La pedagogia e lo spirito del tempo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia (1877) Studi filosofici sul carattere delle nazioni  Sulla personalità. Il testo in cui espone in modo più articolato le sue tesi contro l’idealismo è L’hegelianismo la scienza e la vita, un lavoro giudicato da Eugenio Garin «onestamente espositivo»233. L’opera fu scritta in occasione del concorso Ravizza del 1865-1866, che chiedeva agli scrittori di cimentarsi con questo tema: «Quali pratiche conseguenze derivino dall’idealismo assoluto di G. Hegel nella morale, nel diritto, nella politica e nella religione?». Il testo, che vinse il premio, fu poi rivisto e pubblicato. Nell’opera, l’A. delinea l’origine dell’hegelismo, mettendo in luce l’humus kantiano da cui nacque l’idealismo. Il pedagogista enuclea i passaggi che portarono dalle posizioni del filosofo di Königsberg ad Hegel. A. ricorda come Kant fosse allora considerato il nuovo «Socrate» per aver salvato la scienza dallo scetticismo, mentre egli pensava che il kantismo fosse stato la «tomba» della scienza e della filosofia234. L’errore di Kant fu quello di disconoscere il primo dato filosofico, vale a dire l’evidenza dell’essere. Egli perpetuò quella torsione prospettiva cartesiana che si piegò sull’affidabilità della ragione, dimenticando lo stupore e l’attestazione del mondo. A. osserva che l’uomo neanche penserebbe se non ci fosse quel «fuori». Così Kant aveva «condannato il soggetto ad un perpetuo e violento celibato segregandolo dalla realtà oggettiva»235. Osserva A.: «Scienza assoluta intorno il pensiero umano, ignoranza assoluta intorno la realtà universale, ecco i due poli del Criticismo di Kant, la finale risposta che egli diede alla sua prima domanda. Con questo suo sistema originale Kant reputava di avere ricostrutto su salda base il sapere speculativo, e quetati una volta i dissidii che da secoli sconvolgevano il regno della metafisica: Ubi solitudinem faciunt (direbbe qui Tacito), pacem appellant»236. Ma se lo scopo di Kant era quello di salvare la scienza, egli superò lo scetticismo di Hume, in quanto non riuscì a riconoscere il senso e i motivi della scienza metafisica. E ciò fu confermato dagli sviluppi successivi della filosofia. Nei cinquant’anni trascorsi tra la pubblicazione della Critica della Ragion Pura, 1781, e la morte di Hegel, 1831, la Germania visse un radicale cambiamento culturale. Dallo scetticismo di Kant si arrivò attraverso Fichte e Schelling, all’affermazione dell’idealismo 233 E. Garin, Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l’Unità, 56. 234 G. A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, 22. 235 31. 236 29.  67  assoluto di Hegel, che secondo A. non fa altro che trarre le nefande conseguenze di quel divorzio tra l’io e il mondo, che se aveva portato Kant allo scetticismo, conduceva Fichte alla tesi dell’Io assoluto, origine e creatore del mondo. Si trattò di una deriva di quelli che chiamò in un altro testo i «trascendetalisti tedeschi», i quali «estendendo fuor di misura il potere dell’io umano, lo posero creatore dell’essere e del sapere, e finirono collo spogliarlo della soggettività ed individualità sua, confondendolo col massimo degli universali»237. Nel saggio A. dedica diversi capitoli a questi passaggi, concentrandosi dopo Kant, su Fichte e Schelling. In ultimo affronta in modo analitico la figura e la filosofia di Hegel, introducendo il suo pensiero con un’accurata esposizione della vita, oltre che un’analisi degli apporti e delle influenze che ne condizionarono il pensiero. Successivamente, ne enuclea il sistema filosofico, con un’analisi articolata. A. parte dal concetto generale di filosofia, quindi affronta il metodo dialettico, il concetto dell’Idea e il suo sviluppo nel Sistema. Poi tratta della Logica, della filosofia della Natura e infine della filosofia dello Spirito. In conclusione sintetizza i motivi della critica all’idealismo. Il seguente brano compendia la critica di A.: «Il nome di Idealismo assoluto con cui viene designata la dottrina di Hegel, ne rivela tutto lo spirito e ne compendia il contenuto. Il suo sistema è tutto in queste due parole: Idea assoluta, od in altri termini Idea e sviluppo, giacché l'essenza dell'Assoluto è un esplicamento universale, un moto continuo e senza fine. Come per Condillac tutto è sensazion trasformata, così per Hegel tutto è Idea trasformante. L'idea essendo assoluta si fa tutte le cose, e con questo suo diventare universale spiega successivamente tutto l'essere, perché riproducendolo rivela le intime essenze delle singole cose, sicché l'Idea assoluta si manifesta ad un tempo siccome il sistema della scienza e l'insieme della realtà, identità universale delle idee e delle cose, del pensiero e dell'essere. Datemi materia e moto, diceva Cartesio, ed io creerò l'universo. Hegel pigliando in senso trascendentale il motto cartesiano avrebbe potuto ripeterlo dicendo: Datemi Idea e sviluppo, ed io vi ridarò rifatta e spiegata la realtà universale»238. L’identificazione dell’essere con l’idea conduceva l’idealismo a numerose antinomie ed epicicli, elencati dall’A.. Il pedagogista fa notare come Hegel, mentre tacciava di misticismo i realisti, chiedeva un atto di fede nel riconoscimento dell’Io assoluto. In conclusione, A. ripropone la ragionevolezza del realismo. Secondo il pedagogista vercellese, il reale anticipa, sporge e supera il razionale. Una frase dell’Amleto di 237 G. A., Sulla personalità umana, 18. 238 G. A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, 59.  68  Shakespeare è ripresa dall’A. come legge della filosofia, «v'hanno cose e in cielo e in terra di cui le nostre filosofie non si sognano neppure»239. La diaspora degli hegeliani e le numerose critiche fattegli dai suoi discepoli evidenziano tanto il fascino della prospettiva hegeliana, quanto la sua fragilità. L’errore cruciale dell’idealismo è la negazione della validità di quella serie di evidenze e strumenti che l’uomo ha nel suo naturale rapporto con il mondo: «il sistema dell’identità assoluta contraddice ai pronunciati della coscienza e si oppone ai dati del senso comune e del sapere naturale; dunque è insussistente»240. Per questa ragione, A. definisce Hegel come uno «spietato Torquemada del senso comune»241. Il pedagogista riprende l’analisi rosminiana e considera gli idealisti fondamentalmente degli scettici. Osserva: «La scienza è la spiegazione razionale della realtà sussistente: ora la realtà va anzitutto schiettamente osservata quale si presenta alla nostra percezione, e non già indovinata a priori e ricercata attraverso le pieghe del nostro cervello. Una teoria della realtà, costrutta col puro ragionamento e non fondata sull’osservazione, non è scienza seria e verace, ma un tessuto di astruserie, che potrà tutt’al più dimostrare la potenza immaginativa di chi l’ha costrutta. L’idealismo trascendentale germanico de’ tempi nostri ha sacrificato l’osservazione della realtà al puro ragionamento. Esso ha preso le mosse dal concetto più astratto, a cui si possa giungere ragionando, e colla virtù di quel concetto vuoto ed indeterminato pretese di costruire la realtà universale»242. Prima Gentile243 e poi la Quarello244, criticarono all’A. una conoscenza poco approfondita di Hegel. Se non si può considerare il pedagogista vercellese tra i massimi studiosi di Hegel, dai suoi lavori emerge un confronto nel merito con il cuore delle posizioni idealiste. Altri autori, come il Suraci, parlarono dell’opere sull’Hegelismo come «una critica quanto mai acuta e serrata»245. Anche per altre teorie, A. non bada ad una erudizione pedante sulle vicende di una corrente, ma al cuore e al significato delle sue principali direttrici filosofiche. Come è già stato accennato, dopo alcuni lavori dedicati all’idealismo, A. diede largo spazio alla critica del positivismo, che occupò gran parte della sua attenzione nella sua carriera seguente. Il pedagogista si accorse della rapida diffusione del positivismo nelle Università. Uno degli atenei in cui tali teorie presero piede e si diffusero era proprio quello 239 143. 240 G. A., Saggi filosofici, 6. 241 372. 242 G. A., Antonio Rosmini, 33. 243 G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia. I platonici, 370. 244 V. Quarello, G. A., Studio critico, 128-129. 245 V. Suraci, A.filosofo e pedagogista, 84.  69  di Torino, che era stata sino a pochi anni prima una roccaforte del rosminianesimo e dello spiritualismo cristiano. Come ha ricordato Giorgio Chiosso: «Proprio a Torino la cultura positivista stava compiendo il massimo sforzo con Moleschott, Lessona, Lombroso, Mosso per tracciare una antropologia incentrata su esclusivi tratti fisio – psichici e fortemente condizionata dalla cultura evoluzionista»246. Come ebbe a scrivere Norberto Bobbio, Torino rappresentava sul finire dell’Ottocento «la citta più positivista d’Italia»247. A. individuava come ragione della diffusione di tale corrente un forte appoggio politico, che era diventato come abbiamo già rilevato, il braccio ideologico dei gruppi anticlericali che spesso sedevano nelle poltrone più importanti del neonato Stato italiano. Il pedagogista aveva una chiara percezione di tale egemonia e non mancò di denunciarla. Scrisse a proposito «Il partito iperdemocratico, che nei lontani sfondi della rivoluzione italiana del 47 appena s’intravvede indistinto e sfumato, prese a poco a poco forme più spiccate e concrete, e fattosi potente tende oggidì a tenere esso solo il campo. Esso novera potenti ingegni fra i suoi numerosi seguaci, che ne bandiscono i principii dalle cattedre universitarie, dalle tribune parlamentari, dalle officine della pubblica stampa. La sua arma è la critica, il suo dogma supremo è l’umanesimo sociale, ossia il naturalismo pagano razionalizzato. E la critica, dacché fu inaugurato il Regno dell’Italia una, si spiegò con forze maggiori che mai. Essa si pose ad abbattere il principio di autorità nell’ordine del pensiero e della vita, a dissolvere le credenze morali e religiose dell’universale, a minare le fondamenta di tutta la dommatica del cristianesimo, a snaturare l’indole nativa e tradizionale della filosofia italiana»248. Nonostante il peso del positivismo fosse riscontrabile già nei citati dibattiti del ’47, fu solo con l’Unità che ai positivisti fu concesso quello spazio privilegiato col quale poterono diffondere le loro teorie e avere una inaspettata diffusione. Come denunciò A.: «Ai seguaci e promotori della nuova scuola pedagogica il Governo prodiga la pienezza de’ suoi favori, e sotto la potente sua egida assicura il trionfo»249. Se i capi scuola europei del positivismo meritarono, da parte dell’A., delle analisi approfondite e alcuni, rari, apprezzamenti, la valutazione degli epigoni italiani fu molto severa. Essi vennero ridotti al rango di semplici ripetitori di autori più organici come Spencer, Comte, Bain. A. si limitò ad affrontarne in modo sbrigativo la produzione positivistica italiana nel saggio La pedagogia italiana antica e contemporanea (1901). In 246 G. Chiosso, L'interpretazione rosminiana di Giuseppe A., «Pedagogia e vita», n. 6, 1997, p. 152. 247 N. Bobbio, Introduzione, in E. R. Papa (ed.), Il positivismo e la cultura italiana, Milano, Angeli, 1985, p. 13. 248 G. A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, 161-162. 249 168.  70  esse il pedagogista si lasciò andare a valutazione in parte ingenerose e tranchant. Affrontò le teorie di Angiulli, Siciliani, Gabelli, e di altri pedagogisti minori. Il primo è considerato il «principe» fra i cultori del positivismo in Italia. Viene definito come un «pensatore robusto e profondo, ma non originale»250 che ricalca fondamentalmente le posizioni di Spencer, e dunque tutti i suoi errori. La riduzione spencieriana dell’uomo ad un animale, mina le basi del pensiero di Angiulli: «Lottando contro la realtà dell’io, che egli ha negato e che s’impone inesorabile al suo pensiero, si vede costretto a ricorrere ad una novità di linguaggio, ad una dicitura attortigliata ed involuta, ad un ritornello di espressioni stereotipate, che spargono una nebulosa caligine sul tutt’insieme della sua dottrina»251. Un altro errore a cui lo conduce la negazione del principio della personalità è la statolatria nel campo dell’istruzione pubblica. Pietro Siciliani è invece accusato di eclettismo e di aver mal combinato istanze inconciliabili, producendo un sistema contradditorio e instabile. In una prelazione risalente al 1882, rammentò il cambio di opinione sul positivismo, prima criticato e poi elogiato252. Del sistema del Siciliani l’A. denunciò l’incapacità di giustificare sui presupposti positivisti l’esistenza della libertà e i fondamenti della morale. Negli Opuscoli lo accusa di trasformismo e scrive che «muta di dosso i panni a tenor della moda»253. Stando ad A., questa «accozzaglia» di principi spuri condanna alla mediocrità la pedagogia del Siciliani: «Egli non si afferma né spiritualista, né materialista, né idealista, né ontologista, né trasformista, né positivista, e lascia capire che vuol essere qualche cosa di più e di meglio di tutto ciò; ma non ci presenta un principio superiore a tutti questi sistemi, che impronti il suo pensiero e lo determini per quello che è»254. Si occupò anche di altri autori come Emanuele Latino, Aristide Gabelli, Edoardo Fusco in cui rileva sostanzialmente gli stessi errori di Siciliani e dell’Angiulli. Saluta invece con soddisfazione il ritorno allo spiritualismo di Ausonio Franchi, al secolo Cristiano 250 169. 251 174. 252 Nel saggio cita direttamente le parole di Siciliani e poi le commenta: «“Troppo scettici, noi Italiani abbiamo bisogno di fede: troppo anneghittiti dal positivismo, abbiamo bisogno di sacro entusiasmo nella scienza, nell’onestà, nell’onore, nei principii di giustizia, nell’attività del lavoro, nell’autorità creata da noi stessi, nell’Italia. Possiamo dunque accettare il Positivismo? No. Inteso come sistema, il Positivismo è dottrina assolutamente negattiva, non ha storia, non ha principii; è contrario allo spirito filosofico di nostra età, è dannevole nelle sue applicazioni morali, estetiche, politiche, religiose, storiche. Nol possiamo accettare come sistema, perché contrario alla nostra istoria, alla mente dei nostri padri, all’indole nostra, al nostro genio, alle nostre tendenze, contrario ai nostri bisogni fisici e intellettuali [in nota: P. Siciliani, Critica del positivismo]”. Chi pubblicava or non è molto queste righe contro il sistema positivistico, è quegli stesso, che oggi ha inalberato il vessillo del positivismo dlla sua cattedra di pedagogia in una celebratissima Università italiana, mutando dottrine con quella leggerezza medesima, con cui altri muta di dosso i panni a tenor della moda» G. A., L’educazione e la scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18 novembre 1881, Torino, Marino, 1882, pp. 14-15. 253 G. A., Opuscoli pedagogici, 122. 254 G. A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, 177.  71  Bonavino, di cui esalta le Lezioni di pedagogia che viene indicato come un testo fondamentale per la pedagogia spiritualista. Le considerazioni dell’A. restarono severe. Valuto le teorie positiviste «disumane e liberticide»255. Inoltre avversò una certa indifferenza degli epigoni di Comte che sembravano sordi agli appunti delle altre correnti pedagogiche. In più d’una occasione A. lamentò la loro indifferenza alle critiche, oltre alla poca onestà intellettuale256 Come già accennato, i suoi studi si concentrarono soprattutto sui fondatori del positivismo europeo: Comte, Spencer, e Bain. Le sue numerose opere dedicate a questa corrente, rappresentano una prima sistematica reazione dello spiritualismo italiano al positivismo europeo. Il lavoro più preciso e sistematico su tale corrente è Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico (1883), definito dalla «Civiltà Cattolica» come una «splendida e serrata critica di questo sistema»257. Nella prelazione tenuta per l’anno accademico 1881-1882, A. annunciò che durante il corso sarebbe sceso «nell’arringo a combattere il positivismo riguardandolo siccome una larva ingannevole della scienza, siccome un pericolo esiziale della pedagogica»258. Nel solco di quelle lezioni pubblicò poi il lavoro. L’opera si divide in due parti principali: nella prima tratta delle origini del positivismo e ne mette in discussione i fondamenti filosofici, nella seconda critica le conseguenze pedagogiche ed educative. A. identifica come causa prima del positivismo, la stessa dell’idealismo, vale a dire la crisi della metafisica avvenuta con la modernità, che Kant sancì nella Critica della ragion pura, sostenendo la sostanziale inconoscibilità del non sperimentalmente. Il metodo scientifico si dogmatizzò, pretendendo di estromettere dalla conoscenza e dalla vita privata e pubblica tutto ciò che non è misurabile. Il positivismo si configurò come una nuova prospettiva epistemologica, metodologica e antropologica, fondata sulla negazione di tutte le conoscenze non verificabili sperimentalmente. In questo senso, si oppone a qualsiasi 255 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, I. 256 Nel saggio su La scuola educativa, A. riporta una critica fattagli da Fornelli che nel testo La pedagogia e l’insegnamento classico, accusò il professore vercellese di aver travisato le posizioni di Comte. Dopo essersi difeso, critica anche una evidente storture delle sue posizioni, avendolo assimilato all’idealismo: «Ma il più grosso abbaglio del mio critico è questo: io non sono punto quell’idealista, che egli s’immagina mostrando di non aver letti i miei lavori filosofici, o di averne frainteso il significato malgrado la loro conveniente chiarezza. Mi additi un solo passo, da cui risulti che io ripongo le origini prime del pensiero in concetti astrattissimi, anteriori e superiori ad ogni realtà concreta e sussistente, ed io mi do’ per vinto» G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 218. 257 Linee di pedagogia moderna, «La Civiltà Cattolica», quaderno 1565, 1915, vol. III, p. 542. 258 G. A., L’educazione e la scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18 novembre 1881, 15.  72  considerazione metafisica, di cui è «la sua negazione assoluta ed esclusiva»259. In questo rifiuto consiste, per il pedagogista vercellese, anche «il carattere direi negativo del positivismo»260. Va tenuto conto, che A. riconosce l’apporto positivo delle scienze sperimentali e della metodologia scientifica. Senza alcun timore verso gli esiti della ricerca empirica, il pedagogista attribuisce alla scienza (non al positivismo) il merito di aver accresciuto notevolmente la conoscenza del mondo e il benessere materiale. Tuttavia, A. individua proprio nell’euforia per gli esiti della tecnologia la presunzione di certo positivismo. Galvanizzata dalle scoperte scientifiche: «esaltò l’esperienza sensibile siccome l’unica e suprema ed assoluta fonte di tutto lo scibile umano, rigettò tra le illusioni tutto ciò, che trascende i suoi confini, assegnò unico oggetto della scienza i fenomeni disgiunti dalle sostanze e respinse la ragione siccome facoltà trascendente che contempla la sostanzialità delle cose»261. A. ricorda come il metodo sperimentale non possa racchiudere tutto il campo dello scibile, pena l’esclusione di ambiti conoscitivi fondamentali per la vita umana. Rivolgendosi ai positivisti A. scrive: «No, la mente umana non può fermarsi ai confini dell’esperienza, come alle colonne di Ercole: i grandi problemi dell’esistenza, soffocati dalla vostra dottrina, risorgono davanti alla ragione e le si impongono irremovibili. Voi non riuscirete mai a cancellare dalla coscienza del genere umano questo indestruttibile sentimento, che noi non siamo sfuggevoli fenomeni, quasi ombre erranti alla ventura nel deserto, bensì persone vive, forniti di una ragione che trascende la cerchia dell’esperienza sensibile e si innalza alle supreme idealità della vita. Gli ingegnosi apparecchi meccanici, di cui avete forniti i vostri laboratori di psicologia sperimentale, potranno procacciarsi nuove ed interessanti notizie intorno la vita sensitiva dell’uomo esteriore, ma non ci sapranno dir nulla intorno i misteri dell’anima, il secreto lavorio della sua vita intima, le sue sublimi aspirazioni»262. La scienza esatta e sperimentale non può esaurire tutto il campo della conoscenza dell’uomo. Inoltre, secondo A., l’esautorazione della metafisica dal campo dello scibile danneggia la stessa scienza. Essa, infatti, nasce da domande metafisiche, si nutre di concetti e di una logica che non può essere rinvenuta nella esperienza materiale, ma solo in quella spirituale. L’antimetafisica getta il positivismo in un paradosso: lo scientismo, 259 G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 13. 260 10. 261 G. A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, 14. 262 14-15.  73  infatti, nega le premesse della scienza. Con l’affermazione «non esistono che fatti» si esprime un giudizio generale e veritativo sul mondo, portando avanti un discorso propriamente metafisico. Scrive A.: «Dicono infine che, seguendo la dottrina evoluzionistica, le teorie non sono più campate in aria quali sono foggiate dall’apriorismo, ma riescono l’interpretazione oggettiva dei fatti. Sta bene: i fatti vanno adunque interpretati; ma con quale criterio? Certamente con qualche concetto o principio ideale, superiore ai fatti stessi, perché questi per sé sono lettera morta, bisognevole dello spirito, che la vivifichi e la illustri. Eccon quindi chiarita l’insufficienza dell’esperienza alla formazione della psicologia e della pedagogia»263. Il positivismo si autodefinisce teoria delle scienze positive, ma secondo A., la costruzione di un sistema filosofico accede già ad una dimensione della riflessione che travalica i confini dell’esperienza empirica. Si tratta di una «astrazione» che si serve della logica, del giudizio, dell’argomento. In questo senso, se i positivisti volessero essere coerenti con le loro posizioni, dovrebbero «liberarsi da concetti «metafisici» come quelli di causalità, identità, o di non contraddizione. In questo senso, per il pedagogista vercellese, l’assoluta antimetafisica del positivismo, si traduce in un suicidio della scienza stessa: «Dacchè dunque l’antropologia studia l’uomo pensante, il quale sovrasta alla materia e possiede in sé i principi ideali necessarii alla costruzione del sapere, consegue che essa è lo spirito informatore delle discipline positive e naturali, e che il naturalismo, che la impugna, distrugge le stesse scienze della natura e contraddicendo a se medesimo fa della metafisica col proclamare che la materia è l’essenza universale di tutto, che è infinita, eterna, mentre tutto questo trascende i limiti dell’esperienza e dell’osservazione sensibile»264. A. giudica la posizione gnoseologica dei positivisti fondamentalmente scettica, in quanto le loro premesse conducono all’inevitabile dissoluzione della conoscenza: «Una critica priva di principii universali ed assoluti, che la rischiarino, è una critica, che pretende di essere fine a se stessa, anziché mezzo potente per giungere al Vero, ossia è criticismo scettico. Il positivismo contemporaneo ha menato un gran guasto nel campo della critica odierna, la quale è insorta a dissolvere e disfare quelle medesime verità universali, che è tenuta a rispettare siccome fondamento della sua esistenza»265. A proposito di tali nefande conseguenze, A. ebbe modo di criticare il Romagnosi, che vicino a posizioni simili 263 G. A., Gli evoluzionisti e il metodo in pedagogia, «Rivista Pedagogica Italiana», Asti, 1897, vol. I, pp. 305-306. 264 G. A., L’uomo e la natura, 17. 265 G. A., Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, 9.  74  sosteneva che è sano solo colui che la pensa come la maggior parte dei suoi concittadini, non avendo più un riferimento metafisico su cui fondare la validità delle posizioni266. Inoltre il materialismo non può che portare ad una confusione nella scienza, in quanto se la conoscenza è un prodotto necessario dell’esperienza personale, e nasce da questa in modo spontaneo e incontrollabile, perde di significato la valutazione delle teorie che non sono né vere né false, ma unicamente frutto della determinazione. Scrive a proposito: «Ora se il pensiero è sempre di necessità quale lo forma l’esperienza, ossia quale lo esige la condizione fisiologica, in cui versiamo, allora cessa ogni distinzione tra un vero ed un falso pensiero, e così il pensiero a priori, o sarà vero anch’esso, oppure dovrebbe negarsene l’esistenza, siccome di un fatto impossibile, mentre l’evoluzionista lo piglia ad oggetto della sua critica»267. Invece l’esistenza della scienza conferma la presenza di una natura non materiale nell’uomo, solo la persona ha coscienza del mondo e cerca la verità. Un altro nodo insolubile per il positivismo è l’esistenza della libertà. La scienza esatta, come ha insegnato Kant, non può attestare la sua esistenza, e il materialismo e determinismo di certi positivisti la negano. Se l’uomo non è più libero, si chiede A., come lo potrà essere la scienza? Inoltre ad A. pare pretestuoso l’uso della scienza contro la metafisica e la religione. Le scienze naturali «anziché escludere di loro natura la metafisica, rinvengono in questa sola la loro suprema ragione, sì che non lasciano più luogo alla filosofia positiva. Infatti, un fisico, un chimico, un astronomo, può ammettere i pronunciati del teismo e dello spiritualismo, senza punto rinunciare ad un solo dei teoremi della propria scienza (valga l’esempio di Newton, del Galilei, del Padre Secchi, del Pasteur)»268. Un'altra «vittima» del positivismo è l’antropologia, che da tale corrente viene snaturata. La negazione della metafisica ha notevoli ripercussioni sulla scienza dell’uomo, poiché getta nell’indecifrabile la sua essenza personale. Il positivista non può conoscere la vera essenza dell’uomo, in quanto la persona non può essere raggiunta e compresa nell’esprit del finesse. Scrive A. «Colla loro antropometria non giungeranno mai a misurare le profondità dell’anima, a scandagliare gli immensi problemi, che si agitano nelle intimità dello spirito umano»269. La persona non è rilevabile nell’esperienza come se fosse un fenomeno fisico, è riscontrabile solo nella riflessione oltre il sensibile. Occorre, stando ad A., sollevarsi dal fatto, per constatare l’Io: «Il positivista vuol fatti, nient’altro che fatti, né vuol saperne di esseri individui, di sostanze permanenti. Ma il factum (e chi nol 266 G. A., Studi psicofisiologici, 29. 267 G. A., Gli evoluzionisti e il metodo in pedagogia, 304-305. 268 G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 16. 269 G. A., Lo spirito e la materia nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo, 6.  75  sa?) è un sostantivo verbale derivante dal verbo facere, è un participio che presuppone l’ego facio, tu facis, ille facit: importa l’essere, che fa, il soggetto operante, e rompe in una contraddizione il positivista separando l’un termine dall’altro»270. Ma tale agnosticismo si trasformò presto in una negazione. Infatti, per i positivisti, «L’uomo non è una sintesi vivente di due sostanze, spirito e corpo essenzialmente distinte, eppur composte ad unità di persona, bensì un complesso di fenomeni fisiologici e psicologici, diversi di grado soltanto, ma non di essenza da quelli animali»271. Osserva nei già citati Opuscoli pedagogici: «Negli intimi recessi dell’anima, dove non penetra coltello di anatomico, dove non giunge lente microscopica di fisiologo e naturalista, si nascondono secreti che accennano all’Infinito, si destano aspirazioni, che vengono dall’alto e nell’alto ritornano. Quei secreti, quelle aspirazioni il positivista riguarda quali vani fantasmi, e lo spirito umano quale un fantasma multiforme errante fuori del mondo della realtà. Duri tempi per questi tempi»272. Così la prospettiva epistemologica dei positivisti mette in discussione la scienza dell’uomo e sfigura la persona. Osserva A.: «il sistema antropologico dei materialisti non è la scienza nuova, che cerchiamo, ma la negazione della scienza»273. La loro antropologia risulta dunque un grande «equivoco»274. Per questo chi approccia l’antropologia positivistica è «trascinato entro una selva intricata di osservazioni senza un’idea suprema dominante, che lo sorregga e le dia unità, anima e vita a quel tritume di particolari»275. Il miglior esponente di questa prospettiva è Spencer che enuclea tali concetti nel Primi Prinicipii, così commentati dall’A.: «Per quantunque la credenza nella realtà dello spirito individuale sia inevitabile, e benché sia riaffermata non solo dall’unanime consenso del genere umano, ed adottata da tanti filosofi, ma ben anco dal suicidio dell’argomento scettico, pur tuttavia non può venire per nulla giustificata dalla ragione: havvi ancora di più; allorquando la ragione è messa alle strette di pronunciare un giudizio formale, essa condanna tale credenza... di guisa che la personalità di ciascuno ha coscienza, e la cui esistenza è da tutti avuta per un fatto certissimo sopra ogni altro, è tal cosa che non può in veruna guisa essere conosciuta; la conoscenza della personalità è vietata dalla natura medesima del pensiero»276. 270 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, 87. 271 G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 243. 272 G. A., Studi pedagogici, 13. 273 G. A., Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, 13. 274 12. 275 G. A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, 58. 276 G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 315.  76  Il filosofo britannico non può che giungere ad un riduzionismo antropologico. Scrive ancora A.: «Lo Spencer fa sua (né vi ha di che stupirne) l’osservazione di uno scrittore, che cioè a riuscire nella vita occorre primamente essere un buon animale»277. Tale prospettiva è inaccettabile per l’A., secondo cui l’uomo è strutturalmente differente dal resto della natura: «L’umano soggetto, insino dal primissimo istante della sua mortale esistenza, è non solo di grado, ma di specie differente dal bruto, perché la mente, ossia l’anima razionale, che lo costituisce uomo, ei la possiede per natura, e non l’acquista punto col tempo, non la vede allo sviluppo progressivo dell’organismo corporeo. Questo giustissimo concetto pitagorico, che tanto bene risponde al sentimento naturale della dignità umana, sta diametralmente opposto alla moderna dottrina del positivismo evoluzionistico, il quale sentenzia che nel neonato l’animalità si viene a poco a poco trasformando in unità in virtù delle leggi fisiologiche dell’organismo animale, il quale, mentre nella prima infanzia della vita si manifesta mercé le sole funzioni inferiori del senso fisico e del cieco istinto, proseguendo nel suo sviluppamento, acquista la virtù di esercitare esso stesso la facoltà superiore dell’intendere, del ragionare e del volere, sicché la mente, lo spirito, l’anima razionale, che tanto ci sublima e ci differenzia dal bruto, non sarebbe già una sostanza diversa dall’organismo corporeo, bensì rimarrebbe pur sempre in fondo l’animalità stessa che funziona sott’altra forma più elevata»278. L’uomo è ontologicamente differente rispetto al resto della natura. Il positivismo al contrario «afferma che l’io umano non è un’energia vivente, un’attività libera e conscia della sua personalità sostanziale, bensì un mero complesso di fenomeni che non appartengono a nessuno»279. Queste posizioni antropologiche, denuncia A., portano ad inevitabili corollari pedagogici: «ai giorni nostri e nella nostra Italia in fatto di pubblica educazione si trascorre agli estremi, sicché questa gran legge dell’armonia rimane offesa. All’educazione fisica si attribuisce una importanza esorbitante, e assai più di quanto le convenga ed in suo servizio si lavora in tutti i rami ed in tutte le guise, mentre la formazione del carattere che è di tutta l’umana educazione la parte più nobile e più prestante, giace pressoché dimenticata e negletta. Lo Spencer esaltando sopra misura la cultura dell’organismo corporeo ha asserito che l’uomo debb’essere anzi tutto e soprattutto un buon animale, ma ha dimenticato che si può essere un buon animale ed un pessimo soggetto ad un tempo»280. 277 322. 278 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, 28-29. 279 G. A., Opuscoli pedagogici, 5-6. 280 G. A., Principi fondamentali di Scienza Pedagogica, 680.  77  Invece la persona è quella briciola dell’Universo che appartiene a se stessa, e a ciò deve essere educata. La persona sente, capisce e vuole. La riduzione dell’uomo ad animale compromette la morale, e cioè l’immanenza dei criteri di bene e di male e la responsabilità personale. A. individua le conclusioni di queste premesse nell’opera di Spencer, il quale negando la libertà, «nella sua psicologia riguarda la volontà quale una evoluzione dell’istinto fisico ed assoggetta perciò l’opera umana ad un fatale e necessario determinismo, in cui i fenomeni psichici si succedono gli uni agli altri con un intreccio indissolubile. Torna quindi inutile, anzi contrario a ragione, il pronunciare, che siamo moralmente tenuti a compiere le azioni per noi vantaggiose ed astenerci dalle dannose se esse non dipendono dal nostro libero volere, ma sono per insuperabile necessità predeterminate le une alle altre»281. Si tratta di una posizione con nefandi corollari morali e pedagogiche. «Rigettando la libertà – infatti - viene per ciò stesso a mancare ogni ragione di responsabilità morale, in quella guisa che, rovesciato un principio, cadono tutte le conseguenze sue»282. Si tratta di una corollario spesso negato dai positivisti. A. ben evidenzia questa contraddizione e osserva «parlano della necessità imperiosa di formare il carattere dell’alunno, di promuovere lo sviluppo spontaneo della sua attività mentale, di educarlo alla libertà di pensiero; ma in tal caso la logica li costringe ad accogliere il concetto filosofico dell’uomo, da cui discendono tutte queste conseguenze pedagogiche, e rigettare il concetto antropologico positivistico da cui fioriscono conseguenze pedagogiche diametralmente opposte»283. Si tratta di un’aporia che emerge con chiarezza nella «retorica» sull’autodidattica284. Privato della libertà e del fine, l’uomo si rifugia nell’accidia: «Vivere adunque alla giornata secondochè porta il caso fino a che venga l’unus interitus hominum et iumentorum, ecco l’unica morale a cui possa logicamente far luogo il positivismo»285. A. critica ancora lo Spencer quando nella sua Educazione morale, intellettuale e fisica riduce la morale a «conservazione propria diretta», una considerazione che se è 281 G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 309. 282 109. 283 G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 5. 284 Scrive sull’argomento: «I propugnatori della nuova scuola positivistica vanno proclamando la somma importanza dell’autodidattica e dell’educazione del carattere, e se ne fanno banditori come di una loro scoperta; ma con ciò non si avvedono, che danno una smentita alla loro dottrina, la quale facendo dell’io umano un mero fenomeno senza sostanza, e rigettando fra le illusioni la libertà dello spirito, toglie di mezzo quella personalità, per cui l’alunno colla sua interiore energia conquista le conoscenze e vi attinge la fermezza incrollabile del volere» G. A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, 13.  285 G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 262. 78  spiegabile col suo darwinismo non è accettabile ai fini di una convivenza e di una prassi educativa. La vita diviene adattamento e sopravvivenza. Senza un fine ultimo non può esistere educazione, ma solo adattamento, e cioè in qualche modo abbruttimento e alienazione. Il positivismo è la negazione della vera educazione e «non ha ragione di usurpare il posto della scienza, così compromette fatalmente le sorti dell’educazione umana»286. In questo senso, non sconsacra solo la fede e la metafisica, ma anche la vita umana, la fiducia, l’amore, la morale, gli ideali. La nuova antropologia dei positivisti ha conseguenze nefaste sull’educazione. Negato il principio della personalità e il valore della libertà, l’educazione è declassata ad adattamento. Il fine della formazione si riduce all’ «allevamento» di un buon animale, il suo unico interesse e scopo dovrà essere quello di collaborare al benessere dell’Umanità. Nella prospettiva positivistica perde di significato quella formazione del carattere, della volontà, e di emancipazione dalle funzioni biologiche, in cui risiede secondo A. lo scopo dell’educazione umana. Anche l’istruzione, come contesta A. al Bain, è ridotta a comunicazione di nozioni, sempre funzionali alla produzione o alle condizioni sociali, e senza nessun riferimento all’educazione, agli ideali, ai valori. Non si bada più alla formazione del carattere, ma alle capacità cognitive, privandole però del fine e della direzione. L’educazione cessa di essere esortazione per divenire condizionamento. Il suo senso nella pedagogia positivistica viene svilito in quanto «manca il pensare grandioso, elevato, che raccoglie una molteplicità svariatissima di idee particolari in una potente ed organica unità; manca quel soffio di idealità, che innalza lo spirito dell’educatore al sentimento del suo arduo e sublime magistero»287. Oltre all’idea di libertà, di morale, e di educazione sono le stesse scienze umane che vengono ribaltate sulla base dei principi antimetafisici, materialisti e naturalisti. A. denuncia che «Le scienze della natura hanno usurpato il posto delle scienze dello spirito: la psicologia, la morale, la filosofia in genere non hanno più una esistenza loro propria e distinta, ma sono trasformate in altrettanti rami delle scienze naturali»288. La pedagogia vede messi in discussioni i suoi principi fondamentali: «Una scienza pedagogica senza verità universali e necessarie, un’educazione senza ideale, ecco le conseguenze, che derivano dal principio, che l’esperienza è la norma unica e suprema della disciplina pedagogica»289. 286 G. A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, 183. 287 G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 27. 288 G. A., Lo spirito e la materia nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo, 4. 289 G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 8.  79  Il primo dato necessario alla pedagogia che il positivismo confonde è la natura non materiale della persona: «La nuova scuola, mentre proclama di non voler accogliere nella cerchia della scienza altro che fatti, inconseguente a se medesima rinnega alcuni fatti di singolarissima importanza. Giacché è un fatto irrepugnabile, che l’educatore e l’alunno, l’uno di fronte all’altro, sentono di essere non già meri fenomeni insieme implicati, bensì due persone vive e reali, che hanno ciascuna affetti, intendimenti e voleri suoi propri, ed affermano la loro individualità col vocabolo io; sentono di essere attività libere, consapevoli di sé, arbitre del proprio operare. Ora la nuova scuola proclama illusorii questi due solennissimi fatti, che sono il fondamento primo dell’opera educativa». L’antimetafisica mette in discussione un altro elemento necessario per la pedagogia, vale a dire l’evidenza che «L’uomo è un soggetto educabile. Questo concetto semplicissimo ed elementare trascende la sfera dell’esperienza»290, e non può dunque essere incastonato nell’architettura positivista. La persona inoltre ha bisogno di un ideale, di un fine a cui piegare la sua esistenza. «Senza ideale non si vive da uomo, non si vive personalmente; e l’ideale vero non ci viene da una scuola, la quale insegni che la vita umana si risolve tutta quanta in un gabinetto di fisiologia, non ci viene dalla nuda esperienza. Essa mi dirà quello che io sono di fatto, o integro o corrotto che io mi sia; l’ideale invece mi rivela quello che io debbo essere; quello dell’esperienza è l’ideale del momento che passa, del punto che scompare; il vero ideale abbraccia l’universalità del tempo e dello spazio»291. In un altro saggio osserva: «L’esperienza mi dice quello, che è di fatto, non quel che debb’essere; mi apprende cioè che l’uomo viene realmente educato, ma non già che lo debba essere; è dessa la ragione, che muovendo dal concetto della persona umana ne argomenta che l’educazione le è necessaria ed essenziale. Così la sola esperienza non vale a somministrarci la verità universale e necessaria dell’educabilità»292 L’educazione ha bisogno di un ideale. Questo brano sintetizza chiaramente i concetti suaccennati: «Che se il soggetto educando de’ positivisti, conscia ed arbitra di sé e cagione efficiente degli atti suoi, è niente più che una mera successione de’ fenomeni, i quali non appartengono a nessuno, ognun vede, 1° che voi farete del vostro alunno non già una libera individualità, che pensi da sé e si regga per virtù interiore, bensì un meccanismo di fenomeni insieme raccostati dalla forza dell’abitudine; 2° che la santità del dovere è sfatata e l’educazione morale torna impossibile, perché i fenomeni passano senza lasciar traccia di sé, e le nostre risoluzioni 290 6. 291 G. A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, 15.  292 G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 6. 80  volontarie sarebbero una risultante di fenomeni ossia di forze meccaniche cooperanti; 3° che anch’essa l’educazione religiosa non ha più ragione di essere, perché il positivismo è la negazione della metafisica, come scienza dell’Essere assoluto, e la negazione della religione, come amore intelligente ed operoso dell’Essere divino»293. La pedagogia positivista viene inoltre criticata in quanto si fregia di aver portato fondamentali novità per la pratica educativa. A. chiarisce che: «I positivisti s’immaginano di avere dato alla scienza dell’uomo e della sua educazione un impulso affatto nuovo e potente, di averle impresso il suo vero indirizzo, di averla ricostruita sulle sue giuste fondamenta come se tutti i grandi pensatori, che meditarono prima di essi intorno a queste due discipline, avessero brancolato alla cieca; e tutta la riforma, della quale vanno altieri, sta nell’aver circoscritto tutto il compito dell’antropologia e della pedagogia allo studio de’ fatti umani ed alla ricerca delle loro leggi, indipendentemente da ogni considerazione relativa alla sostanzialità del me, in cui essi fatti hanno il loro comune principio, il loro punto centrale ed armonizzatore»294. Ne La nuova scuola pedagogica analizza le novità che i positivisti si prendono il merito di aver apportato alla pedagogia: metodo intuitivo, autodidattica e adattamento. A. fa notare come siano tutte intuizioni e nozioni assai note prima della nascita del positivismo e prima ancora della comparsa della pedagogia. Per quanto riguarda le scienze umane, A. contesta la trasformazione positivistica della psicologia in una branca della fisiologia. Tale critica è legata alla battaglia per la difesa della personalità umana e della sua libertà. Ciò che A. intendeva difendere era l’idea che i fatti psicologici non fossero solo fisici, ma fondamentalmente spirituali. Il mentale non può essere trattato come il biologico, per cui l’oggetto della psicologia deve essere l’io sostanziale e non la sua espressione fisiologica o fenomenica. Per tale motivo la psicologia deve seguire, a detta di A., un metodo filosofico e non scientifico, con cui invece si può indagare l’uomo da un punto di vista anatomico o fisiologico. Così per l’A. «la psicologia è quella parte di filosofia, che ha per oggetto l’anima umana studiata ne’ suoi fenomeni e nel suo essere sostanziale mediante la coscienza perfezionata dalla riflessione al ragionamento»295. Tale concezione deve essere contestualizzata in un periodo in cui la scienza italiana era parecchio lontana dagli approcci e dai risultati dei laboratori psicologici svizzeri, tedeschi e francesi. Questa difesa del collocamento della psicologia nella filosofia da quanti la volevano ridotta a pura fisiologia, nacque dalla paura 293 G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 409. 294 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, 87. 295 G. A., Appunti di Antropologia e Psicologia, 24.  81  che tale prospettiva avallasse la riduzione dell’essere umano a un mero meccanismo biologico. Occorre inoltre far notare che A. tenne in grande considerazione le scienze sperimentali, anche se denunciò l’alto rischio dello scadimento della scienza in scientismo. Osserva «Non vi è amatore del vero sapere, che non riconosca e non ammiri i grandi progressi fatti dalle scienze naturali, e lo splendido avvenire, a cui sono chiamate, proseguendo per la retta via dell’osservazione sincera e compiuta dei fatti fisici, fecondata da una lenta e prudente induzione verificata mediante la prova e riprova di ben condotto esperimento. Questo successo e sicuro progredire del pensiero nella scoperta delle leggi e delle forze della natura avvantaggia le sorti dell’umanità e conferisce potentemente alla civiltà ed al perfezionamento sociale, essendochè l’uomo la fa sua rivolgendola al compimento del suo ideale. Se non che mentre per una parte il progresso delle scienze naturali conforta l’animo di liete speranze, per l’altra si nota con rincrescimento la tendenza di alcuni illustri ingegneri contemporanei a trascendere i confini proprii di esse scienze e riguardarle siccome la vera e sola scienza, a cui tutte le altre vanno sacrificate, come se in esse sole fosse incarnato lo spirito scientifico»296. Appare dunque poco fondato l’appunto mosso dalla Bertoni Jovine all’A., che criticò al vercellese una presunta ostilità nei confronti della scienza e del suo valore educativo. Secondo la studiosa emiliana, per A.: «Tutte le scienze che si valgano di questo metodo e che inducono l’educando all’osservazione spregiudicata dei fatti storici e naturali sono dunque scienze diseducative o quanto meno non-educative, se per “educative” s’intendono soltanto le suggestioni che rafforzano la fede»297. In un lavoro successivo provò a giustificare la supposta contrarietà all’insegnamento della scienza, con l’esigenza di difendere il «dogmatismo» in funzione dell’ostruzionismo al progresso sociale e civile298. 296 G. A., L’uomo e la natura, 12-13. 297 D. Bertoni Jovine, Storia della scuola popolare in Italia, Torino, Einaudi, 1954, p. 387. 298 «Ad ogni modo, pur attraverso una prosa gonfia e nello stesso tempo reticente, è opportuno districare il filo delle argomentazioni del pedagogista torinese. Il punto sostanziale della sua polemica è la critica del valore educativo della scienza. La scuola moderna si fa un feticcio della scienza sottovalutando altri elementi formativi dello spirito umano. Ma di quale scienza parla A.? Lo chiarirà in una nota inviata alla Reale Accademia di Scienze di Torino. Si tratta soprattutto si quel complesso di problemi e di studi che si raggruppa sotto il nome di “sociologia” e che interessa tutti i problemi della vita moderna, compresi quelli educativi. Egli non avrebbe probabilmente trovato tanto rivoluzionarie le teorie del positivismo, dello scientificismo, dello storicismo, se tutte insieme queste nuove teorie non avessero giusitificata l’esigenza di dare un nuovo sviluppo e un nuovo orientamento alla scuola; se in altri settori della vita pubblica quell’esigenza non si fosse collegata con necessità fatte sull’analfabetismo non avessero messo l’accento sull’influsso che una struttura economica arretrata aveva sulla scarsa efficienza della scuola. In questo legame l’A. trova il punto più pericoloso delle nuove dottrine pedagogiche che segnavano il tramonto di quello spiritualismo al quale egli si richiamava con nostalgia. Ad esse attribuisce il fallimento scolastico italiano, richiamando gli educatori ad una maggiore prudenza nell’accettare quel metodo positivistico che  82  Nel testo Studi Psico fisiologici (1896) riprese diverse scoperte fatte in ambito sperimentale e ne valorizzò i meriti e la valenza pedagogica. In più d’una occasione dovette difenderne l’importanza per la pedagogia da quanti, come gli idealisti, ne contestavano il senso e l’utilità299. Tale avvicinamento alla psicologia sperimentale gli costò la critica dell’idealista Santamaria Formiggini che avversando l’ilemorifismo dell’A. vide nell’apertura alla psicologia sperimentale un tradimento della realtà spirituale:300 D’altra parte pare chiaramente inesatto il giudizio di Vidari che fa dell’A. un osteggiatore della psicologia, sostenendo che il principio della personalità è «anti-sperimentalista» e «anti – sociologico»301. Invece l’armonia tra il materiale e lo spirituale, il loro “accordo”, era proprio ciò a cui A. puntava. Le due discipline, psicologia e fisiologia, non dovevano essere confuse ma ben distinte nel comune studio sull’uomo. Scrive a proposito: «La psicologia si trova in intimo contatto colla fisiologia, ma ciascuna di queste due scienze va distinta dall’altra, perché la prima ha per oggetto suo proprio la mente co’ suoi fenomeni psichici, la seconda l’organismo corporeo colle sue funzioni vitali; e tuttavia sono unite insieme da quel medesimo vincolo, che congiunge nell’uomo l’anima razionale ed il corpo organico, e così unite costituiscono l’antropologia»302. A causa di ciò A. non può essere considerato come un nemico della psicologia sperimentale, ma contro quella che esclude la «natura personale» nell’uomo. La critica del positivismo e del materialismo è connessa a quella sull’evoluzionismo. A. fa notare come il darwinismo non sia una necessaria conseguenza del positivismo, ciò è confermato dal fatto che non fosse condivisa da autori come Auguste Comte o Stuart Mill. Nella Nuova scuola pedagogica (1905) A. osserva: «La nuova scuola pedagogica annovera nel suo seno alcuni seguaci dell’evoluzionismo darviniano, i quali accusano la distruggerà il metodo dogmatico [in nota: G. A., L’indirizzo storico e sociologico della pedagogia contemporanea, Torino, 1908]. Tutte le scienze che si valgono di questo metodo e che inducono il fanciullo all’osservazione spregiudicata dei fatti storici e naturali sono dunque scienze diseducative o quanto meno non-educative, se per “educative” s’intendono soltanto le suggestioni che rafforzano la fede» D. Bertoni Jovine, Storia dell’educazione popolare in Italia, Bari, Laterza, 1965, pp. 221-223. 299 G. A., Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, 14. 300 «Forse l’A. si lasciò trascinare nella sua vita dal desiderio di porre la sua psicologia in maggiore armonia con le teorie scientifiche sull’emozione che allora si diffondevano in seguito all’indirizzo di studi del Wundt; volle dimostrare la possibilità di coordinare il suo sistema coi risultati della scienza più moderna; ma naturalmente non poté riuscire bene nel suo intento, perché l’eclettismo è il più difficile di tutti i sistemi» E. Santamaria Formiggini, La pedagogia italiana nella seconda metà del secolo XIX, parte I, gli spiritualisti, Roma, A. F. Formiggini, 1920, p. 281. 301 Vidari sostiene che l’A. è contrario alla «psicologia fenomenistica, che è per la Pedagogia rovinosa, negando essa il principio fondamentale della sostanzialità e unità della Persona» G. Vidari, Giuseppe A., 8-9.  302 G. A., Appunti di Antropologia e Psicologia, 26. 83  vecchia pedagogia di posare sopra una psicologia astratta e dualistica, per cui mancava di salde basi scientifiche, adoprava un metodo puramente soggettivo ed astratto e toglieva di mezzo ogni raffronto tra i fenomeni psichici dell’uomo e quelli degli animali. Tutte queste accuse presuppongono che l’evoluzionismo, a cui si appoggiano, sia una verità scientifica rigorosamente dimostrata, ma cadono l’una dopo l’altra, dacché il Darwinismo è una mera ipotesi sostenuta da pochi pensatori, che lo scambiano per un teorema scientifico dimostrato. Anche riguardato come una pura ipotesi bisognevole di conferma, l’evoluzionismo è ben lontano dallo adempiere i difetti ingiustamente attribuiti alla pedagogia filosofica e rinnovare di sana pianta la scienza educativa nelle sue basi, nel suo metodo, nelle sue attinenze sociali»303. In tale testo conferma una considerazione fatta già nel 1874: «L’alterazione della specie sostenuta da Darwin è una mera ipotesi, che va ogni di più perdendo valore e seguaci»304. Di certo la previsione è risultata sbagliata. Tuttavia, il fatto che A. considerasse la teoria dell’evoluzionismo come una probabilità appare giustificabile sulla base delle conoscenze scientifiche e delle prove addotte dal darwinismo alla fine dell’Ottocento. Va peraltro tenuto conto che la critica dell’A. fu abbastanza superficiale e incentrata su questioni filosofiche più che scientifiche (non ne aveva gli strumenti). L’idea che il pedagogista vercellese difendeva era comunque la stessa, l’irriducibilità dell’uomo alla natura. Nel testo L’uomo e la natura (1906) si interroga: «possiamo noi ammettere che la specie umana abbia avuto origine dalla materia universale diffusa nello spazio per via di una lenta e progressiva trasformazione degli organismi viventi? Lo asseriscono i seguaci dell’evoluzionismo materialistico, ma non lo hanno mai dimostrato seriamente né punto, né poco; né dimostrare lo possono perché nemo dat, quod non habet, e la materia bruta primitiva non racchiudeva certamente in sé il germe di quella sublime razionalità, che è il carattere costitutivo della specie umana. Carlo Vogt nelle sue Lezioni sull’uomo si sbraccia a dimostrare, che le diverse razze umane originarono dalle differenti famiglie di scimmie, ma ristrinse tutto il suo esame alla morfologia del cranio umano raffrontato con quello scimmiesco, e non disse verbo delle facoltà mentali proprie dell’umanità: che veramente avrebbe avuto un disperato partito per le mani, se avesse preteso che la mentalità dell’uomo è sbocciata dalla brutalità della scimmia»305 Stando all’A. il positivismo non è perdente solo sul piano teoretico. È la vita a condannare questo sistema. Nell’introduzione degli Studi Pedagogici, A. riprende il 303 G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 12. 304 G. A., Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, 10. 305 G. A., L’uomo e la natura, 10.  84  romanzo di Dickens, Duri tempi per questi tempi, e cita diversi brani al fine di mostrare la confusione a cui porta il positivismo nella vita reale, infatti è inevitabile che venga svilito il compito dell’educatore, svalutata l’immaginazione, sminuito il sentimento e l’amore. Il positivismo soffoca l’esistenza. Anche se A. ricorda che «il cuore è tal forza che più di ogni altra della natura scoppia irresistibile quanto più lungamente e violentemente repressa»306, il positivismo conduce inevitabilmente alla «ruina e lo sfacelo della vita domestica e sociale»307. A. contesta anche le posizioni positivistiche sulla scuola. Critica Comte che impone alle prime classi un quadro orario composto quasi esclusivamente con materie matematico scientifiche, sminuendo quelle umanistiche. Nonostante le critiche A. riconosce alla nuova pedagogia anche dei meriti308. Uno degli apporti importanti del positivismo è stato quello di riavvicinare la scienza pedagogica all’analisi e all’osservazione degli aspetti empirici dell’educazione. Comunque se A. dopo gli anni ’70 risultava preoccupato per l’avanzata del positivismo, alla fine della sua carriera ebbe occasione di esultare per la sua decadenza. A. poteva scrivere che «Il positivismo pedagogico attraversa una grandissima crisi e va via via smarrendosi in mezzo a diversi e contrari indirizzi. La mancanza assoluta di critica, la cieca fidanza si sé, il dogmatismo sostituito al ragionamento ed alla discussione, la noncuranza delle dottrine contrarie, il disprezzo della tradizione, tolgono a questo sistema ogni efficacia scientifica e segnano il suo decadimento»310. 306 G. A., Studi pedagogici,  «Nessuno mai, che abbia fior di senno, rigetterà siccome sciupato, fallito e contrario al vero tutto il lavoro della nuova scuola pedagogica. Anch’essa ha le sue parti buone e commendevoli accanto alle malsane e morbose; ha messo in bella luce alcuni punti, che non erano stati sufficientemente lumeggiati; ha posto in rilievo alcuni fatti educativi mediante un’analisi sottile ed accurata; ha dato un nuovo impulso all’educazione fisica ed alla coltura del pensiero; ma il principio fondamentale, su cui essa posa, è radicalmente sbagliato; epperò tutte le verità, che essa contiene nella sua dottrina, non le può logicamente ammettere, se non a condizione di rigettare il suo principio supremo, mentre la pedagogia filosofica le può accogliere tutte quante, perché rientrano nel principio che le è proprio» G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, «Il positivismo (sarebbe ingiustizia il disconoscerlo) ha recato non poco giovamento agli studi antropologici coll’averli ritirati dalla via dell’incompiuto ed esclusivo metodo trascendentale dell’antica scuola e condotti su quella dell’osservazione e della storia; ma è solenne errore quel suo fermarsi alla nuda osservazione dei fatti e delle loro leggi senza punto assorgere allo studio delle origini, della natura e della destinazione dell’uomo che è causa efficiente e ragione spiegativa di quei medesimi fatti.”309 Osserva ancora: “Certamente dimostrerebbe ingiusto verso la nuova scuola chi le negasse il merito di avere efficacemente contribuito all’incremento della scienza pedagogica; ma dall’altro lato è giuoco – forza riconoscere, che nel corso delle sue indagini ha passato sotto silenzio argomenti e problemi pedagogici di altissimo rilievo» 27.  310 G. A., Opuscoli pedagogici, 6. 85  Concludendo, si può rilevare come A. abbia scovato nelle critiche al positivismo e all’idealismo un errore comune. Entrambe mancano infatti di realismo, e riducono sia il campo dello scibile che quello dell’esistente Il contributo alla storia della pedagogia Gli studi di storia della pedagogia costituiscono una parte cospicua nella produzione di A., che nella sua lunga carriera si è occupato di diversi periodi, che vanno dalla pedagogia antica greca e romana, all’itinerario della riflessione europea tra il XVIII e il XIX secolo, alla storia dello spiritualismo italiano. L’importanza data agli studi storici è inoltre confermata dal fatto che i testi in cui A. espone il “suo” sistema pedagogico e filosofico sono lavori di storia della pedagogia, vale a dire i Saggi filosofici, gli Opuscoli e Il problema metafisico. Tra le opere più importanti vi è il già citato Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico (1883), che non si limita ad una critica sui contenuti ma riprende con precisione lo sviluppo delle teorie pedagogiche di Comte, Spencer, Bain. Sulla stessa corrente, è particolarmente significativo il testo La psicologia di Herbert Spencer: studio espositivo-critico (1898). Al contributo della pedagogia svizzera dedica il libro: Delle dottrine pedagogiche di E. Pestalozzi, A. Necker de Saussure, F. Naville e G. Girard (1884). Un altro testo importante è Delle idee pedagogiche presso i Greci (1887). Nel 1901 pubblicò La pedagogia italiana antica e contemporanea in cui in un capitolo è riportato un testo pubblicato quaranta anni prima: Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866 (1867). Negli Opuscoli pedagogici (1909) presenta saggi su l’Helvetius, Gerdil, Jacotot, Kant, Herbart, Blackie ed altri. Importante anche lo studio sul fondatore della pedagogia moderna, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista (1910) e l’ultima opera che rappresenta il testamento pedagogico dell’A.: Giobbe e Schopenhauer (1912). Un altro importante contributo fu la traduzione e l’introduzione della Levana di Richter, e lo studio su Maine de Biran e la sua dottrina antropologica (1895). 311 Sui punti in comune delle due teorie scrive: «Queste due specie di umanismo filosofico hanno due punti comuni in cui convengono, ai quali corrispondono due punti di discrepanza, in cui esse differiscono. Anzi tutto entrambe concordano nel proclamare l'autonomia illimitata del pensiero umano, che nulla più riconosce oltre di sè: da ciò poi che l'attività del pensiero si spiega e come ragione avente per oggetto il mondo soprasensibile, immutabile ed assoluto delle essenze, e come esperienza la quale coglie il mondo sensibile, mutabile e relativo de' fenomeni, ne viene una ragion soggettiva per cui l'umanismo filosofico si specifica in razionalismo assoluto ed in empirismo universale. Ancora, esse convengono nel proclamare il moto indefinito delle cose e delle idee, mercè il quale l’uomo, disertando il posto segnatogli dalla propria natura, o si faccia identico con Dio, che gli sovrasta, trasumanando, o si confonda colla materia che gli soggiace. disumanandosi; e di qui una ragione oggettiva, per cui l'umanismo differenziasi in antropoteismo ed in naturalismo» G. A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, 9-10.  86  Uno dei periodi più studiati dall’A. fu la pedagogia del XIX secolo. Nel testo Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, (1884), innalza la scuola svizzera come un momento importante per l’intera scienza e storia della pedagogia, una scuola che seppe integrare le spinte della modernità con una prospettiva antropologica spiritualista. Un altro testo molto significativo è il già citato Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866 (1867). Questo saggio ripercorre con precisione lo sviluppo della cultura pedagogica e della legislazione scolastica in Piemonte e in Italia, in un decennio decisivo per la costruzione della scuola italiana. Commentando questo saggio Gerini ha scritto: «La monografia, composta per incarico del Ministro della P.I., è il primo saggio di storia pedagogica scritto in Italia, che sarà sempre consultato da quanti vorranno conoscere il nostro risorgimento educativo»312. Dello stesso avviso anche Arcomano, che commenta: «È una rassegna delle situazioni, delle attività e delle opere del ventennio 1846-1866, in fatto di istruzione ed educazione, e si può considerare un capolavoro di chiarezza nella interpretazione degli avvenimenti e nella presentazione delle idee che circolavano»313, anche se poi rileva come il testo è forse troppo concentrato sulla realtà subalpina. Il testo ebbe vasta eco nel dibattito pedagogico, lo troviamo spesso citato in opere di altri autori314, abbastanza rare sono le critiche315. In questo saggio A. esalta i protagonisti di quella stagione come Vincenzo Troya, Agostino Fecia, Vincenza Garelli, Carlo Boncompagni. Riprende poi tutte le discussioni sulla riforma della scuola, e trova nell’esperienza pedagogica del Piemonte e della Toscana nella metà dell’Ottocento i due laboratori della nuova scuola e della nuova pedagogia. È molto significativo il peso dato dall’A. alla «Società pedagogica» e anche alle riviste del tempo. Questo testo, contribuì a dimostrare come fosse solo un mito l’idea propagandata dai positivisti secondo la quale la pedagogia precedente alla loro non avesse avuto nulla da dire. A. fa risaltare la pedagogia spiritualista risorgimentale e quel clima di liberalismo educativo che sarà tradito e defraudato dalla statolatria e dal positivismo. 312 G. B. Gerini, La mente di Giuseppe A., 44. 313 A. Arcomano, Pedagogia, istruzione ed educazione in Italia (1860-1873), 56. 314 Cfr. C. Uttini, Nuovo compendio di pedagogia e didattica: ad uso delle scuole e delle famiglie, Torino, Libreria scolastica di Grato-Scioldo, 1884, p. XIV. 315 Si vedano per esempio gli appunti negativi di Vidari: «Abbastanza buono per la parte della pedagogia contemporanea è il Saggio dell’A., il quale porta in esso il contributo delle sue proprie memorie e impressioni; ma anche qui il senso della vita storica, cioè della interiore unità onde si collegano nel loro svolgimento le dottrine, è quasi del tutto assente, e invece prevalgono le preoccupazioni personali dell’autore» G. Vidari, Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico, 4.  87  Senza dubbio lo studioso può essere considerato uno tra i primi storici della pedagogia italiana, e non solo per il numero dei lavori pubblicati, ma anche per la teorizzazione dell’ambito disciplinare e delle metodologie di ricerca. A. espone il suo pensiero circa il fine e il metodo della Storia della pedagogia nel breve opuscolo Concetto generale della storia e della pedagogia (1901), anche se accenna a tale questione in diversi altri saggi. Nel lavoro citato, parte dalla considerazione dell’educazione come fatto e concetto comune. La pratica e la teorizzazione educativa sono imprescindibili, e la scienza pedagogica si sviluppò sotto la spinta di voler vedere perfezionata l’arte educativa. In questo senso continua: «La necessità di una scienza pedagogica emerge dal difetto inerente all’inconscia educazione naturale, e quindi dall’insufficienza del suo concetto»316. Egli rivendica uno statuto epistemologico propria alla storia della pedagogia, che distingue tanto dalla pedagogia in sé, che dalla storia dell’educazione. In questa direzione critica Paroz che nella Histoire universelle de la Pédagogie non separa le due discipline317. A. distingue anche la storia dell’educazione in generale, vale a dire i tratti tipici dell’educazione e la sua storia universale, dalla storia dell’educazione di una particolare tradizione o società318. Nei suoi studi richiama l’importanza della precisione storiografica ed uno studio approfondito delle fonti. In particolare rimarca come la storia dell’educazione debba essere: ordinata, veridica, ragionata, compiuta. Chiede di riferirsi sempre a «fonti accurate e sicure»319. Uno degli aspetti innovativi dei lavori dell’A. è il peso dato allo studio del contesto e della personalità dell’autore320. 316 G. A., Concetto generale della storia della pedagogia, 1. 317 «La storia dell’educazione ha per ufficio suo proprio di esporre le diverse forme, che prese l’educazione presso i diversi popoli antichi e moderni; per contro la storia della pedagogia espone le origini e lo sviluppo di questa scienza attraverso le dottrine, i sistemi, le teorie de’ pensatori, che la coltivarono. [...] Per certo queste due specie di storie sono fra di loro congiunte da intime attinenze e si lumeggiano a vicenda, ma la loro distinzione va tenuta in conto per non confondere due ordini di cose affatto diversi, quali sono le idee pedagogiche de’ pensatori e le azioni educative degli istitutori» 3. 318 «La storia dell’educazione, riguardata rispetto alla sua estensione, viene a diversi in universale, particolare e singolare. La storia universale si estende all’educazione di tutti i tempi dai più remoti ai contemporanei, di tutti i popoli e barbari e civili, e antichi e moderni. La particolare comprende un periodo storico generale, quale sarebbe la storia dell’educazione antica, o parte di un periodo storico, come ad esempio la storia dell’educazione dal 1500 a noi. In entrambi i casi abbraccia l’educazione presso tutti i popoli ristretti però ad un tempo determinato. È altresì particolare quella, che espone l’educazione di una nazione considerata o in tutta la durata della sua esistenza (quale l’educazione presso i romani) o in uno de’ suoi periodi storici (quale l’educazione dei romani nel periodo repubblicano). Infine è singolare, se si restringe o ad un dato secolo (come la storia dell’educazione ai tempi della rivoluzione francese), o ad un Istituto educativo, quale l’Istituto pitagorico o l’Istituto educativo di Vittorino da Feltre; ed allora piglia più propriamente nome di monografia storica» 3-4; 319 4. 320 Già in uno dei primi saggi esponeva con chiarezza tale principio: «La critica ha da descrivere la genealogia del genio speculativo; ha da seguirlo in tutto il suo periodo evolutivo ricordando i sentieri e le vie riposte per cui è passato prima di giungere al suo ideale definitivo; ha da studiare il movimento speculativo dell'epoca in mezzo al quale si svolse; ha da sceverare nelle pagine della storia le idee di cui ha elementato il proprio sistema e significare come queste nel proprio sistema s'intrecciarono e vi ricevettero un'impronta peculiare e sistematica. Tale è l'ufficio narrativo della critica. Oltre a tutto questo, apprezzare nel suo giusto  88  Come la storia dell’educazione, anche la storia della pedagogia si può dividere in generale e particolare. Il suo fine non si limita ad una narrazione asettica della riflessione educativa, ma trova il suo senso nella valutazione delle teorie pedagogiche rispetto all’autentica scienza pedagogica. Scrive A.: «Da queste generali considerazioni intorno al come si forma e si va svolgendo la pedagogia emerge da sé il concetto della sua storia, la quale apparisce una ordinata e razionale narrazione dello svolgimento progressivo della scienza pedagogica attraverso i tentativi fatti dai pensatori di tutti i tempi e luoghi a fine di determinare l’ideale tipico dell’umana scienza»321. In particolare, sono significativi alcuni brani presenti negli Studi pedagogici (1889)322 e ne La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti (1905)323, in cui mostra come lo scopo dell’approfondimento storico è strettamente connesso al fine della scienza pedagogica. L’A. sostiene che l’educazione possa essere studiata o nel suo svolgimento pratico o da un punto di vista speculativo. La pratica educativa può essere di tre tipi: quella che normalmente le persone attuano, quella di una determinata società, e la vera arte di educare. Come l’educazione, anche la teoria pedagogica sembra connaturale alla vita umana. Per tale motivo in ogni epoca l’uomo si è fatto un’idea circa il miglior modo di educare. Così, secondo A., esistono tre tipi di teorie pedagogiche: la pedagogia volgare, quella del singolo pensatore, e la scienza pedagogica. Il compito della storia della pedagogia quello di individuare il differenziale tra quanto pensato in passato e la scienza pedagogica. La storia ha così un valore fondamentale della riflessione pedagogica, poiché propone agli studiosi interlocutori di vaglia, anche sé A. ricorda di distinguere la scienza dalla storia324. Il seguente brano ben lumeggia la distanza tra ciò che si è pensato e la scienza: «Fu detto che la storia universale è tutta una congiura contro la verità: nell’ipotesi che stiamo valore il punto iniziale da cui un sistema piglia le mosse, il processo a cui s'informa il suo sviluppamento, il termine finale in cui si è chiuso; pronunziare se nella storia del pensiero speculativo esso segni un periodo di sosta o di progresso; giudicare se il problema filosofico sia stato concepito in tutta la sua integrità e giustezza, e risoluto a dovere; epperò se siano state convenientemente satisfatte le esigenze del pensiero spéculativo senza punto disconoscere i pronunziati universali della sapienza comune, anzi armonizzandoli colle conclusioni della ragion filosofica: ecco l'altro ufficio della critica che discute» G. A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, 18. 321 G. A., Concetto generale della storia della pedagogia, 6. 322 G. A., Studi pedagogici, 28-31. 323 G. A., Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, 7. 324 «I cultori della pedagogia trovano nella storia una saggia maestra, che additando gli errori dei pensatori che li precedettero, da un lato, e dall’altro le verità da essi scoperte e lumeggiate, li consiglia a procedere ammisurati e guardinghi nei loro tentativi, li anima e li sorregge all’amore ed alla conquista del vero, ed allarga l’orizzonte del loro pensiero. Riconoscendo l’utilità e l’importanza della storia della pedagogia, guardiamoci però dall’ingrandirla oltre il convenevole.» G. A., Concetto generale della storia della pedagogia, 8.  89  discutendo, bisognerebbe ripetere, che anch’essa la storia della pedagogia è tutta una congiura contro la scienza pedagogica»325. Nel stesso saggio critica il Siciliani e il suo testo Storia critica delle teorie pedagogiche nel quale sostiene che la scienza pedagogica si fonda sulla esperienza storica dell’educazione326. Se per Siciliani la scienza pedagogica è frutto di evoluzione, per lo spiritualista A. la «vera» scienza pedagogica è una, e ad essa ci si può avvicinare o allontanare. Entra poi in merito a come si fa la storia della pedagogia. Spesso si è costretti a raccogliere le «idee slegate e frammentate» in opere non propriamente pedagogiche, scovando le «teorie particolari intorno a qualche punto di educazione, o sia che esse formino un tutto da sé distinto da ogni altro, o sia che giacciano implicata ed involte in opere di altra natura», ma anche «i trattati che abbracciano un compiuto sistema pedagogico, dove l’educazione è contemplata in tutta l’integrità del suo organismo, quali ce ne porge in copia moderna». Bisogna quindi studiare le opere dell’autore, i frammenti della sua opera presente in altri autori, la tradizione su di lui. «Gli scritti originali di un pedagogista sono essi soli le vere fonti, da cui si attinge limpida e netta la sua dottrina, mentre i frammenti registrati nelle opere di altri scrittori, e la tradizione scritta od orale, anziché fonti, sono rivi più o meno puri». Dai suoi scritti occorre innanzitutto cogliere in concetto centrale di un autore, cercandone poi le cause. Occorre comunque valutare la pedagogia degli autori studiati: «Ma il compito più elevato, più grave e ad un tempo più arduo della critica storica risiede nel cernere nelle esposte dottrine la parte vera dalla erronea, la certa dall’incerta ed opinabile, l’elemento soggettivo, particolare, relativo, dall’oggettivo, universale, assoluto, che solo può passare nel dominio della scienza pedagogica»327. Lo storico dovrà stare attento ad ancorarsi sempre alla scienza pedagogica328. In conclusione sintetizza così il compito dello storico della pedagogia: «Ai quattro uffici propri della storia pedagogica ora accennati fanno natural corrispondenza quattro distinte e successive forme speciali, che essa può rivestire nel suo progressivo sviluppo. La storia della pedagogia rintraccia primamente i materiali, che entrano a comporla, ed in questo suo primo studio riveste la forma di memorie e frammenti. Poi si accinge ad esporre e descrivere le raccolte dottrine, e qui assume la forma di cronaca, alla quale succede la forma di storia propriamente detta, 325 9. 326 10. 327 15. 328 «Lo storico deve scansare due estremi; da un lato la troppa fidanza di sé ed il cieco immobilismo nelle proprie idee, dall’altro l’incostanza e la volubilità del pensiero, a cui potrebbe essere trascinato dallo spettacolo di tanti sistemi diversi e contrari» 16.  90  che corrisponde all’ufficio etiologico od inquisitivo, finché s’innalza alla sua più perfetta forma, quale è la filosofia della storia, che risponde all’ufficio critico e speculativo»329. Il senso della Storia della pedagogia ha appunto lo scopo di rilevare il differenziale presente sia tra i modi che le popolazioni che ci hanno preceduto avevano di educare in confronto con la vera arte di educare, sia il confronto tra le varie teorie pedagogiche e la vera scienza pedagogica. Osserva A.: «Quindi ancora ne consegue, che introno al medesimo oggetto conoscibile (ad esempio intorno l’essenza dell’educazione, od al suo fine, od alle sue leggi) possono darsi e si danno di fatto molte teoriche, e quel che è più le une dalle altri discordi ed avverse, mentre una sola è la scienza e sempre a se stessa concorde, perché una sola è la verità, in quella guisa che nell’ordine geometrico tra due punti dati non può correre che una sola linea retta, mentre di linee curve se ne possono condur chi sa quante». Il senso della Storia della pedagogia è analizzare i sistemi pedagogici confrontandoli con la vera scienza pedagogica. Dunque: «La storia de’ sistemi pedagogici è sostanzialmente la storia de’ tentativi felici od infelici, retti o traviati, fatti dai cultori dell’arte educativa per giungere al Vero siccome fondamento di essa; per lo contrario la storia della scienza pedagogica è la storia della Verità educativa riguardata nel suo progressivo esplicamento»330. Sulla base di questa prospettiva, i numerosi studi di storia della pedagogia di A., sono un dialogo rispetto a determinati principi pedagogici con gli autori trattati, più che un’esposizione oggettiva del loro pensiero. Lo studio della storia della pedagogia secondo A. può condurre a una migliore comprensione dell’educazione e a quei tratti unici e particolari che la caratterizzano. Per tale ragione nelle sue ricerche spesso trova degli spunti per confermare alcune delle sue tesi o muove critiche agli altri sistemi pedagogici, in primis ai già citati positivisti. I testi sono dunque ripetutamente accompagnati da valutazioni personali, commenti, paragoni, e non pochi giudizi sferzanti. Ha scritto puntualmente Vidari «Si comprende da tutto questo come l’A. nei suoi studii di storia delle dottrine antropologiche e pedagogiche fosse guidato e mosso più che dal proposito di comprenderle nel loro processo di formazione, di inquadrarle nel momento storico a cui appartennero, di seguirle nei loro sviluppi, nelle loro irradiazioni e conseguenze, da quello piuttosto di saggiarle e 329 16. 330 G. A., Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, 6.  91  giudicarle in rapporto a quei principi fondamentali di scienza dell’educazione, che egli andò illustrando in tutto il resto della sua produzione filosofica»331. Dalle posizioni prese di fronte al «laboratorio della storia della pedagogia» si precisa ancora meglio il sistema pedagogico di A.. Forse anche per questo la lettura di questi testi aiuta a cogliere il cuore e le preoccupazioni pedagogiche dell’A.. Il tema principale su cui A. si confronta è per la maggior parte legato a prospettive antropologiche e alle loro conseguenze in campo educativo e scolastico. Giustamente Valdarnini osserva: «qual criterio adotta l’A. per giudicare della verità o della falsità delle dottrine di cui è intessuta la storia della Pedagogia? Questo: il sentimento e il concetto della dignità propria della specie umana»332. Da Seneca a Rousseau ciò che l’A. valuta è quale l’idea di uomo essi comunicano e difendono. Ma tale prospettiva ha secondo alcuni studiosi portato a esiti negativi. La Quarello, ad esempio, critica il fatto che certi giudizi storici siano «troppo soggettivi»333 e fa notare che alcune valutazioni dell’A. partono «talora da “presupposti dommatici” più che da dimostrazioni convincenti»334. Tra le altre, critica la scarsa considerazione data al Kant della Critica della ragion pratica. Di un’idea contraria è Vidari quando osserva che «alcune delle osservazioni critiche che l’A. muove alla dottrina morale di Kant, per quanto non nuove, sono giuste e fondate»335. Come già accennato, sempre stando alla Quarello, A. non avrebbe colto il contenuto della filosofia di Hegel, riducendo la portata dello Spirito e dell’Assoluto hegeliano336. Tra gli altri, il principio della libertà d’insegnamento è uno dei criteri con cui valuta le teorie pedagogiche. Nel testo Delle idee pedagogiche presso i greci la questione della libertà d’insegnamento decide della divisione degli autori. A. affronta prima Pitagora e Socrate, che sono considerati i difensori di un’educazione libera, e poi Senofonte, Platone e Aristotele, che considera difensori di una visione spartana e statolatrica dell’educazione. Affrontando tali autori esprime la sua idea di educazione e di libertà. Scrive: «Plutarco non separa la famiglia dallo Stato, né la confonde con esso. Per lui la famiglia non è solo un grado della gerarchia dello Stato, ma un centro, che ha uno sviluppo suo proprio. 331 G. Vidari, Il contributo di A. alla Storia della Pedagogia, «Rivista Pedagogica», n. 10, 1930, p. 689. 332 A. Valdarnini, A.storico della pedagogia, in Vita e mente di Giuseppe A., cit., 1913, p. 56. 333 V. Quarello, G. A., Studio critico, 124. 334 124. 335 G. Vidari, Il contributo di A. alla Storia della Pedagogia, 692. 336 V. Quarello, G. A., Studio critico, 128-129.  92  L’educazione, senza punto dimenticare di preparare il fanciullo a divenire buon cittadino, ha sovra tutto per compito suo di formare in lui l’uomo mercè il culto della famiglia»337. Sugli «avversari» della libertà scrive invece: «Platone aveva confuso la famiglia collo Stato fino ad introdurre il Governo nei penetrali del santuario domestico, e colla famiglia anch’esso l’individuo veniva assorbito nella comanza politica. Aristotele giunse a distinguere la famiglia dallo Stato, ma il suo pensiero su questo grave argomento mostrasi perplesso ed oscuro, tant’è che l’uomo in sua sentenza non è tale, perché persona individua, perché padre o marito, o figlio, ma perché cittadino»338. Un altro brano su Platone mostra la pertinenza tra il concetto di persona e quello della libertà d’insegnamento, e come la perdita del primo faccia necessariamente scivolare nello statalismo: «Il massimo e capitale errore, che falsa la politica e conseguentemente la pedagogia di Platone e scorre e s’inviscera in tutte le parti della sua teoria, questo è di avere sacrificato l’attività personale dell’individuo all’onnipotenza dello Stato, di avere assorbito l’uomo nel cittadino. La dottrina politica di Platone è un esplicito socialismo governativo: l’individuo esiste e vive in servigio esclusivo dello Stato, è niente più che una molla, un ordigno del gran meccanismo sociale, giacché nell’assoluta ed oppressiva unità della comunanza politica si perde ogni libertà personale. Epperò l’educazione riesce essenzialmente ed onninamente politica, mentre dovrebb’essere primamente e sostanzialmente personale: l’umana persona, spogliata della sua dignità finale, viene educata come semplice mezzo e strumento della civil società»339. Concludendo la parentesi greca scrive: «Lo Stato adunque non prevale sull’individuo, bensì gli sottostà come effetto della sua cagione; e quando Aristotele a sostenere la supremazia naturale dello Stato sulla famiglia e sui singoli uomini osserva, che il tutto trionfa sulla parte, perché distrutto quello, anche questa vien meno, possiamo ritorcere il suo argomento contro di lui avvertendo che la parte congregandosi con altre parti, forma essa il tutto, e se quella scompare, anche questo ruina. In una parola non l’individuo è fatto per lo Stato, bensì lo Stato è fatto per tutti e per ciascuno, epperò l’educazione debb’essere umana e personale, prima che politica e civile»340 In alcuni punti le valutazioni dell’A. sono decisamente esagerate. Nel testo su Giobbe e Schopenauer apre una parentesi molto sommaria contro il popolo ebraico341, rasentando il razzismo. In altre occasioni il suo giudizio è palesemente sproporzionato. 337 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, 163. 338 162. 339 131-132. 340 148. 341 G. A., Giobbe e Schopenhauer, 36-37.  93  Come quando nell’introduzione al lavoro su Delle idee pedagogiche presso i greci (1887) osserva «Pitagora e Socrate ci appariscono gloriosi campioni di una pedagogica, che si muove libera di sé, franca da ogni ressura governativa, sorretta da un ideale divino, che consacra la persona, santifica il dovere, suggella l’immortalità della vita personale. Platone ed Aristotele ci si mostrano fautori dello Stato educatore, che disconoscendo ne’ singoli uomini la dignità della persona individua, trae con sé a perdimento tutta la Grecia»342. Anche Santamaria Formiggini contesta all’A. la scarsa precisione su taluni lavori, in particolare fa riferimento agli studi su Rousseau ed Herbart. Inoltre sostiene che l’A. non riuscì a «penetrare oggettivamente nel pensiero degli autori che studia e che critica»343. Però poi ammette che «Come pedagogista egli lascia a grande distanza gli altri per la larga informazione storica, che è uno degli elementi essenziali per la trattazione ponderata ed illuminata delle questioni educative, è condizione per un vero progresso delle teorie. Egli può considerarsi veramente uno dei primi pedagogisti che abbiano indirizzato gli studiosi italiani a mettere in raffronto e in rapporto i loro studi con i risultati del pensiero pedagogico straniero, perché dai confronti scaturisca più viva e più nuova la verità, perché si evitino ripetizioni di teorie discusse e superate»344. Oltre ad imprecisioni, i lavori dell’A. risultano approfonditi e curati. Lo studio su Rousseau criticato dalla Formiggini, è ricco di riferimenti bibliografici ma soprattutto offre una chiave di lettura molto interessante del pensatore ginevrino non temendo di evidenziarne i pregi, ma anche le contraddizioni, le ambiguità e i rischi. Non pensiamo di essere lontani dal vero affermando che nonostante la sterminata bibliografia sull’autore dell’Emilio, il libro di A. risulta ancora oggi ricco di spunti e di considerazioni. Il merito di A. come storico della pedagogia emerge ulteriormente se paragonato ai lavori coevi di storia della pedagogia, dai quali si distanzia per riferimento alle fonti e immedesimazione. Senza dubbio si può affermare che A. può essere considerato uno tra i primi storici della pedagogia italiani. I. 8. La scuola educativa 342 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, II. 343 E. Santamaria Formiggini, La pedagogia italiana nella seconda metà del secolo XIX, parte I, gli spiritualisti, 12.  344 322-323. 94  Nel corso della sua carriera, A. diede ampio spazio alla riflessione sulla scuola, cui attribuiva un ruolo decisivo per il destino delle nazioni345. Se riferimenti e accenni su questioni scolastiche sono disseminati in molti dei suoi libri, in un saggio del 1904, La scuola educativa, è presente una sistematizzazione più articolata e completa delle sue posizioni. Riflettendo sulla funzione di questo istituto, A. racchiude le questioni più importanti del problema in quattro semplici domande: «1° in servizio di chi è ordinata la scuola? 2° a chi spetta il diritto di governarla? 3° in quale giusto rapporto deve serbarsi colla famiglia e colla società? 4° come debb’essere organata l’educazione e l’istruzione nella scuola?»346. A. è convinto che l’autentico e principale scopo della scuola sia lo sviluppo perfettivo della persona nella sua totalità. Caratterizzata da una appassionata ricerca della verità e del bene dell’alunno347, auspicava fosse animata da un vero «culto della personalità dell’alunno»348. Contro il determinismo di certa didattica, sosteneva l’idea di una scuola in cui il rispetto della vera libertà potesse divenire il fine e lo stile della vita educativa349. Su queste prospettive invocò una convergenza dell’istruzione e dell’educazione, che dovevano coabitare e collaborare in vista di uno sviluppo integrale della personale350. La conoscenza e l’educazione, dovevano potenziarsi a vicenda. In questo senso considerava l’istruzione anche come un aspetto necessario per la formazione solida del carattere351. 345 «La casa dunque, il tempio, la scuola sono i tre grandi centri dell’umana coltura, i tre solenni convegni sacri alla comune educazione. La scuola segnatamente apparisce il santuario del sapere, il tirocinio della vita sociale, il vivaio della civiltà; epperò essa racchiude nelle sue modeste pareti le sorti di un popolo e collo splendore o coll’oscuramento del suo ideale segna i giorni di grandezza o di decadenza di una nazione. Dall’importanza massima della scuola agevolmente si misura la necessità di formarcene un concetto adeguato e verace, che risponda al suo intimo organismo ed al suo ideale» G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 68. 346 69. 347 «La scuola è luogo sacro al culto del Vero e del Buono, ciò è dire è il santuario della sapienza, essendochè questa congiunge in sé il lume speculativo della scienza e la pratica onestà della vita. Oggidì il carattere educativo della scuola è misconosciuto. La scienza ha cacciato fuor della scuola la virtù e la divinità. Si è consumato un divorzio tra l’istruzione della mente e l’educazione del cuore. Istruzione in iscuola, educazione in casa. Si aprono ogni dì nuovi edifizi scolastici per piantarvi l’albero della scienza, senza badar più che tanto, se all’ombra dell’albero germogli e si spieghi il fiore delle virtù domestiche, civili e religiose. Quest’eresia pedagogica va ogni di più propagandosi, e minaccia giorni luttuosi alla famiglia ed alla patria. La scuola (ripeto col Tommaseo) se non è tempio, è tana; e quando mai fosse tana, dovrei ripetere col Rousseau: L’uomo che pensa, è animal depravato. Gli è allora che la scuola diventa davvero un semenzaio di socialismo, perché i giovani ne escono poi gonfi di borra enciclopedica, quanto vuoti di ogni principio morale e religioso, e riversandosi nella gran società diffondono la corruzione, che portano in seno, pretensioni, sprezzanti, spostati, scontenti di tutti e di tutto, gittando qua e là il disordine e lo scompiglio» 78. 348 70. 349 «Se l’alunno non è lui il primo educatore di se medesimo, che spiega la personalità sua e la afferma spiegandola, gli altri educatori persona la vera loro ragione di essere, perché non formano più una persona, ma foggiano una macchina» 67. 350 G. A., Studi pedagogici, 65-67. 351 «Lo studio è un dovere, e dall’idea del dovere sorge appunto il carattere» G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 92.  95  Uno degli errori maggiori individuati da A. era quanto chiamava «enciclopedismo», vale a dire la riduzione del ruolo della scuola a veicolo di nozioni da sommare nelle menti degli allievi: «L’enciclopedismo (perché tacerlo?) è il verme roditore delle nostre scuole, il cancro dell’educazione moderna»352. A. auspica che l’accumulo di conoscenze si coniughi con lo sviluppo di uno spirito libero e creativo: «L’enciclopedismo violenta, tortura, conquide, le potenze mentali del giovine: la virtù intellettiva, che concepisce l’ideale, il sentimento, che lo accalora, l’immaginazione, che lo colorisce, giacciono spossate»353. Il pedagogista osservò come la scuola somigliasse sempre più «all’aria morta di una biblioteca»354. Mancava quella spinta ideale che è invece propria dell’educazione. A questa stortura del compito educativo, concorse un traviamento del ruolo dell’insegnante: «Pur troppo si è ormai perduta di vista questa gran verità pedagogica, che il maestro, segnatamente delle scuole elementari e secondarie, debb’essere non solo l’insegnante, ma ben anco l’educatore de’ suoi alunni, interessandosi delle loro persone, vegliando sulle loro sorti, vivendo con essi la vita del cuore, come fa un padre, una madre co’ figli suoi»355. Da queste premesse, era convinto che il “cuore” degli educatori fosse il ganglio vitale della pratica educativa e al contempo il discriminante della sua efficacia356. A. si sofferma a considerare come l’insegnamento sia un’azione propria della persona, ed espressione della sua specificità. Si impara e si insegna con le parole, suoni che uniscono nel significato le coscienze e le conoscenze dell’educatore e dell’educando. Poter capire costituisce la superiorità dell’uomo sulle cose357. In questo senso, A. sottolinea come: «Lo sviluppo dell’intelligenza è intimamente connesso colla parola, la quale è un segno sensibile esteriore, che esprime un’idea»358. La parola si impone così come 352 G. A., Opuscoli pedagogici, 14. 353 425. 354 G. A., Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, 250. 355 249. 356«Pestalozzi, Girard, De la Salle furono grandi istitutori, perché furono grandi cuori, che sentirono la santità del loro apostolato, e fecero di sé nobile sacrificio per loro alunni. Senza cuore non si educa con dignità, non si ammaestra con verità, non si impara con senno; e la scuola diventa essa stessa corpo senz’anima. Ed in quella guisa che le istituzioni politiche anche ottime declinano, si disfanno e finiscono, quando sono guaste dallo spirito settario, dall’ambizione sfrenata dei reggitori, dal dispotismo sotto maschera di libertà, così gli istituti scolastici anche meglio organati languiscono e cadono giù, quando nei governanti che li dirigono e nei maestri che professano, sottentra l’indifferenza e l’apatia, il mestierismo e la cupidigia del guadagno, la vanità pretensiosa e lo scetticismo demolitore» in G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 182-183. 357 G. A., Studi pedagogici, 102-107. 358 G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 44.  96  «necessità pedagogica», da indirizzare verso l’educazione della persona359. Per tali motivi il fulcro della scuola è la spiegazione360. La sua importanza è attestata, secondo A., anche dalle difficoltà di relazione e di formazione dei sordo - muti361. Considerava un grave errore pensare che la mera istruzione potesse bastare all’educazione: «Che l’istruzione faccia colla educazione un’adequazione perfetta e si converta con essa, è fatale errore, il quale trascina la società a distrette più deplorande, che non quelle medesime dell’ignoranza e della rozzezza. L’uomo non vive di sola conoscenza, ma ben anco di virtù e d’amore, perché alla potenza dell’intendere accoppia la libertà del volere e la facoltà del sentire. Laonde la scienza è sibbene una splendida manifestazione dell’umana essenza, ma non è punto l’umanità tutta quanta: nell’immensa sfera dello svolgimento umano essa tiene un posto luminoso, ma non il solo, né il più elevato, sottostando alla vita morale e religiosa»362. Questa mancanza, era colta da A. soprattutto nella scuola secondaria, dove lo sviluppo razionale e il prossimo approccio alla vita, meritavano una relazione educativa e valoriale piena, e non solo limitata all’istruzione: «La nostra scuola secondaria non educa, perché è tutta nell’istruire: le materie di studio sono tenute estranee allo sviluppo del sentimento morale e religioso. La cattedra non è un apostolato di civile e morale insegnamento, ma di puro sapere: rilassati e pressochè spezzati i vincoli tra la scuola e la famiglia, e maestri ed i discepoli». L’assenza di un’educazione morale e religiosa, senza la quale lo sviluppo integrale della persona era reputato da A. impossibile, fu variamente ripresa: «Questa idolatria della scienza fa le sue tristissime prove nel campo della pubblica istruzione; l’istruzione è come una gran fiumana che allarga il santuario della scuola e caccia via la coltura morale e religiosa, come se vi fossero soltanto teste da riempire, e non anco anime da ispirare, cuori da educare. Questa specie di fanatismo per il culto del sapere è la piaga precipua, che vizia oggidì l’organismo della pubblica educazione.»363 Due delle sue citazioni preferite erano la celebre frase di Tommaseo: «La scuola se non è tempio, è tana» e il motto socratico Non scholae sed vitae discendum. Oltre che culto 359 «La parola è pur anco una necessità pedagogica, perché vincolo essenziale, che unisce le intelligenze e le volontà del maestro e del discepolo, dell’educatore e dell’alunno, ma a tale riguardo occorre, che la parola del maestro sia luce intellettuale piena d’amore, e che il discente non la riceva passivo, ma la faccia ripensandola. Un insegnamento parolaio sciupa se stesso in un’intrinseca contraddizione, essendochè appartiene all’essenza medesima della parola l’ufficio di significare un’idea» 45. 360 «Il programma governativo è, per così dire, l’embrione della materia d’insegnamento, il didattico ne mostra le giunture, le articolazioni in forma di compagine, il libro di testo porge l’organismo in carne ed ossa e polpa e sangue, la spiegazione del testo è la vita, che circola per entro l’organismo» 103. 361 98. 362 G. A., L’educazione e la scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18 novembre 1881, 6.  363 G. A., G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, 59. 97  della verità, la scuola doveva infatti divenire tirocinio alla vita, e non doveva essere staccata da essa364. Ciò implicava anche un assetto didattico in cui era prevista la formazione professionale e la ginnastica. Sotto questo profilo critica la proposta educativa di Platone365, considerata eccessivamente spiritualista. La scuola deve preparare soprattutto alla partecipazione alla società, della quale essa può diventare importante fermento di progresso e umanizzazione. In questo senso, contestò posizioni come quelle di Rousseau, che mettevano in evidenza le ingiustizie perpetuate nella socialità scolastica, invece che i suoi aspetti formativi366. A. sottolinea il rapporto virtuoso tra educazione e società. Solo se cresce il singolo, progredisce la comunità. Giustamente A. ricorda che «La personalità umana giustamente intesa ed educata a dovere porta la floridezza sociale»367. La scuola non poteva, tuttavia, essere vista come funzione della società, e soprattutto del suo potere politico368. Il controllo sociale esercitato mediante la scuola rischiava di tradire il principio della personalità369. Il legame con la vita e l’unità dell’educazione, doveva essere corroborato da una stretta collaborazione tra gli istituti scolastici e la famiglia. Per questa ragione propone l’abolizione dei convitti, preferendo che gli allievi restassero nella loro famiglia370. In caso di necessaria lontananza dalla propria casa, A. indica come modello le pensioni libere inglesi in cui gli alunni seppur lontano dalla propria casa vivono con un’altra famiglia, a 364 «Quest’armonia tra la scuola e la società esige che nell’ordinamento delle discipline scolastiche si abbia speciale riguardo a quelle che sono peculiarmente reclamate dallo spirito del tempo, dai bisogni sociali, dall’indole della nazione. Però anche qui non va dimenticato, che la scuola, pur mentre si attempera alle condizioni della società, non debbe servire alle medesime, come se fossero l’ideale supremo e definitivo di ogni umano consorzio» G. A., Opuscoli pedagogici, 37. 365 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, 103. 366 «Il mio concetto della persona umana, in servigio della quale dico ordinata la scuola, è ben altro dal concetto della natura umana, in cui Rousseau vuole riposto il fine supremo della educazione. Nell’essenza medesima della persona umana, che è intelligenza ed attività volontaria, io scorgo la fonte medesima della socievolezza, ossia la virtù di stringersi in comunanza di intendimenti e di voleri con altre persone, mentre l’autore dell’Emilio reputa le istituzioni sociali natefatte a snaturar l’uomo, spogliandolo dell’unità sua per assorbirlo come parte nel tutto» G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 71. 367 71. 368 «La scuola non può, non debb’essere una funzione della società, perché ne verrebbe essenzialmente snaturata. Infatti, la scuola è un santuario di persone, ossia di creature intelligenti e libere, e non già una agglomerazione di bruti o di cose. Ora la persona non è uno strumento ai voleri altrui, ma è una creatura sacra, fornita di diritti, che vanno rispettati da qualunque potere sociale, da qualunque autorità umana, il diritto all’esistenza, alla verità, alla felicità, alla virtù, sicché se ad esempio la prosperità di un popolo intiero costasse la schiavitù o la distruzione di una sola creatura umana, già per ciò stesso dovrebb’essere detestata come un delitto. Orbene, ponete che la scuola sia una funzione,una proprietà, un’appartenenza della società e soggiaccia al suo assoluto dominio, e allora gli alunni non verranno più educati siccome persone, che appartengono a sé stesse, ed ordinate ad un fine, da cui hanno diritto di non essere deviate, bensì come mancipii del volere sociale, come cose o strumenti in servizio della società» G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 23. 369 «L’individualismo egoistico ed il socialismo oppressivo sono due estremi, che contraddicono agli intendimenti della natura, la quale mentre chiama gli uomini alla convivenza sociale, vuole ad un tempo salva la personalità di ciascuno». G. A., G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, 99.  370 G. A., Studi pedagogici, 333-335. 98  volte la stessa dei propri insegnanti. Ciò aiuta a supplire la funzione dei genitori, che deve rimanere un paradigma. Non è un caso che parlò della scuola come «seconda famiglia»371. In merito all’organizzazione della scuola avanzò una serie di proposte. Sosteneva il primato degli asili italiani rispetto a quelli fröbeliani372, auspicava una scuola elementare unica senza distinzione di censo373, mostrandosi fortemente preoccupato per una divisione della scuola classista374. Propose la fusione del ginnasio con la scuola tecnica per rimandare la scelta della scuola superiore di tre anni, ipotizzando così la nascita di una scuola media unica. Sostenne il valore dell’educazione classica, un insegnamento della filosofia armonico con le altre discipline, un più ampio spazio alla storia italiana. Della scuola superiore critica l’eccessivo numero di materie, e il quadro orario troppo lungo. Inoltre contestò i criteri di valutazione negli esami, nei quali si preferisce la quantità alla qualità degli apprendimenti, inducendo ad una mentalità enciclopedica e non critica. Anche per questo motivo propone di eliminare la Giunta centrale per gli esami di licenza liceale. Per quanto riguarda le scuole normali prospetta un quadro orario in cui si affermi il 371 G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 86. 372 «I nostri asili infantili sono una creazione del genio nazionale e per un trentennio conservarono la loro originale impronta. Verso il 1860 entrarono in lotta coi seguaci della scuola germanica, che insorsero coll’intendimento di atterrarli e sulle loro rovine costrurre i giardini fröbeliani. I novatori lottarono e lottano tutt’ora coll’opera e colla parola, nelle Conferenze pedagogiche e nei privati convegni, con ardore sempre vivo, invocando ben anco in loro aiuto la potenza ministeriale (Vedi l’opuscolo Società dei giardini d’infanzia di Udine, ecc. Udine, 1981, pag. 24). Ed il Ministero non nascose la sua simpatia pel fröebelismo. Già nel regolamento del 188°, all’art. 28, esso sostituiva alla denominazione asili d’infanzia il vocabolo giardini; poi impose ai professori di pedagogia presso le scuole normali l’obbligo di insegnare alle allieve maestre in teoria ed in pratica il metodo di Fröebel, prescrivendo lo stesso metodo alle scuole italiane aperte all’estero, e nella sua Circolare del 27 gennaio 1889 manifestava l’intendimento di «trasformare man mano i numerosi asiloi, secondo vecchi metodi governativi, in istituti educativi informati a una dottrina che prenda il nome dal Pestalozzi o da Fröebel, o meglio da entrambi; tal fine si può ben dire ci abbia segnata la via, nella quale dobbiamo metterci». Nel fervore della lotta non mancarono valenti istitutori, che, come l’Uttini a Piacenza, il Colomiatti a Verona, la Goretti – Veruda a Venezia, si adopravano con saggio accorgimento a riparare gli abusi ingenerati nelle scuole aportiane da sbagliate applicazioni pratiche, ad adempiere i difetti ed introdurvi le ragionevoli migliorìe, pur conservando intatto il principio interiore della loro origine» 127-128. 373 Attacca quanti volevano fare una scuola per il popolo e una per la classi agiate e scrive: «Quindi si fa necessaria una scuola, la quale abbia appunto per iscopo di fornire quella coltura, la quale occorre a tutte le classi sociali senza riguardo ed eccezione di sorta. La scuola che risponde a questo fine universale è appunto la scuola elementare, così denominata, perché ha per oggetto gli elementi della coltura umana. Da questo suo concetto si scorge che essa non ammette disparità tra i figli dell’operaio e i figli del facoltoso, perché la coltura primordiale è la stessa per tutti: non deve mirare agli uni piuttosto che agli altri, ma va ordinata in servigio di ambedue: essa è ad un tempo democratica ed aristocratica, rurale ed urbana, popolare e borghese. Alle corte, intendete voi che la scuola elementare accolga a comune ammaestramento i figli di tutte le classi sociali, o quelle soltanto della classe operaia? Nel primo caso, la trasformazione, che propugnate, non più ragione di essere: nel secondo caso, create un dualismo irragionevole» 140.  99  «primato» alla pedagogia, mentre nei licei, legandosi ad una battaglia tipica di quegli anni, fu fautore della centralità della filosofia375. Da un punto di vista metodologico richiama alla necessità di conoscere le facoltà psicologiche dell’A. e denuncia l’ignoranza della classe magistrale su tali tematiche. Gli insegnanti sembrano essere più preoccupati di offrire agli alunni conoscenze precise e copiose, rispetto a capire quanto i loro alunni possano imparare. Un altro aspetto avversato dall’A. è un’idea caporalesca della disciplina, che dimentica l’importanza della libertà e del consenso per un’educazione efficace. Voleva che la scuola educasse al patriottismo. Ciò non deve far pensare ad un A. nazionalista e sciovinista, il pedagogista era però convinto che la scuola dovesse difendere la tradizione, la cultura e la filosofia italiana376, di cui i giovani avrebbero dovuto acquisire consapevolezza e orgoglio. Inoltre considerava importante l’assimilazione dell’idea di nazione, intesa come comunità a cui appartenere e da servire. Per questo propose di sostituire all’ «educazione civile», la materia di «educazione italiana». Riguardo al tema dell’obbligo scolastico, che coinvolse il dibattito pedagogico durante la costruzione del sistema scolastico nazionale, A. si oppose alla sua applicazione, perché lo considerava illiberale. Il pedagogista non intendeva restringere il diritto all’educazione ad un’élite, ma riteneva che l’obbligo non fosse un mezzo adatto per la diffusione dell’istruzione e dell’educazione377. Egli era altresì convinto che bisognasse convincere alla scuola e non costringere378. Come non si possono obbligare le persone ad essere virtuose o a lavorare, così non le si può costringere ad istruirsi, mentre può moltiplicare le scuole e formare bravi insegnanti che attirino le famiglie ad iscrivere i figli nelle scuole379. Dove c’è costrizione, secondo l’A., non può esserci una vera educazione. I. 9. La libertà d’insegnamento e la riforma della scuola 375 «Nelle scuole normali spetta alla pedagogia il posto supremo ed intorno ad essa vanno coordinate tutte le altre materie. Nei licei la filosofia deve tenere il campo, siccome quella, che in virtù del suo carattere universale è atta a collegare in armonico accordo tutte le altre discipline» 116. 376 Cfr. G. A., Studi pedagogici, 36. 377 G. A., Dell’istruzione obbligatoria, Torino, Tipografia Subalpina. Sull’argomento, in un saggio cita Lambruschini, che in una relazione presentata al Ministro Berti scrisse »L’istruzione e l’educazione son cosa di sì alto ordine, e così degna di essere desiderata e cercata per se medesima, che la violenza nell’imporle ne scema il pregio agli occhi si chi deve riceverle, e ne spegne l’amore. Da un altro canto, comechè si adoperi il Comune acciocchè l’istruzione sia ricevuta da tutte le famiglie, non riuscirà mai nell’intelletto, se nelle famiglie non nasce l’amore dell’istruzione”, dopo di ciò commenta “In Prussia erasi organizzato un sistema di polizia, per cui allorquando un fanciullo si rifiutava di recarsi a scuola, né il padre ve lo mandava egli stesso, un poliziotto lo pigliava a casa e lo trascinava a scuola come un pubblico malfattore» G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 137.  379 G. A., Dell’istruzione obbligatoria, 12. 100  Le posizioni di A. sulla scuola e sulla libertà d’insegnamento sono state in parte già oggetto di studio380. Si tratta, infatti, di un contributo di rilevante importanza nell’economia delle vicende scolastiche del secondo Ottocento. Le opere più importanti in cui affronta tali questioni sono: L’educazione e la nazionalità (1875)381, La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, Intorno le scuole normali e gli asili di infanzia fröbeliani, Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, Della istruzione obbligatoria e La scuola educativa, poi rivisto e pubblicato. A questi vanno aggiunti altri come: La Riforma dell’educazione moderna mediante la riforma dello Stato, Il Classicismo nelle scuole, Esposizione critica delle opinioni di illustri pedagogisti intorno il rapporto tra l’educazione privata e la pubblica, Delle condizioni presenti della pubblica educazione (1886)391, raccolti negli Opuscoli pedagogici (1909). In realtà, l’intera produzione dell’A. è disseminata di richiami e rilievi su tali questioni392. 380 I lavori sinora pubblicati lasciano spazio per ulteriori studi e considerazioni. Il testo di Bonghi, Idee di A. circa la libertà d’insegnamento, «Cultura», è scritto nel vivo delle polemiche scolastiche del tempo e manca di una necessaria distanza critica e storica; il lavoro di R. Berardi, La libertà d’insegnamento in Piemonte 1848-1859 e un saggio storico di G. A., 60-74, prende in esame una sola opera del pedagogista, vale a dire Della pedagogia in Italia, e soffre di una conoscenza parziale dell’opera del pedagogista; il saggio di A. Consorte, Scuola e Stato in Giovanni A., «Ricerche Pedagogiche, seppur significativo, approfondisce soprattutto le polemiche tra lo studioso piemontese e l’apparato ministeriale, tenendo peraltro conto solo di alcune sue opere. A., L’educazione e la nazionalità, Torino, Tip. del giornale Il Conte Cavour, A., La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, Torino, Tip. Salesiana, 1879. 383 G. A., Intorno le scuole normali e gli asili di infanzia fröbelliani, Torino, Tip. Subalpina,1888. 384 G. A., Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, Torino, Tip. del Collegio degli artigianelli, 1889. 385 G. A., Della istruzione obbligatoria, Torino, Tip. Subalpina, 1893. 386 G. A., La scuola educativa. Principi di antropologia e didattica: pedagogia elementare, Torino, Tip. Subalpina, 1893. 387 G. A., La scuola educativa. Principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., 1904. 388 G. A., La Riforma dell’educazione moderna mediante la riforma dello Stato, Torino, Tip. Subalpina, 1879. 389 G. A., Il classicismo nelle scuole, Torino, Tip. M. Artale, A., Esposizione critica delle opinioni di illustri pedagogisti intorno il rapporto tra l’educazione privata e la pubblica, «Rivista pedagogica italiana», 1-2, 1898. 391 G. A., Delle condizioni presenti della pubblica educazione. Prolusione letta nella R. Università di Torino il 25 novembre 1886, Torino, Tip. Subalpina, 1886. 392 In tutte le opere dell’A. sono ricorrenti degli incisi nei quali lo studioso propone parallelismi con le condizioni scolastiche coeve. Il seguente brano pare particolarmente paradigmatico. Dopo aver esposto i caratteri della pedagogia romana, ad esempio, A. riporta un passo di una lettera scritta da Plinio il giovane ed indirizzata a Corellia Ispulla, nel quale le suggerisce di scegliere con oculatezza l’insegnante di retorica per il figlio. Subito dopo, A. chiosa: «Qual profondo divario tra i tempi di Plinio ed i nostri in riguardo ai pubblici studi! Allora la scuola si muoveva libera da ogni potere governativo, epperò la scelta dei maestri spettava ai genitori come un sacro e coscienzioso dovere. Ora invece lo Stato impone alle famiglie i maestri da lui solo fabbricati ad immagine e somiglianza sua. Una radicale riforma intorno a questo rilevantissimo punto della vita civile e sociale è una necessità pedagogica. La libera attività dei cittadini, su cui posa in gran parte la civiltà moderna, non consente che essi vengano trattati come fanciulli, i quali hanno nel governo il loro supremo educatore ed assoluto maestro. La libertà non è privilegio esclusivo di nessuno.  101  Il problema della libertà d’insegnamento occupa un posto privilegiato nell’opera di A.. Quest’attenzione è indubbiamente legata all’evoluzione del sistema scolastico italiano, di cui il pedagogista vercellese denunciò la deriva monopolistica ed un assetto contrario alla libertà d’insegnamento. Stando allo studioso, tali politiche avevano profonde radici filosofiche e pedagogiche. In particolare, erano la conseguenza da una parte della crisi del concetto di libertà, e dall’altra, del «mito» dello Stato nato con la modernità. Lo sbriciolamento della metafisica, inaugurato nel ‘600, condusse alla confusione circa l’esistenza e il ruolo della libertà personale. Ciò portò ad una certa sfiducia verso l’iniziativa privata, preferendo al rischio educativo la gestione del processo formativo. D’altra parte con la modernità si impose il profilo di uno Stato simile al «Leviatano» prospettato da Hobbes, nel quale il governo di pochi si arrogava il diritto di fagocitare e sacrificare le singole individualità in nome del bene della collettività. Un «mostro», come lo definì A., ingombrante, fatto di meccanismi politici e burocratici. Da ciò la scuola e l’educazione non erano più considerate una responsabilità della famiglia, ma dello Stato393. Il vercellese definiva questo statalismo anche «socialismo governativo». In una sua opera spiega: «socialismo dico ogni istituzione che la santa autonomia della persona e della famiglia disconosca in qualsiasi modo, rimestando ad arbitrio quella convivenza sociale che ha da posare sicura sulle leggi eterne dell’umanità»394. In un altro saggio commenta: «Socialismo governativo è lo Stato moderno; socialismo pedagogico è l’educazione moderna. Lo vuole la logica, lo proclamano i fatti. Onnipotente è lo Stato? Dunque onnisciente. Creazione sua la società? Dunque suo feudo la scuola. Esso, che si reputa l’umanità, ben può dire di sé: l’educatore sono io»395. Secondo A., da tale pretesa nacque il controllo sul sistema scolastico, sui programmi, sul reclutamento degli insegnanti, sull’organizzazione degli esami, sui libri di testo. La monopolizzazione della scuola era sentita dall’A. in modo catastrofico: «Là dove l’educazione propria della famiglia viene sacrificata all’educazione dello Stato, vano è lo sperar bene delle sorti di una nazione»396. Scrive: «Non si dà libero cittadino senza il governo di sé, né si da governo Governi lo Stato le sue pubbliche scuole; ma siano libere le famiglie di associarsi insieme per fondare istituti educativi ed imprimere ad essi un indirizzo rispondente alle loro aspirazioni egualmente che allo spirito del tempo. Così sorgerebbe una nobile gara, da cui la pubblica educazione trarrebbe singolare e felice incremento», in G. A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, 40. 393 Commentando il progetto di legge di Baccelli sul riordinamento degli studi universitari, lo studioso vercellese scrive: «Il Ministro, che l'ha proposto, sente che nella coscienza universale ferve irrefrenabile l'aspirazione alla libertà; ma ad un tempo è imbevuto del dominante pregiudizio, che il Governo è lui il primo e sovrano motore di tutta la vita pubblica e civile, è lui l'unico ed assoluto maestro ed educatore della nazione, che la legge è lui, come Luigi XIV proclamava sé lo Stato» G. A., L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe A., Torino, Tip. Subalpina, 1899, p. 5. 394 G. A., Opuscoli pedagogici, 11. 395 11-12. 396 G. A., G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, 89.  102  di sé quando lo Stato siede arbitro e donno di tutte le attività umane. Tolta di mezzo l’autonomia personale de’ singoli cittadini anche l’indipendenza della nazione diventa ingannevol menzogna; e verrà giorno in cui suprema battaglia per un popolo quella sarà che esso combatterà non per l’indipendenza dalla straniero, ma dalla statolatria»397. Va notato che nella prospettiva di A., il concetto di Stato è ben separato da quello di Nazione, come giustamente ha rilevato polemicamente la Bertoni Jovine398. Per il pedagogista la Nazione è espressione della civiltà, di valori, di tradizioni, di una storia, mentre lo Stato non necessariamente ne rappresenta e asseconda gli interessi. La famiglia rappresenta il punto di congiunzione tra l’individuo e la Nazione, e ad essa lo Stato deve rispondere nell’organizzazione della scuola. Lo stato è nato per servire la famiglia, e suo compito è garantirne la libertà. Secondo A.: «È necessario far penetrare nella coscienza sociale questa gran verità, che principio, cardine e ragion d’essere dello Stato è la famiglia, che fondamento e centro unificatore della vita pubblica e civile è la vita domestica, e che perciò i primi educatori per diritto e per natura sono i genitori, che lo Stato non possiede un diritto pedagogico e scolastico assoluto e supremo, ma relativo soltanto e derivato dalla famiglia»399. Per queste ragioni: «Il Governo non può avere altro diritto scolastico, se non quello, che gli venga implicitamente o esplicitamente consentito dalla famiglia, ciò è a dire un diritto relativo, non assoluto, secondario e non supremo, partecipato e non originario»400. Non sembrano dunque fondate le critiche mosse ad A., circa la connessione tra l’antistatalismo e un presunto individualismo scaturigine del principio della personalità, segnalato da Vidari401. Il pedagogista non professava una totale anarchia in campo educativo, ma esautorava lo Stato dal diritto assoluto sull’educazione. 397 G. A., Opuscoli pedagogici, 18. 398 «Uno dei più forti oppositori della preminenza dello Stato nell’educazione fu Giuseppe A., dell’università di Torino, che svolse il concetto di “nazione” distinguendolo da quello di Stato. Lo Stato non ha alcun diritto ad educare, mentre la nazione che “è lo stesso uomo collettivo”, influisce con tutti i suoi elementi sullo sviluppo dell’individuo; onde nazionalità ed educazione sono due fatti inseparabili. È naturale che fra i più importanti elementi della nazione l’A. collochi la religione e la Chiesa pur accettando dagli avversari alcuni elementi più moderni diventati realtà con le vittorie liberali. Con l’esigenza di uscire dal ristretto cerchio della famiglia, si assimila infatti, in questa ideologia, il concetto basilare di patria. Si supera così il punto critico che divideva i liberali dai clericali: “Dio, patria e famiglia” divengono i tre pilastri fondamentali dell’educazione sui quali i cattolici più avanzati e i liberali moderati vi ritrovano la concordia; ma se i clericali assimilavano l’educazione patriottica, esigevano che i liberali accettassero l’educazione religiosa. E questo era possibile perché nonostante la vittoria laicista ottenuta con la legge Coppino, non era mai stata definita la questione dell’insegnamento del catechismo» D. Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia della scuola italiana, 25. 399 G. A., Opuscoli pedagogici, 43. 400 G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 73. 401 «In fondo l’impronta fortemente individualistica, un po’ derivata dal principio della persona, ma molto anche da una deficienza del senso della continuità e unità storica nella vita dello spirito, è prevalente in tutta la pedagogia dell’A.; e si presenta poi in forma estrema là dove, applicando alla politica e al diritto i  103  Sulla paternità della responsabilità educativa, famiglia o stato, si giocò il dibattito pedagogico sul tema, considerato tale non solo in ambito spiritualista402. A. attribuisce alla famiglia la responsabilità educativa. La famiglia è il nucleo che solo può permettere il futuro della Nazione e una vera educazione delle giovani generazioni. Sugli stessi principi, critica aspramente anche Fröbel per non aver riconosciuto il primato della famiglia sulla società.403 Sotto questo profilo sono evidenti i richiami alla tradizione del cattolicesimo liberale, che attribuiva alla famiglia un valore educativo centrale, nelle opere di autori come Berti, Gustavo di Cavour e Rosmini, i quali fondavano la libertà d’insegnamento proprio sul principio della libertà e sul protagonismo educativo della famiglia. Attacca in più di un’occasione gli hegeliani come Spaventa e i positivisti come Siciliani, Angiulli, De Dominicis, considerati fiancheggiatori della statolatria. Il seguente brano lumeggia le sue idee: «Riponendo nella famiglia la suprema autorità scolastica noi ci troviamo collocati nel giusto punto di mezzo tra i due opposti sistemi, dei quali l’uno attribuisce al Governo un assoluto e supremo diritto sopra la scuola, l’altro gli niega ogni e qualunque siasi ingerimento pedagogico. Se lo Stato possiede bensì un’autorità nell’ordine scolastico, ma subordinata a quella della famiglia e de’ privati cittadini, ne consegue che esso deve lasciare luogo alla libertà della scuola, e potersi con questa conciliare. E qui si vede la ragione di ammettere, oltre le scuole pubbliche governative, anche le scuole private, le quali però non devono essere una storpiatura, una copia forzata e stereotipata delle scuole governative, ma hanno diritto di muoversi libere e spontanee dentro un’orbita loro propria. Il libero insegnamento va riconosciuto siccome una delle più splendide forme della libertà politica e civile, che informa la scuola moderna»404. Egli non teorizzava l’anarchia in campo educativo, ma uno Stato meno opprimente e più rispettoso della libertà. Come ha fatto notare Giorgio Chiosso, egli preferiva allo «Stato educatore» uno «Stato regolatore»405. Egli, infatti, non escludeva il controllo dello Stato suoi concetti, arriva a concepire la libertà d’insegnamento in modo essenzialmente antistatale, così da affermare che “lo Stato non possiede un diritto pedagogico e scolastico assoluto e supremo, ma relativo soltanto e derivato dalla famiglia”» G. Vidari, Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico, 86-87. 402 Non è un caso che la voce “Libertà d’istruzione” curata da Fornari nel Dizionario Illustrato di pedagogia di Credaro e Martinazzoli, che rappresenta uno spaccato della pedagogia italiana di fine Ottocento, introduca il tema con la domanda «A chi appartengono i figlioli?» Cfr. P. Fornari, Libertà d’istruzione, in A. Martinazzoli e L. Credaro (ed.), Dizionario illustrato di Pedagogia, Milano, Vallardi, 1895, vol. II, p. 62. 403 G. A., Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, 117. 404 G. A., Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, 24-25. 405 G. Chiosso, Alfabeti d’Italia, Torino, Sei, 2011, p. 93.  104  sull’istruzione406. Nonostante la comune rivendicazione della libertà di insegnamento, le tesi dell’A. si discostavano da quelle allora prevalenti nel mondo cattolico, in particolare negli ambienti dell’intransigentismo. In questo caso il principio della libertà d’insegnamento era alquanto strumentale e sostenuto più per ragioni pragmatiche che per la sua validità pedagogica. La vera scuola era quella «cristiana» e in nome di questa si avvertì l’esigenza di creare una scuola cristiana parallela a quella statale, in linea con quella logica «separatista» dal “paese legale” che ebbe largo corso dopo Porta Pia. Per questo motivo era chiaro che una rivendicazione simile sarebbe stata immotivata in uno Stato rispettoso dell’educazione religiosa e cristiana407. Per A. invece, la libertà rappresentava un valore effettivo per la scuola. In questo senso contestava la contraddizione di molti sedicenti liberali, che in molti paesi europei negavano la «lotta»408, cioè la concorrenza, proprio in campo educativo. Secondo il pedagogista il concorso di soggetti privati all’istruzione del popolo, il confronto e il «gareggiamento» tra le diverse realtà, rappresentava un volano per il miglioramento della scuola. Per mostrare i vantaggi dell’applicazione di tale principio, A. approfondì con appositi studi i sistemi di istruzione di Gran Bretagna e degli Stati Uniti, dove i principali liberali avevano forgiato anche le istituzioni scolastiche. Un altro stato indicato come modello da A. per quanto riguarda l’autonomia scolastica è il Belgio, di cui cita ed elogia gli articoli della Costituzione concernenti la libertà d’insegnamento409. Alla realtà educativa degli Stati Uniti dedicò un saggio dettagliato intitolato Dell’educazione pubblica negli Stati Uniti D’America410. In esso sostiene come la peculiarità del sistema scolastico americano fosse la libertà dei cittadini di fondare e 406 Sempre criticando il citato progetto di legge Baccelli sull’Università scrive: «Ecco il primo articolo della sua proposta: “Alle regie Università e a tutti gli altri Istituti d'istruzione superiore è concessa personalità giuridica ed autonomia didattica, amministrativa, disciplinare sotto la vigilanza dello Stato”. È cosa manifesta, che autonomia e vigilanza sono i due concetti supremi, a cui s'informa questo disegno di legge; ma è pur evidente, che il giusto significalo dell'autonomia dipende dai limiti, che vengono segnati alla vigilanza. Che lo Stato vegli, bene sta: ma la vigilanza sua va circoscritta entro determinati confini, sicché non trasmodi in un illimitato ingerimento e soppianti la libertà» G. A., L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe A., 5. 407Luciano Pazzaglia ha rilevato come, soprattutto dopo l’Unità, più che la difesa del principio della libertà d’insegnamento in quanto tale, prevalse nella Chiesa la rivendicazione della sua prerogativa educativa. Commentando la significativa allocuzione di Pio IX alla Gioventù italiana del 6 gennaio 1875, lo studioso della Cattolica osserva: «Pur continuando a sostenere la tesi del monopolio educativo della Chiesa e a condannare, parallelamente, la libertà d’insegnamento come principio che mal si conciliava con i diritti della verità di cui solo il magistero sarebbe l’autentico interprete, concedeva che in certe condizioni la libertà d’insegnamento potesse diventare per i cattolici uno strumento essenziale al raggiungimento dei loro obiettivi» in L. Pazzaglia, Educazione e scuola nel programma dell’Opera dei Congressi (1874-1904), in Cultura e società in Italia nell’età umbertina, 426. 408 G. A., L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe A., 8. 409 G. A., Lo Stato educatore, in Opuscoli pedagogici, 68-69. 410 Il saggio è inserito negli Opuscoli pedagogici, 380-406.  105  mantenere delle scuole. Secondo A. ciò permise di far sorgere tantissime scuole pubbliche non statali che hanno accresciuto la vita scientifica e sociale della giovane nazione, che seppur fondata da poco, aveva di gran lunga superato nella libertà e nella preparazione le scuole del vecchio continente. Sostiene inoltre che l’Università americana fosse molto più democratica di quella italiana. Seppur finanziata dalle tasse di tutti i cittadini le Università italiane erano frequentate quasi solo da persone benestanti, a causa delle alte tasse che venivano chieste alle famiglie di studenti. Negli Stati Uniti invece anche se le Università si mantengono quasi esclusivamente sulle tasse degli studenti gravando relativamente poco sui bilanci statali, esistevano numerose borse di studio che permettevano agli studenti capaci, ma con pochi mezzi, di poter frequentare prestigiose Università. Nel testo valorizza anche le «Scuole di scienza» e cioè le Università scientifiche di medicina e ingegneria che si diffondevano nel paese. Gli Stati Uniti erano un chiaro esempio del fatto che il monopolio dell’istruzione fosse in contraddizione con i principi dello stesso liberalismo. A. sostiene che «Il libero insegnamento va riconosciuto siccome una delle più splendide forme della libertà politica e civile, che informa la società moderna»411, i liberali italiani erano incoerenti con i loro stessi principi. Scrive su tale contraddizione: «La libertà delle scuole è la suprema necessità del momento, se già non fosse un principio sacrosanto scritto nel codice della civiltà vera; è l’unica tavola di salvamento nel presente naufragio della nostra istruzione. Ma qual è l’opinione dominante su questo vitale argomento? Anche qui dissidio di menti e lotta di idee. Propugnatori del libero insegnamento non mancano, ma ad esso non sanno fare buon viso i novatori e gli iperdemocratici, i quali lo vogliono angustiato in tale strettoie governative da farne un monopolio per sé e per i loro seguaci. Ingrato spettacolo di gente che vela con una mano la statua della libertà dopo di averla coll’altra levata alla pubblica venerazione»412. Ma le posizioni dell’A. erano in controtendenza rispetto agli indirizzi del Ministero. La lobby massonico liberale che tenne le fila della Minerva nei decenni successivi all’Unità contrastava la battaglia per la libertà d’insegnamento dietro la quale vedeva la mano della Chiesa preoccupata di non perdere l’egemonia sull’istruzione e sull’educazione, messa in seria discussione dopo l’Unità. L’istruzione pubblica e l’Università resteranno sotto il totale controllo del Ministero, le scuole libere saranno tollerate, ma discriminate sotto il profilo giuridico ed economico. Niente fu fatto per una vera parità nell’erogazione dei titoli di studio, una delle questioni da 411 G. A., Lo Stato educatore, in Opuscoli pedagogici, 68. 412 G. A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, 164-165.  106  cui dipende l’effettiva libertà d’insegnamento. Lo statalismo scolastico, infatti, è primariamente un monopolio di «abilitazioni», controllando le quali il governo «obbliga» e i giovani a frequentare le sue scuole. D’altra parte, costringeva le scuole libere ad adeguarsi ai dettami governativi. In un testo osserva: «Bella concorrenza davvero sarebbe quella di Istituti privati ridotti ad una storpiatura o miserevole copia dei governativi! Bella libertà scolastica quella di chi fosse legato mani e piedi ai ceppi dell'Autorità ufficiale»413. Paradossalmente il percorso di statalizzazione della scuola e di riduzione degli spazi di autonomia per le iniziative educative libere iniziò in un periodo in cui la pedagogia sembrava andare in una direzione opposta. La libertà d’insegnamento fu, infatti, un tema largamente sviluppato nella riflessione cattolico liberale che aveva caratterizzato la stagione risorgimentale. Lambruschini, Rosmini, Tommaseo, Gioberti, con le dovute differenze, auspicavano per lo Stato un ruolo da supervisore nell’educazione pubblica, non quello di gestore e macchinatore dell’istruzione e dell’educazione. Il percorso di statalizzazione tradiva quei principi di libertà caratteristici del clima culturale del ’48. A. denunciò questa inversione di tendenza, riprendendo i temi della Società pedagogica: «Il primo Congresso generale tenuto dalla Società in Torino nell’ottobre del ‘49 rivelava in modo solenne l’unità di disegno e l’universalità del concetto che la governava: senatori del Regno e deputati del Parlamento, autorità ministeriali e scolastiche, membri di Accademie scientifiche e reggitori di istituti educativi, professori e dottori di Università e maestri elementari, sacerdoti e laici, esuli degli altri Stati della patria comune illustri per sapere, intelligenti promotori della pubblica educazione, là convenivano a pubblica discussione, e nella arena del dibattimento discendevano insieme affratellati i cultori degli studi classici e speculativi coi maestri dell’istruzione tecnica e professionale, i reggitori di pubblici e governativi istituti scolastici ed i favoreggiatori del privato e libero insegnamento. Così il Piemonte, appena sorto a nuova vita, adoperava in servigio di nobilissima causa il diritto di libera associazione allora sancito nel nuovo Statuto Carlalbertino, ma, prima che negli stati politici, scritto a caratteri indelebili nel gran codice della natura; così esso porgeva uno splendido esempio di attività cittadina e di privata entratura, che sole sanno a tenere a modo la podestà del governo così lesta ad invadere diritti non suoi. E si fosse mantenuta costante quell’attività e quell’entratura privata, e propagatasi più rigogliosa e compatta in tutte le regioni d’Italia! Chè ora la pubblica istruzione del nostro paese non gemerebbe soffocata da alcuni anni sotto lo strettoio del potere esecutivo»414. Già nel saggio sull’hegelismo del 1868 attribuì a A., La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, Cavour e al «cavourinismo» la colpa per il profilo illiberale della scuola italiana415. Una simile lettura del pensiero e delle responsabilità dello statista piemontese sembra essere confermata dall’iter della legge Lanza416. Esso quindi vedeva nei principi della legge Casati degli aspetti positivi, poi traditi dalle politiche successive. Le polemiche con la Minerva Il docente dell’ateneo subalpino non si limitò a teorizzare i princìpi intorno a cui si sarebbe dovuta realizzare la libertà scolastica, ma entrò in diretta polemica con gli esponenti politici più o meno «statolatri» che, tra la sua giovinezza e la maturità, governarono il Dicastero dell’Istruzione Pubblica. Qualche anno dopo la laurea, già noto per alcune pubblicazioni, A. fu incaricato dal Ministro Berti di scrivere un saggio sulla scuola e la pedagogia italiana in occasione della mostra universale della Arti e delle industrie a Parigi. Ne uscì il saggio Della pedagogia in Italia, che, tuttavia, non incontrò il parere positivo del ministero, motivo per il quale il libro non fu presentato alla fiera419. Commentando quell’episodio Gerini osservò come mentre il positivismo fosse una dottrina «protetta in alto», «agli avversari della pedagogia spiritualistica furono prodigati tutti i favori del Ministero, a lui l’oblio»420. Le posizioni espresse dall’A., considerando le quali non desta meraviglia la censura ministeriale, sono utili per introdurre le sue critiche alla politica scolastica post unitaria. Già nello scritto del 1867, l’A. nel ripercorrere gli anni del riformismo 415 G. A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, Morandini, Da Boncompagni a Casati: l’affermazione del modello centralistico nella costruzione del sistema scolastico preunitario, in Pruneri, Il cerchio e l’ellisse, centralismo e autonomia nella storia della scuola dal XIX al XXI secolo, 50. 417 Tale lettura è confermata in un opera della fine del secolo. Scrive: «Or mezzo secolo fa veniva promulgata la legge pel riordinamento della pubblica istruzione, che ancora oggidì governa il nostro insegnamento universitario. Quella legge porta l'impronta del tempo, che l'ha inspirata, fervido di nobili aspirazioni e di grandi speranze. La libertà non era un nome vano ed illusorio, ma una santa realtà potentemente sentita, lealmente riconosciuta, mirabilmente armonizzata col rispetto dello patrie istituzioni. Gli animi tutti erano assorbiti nella grande idea dell'indipendenza nazionale, e davanti alla coscienza del popolo italiano splendeva l'ideale di un nuovo glorioso avvenire. Ora non ci riconosciamo più. Siamo discesi sempre più giù per la china del decadimento. Lo Stato andò sempre più invadendo il campo riservato all'attività dei cittadini comprimendo sotto il suo strettoio le energie individuali» A., L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da A., A., Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866, cit.; poi in A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, 84-168. 419 Lo stesso pedagogista racconta la vicenda in A., Della pedagogia in Italia; Gerini, La mente d’A., pedagogico subalpino all’origine della riforma Boncompagni del 1848421, lamentava che gli ideali originari – ispirati al principio della libertà scolastica – fossero stati in seguito gravemente compromessi dalle iniziative successive che avevano invece rafforzato il ruolo dello Stato422. Secondo Gerini, l’ostilità del ministero ebbe delle conseguenza nella progressione di carriera dell’A.: Straordinario nel 1871, ottenne la promozione ad Ordinario solo nel 1878423. In un’altra occasione sembrò al pedagogista vercellese di aver subito un torto dalle autorità politiche, quando cioè, eletto consigliere comunale, fu volutamente escluso dall’assessorato all’istruzione424. La lettura di A. sull’evoluzione del sistema scolastico italiano fu ripresa nel già citato La Legge Casati e l'insegnamento privato secondario apparso nel 1879. In questo scritto l’A. denunciava la contraddizione tra le norme a tutela della libertà scolastica prevista dal testo del 1859 e la loro attuazione pratica, sulla base del principio politico secondo cui il Governo «sopravveglia il privato a tutela della morale, dell'igiene, delle istituzioni dello Stato e dell'ordine pubblico». Per quanto la Casati riconoscesse l’utilità di una proficua «concorrenza degli insegnamenti privati con quelli ufficiali»426, le norme e gli atti successivi andarono contro questo principio. Per A. era evidente che politiche simili fossero dettate dal timore del Clero e della sua presenza educativa, ma ciò non poteva minimamente giustificare la soppressione della libertà. Va sottolineato come il principale redattore del testo legislativo, fu il sacerdote Rayneri. Cfr. M.C. Morandini, Da Boncompagni a Casati: l’affermazione del modello centralistico nella costruzione del sistema scolastico preunitario A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, 90. 423Secondo Gerini, genero dell’A. (ne aveva sposato la figlia), curatore di numerosi saggi sul pedagogista, il ritardo non fu casuale. Citando una lettera dello stesso A. al ministro De Sanctis e alcune considerazioni di Parato, egli sostiene che ci fu una ostruzione ministeriale alla carriera del vercellese, motivata dal suo credo spiritualista e dalle sue posizioni critiche nei confronti delle politiche ministeriali. Cfr. Gerini, La mente di A., Come racconta Gerini: «Dopo le elezioni amministrative del 1895, essendo riuscito con bella votazione consigliere (il 20° su 80), l’A. venne chiamato a far parte della Giunta. Costituita la quale “l’opinione generale e più favorevole, specie nel corpo insegnante di tutti i gradi d’istruzione, dalla elementare alla universitaria, era che nella distribuzione dei varii rami di amministrazione fra gli assessori, al prof. A. sarebbe toccato il governo dell’istruzione, essendo egli la persona meglio indicata, per attitudini particolari ben note, a tenerlo: invece venne destinato dal sindaco alla direzione della Biblioteca dei Musei”. Naturalmente l’A. con sua lettera in data 5 luglio rinunziava all’assessorato. Il sindaco Rignon, cui non menziono in questo luogo a titolo d’onore, non gli affidava l’ufficio dell’istruzione perché non si conoscevano ancora abbastanza le sue idee intorno al governo delle scuole, pur essendo disposto a commetteglielo quanto avesse avuto campo di far conoscere il suo modo di pensare (Osservatore scolastico di Torino, 13 luglio 1895). Il fatto non abbisogna di commenti. Basti il dire, che qualche tempo dopo il Rignon chiamava all’assessorato dell’istruzione un avvocato, il quale non aveva mai dimostrato d’intendersi d’amministrazione scolastica. – Nelle successive elezioni l’A. declinò in modo irremovibile la candidatura» R. D. art. A., La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, 12. 427 “La potenza che voi paventate nel clero; non la distruggerete colla forza dei divieti, ma la fortificate colla mostra della persecuzione e colla vostra sfiducia nella libertà. Voi la volete la libertà, ma per voi e per 109   Nell'appendice l’A. dimostra tale tesi, analizzando nel dettaglio i diversi provvedimenti elaborati dai successori di Casati, tra cui Natoli, Coppino e Correnti, criticandone lo scarto rispetto ai principi della legge fondativa del ’59. E così icasticamente conclude: «Da vent'anni e più anni la legge riconobbe e sancì il principio del libero insegnamento: da quasi venti anni il Governo continua a misconoscerlo, la burocrazia a manometterlo»428. La stessa lettura dell'evoluzione dell'ordinamento scolastico italiano è confermata in un altro testo di vent’anni dopo. Un caso esemplare del «tradimento della Casati» riguarda la figura dell’istitutore libero. Come spiega A., secondo la legge: «L’istitutore è governativo o libero, secondochè la scuola, in cui esercita il suo magistero educativo, è retta dallo Stato o da privati cittadini. All’uno il governo prescrive la sostanza e la forma del suo insegnamento, la misura, il procedimento, il criterio direttivo. Dall’altro la vigente legge 13 novembre 1859 esige i titoli, che lo autorizzano, ed il rispetto dell’igiene, della morale e delle patrie istituzioni, epperò la sua libertà non è assoluta; ma non concede al Governo di sindacare, se e quanto, e come egli educhi e insegni; chè altramente la libertà dell’istitutore si risolverebbe in una vana parola»430. Ma alla libertà riconosciuta dalla Casati, conclude l’A., corrisposero norme restrittive che di fatto compromisero l’iniziativa dei liberi insegnanti. Non meno severa era la denuncia dei rischi dell’ingerenza statale sull’identità delle scuole private: «Dalle recenti statistiche – così scriveva nel 1879 – si rileva come gli istituti secondari liberi affidati alle provincie, ai comuni alle corporazioni religiose, ai privati, gareggino per numero con quelli del Governo; il che è splendido argomento del grande amore, che nutrono i cittadini, per l’incremento degli studi e lo sviluppo della coltura sociale; ma non si può non provare ad un tempo un sentimento increscevole e doloroso in veggendo come tanti nobili sforzi vengano in gran parte sciupati dallo smodato ingerimento del Governo, il quale introduce la monotona e rigida uniformità de’ suoi gli amici vostri; a siffatta guisa di libertà anche i vostri avversarii potrebbero fare buon viso, anche la Czar delle Russie: di una veneranda matrona ne avete fatto una brutta ed intollerabile Megera.” A., La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, 28. 428 Ibid, p. 26. 429 Un passo di un saggio del 1899 conferma la lettura di A.: «Or fa mezzo secolo fa veniva promulgata la legge pel riordinamento della pubblica istruzione, che ancora oggidì governa il nostro insegnamento universitario. Quella legge porta l'impronta del tempo, che l'ha inspirata, fervido di nobili aspirazioni e di grandi speranze. La libertà non era un nome vano ed illusorio, ma una santa realtà potentemente sentita, lealmente riconosciuta, mirabilmente armonizzata col rispetto dello patrie istituzioni. Gli animi tutti erano assorbiti nella grande idea dell'indipendenza nazionale, e davanti alla coscienza del popolo italiano splendeva l'ideale di un nuovo glorioso avvenire. Ora non ci riconosciamo più. Dal 1859 al 1899 siamo discesi sempre più giù per la china del decadimento. Lo Stato andò sempre più invadendo il campo riservato all'attività dei cittadini comprimendo sotto il suo strettoio le energie individuali» A., L’autonomia universitaria proposta da Baccelli ed esaminata da A., 3. 430G. A., La scuola educativa. Principi di antropologia e didattica: pedagogia elementare, metodi, de’ suoi programmi, de’ suoi studi là dove dovrebbe lasciare, che si svolga libera, varia e feconda la vita scolastica»431. Ciò dipendeva, a giudizio del pedagogista piemontese, dal monopolio statale dei titoli di studio, mediante il quale il Governo disincentivava l’iscrizione negli istituti liberi. Inoltre il «pareggiamento» delle scuole libere, condizione per erogare titoli equiparati a quelli statali, era regolamentato da norme restrittive e obbligava all’omologazione con il sistema statale. Come denunciò il vercellese: «A chiunque si muova fuori dell’orbita degli studi segnata dal Governo, è chiuso irrevocabilmente l’adito alle professioni liberali; potrà procacciarsi una coltura scientifica e letteraria ampia ed eletta per quanto si voglia, ma prima pur sempre di un carattere pubblico e legale, e ridotta ad un puro ornamento dell’animo e nulla più»432. A. leggeva bene la situazione della concorrenza tra scuole statali e non statali. La Talamanca, riprendendo il dibattito parlamentare su tali argomenti, fa notare come le scuole private cattoliche avessero un numero maggiore di studenti rispetto a quelle statali. Cita il senatore Menabrea che nel maggio del 1872 fa notare come sui 4136 studenti che avevano sostenuto la licenza liceale, ben 2670 provenivano da scuole private e seminari433. Ma come dimostrano le vicende successive, il sistema nato dalla Casati avrebbe portato, come denunciato dall’A., all’assottigliamento delle scuole private. Sulla volontà del governo di attuare la libertà d’insegnamento è particolarmente significativo un breve saggio dal titolo: L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da A.434. Il testo non riporta la data di pubblicazione, ma si può desumere da alcuni brani che sia stato dato alle stampe nel 1899. A. critica nel testo della legge una profonda ipocrisia. Da una parte si affermava il principio dell’autonomia, ma nei fatti esso rimaneva un flatus vocis, in quanto veniva contraddetto dal resto della legge. Infatti il progetto non segnava i limiti della “vigilanza” governativa; sanciva che i confini dell’autonomia sarebbero stati in seguito definiti dal Consiglio Superiore e dal Consiglio di Stato (senza contrattazione con gli atenei); affermava che la nascita di nuove Università, Istituti o Scuole d'istruzione superiore, o di Facoltà poteva avvenire esclusivamente per decreto; attribuiva al Ministero il potere di respingere le 431 G. A., Opuscoli pedagogici, Talamanca, La scuola tra Stato e Chiesa dopo l’Unità, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità, cit., vol. I, p. 365. 434G. A., L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da A., proposte di nomina o di conferma dei professi ordinari e straordinari avanzate dalle Università. In questo modo, ironizza A., «il Governo lascia alle Università il governarsi da sé, purché si governino a modo suo»435. Il pedagogista guarda così al modello medioevale, tornando a contestare l’idea secondo cui gli istituti nascano per legge e non dalla libera associazione. Conclude citando Villari, correlando la mancanza di autonomia con la crisi dell’Università437. Un altro aspetto che A. considerava illiberale e nefasto era il controllo dei libri di testo, con cui il Ministero poteva indirizzare politicamente e culturalmente l’insegnamento. Lo stesso pedagogista pubblicò un pamphlet nel quale difese un saggio di un professore siciliano438 che, stando alla sua narrazione, incorse ingiustamente nella censura ministeriale439 a motivo del suo orientamento filo cattolico440. 435 7. 436 «Seguendo l'ordine numerico del disegno di legge, passiamo all'art. 3 che suona cosi: “La creazione di nuove Università, Istituti o Scuole d'istruzione superiore, o di loro Facoltà o sezioni, non potrà avvenire se non per legge”. Anche qui abbiamo un segno del tempo. Sentendo proclamare l'autonomia degli Istituti scolastici superiori, il nostro pensiero corre spontaneo alle gloriose Università medioevali, che sorsero e fiorirono non per decreti di Stato, ma per libero valore di insigni maestri, di studiosi discepoli, di privali cittadini, fervidi amatori della scienza, e ci immaginiamo di essere ritornati a quo' felici tempi di scolastica libertà. Illusione! A nessuno si concede di creare nuove Università, o facoltà universitarie, o Scuole d'istruzione superiore senza il placet regio o parlamentare. Non si osa proclamare francamente e incisamente il principio, già sancito dal Belgio coll'articolo della sua Costituzione: “L'insegnamento è libero; ogni misura preventiva è vietata”» «Io potrei proseguire più oltre la mia critica, ma dalle poche considerazioni, clic sono venuto fin qui esponendo, emerge, per quel che a me ne pare, la conclusione, clic la proposta autonomia è irretita fra tali e tante strettoie da essere ridotta ad una vana parvenza, mentre la vigilanza dello Stato non ha confini, che la circoscrivano, non ha norme, da cui sia vincolata. 11 segnare i giusti limiti della vigilanza governativa, non è qui luogo da ciò: questo solo panni di potere ragionevolmente affermare, che questo disegno di legge conferisce al Governo poteri assolutamente inconciliabili colla autonomia universitaria veramente intera. Qualche anno fa Pasquale Villari scriveva: “Colle libertà, eolie nuove leggi, regolamenti e mutamenti, con nuovi professori italiani e stranieri, noi non siamo ancora riusciti a far nascere nelle nostre Università una vera vita scientifica: esse non rispondono all'aspettazione giustissima del paese. E perché, dimando io? Perché il Ministero arrogandosi il diritto supremo ed assoluto della pubblica istruzione ed educazione, ha governato a sua posta le Università invece di mostrarsi ossequente alla legge non mai abolita, informata ai più larghi o giusti principii di libertà /in nota cita il libro di Martelli, La decadenza dell’Università italiana”» Si tratta del libro di G.B. Santangelo, La Famiglia e la Scuola, letture proposte alle allieve delle classi femminili, esercizi fondamentali di lettura, scrittura e calcolo per le bambine, Palermo, Amenta, A., Clericalismo e liberalismo, ossia i libri di lettura del prof. Santangelo censurati dal Ministero della Istruzione pubblica e difesi da A., Palermo, Tip. delle letture domenicali, Nella relazione del Ministro in cui si valutava negativamente il testo difeso dall’A., si accusava il libro di un certo «odore di sagrestia». A tale accusa, lo studioso piemontese replicò: «Ah finalmente ecco qui la chiave omerica, che apre l’arcano di una critica spigolistra, permalosa, assassina! L’Autore per ragione pedagogica e per debito di programma ha qua e là nei suoi libri (e non dalla prima all’ultima parola, come, bugiardamente asserisce il Relatore) parlato di Dio e delle cose sante: dunque giù botte da orbo sulla sua mal battezzata cervice! In verità addolora il vedere il Ministero suggellare coll’autorità sua il giudizio di chi parla un linguaggio tanto plateale e lacera il primo articolo dello Statuto fondamentale del Regno e l’articolo della vigente legge organica della pubblica istruzione! Ma già il sentimento religioso è puzza di sagrestia, che ammorba e va proscritto in nome della nuova Igiene! L’Ermenegarda morente del Manzoni sclamava: “Parlatemi di Dio, sento ch’ei giunge”: il moderno epicureo grida: Non parlatemi di Dio, sento che mi si guasta la digestione. Se il Santangelo fosse stato un prete spretato, che avesse gettato il tricorno alle ortiche, o  L’unico momento in cui sembrò potersi fermare la parabola monopolistica, fu la nomina a Ministro dell’istruzione del senatore palermitano Perez. Il neoministro mostrò la volontà di mettere mano ad una riforma della scuola volta a difendere il principio della libertà d’insegnamento. L’A. prese subito le difese del Ministro in un articolo pubblicato nella Gazzetta piemontese e stese il saggio La riforma dell’educazione moderna mediante la Riforma dello Stato, che trovò l’apprezzamento del neoministro. Gerini documenta come Perez avesse l'intenzione di chiamare A. stabilmente al Ministero, con lo scopo di redigere una riforma della scuola e dell’Università incentrata sulla libertà d’insegnamento e contraria alla deriva monopolistica intrapresa dai suoi predecessori442. L’A. fu infatti presto coinvolto nella compilazione di un nuovo Regolamento per la licenza liceale in sostituzione di quello precedente definito dal ministero Correnti. Il nuovo regolamento, nel quale A. ebbe «non poca e vivissima parte, intendeva ricondurre gli esami di licenza liceale alla loro «primiera forma legale, allorquando l'alunno privato si presentava a sostenerli presso qualunque pubblico liceo dello Stato e senz'obbligo dell'attestato di licenza ginnasiale e del percorso triennio. Il suo scopo era quello di restituire più ampia libertà agli studenti delle scuole non statal. Il pedagogista documentò nel saggio sulla legge Casati come il testo trovò il consenso della maggior parte dei provveditori e dei presidi sui quali era stato fatto un sondaggio preliminare. Ma il progetto suscitò anche numerose polemiche. Accusato dagli ambienti liberal-democratici di voler favorire la scuola libera (e quella cattolica in specie), a pochi mesi dal suo insediamento, Perez dovette abbandonare il un frate sfratato, che avesse bruciato il convento per andare a godersi la vita, i suoi libri avrebbero incontrato ben altro giudice ed altro mecenate» in A., Clericalismo e liberalismo, ossia i libri di lettura del prof. G. B. Santangelo, In un autografo il Ministro scrisse ad A. «...m’accorgo come Ella sia fra quei pochi cui non travolge la mente l’idolatria dello Stato onnipotente e onnisciente» in A. Consorte, Scuola e Stato in A., Gerini, La mente d’A., A., La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, Così il professore piemontese sintetizza i punti salienti del Regolamento: «Gli articoli più sostanziali di esso Regolamento, che avrebbero radicalmente mutato l'attuale sistema degli esami di licenza, sono: il quinto, che restringe l'esame sulle materie nei limiti, in cui esse furono svolte nel terzo anno, quando si siano superati gli esami di promozione dei due primi anni; il settimo, che lascia libero il candidato privato di iscriversi presso qualunque pubblico liceo del Regno; il nono, che lo proscioglie dall'obbligo dell'attestato di licenza ginnasiale e del percorso triennio; il dodicesimo, che incarica i professori liceali della preparazione di temi per le prove scritte, ed inchiude l'abolizione della Giunta centrale. Eppure quel regolamento era un semplice richiamo alla legge Casati: si intendeva di ricondurre gli esami d licenza liceale alla loro primiera forma legale, allorquando l'alunno privato si presentava a sostenerli presso qualunque pubblico liceo dello Stato e senz'obbligo dell'attestato di licenza ginnasiale e del percorso triennio. E se ne fece una questione di clericalismo, mentre era una questione di legalità. dicastero. Il caso sembra confermare quanto annotato da Limiti: «Il problema della scuola privata sembra essere fatale per la sorte di taluni ministri della Pubblica Istruzione e qualche volta per la sorte degli stessi governi!»449. Sebbene impossibilitato ad incidere effettivamente negli indirizzi della scuola, la sua collaborazione con il Ministero continuò negli anni seguenti. Come ricorda Prellezo: « esprime il suo parere sui programmi delle Scuole normali; nel 1885 viene incaricato dal Ministro Coppino dell’ispezione delle Scuole normali del Piemonte e della Liguria; lo stesso Ministro Coppino lo chiama a far parte della Commissione reale per il riordinamento della scuola popolare. Molto più duro fu il rapporto con il Ministro Paolo Boselli, che guidò la Minerva durante i due primi governi Crispi. Qualche mese dopo il suo insediamento, A. criticò Boselli a motivo della censura di un testo già citato. Questo iniziale contrasto probabilmente convinse il pedagogista piemontese, chiamato a far parte della commissione presieduta da Villari per stendere i nuovi programmi delle scuole elementari, a non partecipare a buona parte delle sedute. Pesò probabilmente la convinzione di rappresentare un’esigua minoranza all’interno della commissione, formata in larga maggioranza da studiosi di area laicista e positivista. Qualche tempo dopo l’A. attaccò più severamente il Ministro con il pamphlet dal titolo Lo Stato educatore ed il ministro Boselli452. Si tratta di un saggio con toni molto 448Così commentò l’A.: «Il Ministro Perez, rara avis, ritornando al concetto della legge arditamente si accingeva a spastoiare le scuole private ed a redimere gli istituti governativi da quel formalismo artifiziato e da quel enciclopedismo, che insieme congiuravano a sciupare gl’intelletti giovanili e sfibrare i caratteri. Ma il dio Stato colpiva a mezzo del lavoro la mano ribelle del suo Ministro. La genìa burocratica con ignobili e subdole manovre, la stampa liberalesca con una critica sleale ed assassina lo precipitarono ben presto di seggio miterandolo da clericale! Come avevano adoprato alcuni anni prima verso il Ministro Berti, propugnatore sincero di libertà» in A., Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, 4. 449G. Limiti, Momenti e motivi della legislazione sulla scuola non statale in Italia, in S. Valitutti, Scuola pubblica e scuola privata, Bari, Laterza. Prellezo, A. negli scritti pedagogici salesiani. Introducendo il lavoro A. denuncia: «Questa turba liberalesca altro non vede e non adora che se medesima, e va gridando: l’Italia siamo noi, noi siamo il patriottismo, la libertà, la Costituzione, lo Stato: chiunque non ci appartiene è nemico della patria, chi non è con noi, è contro di noi. Sì, i clericali sono contro di voi, perché i nemici della patria siete voi, voi i demolitori delle franchigie costituzionali e della indipendenza politica, gli oppressori della libera attività dei privati cittadini. Oh benedette rimembranze del 1848, allorchè si vagheggiava, anelando, un ideale di unità e di floridezza sociale, di dignità e di indipendenza nazionale, di vera e larga libertà politica e civile, sorretta dalla religiosità e dall’integrità del costume! In omaggio a quell’ideale languivano nelle carceri del dispotismo austriaco o cadevano decapitati sul palco i martiri italiani; cimentavano sui campi lombardi la vita contro gli stranieri i prodi. Orta quel santo ideale conquistato con inauditi sacrifici di sangue e di danaro, è buttato nel fango da una turba di affamati, di ambiziosi e di settarii» in G. A., Clericalismo e LIBERALISMO, ossia i libri di lettura di Santangelo censurati dal Ministero della Istruzione pubblica e difesi da A.. Solo la prima parte del saggio, intitolata Lo Stato educatore, è stata ripubblicata in G. A., Opuscoli pedagogici. aspri, ma composto da critiche precise e circostanziate come è stato notato da Bonghi. Nel saggio ribadì le accuse al sistema statolatrico italiano e stigmatizzò una serie di provvedimenti emanati dal Ministro: criticò il decreto il quale prescriveva che, per le sole scuole statali, la licenza elementare fosse titolo sufficiente per l’ammissione alla prima classe del ginnasio e della scuola tecnica; contestò la circolare dell’8 agosto 1889 con cui, in mancanza di maestri legalmente abilitati, dava la possibilità ai militari congedati che avevano superato l'esame prescritto per gli aspiranti sergenti, di insegnare nelle scuole assicurando la metà della copertura con fondi ministeriale, al contrario di quanto avveniva per gli altri insegnanti; protestò contro una circolare ministeriale nella quale, a dispetto dell’art. della legge Casati, s’impediva ai parroci di presiedere gli esami di istruzione religiosa; recriminò che il corso di pedagogia non risultasse tra i corsi obbligatori per il conseguimento della laurea in Lettere e Filosofia454. Criticò, inoltre, i toni di una circolare finalizzata al riordino degli Orfanotrofi e dei Conservatorii e stigmatizzò la «faziosità» con cui il Ministro gestì i trasferimenti tra le diverse Università per influenzare le vicende concorsuali. Questi elementi condussero A. a tacciare Boselli di «cesarismo scolastico». In conclusione avanzò una proposta provocatoria e risoluta: «Delenda Carthago. Il ministero della pubblica istruzione va annullato. La proposta dell'abolizione del dicastero, peraltro avanzata già in Parlamento dal deputato libertario e socialista Morelli, non rappresentava in effetti agli occhi di A. la condizione ideale per il governo dell’istruzione pubblica, ma costituiva la fatale soluzione alla «metastasi statalista» che soffocava la scuola italiana. Confermò le stesse posizioni in un 453 Commentando il saggio, il Bonghi osserva: «L’A. è professore di pedagogia come tutti sanno, e tanto ha scritto della scienza che professa, e posto molta cura a’ problemi, che vi si trattano, da meritare, di certo, che un suo studio sulla materia dell’educazione, teorica e pratica, non passi inosservato. Quello che annunciamo, è diviso in due parti. Nella prima tratta la questione se e quale parte spetti allo Stato nell’educazione; e viene alla conclusione media e vera, che la suprema autorità scolastica risiede nella famiglia, e allo Stato spetta un ufficio complementare e di vigilanza. La seconda è una critica minuta – e talvolta, il che non è bene, acre – della condotta dell’attuale ministro di Pubblica Istruzione. Né si può negare che una buona parte dele osservazioni sia giusta, e a ogni modo consigliamo il ministro di darvi peso, e non immaginarsi, che, prima o dopo, non ne avranno. Soprattutto le considerazioni intorno al concetto e alla condizione dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari, come appaiono nelle più recenti circolari del ministro, ci paion degne ch’egli vi rivolga la sua attenzione» R. Bonghi, Idee di A. circa la libertà d’insegnamento, Sullo stesso tema il pedagogista aveva già scritto un pamphlet: A., Il ministro Coppino e la pedagogia, Torino, Borgarelli, A., Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, Concludendo il saggio A. ricorda la sua fedeltà alle istituzioni dello Stato Italiano: «Pubblicando questo lavoro io non ho inteso di venir meno ala ragionevole riverenza dovuta all'autorità ministeriale; e ne fa prova manifesta il rispetto, che io professo sincero per le leggi dello Stato, per le patrie istituzioni, per le franchigie costituzionali, per la nazionale indipendenza. Ho censurato gli atti governativi adoperando quella crudezza di forma, che risponde alla gravità del male, esercitando un diritto, che lo Statuto conferisce ad ogni libero cittadino, adempiendo un dovere impostomi dalla carità del loco natio e dalla coscienza del mio mandato. Ho parlato il linguaggio dei fatti; ed i fatti li smentisca chi può, li riconosca chi deve.  articolo intitolato Salviamo la scuola!, nel quale dopo essersi soffermato sulle storture della scuola statale e sul suo ordinamento illiberale ritornò a prospettare la soppressione del Ministero. Un attacco così diretto non restò senza conseguenze. All’opuscolo del pedagogista replicò infatti un libretto anonimo intitolato Lo Stato educatore – botte di un educatore – risposte di un educato458 che, stando al Gerini, sarebbe stato redatto negli uffici del ministero. La risposta alle critiche è non solo pungente quanto, del resto, le denunce d’A., ma scade a livello di attacco personale. Oltre a difendere ogni singolo provvedimento annotato dallo studioso vercellese, l’autore si abbandona alla denigrazione della sua attività didattica e scientifica: «Ha una famiglia pedagogica A.? No. E la ragione è una sola, ed è naturale e chiara, non si può dar famiglia senza amore. Omnia vincit amor. Ma l’A. non ha amore, se non verso sé medesimo. Il sentimento che noi scorgiamo nel prof. A. non è, no, mal volere; è piuttosto un affetto immoderato che lo muove a far troppo di sé centro a sé stesso; talmente che egli rende, senza forse accorgersene, l’immagine dantesca di cosa che sé in sé rigiri; e rigirandosi, egli nella sua vaga visione si esalta così, che gli par di poggiare su, ad un punto superiore a quello di chi nella scala sociale e nella realtà dei fatti è più alto di lui»460. L’acida polemica continuò con un ulteriore passaggio in una replica d’A. nel breve saggio: Risposte di un educato: un educato. Fin dalla prima pagina lo scritto era poco conciliativo, sia nel difendere le sue tesi sia nel contestare le accuse, così chiosando ironicamente lo statalismo ministeriale: «Beati i popoli (ripiglio io), retti da un governo così raccolto ne’ suoi giusti confini, così ossequiante alle leggi ed ordinato in ogni atto suo, così alieno dallo esclusivismo e tanto rispettoso della libera attività de’ cittadini All'educazione nazionale peggior ventura che quella del Ministero di Boselli non è toccata mai. Il dilemma si affaccia irrevocabile. Delenda Carthago! L’abolizione del Ministero di pubblica istruzione si impone imperioso, urgente, indeclinabile. La salute della nostra grande ammalata, che è la scuola, è a questo prezzo. Per questa via sola si giunge a smantellare la roccia della vastissima setta, che impera sovrana alla Minerva. Dacchè il parlamentarismo rasenta la bancarotta, può ben far senza di un Ministero, liberandoci da quella smania di legiferare, da quel subisso di leggi e regolamenti e decreti e circolari scolastiche, che intralciano il regolare processo della pubblica istruzione e comprimono la libertà degli studi» Salviamo la scuola! in «La libertà d’insegnamento. Bollettino trimestrale della “Unione pro Schola Libera”», Torino, Tip. S.A.I.D. Lo Stato educatore – botte di un educatore – risposte di un educato, Roma, Stabilimento Civelli. segnatamente nel campo pedagogico, che alla famiglia non venga impedito di comporsi nell’ordine suo ed adempiere la sua missione educatrice. Torna a criticare Boselli sulle pagine de Il nuovo Risorgimento. Alle accuse precedenti ne aggiunse altre come quelle circa l’ingerenza della Minerva sulla scuola dell’infanzia, la nomina di un impiegato di biblioteca ad ispettore scolastico di prima classe, e il fatto che «il ministro Boselli con una sua ordinanza deferiva l’anno scorso alle singole Commissioni esaminatrici la proposta dei temi per le prove scritte della licenza liceale, offendendo l’articolo  del R. regolamento allora vigente. Si trattava secondo l’A. della persistenza di una serie di «abusi del potere esecutivo», in cui scorgeva il tradimento dello Stato di diritto e della libertà: L’Italia è tutta infesta da una turba di pseudo-liberali, che la libertà fanno strumento di servitù, e della patria, delle franchigie costituzionali, delle leggi dello Stato si fanno sgabello per salire in alto sitisbondo di dominio e di oro, corrompendo il pubblico costume e le istituzioni politiche e civili della nazione»464. Un altro episodio che segnò lo scontro con la Minerva, risale al pensionamento di A., quando il dicastero era guidato dall’onorevole Credaro. Il pedagogista, ormai anziano e con poche forze, chiese al Ministero che gli affidasse un sostituto. La Facoltà nominò il pedagogista Romano, «ex» spiritualista e cattolico convertito al positivismo. Lo studioso era già stato bocciato in una serie di concorsi per conseguire la libera docenza a Torino, Milano, Palermo e Bologna. A Catania addirittura tutti e cinque membri della commissione esaminatrice diedero esito negativo. La nomina di un candidato simile come suo supplente, peraltro agli antipodi rispetto alla sua linea pedagogica, portò l’A. a prendere dura posizione contro la Facoltà e il preside Vidari, e poi a chiedere di andare definitivamente in pensione, per impedire al Romano di insegnare sulla sua cattedra. Raccogliendo una serie di articoli apparsi su giornali e riviste come Italia Reale, L’Unione di Vercelli, Il Momento, Il Corriere d’Italia, I diritti della scuola Studium, fu pubblicato un pamphlet sulla vicenda. Furono inserite anche due lettere inviate da A. a due di queste riviste come ringraziamento della solidarietà dimostrata, e un piccolo scritto dallo stesso pedagogista in cui chiariva ulteriormente i contorni della vicenda. La posizione di A. sulla vicenda è molto significativa: G. A., Un educato anonimo, Torino, Tip. Subalpina, A., Boselli e la legge, «Il nuovo Risorgimento. A. e la sua cattedra, Torino, Tip. S, Giuseppe degli artigianelli. emergono sia un vivo attaccamento all’impegno pedagogico e magistrale466, ma anche forti dissidi con l’ambiente universitario. Nelle sue ricostruzioni A. attribuì a Vidari, allora preside della Facoltà di Lettere e Filosofia di Torino, la responsabilità dello smacco subito, collegando l’appoggio da parte del preside del Romano e un generale poco rispetto dimostrato anche con altri episodi, in virtù della sua aderenza ai principi spiritualisti e alla sua fede. Un altro testo in cui attacca il Ministero è il testo Del realismo in pedagogia, nel quale contesta le posizioni espresse da SANCTIS (vedasi) in uno scritto pubblicato ne la «Gazzetta letteraria di Torino», in cui lo statista napoletano sosteneva come la classe magistrale dovesse ispirarsi ad un realismo di impronta pragmatista. A. è invece convinto che l’anima della scuola poteva essere un solido ideale umano. Senza valori certi,  Si tratta di una lettera inviata a l’Unione di Vercelli, per ringraziare delle parole in sua difesa. Scrisse: «Io non sono più maestro. Non è la morte, che mi abbia rapito alla cattedra, ma è qualche cosa di peggio. In questi ultimi anni la mia vita universitaria fu amareggiata da grandi dolori. Pur tuttavia avrei continuato nel mio insegnamento; ma quando mi si volle imposto per supplente un rifiuto di tutti i concorsi universitari, a cui egli si è presentato, esclamai: Basta così; e mi ritirai nel santuario della vita privata, abbandonando alla dimenticanza ed all’oblio quei tra infelici che malignavano sulla mia persona. Abbandono con certo qual rammarico la cattedra, che per più di cinquant’anni mi fu cara compagna di lotta del pensiero, nella conquista della verità, e vedendo scomparire a me d’intorno quella folla sempre nuova di giovani studiosi che nel volgere degi anni veniva ad ascoltare la mia povera parola, mi pare quasi che la mia vita si spenga nell’isolamento. No, non si spegne, ma semplicemente si trasforma. Veggo che la mia più che attuagenaria esistenza volge al tramonto, ma io mi esalto pensando al Divino Maestro, al Pedagogo eterno, al Verbo vivente, al Redentore dell’umanità. Dopo aver accennato i concorsi falliti da Romano, A. commenta l’ultimo a Catania «quest’ultimo poi gli fu veramente disastroso, non avendo riportato nemmeno un voto favorevole. Tanto è che coloro stessi fra i miei colleghi che per lo passato lo avevano sempre protetto e difeso a spada tratta, in faccia a quel disastro esclamarono: È un uomo liquidato! Ma che? Questi medesimi lo proposero per mio supplente e poi riuscirono ad insediarlo sulla Cattedra di Pedagogia da me lasciata vacante. Viva la libertà del dire e del disdire! Il Romano deve il presente suo splendido successo a Vidari, il quale rifiutando di interpellarmi intorno la scelta del mio supplente, sostenne in Consiglio di Facoltà insieme con sei altri professori presenti all’adunanza (senza contare tre altri, che diedero voto contrario) che fosse proposto il libero docente, fallito in tutti i concorsi universitari di pedagogia specie in quel disastroso di Catania. A. riporta nello scritto un brano di una lettera uffficiale scritta da Vidari in occasione delle sue dimissioni, e così la lo commenta: Egli mi rivolse un saluto perché abbandoni l’Università, ma non aggiunge sillaba, che esprima il menomo rincrescimento di aver perduto in me un collega, e quando presentai le mie dimissioni non mi ha significato il menomono desiderio che fossero ritirate. L’augurio anche’esso mi sa di forte agrume. Che nel placido riposo io possa lungamente deliziarmi nei prediletti miei studi? – Ma questi cari miei studi prendono forma e vita dalla pedagogia italiana tradizionale fondata sul teismo cristiano. Ora questa pedagogia l’avete cacciata via dalla mia Cattedra per fare luogo alla dottrina razionalistica del mio supplente, sicché l’augurio a me rivolto viene a tradursi in questi termini: Deliziati senza fine negli studi tuoi, ma non qui in queste aule universitarie in mezzo a noi e nella realtà della vita sociale, ma in mezzo alle mi- stiche regioni del soprannaturale, nelle sedi beate dei Campo elisi conversando cogli spiriti magni di Aporti e Rayneri. Sì, io serberà sempre viva la mia ragione filosofica sorretta dalla fede religiosa in Cristo; ma voi vi vantate razionalisti e calpestate la scienza collocando sulla cattedra chi non la possiede; voi esaltate la libertà del pensiero, e v’inchinate a tutte le dottrine, fossero pur dissolventi e scettiche: soltanto il pensiero cristiano non trova grazia presso di voi. A., Del realismo in pedagogia, Torino, Roux e Favale, 1878 inserito in Id., Opuscoli pedagogici, si sarebbero abbandonate le giovani generazioni a progetti e prospettive volgarmente materiali e pragmatiste, condannandole all’alienazione. La battaglia d’A. in favore della libertà d’insegnamento si tradusse – per quanto egli fosse già avanti negli anni – nel sostegno alla fondazione, nel 1907, dell’associazione «Unione pro schola libera. Società nazionale per la libertà d’insegnamento», fermamente voluta da Piovano e da Bettazzi, finalizzata diffondere le ragioni della libertà scolastica, contro lo statalismo e i suoi fautori. A. è scelto come presidente generale effettivo, carica che ricoprì solo per un anno, dopo il quale si allontana progressivamente dal nucleo direttivo e organizzativo dell’associazione, a cui continuarono a legarlo comunque lo spirito e le motivazioni di fondo. Inizia ad essere pubblicato anche il Bollettino dell’associazione, La libertà d’insegnamento, un trimestrale a diffusione nazionale pubblicato inizialmente in circa tremila copie. La nascita e l’attività del sodalizio ebbero notevole risonanza contribuendo a vivificare il dibattito sulla libertà scolastica che stava registrando in quegli anni una notevole ripresa. In un convegno svoltosi a Genova, dal titolo Istruzione ed educazione cristiana del popolo italiano gli eredi dell’Opera dei Congressi, confluiti nelle Unioni Cattoliche, lodarono l’iniziativa d’A. e nella seconda delle tre risoluzioni fu sancito uno stretto rapporto con l’Unione torinese. La Civiltà Cattolica – che a lungo aveva praticamente ignorato le tesi d’A. – dedicò al Convegno un articolo, riportando le conclusioni dell’assise cattolica ed encomiando l’operato dell’A. e dell’«Unione pro schola libera. Appaiono significative le affermazioni conclusive dell’articolo, nel quale si celebrano affianco agli allievi i più importanti rappresentanti del cattolicesimo liberale francese. G. Chiosso, La stampa pedagogica e scolastica in Italia. Chiosso, Gentile, i cattolici e la libertà di insegnamento nei primi anni del Novecento, in G. Spadafora (ed.), Gentile. La pedagogia, la scuola, Roma, Armando. Nella seconda delle tre risoluzioni fu scritto che il Congresso «Plaude all’Unione pro schola libera sorta in Torino sotto gli auspici del venerando prof. A., e a tutte le altre istituzioni aventi lo scopo di tutelare i diritti dell’insegnamento libero; Fa voti che l’azione in favore della scuola libera sia efficacemente coadiuvata dai padri di famiglia, dagli insegnanti degli istituti privati e specialmente dall’azione illuminatrice della stampa quotidiana; Delibera di affidare all’Unione stessa l’incarico di studiare ed attuare quei mezzi pratici, che valgano a salvare quanto resta ancora di libertà d’insegnamento nella vigente legislazione e di ottenere dai pubblici poteri quegli immediati temperamenti, che servano a sopprimere le più odiose disposizioni regolamentari contro l’insegnamento privato» Il congresso cattolico di Genova, La Civiltà Cattolica, quaderno. Scrive l’autore dell’articolo: Dopo queste semplici osservazioni intorno alla prima risoluzione, lasciamo ai lettori di apprezzare l’importanza della seconda risoluzione del congresso; in cui si traggono con un senno pratico degno di ogni encomio, le conseguenze legittime del principio fissato nella prima. Quale campo fecondo di attività, non meno benefica che urgente nelle singole deliberazioni di questa seconda Èa partire da questo periodo che il pensiero pedagogico del pedagogista vercellese iniziò a essere apprezzato e diffuso anche al di fuori del circuito del cattolicesimo liberale. Lo confermano una serie di articoli pubblicati sulla «Civiltà Cattolica, l’attenzione delle «Rivista di Filosofia neoscolastic, i meriti riconosciutigli da Meda, e un celebre saggio di Monti, La libertà della scuola in cui si trovano citati gli scritti d’A. e si ricordano le sue battaglie scolastiche. Nel frattempo A.aveva lasciato questo mondo.  risoluzione! Le ponderino attentamente i cattolici italiani; i giornalisti, i conferenzieri e gli stessi sacerdoti, in Chiesa e fuori di Chiesa, ne facciano il soggetto del loro apostolato, finché il popolo se ne impossessi e ne sappia fare buon uso specialmente in tempo di elezioni: da ciò dipende la salvezza della gioventù e della patria! Noi ne siamo sì profondamente persuasi, che non possiamo fare a meno di mandare da queste pagine un saluto e un augurio solenne all’Unione pro schola libera di Torino e al suo venerando presidente  A., il più illustre pedagogista che oggi vanti l’Italia, degno rappresentante delle tradizioni filosofiche ed educative veramente italiane; la cui fama è pur troppo assai inferiore al merito, perché ingiustamente eclissata dal predominio del positivismo anglo – sassone e teutonico negli atenei e nelle scuole normali del regno. Possa il suo nome tramandarsi ai posteri con quelli di Montalembert, di Falloux e di Dupanloup per la Francia, come simbolo della conquistata libertà d’insegnamento per l’Italia!” Il congresso cattolico di Genova. In tre articoli pubblicati sulla pedagogia contemporanea sono citate le opere di A. e le sue critiche al positivismo. Cfr: Linee di pedagogia moderna, cFinalità educative, quaderno; L’opera educativa positivista, quaderno; Cannella, Opuscoli pedagogici inediti ed editi di Giuseppe A., cMeda, Universitari cattolici italiani, Monti, La libertà della scuola, principi, storia, legislazione comparata, Milano, Vita e Pensiero. Antropologia e di pedagogia nell'Università di Torino Torino,Carlo,Clausen. In un'opera assai importante pubblicata dall'illustre prof. A., della quale ho a suo tempo discorso in questa autorevole Rivista,leggeşi un capitolo inscritto: Prime origini dei problemi psico. fisiologici,checontieneingermelamateria della presente memoria, la quale richiama a sè l'attenzione di tutti coloro che s'interessano dei più gravi problemi della scienza antropologica. Pigliando le mosse dall'origine storica e psicologica dell'Antropo logia,dellaqualedeterminapurei limiti,l’A.poneinsodo ilVero, l'incerto e l'ignoto di questa disciplina, per dichiarare quindi l'ana. logia tra il mondo esteriore della natura ed il mondo interiore dell'anima. Ma se il mondo esterno ed il mondo psicologico interiore si rispecchiano e si rassomigliano sotto certi riguardi, tra l'anima ed il corpo nell'uomo, intercedono analogie assai più intime, spiccate e na• turali, intorno alle quali si trattiene a lungo l'Al. Ora uno dei più cospicui punti di corrispondenza tra l'anima ed il corpo si manifesta nel parallelismo di sviluppo attraverso le successive età della vita umana: parallelismo però, che non è nè assoluto, nè continuato,tanto meno poi un'identità. Un'altra corrispondenza è quella che intercede tra la mente sada ed il corpo sano, tra le malattie dell'anima o quelle del corpo. L'A. Studi antropologici– L'uomo ed il Cosmo Unvol. in 8gr. circa Torino Tipogr. Subalpina editrice.  Psicologia. Studi psico-fisiologici. Memoria di A., professore BOLLETTINO PEDAGOGICO E FILOSOFICO. ripone la sanità della mente nell'armonico e regolare sviluppo della medesima, e la sanità del corpo, nell'equilibrio operoso delle funzioni fisiologiche. Conseguentemente distingue una duplice specie d'igiene, di patologia e di terapeutica, corrispondenti alle due sostanze componenti l'essere umano. Anche i duestati della veglia e del sonno si corrispondono fra di loro, essendochè su ciascuno di essi le potenze dell'anima e le funzioni dell'organismo si mostrano sotto forme speciali edana. loghe. Lo spirito poi ed il corpo in tutto ilcorso ascensivo del loro perfezionamento si prestano vicendevoli uffici, poichè lo spirito deve ai sensi esterni la prima conoscenza del mondo sensibile corporeo; a LA PAROLA, che è un SEGNO SENSIBILE ordinato ad esprimere un intelligibile, lo svilnppo del suo pensiero; alla mano (nella cui struttura Elvezio non dubita di riporre la superiorità dell'uomo sul bruto) lo strumento della sua attività artistica e morale. Lo spirito alla sua volta ricambia dei suoi servigi ilcorpo,inpalzandolo alla dignità prco pria della persona umana,e conferendogli virtù singolari,assai supe jiori alla sua costitutiva essenza. Iofatti il corpo umano, informato dalla mente che lo governa, è reso capace di compiere azioni a cui non arrivano i corpi dei bruti, sia che venga riguardato nell'intiera compagine del suo organismo, sia che lo si consideri nella speciale struttura delle sue parti e nelle funzioni de'suoi sensi particolari. A questo punto l'A. richiama ad un'ordinata rassegna la molteplice varietà dei fenomeni, che si svol gono nell'interiorità del nostro essere, e che forniscono argomento di una specialedisciplina,lapsico-fisiologia,dellaqualetraccialelinee generali, non senza avvertire che di essa ai nostri tempitrovansicenai nelSaggio sui'principiiedilimitidellascienzadeirapportidelfisico e del morale del Cerice, e più ancora nei Principi generali di psico login fisiologica di Lotze. La scienza psico-fisiologica, dice l'A.,suppone come sua condizione la psicologia e la fisiologia e facendo tesoro delle cognizioni che le ammannisce l'unaintorno all'anima umana,l'altra intornoall'organismo corporeo,s'innalza a studiare ilsupremo principio generatore di tutti i fenomeni della vita umana che forma il problema fondamentale di tale disciplina.Ilquale può ricevere due soluzioni principali, secondo che ilprincipio generatore di tutti ifenomeni riponsi in una sostanza o nei fenomeni stessi. Nel primo caso abbiamo il dinamismo; nel secondo il fenomenismo. Il primo può essere mono-dinamismo, se riconduce tutti i fenomeni umani ad una sola sostanza, la quale potendo essere o l'anima od il corpo, bipartisce il mono-dinamismo in animismo e materialismo: duo-dinamismo se pone una differenza essenziale tra ifenomeni mentali ed i fisiologici. Il fenomenismo si bipartisce pure, potendo essere dualistico od e voluzionistico, secondo che riconosce una linea di distinzione trai due ordini di fenomeni, ovvero sostiene che sitrasformano gli uni ne gli altri. A. esamina con singolare lucidezza di pensiero e grande chiarezza d'esposizione queste diverse classi di sistemi psico-fisiologici, considerandoli nei loro più noti rappresentanti; ed è degno di consi derazione l'esame della dottrina di Serbatti su questo punto. Venendo allo scioglimento del problema,vuolsi distinguere il duodinamismo esclusivo dal temperato. Ora se il primo non risolve il problema perchè separa l'uno dall'altro idue principii costitutivi dell'uomo, per guisa chel'anima razionale è causa unica essa sola di tutti e soli i fenomeni mentali e non interviene per nulla nella produzione dei fenomeni fisio logici ed animali, il principio vitale poi è esso solo il generatore dei fenomeni della vita corporea e mantiensi affatto estraneo ai fenomeni mentali; il secondo pel contrario siccome quello che mantiene distinti i due principii costuitutivi dell'uomo, e riconosce ad un tempo la loro vicendevole influenza, talch è i fenomeni mentali si compenetrano coi fenomeni animali e si condizionano a vicenda, dà un'equa soluzione al problema. a Cosi, conclude l’A., il concetto della personalità umana, vale a dire di un soggetto sostanziale fornito d'intelligenza e di libera volontà, è il solo,che conciliila molteplicità dei fenomeni coll'unità delloro umano soggetto, sicchè questi due termini nello sviluppo della vita umana, si mantengono indiegiungibili, e si rischiarano l'un l'altro. Su questo concetto si fonda appunto la notissima divisione della psi cologia in empirica e razionale.» Tale è nelle sue linee generali lo studio dell'insigne filosofo subal pino che mostra un ingegno vigoroso sempre ed acutissimo:e siamo certi che l'accoglienza fatta alle altre opere di lai, sarà rinnovata per questa memoria,nella quale si scrutano ipiù ardui problemi della scienza dell'uomo. Giuseppe Allievo. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Allievo” – The Swimming-Pool Library. Allievo.

 

Luigi Speranza -- Grice ed Allioni: deutero-esperanto – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Torino). Filosofo italiano. Roma, Lazio. Con Allioni. Novecento novantanove Cod.: codice di corrispondenza amichevole internazionale, Torino, Impronta. Dulichenko’s Boellu is  a misspelling). A code for friendly international correspondence. Digital pasigraphy is indicated in DIAL under the  number 901.121. In the same edition, Dulichenko mentions the linguistic project Arioni-Boera, number  854.74, referring to Fuishiki Okamoto (Rikichi, or Fuishiki, Okamoto.  Perhaps we are dealing with the same project. Indeed, in the introduction, Okamoto lists  several works that influenced the Babm9 language, including Arioni-Boera. Taking into account that Oka moto’s native language is Japanese, it can be assumed that the Japanese spelling is the source of the  confusion. The thing is that there is no “l” sound in the Japanese language. Instead, they pronounce “r”  (voiced alveolar flap [ɾ]). The surnames Allioni and Boella could easily have been transformed into Arioni-Boera in some Japanese source.  In order to distinguish cardinal numerals from other numbers corresponding to code words, they are  written in parentheses: (1), (2), (3), etc.  References: [2], [17], [45], [53]. Ernesto Boella. Boella. Keywords: deutero-esperanto.  Grice e Boella.

Con Boella. 999 Cod.: coice di corrispondenza amichevole internazionale. Keywords: deutero-esperanto. Refs.L Luigi Speranza, “Grice ed Allioni”. Allioni.

 

Luigi Speranza -- Grice ed Alminusa: all’isola – l’implicatura conversazionale dei nobili siciliani – filosofia siciliana – la scuola di Catania -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Catani, Sicilia. Grice: “Cutelli is like Hart, a jurisprudent, rather than a philosopher!” Si laurea a Catania. Un saggio e il “Patrocinium pro regia iurisdictione inquisitoribus siculis concessa”. Vuole escludere dal "privilegium fori" numerosi delitti come la resistenza a pubblico ufficiale, ed omicidio anche tentato.  Altro saggio: “Codicis legum sicularum libri quattuor” dove manifesta un'idea di politica amministrativa che mira a creare un centro unificatore e un ministro superiore, cui fosse affidato il compito di amministrare e dirigere la monarchia, ottenendo il rilancio economico, la riduzione delle spese e il riequilibrio del conto fiscale. Si reca a Napoli. Acquista il feudo di Mezza Mandra Nova.  Altro saggio: “Catania restaurata”. Altro saggio: “Supplex libellus.”Acquista il feudo di Alminusa e il borgo già creato da Giuseppe Bruno, figlio del fondatore Gregorio, per atto del notaro Pietro Cardona di Palermo. Ad Aliminusa dota la chiesa di Santa Anna e stabilisce un legato di maritaggio di dieci onze l'anno in favore di una figlia dei suoi vassalli, come si scorge dal suo testamento redatto innanzi al notaio Giovanni Antonio Chiarella di Palermo. Acquista il feudo di Cifiliana.  Il suo testamento rivela la volontà di destinare una parte dei suoi possedimenti alla fondazione di un collegio d'huomini nobili in cui si dovesse studiare filosofia: il Convitto Cutelli, o Cutelli.A Catania gli sono dedicati una piazza sita sul percorso della centrale via Vittorio Emanuele II e il Liceo Classico "Mario Cutelli".  Dizionario biografico degl’italiani.  Una utopia di governo. La formazione dell'élite in Sicilia tra Settecento ed Ottocento. Il "Collegio Cutelliano" di Catania, in "Quaderni di Intercultura". Conte di Villa Rosata. Conte Mario Cutelli di Villa Rosata e signore dell’Alminusa. Alminusa. Keywords: i nobili, i nobili siciliani, homosocialite, boys-only, male-only, Convitto Cutelli, élite filosofica, all-male establishment, Oxford as non-co-educational – the coming of Somerville! – Grice’s play group as an all-male play group, the idea of nobilita, nobility. --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alminusa” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice ed Alopeco: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Lugi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), Alopeco was a Pythagorean.

 

Luigi Speranza -- Grice ed Altan: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del soggeto -- simbolo, valore – ermeneutica antropologica – la scuola di San Vito al Tagliamento – filosofia friulana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (San Vito al Tagliamento). Filosofo friulano. Filosofo italiano. San Vito al Tagliamento, Pordenone, Friuli-Venezia Giulia. Grice: “I like Altan; he is of course an anthropologist and not a philosopher, although his first rambles were on Croce and philosophy as synthesis of history! – but then I lectured on Peirce’s misuse of ‘symbol,’ and Altan, not a philosopher, just like Peirce was not – repeats the mistake – Welby should possibly know better – Grice: “Altan fails to explain why the Romans felt the need to borrow ‘symbolum’ from the Greeks, and never return it!” Grice: “The examples in Short and Lewis for the Roman use of ‘symbol’ are extravagant – Peirceian almost!” – Grice: “Altan’s point is that a ‘soggeto,’ to communicate via ‘logos’ with another ‘soggeto’ in a colloquium, must rely on this or that symbol, which means that he must rely on this or that ‘valore’ – and unless you share those values, you don’t quite grasp the implicatum in the use of the symbol.” Nato da un'antica famiglia friulana. Uno dei massimi esperti di antropologia culturale.  Destinato dalla famiglia alla carriera diplomatica, si laurea in giurisprudenza a Roma. In Albania durante la seconda guerra mondiale, partecipa alla resistenza, militando nel partito d'azione.  Dopo le vicende belliche, conosce CROCE (si veda) grazie a cui fa il suo ingresso nel panorama culturale italiano.  L'incontro con CROCE, avvicina la sua filosofia all'idealismo crociano ed allo spiritualismo etico, come testimoniano i suoi saggi di questo periodo. Trascorre quindi dei periodi di studio e di ricerca a Vienna, Parigi e Londra, dove si accosta pure all'antropologia e all'etnologia.  Grazie all'influsso di MARTINO (si veda), CANTONI (si veda) (di cui e anche assistente volontario) e Tentori, si dedica all'antropologia secondo un approccio che non si basi esclusivamente sulla ricerca sul campo e l'etnografia ma che fa soprattutto ricorso alla filosofia. Influenzato pure da Malinowski, si oppone allo strutturalismo, aderendo successivamente al FUNZIONALISMO nonché a un marxismo mediato dalla scuola francese degl’Annales. Insegna antropologia culturale alla Facoltà di Filosofia di Pavia, Trento, Firenze e Trieste. Organizza a Roma un convegno di antropologia della società complessa. Vive tra Milano e la sua villa a Grado. Sulla base della sua iniziale formazione in filosofia del diritto nonché della sua vasta conoscenza filosofica generale, dopo una fase di ricerche sulla fenomenologia del simbolo, volge la sua attenzione verso i metodi applicati all'analisi semiotico, quindi si dedica allo studio dei comportamenti e dei valori che lo hanno poi condotto ad approfondire, da una prospettiva storico-culturale e con una visione alquanto critica, la dimensione identitaria degl’italiani.  A. cerca di far capire sia all'opinione pubblica che ai politici italiani l'importanza e la necessità di dare al loro paese una religione civile, come la degl’antichi romani. In questo progetto, vanno inserite alcune fra le sue opere come La coscienza civile degl’italiani e il manuale di Educazione civica. Si dedica allo studio delle basilari componenti simboliche dell'identità etnica italiana – specialmente friuliana --, concentrandosi, a tale scopo, sulla categoria dell'ethnos, individuandone ed analizzandone cinque principali componenti: I l'"epos" -- cioè, la memoria storica collettiva; II l'"ethos" -- cioè, la sacralizzazione di una norma e di una regola in un valore) III il "logos" -- cioè, il linguaggio interpersonale e la conversazionale; IV il "genos" -- cioè, l'idea di una comune discendenza: la ‘gens’ degl’antichi romani -- ed V il "topos" -- cioè, il SIMBOLO di una identità collettiva comunitaria stanziata su un dato territorio – come il Friuli -- allo scopo di trovare una possibile soluzione razionale, dal punto di vista dell'antropologia, ai conflitti tra i vari etno-centrismi.  Altre saggi: “La filosofia come sintesi esplicativa della storia. Spunti critici sul pensiero di CROCE e lineamenti di una concezione moderna dell'Umanesimo” (Longo e Zoppelli, Treviso); “Pensiero d'Umanità. Sommario breve d'una moderna concezione speculativa dell'Umanesimo” (Bianco, Udine); “Parmenide in Eraclito, o della personalità individuale come assoluto nello storicismo (Udine); “Lo spirito religioso del mondo primitivo” (Saggiatore, Milano); “Proposte per una ricerca antropologico-culturale sui problemi della gioventù” (Mulino, Bologna); “Antropologia funzionale” (Bompiani, Milano); “La sagra degl’ossessi: il patrimonio delle tradizioni popolari italiane nella società settentrionale” (Sansoni, Firenze); “Personalità giovanile e rapporto inter-personale” (ISVET, Roma); “Le origini storiche della scienza delle tradizioni popolari” (Sansoni, Firenze); “Atteggiamenti politici e sociali dei giovani in Italia” (Mulino, Bologna); “I valori difficili. Inchiesta sulle tendenze ideologiche e politiche in Italia” (Bompiani, Milano); “Comunismo e società” (Mulino, Bologna); “Valori, classi sociali, scelte politiche” (Bompiani, Milano); Manuale di antropologia culturale. Storia e metodo” (Bompiani, Milano); “Modi di produzione e lotta di classe in Italia” (Mondadori, Milano); “Tradizione e modernizzazione: proposte per un programma di ricerca sulla realtà del Friuli (Campo, Udine); “Antropologia. Storia e problemi” (Feltrinelli, Milano); “La nostra Italia: arretratezza socio-culturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall'Unità ad oggi” (Feltrinelli, Milano); “Populismo e trasformismo. Saggio sull’ideologie politiche” (Feltrinelli, Milano); “Per una storia dell'Italia arretrata” (Monnier, Firenze);  “Una modernizzazione difficile. Aspetti critici della società italiana” (Liguori Editore, Napoli); “Soggetto, simbolo e valore. Per un'ermeneutica antropologica” (Feltrinelli, Milano); “Un processo di pensiero” (Lanfranchi, Milano); “Ethnos e Civiltà. Identità etniche e valori democratici” (Feltrinelli, Milano); Italia: una nazione senza religione civile. Le ragioni di una democrazia incompiuta” (IEVF-Istituto editoriale veneto friulano, Udine); “La coscienza civile degli italiani. Valori e disvalori nella storia nazionale” (Gaspari, Udine); “Religioni, simboli, società: sul fondamento umano dell'esperienza religiosa” (Feltrinelli, Milano); “Gl’italiani”: Profilo storico comparato delle identità nazionali europee” (Mulino, Bologna); “Per un dialogo fra la ragione e la fede” (Olschki, Firenze); “Le grandi religioni a confronto. L'età della globalizzazione (Feltrinelli, Milano); Identità etniche, Una religione civile per l'Italia d'oggi, emsf. biografie/ anagrafico.asp?d=328 Il crogiolo, archive. web/ emsf.rai/biografie/ anagrafico ?d=328; “L'esperienza dei valori”, “Identità etniche e valori universali” archive./ /http://emsf. biografie/anagrafico.as Modelli concettuali antropologici per un discorso inter disciplinare tra psichiatria e scienze sociali, in: Psicoterapia e scienze umane, polser.wordpress.carlo-tullio-%altan-modelli- concettuali- antropologici-per-un-discorso -interdisciplinare-tra-psichiatria- e-scienze-sociali-in- psicoterapia- e-scienze -umane -Citazioni «Per la destra l'antropologia è roba per selvaggi; la sinistra pensa solo all'economia; altri sono ancorati a schemi anglosassoni, che vedono le strutture politiche come realtà a sé», da un'intervista rilasciata a Rumiz e pubblicata in La secessione leggera, Roma, Riuniti, Cfr. il saggio autobiografico: C. Tullio-Altan, "Un percorso di pensiero", Belfagor. Rivista di varia umanità,  nonché il testo autobiografico Un processo di pensiero, Lanfranchi Editore, Milano,  Cfr. U. Fabietti, F. Remotti, Dizionario di Antropologia. Etnologia, Antropologia Culturale, Antropologia Sociale, Zanichelli, Bologna, voce A. 772.  Cfr.//controluce notizie-old-html/giornali/a 14n03/18-culturaecostume- altan.htm  Cfr.//segnalo/ TRACCE/ NONPIU/ tullio-altan Frutto di questo nuovo programma di ricerca, e peraltro la monografia Lo spirito religioso nel mondo primitivo.  Cfr. A. Rigoli, Lezioni di etnologia, Renzo e Reau Mazzone editori, Ila Palma, Palermo, Cfr. Fabietti, Remotti, cit.  Fra cui Catemario, Cardona, Galli, Lanternari, Musio, Remotti, Rigoli, Satriani, Tentori.  Cfr. Tentori, Antropologia delle società complesse, Armando, Roma. Da un punto di vista storico, è da ricordare come l'antropologia culturale ha origini giuridiche. Invero, molti dei maggiori antropologi della seconda metà Professore sono giuristi o, quantomeno, avevano una formazione giuridica. Ciò fondamentalmente è dovuto al fatto basilare per cui nessuna società umana è priva di una qualche forma di diritto, anzi tutte le istituzioni sociali hanno una imprescindibile dimensione giuridica; cfr. Fabietti, Remotti, "Antropologia giuridica".  Cfr. Ignazi, "Populismo e trasformismo nell'analisi di A.", il Mulino. Rivista di cultura e politica. Angioni, "A.: un antropologo "anti-italiano". Familismo amorale e clientelismo tra i mali del Paese", in: Il Sole 24 Ore,  Cfr. Enciclopedia delle scienze filosofiche   in.  Cfr. A., "La dimensione simbolica dell'identità etnica",  Finis e Scartezzini, Universalità e differenza. Cosmopolitismo e relativismo nelle relazioni tra identità e culture, Angeli, Milano.  Qui, per regola, si intende una norma, in genere non necessariamente codificata, suggerita dall'esperienza o stabilita per convenzione o consuetudine, spesso in riferimento al modo usuale di vivere e di comportarsi, sia individualmente che collettivamente; cfr.  A. Ethnos e civiltà. Identità etniche e valori democratici, Feltrinelli, Milano -- nonché i ricordi di Galimberti e di Massenzio comparsi su La Repubblica e reperibili all'indirizzo  Cfr. pure Rigoli, A., Un processo di pensiero, Lanfranchi, Milano; A. "Un percorso di pensiero", Belfagor. Rassegna di varia umanità, Ferigo, di A., Metodi et Ricerche. Rivista di studi regionali,   Atti del Convegno Storia comparata, antropologia e impegno civile. Una riflessione su A., Udine-Aquileia, i cui sunti sono stati pubblicati, Candidi, sulla rivista Italia Contemporanea. Fascicolo speciale dedicato ad A. della rivista Metodi et Ricerche. Rivista di studi regionali.  L'antropologia italiana. Laterza, Roma; Alliegro, Antropologia italiana. Storia e storiografia, SEID, Firenze, A., C. Signorelli, "A proposito di alcune critiche: dibattito A.-Signorelli", in Rivista della Fondazione Italiana dei Centri Sociali, Roma; Forniz, "Il Palazzo A. in S. Vito al Tagliamento: dimore illustri nel Friuli occidentale", in Itinerari. A. su Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana; A. Dizionario biografico dei friulani. Nuovo Liruti; Istituto Pio Paschini per la storia della Chiesa in Friuli.  Biografia su feltrinellieditore. Biografia, su blog.graphe. Convegno in memoriam, su qui. uniud. Ricordo biografico, su contro luce. Filosofia Sociologia  Sociologia Categorie: Antropologi italiani Sociologi italiani Filosofi italiani Professore, San Vito al Tagliamento Palmanova Accademici italiani Studenti della Sapienza Roma Professori dell'Università degli Studi di Pavia Professori dell'Università degli Studi di Trento. Carlo Tullio-Altan. Altan. Keywords: soggeto, simbolo, valore – ermeneutica antropologica, Croce, filosofia come sintesi, Velia, la porta rossa di Velia, fascismo, ideologia politica italiana, ideologie politiche italiane, simbologia, simbolismo, ermeneutica, mercurio, ermete, mercurio, humano, uomo, umanesimo, Altan e Passolini, Palazzo Altan – Altan nobile friulese, il conte Carlo Tullio-Altan – la etnia friulese, ‘friulese, non italiano’ – dizionario biografico dei friulesi – friul – la lingua friulese – la base romana – la occupazione romana. Aquileia – i friulesi durante il fascismo – contro il friulese, italisazzione – Altan e la resisenza – etnia e italianita, -- romanita ed italianita – friulesita  --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Altan” – The Swimming-Pool Library. Altan.

 

Luigi Speranza -- Grice ed Alvarotti: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale retorica – la scuola di Padova – filosofia padovana –filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library  (Padova). Filosofo padovano. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Padova, Veneto. Nacque nell'antica famiglia nel palazzo di famiglia in contrà Sant'Anna. Il padre e archiatra di Leone X. Insegna semiotica a Padova e studia a Bologna sotto Pomponazzi (si veda) Alla morte di Pomponazzi, ritorna a Padova dove insegna fino al decesso del padre; dopo di ciò dove occuparsi attivamente della sua famiglia.  A questo periodo risale la composizione che verranno pubblicati da  Barbaro con il titolo di dialoghi filosofici: Dialogo d'amore”, “ Dialogo della dignità delle donne”; “Dialogo del tempo di partorire delle donne” e “Dialogo della cura famigliare”; due dialoghi lucianei “Della usura” e “Della Discordia”, seguiti da quello “dialogo delle lingue” e da “Dialogo della retorica” e infine quello “Delle laudi del Catajo, villa della S. Beatrice Pia degli Obici e quello Intitolato Panico e Bichi. Questi dialoghi sono le opere più note di A., nonostante siano stati pubblicati a sua insaputa e non siano mai stati riconosciuti, e hanno avuto decine di ristampe.  C’e anche un “Dialogo della vita attiva e contemplativa” che non venne però inserito nei Dialogi per motivi tuttora sconosciuti. Degl’infiammati, amico di Tasso, si occupa della revisione della Gerusalemme liberata. Autore della Canace, pubblicata a Venezia,  tragedia che da seguito a un'accesa polemica tra l'autore e Cinzio.  In seguito intervenne anche nella polemica tra lo stesso Cinzio e Pigna a proposito dell'”Orlando furioso” e del romanzo come genere letterario. Si trasfere a Roma dove divenne amico di Caro. Tornato a Padova compose i “Discorsi Su Alighieri”, “Sull'Eneide”; “Sull'Orlando furioso” e il “Dialogo della istoria.” Fautore di un classicismo ancor più estremo di quello del vicentino Trissino, cui rimprovera di aver tratto dalla storia e non dalla mitologia il soggetto della sua Sofonisba. Conformemente all'uso greco e, naturalmente, nel pieno rispetto delle unità aristoteliche, si ispira all’Eroides ovidiane per la Canace. Sepolto nella Cattedrale di Padova negl’avelli degl’Alvarotti. Nell'andito della porta settentrionale gli venne eretto un monumento ad opera di Campagna.  A Opere tratte da' mss. originali, Forcellini, Venezia, Occhi, A., in Trattatisti, Pozzi, Milano-Napoli, Ricciardi, Cammarosano, La vita e le opere di A., Empoli, Tipografia R. Noccioli; Bruni, A. gl’infiammati, in Filologia e letteratura, Bruni, Sistemi critici e strutture narrative, Ricerche sulla cultura fiorentina del Rinascimento, Napoli, Liguori, Fano, Notizie storiche sulla famiglia e particolarmente sul padre e sui fratelli di A., in Atti e memorie dell'Accademia di Padova, Padova, Randi; Fano, A., Saggio sulla vita e sulle opere, Padova, Drucker;  Floriani, I gentiluomini filosofi. Il dialogo culturale, Napoli, Liguori; Fiorato, Fournel, Il “camaleonte” e il “cuoco”. A. e la critica del romanzo, in « Schifanoia, Jossa, Rappresentazione e scrittura. La crisi delle forme poetiche rinascimentali, Napoli, Vivarium; Jossa, Verso il barocco. A. e Borromeo: tra retorica e mistica, in Aprosiana,  Pozzi, Le lettere familiari d’A., in «Giornale storico della letteratura italiana » Pozzi, La critica fiorentina fra Bembo e Speroni: Varchi, Lenzoni, Borghini, in M. Pozzi, Ai confini della letteratura. Aspetti e momenti di storia della letteratura italiana, Alessandria, Edizioni dell'Orso, Sperone Speroni, volume monografico di « Filologia veneta », Padova, Editoriale Programma, TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Camillo Guerrieri Crocetti, Sperone Speroni, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Sperone Speroni, su sapere, De Agostini.  Luca Piantoni, Sperone Speroni, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Sperone Speroni, su Liber Liber.  Opere di Sperone Speroni, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Sperone Speroni,. Audiolibri di Sperone Speroni, su LibriVox.  Michele Messina, Sperone Speroni, in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. DIALOGO DELLE UNGVE. I NT ERLttC VTO R I,  Tìembo l Lazaro, Cortegwo, Scolte, 1 Lafcari, Perette.  odo dir,mcffer Lazaro, che la Signoria di Vettetia iìb\é condotto a legger greco, la» tino nello jìudto di Padoua:è ite ro qucUot Lai. Monfignorp. BtM. Che prouificnc è lauo* fira:Ls z. Trecào feudi d'oro. SEM. Mcffir Lazaro,io me n'allegro co mi,con le buo ne lettere, cr con li lludiojì dtqucUeicon noi prona,pe» roche mnonsòbuomonifjuno della uojìraprofcfiiioue t che andaffe prejjb d quclfegnOìOite fetc armato : eoa le buone lettere pOÌ,le qualida qui innanzi non mendicherà no la uìta loro pot(erc s <£r nude; cerne fono ite per Io puf* fitojrì allegro etìandia con lo jìudioj^rglijiudkfidi pa doua;cut finalmente è tocca in forte tale macero iquale tingo tempo hanno cercato,?? difidetatoMabuauifo^ the egli ui bifognerà fedisfar r.an tanto aSmmetsjo difiàtrio, che hanno gli huomn i i d'imparare, quanto adunai infinta {paranza, che sha diuoijZrdetk uojha dottrina. Ikhe fare nuoua cofanon iti farà i cofifetc tifato d'affati* carni, cr con le uofbre bieuoli fatiche operar gloria in uoi,et in aiuruiuertù.LA2.Mojignor,(cmpremaiionba pregato Dommcdio^hc mi du grattaci occajìosc una  N uotd DIALOGO me ut concia: patti catdtopmow di Kd.RU per ztr* LtLmi^rtouoglu lidia, ^nadoncam  ritti che mfTuno a* è ^op^ etw / M g" S I itine pnfettmcntc . On* egl. e Jt m* CT MU  fi hLnU Éfee«W»e«^ è Aium» fi fattamente,  f, prtri n***rrL«i Hetmi /ìmilmcOTtnaa *d £ feeinpret». ^mbeamcj^e^ndcmg^dacbe  m fammorttlipcrfM*. LA2, Ifcgjucojif <U«,fenr icWi delolw&tectwto altre f ^«"f*  frtae:>£ di <pdk<dtre ne il deh «e W4,  DELLE LINGVE. t)g  può recare il parlar bene attamaniera del uolgo. Bem. 1*2$ è ben uero,cbe tanto più uolontieri fi dotterebbe iin parar lalingua grecarla latina, che la Tofcanaì quan to di quc^a quelle altre due fono più perfette, er più ca* re. ma che la Tcfcafia da [prezzare dei tutfypermcn* te lo direi j parte per non èrebugia,parte per non parer dbauer perduto tutto quel tempo,che prender udii in ap prenderU DcUa bebrea.io non ne fo nulla: ma per quel* lo che io n'oda dirc,quan;o la Utina gli italiani, altrettan to o poco meno fiata la li Genna>ua.LAT.A me pare, quando m guardo, che talefia la uolgar Tofcana perù* fretto atta lingua Uttna ; quale la feccia al u'mo : pero* che la uolgar e non ì altroché la latina guatla^? corrot U boggimai dalla lunghezza del tempo, o dalla forza de barbari ; o dalla mjira uiltlPer la qual cofa gli italiani, U quali atto'ftudto della Imgualatina la uolgarc anttpon gono,o fono fcnzagiudiw, non dtjcerncndo tra ytcU lo, chcè buono, crnon buono io priui in tutto d'inge- gno non fon poffenti di pofiedert il migliore . Onde quthììauuiene,che noi ueggiamo auucnire di alcuna human* compietene :la quale fiemadi uigor natura* le nonbauendouertùdifare del cibo fangue, onde m m ilfuo corpo, quello in flemma cornate, che rende lo buomo da pocoì^r nelle proprie operatimù il fa ef= fere conforme atta qualità dcWbumore . Ma egli fi ud- rebbe dare per legge ad ogn'uno :a uolgariilncn parla- re latinamente, per non diminuir la riputatione di me- fìa lingua diurna: a letterati, che mai da loro, fe non . cojbrtìti di alcuna ncceftità, non fi parlale volgare  U i atta  Si maniera de gli ignorantùacciocbel uclgo arrogante ton Vcfiempio&r autoritàde grandi huamini, no» preti* iefle argomento di far conferita delle fue proprie brutta rei et ai arte ridurre la fu* ignorantia. cort e G.Mef* (er haxaro, qui tranoi ditene il male che uoi tioiete di ùueflilmgm Tofamaifolamente quello non falche fe- ce Vanno pacato mejfer ROMOLO (vedasi) in quejia città ; il quale orando pubbcamente,con tante, er taliraghni biafimo total lingudAordfujbc innanzi bareitolto d'effer mor to famiglio di CICERONE (vedasi), per batter bene latinamente par iato : che uiuer bora con quejia Tdpa Tofcano. L a z. Se io crcdefii bifognami perfuadere <t ifcokridi Padova, che la lingua latina fuffe cofa da feguitare, er da fuggir U Tofcana ; 6 io non u onderei a legger latino, ofbcrc* rei che delle mie letttoni paco frutto fe ne doueffe piglia* re, ebe dafe flcfli noi conofcendo t giudicarei,cb'ef$i man zafferò d'intelletto,non fapendodtilmgueretra pnnei* pij perfe noti, strale conclufioni : il quale difetto non ha rimedio niffuno . Onde io tti dico, che pia toflo «or* retjiper parlare, comeparlaua Marco TuUio latino, che effer papa Clemente . Costig, Et io cono* feo di motti kuomini, che per effer mediocri Signori, fi (ontentarebbono d'effer muti, già non dico che iofta una didaeSo numero -.ma dico bene dicob con uofbra grati*, poi che il affitto è dal mio poco intetiettojo non tiedo per qual ragione debba Ibuomo apprezzare la Un gua greca, ne la latina > che per f aperte [prezzare, mi* tre, er corone, che fe ciò fujjfc, flato ferebbe di maggior égtàti il«iteJMK>i ol cuoco di Demoéìhene, er di CICERONE (vedasi): che non è bora f imperio, et il Papato, EhmbJ Non creggiate, etw incjjèr L«&fre bramifolamente Lt lingua latmadi Cicerone, la quale era commune a lui t cr gli altri Romani : ma mfieme con le parole latine e* gli difìdera [eloquenza » o 1 ftpienza di lui : che fu fu* propria y ertoli d'altriita quale tanto più ecceUentt dee riputar fi d'ogni mondana grandezza, quanto aWal* tezza de principati fi [ale per fucccfbonc,o perforte,out a quella delle feienze monta. [anima nofira non con altre: ali, che con quelle del fuo ingegno,%r della fua indù* foia . Io fo nuUa per rifletto a quegloriofi : ma qudpo* coccio nefo delle lingue, non lo cangierei al Marche* fttodi t&antoua . Laz, lonontredo Monfìgnor mio, ckeuoicrcggiate>cbe molti de Senatori, vde Confala* ri di Roma, non che tutta la plebe coft latino parlale » come faceua lAarco TuIlioiaMicuilìudijpiu fu Rem* obligata,èic alte vittorie di Cefare. Onde io difli,ty />£>= n dicodinuouo, che più i)limo,& ammiro U linguaio» tino, di ciccronctcbe [imperio d'AUgujìo. T>eUe laudi del la qual lingua parlarci al predente >non tantoperfodhfa* re aldiftderio di quefìo gentiluomo da bene, quato per che io fono obligato di farlo.ma otte uoificte,non fi con* «iene, ée altri che uoi ne ragioni : 0* chi faceffe altra' mcnteftrebbe ingiuria alla linguai egli farebbe («ih» toprofontuofo. Bem, Quejlo ufficio dilodar Ulingu* latina per molte ragioni dee effere mjbro ; parte per ef» fergiàdejlinatoad infegnarla pubicamente : parte per ejferltpiu partigiano che non fono io, il quale non tifli* no cotante: fi che però io difèregi la uolgare Tofana :  n $ cr <jr a tcbe io non la prepofi fe non ad un Mirebefatoyoue ci Ihauctc me [fa difopra all'imperio di tutto l mondo . Dunque a uoi tocca il lodarlaicbe il lodandola farete grt to iUa ]xngui,atta quale il nome uoflro,cr la fama uofhra è grandmane obligata: cr con quello buongentilbuo* ma corte fanente apcrarcte, il quale dianzi non fi curò di confeffire d'bauere anzi dello feemo, che nò, per udir uoi ragionar della fua ecceUenZd.L AZ.Et io, poi che UO lete cofi ; uolontieri la loderò, con pitto di potere ìnfìe* inamente bufano- la uolgarcje uoglii me ne uerrà; feri* ZA che uoi (babbiate per mule. B e m. San contento : mi fu ilpatto communc,cbe quaio uoi uituperarete; io pofa fa difendere. L a z . Volontieri. ma a noi gentiVbmmo dico,cbc io poffo bene incominciare a lodare labuond lin gua latina, rendendouila ragione perche io la preponga, atta fignark del mondo ; ma finire non neramente, tanto ho da dire intorno a quella materia : non per tato mi ren do fìcuro, che quelpoco } cliio ne dirò, ui perfuadcrà ai efferle molto più amico, che uoi non fiete al prefente al* Ù corte di Roma. Corteg, Qucfto uoi farete da* poi. bora io uoglio per lamia parte, che qual bora cofi direte,cbe io non intenda, interrompendo il ragionamen to,poffapregarui, che la chiariate. Laz. So» contento. Dunque fenza altro proemio farejo dico incornine cimio,cbt quantunque in mite cofe ftamo differenti dalli Muti animali, in quejl'una principalmente ci difcoliiamo da Lorójche ragionado^fcriuèdo comunichiamo (un (al tro il cuor nojbro: laqualcofanon poffano fare le bel tic. Dunque fe cofi è, quettipiu diuerfo fari dotta natura dé bruti, il qu*k parto ì er fcriuerà meglio. Per la cofa chiunque ama d'ejfer kuomo perfettamente, ceti o= giti Audio dee cerare 'dì parlare, er fcriuere perfetta* mente : er chi ha ucrtìi di poterlo fare, ben fi può dire * ragione lui effer tale fra gli altribuomini,quali fatigli buomini iftcfc per ricetto alle tejiie . qua! tutti di parlare,^ deferiucre i Greci e? Latini quafi uguabnè* te j appropriarono. Onde le loro lingue uègono adefur qucUexbcfole tra tutte {altre del mondo ci (anno diuerfi per eccellenza dalle barbare^ dalle irratioitaU creata re. Et è hi drittoiccnciofta cofa che tra poeti volgari ufi tiouerìhabbiajhy.taleagiudicio de liarcntinipcffitag* guagliarft a virgdio,ad Homero, ne tra foratori a De= molibene,oaì\ùrco Tullio, Lodate quaiouoltte il?c trarca,et i 1 Bocca«io,Nci no farete fi arditi,cbe ne egua Upò>ne inferiori troppo nicini li facciate alli antichwn- Zi da loro tanto lontani li lrouerete,cbe tra quei rifares- te cft d'annoverarli . Hcra no ucglio nominar d'un in n* no i jeriffori Greci, et Latini di gradcjcccllòta,cb'io «3 ne Marci a capo in unmefe : ma fon cotento di quelle due copie. troucrajii a cofloro in altra lingua alcun paref di" rò di memai no fono di fi rea uoglia,ej fi fW/to.cbe leg* gelido i lor uer/i er Icrationi Icro^on mirallegri . tutti gli altri piacer iMtigU altri diletti, fejìcgiuochijuoni, caulinno dietro a que^uno.ne dee b«omo merauigliar fene,però the gli altri folazzifono del corpo jet quello è dell'animo . onde quanto èpiunobile cofa rinteflettodel Jen/o, tante è maggiore et più grato quejlo diletto di tutti gli altri. Coki. Beri iti credo ciò ebe dicete iperoche qunlunche uolta io leggo «tirane noueUe del nojbro Boccaccio, hnorno certamente di minor fa\na t che Cice- rone nmè,Ìo mi fento tutto cangiare : majìtmamente leg genda quelli di Rujlico,&- d' Alibechrf Akthiel, di Pc ranella,^ altre cot4li,liqualtgouernatioiftntimenti di chi le legge, cr fanno fagli a lor modo, Ver tutto ciò io non direi ioutr buomo arguire f eccellenza d'alcuni lingua : più lofio credo U natura de le cofe deforme bd= vere uirtà d'immutare il cerpo,er la. mente di chi legge. B e m. Qucjìo nò,ma la facondia è fola,o principale c#> gtone di far in noi cofi mirabili effati. ey elicgli fìa ti ue rojeggetc Virgilio uolgareMo'-o Remerò, ey il Boc* caccio mnthofcanoiv non faranno quefti miracoli, dunque meffer Lazaro dice il «ero, quando di idi effetti pone la cagione nelle lingue . JM i non proua per qucjìo tafua ragione non fi doucr imparar altra, lingua, che U Istmo, i ej la greca : perocbejc la nofha volgare froggi= di no» è dotata di co fi nobili autori: già nonècoftimpof: fMe,cbe ella nbabbia,quando chejia poco meno ecc cl- ienti di Virgilio,©* d*Romero : cioè che tali fiano nella Ungi wAgare,qualifono cofloro nella greca,ty nella la* lina. Lai. Quando cgliamtcrra, che la hngtu hoU gxrehabbiaifuoi Ciceroni,ifuoi Virgili j,ifuot Romes rUy i [noi Xìemoflbcni iOÌlhoraconpglierò che ella fia cofa da imparare, come è bora la latina, ©- lagreca  Ma qucjìo mai non farà: conciona cofa che la lingua non lo patifee per efjer barbara,fi come ella è ; er non capace ne di numerose di ornamento . Che fe que quat* tro,non che altri, rinafeejfero un'altra uolta, © con l'ingegno. pgm,e con {"industria mcdefima,con la quale grecami" te cr ùtinmente poetarono cr orarono, parlaffero er feriueffero uoìgmncte^i no [{irebbero degnidel nome foro . Non uedete mi qaejìa pouera lingua batterci no* mi non declinabili, i utrbifetrzA coniugatone, cr /f nzd participio ;er tutta finalmente fetxtd niffuna bontà* CJ* meritamente per certo: contiofiaa>fa,cbe per quello che io n oda dire da fuoifeguaci, la fua propria perfettionc eofftc nel dilungarfi dalla lamaìneUaquale Miele parti dell or adone fono intere e? perfette.cbe fe ragione mi tajje di biafmurla, quejìofuo primo principio, cioè/co* farfi dalla latina,* ragione dùneflrdtìua dcSafua pravi* tà . Ma che i ella moiira ncUafua fronte d'bauer battuto la origine,e taccrtfeimcnto da barbari, cr da quelli pritt cipalmente,piu che odiarono li Komam t cioè da fracefv, tt da Provenzali : da quali non pur i nomi,i uerbi, ©* gii tduerbi di leim torte anebora deh" orare,*? del poeta* refiderittò. O gloriofo linguaggio . nominatelo come ni piacevole che italiano nòn lo chiamiate s effendo uenm to tra noi d'oltre il mare, 0* di Ila daUdpi } onde è chtufc f [Un : che gii non è propria de Frane* fi la gloria, che fiatine fiano inuentori,cjr accrefeitorim deh" inclinata ncMlmperiodiRomain quamainon uennein Italia ttatiom niffuna fi barbara,?? «>fi primi dtbumanità, Hwwi > Goffi, Vandali* Umgobardi,ctiaguifadi tro* pheo, non ni lafcùffe alcun nome, o alcun nerbo de pi» eleganti, ctìeUababbiaifj mi diremmo ibe Hoig<o» mente parlando poffa nafeere CICERONE (vedasi), o Virgilio i Ve rmente fequejhkngM fujjc colonia delklatina ;non  oferei «/era eonfefftrb : moiro meno il dirò,effendo lei una m óiftinti canfufione di tutte le barbarie del mondo.nelqui k Cbioi prego Dio che mandi ancbora li fu* difcordia ; U quale sparando una par oh daU altra, er ognun* di loro mandando alla propria fua regione ; finalmente ri* mmga a queHapouera Italia il fuo primo idioma : per lo quale non meno fu merita dalle altre prouincie ; che te muta per le anni . Io uerame nte poco ho letto di quefte tofe uolgari,?? guadagnato pimi d'baucre affai in per Aere di fìudiarlexb'egli è meglio non lefdpere che faper termi quante uolte per mia disgratia rìbo alcuna ueduta iltrettante meco medefmo ho Ugrimatokncftri mi/és ridtpenfando fra me quale fu già, er quale è bora li Un* gud,onds parliamo er fcriuiamo.zT noi uedranogUmai Cicerone } o Virgilio tbofcanofpiu tojto rmaf. eranno Schiumi, che Italiani uolgari ; faluo fe per gioco non fi dirà in quel modo, che iferui fanno ri lor Re ; er i prU gionieri iUor poderi. Ma tal Virgilio, er Mi Cicerone, Morder Turchi pofìonobauer nelle lor liiiguc;pa-ò parlando una uolu con un mio amico, che moto ben sin tendea della lingua Arabefca ; ini ricordo udir dire, chi Auicenna banca, compojìe di molte opere ; Uqualt fi con nofceumo efferfuenon tutto iWinuentione delle cofa quanto allo fide, ndquale di gran lunga auanxaua tutti gli altri fcrittori di quella lingua, eccetto quelbde l'Ai* corano. Dunque come proportioneuobncntc Auicenm fi direbbe Marco Tullio fi-agli Arabi ;cofi confeffodi.* vere nafcare,<mzi effer già nato er forfè morto il Virgi* Ito uolgare ; ma èco bene che tal Virgilio è un Virgilio.  dipmto. Ma il buono cr il nero Virgilio, ìlquale, k* f dando fornire da canto, dotterebbe rbuomo abbraccia* re,ba Ut lingua Latina, come k Greca ha f Homero ; cr facendo altramente fimo a peggìor conditione, che non fono gli oltramontani, li quali esaltano cr riucrijcono fommamentek nojìralmgua Latina ;er tanto ne ap* prendono, quanto poffono adoprar ? ingegno ; il quale fe pare in loro fuffe al difio ; mirendo certo che di breue k Gcrmmia,et kGallia produrrebbe di molti ueri Virgilif Ma noi altri fuoi cittadini(cclpa er uergogna del nojiro pocogiudicio)non fokmcnte non l'honoriamoynaa guì* ftdiperfone feditiofe tutta uk procuriamo di cacciarla della fuapdtrkìzr in fuo luoco far federe queffaltra-Ael U quale ( per non dir peggio ) non fi fa patria, ne nome. Cori, A me pare meffer Lax<iro,che le uofbre ragia mperfuadano dltruia non parlar mai uolgarmente :U qulcofd non ft può far e, fatuo fenon fifabric&ffetmd nmua città* k quale habìtajferoìlitterati ; oue non fi parUfjefe non latino . Ma qui iti Bologna chinop. par.* laffe uolgare t non barebbecbil'intcndeffi,ey pareb* be un pedante; ìlquale con gli artigiani fitceffe il TwI* Ho fuor di propofito . L a z. Anzi uoglio, che cofi come per U granari dì quelli ricebi fono grani d'ogni manierd,orzo,migUo,fromentOiO- altre biade fi fata- te, dtUe quali altre mangiano gli buemini, altrele be* fliediqueUa caja;cofi fi parli diuerjamente bor lati* no, bar uolgare, oue er quando è mejlieri . Onde fe Ibuomo è in piazza, in uiSa, o in cafa col uolgo, co* contadini, co' ferui, parli uolgare, cr non altramente :   ma nelle [cole delle dottrine er tra i dotti, oue pofii/cmo Cr debbiamo effer huominifu bumano,eioè Ittino il ra* $jonamento.cr altrettanto fia detto della fcrittura:k* quale fard ti/Agar Lnecefìita,ma la elettrone latina, «taf imamente quando alcuna cofa faiuemo per defide* rio di gloria ; la quale mal ci può dar quella lingua, che «acque, er crebbe conia nofbra calmiti* fj tuttauia fi tonfava con krouina dinoi.'B et m. Troppo afpr amen \e acculate qucfta innocente lingua: la quale pare che molto più ui fu in odio : che non amate la lattina er k greca.Terocbe oue ci baueuatepromeffo di lodar quel* k principalmente, er k thofcana alcuna mito, uencndo il cafo,mtuperare; bora bautte fatto in contrario: quelle non bauete lodatoci quella una fieramente ci biafimate; et per certo a gran tcrto: peroebe ella non è punto fi bar tarara, ne fi priua di numero er ibarmonia, come la ci bauete dipinta, che fe la origine di lei fu barbara da prùt ciptoi non uolete uoi che in ifyatio di quattrocento o cin* qucccntoannifia diuenuta cittadina d'Italia? per certo fhaltramente liKomanimedefmi,liqualidi phrigia cac dati uennero ad babitarc in Italia, farebbero barbari: le perfone, i coflumi,ryk Imgualoro farebbe barbara : lUalia, k Grecia, ©" ogni altra prouinàa, quantunque manfueta, er bumana fi potrebbe dir barbara fe l'erigi* ne delle cofefuffe bafìate di recar tcro quefìa infame de» nominatione . Confcffo adunque k lingua nojtramaterz tiaeffere una certa adunanza non con fu fa, maregokta di molte er diuerfe uocijnomi,uerbi t ZF altre parti dora tione ile quali primier amenti da prone ©* mie natani    d e 1 1 v l i H o v i. ro^  in Italia iiffemirutcpid cr artificiofa cura denojìn prò genitori in fime raccolje : er ad m fuono, ad uru nor* md, dà un ordine ft fittamente compofe, ebe c$i ne/or* «uro» qttctk imgtu, k quale bora è propria nofha,cr tion d'alai, imitando in quefìo ld madre nofbd natura: U qudle di quattro elementi diuerfi molto fra loro per qua» liti, er per [ito ci ha formiti noi altri più perfetti, er più nabli i che gli clementi non fono, imaginatcui, mefi fer UXtro, di uedere [imperio, k dignità, le ricche zc, le dottrine, er finalmente le perfone, er la lingua £ Italia in forza de barbari in maniera, che il trark lor Me mani fu cofa quafi imponibile : ttoi non vorrete m uerc al mondo imercantarie ifiudiarc! parkre uoicuo fb-i figliuoli ì Ma kfckndo da parte [altre cofe t parla* rete latino, cioè inguifa,cbe no it intendano iBolognefi; o parlante in maniera ch'altri intenda,^ rif^odat Dan qut una uolta il parkr uolgarmente era fona in ìtalk ; ma in proceffo di tempo fece Ibuomo ( come fi dice > di quella faxa, er neceflita torte, er l'inéujìria detUfud lingud.Zt co/ì come nel principio del mondo gli fcuouii- mdaUefiere fi difendevano fuggendo,®- uccidendo few za altro; bor paffundo pia oltre a beneficio er ornamene to deUd perfona ci uefiiamo delle lor petit: co/ì da primi, d fine follmente d'effere intefi da chi regnata, perlaM* mo uolgdre: bord a diletto,er a menarla del nojbo no me parliamo, crfcriuiamo uolgdre . O egli farebbe me* g(io che fi rdgiondffe latino: non lo nego; ma meglio }w febbe anebord, che i barbari mai non baueffero prefa, ne dibatta [Udii i cr the l'imperio dì Komafuffe du- motato in eterno, Dunque fendo altramente., àie fi dee fa* re f uoglùtm morir il dolore! réiar mutolii V non partar man finche torni arinafcere Cicerone Virgàoì Le afe, i feinpi/jCr finalmente ogni artificio moderno, i difegni, i ritratti di metallo er di marno non fono da e\ fer pareggiatiagli antichi-Aoutrno però habitare tri ho fchi f non dipingere, noufmdcre, non ifculpirc, nanfa criccare, non adorar Dio i bafla a rfciwwo mffer L*= zaro mio caro, che egli faccia ciò che egli fa, er può fa* re,wfi contcntideUefue fòrze. Coniglio adunque, et mmonifco ciafcuno, che egli impare la lìnguagreca,er Utina, quelle abbracàe,queHehabbia career con l'aiu* to di quelle fludie a farfi immortale.m a tutti quanti no ha partito ugualmente nomenedio ne Fmgegno,neUcm po P w ui uuò dtre, farà alcuno perauentura,cui ne na* turale wdufb-ianon mancherà ;nu&tdimeno egli ferì auafi che dalle fiette mimato a parlare o-fcrwer me* vUouolgare, ée latino inunfeggetto, rjmuna ma ìerkmedefma; che dee fare egli f Cbecio fiadueroi vedete le cofe latine del Petrarca, cr del Boccaccio, et tagliatele aUc loro uolgarUi quelle niuna peggiore iiquelicniunamigUore giudicarete. Dimqmda capo confei» et ammonifeo noi meffer Lazaro, [cratere er parlare Unno, comequetio che $ai meglio jatuete& parlate latino, che non uolgare : tua ira gcntilhuomo, il quale ì Ut pratica della corte,o {inclinatione del uoftro nlcanentollrmgedfar altramente, olir amente confidio • cf /scendo altramente nmfolmente non muerett l^ Q mrato, m4mopmghrÌpfo,qimtofamndo,& parlando" bene ttolgarc t almeno a ualgari farete caro ; ouetnalamentc fcrtuendo,et parlando latino,udt farelìe a dottiparimentc,cr indotti Ne làperfuadaTtloquen* tiadimejfer L-axaro più tofio a diuenir mutuiate com pontre uolgarmcnte,peroche co/i la prcja 7 comeil uerfo della lingua moderna, è in alcune materie poco meno nu torrefa, & di ornamenti capace delia grecai della fd=» ima. I uerft hanno lor piedijor harmonia,lor numeri le profe il lorfluffo di orationeje lorjigure,ey le loro eie* gonfie di parlare, rcpetitioni, conucrfioni } complefiioni cr altre tai cofe-per le quali uon è forfe t come credetegli uerfa una lingua dall'altra : chefe te parole fono diuerfr. Torte del cottiporteiet deU 'adunarle è una eoft mede firn* nella Lima, ey nella tbojcana . Se meffer tataro ci ne gaffe quefio: io li dcm4ndercì,onde è adunque ^che le cen to noueUe non fono beUe egualmente,™ ifcnettt delVe trarca tutti parimente perfetti* Certo bifognarcbbe,che egli dkeffe niuna or ottone, niun uerfo tbofeano non ef* fer più brutto, ne piti bello dell'olir o,w per confeguen* te il Serapbmo ejfcr eguale al Petrarc&o neramente con feffarebbefra le molte compojìtioni uolgari alcuna più, alcuna meno clegóte et ornata demolirà trouarfhla qual cofa non farebbe cojj, quando eUefuffero del tutto priue dell'arte de Tarare, zj del portare. Lai. Alou/ignore io negai k lingua moderna bauer infe numero, ne orno* ' mentore confonantia,w lo nego di nuouo, non per ejbe rknta ch'io rìbabbiama per ragione;chefc Thmmo,fttt za punto faptr fonare ne camburro, ne tromba, jolo che gUoiama mito, per la loro fpiacciiokzxa, pttogùtdicare ure non effere firomcnti atti tifare hamtmU, ne Mo ; coft udendo, formando per me mcdefimo que* fte parole uolgari, alfuomdi ciafeunadi loro feparat*. tkU'altreifcnza ch'io la compone altramente affai bene comprendo, che diletto poffanorecare agli orecchi de gii afeokanti le profe, <y i uerfuchefe ne fanno : itero è, che queflogiudicianon Uhi ogrìuno t ma colora foUmcn te, i quéi fono ufatx a ballare al fuano de i liuti, er de i titoloni . E mi ricorda, emendo una nota in Ve:ietii,oue eri/io giunte alcune natii de Turchi, udire in quelle mi tornare di molti fbramenUi dei quale nel più. fpkceuole, nel piti noiofo non udì mai alla ulta tnkynondimeno a\co loro, che non fono ufi Se dclkie fìtalit, pareua quella una dolce muftea ndtrettanto fi puodire della numero? fità dett'omianc, er delnerfo di quefta lingua. Alcuna ttolta qualche confonanza ui fi ritratta, che meno i»gr*« (4 er mcn brutta fa CtmdeR'altrayna quella infe è tur* mania?? mufm di tamburri,anzi d'archibufì e di falco* netti, che introna altrui [intelletto, er fere,?? (ìroppia fi fattamente, che egli non è pw atto a riceuere impref* Clone di pindelicatoflromento, ne fecondo quello ape* rare. Per la qual cofa chi non ha tempora «erta di food* re i liuti, er i unioni deUa latina; più toflofi dee fare o* tiofo, che por mano a i tambum traile campane delia volgare: imitandoieffempio di PaUadede quak-per non fi dilìorcere ttelk faccia fonandogittò uia la piuaji che era data inuentrice va' fu a lei più gloria il partirla da .f<„er nondegnar d'dppreffarlafi attafuabocca, che non fu utile a mrfia il ruoglterla, a 1 fonarla,, onde ne  perdette    DELLE I.IHGVI, IOJ  perdette la pelle. Vero écefìe Mofignore quéprinùm tiebi Tofani efferc fiati sforzati a parlare inquet?amd nicrjjHow udendo con /fatto trappaffar la hr uita : er àie noialtri pojìeriori habbiomo fatto dellahriii forza titsjba virtù i qucflo è uero : ma maggior laude dà altrui quelli violenza ; che a nei non reca quefla virtù . gloria fu a loro l'ejjlr folerti nelle miferie : ma biafmc,crfcor* noianatltrijhora che liberi femojl dar ricette &con jeruare lungamente un perpetuo tejlimcnio della ncjìra utrgognd>o quello ncnfoLmcntc nudrire j ma ornare : altro non effetido quefla ìmgua ualgarc, che uno iv.ditio dimojlratiuo della ftruitù che gli Italiani Guerreggiane do una j olla U uoibra Rcp iìbhca,crnon le baftavdo fo= ro tri argento a pagare t faldati ;fcc e ( cerne fi dice) Rampare gran quanta di danari di cuoio cotto col cerno di fan Marco, er con quelli fcjlcntò, tj uùifc laguerrai cr fu fapientùt Venetiana quefla .mafea tempo di pace hmeffero continuato a prendere quella moneta, ejrafar h digiorno in giorno più bclla,tj dimiglior ccramegià farebbe contienila in auaritia lafapienza. tiara fc alcuno ci hiuejfejl quale, prezzato loro, cr f argento,fa* eeffe del cuoio the foro ; non farebbe egli pazzo coftuiifì ueramtnte . Ma noialtri, cui mancando iltheforo lati* no, li ncftrd calamità fece prouedere dimoneta uolgare ; quelli non cibajla di jpendere tuttauia col uolgo*he étto nonne conofee, «e tocca, ma uenutone fatto di ri* courarlc perdute ricchezze ; lei tuttauia conferiamo : crne ijecreit dell'anima nofca, ouefùkuano ferrar lo* ro, er l'argento di Roma, diamo ricetto alle reliquie di  O tutta  DI A I O G O  iultta la barbaria deh nondo. Cori. A me paremef* fer Lazaro,che quello non fu ne lodar la lingua Latin*, ne uitupcrar la uolgareyna più tojlo un certo lamentar fi drtìti reuma, d'ìtalia : la qual cefi, cerne i poco fruttile >ft t cofi è molto difcojla dal nofiro proponùnento ; onde non vi uedo partir ttobntieri. L a z. Varui che"! bufimo di quefta lingua fta poco, quando io congiungo ilnafcimen to di lei alla diftruttione deU'hìipaio,0' del nome latinai CT l'accrefcimcnto dilei dimane mento delnojìro intel* letto tgi'a me non laudante in que&a maniera, per farmi piacere . Cor t. Citi non giudico biafmo-ma me* Tauìglia più to&o : che gran cofa dee effer quella, di cui non può Ihuómo parlare y tacendo larouìna di Rem, che fu capo del mondo . cr che quello fta ucro ì poniamo che non i Barbari, ma i Greci Ib^ejfcro disfatta,cr che da indi In qnaparlaffero Atemefegli Italiani ; un biaft* mrefte la lingua Àttica iperoebe tufo di lei fuffe con- giunto alla frittiti nojhra-L a 7. Se ciò jiato fujfe,no finb be fulaguafta,ma riformata l'Italia .perche non fola* mente non biaftmerei il disfacimento di quejio imperio, ma loderei Dio che lui batte ffc uoluto ornare di linguag già conueneuoU alla fu* dignità. Cobt. Dunque mag giare il danno Sbatter perduta la lingua, che la libertà ì L A z. Si fenxadubbio : peroche in qualunque Stato fu fbuamo,o franco,ofoggettOì fempremai è huomo, ne da ra più d"huomo ima li lingua Latinaha uirtudiftre di buomini Dei, cy di morti, non che di mortali che ftamo, immortali perfamx.V,tcbe ciò fia uero$imperù> stoma* pò, efee/t dijìefe per tutto, è gii guajìo ; m U memori*  dm  IQ< J  detta grZdexza di hà conferita* neUhijhrie ai Saltijlh, CT di Limojura ancora, durerà fin cbe'l deh fi mal uerauzr altrettanto fi può dire delF imperio^- della /w* gita de Greci. Cor. Quejìa ttirtà di far leperfone fmà le p molti fccoli non l'ba,cb'io credala bijùria arerai latinawne Greca, e Latinayna come l'bifiorid ch'èttà èi laqualejn qualuque idioma fu feruta da alcuno:i fempre mai (tome alcun due) testimonio del tempo, luce della ucriù, utta della memora, maefko della ima d'altrui, crnnoucUamento dell'antichità. Lat. Voiditeilucro no effer propria qucfla uirt* delibijìorie Greche,?? La Une,non che altra lingua ne fa partecipe, ma percioebe tutte l h,)lorie Gre. he, et Latine non hanno battuto tal pnuilegioi ma quelle jolamente, li quali artificio) ameme compoje alcuno hitomo eloquente ; fendo perfette quelle die lingue. Onde gli animali di KomaM quali lenza aiu no ornamento, ccnfanplki, er anclwra rozze parole, narrammo gli auenimenti di lei, non durarono molti an* ni m di hro fi parlerebbe ; fe altro fcrùtore,quafidaco paltone molfo, non ne faceffe parola. Dunque fe quelli il tempo ha fato dtuenir nulli, li quali affai doueuam ha* tur di elegantia, effeuio ferini latinamente, bar che}* dell btjhrie uolgart ì cui ne naturale dolcezza di lingua, ne artifiaofa eloquenza diferittori non può far care, ne gratiofegiamaif corteo. Non intendo anchcra ben bene in che coft confitta la foauit* della lingua, cj-dcUe parole latine, er la barbara jbiaceuotezza deRe uM* gari, anzL,conje}fandoui liberamente la mia ignoranza, grandìfiÒM numero di nomi, participi Latini con  O 1 Lro toro ftrana prowntidtione, le più mite mi fuortd.no non fo che Bcrgamtfco nel capo : àkrdtant ù fogliano forcai ami modi cr tempi de ucrbi ; ttUe quéi parole una fimilc ielle uolgari la nojira corte Rom<m<t non degnerebbe di proferire. hte.louiricordogentil'buomocbe l'autori' Ù concijtor iole non è giudice competente del fuow, CT degli accenti deSe parole latine ; onde fé alcuna nota k Itnguaktindle pare tener della BergamafcdìeUd noni però Bergamafcd : ne perche tdefidgiudicdta^iumdo ffete merdMgliare,cbegia ui fiate merauiglkto, hiueda letto in Ouidio, lAida Re più falere lodare Io Ridere delle cannucae di Vdth che kfoautù deUd cetra fApal Ìo. C o r t. Ecco io fon contento diconfejfxrui, chele crecchie in tal eafo non fidilo bumanc, ma d'Afmojc uoi \nì due, per qual cagione la imncrofiù, ej confotidnza delle ordtioni, er de uerft di queftd lingua chiamale ma ftutarcbàuft : condofucofd che i gran mdejlri di con' tOyeui è propria profefÀone Ibannonidi rade uolte,o non mùfamo canto, o mottetto,cbe le parole di lui nofiano Sonetti, o Casoni uelgari.qucflo è pur fegno che i no» fai uerft fon da fe pieni dì melodia . l a 2. Già non è, gentilbuomo)come forfè penfate ) l'harmonk del canto, CT quella delle profe, cr de' uerfi una cofa medefimam suite fono,& diuerfe, onde non fotmente delle coft malgari, ma di chirìe anchcra,cr de ifantut fi fanno con fi, c>~ mottetti t della cui barmonix generabnente sinica 4c ogni oreccbia;pcroche quali fono ifaporidUa lingua, fj a gli occhi, CT di ndfo i colori, et gli odori, tale i il J'iuw u gli orecctó degUhuoìnini ; li <{u4li per lor tutura, etfenzd jìudio ueruno facilmente difcmtono trai pia ccuotc,cl dijjikceuole.Mail numero,?? -Ubarmonk dei l'or ationc,&- del uerfo latino, nonè altroché artifìcio* fa dijpofitione di parole ; dalle cuifittabe, fecondo labrt uitì, er li lunghezza di quelle, nafeono alcuni nmerk che noi altri cbimkmopicdi, onde mi fioratamente carni m dal principio atta fine il utrjb, <cr loratione . er fono dìdiuerfe maniere quefìitai piedi, facendo i loro pafii lunghi,®- corti, tardi,?? ueloci, ciascheduno alfuo mo- do, er c beWarte quelli inficine adunare fi fattamète,cht iten disordino fra fc ftefiijna tuno, atfaltroyt? tutti in* ficmefiano conformi al foggetto : peroebe d'alcune ma* teric alami piedi fono qujfi peculkrhetfra lor piedi qua li meglio,quali peggio s'accompagnano al loro ukggio i CT qualunque perfona quelli a cafo congiugne, no bauen do riguardo ne atta natura diqueUitne atte cofe,diche iit tende di ragionare i uerfì,^ torationifue nafeono zop* pe,CT non dourebbe nutrirgli: et' di queftd eotal melodia non ne fono capacigli orecchi del uolgo : ne lei altreft poffmto formare le uocidella lingua uolgare : k cuipro* faianonfodireperquairagione fiammerofa chiama* ta,fe Hbuomo in lei non s'accorge,o non cura ne di fpon* dei,ne didattili, ne di trocbei,ne danapejU, er finabnè* te diniuna maniera di piedi : onde fi moue l'oraitone bea regolata . Veramente quefìa nuoua befìia di profit uol* gare,o èfenza piedi, er fdrucciok aguìfa di bifeia, o ha quelli dijpetie diuerfe molto dati Greca, er dalla Latina : er per confeguente dì coft fatto animale, come di tncftro <t cafo creato,oltrdticojlume,a- l'ùitentione di  O 3 egli 6%ni buono inteUclto ; non fi dovrebbe fare ne arte, ne faenza . iuerfi neramente, inquanto fon fatti iundiàfìl libc t rion.paionoin tutto priui di piedi, che lefllibe in loro hanno luogo, rj- nfficio di piedi : ma in quanto qneUc cotal poffono effer lunghe, er breui a lor uoglia; m ti non.d'trò che fia diritto il lor eaUefaluo fe M ojìgnor non Jkeffelc rime effer fabpo^gio de uerfi, rbe zìi fi* ftaigono,zr fano andare dirittamente, la qual ofa non itti par itera ; pcroche, per quelle ch'io n'oda dir; le rime fono pia tefìo come catena del Sonetto&aUa Cannone; che piedino nunì, di uerfi loro, et tanto uoglio che ne fu detto da me breuemente certo ; per rijpetto a quello che fe ne può ragionare ; ma a bajlanza, fe alla uofbra richie jìacr troppa forf?, (e aUaerefenza Monfignore firn guarderà : il quale meglio di me conofe, er piton'ame* rare i difetti diquefla lingua. B e m. Quefta cofa de mt mcrì,come fi (lia&fe cofi la prefa, come il ucrfo Tofa no riha lafua parte, er m à>e modo la fi babbix, per ef fere affé facile da uedere,ma lontana dal noftro propos nimento ; bora con effò uoi non intendo di iifbutarldan* zi confidando quello effer itereche ne dicelie, non tan* to perche fa uero, quoto perche fi ueda ciò che nefegm io ni dico quefla linguamoderna, tutteche fidanzi dttem patena che nò-, effer però anchora affi picchia, er fot* tile uerga la quale non haappieno fioritolo che i frutti prodottile ella può fare: certo non per difetto della ni tura di lei,effcndo co/i atta agenerare s come le altre; ma p:r colpa di loro, che Fbebbero in guardia, che no la col tiuorono abaftazam aguiftt dipianta feludggiajn quel medeftmo deferto, atte perfe a nafctre cominciò, fenzai vidi ne adacquarU,ne potarla, ne difenderla da i pruni, che le fano ombra,lbdnno Itfciata inocchiare, et quafi morire . Etfeque primi antichi Romani foffero fiati jì negligenti in colature la Latina, quanto 4 pullular co* tnwciò i per arto in fi poco tempo non farebbe diuenu* td fi grande ; ma cfii,* grafi di ottimi agricoltori, lei pri* interamente tramutarono da luogofdudggioadomeftU co ; poi,percbe er pw toflo,cy piit belli, rt maggior frut ti faceffe,leuandolc aia dattorno le inutili frafchezn lo* ro (ambio lùmcftarono d'alcuni ramo felli maefircuol* mente detratti dalla Greca : li quali fóltamente inguift le t'appiccarono,^ in guifa.fi fama fintili al tronca che boggimat non paiono rami adottiuijna naturali . Quin* di nacquero in lei que fiorì, et qui frutti fi coloriti deli e - hquetiza-con quel numero,?? con qucU ordine ifltffo, A quale tanto cfftliate : li quali non tanto per fua natura > quanto d'altrui artificio aiutata, fuol produrre ogni Un gua . Perochel numero nato per magiflero di Tbraft* macho,di Gorgia,di Tbecdoro ; ìfocrate finalmente fc* ce perfetto dunque f Greci, er Latini huominì pi» foUeciti alia coltura della lor lingtù,ckc noi non fetno al* U nofka j noi; trouarono in quelle fe non dopo alcun tmpo,cr dopo molta fatica, ne leggiadria:, ne numero i già non de parer marauiglia, fenoi anebora non rìbaue* mo tanto, che bafìì, neSa uolgare ; ne quindi de prcn» der Ihuomo argomento a [brezzarla, come uil cefa, er dapoco . Oja Latina è migliore d'affai . ò quanto fa* rtbbt meglio dk fu >z? none una fa Ilota, per lo paf*  o 4 /fife, fato, cr fa Mchor tuttauid fi gentil cofa : tempo forfè uerrà, che (f altra tinta eccellenza fia la volgere dotatd, che [e per effer e a wfhi giorni di ninno flato s crmen gradita,non fi doueffe apprezzare U Greca; la quale e* ra gii grande fui nafeimento della Latina : ne uoftri ani mi non douea kfeiar fermare le radici furi ultra lingua nomila altrettanto direi àcllt Grecaper rifletto aU la Hebrea, Cancludcrebbefi finalmente dalle uofh-epre miffe Àouer effere al mondo fola una lingua t ej non più » anele [ertueffero, ey parkfjero li mortali, cr aiterebbe #f>e oue uoi crederefle d'argomentar folamente cantra U lìngua Thofcani, cr quella con uofbre ragioni efìirpare del inondo, uoi parlarefle etiandto cantra li "Latina, et U Greca . benché <j:«/f a pugna ftefìtn 'crebbe non fo* lamente contrai linguaggi del mondo ima cantra Dio: ilquale ab eterno diede per legge immutabile ad agni co fa creata non durare eternamente ; ma di continuo duna in altro fiato mulxrfi: bora duanzando,et bora diminuì* do fin che jinifea stili uolta che mai più pofcUnon rìno* ttarjt. Voi mi direte } troppo indugia boggitìtai la perfet* tione della lingua, materni : er io ui dico che cofs è,come dite imitale indugio non dee far credere altrui effer co* fi imponibile, che elk diuenga perfetta : anzi ui può fif eerto lei douerfi lungo tempo godere la fua perfezione, quarhora egli auuerrà ch'eUafe l'babbia acquiftata. Che cofì usici la natura : la quale ha deliberato, che qual or* ber tojlo nafce,fìorifcc,& fa frutto: tale tofla inuecebìe, ZTfs muoia : er in contrario, che quello duri per molti ami, il quale lunga Ragione bar a penato a far fronde. Sarà adunque U nofira lingua in conferuarfì la fua dota» ti perfettione lungamente difidcrata, ey cerati* lìmite forfè dd alami ingegni ; fi quali, qmnì o tnen fàa'&ttenfe dpprcnJoro le (kttrine;f auto pi» dijjìcìtmcntr le fi k/ei< no «/ciré (fella memoria. Q,eUa è tcjlìmonio della noftré vergogna >effendo uenuta in Italiainfieme con la rovi* wa di lei . Viu f o/Ìo efid è teftmonio dcUa nofìra folertia, cr del noflro buono or dimenio : che, cofì come uenenda Enea dt Troia in Italia ad bonor fi recò lafcìare fcrìtto in un certo trofico drizzato da lui,queUe cjfere (lato fe armideuincitoridelkfu4palm t cofi vergogna non ci puooffere l'hauer cofa in Italia tolta di mano a coloro, che noitolfero di libertà . virtifinabnente^itando effer uolcfti maligno, più toflo douerfì adorar daRe genti il So le orientc^c l'occidente: la lingua Greca & "Ldtinagii effer giunte ah"occafo:ne quelle effer più lunge,ma ebar tafoUmente tj ingk>flro:ouc quanto fio, difficile cof* Imparare a parlare : ditelo uoi per me,cbe non ofate dir cofa latinamente con altre parole, ebe con quelle di Ciee reme . Onde quanto parlate, uferiuete latino non è al* tro,che CICERONE (vedasi) trafyoflo più tofio da ebarta a Siria, ebedamaterka materia : benebe queflo non è fi uofhro peccato, che egli non fu anebe mio s c d'altri affai tj maggiori, er migliori di me i peccata però non indegno difeuft, non poffendofarfi altramente . Ma quejìepo* che parole dette da me cantra U lingua latina per land gare non difiiper uero dire : /o/o uolfmcfbrare quanto bene difenderebbe ejucjla lingua nouette chiper lei far uolcjfedifféfa : quando a lei non mancOttK cuore, ne or* mictoffendere lAtrui. Cori. Pormi Monfignore che cofUetniatc dì dir maledeUa lìngua lattina ; cernie fe eU U f 'offe k lingua del uoflro Sant o di Padoua : alla quale è ditanto conforme, checome quella fu dipcrfimagin ui uaUctàfantitÀè cagione che bora pofla in un taberna* colo di criHallo fu dalle genti adorata; cofi quejU degna reliquia del capo del mondo R orna, guaflo er corrotto fià molto tempo, quantunque boggimai fredda crfecca fi taceu inondimene fatta idolo dalcune pqcbeeyjuper jlieiofe per folte, colui da loro non è Cbrtfìiano tenuto t the non l adora per Dio . lAa adoratela a uojb-ofetmo, fola che non parliate con effo ki. er «olendo tenerla in tocca cofi morta come è, firn lecito di poterlo fare : ma parlate tra uoi ciotti le uofhe morte Latine parole ; er d noi idioti le noflre uiue uolgari,con la lingttd che Dio ci dteiejafitte in pace parldre.BE ti . Doueuate, per ag* Quagliarla compitamente alla lìngua del j 'anta, foggion* gere qualmente torationidi Cicerone,* i tierfi divirgì Uo le fono degnLcr pretioftftimi tabernacoli ; onde ki co tuie cofa beata riuerìamo,et incbìniamoMa per certo ne lma,nt [altra non mcritaua che la tenejìe per morta-fi* perando tutt'horanewrpi nofìri et nei 'anime quella fa* httc,qnefla utrtutez con tutto ciò lodo fommamente la no fha lingua uotgare,cioè Thofcana ; aceìoebe non fta al arno che intenda della uolgare di tutta italia: Toscana dicojion la moderna, che vfa il nolgr hoggidi ;ma fanti eamde fi dolcemente pariamo il Petrarca tj il Boccac ào:rhe la lingua di "Dante fente bene^et fyeffo più del lo bardo,chc del Tbofcanoì tt oue è Thofcam, è più toflo Tbofrdiìo di contado,ehe di città. Cunque di quella par* h,quella lodo,queÙa vi perfuado apparare, ebequantm que ella nenfugiunta aìlafua uera perfettione, ella non dimeno le è gii uenutafi preffo ; che poco tempo ut è 4 uolgere ; oue poi che arriuata farà ; non itibito punto, che quale è nella Grecaci nelk Latina, talefia in lei us- ti di far uiitere altrui mirabilmente dopò la tnorte, cr «I Ibora fi k uedremo mi fare dimoltinon tabernacoli, m*t tempi;, V ultori : alla cui uìfitatione concorrerà, da tutte, le parti del mondo brigata di fpirii i pellegrini j che le fi ranno lor tìo!t,er far amo efpatditi da lei . Co ut. Dime quefeiouorrò bene fcriuere uolgarmète, couerramitòr nare anafeer Tbof^ano! Bem. Kafcer nò ma fìudìar Tbofcano,cb"egli è meglio per auentura nafeer Lombar do,che Fior ent ino i per oche Tufo del parlar Thofcobog gidiètanto cÓtrario dUe regole della buona lingua ibo /tini, che piti nuoce altrui e ffernato di quella prpuincia. cbenongligiaua. Cosi, ÌDunque unaperfenamedefì ma wn può effer Thofca per natura cr per arte B E v. Difficilmente per certo^ffendoTujanza,che per lughe% za di tempo è quafi ccnuertita in natura, diuerfa in tutto dalTarte,Onde,eome cbiè Giudeo,o Ueretico,rade mi tediuienebuon Cbrijìiano, arpia crede in Cbrijh chi mila credcua,q'ianto fu battexata ; cofì qualunque tton è nato Tbofcano più meglio imparare la buona lingui Tbofcana, cfie colui non fa, il quale da fanciullo in fu, fempremai parlò peruerfamente Thifcano . Cort. Io, the mai non nacqui,ne fludiai Tbofcano, male pofjò rivendere alle ucftre parole ; mndimmo 4 me pare.cbe DIALOGO  piti fi cormengd col uofho Boccàccio il parlar Fiorentino madcrno;cbe non fi il Bergamasco. Onde eglipotreb he effcr molto benebbe huomo nato in Milano,fenza b4 Ucr mai parlato alla maniera Lombarda, meglio appren ieffe k regole deUa buona lingua Thofcana,cbe nanfarebbe il Fiorentino per patruàtia che egli nafca,et park lombardo boggidì,crdiman d^matàmparle,etfcrìud regolatamente Thofcano meglio, e? pi» facilmente del Thofcano medcftmo i non mi può entrare nel capo : al trainane a tempo antico per bene parlare Greco,& Ld t ino, farebbe (iato meglio nafeere Spagnuolo,cbe Komai HOì& Macedone, che Atbenkfc. Bem. Quefìotw: perche h Uugud Greca et Latina a lor tépo erano egual tnevtc in ogni perfona pure,et non contaminate dSk bar borie dell'altre UnguexT coft bene fi parlauadalpopolo per le pìtzZCcottte tra dotti nelle lor [cole fi ragionata. Onde egli fi legge di Theophrafìo, che fu tun de lumi della Greca elcquenza,effendo in Atbene,*Ue parole ef fer fiato giudicato foreftiere da una pouera feminetta di contado . Cojt. lo per me non fo come fi fila quejì* coja; ma fi ui dico, che douendo Studiare in apprendere dama lingua ; più tcflo uoglio imparar la Latina c h Greca, che la uolgar : la quale mi contento ihauer por* tato con effo meco dalla cuna et dotte fafcie t fenz* eer* caria altramaite, quando tra te prefe, quando tra uerft degliauttorìThofcaniB i m. Cofi facendo ucifcriue* rete, et parlante a cafo,non per ragione: peroebe nium altra lìngua ben regolata a tltalkfenon queu n ma,di cui vi parlo, Cosi, Almeno dirò quello che io baucrò BELI, I t I M fi T li HI  in cuore et Io jludìo che. io porrei in wfik&parolctte di qucfh et di quellofi lo porrò in trottare et dijporrc i con cotti del? animo mioionde fi Aerina la uitadellafcrittura: che male giudicò poterfi ufare da noialtri a figafkttre i nofìri concetti qucUalingtia, Thofca, o Latina ch'ella fi fu.U quale impariamo,®- effercàiamo non ragionando tra noi i nojbi accidenti,ma leggendo gli altrui, QueSa d di notori chiaramente fi uede in un giouane Vadouano di nobili^imo ingegno, ilqttdk>ben che talhoracon mol- to (indio, che egli ui mette, akutid coft componga atU manieri di Petrarca, er fld lodato dulie perfone non» dimeno non fono da pareggiare i Sonetti, er le Canzo* ni di lui atte fu* comedie, le quaUnelldfua lingua natk Mturabnente,<cr damma arte aiutato par che gli efebi* no della bocca: non dico però che huomo farina ne Vada uano, ne Eergdmafco ; mt uoglio bene, che di tutte le lingue d'Italia paliamo accogliere parole,?? alcun mo* do didire, quello tifando cornea noipiacaji fdttMcntti ehe'l nome non fi difcordi dal uerbo > ne l'adiettro dalfo? Slantiuù; la qual regola di parlare fi può imparare in tre giorni, non tra grammatici nelle [cole ; ma nelle corti ed gentilhiiommnon ijìudiando, maginocattdo er ritów do, fenza alcuna fatica » er con diletto de difcepoli, cT de precettori . B e m. Bene jlarebbe,fe quefìa guift di fiudio bajtaffe altrui a far cofa degna di laude,®- dt me r duiglu, ma egUftrebbe troppo leggera cofa il farli e* terno per fama, er d numero de buoni er lodati lentia* ri in picelo/ tempo denterebbe molto maggiore, che egli non è. Btfognageuù^uomamio caro, uolèdo andar e f> perlemmì,w per le bocScdeUe perfonedel monda, lungo tempo jcderfi ntUafua camera, er chi morto m fé flclfo } difa di ù Mammona degli huomintjudar et agghiacciar più wltetct quanto altri itungii, et dùT* me a tuo Agio . pmr /urne, et mgghure .Cor t. Contatto ciò muffirebbe faalcofail diuemr ghrwfo j cucaltrc bifogna chcfaperfauelìarc.ée ne dite Hot mef (er Lataro.iopermefoncontento^ontenlandof: Hon- fenorèi che (i «o/ìr a JcntetEci ponga fine die nojhrt M L a z. Cote/io non/Vò w, cb'w uorrei éetditfen (oridiquefìa lingua uolgare foffero difeordt tra (ora, « cùct» d«ettt ^guìfa diregno partito, pw ^«ofmm- *erorà#ro kdifknfkmciiiilL Cobt. Dmpem Memi contro aftopimm dì lAonftgnore, moffo noiifoU mente dati 'amor denutriti lavale douete amare, er riuerire fapra ogm cofa, ma daltodw che uoi portate 4 ùue&a lingua uolgare,che mncendo,utncerete il miglior-  «JiWtijidgmafdo del quale prende dmodo argomento  impararla, a «ti • L A C"»^* fM ^ totidcchdie con quelle armi mcdcfme,òe noi opra* tecomr*ULatùia,v la GrecaM wMra lingua «olg** refi M«> CT fi 4mua. Cobi. MWigmw . ne i rwilaretóe giorti Kwer me debole combattitore, et gii itinco«e& battagltadianzi Stinti conmeffer Lazaroì  tauttonta, et dottrina Kotfro ledili ambedue mfiane mi datmaguerra fi fjwmte/b'uni conojco qualpm. perche, non ttokndo mjfer Lazmcongwar con ejjo *. - meco <t difendermi^ ego uoifrgnor Scolare, che con fi lungo I '.kntìo, cj fi attentamente ci bauete afcoltatUcbe baimdo alcuna arma,con la quale noi mi poetate aiuta* re, fiate contento di trarla fuori per me,che poi che <jue« fla pugna non è martak,potete entraruifenza pma^ac cofiandoni a quella parte,cbe piti ui piace: benché più to fio ui douete accodare aSa mia,ouejete ricbie8o,ct oue è gloriai' effer uintodacofi degno auuerfarìo.S c no u Gcntffbuomo io non parlifìnhcra,pcrocbe io non japed che m dire, non effendo mia profetatone lo fatato delle linguema uolontieri afcoltati bramando, CT fperando pur d'imparare. Dunque bauenda a combattere m difejtt d'alcuna uo&ra ftntenza > non ui pojfendo aiutare, to ui coniglio, che fenzame combattiate; che eghè meglio per uoi il combatter foh,che da perfona accompagnato* la quée, come inejperta deformi, cedendo in fui prin- àpio della battagli ui dia cagione di temere, Cf fard dare al fuggire. Corteo. Con tutto ciò,fe mipo* tete aiutare, che a pena credo che fia altramente } fendo fiato ft attento al nvfìro contratto, aiutatemi, che io uc ne prego,faluofe non jprexzate tal queBione, come uil cofa, (jdift poco ualore, che non degniate di entrare in campo con cjfonoi.ScHÓL A. Come non degnarci di parlar di materia, di che ti Bembo al prefente, cr altra uoìtail Peretta mio precettore inficine conme})er Lrf* fcari con non minor fapienz*, che eleganza ne ragionò ì troppo mi degnarei,jei fapefii, ma di ognicvja tufo poco, cr delle lingue niente, come queiio, che della tìr«4 comfc<ì a pena, le kttere, CT dsfo togfM Lati*    B I A L o e o  tu. Unto follmente importi i quanto baflaffe per farmi intendere t li&rt di philofophia d'Arrotile ; U quali,per tjueUo che io noda dire di meffer Lazaro,non fena ktU ni,ma barbari: della uolgare non parb;cbe di fi fatti Un* guaggì mai non feppi,ne maìcurdidifapercjdlua ilmio Fado nano ; del quale, dopo iilatte delia nutrice, mi fu il uolgomaeSlro . C o r t. Tur a wi cor.ucrrà diparlare, fenm altro, quello almeno,cbe ri apparale àd vcreito, eydal Lafcari ; liquali cofi fauuinente ( ceree mi dite) parlarono intorno a qucUa mai erid .Scaoi, Poche cofe delle infmite,che a tal materia pertengono,puo im» parare > in un giorno, chi non le afcolta per impa* rare; penfando che non b'tfogni imparare, Beh. Dit ene almeno quel poeo, che ut rimafe neUi memòrid} che a mefic caro [intenderlo . Laz, Volentieri in tal cd/o udirò recitare lopenione del mio macibro Peretta il quale, auiiegna cheniuna lingua fapeffe dalla Manto' ima infuori; nondimeno come huomo giudiciofo, er ufi rade uoltc a ingannar fi, ne può bauer detto alcuna cofi eo'l Ldfcorixbe Fafcoltarla mi pucerà. Pregoui adùqu e, chefe niente ue ne ricordatdlcuna cofa delfuo paffuto n gionamentonon ni flagrane diriferire.S c h o l, Cofi ft faccia, poi che iti piace ; che anzi uogUo effer tenuto ignorante,cofa dicendo non canofeiuta da. mei ebedifeor tc/e rifiutando que prieghi^be deano effermi common* fomenti, ma ciò fi faccia conpatto, che cornea me non è bonore il riferirui gli altrui dotti ragionamenti ', cofi il tacere alcuna parali, li quale dailbora in qua mi fu «« fcit4detitt memoria t nonmifia ferino a vergogna. Corte g. Ad ogni paltò mifottofcriuo t purche dicU te. Se ho L. L. "ultima itolta che mcjfer Lafckari uen* ne di Trancia in Italia j fondo in Bologna, oueuolontie ri habkaua i cr tuffandola il Perttto,come era ufo di fu re; un di tra gli nitri, poi che alquato fu dimorato con ef* fo lui, lo dimandò meffer Lafcbari, Vofira cccelienza macflro Piero mio caro,chc legge quejYamoiP e k. Si* gnor mio io leggo i quattro libri della Meteora d'Anito tele, L asc. Per certo bella lettura è la ucshra: ma come fate d'cjpofitorìt Per, De latini non troppo bene ; ma alcun mio amico m'ha feritilo duna AkffandrO. Lasc. "Buona ckttioncfacejìciperocbe Aleffandroè Ariftcte le doppo Arinotele : ma io non credeua che noi fapefìe lettere greie . P b ». Io t'ho Uttno,non greco. Lasc. Poco frutto doucte prendere, pir. Perche? Lasc. Perche io giudico Aleffandro Apbrodifco greco come c, tanto diuerjo da fé medejìmo, poi che latino è ridotto, quanto è uiuo damorto. Per. Qnejìo potrebbe efjer che uero fuffe : ma io non uifaceua differenza, anzi pai faua, che tanto mi doueffe gwuare la lettione latina, cr uolgare(fe uolgttre fi ritrattale Aleffandro)quàto a gre ci la grecai con quefia jperanza incominciai a jiudiar fo. Lasc. Vero è,cbe egli è meglio che noi I'babbut* te latino, che non Chabbiate del tutta, ma per certo la noe jka dottrina farebbe il doppio,^ maggiore, cr mr^/io* re, che ella non è,fc Aratotele cr Akffandro fuffè'ktto da uot inquelLi ltngua,nella quale l'imo fcnffe,cr l'altro lejpoje. Per. Per qual cagione,'Lajc, Verciocht piufacilryeittc, cr con maggiore eleganza di parole jo  P no  DIALOGO  no tfbrefii da là ifuoi concetti ntUa fud Ungiti, che nel* l'altrui.V e r.V ero forfè direfìefe io fufiigreco,fi come nacque Aristotile : mw che huomo lobardo fludid greco, per douer far fi più facilmente pbdcfopbo,mi pur cofa. no ragioncuok,anzi difconuencuole, non ifcemandof pun* to,maraddoppiandoji U faccia dell'imparare: percioebe meglio, et più toh può àudiar lo [colare Loic<*/ok,o fa lamente pbibfopbu,cbc non farebbe, dando opera alla, grammatica-, fcetiahnente alla grcca.L \ s c . Per quefla ijtcffd ragione non doueuate imparar ne Latino,™ Greco ; ma follmente il uolgare Mattonano ; a" con quefo phibfopkare. Pee.Dk) uoleffe in feruigio di cbi uerri doppo mc,cl:c tatui libri di.ogni fdenzA, quanti ne fono greci,cjr latinùcr bebrei; alcuna dotta, et pictofa perfo* ni fi deffe a fare uolgari : forfè i buoni phibfopbantiff rebbom in numero affai pia jbefii,che a di noétri non/o* iios er k loro eccellenza diuentarebbe più rara. La se, O non u intendono uoiparlate con ironia. Peb. Anzf parlo per dire il nero ; er conte buomo tenero deU'honor degli Italiani, che fc ^ingiuria de nofbri tempi, cofì pre* f°nti,come paffuti «olle priuanni di quciìa gratin dio mi guardi,cbe io fu pienone cofi ar fo d'inuidta, che io dift* deri di priuarne chi nafeeràdoppo me. La s c. Volon* ticri tidfcokcròje ui da. il cuor di prouami quefìa nuo* tu conclufìone,cbc io non fintendo,ne la giudico intelligibile. p e r. DttcmiprintOyOnde è,cbc gUbuominidi quella età generalmente in ogni fetenza fon men dotti, et di minor prezzo, che gii non furon gli antichi f Oche e centrati dome icondofu copi che molto meglio, et  DELIE LINGVt, 114  pia fàcilmente fi poffa aggiugnere Acmi cofa alla dot* trina trouaU, che trovarla] da fe medcfimo ? La st. Che fi può dire altrove non che indiamo diw.ée in peg- giof? t r. Queflo è uerojtta le cagioni fon molte, tra le quéi mia ne n'ha, er ofo dire la principale, che noi aM modeniuiuiamo uhiirnogran tempro, confinando la mi glior parie de nolbi anni la qual cofa non aueniua agli anticbi.epcr dijling'iere il mio parlare, porto ferma i pe nione,che lojludio della lingua Greca, cr Latinaji* ca gione dell'ignoranza: che fc'l tempo, che intorno ad effe perdiJìno,li fbendejfc da noi impavido phihfophiaipcr auetitura Feta miderna generarebbe quei piatovi, ry quelli A rifloteh, che proda eua Cantica . M<i noi tim più che le canne,pentitiquafi Shauer UfcUto la cuna,ey efierhuemini diuemti, torniti un altra uoita fanciulli, altro non facciamo dieci,cr urtiti anni di quella uita,cbe imparare a parlare chi hiino,chigreco,cs akuno(ccme Dio utiolc) Tofano : li quali anni finiti,?? finito con ef= fo loro quel uigore,zr quella prontezza, la quale natu* ralmente /«o/c recare alTtnteUettolagioucntù ; aVhora procuriamo difarcipbilofopbi, quando non ftamo atti al Ufheculatione delle cefe . Onde feguendo l 'altrui giudi* ciò altra cofa non uìcne ad e(fere quejla moderna Yilofo fa, che ritratto di quell'antica . però coft come ìlritrat= to,quaiitunquefato d' artificio f fimo dipintore, non può efier del tutto fintile all'idei ; cofi noi,benche forfè per al tezza d'ingegno nofamoputo inferiori a gli antichi ! 0* dimeno in dottrina tanto fiamo minori, quanto lungi > ì m po fiati fuiati dietro aUefaucle dcUe parole colera final*  p i mente    n I A LOGO  mente mitwnopHklophando m^UakunACofié^ emiendodcemnw knojtra mduUru. Lasc. Dm IJcljhdiodeUe lingue nuoce altrui finalmente, co* Itici ditele fi dee f^kieivb? 9t% AnjA  JW/i far deismo per taire, che d ogni coja per tutto Imoniopoffaparlcreogmlmgua. La se. Come wdfro pietrose i ciò cbc«oì4itef D«gtó d-reWe- uiihuorc diphilofopbare wlgarmenteta-fenxa bauer cogmtionedellalingua Greca, er UHM Vt% fiLrfupur che gli autori Greci,V Latmifmduceffe* rou dlani, Lasc. Tinto farebbe fruire Anftoff ledi line** Grw tn umbri ; fatto trafbmtareun MMCKfi unaolm di un ben colto horUceUojn un bo* C CQ di pruni.oltracbe le cofe di plnlofophufono pefo A ai tre (ballcòe da queRe di aueU lìngua Volgare Per. Io bo per ferra*!* le Imgucd'ogm paefe, cefi 1 Arabi* ta er r ibJww, come U Kòmma, cr 1 Atemefefma d'un medino wforr.rt d« mortoli^ un fine ccnungm dici* formatele io non uorreiebe uoine parlato come di coLdaUa natura prodotte ; effendo fatte,cr regolate dallo artifìcio delle perfone a beneplacito loro, non pian  ^Jmih^io^mimcemiAv^. ondetutto^belecofedanamturacreate^tlejcicnzedi  «uekJtatomMoytttro le parte delmndo una cofa mdefum ^nondimeno, perciò che diuerfi huomm fono didaerfo m lere,perèicriuono,o- parlano dwcrjamcnte, la qitaU diucrfttà, er confufìane delle uoglìe mortali degnamente è nominata torre di B<tM. Dunque non nafcono k ''»g" e pw f e medefme, a giàfadi albergo <fber he ; quale debbolc,w inferma nella fua fyetic,qu*kfaif<t ^rrobufla, etatU meglio aportarlafommsdinofbi kit mani concetti . ma ogni loro uertit nafce al mondo dal uo ter de" mortali, Per la qualcofa, cofi come fcn%a mutarfi di co!ìume,o di natione, il Trandofo,et l'lngle{e,non pur il Qfccojy il Romano, fi può dare a philefophare, coft eredo ebe la fua lingna natia poffa dir iti compiutamente communicare la fua dottrina. Dunque traducendof; a no flri giorni la pbilofophia jeminata dal nofìro Arrotile nebuoni campi tf Atbene, dilegua Greca in uolgare,ciò farebbe non gittarU trafili in mezo a bofcbi.oue fìerile àueniffejna farebbe fi di kntam propinqua, V di for e* {licra > cbe etU è y cittadina (fogni prouinàa . Et forfè in quel modo che le fbeciarie^zr i'^rc cofe orientali ano* yroutile porta alcun mercatante d'india in ìtalia,oue meglio perauentura fon ccnofciute,cr tratMc,cbe da co loro non fono the olirà Umore lefeminorno > er ricolfc* ro; fnnihnente le fpeculaticm delnofko Arrotile cidi* ucmbbono più famigliarle non fon lwra-&' più faci* mente farebbero mtefedanai, fe di Greco in ttòlgare al* cuna dotto Imomo le riducejfe. L a s c. Hiuerfe Imguefo* no atte afìgmficarc diuer fi concetti, alcune i concetti di dotti,alcune altre de gli indotti, la. Greca ueramente Un to fi conuiaw con le dcttrincycbe a doucr quelle fignijicd re,natura ifieffxjio banano prouedimeto pare che ihab bu formata : er fe credere non mi miete, credete abne*  P 3 f»  no d Platone, mentre ne parla mljuo CrrfiRo . Onde ci fi può dir di tal lingua., che (piale è il lume a colori, tale di i fu alle dijcipkne ifenza il cui lume nulla itcdrcbbc il ivijiro bumano intelletto; mi in continua notte d'ignoran tii fi dormirebbe. Per. Più toilo uò credere ad Arijìo tilt, CT alla ucriùycbc lingua alcuna del mondo{fu editai fi uoglia) non pojfa hauer da fe jlcjfa priuilegio di fignifi care i concetti del nollro animo >ma tutto confìtta nello arbitrio delle perfone. onde chi uorrì parlar di pbilofo* phia con parole Mamouane,o Milane fi inoligli può ef* /tv difdetto a ragione ; pia òe difdetto gli jìa il pbibfa* pbarc,or l'intender la cagion delle cofe, nero è,cbe,per* ebe limonio nonba incollameli parlar di phibfophia jc non greco et latino sgià credimi che far non pojfa aU frinente : cr fain di uiene ebe follmente di co/e tuli, er algori uolgarnun'e parla, orferiue la nofhra eti Et co m: i corpi,®- le reliquie de fanti non con kmani,ma con alcuna uerghsita per riuerenza to:cbiamv ; cafi i fieri mhleri della diurna philofophia più tojlo c5 le lettere del l'altrui lingue, che con li tiiua uoce di queila noBra mo* icrn a,à muiamo a lignificare : il quale errore conofei» to da molti, ninno ardtfcediripigliarb. Ma tempo forfè pochi anni apprejfo uerrà ebe alcuna buona perfona non meno arditi,che ingcnÌofx,porrà mano a cofufatto mercatantia : cr per giouare aUdgente, non curando dell'oc dio,ne della inuidia de litterati, condurrà d'altrui lingua dia noilra le gioie, ryi frutti delle feicntie j le quallibo r.i perfettanente nongujliamo.nc compriamo. Lasc, Veramente ne di fama, ne di gloria fi curerà, chi uvrrà prender la imprefa di portar k philofophk dati lìngua £-A tbene nella Lombarda : che tal fatica itow,cr bufi" mo gli recar a. P a s. Noia con/rflò, per fa Doniti dc/k ic/j<,ttM non kiir/rmo,cow:e credete: clic per uno che<U prima ne dica male,poco da pei mille, er mille altri lode. ramo,tt benediranno ìlfuoj\udio,queUo ritenendogli che antenne di Giefu Cimilo ; iìquale, togliendo di mo* rir per la fallite degli buomim,fcbernito primieramen* te,bujmato,cr trucifìffo d'alcuni tippocriti.hcra alla fi ne da chi! conof<e,come iddio, et Saluttor noflro ft ritte rifce.& adora, Lasc. Tanto dkefte di <jae/fo uoftro buonbuomo; che di picciolo mercatante l'bxuete fatta Mefia : il quale, Dio uogliacbefta fintile* quello che anebora affrettano li giudei; acciò che berefia cofi itile mai non guafìi per alcun tempo k philofophk d'Arifioti le . Ma/e noi fitte in effetto di cofi fìrano parere ; che non ut fate a di noflri il redentore di quejla lingua uoU gare f Per. Perche tardi ccnobbi la ucritk ;er a tari po,qumdo la fòrza dettinteQetto non è eguale al uolere. Lasc. Cofi Dbirìaiuti ;comc io credo che motteg* giite;faluofe,comè fanno i maliticft, queQovicco no bU fonate, ebe non potete ottenere. Per. Mon/ìgnor le ragioni dk nxi addotte da n!e 3 non fono lieui ; che io deb* ha dirle per ifberxare icrnonè cofi eoft éffiàle U co* gnition delle lingue ; che bucino di meno che di me* diocre memoria, er fenz* ingegno ueruno, non le pcfft imparare : quando non pur a dotti, ma d forfennati Atbenicft, er Romani, folea parlare eloquentemente CICERONE (vedasi),?? Demojlhette, er era intefo (Utero . Cerio  P 4 «tfnif «inijgr Ufirimiferamente poniamo in apprender queU le dite lingue t non per grandezza d'oggetto ; ma) olamen, te perche aUo lludio delle parole contri la naturale meli nxtione del nojlro bumatio intelletto ci riuolgiamoul qua le difiderofo di fermar)] nella cognitione detle.cofè, onde diurna perfetto, non contenta d'efferc altroue piegato, otte ornando la lingua di parolctte er di dande refli uas ttd Li nofbra mente. Dunque dal contrailo che è tnttauid tra la natura dell'animi, er trai cojlume del nojlro jlu* dio,dipende la difficultàdcRa cogmtion delle lingue, de* gna neramente non d'wuìdktma d'odio: non di fatica 3 mt difajlidio : er degna finalmente di douere effere non ap prefajna ripreja dalle p.rfone : fi come coftMqualc non è cìboma fogno, er ombra deluero cibo delTinteUetto . V a s c, Mentre noi piatiate cofi, io imaginaua di ittderc krittalapbitcfopbiad'Ariftotikin Unguabm* barda udirne parlai e tra loro ogni tùie maniera di gentcJaecbinUontadinhbarcaroli, er altre tali per fané, con certi fuoni,<cr con certi accenti, i più noiofi, er ipitt {brani, che mai udijii alla tòta mia . In quejlo mezzo, mi fi paraua dinanzi effa madre philofopbia utilità affai po veramente di rontagniuolo piangendo, er lamentando^ i' Arijlotih,cbe difprezzando lafua eccellcnzatbautft fediate condotta, et minacciando di non twlre fior piti in terra : fi bello bonore ne te era fatto dalle fue opere : ilquale ifeufandofi con effo lei „ negaua d'bauerU offefa giamai : fempremai bauerla amata, er lodata ne me* no che borreuolmente batterne fcritto, o parlato men* tre egli luffe ; lui effer nato tj morto greco,non Brefciae no ncVergomafco, er mentire chi dir uolcffc aUranvm te : olla qui uifione diftderaua che noi mfujHe prefetste. •P e i. Et io (e fiato ui f«j?t > harei tetto non douerfi U pbthfopkia dolere ; perche ogni buomofer ogni luogfc con ogni linguai (ho ualorc effàhaffc : quefiofarfi an# a gloria, che a ucrgogm di hi . la quale (e non fi (degni Stergare negli intelletti Lombardi, non fi dee ancb$ (degnare (Teff, r tratta daHU br lingua : l'Indù, la Srtf tbia,CT f Egitto, cue babitaua fi uokntieri, produrrc gc* ti cr parole molto pi.i jkane e pi» bai bare, che non fono bora le Mantouanc, er le Eoiogw/i : lei lo (ìndio tkU Ungua greca,® 1 latina bauer quaft delnoflro mondo crftf ciato ; mentre hv.cmo non curando di faper, che fi dica } nanamente fnok imparare a parlarci et lafciandof Intel letto dormire, fucglu er opra la lingua. Notar in ogni ct4,m ogni prouincid, cr in ogni babùo effer (emprcnai ma cofa medeftma ; Lupaie, cefi cerne uolonticrifa fuz arti per tutto l mcndc,non meno in tcrra,cbc in cielo; cr per effer intenta aUa produttione delle creature rationa* Unon fifeorda delle irratiotitlii ma con eguale artifìcia genera noi,er t bruti animaliicofi da ricchi parimentc,et peneri huommi, da nobili, er «ili perfone con ogni Un* glia, greca, latina, hebrea, cr lombarda, degna d'effere&-conofcittta,cr lodata. Gli auge Hypcfci er tre be(ìie terrene d'ogni maniera,bora con un (uovo, ho u con altro fenza dijìintione di parolai loro affetti f già (icore ì molto meglio douer ciò (are noi buomini, ciafeu no con la fua liìtgud ;fcnz<tricorrere aWaltruidcfcrittu* re,cr i linguaggi efferc fiati trottati ma ajaltite teUa n* turala quahicome diumd,cbe etk è)non ha mefticri iti mftro diutojmafolamentea utilitaet commodità nojìra, gecioée abfenti, prcfenti 3 uiui,& marti, manife\ìando (un Ultra ifecreti dei cuore, più facilmente canfeguias no la noflra propri* fe liciti ; laquale è pefìd neUmtcU tetto delle dottrine > non nel fuono delle parole : er per confeguente quella lingua,?? quella fcritturddouerfi u* fare da mortali, la quale con più agio apprtndemo: er €omemeglio farebbe itatele foffe fiato pofiibilc) Chaue re un sol linguaggio, l'i quale naturalmente fuffe ufato da gli huomiri, cofi bora ejfer meg^ebe tbuoma (crina, et ragioni neUamaniera, ebemen fi fcofladatta natura : k qualìTumicrd di ragionare appcnanati impariamo :ey a tempo-, quando altra ecft non fono atti ad apprendere, et étrotavto barri detto al mio maeflro Anjlotilc ideila etti eleganza goratione poco mi i urarei, quando fènza ragione fusero da lui ferita i fuoi libri ; natura bauer lui mietuta per figliuolo, non pcrtffer nato in Atbcne, ma per bauer bene in atto intefo<bcne pérldtOi&benclcrit to di tei : la verità trouata da hi, tadifpofitene, cr Cor* dine delle coje,la grauità er breuitì del parlare eflerfua propria,®- non d'alìrme quella poter)] mutare per mu* tomento di uoce : il nome falò di lui difeampagnato dalla ragione ( quanto a me ) ejjere di affai piatola auttoritd, a lui fiore, fe ( emendo Lem bardo ridotto) effer uelef* fc Annotile .noimirtali di quella eùcojì bauer cani f noi libri tramuta incluùm i '.inguaiarne glibcbberoi greci = mentre greci gli jludu iurta . li quai libri con ogni iniujbia procuriamo d'intendere per diuenire una uolta  non Athcniefi ima philofophiicr con quefìa riftojl* mi farci pai-tito da lui . L a s c. Di'fe pure, CT diff derate aè che uolete j m i io Jprro, òe a di uoftri non utdrete Arijhtik fitto minare. Per. Perciò mi doglio delhmiferaccnditione di quefli tempi moderni, ne quali fi finiti non ad ejfer, mt a parer fauio : che ohc fola una liti di ragione in qualnnque linguaggio può con du ne alla cogniimedeìh iteriti ; quella da canto lafdi ta, ci mettiamo per jìrada,ti quale in eff. tto tanto ci dfc lunga dal noftrofme {quanto altrui pare, che ni ci metà uicini ; che affai credemo d'alcuna cofa faperc, quando, fenza conofeerc la natura di ki:pofi mio dire in che mo- do In nominali CICERONE (vedasi), PLINIO (vedasi), tmctfo, cr VIRGILIO (vedasi) tra latini fcrittori ;cr tra greci Platone, Arijhtile t De mojlbene, cr Efclme ideile cuifemplici parolctte fan- noglìbuominidiquefta etàlc loro arti, cr fcicntiejn giujx, che dir lingua greca, C latina par dire lingua di ulna, cr che la lingua volgare fa una lingua inhu* man, prilli al tutto del difeorfo dcU 'intelletto ; for* fe non per altra rdgione, faluo perche qucftunx da fanciulli, cr fina jhidio imperimi) ; oue a quel* laltre con molta cura ciconuertiamo icome a lingue, lequali giudichiamo più conuenirji con le doArine, che non fanno le parole della E «griffa, cr del batte f* ino con ambidue tai facramentii la quale feioccaop* penione è fi fiffanc gli animidc mortai, che molti fi fanno a credere, che a douere farfi philofophi bxjti lo* rofapcrefriuere, cr leggere greco fenza più : non aU tramente, chefe lo fòirito dì Ari] fatile, aguija difolkt*    to in cr&aUofieffe rmchiufo neWabhabeto di Grechiti con lui mfiemefuffc corretto a entrar loro neWinteSct* tea fargli propbeti: onde molti n'ho già vedutiti miei giorni fi arroganti,cbe priid in tutto d'ogni fdcnza,con fidundofi folamentc neUacognition della lingua, bmm hauuto ardimento di por mano afuoi libri, quelli a guifa de gli altri libri d'bumanità publicamtnie ponendo . Dùque a colìoro il far uolgan le dottrine di Grecia par rebbe opra, perduta fi per la indegniti della linguaicome per l'angujHa de' termini, dentro a quali col fuo Ikguag gioè r'màiiufahtaha, uanaiflimando l'imprefa dello Jciuere, er delparlare in maniera, ebe non [intendano, li iìudiofi di tuttol mondoMa quello che non è fiato ue* duto da meìfpero douer uedere (quando che fia) chi no* /ceni dopo mc&r 4 tempo t che le perfone certo piti dot' te t ma meno ambitiofe delie brefenti, degneranno £ef* jer lodate nella lor patria, femy. curar fi, che la Magna, c .diro fìrano paefe riticrifca i lor nomi ichefela forma delle parole, onde i futuri pbibfopbi ragioneranno, er fermeranno delle fetenze, farà commune alla plebe, tin* iellato, er il fentimento di quelle farà proprio de gli a* autori, V jiudiofi delle dottrinerò quali hanno ricetto, noiicUelinguefmanegUatiimidimcrtali.S c a ol.Gw sapparcccbiauamcffer LafcariaUarijj>ojla,quando fo* prauenne brigata di gentillniomini, che ueniuano a uifì* tarb, da quali fu interrotto [incominciato ragionamene toipercbc faktati [un [altro con prameffa di tornare al* tra uoltajl Peretto,et io co lui ci partimmo. Cojteg. Co fi bene mi difendere con [annidelmacftro Peretta  che DELLE UNCVt. "9  che l'I por mano alle uojire, farebbe cofdfuperfbd per- ii <M cofa auegnd,cbe Hparkrt intorno a quefìamate rid fulfe iiojìra profetane > nondimeno io mi contento, ée uì tacciate: ma del foccorfo preftatcmi.partt dd Tdii tariti di coft degno philofophofdrte dette rdgionUnte* dettelo ue ne muto immite grdtici&uiprometto, che perfinire ilfdjìidio dello imparare a parlare con le Un gue de' morti; feguitando il coniglio del maeflro Perei* tadorne fon nato.cofi uoglio iti uere Romam,parlar Ko mano, 0-fcriutre Romano : V * uoì meffer L4Zaro, cornea perjona d'altro parere,predico,che indarno tcn* tate di ridurre Mjuo lungo eftlio in ltdlidktwjhra Un* gua Latina, cr dopo la totale réna di tei, fottcuM* terraxhefc quando Jk comineidud a cadere,nonfu huo mojhefojlcnere ue la poteffext chiuque atta rumasi pofe>aguifd di Polidamante fu oppreffodalpefoi feoM, cUgìdce del tutto, rotta parimente dal principio et dal dal tempo; quale Aéletd, o qual gigante potrà uantarft ii rQtmWne a me parere a uofbri fritti riguardose ne uogliate far pruoua-xonftderando chel mètro jerme* re latino non è altroché mandare ritogliendo per que» fì'auttore, cr per queUo,bora un nome, bora un ucrbo, hard un'dduerbo della fu lingua: il che facendo,/e noi fperate (quafmuouo Efculapio) che il porre mjir.ne cotdikagmentipo^farldrifufcitdre^iu'mgamuU; non ui accorgendo, che nel cader ^ dififuperbo edificio, una parte diuenne poluerej? un'altrd dee effer rotta (« più pczzdt quali uolcre in uno ridurre, farebbe cofdim* paRibik Jenzd, 'he molte fono dell'altre parti, k quii r ' ' ruiwfe timafè in fondo delmucchio, o mudate daltempo,Hen fon trottate d'dkwno:onde minore,cy men ferma rifarete lafabrica, ch'eUa non erida prima : cr uettendoui fatto di ridur lei alla fu* prima grandezza ; mai non fa acro, (he «01 le ditte Inferma, che antkaincte ledicrono que" fn'mi buoni architetti, quado mona la [abbicarono: anzi oucfoleua effer la fala, farete le camere, cmfjnddrete le pori e, cr delle jineftre di lei } que&a alta, quell'altra baffa nformarete: iuifode tutte, £r intere rifugeranno tefue mmtglie, onde primieramente s'i&unwaua il pa* lazzo:?? altronde dentro di lei con la luce del Sole alctt fiato di trijlo uento entrerà, che fari inferma la flanzd, finalmente fari miracolo più, che httmano prottadimen* fo il rifarla mai più cguale,o fintile a quetTantic^ejfen* do mancata (idea, onde il mondo tolfe l'effempio di edì* ficatU . perche io ui etnforto et lafciar ttmprefa dì uoler faruifmguUre dagli altri buominh affaticandoti uana* mente fenz4prouolhro ì et 1 d'altrui. Lai. Perdonate* migentdbuomo f uoinonponeSeben mentealle parole delmiomacftro perettoUqualenonfolainentenon rie» faua,eome Mifdtc^i^&Mgr&^O'bxmmzifi bt* puntava d'effere a farlo sforzato ; dtftdcrando macia, neUd quaUfenzA l'aiuto di quelle lmgue,potef]e il popò* b }ludiare,& farft perfetto in ogmjaenzaJa quale ope nione io non hudo, ne uitupero, perche quello nonpofa fo,quejlo non uogUoìdico follmente non effere Hata hene intefa da uoimde la deUberatione uoiìra non hauerk origine ne de£t4Utorità 3 nc delle ragioni del maejiro Pe* retto :m àalm&ro appetita ì hqmlefeguite quanta  n'aggrada, che altrettanto iofaròdelmioiéhefcl «ag- gio, the io tenga, è più lungo cr piti fatkofo del «oSroì ptraftenttar* non fjajluanoiO'd fine delk magioni* ti a buona albergo fmo 3 quantimqic Sa no, mi condur* ù, B £ m, Mefier LdZaro dice il uero,& u\ggiungù cbe'l Peretta in qucll'hota{comefime pare) attuto del le UngueMuendo ricetto ali* phibfophk,et altre /imi li fetente. Perche po\ìo,che uerafu kfua cpmonr.zT cofì bene poteffe pbilofopbareil contadino, come il gen (fl/7«o»io,er il Lombardo, come il Romano; non è però the in ogni lingua egualmente fi poJ?rf poetar eg? crare^ tonciofiacofa che fra loro luna frn pia et meno dotata de gli orn ament i della profa, er del uerfojbe taUra non è. ha cjualcofafu tra noi difputata da prima, fenZftjar p< role deBe dottrinexT eome albera ui difìi,cofi uì dico di nuouoìche fe uoglia ut urna mai di comporre o canzoni; c noueUe al modo uoiìro, cioè in lingua, che fia diuerft dalla Thofca>ìd,etfenza unitateli Petrarca, o Boccac tioyper duentura noi {irete buon cortigiano, ma. poeta,o oratore non mai. Onde tmto diuoifi ragionerà,ej fare* te conofeiuto dal mondo, quanto k usta uidurerà, ey no più ; < ociofta che la uofbra lingua RotiMiw hébk uerti tt forili piutoBogratiofo, cheghriofo. Dialogo della rhetorica. Valerio, Brocdrio, Soranzo.  A l. Horrf mentre, che noi ridiamo,?? giuochiamo o Bro cardo Jl Cardinale Don Her* cole col Friuli, e col Nauagc* ro,w cafa de lambafciador co t armi, dieno effere a quejlion* dijputado fra loro detta nojìra mrnortalìtkq-im forfè n'iettano, ej duole loro il nofbro tardare, perche a me pare, cbcfenz* indugio niuuo noi andiamo a trouarlikqual cofajhieri diferainful par tir fi da lorojagionduamo diàouer farext quello, fenoli penaltrofi atmeno t percbe il soràio fludiofifìimo gioua ne,©" no bene ufo difoler perder te fuegiornate,delfm iffer co noi coglier poffa alcun frtitto.w pur otwxt joU l.tZZo.'B r o. Io ho openiane* cbeiefferprefente a loro dotti ragionamenitfarebbe indarno per noixociofìa t cht «Ut nojbri fludij mal fi confaccia k questo dijputata.per chepiutofìo configlierei,chefra tui,cofa parlando, (he ti conuenga,fì comoartiffe qwcjta giornata* t /ìa la co/a, qtule il Soranzo U eleggerai al cuiferuigio il prww di, che iol iQnabbi t di tutto cuore moferfi, et offero hoggi, (ytuttauia. Val. Dite-id^ueo Sorarc?o,aò che ut parcchemifacciamo, chelparer ucftro d'mbidue noi uotenticrifijeguarà. S o a. Forfè accettando le uoihre offerte farò tenuto profontiwfo; ma a mio danno non io fdrò. Quiftaremoje egli tdpidce, w a phdojopbi io fbc cular rimettendo,dcUa ulta ciuile,nolha humana profef* fione,dìquaittodegnaretc di [duellarmi. Chiamo uiuci* mìe nonfoUmcnte la bontà de cojlumi col morahnete o per ore, ma il parlar beat a beneficio ddl'haucre., delle ferfoneg? deKbonore de mortali: Lt qua! cofa perauentura è utrtu non mcn bella infe jlefi^omen gicucuole al li bumankjJeUa prudenza, et detkgwfiitUi ma in m* siero difficile do poter effer'apprefdst effercitata da noi tbenuUdpiu.lo ueramente quato ho di tempo, cr dOnge gtìo uohntmi tutto dono dllo jìudio dell' eloquenzdMcbc faccio $arte leggendo, parte fcriuende ; er quei precetti tdempicndo^he CICERONE (vedasi), ey Quintiliano con meli* cu ra lìudivrono d'infegnore : eoa tutto ciò io non nc jò nuU k ; nefo s'io fyerifaperncjcrm., rj legga quanto io mi troglker ciò è, perciobe a me pare t cbe iprecettìdeSar te loro fono infittiti i e7$<$é uolte (òche io m'inganno) f uno aSdkro fi contradice : io giudico, Cicerone tfferc fitto oratore moka miglior, che Rbetore:fì come quel* b,cbe meglio parla,chenon ci infogna a parlare . Oltr4 di quejlty, io fono in dubbio fe Torte Oratoria deSd Un* pia Latina fi conuegno con Poltre lingue, jbetuimaitc con la Tofcana,die noi uftamoboggià > nel quale io ho opinione che a dilettare alcunmamnconico, mutando il Boccaccio gualche noueUéft pojfafcriuere fenzdpm co fa ueramente ditterfa dalle tre guifh dicduje .; le quali da latini fcrittori fola, cr generd!t materia deUd loro arte Rhetowa fi nominarono . Do quejH adunque, rydaah*  <C tri tdi dubij, che di continuo mi s'aggirano neu"inte n etto t infm bor j. non ho trottato chi mi fuiluppi ; che di miti, che io n'ho pregati più mite, a tale manca ilfapere, a U le il modo dellinfcgnare : mi affai nefapcte,er d'ogni cofa da uoifapuU con bcUo, er difereto ordine [lete ufo.* tidiragionare. percbe,hora, che uaipottte,io ttiprego, che de precetti di cotale arte, quanto a uoi pare, che mi fu lecita di conoscerne, liberamente mi [duelliate. V Ala Cerio egli è il nero quel che uoi dite, cheli Khetorica è buoni parie di nojtra iuta cmU ; fenZA là quale rimane mutola ogniutrtu : ma ella è cofa da ogni parte infini* t a, er è difficile parimente il tronarui cofi il principio, come il fine, quindi ddiuiene, che Cicerone in molti fuoi libri parlandone, mai non ne parla in un modo : come e Adunque pojiibile che dWimproiafo in un giorno, tale& Unti arte vii fu mojìrata da noi ì Bróc. Quejìo è cofi imponibile m lo dimanda il Stronzo, ma alprc ferite tf una parte dì Uì, er fu la parte che uoi uorrete, famìgliarmente parlando, è ben degno che'l campiacia* te. Vai. Io per me in quanto poffo pronto fono d douerU piacere > dicale? chiede ciò che a lui piace,ch'io ne ragioni. S o tL.Miodifiderio farebbe da principio face» doro/, (fogni fua parte infmo afta fine mformareùkbe effere non potendo, ditejni almeno una cofa, cioè,chefetf do ufficio decoratore il perfuader gliafcoUanti dilef tando,infegnando,rj mouédo,ìn qual modo di quefìi tre, più conueneuole affarte fua con maggior laude dife, re chi ad effetto il fua diftderio .Val. Molte cofe in foche parole mi domandate; onde io comprendo j che piu fapete dcSa Khctortca, che non ui atunza impararne. La quefiione è bellif?ima,aMa quale non terminando* me dijputondo rifonderò. Voiopporecchiateuinonfo* Unente od udire, ma a contradire : cr cefi ficài il Bro cardo, il cui parere nella preferite materici perauentura farà diuerfo dal mio. B r oc. Senza altramente poi* faruijl mio parere fi è, cbe'l diletto fta U uertu deKord* tione,onde ella prende la bcttezzd,zr U forza d perfua* derechìl accolta : che poflo cafo che f Oratore, quanto è in lui,habbia uirtu £mfcgnare,ct di mjiiere,infinitifon gli accidenti, dalli quali impedito non può fornire a fuo ufficio. Ciò fono U bruttezza del corpo fuc,U dijpropor tion della itoccj.i mala fama del fuo cliente, h dtshonc fladclla confa, cr finalmente la (lanchezza de glt auditori, li quali lungamente fiati attenti alle parole de gli auuerfarij,fchùà fono daffofcoltare : fenza che il fuo nome altrui ad ira, a mifericordia, o ad altro affit « to coUle, dee effere co/a non sforzala, ej per confeguente noiofa 5 ma fornmamente piaceuole a quel cotale, cui egli muoue, ©" jojpmge . Segno ueggiamo, che A precettori dell'arte non bafiando il darci tonofeereinge nerale in qual modo lOratorria poffentt di comouere li noftri affètti idiflintamentc quali fiata i coflumi de ighuani, uecebi nobili, itili, ricchi, c poueri cidi* moftrano : itile nature de i quali con bell'arte tantedet* to lor motùmento uomo cercando dtaccommodare . Dettinfegnare non parlo, che non ha il mondo la mag* gior pena, che [imparare mal mtontieri.quefìojàoe grìwto, che fi morda, fofferc fiato fanciullo, cr f>l* fb io,per quel ch'io prono al prefente mczo vecchio Jì co me io fono ; che mai non odo il Koinojne leggo Bartolo, c Bili) (il che faccio ognigiorno per compiacere a mio fière ) ch'io non bclìemmi gii occhigli orecchilo ingcgno fflio,©" lo uitamia condannata innocentemente afa ucr cofa imparare, che mi fio noia il faperhMdarm adu que iinfegnare, 0" dì moucr non dilettando ci fatichi uno i zi dilettando fenza altro(quanta è la forza del com piactre)ftasno polenti di perfuader gliafcoltantitripor tondo U difiato tintoria non per forzarne quali merito di ragione, ma come gratta a noi fatta da gli afcoltanti, per quel diletto, che nelle menti di quelli fuol partorire Torà* tione ben compojìd, ©" bea recitata, E f ucr amete quella ì buono Oratore, il quale parlando £ alcuna cofa princi palmcntcnon con U confa trattata, fi come fanno ì philo fophi,mo con tarbìtrio^ol nuto&col piacere degli au* ditori,tenta,cr procura dì convenire,qucUi allcttando in maniera, che altrettanto dì gioia rechi loro loratione la otte eUamoue, ©" infegna, quanto fare ne la ueggiamo mentre ci lo adorna per dilettare . er queSio è quanto mi par di dire nella prefente materia . Val. No» pen* pie dtcofi tatto ifbedirui dalla imprefa già cominciata, the le ragwtJJ,efw ci adducete, quelle meglio non diflm* guendo, nonfonbajlattti di farne credere fopenicne prò polla, adunque egliè meflicri che in qnefla confa medefì* ma argomentiate altramente :ilche fatto, perche al So* rmzopienainentefcÀisfocciatejpmmimfacédouitCoa bello ordine mofhrarete in che modo, er per qual uia prò udendo coté uicà del dilettar gli afcoltanti poffa acquifiarft f orario)» uotgare : che a tal fineife io non ntingaa mìgli udimmo fjre kfm dimanda. Broc, Molte fon le ragioni, per le quali fi può Koftrar chiarantnteipet fetto Oratorcdilettandopiu che tnfcgnxndo,omouenda ti fttóttfficio adempire: te quai ragioni, {Indiando dejfet brieue,perche a uoi pia tojlo il douer dire uemffe,dc(ibt rai di tacere s ma fé mi o Scròto, cotanto difiderate (fòt lèderle, er ciò ut pare che molto bene al fatto uojiro per Ugna io che ne parlo per cMpiaccrtà aclentieri incornili darò i quindi ti principio prendendo j che la Rhetoriat non è étro,cbe un gentile artificio d'acconciar bene, et leggiadramente quelle parole, onde noi buominifignifi* marno Um (altro i concetti de nofìri cuori. Diremo adu que, che le parole nafeono al mondo dalla bocca del noi* goderne i colori dulie herbe ì ma il Grammatico <fWf Orator famigliare t quafi fante di dipintore,queBa decada* Cr polifcctonde il macjlro della Khetorka dipingendo U ucritiyparlit er ori a fuo modo. Che cofi come col pendei  10 materiale t uolti, er i corpi delle perfonefa dipingere  11 dipintore la natura imitando, che cefi fatti ne generò s cofi k lingua decoratore con lo flilc delle parole bora in Senato, bora ingiudkio, bora al uotgo parlando, ci ritragge la ueritÀ ila quale proprio obietto delle dottrine fyecuUtiuejwn altroue che nelle fcboleg? tra pbilo* fophi corniciando ; finalmente dopo alcun tempo d grufi pena con molto fludio impariamo .Ut è il nero, che coji come a ben dipingere Ut mia effgie,è afpti il ueder>ni,fn Za Altramente hauer contezza de miei coltumi, o lunga* «ente con effo meco domfkarf: » dipingendo l'artefice  DIALOGO miffabra cofa di me.faluo U ejhrema mixfuperficie,nota agli occhi di ciafcheduno j fmitmcnte a bene orare in o* giù materia ball<i ti conofecre un certo no /o che detta tic ritk che di continuo ci jia innanzi fi come cofa, ti quale ne i nofìri aitimi naturalmét e difaperk itftderofi, fin di principio uoik imprimer Domenedio, Può bene effere, tyfbefic uolte adiiuenc che la ignoranti* del uutgo f 0« rotore afcoltando,colga in f cambio cotale effigie dipinta, lei ifìimando U uerità ; non altr umente per anenturd>chc l'idolatra plebeioje dipinture^- le 0atttc,nojkc buma* ne operationi s f accia fuo Dio, er come Dio le riuerifed* Può anche ejfere che Foratore ori a fine d'ingannar le. perfonerfando loro ad intendere, che'lfuo diffegm fìa il uero,non del nero ftmilitudìne ; nclquat cafo quello coM lejnon ofìante il fuo ingegno merauigtivfo, meritarebbe, che fi sbandiffe del mondo itydift fatti oratori fi deono intender le parole di chi biafima la Khetorka ; cioè colo ro che ad altro fine la effercùancyhe tindulìria ciuile no U fermò. La qual cofi no pur a lci,ma a qualunque altra più honoreuole,et utile arte è tra noi,facilmente intrauit ne.Uora al propofito ritornado, certo per le cofe già det te, in qualche parte no fìa difficile il giudicare la queflian coiiiweiittJ, percioebe Cinfegnare, il quale è jtrada alla uerità propriamente parlandolo è cofa da Oratore; piti tofto è opra diUe dottrine fpectdatitte; le quali fono fden Ze non di parole, mi di cofe, parte dìuine, parte prò* dotte dadi natura . Kelìa adunque che noi tteg giamo quale ufficio f ìa più proprio deli" Oratore trai ddstta* re, zi d mouere, fi mamme, che innanzi tratto; un  COROLARIO inferiamo ; cioè, conciofia cofi chel perfetta Oratore tuie fappia,qual parli ; e quale in fegna tale imm par affé i troppo ora chi ha opinione cbe'lfuo intelletto^ che non fa nidla 3 fìa uno armarlo d'ogni fetenza : non per Unto fempremai in ogni età rari furono non pur li buoni ma i mediocri Oratori ; ertili nofìri fono ronfimi ino gm lingua ; fi è coft diffìcile non follmente il faper bene U miti, ma ii pxrcr difaperk, Hor di quejìo non più i er aUe l te del diletto, et del mouimento conferiate che io ini riuolga . Certo,nattfrabnente parlando,ogni dilettofièiHomnentojna. in contrario, fiando ne itcrmini di quella arte, ogni Oratorio mouimento è diletto; concio», fu cofi che'l perfetto Oratore muoue altrui non per fcr za, er con uìoknx.4, in quel modo che noi mouiamo le cofe graia aRinju, o k leggieri a!? ingiù ;md fempremai muoue ha cotifome affindination del fm affetto : U* <jiol cofa non può effer, che non glifia altra modo pù* ce«oJr,cr giowfi molto i ne ad altro fine ( fi come dian* Xt io diceua)da maefhideUa Khetonca fono dijìinte. «•mutamente le dijhofitioni degli ascoltasti : i cui affet» ti col mutamento della fortuna, rj degli anni fono u* fati di ttarùrfi ifalxo, accioebe tomfeenda il buon». Oratore otte pieghino k pacioni de petti lpro,iui col ut* gore delle parole (indie, ©" f enti dì ritirarli. Et per «r (o,fèl mouimento rhetorico fuffe Saltra maniera } ogni mgenua perfona come sforzata, ty tiranneggiata dall’Oratore mortalmente Codiarebbe : ne pofp credere che ninna Kepublica, bene o male ordin.it*, fol che tJU tmajfe U l/bcrtà, comporujje 4 fuoì cittadini befferei*  SI 4 Urft in una arte; con k quale non porgli equaU,m i mi gijbr-ttiiZr le leggi loro di dominar stttgegniffro . Re* jta a dirut in qttal inoliti diletti tal mcwmai ù, er onde uegm cfje*/ diletto che ne gli afitti dcUbuomo partorii fcc i'orotiùne,fia muramento appellato: che tutto che co* taitofe paiono alquanto più pkfcefoWie . ck orione, tttttauia egli è hello ilfaperlt; miggiormenle Se alla ma tem di che partiamo, grandemente fon pt t'inaiti . Mi deUa prima brievemente miefbedirò : Che fi come i^di* pintore, or il poeta t dite artefici il? Oratore fmbùnti, per diletto di noi fanno tterfì, er imagim di diuerfe mi* nieraquali hombili,quai pkceuolì,qtat dolenti^ qud liete *po/i i't buono Oratore nm folamente con le [accie, con gli ornamentici co numeri, ma ad ira, ad odio or ai inuidia mentendo, fuol dilettar gli afcoltanti . lo ucramen te mai non leggo in Virgilio k tragedia di ElijajVìo no pianga con effofeco ilftto mah;non per tanto eonfideran io con che gentile artificio ci dipingefp il poeta l'amor fuo,et k morte fua : cofì uinto, come io mi trotto d.dli pie tà,non pofio itero che fomm&ìientc allegrarmi ita qual cofa non dee parer merauiglia a chi per troppa aUegrez ti alcuni uolti fu cofbrctto di lagrimare . E ti uero che una tallettione è polènte di più, or meno commettermi, fecondo che et più t er meno fon dijhojh a compaflione t ma in ogniguifa più mi è agrado il lagrùnnr con virgi* Ito, die non è Under con klartkle : Md tornando oSl* rottone,ame pare che in quel modo 3 cheti trafitto dalli l 'aranti pudendo il fuono coniteniente alfuo morfoji le* uifufo i er filta tanto fin che fbwmor perturbato fi rifolitc in [udore er qaafi marefenzà onda queto flafii nr! Iwcgo jtto ;/MHfciiefiff><UJc parole d'uno Oratore eceet* lòtte ntoffo udirà alcuno buono «r(icondo,nonfenz<t mal to piacere sfoga il cédo f cbe k complelìione naturale, o altro tirano accidente gli tiene accefo nell'animo ; il quat piacere.perciocbe nafee da cofa per fe medefxma óifpk* ceuole,et noiofa moltOtcbc non diletta,fe non per queU4 conformiti eb'è tra lci,ty l'affetto deWafcoltanteila quaì cofa mafie PbikRrato effóndo Re detta fm giornata i « comandare a ciimpagni, che di cokrojcuiamorimiferé méte fìn'mmojfi ragionaffe)perb è ben fatto ebe proprii mente park ndo,taipmere non diletto, nw mournié to ft& nomiìuto'a cuinatura odioft.acciocbe a litigo andàe non « fi (àcckfentire i ty altrotanto per feci annoienti* to dinar zi nel conformar fi aWaffctto nedtkttaua(concia fia coft che corta fìa k concordia delle cofe non buone ) pere uolferoiKbetorkbe l'oratore bricuemente,^- in pothe parole fe ne doueffe efpedòrt.Mtnel nero il diletto di l mouimento è coni un rifo nato innoinondi uerà atte* fktIBtijm di foUetìco ; il quale continuato da noi final» mente in doglia,cr foafmo fi conuerte . Md le facetie » ì motti,kfcntemie,k figurej colori,k elettione, il nume» rorfilfitodcUeparole ; l'ufeer fuord delkmateria, et al quanto,a guifa d'buomo di fokxzo difiderofo,per logkr dino dell'altre cofe uicinegir uagando con l'inteHcttofo* no cofe tutte quante per far natura fommamente pìaeeuo li i nelle quali di continuo non altramente fuol compiacer fi k nofkd mentCiChe degli odori,de fuoni, er de colorì materiali fi dilettino ì fentimenti del corpo. V a l. Fera  tutetà tnatetà m poco o Brocardo, mentre ancora ( benché di kmge ) noi feorgiamo l 'entrata del cominciato ragiona" mento,z? innanzi che la dolcezza deldtlettog? del max fttmento tratto ultracorte più altra yio at flagrate d'in- dire eiòy che ante pare di poter dire con uertta de gli *f* fettig? de movimenti di quelli: perciò cheto ho per fera ino, che f Oratore principalmente habbkatra non di co movere, ma £ acquetar le procelle, che neUe parti pia bajfe de nofbri animi, Ora, fottìo, er la màdia (uenti contrari] al fereno deJkragionc ) fono ufatidi coautore; 0- ciò può far l Oratore non folamente nel fine, ma mi principio del fio fermane jnutando foratone, chefe Cefare nel Senato a [onore de' congiuntati prigioni. E k il Vero the quello iiìeffo Oratore che ha uirt* di rafferend re, può turbare i fentimeni: ma chi ciò face,o è perfom vittima, che male adopera lo [uà fetenza > quafi medico, che auelena gl'infermi ; o è di farlo corrette, fendo coft mbojjibilt il torre altrui fèdamente dallo ejlremodel* f oiioit? nel mezo della ragiaue riporlo, fenza alquanto fargli jentire dell'altro efìremo contrario, La qual cofé auegnadio che ver afta, non per tanto, uolgarmente par landò, fìamoufai Udire efjer proprio deU" Oratore ìt cominoiter gii jifeta, fecondo il qual modo di faueUare fece il Soranzoùfua dimanda :percìocbe il mouimento èautÀgaripmnoto,a'pareopradimagporforzache la quiete mnè: fenza che la maggior parte de gii Or j* tori orano apnc non d'acquetare, ma di commouere gli af cattanti. Io iter amen te per una terza ragione, ho api mone, che ali Oratore {hu portegna d commouere, che  tacqm^  tacqttetare iconcioftacofacbe iartefua non fokmente turbando(ilche è noto per fe medeftmo ) m componete dogUaffettì t queUimmua > a'fofp'tngaìche grandifiima noientu deeefferqueUa decoratore ne nofhri animi» qtulbora a benfare ne perlmde,cofaoprandù con le p4 role in unahor^che inmolti anni utrtuofanentc uiuen* do,a gran penartele acquijiarfi il pbtiafopho . Hor ne* dete hoggimaific k R betono* è atte comeniente atta ci ittita della uita,cr aUa public* libertà) cr fe ilcommottcr gli affètti è operatione piti, ometto aU 'Oratore bonore* itole de$infegnare,w del dilettare, Eroc. Certo fe il mouimento oratorio fuffe tale, er ft fatto,quale dianzi il defcr'iMuatejmakfecel Ariopago a divietarlo agli Athenkfi i maio non uedoebe egli fiatale, confideranno the Foratore nel trattar de gli affitti, ponga mente pili tofio aUa etagj atta fortuna che ciperturba,òealkr4 gione,cuifola tocca di temperarne . Ma pojìo cèfo che eofi }ìa, come mi dite, io ho per fermo, che cofi come per le ragioni già dette concludemmoicbc la dottrina del foratore a gli afcoltanti infegnata non è (denta di ueri td.nw opinione, cr di nero Jhntlitudwe,fmelcmentc k quiete dcfeiitimeiiti,che negli animi bumani fuolgene rarela Grattane none umii,ma dipintura delia, uirtu: eonciofia cofa che U uirtù è un buono babito di cofiunù, ilqualencn con parole in ijlantejnu con penfieri,or con opre a lungo andare ci guadagmmo . Wrf accioche non creggute che U buona arte Rhe* torica di tutte Urti reinajia una eerta buffonariadd far ridere t benché egli tibabbhdi queUi chealk cucina cimi la^imigliarono) noi douete fapere, che dd numero dcu"arti,altre fono piaceuolij^ altre utili : quelle fono le utili, le quali communementc nominiamo mecanke: delle piaceuolt parte Im uiriù di dilettar l'animo, parte il cor» po delle perfonew parlando più chiaramente pjrte il feti fojparte la mente fuol dilettare. La dipintura,et la rnufì* Citigli occhiagli orecchi'; gli unguentari},il j;<j/ó i! cww co, li gujìo j er la Jiufa ccn la temperanza del c.ddo Ino, tutto l corpo con magHìerio piaceuolc,fono tifali di con* fortareittu te artiche Ciiìtdletto dlcitano,qvMtù al prò pofito fi conuiene,fono due ; cioè rhetorica cr Voefta: le quali, muegnadio che altramente che per gli orecchi paffando, non peruegnano aU\ntelletto, nondimeno perciò fono da effer dette intctkttudi, che elle fono arti deU le parole, ijkometi deltinteuettoi con li quali figmfìchia tao lun tauro ciò che intende U nojira mente. Certo del la «o£rc,cr de fuoni è la mufìca, con la quale annoucrando igrauijzr gli acuti } quegli in manier4 tempriamole diuerfì ( fs come fono ) jì congìungono infieme a generar thartnoniaxhe non pur noijma moki bruti animali muo* «c,CT diletta mirabilmente; ma la Rbeloricajy la pot* fia fono artifici] delle noci de gli huomini, nocome gratti C7 acute t ma propriamente come parole, cioè in quanto elle fonfegni delTinteUetto, quelle accordando fi fatta' mente, che ne nefea. una confonantia, U quale, metaphoriamente parlandola primi rhetori al numero mufteo dflimighandola, numero anch'effa fu nominata: fcnxA d qital numero,non è oratione la erottone; er col qml nu* imo ogni mlgarttet inerudite ragionamento più hauer  nome ioratìone. Ma quello è punto ì che aben uolcrlo mm0are(conciofucbe in Mfolo,quaf in contro /ir* mifiimo, è fondato il dìfcorfo di tutu Urte oratori* ) c mefòeri che un'altra nolta per altrajìrada noi ci faccia tuo da capo,conftderando che tutto ì corpo detta eloquen tia quanto egliè grande, non è altro che cinque membra, CT non piu,cìoè parlando latinamente jnttentione,difj>o* fttione, elocutione, attiene, CT memoria . Infra le quali, finta alcun dubbio la ebcutioneè la prima parte, quafì fuo cuora effe anima la chiamafihnon crederei di mentire: dalla quale, non chealtrojl nome proprio della eh* quentìa, comeuiuodauitauien deriuando . Et per certa la muentioncjty dift>ofttione,fono parti che alle cofe per tengono : le quS ritrattate nelle feienze uà ordinando U erottone } ma la terza, per quel chefuona il uocabob,i propria parte delle parole, le quali non à cafo, ma eoa giudicio eleggiamo,*? dette leghiamo. Adunque aiate* gna che la elocutionc fia un terzo membro della chqitett tia, iiuerfomolto da primi duci nondimeno ella è fuo membro fj principale, che netta ifleffa elocutione nuoti* inuentìone, et dijpofitionc oratoria ut fi poffono annouerare. etctoè, perciochenon ciafehedma elocutione è or* toru,anxi in ogni linguaggio «vite fon k paroltjequali ttilitroppa,o uabgari,o afbre,o uecch'te, umciuile per* fona mninfmtofi in gtudicio, m con gli amici, cr co' famigliari parlandoci guarderebbe di proferire: etguar derebbeft fxcèntnte fenxA arte adoperare, foi che un tempo dèh fu uiti con gentili^ difereii kuomwifuffe ufato di conuerfaram le parole gUruromte dfikhcbia fe,& fotmtijporreinftemeycr otte prima ddfe mdefime <tUc cofe fignifkite faccomodawtno, hor trifefìeffe gli decenti loro,cr le loro fiUibe inmuerandoyidmark è «-ti/few: it quale folo,o primo fa Orator lOrat ore. Et ttenmente,fc quello è nero che io trono fcritto né" Rbeto ri, ftmtentione,cr dijba fittone (fette co/e effere opri più toflo di prudenti, cr accorti huomini, che di eloquenti Oratori Job il [ito Me parole è tutta Ixrte Oratoria: onde tutu è k quejìione del dilettare, del mettere, cr AcU'infegnire . Che, come il mcttere,& Sdegnare fono frutti cCinuentione, le cui parti fon proemio^arrattone, diuifione, eonfìmationc, confutinone, cr epilogo; cofi il diletto fi dee dire opra deUi Oratoria elocutione. "gorfe io u annoio mentre con le parole ualgari, k Ixtine, CT le greche uà mcfcolxndogr contri quello ch'io ui di* teua pur dianzi > non difecrnendo frale parole come io U trotto coft le ammaffo, cr confondo. Ma che poffo iot cèrto qucjti è colpi de nofki padri Tbofcamjt quali fion curando k cofe grani, che aUedottrmepertengono, follmente deUeamorofe con nouellettt, cr con rime fi dettarono dt parkreiben u y hi di quelli che fumo arditi in tentar le fetenze^ pochi fono,crfeit&t fama ; CT fi anticbiycbel ngionarne co' uocaboli loro, per la loro UtcchiaXi, uta più jirani che i Latini non fono, fareb* he opri perduta . Io uermente qualunque wua in uece ài njtrationcii amftrmdtme.cr di confutarne, diui* [mento, confirmamento, cr dif ermamente dicefii, me tnedefìmo tra gli intrichi di total nomi facilmente rauol perei m marna* ebe in qudparte Sortitone fidjc intra.  topcr to per ragionarne, potrebbe effcrcbe io r,d fcorclifii . F, v adunque mn mule iìrkorrere a forrejìicri, le cuiuoci intendiamo, che a mftrani che non i'mtcnàano,imàando i Latmìi quatt dd padri Grechi le dottrine,?? le parole prendendo, ferono lor priuitegio di poter tffer Ro>w« ne cornetti in lor feruigio le adoperarono .Val. Infitto a qui uoi non ufajle parola, che alcun uolgare a fiottandola fe ne douefa merauigUd re: ; ma procedendo pinoltrit uoi incaperete in concetti che ragionandone, a volere efiere intefo, uifid meflieri di proueder di «dei* toh, che a gli orecchi di Italia fi confacciano un poco meglio, che t Latini non fanno, B k o c. Ragionando con efio uoi netti prefente materia, la cui mente di gran lunga lentie parole preuiene, non ho paura di doucr dire ucabolo che peregrino to ejitjlimiaie . Val. kvxgnadio che delta arte oratoria tra mi pochi, et con jtiUrimofio molto (quale* camera fi conmene > habbiate tolto a parlare: nientedimeno io tri configlio, che cenquetTammo, er in epteimodonefautUiate, che mifartpejeinprefentia di motti cofi dotti, comeigno untine ragionafte; laqualcofa perauentura auerrà t perciochtl Soranxo Mgentifiimo gnardatort de ho* fhi detti, quelli in uno raccoglier k, CT raevUì, non pò* irà fare che moki just amici diftderofi di novità, non ne faccia partecipi .So% Certo m fui partir di Vincgia mio germano mefier eteronimo grettamente mi comandò, che mentre io \\efiiin Kotogna, d'ogni cofa^he h giudicaci notabile, ne lo donefit auifare, er botte fot* to infttìhmspenfate qutUhe io fatò permmvdicoft DIALOGO  tmbit r<tgtonmento:dopol qua^permio gtudkb, um* ito ì Papi,ctgflmpcrddorì.B boc. Ben conofeo meffar Gieronimo, atk prefenza dd quale ne paroline oprc,fe non elette jion fon degne diperuenire . Ma noi Soranzp foche fare ilpotrejle) farcjìe bene, detto che io xrihébk mia opinione,queUa jlelfa con altro jìilc di feri uere,che non V udite dame; che una coft è il pastore prk «diamente,?? dà omico,fi come io fdfeio con ttcixt altro, i lor fmuere altrui d perpetudmemork de paffati ragio- namenti .r?ncl aero,fcciò hauefii penfato *thor, the fejle li qucjìione.Q io taceua del tatto, o cofì tojio non r| fbondetm cbelcpdrote>a' le cofeche a cotale arteper' tengono,*? foprd tutto il porle inficine, con heUo or« ime ckfcheduna afuo luogo dijliutamctc efbticareèfat tura di motti giorni, non d'unbora, o diàicsna rio errai neWmcomnciare, forfè net perfegwe tiimaidarò, Se otte io pen fitte hoggidiaìqnanto ufctndo detta mteritt di tutta l'arte oratoria (che ch'io nefappk) Ifaermcnte- parkruiiadoprando quelle parolesou le quali tw Latini frittali '.ftitdki d'imparark i bora alcune poche cofette^ che al fitto mffroccwengonojwieucmente percorrerò: coft ài un tratto pagarò il debito del dmer dirui mia opi Bi«te,et ddftQgli dth)e parole latine, nelle opali d lungo Mudare il parlamento fi ramperebbcbelkmcnte miguar dirómpili faggio nocchiero di me kfeiando k cura di do utrfarefi perigliofa «àggio, nùque al prcpofito ritorni do,bécbe diati ftcÓdo i rhctorijo ui dicefU £mfegnarc,e U mauere effer due opre d'muentione  conciofiacofa che quoto motte il proemio,®- [epilogavamo infegtia la tur  rottone, ratione,et cottftrmatione ; nondimeno mutando in meglio mi* openione,cr cofa a coft proportionando j a me pare di douer direbbe impegnare propriamente alia dijj>oft* tiene portegna ; tome in contrario k confufion delle cofe ci partorifee ignoranti, Adunque [empremai col mo lamento la àutentione, et con k dijfccfitione Cuifegnare > dm il dilettoci che parliamo, con lafua madre clocutio* ne,forma,',a' aita dell'eloquenza, meritamente accampi gnarerao. Quindi pacando alle treguife di caufe dall'O rotore confìderatcg? a tre jìiU ucnendo,cioè che tre mo di di dbrejuna aU "altro con mijura agguagliatilo, io li con giungo in maitiera,cbe la ciufa giudicale, cui è proprio la grattiti dello jlilc,al mouuncntow inucntvmeJa deli beratiua coljuo }Ul bajfo,& minuto alla dtfbofitìonc, cr aUo infegnarcuuimamente la caufa dimojiratiua medio* cremente trattata.aUa elocutione,et al diktto,dirittamctt ttfta ribadente. Le quai cofe m cotal modo difpoéìe,pro cedendo più oltra facilmente fi può concludere, che cofì come tra le parti d oratìone la elocutione è la prima, CT k caufa dimojiratiua è k più nobiie,ct più capace d'opti ornamento, che d'altre ducnonfono&glifìili del dtre, l'I più perlettto,zx più uirtuofo è il medmera ilquale non è auarojx prodigo,ma liberale wn fuperbo,ne abietto, ma altero, non audace, ne piiftUxiìimo, ma ualorofo; non kfciuojte (lupido, ina temperato,coful diletto oratorio al mouimento, ey affmfegnare è ben degno, che fi pre* ponga . Però ueggiamo non fempre mauere,o magnar Voratore > ben quello ijleffo per ogni parte ioratione, in ogni cauja con parole elegàttjiudiarc di dilettarne: dqtu  K le  te non contento del diletto delle parole, per raddoppiar* ne il piacere*? compitamente addolcirne,r icone ai ge* flo^dff 'attiene detoratione condimento, cr mele, er Zucchero foauifiimo degli orecchi, et degli occhi nojìri, X)aQaqu<tleattione,perqueliagratia,cbe è in ki.dcpen de in gwi/rf la uertù deli'oratu ne, che ella è nuUajcn* %ieffa;la quale fentenza da Dcmojlhene data, E/cIn* lìt fuo auuerfmo poco appreffo con bcllaproua ci con' fermò i mentre leggendo a KhodianiU oratione di De* tnojlhene, marauigliandofi gli afeoitanti, bebbe a dire Ueramente m^rauigliofa effere Hata la oratione, effoDe tnojlhme recitandola iquafi dire mlejle,Cattentioncdel recitatore potere feentare,cr accrescer forza aU'oratio* tic j er in maniera da fe mcdeflma tramutarla che non pa rejjè pia d'ejfa. Val. inu jrc&cfori/ Soranzo eonfentd^ cbedikttattdopiu, che infegnando, omoitcndopcrfuadd la oratione,egli difetta d'intendere con quat ragioni con tra la mente di Cicerone gli protiarcfe, che la caufa de* mofìrattua fiapiu nobile dell'altre due,0-che defliliil migliore fia il mediocre : ef per certo da due colali pre* ìmffe più tojfofalfe,che dubbiofe^alanetcfipuo decide re U queflion dijbutota. ErOc. Qui dfbcttaud,che inter rompere le mie parole ì fendo certo,chcctò io difii dcUd tanfi dmoflratiua, cr delio Me mediocre Subitamente rifìiitarejle.Peròfxppidte,ct)dppìalo anche il Soranzo» che ragionata di cotai cofe con mufemplice narrattone, cr fenza dkmodrgomentojvbebbiinanimodich'giun* gere infime ì tre jhU,te tre caufe, er i tre modi del per* imicretCW k tre fwM d'erottone m maniera che atta in  ucn   l^O  ucntione il mouimentonelkcdufa giuàicìak t conlo jUl graie principalmente correfpondelfe : ma éU dtfeofuio ne Fmfegnare,tiella caufa, deliberatila con lo /iti baffo:ul tintamente ti diletto ali a docutioue, nettd caufa demojìra tiut con lo Ihlc metano propriamente fmferiffe Al qud* le ordine da tutti i Rbetori cofi greci,come latini, effere flato offriuto,cbi le loro opre riguarda, fidimele giudi cari laqual cofafe eofi è(cbe certamente è cofi)uoi me de fimi per una ijleffa ragione argomentando k oratoria. tlocutione,con tutta quanta la fchierd fua, alle altre due partid'oraticne con le loro ordinate debitamente prepo nercte;cbs no è honejlo ilbncn col ti ijlo agguagliarexia. il tuono al buono,etal migliorejl miglior fliie,fwfe-,c<t« fdyCt per Jual ione, co rdgtoneuolmtfura dee pareggiai, M a de (itli poco appreffo perauctura ragionaremoye del diletto fi èfauellato a bajlàza. Dunque alle caufe ucnen* 4o>come io dilUjtoji ridico di nuouo, che la caufa demo* fìratiudè laputborreuole, la più perfetta, la più difficì le&finahnente la più oratoria,che tutina deU'dltrc due: la qual cofa mentre io tento di dimofirarui, io iti prega, che non guardando alh fama de gli faritlori detta Kheto rka, poniate mente atta uerka : la quale da ragione aiti* tataro mi apparecchio di palcfarui. Perciò che altra co* fa è il parlar di quejla arte, le ucne fue, ifuoi membri » l'offa, i ncrui, er la carne fud dnnoaerdndo, partendo: la quA guifd d'anatomia, hi infegmtndo con Itrd* gioii! operiamo ; cr altra cofa è il parlare oratoriamen* te al uolgo, àgiudteio, d Senatori, <fteìUaUettando,cr mouendo iti che non faccio ai prefente orje una uol*  Ri U U(che Dio noi uogtkyjl farò : quando t ubìdiendo,a mio padre, la «o«,er il fìtto, che ei mi donò penderò a litiganti. Hot di quefio non più, et al propoftto ritorniamo. Io ucrmentc le tre caufe oratorie per li lor fini, per Ufo ro ufficij,et per te loro materie 3 con diligenza confiderai dojia pojfo akro,ée credere, che la cattfa dimofkatm fta infra tutta la principdled cui fine è koncflà; U cui ma teria è uertù^cr il cui ufficio è il dilettar intelletto, ®- di ien fare ammonirlo. Quindi nacque il coflunte nella republica ateniese, publicamente ognanno queicittadi* ni lodare,iquali fortemente per la br patria combattei dojfuffero flati ammazzati. La quale annua aratiom (fe A Vintone crediamo}lodando i morti,® le uertti lorojut to in un tempo le madrij padri,® le mogli confolaua he nignamente 5 ma ifrate&j figliuoli,®- i «ipoteche doppo lor rimaneuano, a douer quelli imitare, ®- farfì loro fintili mirabilmente accendeua . Adunque non indarno fo ìeua dir CiceroneCICERONE (vedasi), ninna guisa d'or ottone potere efferne più ornila nel dire,ne più utile alle Kep.di quefia una,di mojìr attua : i cui precetti bornio uertu non folamente di farne buoni oratori,ma a douer uiuere honejìamente con bella arte ne efortano ; il che di queUìdeUaltre due non amene ; con effe qudifpeffe fiate guerre mgiuBe perfm demo, er uendieando le nofìre ingiuricjhor gliimtocenti offendiamo, bor difendiamo i nocenti.Confufamente peruuentura più, che io non debbio, uà comparando fra loro le tre caufe oratorie ; il che faccio, perche io difidt* ro divedimene, ®-adar luoco al Valerio^he s'appre flaper contradire: mi ambiiue col uojìro ingegno il mio difetto adempiendoci parte in parte k mie parole d$in guerete. Adunque,feguitando il ragionmnento t etfra me jìeffo confìderando ciò, che dianzi dicem deltoration di Demollkene, fomm<mentc daWattion dependente Jbofer minima openione,cbe nelle caufe deliberatine, cr guidi* cidi molto più opri la natura decoratore, cr della mate rid,cbe non ftttarte oratoria, il cetraria è della caufa di* mojhratiud,neUd quale kggendo,non è men bella U ora» tione, che recitando iperò ueggiamo mediocri Oratori bene informiti delle ciudi materie, cr aiutati dattattio* ne, tj dalla memoriajn Senato^ er in giudiciofoler par htre affai bene : che in té cafi dalle cofe trattate nafeono in noi le parole ; le qualiconcordate con li concetti deffa nimo, ne riejce queUa barmonia, che fa 3upir chi l'afols td.Verk qual cofa molte fiate ne comandano i Kbctori, che non curado della uaghezza delle parole efqmftte, ad alcune altre non coft beUe,ma proprie molto» cr di gran forza neWefplìcare i concetti,uolgarmente parlando, ci debbiamo appigliare : ma nella caufa dimoflratiua è ine* flierinon foLonente di concordare le parole a i concetti^ ma quelle fcielte,ey dette fi fattamente ddunare, chepa* re a pare t tyfmile a fimik con belld arte fi referifed :& quelle ijìefji parole bor raddoppiare, er replicarle pia mite jhora a contrari) eògiungerlc ; imitando la projpet tùia de depintori,iquali molte fiate il negro al bianco oc* compignano,a fme,che più beUa&r più alta, et più ilhi* (Ire cifimojbri lafua bianchezza- Le quai cofe,tutte qua* te fono puro artificio, ma in mdniera difficile, che dWitnprouifo poter lodare, o uituperare eloquentemente, farette opra miracolosa. E il uero che nell'altre due cdU f edema uolta tutta betta, er tutti ornata ua emulando U oratione ; cioè a dire negli epiloghi, V ne proemij i il quali proemij ; benché primi fi proferivano, nondimeno ft come co/c più oratorie,et di «tàggìor magiflerio, gli ut timi fono > che fi compongono : cr li quali CICERONE (vedasi), padre, cr principe degli ebquéù douédo orda rc, di parolai» parola bnparaua^ 4 memoria gli fi man dalia. Adunque può bene efjer,cbe le due guife, Senato* riae giudicale ftano agli fotimmi pi» neceffarie di que* &a terza demo\bratiua;et che da loroifi come prime che fi trattarono ) Thiftd, Corace, o altro antico Qra ore l'arte Rbetorica i'infegnaffe di generare ima lepiuuot te quel, ch'è ultimo per origine,àuenta primo in perfet* rione j fempremai neUbumxne oper adoni, iui è »wggior l'artificio, oueil bìfogno è minore : eonciofiacofa, che nei bifognila nojlra madre Naturaper fe fola, da niund arte aiutata è tenuta diprouederne. Naturalmente con le xmpe, O* «> danti pugna t Orfeo" fi L ione ; et U damma con U preSexx.* del cor/o /ho fifotragge aU fmgittrié. F<* ilfuo nido la Kondine ; nj la Ragna teffendo fi pr xura di nutricar ji una noi buominicrea'ure ciuilicontaiutodeUe parole, mefU cfegnideU'inteUet* to, con gli amici dell' auenir configliamo ; a" raffrenai* dole mani delTìrdccndia minijìre,hor dar.entcid noi prefenti ci difendiamo ;hor quelli tfìejii offendiamo. Poco adunque miai caft ci puoinfegnar l'artificio ìfc non dijponere, er ordinare U inueiuione naturale ì ma mila caufa demo(bratm non ncceffamalk wftraui ti a k parole, le cofe col loro ordine, CT col /j(o /cw ro jóro puro artificio : il <jMd!e /cmiiufo nefk «afwa <fc/» le due prime, cr dafl 'indujlria nudrito divenne grande » CT neilff f er^J dcmojiratiua,quafi terza fui età, fi fc in* tiero.et perfetta,?? coft intiero cr perfetto, non pur ititi lira la buona confà demojìratiuà, itero nido Mfuo iplen dcre,ntà riflettendo ifuoi ràggi le altre due pia inferiori f caldai alluma mirabilmente. Quindi adititene, che v.ei kcaufegiudicialild gii$itia,eyleleggimoltc uolte fon laudate, erbiafunato cln le perturba ;et ne confglidel* k Kepttblicc la libertà, la pace, er la giuda guerra con /ornine Ludi fi effaltano ; er i tirami con uùuperiofon U cerati . Là quaUnijlura di oratione nelle Pbilippice di DemoBbcne,neUe Verrine et Antonimie di Cicerone,, riufei opra meraitigliofa. Finalmente Carte jet le caufe 0* ratorie a fentùnem di nofìra uita agguagliando, ofo di* rcj che le due prime fono il fenfo del tatto, fenzà le quili non nafceua,ne uiuerebbe la oratione : ma la caufa demo flratiuotornamcnto della Kbetorka,è oeebìoet luce ->che fa chiara la uitd ju.tykiagr.de inalzandole nulla del* Maitre iutnon èpofjcnte dipcruentre . Sia dimando m buono buomo pien d'ELOQUENZA,?? d'ingegnojlqudle u* feito della fua patria folo,z? mdo{quafi utìaltro BÙnteX «e/ig.1 a Harfi in Bologna^ be farà egli deSarte fuaife e*. gli accu[a,o difcnde,ecco un tale amocato, che uendc al uolgo lefue parole :fe delibcra,non fendo parte deUs Re publica, i fuoi configli non fono uditi . tacerà egli, er jiafua uita otiofa ì non ueramentc, ma di continuo con lajua penna nella caufa danofìratiuabiafìttmdùtty  R 4 lo  toltitelo Ufua eloquenza effercitara . La qttat cofa non per odio>o per premio, ma per itero dire facendo jn poco tempo non follmente da pari fuoijma da /ignori, et da regi (ari temuto,?? Stonato. Sor, Qkc/ìo ttojìro eh t{! lente (fe non m'inganna lafimiglianza)è il ritratto delt Aretino. Enoc, Io non nomino alcuno; ma chiun* quefì è,einon può efferefe non grand'bmmo,ondc ante pare, che quefìa caufa demofkatiaa tale fid alla fenatoria, w giudidale, quali fono le dignità ecclefiafticbe aUe grandezze de fecolari ; queUe fono naturali fucceftioni t qnejieper propria indufbia acquisiamo . er ro/ì come un ^articolar gentWhuomo fatto Papa è adorato da (noi /ignori, cofì al buono Oratore per la fua caufa demofbra tiua cedono igrandi del mondo : che ilcaufidico,w il Se nitore non degnarebbeno di guardare. Ncn per tanto jon de uegnaxbe neff altre due cavfe i parlaméti aratori) per li lor grattiti nonfonmen cari ad udire deU'orationi demoflratiue, non è difficile il giudicare. Perciò che ifog* getti di quelle due fon cofe trance pertinenti parte alla uita della perfona, parte aUo Hata della Kepublìca : wt4 quefU terza demoftr attua i uiui,imorti lafciando flare, folmente gli altrui nomi, cr memorie, d*ogn'm(orno di tode,z? biafimi ita dipìngendo . Adunque, cofì come il tteder pugnare a. corpo a corpo due nemici in camifeia co le coltella affilate, è affetto non men grato per le ferite typel ftngue, che fta il combattere a giuoco esercitato da fehermidori con artificio merauighofo,caft te caufe ciudi altrettanto per le materie trattate fono ufate di di* Iettarne, quanto quefìa demofkatm con Ufua arte del dire ne recagioia,cr fotiaxzo. Quindi adiuiene(fì come dmziio dicetu)cbein Senato, et in giudkio i medio* tri Oratori uolontieri affidino, out il difetto dell'arte col [oggetto ali che ragionano, facilmente fi ricompenfaz m le orationi demofkdtiue ( fi come ancora i poemi ) /e «ori fon cofd perfetta,non è chi degni ne d'udire, ne di He ocre . Et queflo batti al diletto, ey dSd cdujd demojbati Ud-m Vderìo,cbe ccnofcctc i miei falli, ghdicateìi, et correggeteli. Val. Può ben effer, che quel ck'è detto bdjlì al diletto^ alìd ciuf a demollratiua, ma non balli a gli Mi,dc quali,fbecialmentedel mediocre, fiete obli' g<rto di (duellare, B e o c. Veruna ifteffit ragione po tria parlare de gii ornamenti^ delle fomcdcldirt,o' dello flil mediocrexoneicfìd cofd che L ebcutionc è quei k punte della Kbctoriat, antiquate,®- col diletto, cf con lo jìil mediocre kbltondcaufd demofhriìiua fa decompdgnata da me : mi qucflaè opra d'altro ingegno, et tfdlìriindufhridrcbedetli urna, fenza che ciò farebbe uri njcir fuori di quel proposto, interno di quale pideque al Soranxo,cbeiofaueUaffc, Sor. Come Brocdrdo, è fuor di propofito il ragionar dello fìile, con effol quale Urationc genera in noi il diletto,cbt al mouimento,r? d l'infegnate facete proua di proferìref Broc. Ocià ìfuordipropofito,oiofonfuor dimeflcffo, cr non Cmtendo come io deurei i per la qua! cofa in ogniguifd io ho ragion di tdeere, Val, Ecco Brocardo noi conferii' tìamo,che'l parlamento de lìili,quando a uoipiace,in ah trofempo fi diffcrifcd.Uori(il che negare noncipctete) infegnatene ài che nwùera ì O' quai precetti o fermando, IL TOSCANO ORATORE [cf. Grice, “The Oxonian philosopher”] in ciafcheduna delle tre cdufe,pof* fa ornarli di quel diletto, il qual impreffo ne noftri annui ne perfuade a douerfarc a fsto modo :che con ul patto noi rijbemdefìe alia qucjìian del SorM^o. Bnoc, Guardate che d dbrcofa non m'induciate, che la lingua Tofcana tri faccia battere in difbctto,cbe molte co/è puh tio beUe,cr nobili molto, quando fon fitte ; la cui origine è ui\ifiimd,et ripiena d'ognibruttura . V a l. Già a feotari di medefima,per fare ogni amo urta anatomia di cor pi bitmani,cj in quelli uedera,oue er come notte meft ne portino le nojìre madri,®' portati cipartortfconojio fon men care te belle donne,che elle fxmo agli idioti, che té fccreti non fanno : però dite ficur amente, che'l parlamen toma cominciato farebbe nuUa.fe in tal fmeiton terminaf fe. B r oc. Vorrò pofeia, che minfegnate an  àie noi i udiri madidi perfuadere, con li quali, benché molto taoff.-ndano.me al prefente fignor ergiate sfor, %ate . Sor. Duolui t-mto ch'io impari t B r oc. Per certo fi, percioebe attendendo aSe mie panie, noi iatparsrete quel? ijteffa ignoranza, che in mollami con moka indultria, er con poco honore la mia fcioccbexzA mha guadagnato : cmciofucofa,cbe i precetti ch'io ubo da dtre nonfono altro,che la bidona de i miei dudij; con effo i quali fon fatto t Acquale io mi fono. Sor. ogni punto mi pare una bora yebe de precetti mi faiieUutc,con U quali brutti er uih{came diccjie)diuenti atto a far bel* la la or ariane italgare. Adunque incominciate,(euci me am.tte, CT quanto più facilmente potete,diclmtr atemi il itero, che non ha faccia ài uerijmile, Broc, ìacil cofa fìe Udopra-e ìprecem,Uquali intendo di dìmojtrar uima al mio iudìcio non fon cofa,che uno ingegno par 110 fìro debbia degnarfi d'adoperarli i però uditemi, ma con animo d'ammendarmi, non d'imitarmi, lo neramente fin da primi anni dijìierando altra modo di parlare, cr di fcriuerc twlgarmente i concetti del mìo intelletto, c que* /io «on tanto per deuere eflere intefo(il che è cofa da ogiù mlgare)quanto a fine chc'l nome mio co qualche latt de tì-a ifamofi fi tiumeraffe;ogn 'altra curapofipojìa,aU(t tettiott del Petrarca~,ey delle cento Nouelk, confommo fludio mi riuolgeÌJicUa qual lettione con poco frutto non pochi meft per me mede fimo effercìi atomi, ultimamente da Dio infbirato, rkorfi al noftro Mefjer Tripbon GabrieUe-AÀ qiule benignamente aiutato uidi, Cr intefi per fett amente <]i<ei due autori i li quak\nonfapcndo,cbe no* tar mi doueffe,hauea trafeorfo piu uolte . QKejìo noliro buon paére primieramente mi fece noti i uocabolipci mi die regole da conofeere le declinationi-,et coniugationide nomi, er uerbi Tofcani : finalmente gli articoli j prono* ttiij participif,glì aduerbii,^ l'altre parti dtoratìone di* fiìntmentc mi dichiarò : tanto, che accolte in uno le co* fette imparate, io ne compofi una mia grammatica : con la quale fcrìuendo, io mi reggeua : in maniera,che in po* co tempo il mondo m'hebbe per dotto, ty tienimi anche* ra per tale. Sor. infmhcra non dite cofaxbe ci peti* tiamo ^udirla icr cofifbero the dek'auanzo atterrà, fe colmaefko,eycon gli autori antedetti d'impararlo ut configliajle . Bkoc. Dunque al rimanente ucnendo, poi che a me parue ieffer fatto un foknne grammatico,    DIALOGO  tonfberanzagrandijlima di ekfcheduno,cbe miconofce m, io ini diedUlfar uerfiiaUbora pieno tutto di numeri, ài fententie,pr di parole Vetrarcbefcbe ì er Boccacciane, per certi anni feicofe amici amici marauiglhfe . po* fck parendomi,ehe la mia uena iincmtinckffe afeccare ipcrcioebe alcune uoìtemi mancaua i uocabott, er non battendo che dire in dmerfi fonetti, uno ifleflò concetto mera venuto ritratto ) a quello ricorfì, chefe il mondo boggidi ; er congraudifiima diligenza feì un rimario, o vocabolario «algore: nelqualeperàlphabeto ognipa* rok,cbegk ufarono cjueftc due,dijiintamenteripofmy tra di ciò in un altro libro i modi loro del deferiuer le co* fegiorno, notte, ira, pace, odio, amore, paura, jberan* Xst, bellezza fi fattamente racolfi, che ne parolaie con* tetto non ufcitu di me, che le NootSc, er ì Sottetti foro non me nefuffero effempio. Vedete uoi boggimai <t qual haffex&t dijeefi ; er È» che Bretta prigione, cr con che Ucci m'incatenai . Ma molto più bo da dirui, che io non u'hodettofm'qukperciocbe bauèdo io(come dinoto {Tom biàut foro)ogni lor cofa cofi latina come uolgarc trafeor fb i cr ueggendo le foro cofe latine per rifletto alle To* fee, non effer degne de nomi lorogiudicéctò douere aite ttircperciocbe a uarie lingue uarie grammatiche, fegtien temente uarie arti poetiche, er uarie arti oratorie corre fpondcfferczrcbe Petrarca, e Boccaccio le lor uol garifapcndo, ma le latine (colpa o" agogna de tempi loro) ignorando, tante bene Tofcdnamente fcriueffero; quanto male latinamente poetarono; er orarono. Perk qual coftkfciaifiareitonfìgli detnofoo padre Mejfer  Triphone, Triphonejlquale a poetar uolgarmente con Forticcio U tino mi richiamano, tener uoUi altra (froda : per la quale mcttendomijon giunto a tale } cbe io ueio il male^non lo poffofchiuarcMaperchc il tutto fappiate.foleua dir* miMejfer Tripbone,che al Petrarca teffer nato To/r,c m,&fiper ben kfua lingua,et in contrario il non [aper- ta latina, benché Torte tenefje, fu cagione difarbgran* de neffuna, ma neSaltra molto manco, che mediocre . UaaVincontro mi fi paratia tefoerienza ; percioche 4 di nojhri U città di Fiorenza cofì Tbofcana, come è,non ha poeta, ne oratore pare al Bembo gentiluomo Vini* tiano . A dunque potuto barebbe PETRARCA (vedasi) con VIRGILIO (vedasi), cr con CICERONE (vedasi) far fi tal oratore, ®- tal poeta latino, quale U Bembo con Petrarca, cr con le Ranelle è diuenti to Tofcano : la qualcofi non emendo auucnuta,/cgno è t óc in due lingue ha due arUi però il Petrarca con l'arte fui uolgare componendo latinamente,^ minor dife flef* fomentre egli fcrifjh nella fualingua Tofcana. Conftr* mauamiaopenione iluedere ogni giorno alcuni buomi* ni pur Tofcani latrati, er digrand^ima fama, li quali tolti dal Petrarca&hor Tibulb,bora Ouidio,hor Vir gilio imitando faceuan uerfi uolgari ; li quali mezzo tré volgari,®" latmi,parimentc a volgari,?? a latini jpiace* nano iinfra li quali chiunque con nuoua gutfa dt rime t afenzarima ninna ilatini inùtaua, meno errano- al mio parere, er con giudiciopiu ragioneuale kpoeftecon* fundeuaipcrciocbe toglièdo a uerfi la rimo,o delfuo loco mouendolx fileiubro gran parte di quella formami* gare ; che i latini, er loro arte naturalmente ékonfee . qualcoft fi pronai ia in quel tempo, quando (q&tfì nitouù akbimilìa)lungamente mi faticai per trottare ìhe roteo ; il qual nome ninna guifa di rima dehetrarca tef* futa, itone degnai appropriar fi. Mouemianchora <t douer creder eofi la nojbra guifa dì uerfa il quale contri i precetti latini fenz<t piedi, er con rime non è mai dolce Agli orecchi, ne men leggiadro nel caminare, di qual jì uttol dcgliantiévAc quaipiedi poco appreffo perauen* tura fi parlari . Vinto adunque dalle ragioni, er effe* rienze predette, a primi jludif tornai ; er aU'bora, oh tra'l continuo ejfercitarmineUa lettion del Petrarca ( U quakofa perfe fola fenza altro artificio può partorire di gran bene ) con maggior cura di prima ponendo mente «fmìmoài alcune coje offernai fommamente (come io tredeua) al poetai all'oratore pertinenti ; le quali,poi che uokte,che tal faccia, brieuemente ui cjblicarò. Pria meramente le [ite parole d'una in una annouerando ey penfando, ninna uile,niuna turpe,ajbre pocbe,tutte cbk re, tutte eleganti, mi fu auifo di ritrouarle ; er quelle in modo al commttne ufo conuenienti, che eglipareua, che col cònfigUo di tutta. Italia, thaueffe elette, er molte, In frale quali ( qttafifìeUe per lo jereno dimezzami* te ) nluccunto alcune poche, parte antiche, ma di uec* Metz* non difaiaceuole s buopo, unquanco,fouentc : parte mghe, er leggiadre molto, le quali, quafi gemme belle agli occhi di cufcbeduno,folamente digentiti, et alti ingegni fono adoprate : quali fòno>gioia, fpeinejrai, dijìojoggmno jjekà, er altre a lor fmglianti ; le quali mm lingua erudii* non parlerebbe, ne ferimebbe k  mano. Ci  maio, fé gli orecchi noi cofcntiftero. L ungo farebbe ti co Uriti dijimtamète tutti i uerbiigli aducrbijxt l'altre parti doratione> che fanno illumini juoi iter fuma una co fa non tacerò.cbe parlado della fua dbna,et di la bora il corpo, hard Tamma,bora ìlpiantojbora il rt)o,hora ràdare,hor lo (ìdrc,hor ltifdegno,horla pietà,bor la etàfmfinalmé te bar uiua 3 bor morta deferiuendo, ty magnificando, k più mite i propri) nomi tacendo* mirabilmente ogni cof<t dell'altrui Uocifuote adortiarxbiamàdo la teiìa oro }mo t tj tetto d'oragli occhi folitfìelletZapbiro, nido cr alber go d'amore de guancie,bor neue et rofe,bor latte cr fuo co; rubini i labri, perle i dentista gola cr 1/ petto, bora moria, bora akbaBro appellando : cr quejìo bajìi alle ditùonhiai dalpoco,cbe io dìcojl rimanente, che è ntols to,pcr tioi medefsmi oficru&rete. Hor venendo alia ora* tiotte, mila quale quejlo raro buomo le parole, che io ui lodai co bella arte ua coponendojifguardado alla copia, io m'accotfi che bauedo detto Una mlta litme,fitoco,cate ftajdilcttOjdoloreft altri tai nomi,maì 1 mede fimi in quel Sonetto no ridiceuajna in lor loco raggio,luce,fp lèaorei fÌMU^rdoreffamUe^nodOfUccioJegame^ioia^piaccre, pena,doglia,martiro,fìrato,affatmo et tormèto }i ddetta ua di reppticare. Oltra di ciò io comprefrxbe egli *<naM di contraporr e i cantrarif& a quelli i propri) affetti, cr le proprie opre, propriamente parlandoci cogmnger di ftderauddella difeordia de quiltj'uno aU'altro co mijura correjpotidcndo)ì,ufciuafuora il contètOicbejente 1 gn'u noi cr pochi fanno la [ita cagione . Ma ueramaiteqicHx cracoja mdrmghejx,iry-dcgn*certQ didouerc e);cre  uff tan diligenza offeruata, che té contrari], crtaiuod, quafi (ili della fua telajn teffendo U ormone fono ordì* te in manieri, che ne afare per U fhrettezza, ne troppo motiijO <dUrg<Uc > ma falde.piane,et eguali per ogni parte (tanno mfiemc le fue giunture : il che è tanto maggior uertu, quanto men della profa i noBri uer(t uotgart atte lor rime legati fon tenuti di adoprarU. Ma perciò che nei la orationc,non folamenle le dittimi, cr il loro [ito confi deriamojni farma,et fine determinato, cifrai quale non fpetie, è mefiierì di fiatubrr. la qualcofa non è altro che'l numero ( cofi il cbiamorno gli antichi ) del qual numero hoggipromifì, gt incomìnàai, ma non compiei di par* Urui. accioche piena informatione d'ogni mio jtudio por tiatCyitoi douete [opere che'lnoftro numero fi come quel lo demolire lingue : propriamente è mifura della gra&ez ZA del utrfo : le cui parole ben dijpojte, er ben termi* nate a Urotanto, er più piacciono a&'inteUetto quanto ti fuono, quanto lauoce, quanto ilntouerdeUdperfona t CT de piedi de baRatori, er de muftei gli occhi, er gli orecchi fuol dilettare . Onde io giudico al tempo antico forfè in Prouen%a,o in Skika,queimedeftmi, che erano mujìci cr danzatori, effere flati poetiiiquati pareggiati do i lor uerftai balli, aicami,ejafuoni, borfonettì bor canx,one,et hor ballate i lor poemi fi nominarono. E l'I «ero che altramente mifurauano i uerft foro i latini, er altramente noi uolgari li mifurìamo: quelli, in fillabe d l ui dendo le ditioni,di effeftàabe alcuna %J,er alcuna brie ne feceuatmk quali infteme adunate norie mifure,cr uà rie forme di numeri (piedi dicono li fcrittori) iombi,tro cheì,fboiidci,dattili, er mapcfti ne uaiimnoa rùtfcirc : con effe i quali i'ìorucrfi a oncia a oncia fmifuralfcro', et ttmerajfero. Ma noi altri i wflri ucrfi uotgari con mi nore arte, a 1 con più ragion mijuradofrutto eguale ala. tini finalmente ne riportiamo, percioche non curando del la htngbezz<t,nc breuità delle ftltabe piamente contane dclc, quelle in.uno accogliamo; o~ cofi accolte ceti dilete to de gliafcoltanti rendono intiera la claufula,cr in ucr< fo ne la cpnuertcno . il quai modo da mifurjrc è ccffyu* ra,w falcerà moho.cbenon perturba le fiUabe, nell'epa, ro'.e di cuifon parti, fccma,o rompe nel meza : ma ne lor. luoghi co lorofuoni&r intendimenti kfcÌMidole,fanr,cr falue per tutto l v.erfo le ci conferitale quai cofe non finno forfè i Latóri, o non le [aiuto fi bene : i quali cenfidee randa IcfUabe non come patii di dittionc, ma inquanto brietii, cr iti quarti lunghe, troncando col loro /««ae- re le parole, cr non parole tendendole, fanno numeri, (he non fon numeruna pagi, o braccia, o altra cofa cou lemifurante la oratione, non altramente, chefe ella M* fe\unafuperftcic ben continua, cr di un ptzzo /c/o : nel qual cahjpejfe mite quello <t Latini fuole auuenire men- tre efii fondono i ucrfi faro,, he a Latini, cr a noi con li cantori adiuienc-J quali concordando le parole al/e note, fenza curar de lignificanti, fan barbarifmi nonfoppor tèdi. Non uuò però,che crcggLte,che la volgare fcan* fioncfiapuro numcro,tai:to, àie fole undici fdlabe, co» munqttc infoile fe adunino, facciano il uerfo Tofcano; ma è meltìeri in ntmeràdolc anziché all'ultima fi perucgna^lquuuoinfa la quarta a in fu k fefia, o infila otta  S ua Ua fèdere; ouerkogkcndo lo fpirko,fdcilmenlònfmo al fine ci conduciamo. Bifogna adttque che la quartajafe* (ìa,& la ottaua fiUaba fu ecft piana, in maniera, che k uocegia faticata comodamele uifiripofi,et adagie.Verò non è uerfo, Voi ch"m rime fparfo afeohate il f nono ; ne quelk.Voi Min rime fparfo il fuono afcoltate.ma bene è bello, et buon uerfo con tutti gli altri di quel sonetto, Voi che afcoltate in rime fparfo il fuono . Forfè direte co yual ragia da poeti udgm la undecima fiRaba(quafì Fu* M delie colme d'Hcrcele)fu pofta al uerfo per termine, oltre al quale non fi mettejje f A che rijpondo, che cofi uolfero i primi padri del uerfo di quefla lingua; li quali per auentura mal poteuano accommoiarlo a fuoni, a contà& <* balli lom fi più oltra lo diflendeuatto, o è più to iìocbe'lnojhronerfo Tofcano allhora è uerfo perfetto, quando egli è giunto alla rima. Adunque perche più fo* Ilo ft conducete a perfetti: ne, di fole undici fillabe, alla più lunga,ilformarono,concedendo il priuilegio di poter farft più brieue : er col conftglio di chi l'afcolta, alcuna folta con cinque, mafouente con fette fiUabe mtieramat te prommtiarfi.Molte altre cofe uipotrei dir delk rima, ma non ho tempo da ragionarne iperò paffando alla prò fa, nofhra propria materia, nella quale [e egltu'hanume ro alcuno ; noi il togliamo dal uerfo,ty in lei lo trappian turno, o inefliamo -.facilmente dalle cofe già dette fi può coeludere che i fuoi numerino so dattiliffle fpodei, mafo Ito appunto i medefmi che noi trouiamo nel uerfo, fc non che! uerfo ripofando in fu le quattrojinfu le fei,o in fu le vttofue ftltabe^ neUe undici terminando, ha più certi, r  pi» noti ifuoi numeri che U profi non hainéSa quale farebbe uitio non picciolo, fc k fua ckufuk po(ata alqua to in fui quarto paffo,totalmente in fu l' undecime fi fer» maffc . Dunque in qual moda iti dirò io cbe'l boccaccio fuggendo iluerfo, loratione deUe fue Cento noueUe sin* gegnaffe di numeraref certo quejU no è imprefa dafeher Zo, ne io l'ho prefa perche io mi uantidi confumark, Z7 condurk k buon fine ; ma aecioche conofeiate quali, er quanti infm horafiano jlati i miei Budip et di che piccia k utilità ; doppo lunga faticaci fono futi cagione. Voi hoggidl,fè non altro, fi almeno di meglio fpcndere il uo* flro tempo,che io il mio ncnfeppifarejmpararete a mie fpefe. Conftderando con diligenza hor le parole, le quali ufi il Boccdccio, et'4i cui dunzi ui ragionai,hor k kr co pofitkmejbora i fini de alcune ckufuk, hor le materie del le NoKeifo ninna cofa mi fi paraua innanzi che numero fa s cioè compita, ®- da ogni parte perfetta non mi pareffe di ritrouark.E' il ucro cheper diuerfe cagioni ciò auuenir giudicaudtCr hor natura, et bora arte lo cfiftimaua ; C per dirui ogni cofa, hor con gli orecchi del corpo,hor con la mente deh" intelletto di cofì credere mi configliuà . La elegantk, er antichità de uocaboli, co ì loro fuonipkeeuoU, le mie orecchie naturalmente di diletto defiderofe, compitamente addolcivano, La proprietà, er trasktione, k natura d'alcune cofe perfettamente aU [intelletto rapprefentando,fenz<t modo mi diUttauano. Tanno anebora in unaltraguifa numerofe le fue Nouek te i pari, ifmili, er i contrariai quali fi come è loro natura, alcune stolte in alcune ckujule pienamente corre*  $ x fyondcndofìjiel paragone acquetandomi, non poteuano non contentarmi . Per U qud ragione,a me par tua di po- ter dire gli au uenbnenti di Pinnuccio, cr di Nicotofaji Spinelloccio, er del Ceppa di Cimone, di Salabetto, di Mibrogiuolo, er di Bernabò, beffa a beff ^ingiuria ad ingiuria, er cafo a cafo totalmente quadrando, le ter no uelk far numerofe. Kmneroja altrcfi poliamo dire la orationc,oue il fante di frate Cipolla guccìo imbratta, oue la bellezza iella uaUe dette donne, la greffezza di Fero» do, la uanttà dinudana Lifctta, la cofcjUonedi Ser Ciap pettetto, «r finalméte la mortalità di Firenze ci è deferite ta,ft fattamente, che più altra non fi defidcra : parla anebora in alcun hiogbibarkLìcifca, bar ta Bentiuegna del Mazza, hor lafuoccra di Arriguccio, bar la moglie di quel di Cbinzica,®- dice o>/fr,er parole in maniera al la ojona comtcnicti,cbe par che intiera ne la ritraggono; quello Jonnado co'lpuro inchiollro,cheTitianófoléni0 mo dipintore co colorile con l'arte fua no potrebbe adont bfare. Ma il numcrofo,di che ubo detto fin qui,pche può effcre, ej è forje non poche uolte dàniun numero accorri pagnato,non è il buono,di cui ho tolto a parlarui, bene è cofa da farne fltma, er ebeà trottare quel, che cerehiamo facilmente r.e può guidare,?? far lume : però, pajjan do più altra al componer dette parole, ©" <d finir deU le claufaie,come douemo, armiamo . Dette quali due cofe, l'una nonèpoftibile,cbcfenr.amtmero fu numero* fa U 'altra è fontana del mmero,et d'ogni bene che fa par fetta {a oratici ne. Adunque incominciando dalla fontana, quindi a rufeetti imiendo 3 a me pare, er in effetto è cojì, che torrione delle noucìle è talmente coìnpofli, che chi hi orecchie non inbumane,ftcibnente s'auede quanto eU U tiene di perfetto, er di numcrefo: la cagione oltre a queUo,che pur dianzi ucne diceua > non le orecchie, ma [intelletto dee far prona di ritrouare.zt per certa yuan tunque uolte ddiuiene,che con parole gentili^ fi tra fos ro adunatele ne aftra. ne aperta la lorofabrica ne rie fca,akun concetto cfplichimo; altrotanto fenza altro mt mero è mtmerofa la oratione. Et talee quella delle novd le : alla qaale\fu fi intento il Boccaccio, che alcune uolte uno, cr due ucrfi iv.fcendcne,o non gli uidc, o minti di kuarli non fi\urè,ma qua}] hellci-a [o caprifico che da fe 8efiifvafxf.o,et faffo germogliano, nelle fitc profe li coportò, &U cefi cane dalle parole ben compojle,frafe medefme alcuna uolta per k profa deUe\nouclle nafeono verfi,de quali quanto fono miglìori,ta)ito è peggio abbati dare; coft in effe molte fiate, anzifanpre uarij nmrteri dì oratione parte graui,parte uaglù,cr leggiadri fono ufati dipulkhre . con effo i quali U Boccaccio non più a cafo t  per natura delie parole, ma cv leggiadro artificio ua te gando le fue fentcntte ; quelle in quadro acconciando, eP fra i termini delle Icr claufule compitamente acceglièdo,  1 quài mauri moderando la oratione,et la vaghezza del torfqfuo con piaceuolì intoppi foauanente a frenando, hamio uertù non fokmente di dilettarne, ma dì giouarne,che in quelmodo, che la dejhezza della perfona con lapofjanza congiunta, le mftre forze fa gròtte fe^ mi defbuamonel difender fi pi» ficuro, ey neUo fendere più itnpctuofo, cr più fiem coft k profa da cotainume ri rfceofflprfgriirtrf è più cara ad udire ; cr <J»« concrfft, cb'ellafignifica, con maggiore efficacici fuol imprimer neWinteSetto . Forfè affrettate ch'io ue li nomini t cr che in trocbei,iambi 3 dattiÙ, CT piedi colali latinamente parlàdogli uì dìlìinguafmain darno affrettate, che {enei acrfo,ouc nafeono, er onde li prende toratione,non fon nomati, ne figurati 3 neRa profa, oue cfiìfon peregrini, quai figure, quai nomi può toro dare che ne ragiona ì Adunque a luoghi dotte efii albergano conducendotti, et quafì muto additandogli, il rimanente al uofbrofiudio co metterò. Ma itoi deuete fapere che enfi come la compofì tion della profa è ordinanza delle noci delle porole,ccfj i numeri fono ordini delle fiUabe loro i con U quali dilet* tondo gli orcchbi, la buona arte oratoria incominciamoti tinua, er finifee la oratone : percioche ogni cUufula co* me ha principio cofi ha mezp, cr fine, nel principio fi M mouendo, cr afeende meUnezo quafi fianca dalla fati* cacando m piè fi pofa alquantopoi difende, cr uola a\ fine per acquetarfi. Hora in quoti luoghi deUa fua uia di qua dal fine debbia pofarfì l'oratione,et quote fiUabe dal principio fta totani la prima paufa, no è precetto che nel comanàixt comodandolo, ragion farebbe il no ubbidirlo; ft perche la profa uttók effer liberajonde il numero no le è legamela compimento ; fi per fuggire ilfafiidio ycbe co i medefimi numeri,detthet ridetti più udtc,ci recar eh be loratione : fi anchora perche afententie.er affètti di* jfrari,partinteruaUi diparole non fi couengono . Che fe'l nerfonon fallidifce, ciò odimene perche ì fuo numero è puro numero, cr quafi muro della fua fabrica ; il male [mattato con altri numeripiu rileuatifdrijmàli, cr co» trurifcr d'ognintorno di rime,d'tpitbeti,& di figure di* pinto perde il colore, maggiorméte che molte mite il fin del ucrfò è principio, et talhor mezo della fentcn%a i ma nelk proft un medefmo numero è dette co/c, cr delle pa role iperò abondando ài dipintore farebbe operaaffet* tata,nm dilettevole jet oratoria,ma ridienti, puerile . Adunquerkoghendo le cofe dettcjpfrafe ftcfji para* gonandok, concluderemo mi medefima oratione per di ucrfe cagioni poter effer numerofa, cr non numero fi, perciocbel uerfo può effer nero, ma di parole ÙSfóme, €7 mal compofte: zrètdhora che la rima,et quei cafri* ., rij.ct quei fimili fan fonorajtta afyra molto lorationezr la caporione elegante [beffe fiate guafla il ucrfox? non uerfofagiudicarlo, Similmente la profa alcuna uolta ben capane le parok non bette, cr dura wka belle malamcn te ua componendo 5 et può occorrere che cofì come nella mufìca bencfpefjh le buone uoci difeordano,^ k no bua ik,o per ufanza, per arte fono tra loro concordi ì cefi ì pari>i fnmliw i contrari}, cofe tutte per lor natura ben rifonanti,qualche uolta co uoce a$ra,ty àfforme, qual, che uolta feioce mentc^ et a bocca aperta ua e faticando U oratione. finalmente molte fiate intrauienecke Ltpm /<* perfettamente compofta, quafi fiume del proprio cor p dppagandofi,nonfi cura non cht digìugere al fine,m di pofarft per lo camino,^ uafemprawfe'l fiato non le mancale, continuamente tutta firn uita eminareb* be . però a numeri ricorriamo, lìquali attrauerfando I4 (tratte pkccxoinmtc con Infinge, cr con uezzi ariti*  ' £ 4 jre* f-efcarfi,ey albergare con loro la vantino, er non ualcn do la cortcfta,ucgliom uftr le forze; er per benfuo,mal fio grado,con violenza tarrefìino. Sor. Qae/fd leg gede nwnerideUa profauolgarepar molto incerta, er confufa nondOìinguendo otte, quando, et quante fiate dì qua dal fine debbia fermarli Toratione ; ne con quai pie* di cammì,o a qual termine fi conduci per ripofarfi . Md che è quello che ttoi dicefìe,che a fententie, er affetti di* fiori, pari intervalli non fi contengono f er come è uero che nella profa pitiche neluerfi,un medefimo numero fta delle cofe,ct delle parole tBxoc. BrieuementerìjbS derò,uoi(comefate)attentamcnte afcoltatemUo pur dia zi detCoratore,^ del muftcP-XT àc hr numeri ragiona ioui,hebbi a dire, che mufico ponedo infieme le mei gra tii,<y acute, et co fuoi numeri mifwrandolc campuceua a gli orecchimi lo ratore con le parole della mente fìmiii tudìnuVanìma noftra difoUazzo difiderofa, s'ingegna di dilettare. Adunque egli è ufficio d'oratore dir parole non solamente ben rifonanti, mamtctligibìli } ey a comete ti signiftcati correfhonientì, chc si come nei ritraiti dì Titiano, oltra il diffegno, la fimiglianzà confideriamo(et fendo tali(fi come sono veramente) che i loro essempij pie namente ci rapprefentìno, opra perfetta, eydilui degni gli efiiflìmiamo > co fi ancora nell’oratione conia teflura delle parole, con i loro numeri, er con la loro concinnità tintentionifigrìfìcate paragoniamo: procurando che le parole pronunciate si pareggino alla sentenza, et co quel lo ORDINE [Grice, “Be orderly”] le significhino, che [ha notate la mente. Ver la qual cofafe i concetti sono gravi, le parole a dover loro rifondere deano farjì di fiUabe>cbe U lingm peni alcjua to nel PROFERIRLE [Grice, UTTER]; fiano jpefiiiripofi, ey non s’mdugie il finire ìil contrario nelle parole jo' nella SENTENZA piace* uoliueggofare a BOCCACCIO (si veda), w altrettanto pofimo dir degl’affetti. Perciocke i colerici con parole udibili, e prcjìe molto, mu imanm conicipi gramentc y agguaglun= do conle parole ?humor e, sono da esser PRO-NUNCIATI: che tuiegnadio chel Tbcfctno nel numerar delle ftlabe non pc ngd mente alla Uinghezz^o BREVITÀ (Grice, “Be brief, avoid unnecessary prolixity [sic]) loro,f, che piedi [e ne cempongd ; nondimeno nci prouiamo ogni giorno, che in cffefUabe con pia tcmpo, et più dffrdn; entefi prò fc.ifconoleconfoiuntii bclciiocaliìion fanno, llke Da te considerando,alcund tic Ita nelle canzoni ; er nella ce* mcdia,non d cdfo,o per confuctudìtte,md a bello fludic e<f léffe rime molto dfprc, non per dltrofaluo perche al feg getto di che pdrhatdyi^ro molto, er priuo aitato d'u- gni dolcezza fi comtemffero. i\u per cicche 1 poeta altro non uuole, che dilettarne,!* l’oratore dilettando ci per» fuade ; però è mefticrìche le parole decoratore totalmente si confacciavo a CONCETTI SIGNIFICATI, er che i ntmte ri deÙa prefa, cioè il principio i! mezo, et il fin fuo.uada <t paro col mezo, et col principio della SENTENZA, ikhe de uersi non adiviene, i cuinumsri non da concetti deWinttì IcttoTtiaddbdUifunm acanti fon dependenti, El efuin* di uiene, cbe I PERFETTI ORATORI SONO RARI IN NUMERO piu,chc i poeti non femodi quali auegnadio ebegradanente fimo obligati d lor numeri, et però il uerso paia oprat Uberto fd&digrmdifiimo magislerio ; nondimeno certieffm do jnqualfad parte cotdimnerifmpariiiOffenztttnol  to lo penfari(ifufo,fufo i . fubitamcnte li ritrouiamùì CrdagU orecchi guidati A mezo,ey al fine facilmente con esso lo ro ci conduciamo. Ma altra cofa è la profa,laquale dilet tondo er pervadendo congl’orecchi,- con Cintetiettcr, fumo oblìgati di misurare; guardando sempre che te parò le nonfian più corte, opiu lunge della SENTENZA SIGNIFICA fa : che ciò effendo, troppoo fcura, o troppo fredda riufei rcbbcTcratione. Sono adunque i fuoì numeri meno [enfi Mùtua affé più nobiliiun po più Uberi, ma non men certi di quei del uerfo i manon appare Uhr certezza, albergando neUe SENTENZA <>kquai sono cose intellettuali. E< ofo dirc, che cq/ì come più perfetta è la muficddelletre uod the deUe due; come mchoraè pm perfeita U dipintura de più coìori s che non è queUa de pockixojììa prefa, nelhi quale agl’orecchi ci all'inteUetto fi cecorda la lingua è oratione più numerosa del uerfome la Ungua, ctgl’orecchi aiue sole membra del nostro corpo t sono usate dì co Uenirsi  Qjtefioè il conto de fludij da ine fatti fmhorA in PETRARCA (si vda), et nelle NoueUe con fatica grandifimu, er con quel frutto che uoi uedete; ne me ne pento del tutto, fyeràdo che i mici errori funo altrui occafione di dauer bene opcrareia me nmgii, tiquale auezxo a fallire appe na ueggo ti miofallom cheiopoff a ammendarmi Sor. Seti uojbro fallo è fi picciolo che uoi peniate a uederb, fiate certo che agli altrui occhi fe totalncte imtiféile^e rò potete non curare. BkOc. L'errore è grande et da fe flefouffainoto t imldmk uifta ufa alle tenebre deWigno ronzammo che bafìi, nÓ lo difcernc:ct(che è peggiorai taddlme diuerttà non puo affiffarfinel fuo fbkndorc. Sor, Ver grulli additatemi quefìo more, er fe k m* (fra ignoranza ha prìmlegio di potarmi giouare infogni domiaicana cofa,non ktentteociofa. B«oc. Hohijono gli mori onde io mi trotto impacciato; ma tutti nafcono daìiaradiccji che dianzi ui RAGIONAI [conversazione e ragione]: cioè, che torte lati tu deh"orare>o- dei poetatela diverfa dalla Toscani, tìqttakerrore doterebbe effer e a cufchedtmo manifejliffimo. quindi or gomento^bek mie lunghe, zrpueriliof fauationifiano'morì j fbetkbnente quelli de numeri, deUa cui l’armonia k mie orecchie s di miglior [nono difi* derofe, compitamctite non fi contentano. Sor. Deffrf m<t ierk de numeri poco baurete dafaueUare, fe a lombi, er 4 dattili non ricorrete, maionottuedoin qual modo co te MISURE LATINE knojira prof a uolgarefi pojfafar numero fa. B roc N«o ii uedo,ma altri forfè fri ueder. Sor. Vrimier amente Magnerebbe far uerfi effametri, er peti tametriin quefla littgua, dando loro quei piedi^nde itati tiifono ujatidi cammare-.pofckaUa profawnendo, con quei medefmi in altra guifa dijpofli faticarci dinumerar la . ma ciò è cofa impofiMe,però il ?etrarca,iie il Boc< caccio non k tentò, Noiadtmque che fatto hr militiamo, per le loro-orme uenendo procuriamo difeguitarli, con* tentandoci ebe dopo loro nei loro ordme,non fecondi,ma terzi quarti ci nominiamo. Bsoc. Certo quefìo bo fat (io, mentre io era d'opinione che k nojbra arte oratoria, cr poetica, attro non foffè che imitar loro ambidue; prò fa,zj uerfi a loro modo fmuenàoxs' al prcfente,piu che tnaifcfitilfarei^into dal piacer della lettione, ry dal di* fw dclfhonore, chcfa ilmatido 4 ebigliafitmiglia j fe do  non Mn fcffe che CICERONE (si veda) in alcun libro àeUdfud arte orato rid, cotdlguifa difludio da Carbone adoprdtcgrandemé tefuol bùftmare; lodando aWmcontro il tradurre cCun4 ìingua iti un'altra i poemi, er la ratiomdc piufamofrXa* qual cofa(per uero dire) ionon bo fatto fin qui dubitarti do per le ragioni antedette, che la fententia fritta da CICERONE (si veda) delle due lingue piudnì'.cbe^eHa moderna non fi effequiffe cofi ufeito de i primi liudif, w ne fecondi no fendo ofo di effercitarmi, molti mefi fono'uiuuto otiofo et fél Valeriononmi conftglia t non fo che farmine Waue* iwe. V a l. Hord4 uoi tocca di configliare Soranzoì ' perojdfcidndo i afa uofhri ne loro termini fiore, condii dete IL RAGIONAMENTO principiato; il cui fine ( fc il difiderio deU'afcoltar non m'inganna) ci è lontano parecchie yùglia. Broc, Anzi io parlotta defdttimìeh percbe di quei di Soranzo non mièrimafo chefauellaretcbe battedo detto per quii ragioni, fecando me,il diletto fta la airtit de![ordtione,zT la eattfa demoftratiud, inquato io poj fo, foprd t 'altre effahttd, olirà di ciò della forma deWcf ferrite che tiene Umondo hoggìdì, zrde numeri quel io n intendo, er quanto io dubìto ragiona tom,o bene, c male che io ne parlafiijo pretendo ibaucr rifpofìo 4* Idcjueflìone ifahofe io non entraci tra quei PRECETTI INFINITI [Grice: “Conversational maxims – how many? Ten: a decalogue!] precetti infiniti H far proemij, di narrare J argomentare, er di epi \ogar rATaratìone, o a fitte, ake figure, a GL’ORNAMENTI DEL DIRE, o dltattione, odUa memoria mi riuoglie(fe, o degl’afctti, o de flati dipintamente uifaueUajìi. ìlebe fare ttonfaperei s'io nolefti, ne dotterei fe io fdpef.ifendo cofa mnpertmente, a fuori al tutto di qucl propojìto, tutor no al quelle fcìlsoranzo la fita dimanda. Val. Vc&t tdrtìi farebbe qucUadeS Oratore, feragionando fuor di propofito dilcttajfe in maniera che chi ludiffe noi difeet neffe. B eocar. Alita cofa è IL PARLAMENTO [PARABOLA] àeWQra* torc,cj -altra è quello del KhetorcSun diletta,®- l'altro infegnaj bench'ìo fia rhetore atto meglio a dovere irnpa rarc, chc IN-SEGNARE. Val. Almeno rttinfegnarete rìfho dere a gli argomenti d'alcuni grandi, i quali confcffcmdo {quel che noi dite ) la Rhetorica essere arte, U quale ne nofkri animi piacere, ®- gratta partorifea figuentementt non àmie utrtit, maperuerfa adulatione fi fanno lecito di chìmxrU,<£r,come uirìo di makguifajei fbandifeono delle Republiche. Bkoc. Dell’ACCADEMIA parlateci quale inperfonadi Socrate jtonper uer dire, ma Polo,®- Gcrgià tettando, coquello animo bìafimò U rhetorica, che altra uolta a Trafimacho, et Glaucone fe leuar Fingiuftì f i'i . Che cofì come fecondo lui, a cittadini, ey guardiani delle republiche è neceffaria la muftea, arte più ditette uole che utile, cofi a medefmi è buona cofa tmparare et teffercitarfì nella rhetorica, gioia s cr ditetto dell’inteletto. Ma accioche molto bene ilmio intento dpprendidte, Koi douete fipcre che i sentimenti degl’animali{ da i qualicomeda cose più note, è bé fatto che il nofhro efìent pio prciidiitmo) inféntcndo gli obietti loro, fe buoni fono s'allegrano, ® fe rcì,cioè àamofì alle ulti loro, fono ujati di contriftarft. Adunque, come ti cane ha piacere di ue deregr fiutare, etmngiare cibo che lo conferma li di fbiuciono tema-zzate, cofì tamente di fapere defidcroft ji dtletta del uero, cr ilfaljb, cofa contraria al fdo difiderio, twjommmenteper sua natura abbonda : er per c erto quale è il cibo càio Homaca, tale è k uerità all’intelletto} ma la bugia è il veleno che lo difhrugge: cr d'immortale die nacque, peggio che morto fa divenirlo. Hora et (enfi tornando, cetto l'huomo è animale pia gentilefco, et di na tura migliore che le bcHie non fono,il quale foUeuato dai LA BRUTTURA DI BRUTTI ad altro attende, che ad empiexfi U gold, er molte fkte, per uedere una. dipintura, udire una muflcafaniettfete pdtifcejoglknda anzi dipafeer gli occhi, er gl’orecchi, non jenzA damo della perfona, the di uuundcm MeridlineUa cucina ingnfftrfi. Laqml cofd,fì carne è uera de fentimetiicofi ha luogo nell’inteìlct to,alqmle fimilméte dee ejfer tecitojafckndo il uero che b mtrica.akuna uoìta per dilettar fupoter gujiare il pk ceuole. Nclqual cafo perauentura il noftrohumino intel letto è più dttànOytbe humano,percioche inquanto bumno cioè nudo d'ogni dottrinaci <f imparare difìderofo,cor re al uero che'l fatiama co uerft,et co profeper fuo dilet to fcherzando fimile è molto alle inteMigèzeJe quali non per faper più ch'elle sappiano, ma per fokzzo fotta d pì« di,miradofi,fono uaghe di riguardarne. Che }e noi forno FILOSOFI, tali a noi fono k Retorici et k poefid quali i frutti dUe tduole de fgnoriìlt quali dopo ceni quando fon fatiji Cùpiacendo al pakìo } alquanti per gentilezza ne ma giano-Mi d coloro che gii no fono, et fon perfarfì FILOSOFI, ledue arti predette fono i fiori che innanzi d i frutti JeRe fcienze, ù miti loro di fruttare difiderofe^uafi pia ta k primauera, fi dilettano di fiorare. Aluotgo poi che non fa mJkjte fa péfier di ftpere^tpur i parte delk rc  piètica, pub\ka,loratiani,et U rime fon tatto l cibori tutto l fi-ut ta deUd fui tàa . li qttd «oìgo non Ktutndo «irti didige rir ìefcknzejzT mfm prò conuertirk,de hro odori* cr delle toro finulitudmi gli Oratori afcoltandofuokiippat gdrfyo'coft ume,et mantienft, Dunque io non uedo per quul cagion k Rhetor icet debbufbanda fi delle Repiéli che, fendo arte che baper fubietto te nojhre bumane opt rttionkonde hanno origine le Republkhe: che bauegn<t dio che Foratore con ragioni probabili, cr anzi ùiccrte che nòidilettando, cr pervadendo giudichi, cr regga le diali operationii nondimeno fommamente è di con* mcndaretCr dbauer cara la fua folertiaxkfla quale le co fawflre perfettamente, zrproprimente, m quel moda che a loro effèrt fi conukne,fono trattde&r còfiderate. Quejlodko prefupponedo che uoifappiate(ikhe è noto ad ognuno)cbe l'huomo e mezzo teagf animali, cr fuitcUigenze, però comfee fe (ìeffo in un modo mezzana tra la fcienza,ebe egli ha de Brutti, cr ti fede, onde egli adora Domenedio, Il qual modo non è amo che openione generata dalla Rbetorka, con U quale il uohrfuo Cr faitrtuka parenti, cr amici, neUafua patria ciuil* mente uiuendojee curar di corregger cxbe}e una opera medefima in uarij tempi dalle leggi cktadinefcbe,hor uie tata,<er hor comnandata può effer aitio,®- uirtà-ragio* ne è bene che k nollrc Republkhe, non <k faenze dima firatiue, uere,^ certe per ogni tempojma con Rhetori che opmiotìiuariabih^rtramutabiìi(,qual fontopre,^ U kggi nojhre)pr udentemente finn gouermte. Vero Sa erate dannato a torto dell'ignoranza de giudici, abbi*    DIALOGO  dendo dUaopinione della fin patrìd,uolontieri fi fe incori tra alla inortc:U quale, pbilojophicamente argomentane do,come iniqua,?? mgruffc peiujoue tentar di fuggire. Etne! uc ro,comc il pinlofopbo ufo di intender nuTaltrd cofa filno quelk, che per li fenfi uenendogli ua ad dlber gare neffbitcUeitOjtMto men crede, quanto più fa cojj il medcfimo,ufo aVopre della natura,laquale eterna co leg g'e eterna,ct mconiutabilc ijuoi effetti produce,makmcn te può effere atto algouerno deRa Repubtica: le cui leggi per boneHe cagioni battendo ricetto a tempi, a hogbi % dUa !<tiht4,dUefttefoize,ct 4Wakm,fyeffc fiate da (tv. di altro mutano fornu&fembiahte; però ji creaiìo i magi- iìrati, li quali non altramente reggano lorotbc effe noi Sono adunque le legginon acri dei, quali fono la natura,. CT rinteUtgéze,nu fono idoli da quelli ijlefii adorate poi che fon fatte,che con loro arti le fabricaroiio.'Però è ben fatto,che con faenza non necefforia, ma ragioneuole,no pcrfctta,ma aìl'cffer loro perfettamente correfyondente, foratore, di cui parliamo, kèbia cura di conferuarle : chefe il noBro intelletto intendendo fi fa fimile alla cofi intefa, come può effer àie Thnomo auczzo a contemplar hfutìanza, er le maniere de bruttifi confacela col xege giment o della, città f più toflo c da credcre,quel che ogni giorno ueggiamo, che quejlo tale al fio fapcrfimiglim- dofi,udda cercado k}'olitndme,w in quella phiiofipbM do (ìfepelifca. li contrario fa Foratore, la cui arteji cui gouerno,i cui cafìumi, er le cui parole fono cofe propria, mente ciuadinefcbe,non credutc,non japutenu perfuafe co maggior dMtatione di qtfeUa, che k fciéza dnnojh-a tìwt det altre cofe più biffe, cr meno a noi pertinenti ci 4pporta:che maggior dtlettatione è il ueder jokmentc, o fenz4 <tiiro,udir parlare tino amico da noi amato, ®- ha* vuto caro,che ttedtrc,udire,gttjiare, er toccare tuttele befìic del mondo : con k quàl dilettatone perfttadcndo^ gloria,®- (tinte afuoi cittadini fuolgcnetar loratcre t non altramente, che co i dilpttt carnati gli mimali fenz* ragione generUo l un labro, facciano intera k toro fpt eie che altro non fendo k nójìra gloru, che openione, che hanno gl’uomini dell'altrui fenno cr ual/orejagio nt è bene, che k rhetoricótartipcio delle ciuHiopcnioni, fenza altramente philofophare, de nofiri nomi k partorifea,, Quatito adunque è più nobile,®- più amabtlco* fa del generar de figliuoli latterà gloria frutto (temo della uirtii,per k quale, a Dio ottimo mafiimo ueramen* te ci afiimigliamo, tanto è più utile aUa Kepublica labuo ita arte oratoria di qualfi ueglk fetenza, che delle cofe de&ttnatuxt. con ragioni infallibili puQacquijlar fi k no* iira mente . VoLadunque Soranzo ( che già è tempo, che t ttoi riuotga il parlare,®- in (otMx, cerne 4.a mi ì incominciò } continuate Imtprcfa, ® alloflu* dio detfelpquentia, che fi per tempo tentajìe, bora, che già ne è tempo, con tutto i[ cuore donai cut, cr confacrateui, Conofco per. mote pruouc il ualor dello ingegno uoftroal quale benché fio, attoafapere, ®- operare ogni coft,che a gentiluomo pertenga, nondimeno,fea fan* biantidellaperfonajcjìimoni dell'anima, fi dcedarjede, conftderando la figura deUafacck,et del corpo uopro, i mouùnenti di queko,U leggiadria defk linguaja uoce,ei  T i fìait {fianchi piati tutti di molto &mta, chiaramente compri do uoi c/Jir nato 4 cfowere effer oratore,il quale neUa wo« firn Rep,tra Scnatori,e tragittici acculiate,et deliberi* tc,o nella corte di Roma tra letterati uiuendo,pcr diletto Ìel mondo,ccn grandilf ma uojbra ghria,bkfimando^ lodando componiate CT fermiate, quale bo fperanza che mi farete, fe accompagnando co la natura la indujhriajn quella parte riuctgtrete la mfte, oue tti chiama U uojìrd neUd x contentandola d'effer buomo,le cofebumanehua mattamente curaretc,ey apprezz&ctejche ejfendo imagine e finuglknxa di Dio, ben può bajlam che la uojìra fetenza fia una nobile dipintura,deUa medefma turiti dì tettante la ttoflra mcnte,m quel modo che de ritrattimi* terialifiwl dilettar fi U ttijìa. Che fe l'anima rationalefor Iftdjef uitd de noflri corpi, è immortale intelletto ( il che hoggiXambafciadot Contarmi col Cardinale »Cf cogli akri,fì come io ttimo,a ncluderanno > creder debbiamo t che'l itero cibo,cbe la nutrica, fia non faenza mortale da\ mi in terra aequijìdta, ma alatm cofa diurna conuenìéte ti f ito efferrJcUa quale alia gran menfa di Dio eipafcìd* moticlparadifo. ryurtqueintalcafofolamentea dilettar (intelletto fludiaremo t rt impararmoMpingendo con le parole la ucritk daquale liberi fatti dalla prigìo della cor* tte,in propria forma uede,et confèpla la mjlra méfe.Mi polio cafo(cbe Dio noi uoglia)che la ragione fta cofa hit mana,come noi ftamojaqual najca uiua,et inora con effo noijcertofuo ufficio dee effere ildifeorrere hunanamen» tejetqueUo principalmente confidcrare, ebefìconuiene éUa bumanità, torte oratoria adoprando,con la quale in I^ff  tjue (là uita ciuSe,lemfìre Immane opcratiotà moderi» mo,et reggiamo. Ef per certo conte i colori materiali^* do fermine luoghi loro, mandano a gli occhi Fmagini, per lo cui mezo ti a>nojciamo,coft il itero dcUa naturai di Dio,m>n mfejìe([o,chenon poliamo, ma nell'ombra delle noBre opinioni contentiamo di Acculare: le quati (pitto piti ne dilett<tno t t<tnto più douemo credere che fio* nofmtli altiero, oue è npojh il piacere, che neramente ne fa felici. Ma acciò che neU'tmparar cr effercUar U Khetorica,queUo a uoi che a me auate, non intrauegtiai appigliateti intieramente a configli di Meffcr Tripbon Gabric&c,nmuo Socrate diquefìa etile cui uiue parole bene ìntefe da uoi,piu dì bene u'apportaraimo in un gior* nojolo,che a me non fece in due mefi la lettion del Boc* caccio,col rimario ch'io ne carni . Qjufìinon men corte fe,che dotto uohntieri il fentiero^h'à buono albergo co* duce con diligenza Hi moftrark con quello uno il Petrar ca V il Boccaccio leggendo } non pur le ciancie da me of* feruate,(y notate, ma i fecreti dettate laro mi ben notf a mlgarUfacihnente penetrarcte: imparando in qualma do latinamente, cr grecamente parlando 3 queUi imitiate, CT loro fintile diuctitiatc . il quale M. Tripbonefebora fufic in Bobgna s me certamente dagli errori del mìo paf fato ragionamento, et il Valerio dalla fatica del fuo fuiu ro,perauentttra hbcrarebbe, terminando la quejìione in manierarne poco,o nulla uauanzarcbbe da dubitarci!} tanto uoi udirete il Valerio, ilquale fi puodirluidopà UUal cuiparere(che dianzi io dicefii) io ui conforto che iààttentate. Vai. Ricordini.maca alcuna cosa. Keywords: “Dialogo della lingua”--. Speroni degli Alvarotti. Speroni degl’Alvarotti. Alvarotti. Keywords: retorica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alvarotti” – The Swimming-Pool Library.

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