Luigi Speranza -- Grice e Sebasmio: la ragione conversazionale della
classe romana – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Sebasmio is a philosopher mentioned
on a list of philosophers belonging to the Roman aristocracy. SEBASMIO.
Luigi Speranza --Grice e Secondo: la ragione conversazionale della gnosi
romana – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. According to Ippolito di Roma, a
gnostic who believes that the world is divided into light and darkness. Secondo.
Luigi Speranza -- Grice e Secondo: la ragione conversazionale del cinargo
romano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano. Tacito. A Pythagorean, he
acquires the nickname on account of a vow of silence he takes. Although some
regard him as a Pythagorean, he appears to have led the life of the Cinargo.
Even Adriano can not get to break his vow – although S. may have provided
written answers to some of the philosophical questions Adriano poses.
Luii Speranza -- Grice e Selinunzio: la ragione conversazionale della
scuola di Reggio – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Reggio). Filosofo
italiano. Reggio Calabria, Calabria. Pythagorean. Giamblico.
Luigi Speranza --Grice e Sellio: la ragione conversazionale dell’allievo
di Filone – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Gaio Sellio. Pupil of Filo
at Rome. Gaio Sellio.
Luigi Speranza -- Grice e Sellio: la ragione conversazionale del
fratello – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Pupil of Filone at Rome – possibly Gaio Sellio’s
brother. Lucio Sellio.
Luigi Speranza -- Grice Selvatico: la ragione conversazionale estense –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. S. Estense.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Semerari:
la ragione conversazionale e il principio del dialogo in Socrate – filosofia
pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo Italiano. Taranto, Puglia. Grice: “Whereas it
would be considered in bad taste at Oxford, the Italians pun on names – and
there is an essay on the ‘seme’ of ‘semerari’ Witty!” -- Grice: “Perhaps
Semerari is right and the philosopher MUST metaphorise. What better title to an
essay on Carabellese than ‘La sabbia e la roccia”?” -- Grice: “I like Semerari:
His ‘principio del dialogo in Socrate” is reprinted in his invaluable collection
on “Dialogo.”” – Grice: “In a way, we may say that Calogero, Semerari, and
myself, belong to the school of the philosophy of conversation – not to mention
Apel!”. Si laurea a Roma sotto CARABELLESE.
Insegna a Bari. Collabora ad Aut Aut, Critica storica, Giornale critico della
filosofia italiana, Clizia, Historica, Rivista di filosofia del diritto,
Rivista di filosofia, Il pensiero, Archivio di filosofia e altre riviste
specialistiche. Fonda Paradigmi. Si dedica per lo più a Spinoza, a Schelling,
alla fenomenologia di Husserl e Merleau-Ponty e al materialismo storico di
Marx. Altri saggi: Lo spinozismo,Vecchi, Trani; Storia e storicismo: saggio sul
problema della storia in CARABELLESEC, Vecchi, Trani; Storicismo e ontologismo,
Lacaita, Manduria, Dialogo, storia, valori: studi di filosofia, Ciranna,
Siracusa; Interpretazione di Schelling, Libreria scientifica, Napoli; Esistenzialismo italiano (Grice: “This reminds
me of parochial Warnock and his “English philosophy,” or Sorley for that matter!”
-- Cressati, Bari; “Questioni di etica, Adriatica, Bari; Responsabilità e
comunità umana. Ricerche etiche, Lacaita, Manduria; La filosofia come
relazione, Quaderni di cultura, Sapri; Natale, Guerini, Milano; “Scienza nuova
e ragione, Lacaita, Manduria; S., Guerini, Milano; Da Schelling a Merleau-Ponty;
Cappelli, Bologna; La lotta per la scienza, Silva, Milano; Valerio, premessa di
Papi, Guerini, Milano, Spinoza, Marzorati, Milano; Esperienze, Argalia, Urbino;
La filosofia dell'esistenza in Kant, Adriatica, Bari; Introduzione a Schelling” (Laterza, Bari); Filosofia
e potere (Dedalo, Bari); Civiltà dei mezzi, civiltà dei fini. Per un
razionalismo filosofico-politico, Bertani, Verona; La scienza come problema: dai modelli teorici
alla produzione di tecnologie” (Donato, Bari); “Insecuritas. Tecniche e
paradigmi della salvezza, Spirali, Milano); “La sabbia e la roccia. L'ontologia
critica di CARABELLESE” (Dedalo, Bari); “Dentro la storiografia filosofica” (Dedalo,
Bari); Sartre. Teoria, scrittura, impegno” (Sud, Bari); Novecento filosofico
italiano. Situazioni e problemi, Guida, Napoli; “Scesi. Studi husserliani” (Dedalo,
Bari); Filosofia Guerini, Milano Confronti con Heidegger (Dedalo, Bari); La
filosofia come scienza rigorosa, Laterza, Bari, Frammenti di diario; l'anno di
Istanbul, Schena, Fasano. “La cosa stessa.” Seminari fenomenologici (Dedalo,
Bari); “Dommatismo e criticismo”, “Deduzione del diritto naturale” (Laterza,
Bari); Pensiero e narrazioni. Modelli di storiografia filosofica” (Dedalo, Bari);
Frammenti di diario; l'anno del Messico, Schena, Fasano); “Fenomenologia delle
relazioni, Palomar, Bari); “Ragione e storia. Studi in memoria” Tateo, Schena,
Fasano; Dalla materia alla coscienza.
Studi su Schelling in ricordo, Tatasciore, Guerini, Milano; ‘La certezza
incerta” Scritti su Semerari con due inediti dell'autore, S., Guerini, Milano; Ponzio,
Il significato della filosofia per S., in "BariSera", Niro, S.. Il
problema morale, Atheneum, Firenze, Silvestri, Il seme umanissimo della
filosofia. Sul pensiero di S. (Mimesis, Milano). Treccani Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Per la
illuminata iniziativa del Prof. Antonio Corsano e con il consenso della Signora Irene Carabellese,
appassionata e vigile custode dell’opera
di uno dei più forti pensatori italiani del nostro secolo, l’Istituto di
Filosofia della Università di Bari ha promosso e realizzato, con questo volume,
la pubblicazione dei corsi organicamente
tenuti da Pantaleo Carabellese su La filosofia dell’esistenza in Kant, negli
anni accademici 1940-41, 1941-42, 1942-43,
presso la Università di Roma e mai editi finora. Nel piano delle ‘Opere Complete’ del
Carabellese, annunciato il 1948 ma non più portato a compimento (uscirono
soltanto i volumi Da Cartesio a Rosmini
e Critica del concreto), era previsto, coi numeri 16-18, un « Kant (in parte
inedito) ». Tale pubblicazione avrebbe dovuto comprendere unitariamente e il
volume del 1927, La filosofia di Kant.
L’idea teologica — frutto, con l’altro
libro del 1929, Il problema della filosofia da Kant a Fichte, delle lezioni degli anni 1922-1925 alla Università
di Palermo — e i corsi romani del
1940-1943, La presente edizione è stata
condotta su un testo conservato nella
Biblioteca privata del Carabellese.e costituito da fogli dattiloscritti
relativi ai paragrafi 1-7 e 38-104 dell’opera e da un gruppo di bozze di stampa
corrispondenti ai paragrafi 8-37. Nel testo
sono riprodotte fedelmente le dispense autorizzate dei corsi svolti dal Carabellese, negli anni 1940-1943, quale
Ordinario di Storia della Filosofia
(Professore di Filosofia Teoretica a Palermo dal ’22 al ’25, il Carabellese ebbe la Cattedra di
Storia della Filosofia a Roma dal ’26 al
’43 e passò alla Cattedra di Teoretica il ’44,
quando subentrò al Gentile, occupandola sino alla morte avvenuta il 1948).
L’Autore non poté riesaminare, ai fini di una regolare pubblicazione, il
testo. Sono pertanto restate, qua e là, delle ripetizioni Vv
inevitabili, del resto, in un corso universitario che si è
sviluppato, sul medesimo tema, per più
anni di seguito. Anche lo stile della
esposizione, talora un po’ trascurato, riflette la immediatezza e quasi estemporaneità di un discorso al quale
è mancato l’ultimo ritocco
letterario. L’approntamento del volume
per la stampa è stato curato dalla Dr.
Valeria Novielli, che ha sottoposto il testo a un’attenta e paziente revisione,
rendendone più precisa la punteggiatura, emendandolo, nelle parti
dattiloscritte, di numerose sviste formali, controllando e rettificando tutte
le citazioni. Con la Dr. Novielli è
doveroso ricordare i giovani, che con lei hanno diviso la non lieve fatica della correzione delle bozze: Teresa
Angelillo, Teresa Massari, Cosimo Tinelli e Anna Verzillo. *o d*o*
Nel presentare al pubblico questa grossa e ardua opera kantiana del
Carabellese, mi corre l'obbligo di accennare brevemente al suo significato nel quadro del pensiero
teoretico e metodologicostoriografico dell'Autore, sì che quanti vorranno
studiarla o consultarla possano partire, nella lettura, col piede giusto. Sulla formazione della filosofia personale
del Carabellese l’insegnamento di Kant ebbe influenza decisiva. Carabellese
considerò sempre la sua ‘critica del
concreto’ o * ontologismo critico’ il risultato di un ripensamento profondo e
ostinato della dottrina kantiana. Nella
Prefazione alla seconda edizione della Critica del concreto, che è del 1939, Carabellese
dichiarava esplicitamente che Kant gli «
fu d’aiuto » a scoprire la ‘critica del concreto’ e aggiungeva: « questa mi fu poi d’aiuto a
riscoprire Kant »!. Le suggestioni
ricevute da Kant per la scoperta e la strutturazione della ‘critica del concreto” così come il
ritorno a Kant attraverso tale critica
precisano il carattere di lettura teoretica, che rivelano gli scritti kantiani di Carabellese. Convinto che il Kant della corrente
tradizione storiografica, il Kant cioè
raffigurato quale punto di convergenza e di fusione di razionalismo ed empirismo, fosse una
falsificazione dell’autentico Kant e che,
al contrario, la verità di Kant fosse l’affermazione della inesauribilità dell’ ‘essere’ o ‘cosa
in sé’ rispetto alla na 1
CARABELLESE, Critica del concreto, Firenze, Sansoni tura, Carabellese
ricostruiva Kant assumendo a criterio d’interpretazione l’esigenze proprie
della ‘critica del concreto’: l’essere in
sé (Dio, Oggetto, Idea) e l’essere in altro (Io, Soggetto, Esistenza). Il volume del 1927 era dedicato appunto alla
‘idea teologica’ ed era concentrato
nell’analisi del processo onde Kant, pur nei limiti dogmatici e realistici del suo criticismo,
aveva posto la idea quale oggettività e
ragione e, quindi, la schietta idealità della ragione. Per intendere correttamente la relazione
dell’opera del ’27 con La filosofia
dell’esistenza in Kant, è utile ascoltarne un passo: « Per ora constatiamo che Kant ha finalmente
scoperto la natura dell’oggettività
nella sua distinzione dalla esistenza. L’oggettività è risultata la necessità e universalità di
coscienza: ciò che nei singoli pensanti c’è di identico. L’oggettività dunque è
universale astratto nella coscienza. Ecco la grande scoperta che Kant ha fatto, ma non ha visto. È l'America, che egli
crede India. E con la scoperta
dell’oggettività, Kant ha scoperto anche l’esistenza nella sua distinzione dalla oggettività.
Infatti, l’oggettività, l’essere
identico della coscienza è astratto, perché ci sono le singolari
qualificazioni della coscienza nelle quali... ci è dato tutto ciò che di esistenziale può mai risultare » Non
diversamente da Colombo che, credendo di
aver trovato una nuova via per raggiungere un
continente già noto, in realtà aveva scoperto un continente prima sconosciuto, anche Kant — pensava Carabellese
—, incamminatosi nella ricerca critica intorno alla conoscenza, era approdato,
senza rendersene adeguatamente conto, alla individuazione della dimensione
oggettiva o ideale della coscienza e alla sua distinzione dall’altra dimensione, che è la esistenza, la
soggettività. Questa 1‘ America’
scoperta ma non riconosciuta da Kant, che, « al di là di questa oggettività ed esistenza che ci
risultano e che costituiscono la coscienza », si intestardiva « ad ammettere
ancora una esistenza. che concretizza l’oggettività fuori della coscienza »
5. A giudizio di Carabellese, Kant,
impegnato a risolvere il problema capitale della filosofia moderna, quello
gnoseologico, aveva, di fatto, impostato
vin nuovo problema, il problema della coscienza
nella concretezza della sua struttura e delle sue esigenze trascendentali:
universalità e singolarità, oggettività e soggettività, idea ed CARABELLESE, La
filosofa di Kant. L'idea teologica, Firenze, Vallecchi CARABELLESE, La
filosofia di Kant. ì
esistenza, Dio e Io, ecc. Il ‘ vero’ Kant era ritrovato da Carabellese
nella ‘Dialettica Trascendentale’ della Critica della ragion pura, dove etano stati definiti i grandi temi
metafisici di Dio (idea teologica) e
della esistenza (idea cosmologica, idea psicologica). La improponibilità di quei temi in termini
conoscitivo-positivi, il loro eccedere
dai limiti della ‘ Estetica’ e dell’‘ Analitica’, che costituivano formalmente
il campo del ‘conoscibile’ e dello ‘scientifico’, davano a Carabellese la
conferma che, con Kant, era accaduto qualcosa di nuovo e di rivoluzionario.
nella storia della filosofia moderna, il passaggio di fatto, implicante un
rovesciamento prospettico, dalla
filosofia del conoscere alla filosofia della coscienza e del concreto, passaggio solo di fatto e non
ancora di diritto, ché Kant continuava a
restare impigliato nella logica della filosofia del conoscere, confondendo oggettività ed
esistenza, di cui pur aveva sentito la
distinzione a livello di coscienza comune e di sapere concreto. La filosofia di Kant « perciò
s’incentra nei tre problemi della
Dialettica, scrive Carabellese nella Prefazione all'opera, Di questi tre
problemi adunque noi faremo centro per
esporre criticamente il pensiero filosofico di Kant nella sua integrità,
prendendo ciascun problema dal momento in cui esso si formula nella mente
kantiana fino a quello in cui dal problema, risoluto o no, questa si libera.
L’avvertimento di quella che, per lui, era stata la più originale scoperta
kantiana e, insieme, dell’imzpasse logico in cui era stata bloccata dalle contraddizioni della
filosofia ‘storica’ di Kant metteva
nelle mani di Carabellese il filo rosso del suo incontrarsi e scontrarsi con Kant e fissava i termini e
il metodo del suo discorso critico, che si veniva organizzando nei modi di una
lettura, come oggi si direbbe,
‘sintomale’, di Kant, orientata a valorizzare, contro il Kant letterale, la sua
scoperta critica liberandone il
contenuto dall’involucro formale e linguistico della tradizione precriticistica,
che ne distorceva il senso e ne strozzava lo sviluppo. Prescindere da Kant
oggi, in filosofia, è fare opera nulla. Ora
per una determinazione di problemi che non prescinda da Kant, io credo che bisogna rifarsi dallo stesso
Kant senza trascurare quelle CARABELLESE, La filosofia di Kant che sono le
conquiste dal kantismo, e non dallo stesso Kant, già fatte. Rifarsi quindi da Kant combattendolo
nei suoi residui dogmatici. Ma per combatterlo appunto bisogna intenderlo nella
sua profondità, e per intenderlo bisogna
avere una concezione della realtà da
contrapporgli (concezione sia pure nata da Kant; che anzi deve esser nata da Kant), bisogna avere un
pensiero con cui indagarlo. Solo così si può fare la storia, sia essa della
filosofia che di una qualunque
determinata attività concreta dello spirito.
In tal modo, Carabellese progettava la sua lettura di Kant come controllo di una più vasta e generale
interpretazione del rapporto tra la
filosofia e la sua storia. La filosofia, voleva dire Carabellese, non nasce se non sul terreno dei
problemi maturati storicamente
(impossibilità di filosofare oggi prescindendo da Kant e dalla storia del kantismo). La filosofia,
nondimeno, non eredita passivamente
dalla propria storia (necessità di combattere Kant nel suo superstite dogmatismo). Anzi gli stessi
problemi proposti dalla storia non
possono essere compresi fino in fondo, nella loro verità, se non si sia in
grado di fare uso di un punto di vista diverso, andando al di là del giudizio
strettamente storico con un giudizio
teoretico (Kant non può essere combattuto, cioè proseguito e superato, se non
venga prima inteso, e non può essere
inteso, se non si sia in grado di opporgli un differente pensiero). Insomma, se la filosofia dipende dalla sua
storia, questa, dalla sua parte, è anche
condizionata e anticipata dalle opzioni teoretiche della filosofia. Il proposito di far emergere dall’interno
della dottrina kantiana ciò che appariva essere il suo contributo più originale
e importante, dando, per questa via,
espressione a quanto Kant aveva lasciato
inespresso, rendeva la indagine storiografica di Carabellese altamente
drammatica e rischiosa, provocava il mutuo coinvolgimento dello storico .e del
suo autore, al punto che il dovere di
capire l’autore finiva col coincidere col diritto di correggere, reimpostare o risolvere i problemi da lui
lasciati aperti, e sollecitava al salto al di là dei limiti della filologia,
quando ciò sembrava necessario alla
risolutiva espressione dell’inespresso. Lo stesso Carabellese era ben
consapevole di ciò e non fu certo un caso che,
introducendo il volume del ’29, difendesse il suo scrupolo filologico: «
M’auguro che l’amore della tesi non abbia mai forzato l’in- [CARABELLESE, La
filosofia di Kant] dagine storica ad una interpretazione che non sia quella
voluta dalla intima coerenza logica dei
pensatori studiati. Certo ho messo in
ciò la massima cura. E perciò mi son sempre rifatto direttamente alla lettera
stessa dei loro scritti, perché i concetti risultassero sempre nella loro
maggiore possibile determinatezza. In
definitiva, ciò che principalmente importa a una ricerca quale Carabellese proponeva e perseguiva non è
tanto la relazione, che Kant ebbe con le
sue fonti e coi suoi contemporanei, quanto la
relazione che può instaurarsi tra Kant e i suoi successori e,
soprattutto, tra lui e noi nell’orizzonte della odierna problematica
filosofica. Era questo il senso della
contrapposizione a un Kant morto,
congelato nel linguaggio delle sue opere, di un Kant vivo che, diceva
Carabellese, « io voglio rivivere e far rivivere, e col quale quindi io ho bisogno di discutere scendendo
nelle profondità del suo pensiero e
analizzando questo sia nei suoi germi nascosti, per i quali egli rivive in noi che con lui
discutiamo, sia nelle grossolanità esplicite dalle quali egli non seppe e non
poteva liberare la sua costruzione, e di
fronte alle quali quindi egli deve rinnegare se stesso e darci ragione. A
questo punto può essere interessante ricordare come un’analoga impostazione
alla comprensione di Kant dava, due anni dopo
la uscita del libro carabellesiano del ’27, ma in totale indipendenza da
Carabellese, Martino Heidegger con Kant e il problema della metafisica. Non è questa la sede per
istruire il confronto tra il Kant di
Carabellese e il Kant di Heidegger e illustrarne le differenze pur nella comune ispirazione ‘
metafisica ’ dei due approcci®. Vale, piuttosto, la pena di sottolineare la
identità, nel metodo, delle due letture,
che risalta oggettivamente alla luce della
seguente dichiarazione di Heidegger: « Un’ ‘interpretazione ’, la quale si limiti a ripetere ciò che Kant ha
detto testualmente è destinata in
partenza a fallire il suo scopo, almeno finché il compito di una vera
interpretazione resti quello di rendere visibile proprio ciò che nella fondazione kantiana
traspare al di là delle CARABELLESE, Il problema della filosofia da Kant a
Fichte, Palermo, Trimarchi, CARABELLESE, La filosofia di Kant, Lo stesso
Carabellese volle precisare tali differenze in una lunga nota della Prefazione alla Il edizione della
Critica del concreto: cfr. Critica del concreto Xx formule.
È vero che Kant non è giunto a pronunciarsi direttamente in proposito, ma è anche vero che in ogni
conoscenza filosofica il fattore
determinante non è il senso letterale delle proposizioni, bensì l’inespresso immediatamente suggerito dalle
enunciazioni esplicite. Così, l’intento
esplicito di questa ‘interpretazione’ della Critica della ragion pura era di rendere visibile il
contenuto decisivo dell’opera, tentando di porre in evidenza ciò che Kant ‘ha
voluto dire’. Nel seguire questo
procedimento, la nostra interpretazione
fa propria una massima che lo stesso Kant voleva veder applicata alla ‘interpretazione’ di opere filosofiche
(...). Naturalmente, per strappare a
quel che le parole dicono, quello che vogliono dire, ogni ‘ interpretazione’ deve necessariamente
usar loro violenza. Ma tale violenza non
può esercitarsi a caso, per mero arbitrio. L’interpretazione dev'essere mossa e
guidata dalla forza di un'idea illuminante e anticipatrice. Soltanto in virtù
di una tale idea, una ‘ interpretazione’
può osare l'impresa, ognora temeraria, di affidarsi al segreto impulso che agisce nell'intimo di
un’opera, per essere aiutata a penetrare
l’inespresso e forzata ad esprimerlo. È questa
una via, per la quale la stessa idea direttrice giunge a rivelarsi pienamente, manifestando il proprio potere di
chiarificazione. Chi abbia presenti i passi dianzi riferiti di Carabellese, ove
si parla di discesa nelle « profondità »
del pensiero kantiano, di « germi
nascosti », a cui fanno velo « grossolanità esplicite », della « concezione della realtà » da contrapporre a
Kant per capirlo e della necessità « di
avere un pensiero con cui indagarlo », può rendersi conto di come Carabellese e
Heidegger concepissero, entrambi, il lavoro storiografico, in filosofia,
fondamentalmente come interpretazione, interpretazione da tentare come sforzo
di esplicitazione del senso profondo e intenzionale, restato nascosto, delle
parole espressamente dette. Di tale sforzo, la cui realizzazione può anche comandare l’esercizio della violenza
sulla filologia, il pre L 9 HEIDEGGER, Kant e il problema della
metafisica, tr. it, Milano, 1962, Silva,
pp. 264-265. Nella Prefazione alla II edizione dell'opera, che è del 1950, così scriveva Heidegger: «C'è sempre
chi si sente urtato dalle forzature che riscontra nelle mie interpretazioni.
Questo scritto potrà offrire buoni
argomenti per un'accusa in tal senso. Coloro che dedicano le loro ricerche alla storia della filosofia hanno
sempre il diritto di muovere quest'accusa a chi tenta di aprire un dialogo fra
pensatori. Un dialogo di pensiero
obbedisce a leggi differenti, rispetto ai metodi della filologia storica,
legata a un suo compito preciso. Più grave è, nel dialogo, il rischio di fallire, più frequenti sono le mancanze. supposto
è un'anticipazione teoretica (non casuale, non arbitraria secondo Heidegger, necessariamente derivata
dal filosofo stesso del quale si fa la
storia, secondo Carabellese), capace di trasformare in parole chiare e determinate la ‘intenzione’ del
filosofo oscurata e contraddetta dal suo
stesso discorso storicamente esplicito. Secondo Carabellese, il compito della
filosofia dopo Kant, nella misura in cui
Kant veniva riconosciuto come ponte di passaggio obbligato nella storia del pensiero moderno,
era di andare avanti sulla strada di una
‘metafisica critica’, che Kant aveva appunto
dischiuso ma non percorso. Sin dalla edizione, che cura, degli Scritti
minori di Kant, il Carabellese aveva fermamente battuto sul fatto che, a suo
parere, il criticismo kantiano non
rappresenta la liquidazione della metafisica, bensì la esigenza e anche il modello, in qualche maniera
delineato, di una sua nuova, ‘ critica
’, reimpostazione. « Nello sforzo tenace e fortunato che Kant ha fatto per rendersi conto esatto della
possibilità della filosofia come
metafisica, cioè come scienza, che ha oggetti non dati dalla esperienza, si possono distinguere due
aspetti: quello per cui lo sforzo tende,
diciamo così, ad individuare con la maggiore possibile esattezza questi oggetti
nella loro essenza, e l’altro, che è
come il riflesso di quel primo, per cui lo sforzo torna continuamente a
misurare se stesso » 1°, L’errore di Kant, il suo limite storico, a giudizio di
Carabellese, era consistito nell’aver dimenticato che la Critica, nel suo stesso programma, era
destinata a fungere solo da propedeutica
(‘prolegomeni ’) a ogni futura metafisica e
non poteva, perché non doveva, elevare se stessa a filosofia. L’errore
del pensiero postkantiano era stato quello di non accorgersi dell'errore kantiano e di aver assunto come
ovvietà non più discutibile né problematizzabile la presunta negazione kantiana
della metafisica. Metafisica
positivistica, criticismo metafisico idealistico, storicismo, attualismo, esistenzialismo, ecc.
— tale era la convinzione di Carabellese — erano tutti prodotti diversi di un
medesimo perseverare nell’errore di Kant: la confusione del problema dell’oggetto della filosofia (il problema
cosiddetto esterno) col KANT, Scritti minori, a cura di P. Carabellese, muova
ed., Scritti precritici, Bari, Laterza. problema
del rapporto della filosofia con se stessa (il problema cosiddetto ‘interno. Esauritosi nel mero
esercizio della Critica, finita col
diventare fine a se stessa, Kant fu costretto a occuparsi unicamente del problema ‘interno’ della
filosofia e non vide come la sua
soluzione sarebbe stata impossibile fino a quando non si fosse affrontato e formulato correttamente,
secondo le indicazioni della Critica, il
problema ‘esterno’. « Il problema che Kant impostò riguardo alla filosofia »,
scriveva il Carabellese il 1929, «e che
è sostanzialmente il problema di tutta la Critica, non fu quello della essenza, ma soltanto quello della
possibilità di essa. L'essenza della
filosofia come scienza era presupposta e dogmaticamente accettata. Perciò il
criticismo kantiano non è la piena posizione di
quello che abbiamo detto il problema interno della filosofia; ne è invece la posizione consentita da un
preconcetto essere intellettualistico » !.
In altre parole, Kant, nonostante la Critica, non seppe rinunciare al
pregiudizio pre- e anti-criticistico di un essere sussistente al di fuori della coscienza e del soggetto e
all’uno e all’altra contrapposto e continuò a pensare la filosofia come uno dei
modi, certamente il più fallimentare, di
raggiungere conoscitivamente questo essere. « Come Cartesio aprì quello delle
origini, Kant ha aperto soltanto il
problema della possibilità della conoscenza. E
tutti gli indirizzi post-kantiani, che di Kant veramente tengano conto,
cercano di rispondere a questa domanda, ma solo a questa. E a me paiono ora esauriti i tentativi per
darle una risposta. È ora di cambiar
aria, di correre verso una nuova dimensione dello spazio speculativo. A furia
di dimostrare la possibilità della conoscenza,
abbiamo finito forse col dimenticare, o meglio possiamo cominciare a vedere che cosa è questa conoscenza di cui
vogliamo dimostrare la possibilità » 1.
La ragione principale della filosofia di Kant, alla luce della interpretazione carabellesiana,
stava proprio in quel bisogno di « cambiare aria », di conquistare « una nuova
dimensione dello spazio speculativo ».
Il che, per Carabellese, significava che
Kant aveva toccato il limite estremo dello gnoseologismo moderno, da un lato circoscrivendo, una volta per
tutte, l’area del conoscibile, di ciò che può essere ‘scienza’, e dall’altro
provando che filosofare non è conoscere.
li CARABELLESE, Il problema della filosofia CARABELLESE, Il problema della
filosofia Che cosa la filosofia potesse mai diventare, dopo essere stata affrancata da compiti di conoscenza — questo,
secondo Carabellese, era il problema
posto da Kant, che Kant non ebbe la forza di risolvere, in quanto lasciò che i
potenti strumenti della Critica restassero inceppati dallo stesso pregiudizio
realistico messo in crisi appunto dalla
Critica. Il pregiudizio restò ancora abbastanza saldo per la svista di Kant, che non si accorse
della grande scoperta ‘critica’ e ‘metafisica’, da lui fatta, dell'oggetto
quale universalità e necessità della coscienza e non più suo ‘al di là”. Proclamandola impossibile
come scienza, Kant mostrava di considerare la metafisica pur sempre come
‘scienza’. Per lui, gli ‘oggetti’ della
metafisica (Dio, anima, mondo) continuarono a valere come l’‘al di là’ della
coscienza, conoscitivamente
inattingibile. Eppure il senso della Critica spingeva a inglobare quegli
oggetti nella coscienza, a ‘ immanentizzarli’ non quali ‘ contenuti” bensì
quali ‘essere’ della coscienza, come la stessa coscienza nella sua originaria e necessaria struttura
!8, infine come l’apriori metafisico di ogni determinato e concreto sapere,
essere e fare. Dopo Kant, quindi, anzi
attraverso Kant, fare metafisica, fare cioè
filosofia e non soltanto propedeutica alla filosofia doveva voler
dire, per Carabellese, null’altro che
riflettere (riflettere, non conoscere),
sempre più a fondo, sulla coscienza comune, sulla struttura del concreto
essere/fare naturale e storico dell’uomo. Nello spirito, anche se contro la
lettera della Critica e contro la dominante tendenza del pensiero postkantiano,
Carabellese pensava tale struttura
immanente e trascendente allo stesso tempo: immanente, perché intrinseca al concreto, trascendente, perché
non esaurita né esauribile in alcuna determinazione del concreto (la
inesauribilità della kantiana ‘cosa in
sé’ rispetto al fenomeno o natura). Per rivalutare a pieno il kantismo bisogna
guardare anche «.. coscienza è il sapere insieme, noi molti soggetti, un
oggetto, nella unicità del quale
conveniamo » (CARABELLESE, La coscienza, nel vol. collettivo Filosofi italiani contemporanei,
Milano, 1946, Marzorati, p. 210).
Oggetto umico e noi molti soggetti insieme costituiscono, per
Carabellese, la struttura o essere della
coscienza. Fusi e, tuttavia, distinti nella sinteticità originaria della
coscienza, della coscienza l'oggezto è principio 0 fondamento e noi molti siamo i termini
esistenziali. Tutto ciò Carabellese
ricavava dalla Critica, ora direttamente ora mediandola storicamente, ma sempre sostituendo all’abituale lettura di
Kant in chiave gnoseologistica la
interpretazione ‘metafisica’ ossia, nel linguaggio di Carabellese, ‘ ontocoscienzialistica
'. questi oggetti della ragione pura,
non per tornare a ripetere la metafisica
kantiana di noumeni sconosciuti e inconoscibili e pur validi come regolativi, ma per guardarli nel
nuovo concetto di co- scienza maturatosi
da Kant, e rivalutare così di nuovo il presup-
posto trascendentale della esperienza. Del nuovo concetto di coscienza, in cui venivano trasposti e
semanticamente rigenerati i vecchi
oggetti metafisici della ragione, La filosofa di Kant. L'idea teologica e La filosofia dell’esistenza in
Kant furono la riflessione,
tematizzandone l’una l’aspetto oggettivo (Dio, Idea) e l’altra l’a- spetto soggettivo (Io, Esistenza). Le due
opere furono i due tempi di una medesima
ricerca, i due momenti di una medesima analisi
e anche le due direzioni diverse di una stessa polemica. Infatti, ambedue — come, del resto, tutti gli scritti
teorici e storici di Carabellese —
rappresentavano altrettante prese di posizione nei riguardi di quelle che Carabellese pensa
essere le conseguenze della mai denunciata svista di Kant e, più in generale, le manifestazioni estreme,
nel pensiero contempo- raneo, del non
ancora debellato realismo dogmatico. In partico- lare, il libro, attribuendo a Kant,
tradizionalmente fatto pas- sare per il
progenitore dell’idealismo moderno soggettivistico, la sco- perta della oggettività di coscienza, serviva
a Carabellese anche come arma di lotta
contro l’attualismo gentiliano — allora al culmine del suo successo storico —, che di
quell’idealismo si protestava l’esito
più coerente e rigoroso e che fu appunto il bersaglio permanente
della polemica filosofica di
Carabellese. Analogamente, La filosofia del-
l’esistenza in Kant, con il discutere la confusione kantiana di
esi- stenza e oggettività
realisticamente intesa, consentiva a Carabel-
lese di contrastare l’esistenzialismo, che in quegli anni si andava diffondendo anche in Italia, e di condannare
in esso la sopravvi- venza del
preconcetto realistico e dogmatico « che il singolare sia fuori dell’essere, e che l’essere sia al di
là della singolarità » !9 e,
soprattutto, l’errore teoretico di presupporre la esistenza senza
chie- dersi che cosa mai essa sia, a quale
esigenza strutturale del nostro
essere/fare concreto essa risponda.
Esula dal compito assai limitato e modesto di questa introdu- zione l’esame critico della ricostruzione
carabellesiana della filo- 14 KANT,
Scritti minori, cit, p. VI. 15
CARABELLESE, L'esistenzialismo in Italia, in « Primato » 1943, p. 65. 16 V. segnatamente i paragrafi 3, 13, 43’ e
84 di questa opera. sofia di Kant.
Tale esame, ove fosse tentato, implicherebbe l’apertura della discussione sulla
generale metodologia storiografica del
Carabellese e, quindi, sulla sua posizione teoretica, che di quella metodologia è motivazione, supporto e guida.
A me premeva solo di dare al lettore
alcune indicazioni elementari e, a mio avviso, es- senziali per un suo primo orientamento
sull’impegno programmatico e sul
carattere di questa opera, indubbiamente originalissima e ri- gorosa, in una epoca che, forse, non è la più
favorevolmente di- sposta a comprendere
un lavoro storico condotto con la tecnica
usata da Carabellese e ad accettare un discorso teoretico redatto nel linguaggio che era proprio di
Carabellese. Il lettore vaglierà e
giudicherà per suo conto. Quali che siano, però, le conclusioni di ciascuno di noi, possiamo essere tutti sicuri
che la intera ricerca di Carabellese,
nella quale, in primo piano, si pone la sua lunga meditazione kantiana, è, per tutti noi, uno
stimolo potente a li- berarci dai
consunti schemi storiografici e a tirarci fuori dai luoghi comuni in cui la nostra intelligenza filosofica
può essersi impigrita. GIUSEPPE SEMERARI Bari, 12 novembre 1969. Giuseppe Semerari. Semerari.
Keywords: fascismo, Gentile, neo-idealismo come intrinseccamente fascista,
Croce, Vico, intersoggetivo, io-tu, dialogo, dialogo autentico, comunita,
valore comunitario, comunita umana, vico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Semerari” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Semmola:
I FONDAMENTI DELLA PSICOLOGIA RAZIONALE --
la ragione conversazionale della filosofia come istituzione – la scuola
di Napoli – filosofia napoletana -- filosofia campagnese -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Napoli).
Filosofo napoletano. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I find it
difficult to decide if Semmola endorses formalism or informalism in his
monumental “Logica.”” Grice: “While Ayer never liked it, metaphysics is very popular in Italy,
as Semmola’s monumental “Metafisica” testifies.” Grice: “It’s good to see
philosophy as an institution, in the Italian way of using this word, as per
Semmola, “Istituzione di Filosofia.” Uno dei più grandi esponenti della scuola napoletana. Partecipa ai moti
di Marigliano. Saggi: “Istituzioni di Filosofia,” “Logica,” “Metafisica”, Biblioteca,
Napoli. Mente divinatrice ardente spirito investigatore che nello studio della
natura morbosa dell'uomo produsse miracoli di arte e di scienza scolare e
presto emulo del suo gran più ai giovann conchiuse alla novità delle dottrine
una sapienza antica procacciandosi fama in patria e fuori di sommo maestro in
medicina ne rifulse lo ingegno incomparabile dalla cattedra nell'università
napoletana nelle accademie e negli ospedali nei consessi legislativi e nei
congressi scientifici nella parola negli scritti membro della commissione
legislativa riunita in Firenze principale autore di un codice sanitario
italiano inviato unico plenipotenziario alla conferenza sanitaria internazionale
di Vienna deputato e poi senatore nel patrio parlamento onorato due volte di
medaglia d'oro dal proprio governo per le cure ai colerosi da quello del
Brasile per la guarigione del suo imperatore Socio di gran numero di accademie
italiane e straniere Insignito di molti tra i maggiori gradi cavallereschi. Muore
nella fede catolica avita. Questo marmo per voce del comune Si fa eco della
pubblica solenne onoranza cittadina. Le spoglie mortali riposano nella cappella
mortuaria di famiglia ove le vollero la vedova ed i figliuoli a rendere vieppiù
paghi la loro pietà ed il riconoscente affetto. INSTITUTIONES PHILOSOPHICAE AUCTORE IN USUM
SUORUM AUDITORUM I CONCINNATÆ INSTITUTIONES METPAHYSICES. Napoli Micliaccio.
Superiorum permijfu y i PRÆCLARISSIMO VIRO CORRADINO marchiOni spectatissimo S. D. t
T l itterario operi, PrjBclarifllme Vir
jam jam (in publicam lucem prodeunti,
nihil majus, nihil honorificentius ab Au« ^ore fuo exoptari poteft, et fehcius accidere,
quam ut infigni aliquo nomina decoratum
emittatur. Jam vero nullum illufirius,
ac vere inclytum nomen, niii ^ quod Mentis prsfiantia, ingeniique 2 felicitate 'fit comparatum t quod dein integritate fumma, maxima lUe fapieQtia in graviflimis expediendis muneribus fit et >'perfe6lum, atque firmatum.* quod
tandem egregio animi candore, atque incorrupta religione fit numeris omnibus
abfolutum. Qui funt hujurce generis Viri,
(funt enitn vero admodum pauci) fummi. profefto funt, &, vere
magni.* hi cum ceteris emmeant, fintque
de Societate be-. nemerentiffimi, jure ab omnibus fincere colendi.* et cum xqui fint, atque idonei rerum zftimatores, in 'eorum fententiam libentiflime reliqui defcendunt, ut nec au-.
dax obtre£latorum manus alfurgere 'contendat. Solent et alia publicæ
exiftimationis capita percenferi :at cu 2 a proprio cujufque merito non repetuntur, et fortunam,
non jam virtutem comitem habent, natura fua et funt nimis fiuxa, et eb omnibus, qoeis cor fapit, parvi penduntur.
Certe, qui ftulte hifce gloriantiir,
haud recogitant Horatianum illud
Ne cum forte fuas repetitum •venerit
olim '' Crex avium plumas,
moveat cornicula rtjum Furtivis nudata coloribus. Bene homines
intelligunt, quid inter adfcitum, et proprium decus interfit; et ut huic juftam, meritamque habent venerationem,
ita illud defpiciunt, et averfantur. Hinc fi qui fplendidis decepti_ nominibus
aliquem hujufmqdi Vmum honefti laboris fui patronum inconfulte deleeerint,
tantum abeft, ut bene rei fua!
profpexerint, ut potius in fe publicam
hominum tontemptionem ftultiffime concitent. Hsc quum ita fint, nemo
proteao non probabit, cur tantopere exoptaverim, ut meus ifte labor
qualiscunque Tibi, Przclariifime Vir
nuncuparetur | tantoque conceffo honore
fummopere mi caudeam', atque triumphem.
Nomen enira tuum tot tantifque de caufis
illuftre, at^ que cohfpicuum, eo profero
illujtriuf jure, meritoque celebratur,
quod mp*"* reliquorum hominum
fortem, non nmofis imaginibus referta atria, non. gia majorum facinora, fed tu*. Te virtutes
unice extulerunt. Tu apriraauiqu ætate
fori curriculum ingrelfus, tantum
ingenii acumine, legum fcientia, gravitate, pfobifque moribus ceteris
prsluxifti, ut inde aufpicium faaum fit, Te ad
‘grandia natum, quod dein-mox comprobavit eventus. Re quidem vera,
quum tot, tantarumque virtutum tuarum
fama diutius fori ambitu contineri non
potuerit, faftum eft, ut Ferdinanjjus providentiflimus ReXj nofter regiorum
Hetruriæ prasfidiorum AflTeflorem, et mox
etiam Auditorem in Teates, et Aquilæ
Tribunalibus deftinaverit. Qua vero in hiice muneribus (apientia,
integritatis, ac folida probitatis
argumenta praftiteris, ex eo plane
intelligi poteft, quod non multo poft
Neapolim fis revocatus,, et in fupremo
totius Regni Tribunali a fapientilTimo Principe Criminum Judex conftitutus.^Per
holce veluti gradus fellinatis honoribus
Te a fecretis Regni, Te Realis Camera
Sanfla Clara Confiliarium, Te ternum
Confiliarium, et fupremum Sa* erarum
Rationum Curatorem vidimus. Tn vero
omnibus hifce muneribus major, re
olfendilli, Urenuam in laborando alTiduitatem tuam nec fene6lute remitti,
nec negotiis opprimi pofle. Hinc illa eadem
Regis Sapientia, qua Tibi probe cognito tanta demandaverat, ad majora
protinus_ extulit. Te fibi a fecretis in Ecclefiafticis, et Sacri Patrimonii
rebus afllimiit,ut in ampliori theatro collocatus clarius enitefceres. Qua duo
graviffima omnium onera ira per Te adminiftras, ut et Principi probanffima procuratio tua femper
extiterit, et reliquis omnibus admiratione digniffima. Tot, tantaqua dignitates
cura honorum continuatione habita, eo
Tibi majori funt Ihudi, quod certum eft,
non gloria Majorum, non aliena ope, non
caco /orruna 'impetu, non externis fubfidiis, fed tuis virtutibus, et fapientiflimo 'Regis Cbnfilio efle •
confequutmn.vin hac tua tam multiplici, tara
iolida honorum, 8c gloria fegete nihil
fane erat, quod operi meo melius potuiffem optare, nifi ut tuo nomine
fuperbum, tua claritate decoratum, patrocinio
tuo tutum in manus hominum prodiret.
Voti compos effe6lus, reliquum nunc eft^
ut Te facilitatis in me tua non poenitear, potiffimum cum Adolefcentium
edu~ationr, cui tantopere, 8c fine intermif[ione ftudes, fit illud infcriptum';
et ego 3e tanta in me indulgentia
gratias. agam immortales. Sis latus, et Te
Deus virutum omnium exemplar fofpitet femper,
ic pro publico hujus Regni bono in avum
'ervet incolumem. I I IN UNIVERSAM METAPHYSICAM PRAEFATIO. I. Icet MET^mSICES nomen forte olim fuifle
cufum videa*|h e W tur; tamen facultati, quam elucidandam fufcipimus,
apprime 51 ^ confonum cflfc, nemo
profecto ambiget. Si enimPhyfices
nomine a Græco vocabulo Sutrii tPhyJis, quod naturam fignificat, rerum
fenlibilium pertractatio infignita fuit ; jure
Metaphyfica dicenda erat, (itrei Titr puur ^ (cientia nimirum fupra
Naturam, facultas illa, quæ res a
materia (ecretas, neque fenfibiles rimatur, abftractionis et ratiocinii ope. II. Equidem, cum noftræ naturæ
conditione fiat, ut prima; rerum omnium
notiones e lenfibilibus, et materia concretis exordiantur, tum gradatim progrediendo ad infenfibilia
afeendamus, et fecreta a materia;
ordinis ratio poftularc videtur, ut nullus Metaphyftces T^erxXva\\2i
adeat, nifi Phyficis cognitionibus antea
inftructus. Atqui Majores noftri contrarium tenuere iter ; qui mos, poftquam ad nos ulqiie devenit, veluti
lacer fuit, et religiofe fcrvatus ; quantum enim icio, nemo hactenus illum adgredi «ft aufus, five id nimia antiquitatis veneratione faftum
llr, five ex animi imbecillitate, five
alia quacumque ex caulfa. Nolim rectas licet sententias no-» •vitate in alicujus cadere offenfionem ;
quilibet jure A uta a Jn Unlverf. Metapb. utatur fuo, &,
quam libuerit, fequatur fcmitam. At
illud faltem indigitare ex munere meo duxi,
ut difcant Tyrones planum, et magis profuturum emetiri, quem alias
lalebrolum experiri folent, ftudiorum
curriculum. Quæ fupra fenfibilia adfcendunt, et a materiali compage funt
fecreta, diverfa (refpicere poffunt,
atque ideo non immerito hinc Metafhyfices partitionem defumemus. Nempe,
quas fola mentis abftractionc
affequuntur, fi quidem generales rerum omnium proprietates
fpectant, Ontosophia, prima fcilicet
Metaphysices parte, continentur, Quæ
vero fpectant Mundum in genere, atque ideo extra fenfuum aciem conftituta
folius ratiocinii vi agnofei poflunt, alteram
ejufdem partem conftituunt, quam Cofmolagiam dicimus. Sunt vero quæ fuapte natura ab
omni materijB concretione funt fejuncta,
Mens fcilicet humana, et Deus, duafque
alias fiftunt ejufdem facultatis partes,
Pfycologiam fcilicet, et Theologiam Naturalem. Poftrema tandem pars
hominis relationes erga Deum, feipfum,
fuique fimiles expendens, quæ inde
fequantur officia monet, morumque præcepta
decernit tum artem edocet re6fe vitam inftituendi-, ut felicitatem confequamur
j* eaque Jus natura y ifthæc Ethica nuncupari confuevit. Quinque itaque
partibus Metapbyftca continetur, quarum priores quattior modo vobis exhibeo, Adolefcentes optimi,
no» exuccas, nec vanis, garrulifque
fubtilitatibus fcatentes, Icd doctrinis, quæ veram redolent fapientiam,
refertas. Has partim quidem collectas, partim mihi in meis meditationibus
fponte veluti fua Pnefatle 3 fua
occurrchtcs, elucubrare, et ingenio veftro,
quantum cognovi adcomodare fategi. Poftremain vero partem, favente Deo, mox ut otium ^
8c vires fuppetent, adjiciam. IV. Ex ipfa objecti explanatione, quam
modo breviter profcquuti fumus, abunde
quifque intelligit, quanta fit hujufce facultatis, quam per, quam pro^ ba, ac JubaHa mediocris ingenii cultura
trihua's, quam afiiduis, atque
providentiffimis curis Praclarijftmi, ac beneficentifftmi Nolani olim
%4nti~ flitis, mox vero,
benemereniifftmi Panormitani */irA chiepijccpi, ac Sicilia Prafidis
probatiffimi PHl~ LIPPI LOPEZ^Y ROYO in
eodem Nolano Se• minario ‘ alumnus excepi. Equidem fi quid in litteris y In morum difciptma profeci y'
libenti ac grato y/fnimd, ncc non
ingenuo pudore fateor^ me Ei acceptum
referre. Vale. \ jit ea pofita ponatur
etiam id, cujus ed ratio sufficiens,
fecus rurfum infufiiciens foret : quippe
præter illam rationem aliud quidpiam
modo requireretur ad ponendum illud, quod noa dum ed politum. NIHIL ejl fine fufficlenti
ratione. Hnjufcc principii indubia
veritas cuilibet fponte fua occurrere autumamus. Si quis vero demondrationem
requirat ex principio contradictionis facile
eruemus. Sane infit enti A quasvis affectio N præter effentiam, ita nempe ut
Contradictoria affectio — N, vcl alia
quavis diverfa M eidem ineffe poffit. Ex
duabus contradictoriis affe6lionibus N, et N, quas feorfim in eodem Ente ineffe poffunt, nec non 'ex diverfis N, et M
in eodem Ente asque poffibilibus, vel
aded fufficiens ratio cur altera infit,
vel non. Si primum, addruitur propofiti principii veritas.Si fecundum, A 4 quia ONtOSOPHIA. quia contradictoriæ affectiones N, et N,
nec non diverfx N, &T'M lint in Ente
A cx hypothefi seque pofTibiJes, vel utraque, vel neutra infidere deberet: par enim eft pro utraque
ratio Sed utrumque eft contra hypotefim. Quare fi enti A infidet affectio N, cum, ejus
infpecta natura, ex sequo infidere
poiTet vel contradi£ioria affectio — N, vel alia qusevis M, id aliqua ratione, et quidem fufficienti, fieri oportet.
Nihil ergo eft abfque fufficienti ratione.
Hujufce principii veritatem quam maxime commendat illa in omnium animis
ingenita prurigo quærendi femper cw hoc} cur illud} a qua numquam conquiefeimus, nifi
fufficiens hujus, et illius ratio non
occurrat. Eft hxc fine dubio tacita
qusedam naturx vox, nihil effe fine
fufficienti ratione. . §. lo.Ex diftis liquet, nullum dari, nec dari poffe furum Cafum. Puri cafus nomine
intel-ligitur eventus, cujus nulla fit fufficiens ratio. Equidem hujufmodi notio nullo prorfus
pa£fo concipi poteft, et ex iliis eft,
quæ omni humanæ rationi pugnant. Quod fi quandoque plura cafu, et fortuna fieri
dicuntur, id ex eo eft, quod cauffas p
rationefque, e quibus illa continuo, et certo
nexu pendent, minime pervidemus. Prop/er
ohfcuritatem y fapienter Tullius ^q. *Acad. l. 2. ignorationemque cauffn^ tum fortuna efficit multa improvifa, nec
opinata^ et Juvenalis Sat. lo. fed te
Nos facimus Fortuna Deam,
Coeloque locamus. Nempe, ne noftram
ignorantiam fateamur, malumus fortuna
inania verba proferre, et ita nosmet-. p
ipfos deludenfcs, ignorantiæ noflr* acquiefcere. Inveftigatio fane cauflarum, et rationum mentis aciem exigit, et improbum laborem.
Hinccft, ut qui minus ingenio valent,
vel funt laboris magis impatientes,
plurima cafui, et fortunæ tribuant, quæ
acutiores, et laborioft per fuas
rationes, et caulTas facile expediunt.
II. SufRcientes rerum rationes invefligare proprium eft Philofophi. Nam ut inquit
Genuen» iis „ populus renun phænomenis
efl contentus/ „ philofophus in rerum
cauflas, et principia in„ quire debet, quod egregie vocant Platonici „ mundum intelligibilem, et populo
ignotum „ vedigare. Qua Philofopbia
nihil validius eil, „ atque^ efficacius
cum ad vitam pacate ducen-,, dam t um quoque ad reipublicx tranquillU „ tatem. /frop. Xy II. El. Met. par.
prior, II. Caveant vero Tyrones I. ne
aniles reputent fabulas omnia, quorum incomperta ed,vel impervia fufficiens ratio. Meminerimus
imbecillitatis nodra;, et ingenue fateamur, innumera ciTe, quorum rationes neque perfpeximus
ha6lenus, neque in sevum comperiemus. Ecquis
hactenus novit cur Magnes ferrum trahit ? cur Gymnotus, non eseteri pifees, clectricitate
polleat? cur Jovi quatuor fatellites, non plures, neque pauciores fint conceffi, tum feptem
Saturno, nullus Marti, unus Telluri ? &c. Recogitemus vetus illud ac
lapiens Epicharmi decretum „ Nervos ede fapientia:, nihil temere cre„ dere „
fed neque oblivifcamur nimis temerarium, immo dultum ede, rerum veritates
ex xnodulo. nodro metiri. Itaque nihil
gratis aderendum, aut gratis affirmanti concedendum * at ubi prxfto fint exteriora momenta, quibus
aliquid fuperftruitur, hajc prius difeutienda funt, ne illud pertinaciter negantes temeritatis
notam merito incurramus, et veritati
fponte contradicere velle videamur. II-
Haud putent Tyrones fufficientes rationes,
quibus Cauflfæ ad agendum determinantur femper ipfis cauffis extrinfecus
quærendas effie, quum pluries queant
effe internæ. id quod præfertim de
agentibus libero arbitrio pr*ditis di£lum velim. Qua de re animadvertant, quod
licet ultro fatendum fit, fapientis elTe nihil agere, nihil deliberare, nifi ex
omnium, quæ occurrere poffiunt, rationum
calCulo : haud tamen putandum eft, has. rationes veram, et internam
fufheientiam continere, qua liberarum cauflarum
indeclinabilem live flagitent, flve extorqueant aflenfum. Equidem fl ita res fe haberet (
id quod vifum efl Leibnitianis ), cauflæ
illæ nequaquam liberæ dici poflent. In ipfa natura cauffarum liberarum, five in
ipfo earum libero arbitrio ratio fufficiens continetur, cur fe cieant, determinentque, quin ulla requiratur alia
ratio. Externæ rationes, fi qux adfunt,
fuam sufficientiam ex ipfo libero arbitrio confequuntur, fi quidem confequuntur. Sapienter Cicero
de Fato c. I. Motus enim vohntarius tam
naturam in feipfo continet, ut fit in
nofira potefiatty nokifque pareat / nec id fine caujfa, ejus enim rei caujfa ipfa natura eji.De Ejfenfia ^ et Attrthuus,
.Xj.y^Uamlibet nobis notam rem acutius per»
'V^/ luftrare velimus, notio Menti obveriabitur plurcs conceptus
complectens/ cumque nihil fit abfque
fufficienti ratione, mo« nemur hinc
totidem veluti realitatibus rem ipfam conflare, feu totidem didinctis notis.
Has duplicis ede generis, nofcimus ; aliæ
Tiquidem perpetuo res fuas comitantur,
aliæ non item : abeunt enim, pereuntque
ipfa tamen re perma» nente, queis aliæ
fuccedunt, atque aliæ, vel primæ iterum
redeunt. Deinde notarum, quæ res
perpetuo comitantur, quædam videntur veluti primæ, quarum nempe fufficiens
ratio nequit ab aliis derivari ; et hæ appellantur profrie.tates rei
ejfentiales. Aliæ, quæ ci primis fluere
videntur, et in ipfis habere lufficientem.
rationem, attributa dicuntur. Notæ vero rem non comitantes perpetuo, fed quæ continuo
abeunt, et queis aliæ fuccedunt, mox vel numquam rediturz, modificationes,
affeQiones., qua. litates, vel tandem
accidentia folent nuncupari. Indivifibilis complexus omnium proprietatum
edfentialium, quæ rei cuique infunt, dicitur ejufdem rei E(fentia ^dc quandoque
etiam Uatura, licet minus proprie.
Effentia igitur inliar unius coniideraiu^ venit, cui fcilicet nihil addi poted,
nihil demi, quin ipfa res pereat j et alia
atque alia continuo fiat: atque adeo notio eflentix pendet ab adsquata
cognitione omeciei, et generis notione minime ingrediuntur ^ inter ie diferiminentur, facile intelligitur,
efsentias ctmeretas magis compoliras
efse, abftra^las autem fimpHciofres; feu,
quod idem eft, primas plurium proprietatum else 'complexiones, fecundas
autenx pauciorum.. qualis a nobis concipitur, conftituit- Hæc me.
i rito fecernenda eft ab eflentia reali
• quippe ip. Reales rerum dTentias omnes
ad unam nos latere, aut faltem certo non
conftare, ultro ' fateri debemus. Ecquis
enim completam ullius rei notionem fibi
comparaffe contendet ? Qui reddi
poffumus tuti vel in ipfis magis obviis rebus nullam ruperefle adhuc latentem
proprieta* tem ? Confer, quæ in Logica
diximus. Deinde ea ipfa, quæ nolfe
putamus, non funt nifi mentis noflræ phænomena,
pendentia quidem ab objectis externis utpote renfuum fibras irritantibus ; fed quæ nulla prorfus ratione patefaciunt,
quid intrinfecus ipfa fint objecta
externa * qua de re alibi opportunius.
Hinc quæ in Scholis definiri folent Effentiæ, notiones rerum fpeflant, non res ipfas. Cum ergo noflræ notiones,
pr*fertira fubfiantiarum, numquam fint
adæquatæ, tum varient quamplurimum pene pro numero mentium; facile intelligitur, quantopere in hominibus
effentiæ rerum notionales fint tum inter fe diverfæ, quum a realibus diferepent.
7 iai»» GAP. II. De variis Entium generibus, ^.lO.^^Um Entis notio tum rebus, quæ
actu exiftunt,;tum quæ non exiftunt
quidem, at exiftere pofsunt,ex sequo
conveniat; hinc P“ Entis vocabulum
emphatice a Platonicis ufurpar tum w.^rOSOPHIA. IS prima, 5 c gcneraliffima Entis divifio cfl:
in Ens Icu exiflens ^ et potentiale ^
leu pojjihite» zi. Ens actuale vel ita
exiftit, ut tota fuat exiftentiæ ratio
fufficiens in fua efsentia contineatur, feu ut ejus exiftentia in Iu* cfscntiæ conceptu includatur, et Ens a fe, feu Ens
neceffarium appellatur. Hujuimodi eft foius Deus. Vel exiftendi fufficiens ratio in altero Ente
continetur, et Ens alio dicitur, leu Ens cow-.'Hujufmodi funt przter Deum cætera quavis Entia - Utriusque entis caracteres
alibi opportunius expendendos rejicio, ^.22. Quiecumque hujus Mundi Entia
contemplari velimus, innumeris ea mutationum viciffltudinibus perpetuo obnoxia
efse deprehendimus : interim in tanta
pereuntium, ac fe invicem fuccedentium mutationum ferie, Entia illa adhuc perdurare intelliguntur. Merito hinc
conficimus, tot tantifuue mutationibus
aliquid perdurabile fubftare, cujus
diverfæ fmt modificationes quotquot excipit mutationes. Porro primum illud fubjectum perdurabile, ac modificabile
Subjlantia dicitur. Quod vero hujufce fubjecti modificatio efi, et concipitur,
Modus appellatur. astum legimus, pro eo
fcHIcet, quod ærernum eft, et perfeflilTimum ; hinc res facias non entia ^ fed
entium umiras iidein appellarunt. Hajc equidem loquendi ratio fublimior elt, et
vere philofophica ; Deus enim eft Ens
abfolutiflimum omnes entitatis rationes in fe uno coniple« 5 lens. Quis ex factis Scripturis
illam hauftam no» dixerit ! fane Exod.
III. v. 14. Ipfe Deus, quis efset,
fcifcitanti Moyfi refpondens, dis it: Ego Jam, qui fum. Primam fubftantiæ
notionem ex entium contigentium
contemplatione mentibus noftris
informamus : hinc eft, quod fubftantiam concipiamus tamquam fubjectum
aliquod primum perdurabile ac modificabile. Cæterum nequit hxc fubdantiaz notio ex azquo aptari Enti
necefsario, nempe Deo, cui nullas inelsc
pofsunt modificationes. Deinde animadvertendum notionem fub* ftantias mox traditam penitus abftractam
efse: nullibi fiquidem reperire eft
ejufmodi fubjectum, quod nullas actu
modificationes habeat. Quot quot
exiftunt, funt undique determinata, et fin»
gularia ; univerfalia, qucd fxpe dictum eft, non 1 'unt nili Mentis noftræ abftractioncs. Cum
fubftantia primum fit fubjectum &c.
^.2a.quodvis aliud fubjectum, cui infit,& inhxreat, excludit,-( ipfa enim fibifubftat, et fubjc6tum eft quarumvis modificationum, quas ei
obtingere pofsunt) non vero excludit quodvis aliud fibi externum fubjectum, in quo fola infit
fufficicns ratio fuas exiftentias. Quid enim implicat fubftantiam principium
fuas cxiftentijc extrinfecus habere, interim vero ipfam fibi 1'ubftare„quin
indigeat eidem principio inhzrerc ad
inftar modificationum ? Ex, gr. decora Palladis
forma, quam faxo infCliTp|am miramur, lui principium feu fufticientem
exiftentias rationem ab artifice petit ;
at interim faxo, non artifici inhsrret. Qui ergo fubllantia ab externo
principio fufticientem fuas exiftentias
rationem petens eidem principio inhasrere debet? porro ad differentiam
modificationum ipfa fibi fubftare nihil
vetat - f S' Dio»: V t/
E contrario MqM nequeunt Jpfi fibi;
fubdare, feci neceflTario natura fua alicui Subjc£lo inhærere debent. Operæ pretium eft
heic expendere impiam non minus, ac abfurdam Subftantiæ deii* Ditionem, quam Benedictis Spinoza ex fuo
je« cinore c^mpo^’uit. Verfutus Homo
pantheifti* eam molem flfuere contendens,
definitionum, theorematum, ac
corollariorum exteriori appa« ratu
Geometrarum morem mentitus eB,utLe«, Cot
ibus facile poffet illudere. Quare hanc præfniiit Subflantiæ definitionem : per
Subjiantiar» ^intdligo id j quod in fe
eji ^ et per fe- concipi’* tur ; tum
explicationem fubdit. hoc efl, id, cujus
conceptus non indiget conceptu alterius rei f
s quo formari debeat. Verbis illis quod in fe efl duplex fubjicl poteft fenfus : i. quod in Je efl, nempe a
fe% quamlibet excludens externam caufam,
a qua producatur; a. in fe efl ^ nempe
flbi ipfum Jubflaty quodvis intriniecum
SubjeCum, cui in« hæreat, excludens,
contra id quod proprie Modorum efi. Hic fecundus Subfiantiæ conceptus» verus efl, fed nihil Pantheifmo, cui
fludet B Spi (a) Nemo mihi calumniam inferat eo, quod in
au» guflilKnio Eucarifti* Sacramento,
permanentibus panis et vini
accidentibus, fide Divina tenendum fit, nullum re. manere panis, et vini fubjeflum. Nam, quos
vulpo mo» dos, et accidentia in hoc Ven.
Sacramento appellamus, >ro meris
habeo adparentiis, et phsnomenis. Nen^,
leficiente fubftantia panis', et vini, Divina virrute fup.,Ienrur in
fenfibus noAris illz ezdem impreffiones, ou^
ierent a reali panis, et vini TubHantia. Hinc profe^Q (l, ut ilU fe^biles reprxfentationes oobis
occiuraot. Spinoza, favet. Primus, cui foli pantheifticam molem inzdificare fatagit, falfus e(l, qui
neque ab ipfo Spinoza, neque a quovis ejus Af*
Iccla ha£lenus e(l demonfiratus.
ir.
Neque minus fallax e(l explicatio definitionis ab eodem allata. ( inquit )
concep» tus non indiget conceptu
alterius rei, a 'quo foy mari queat, Si,
conceptum Subfiantt^e prafcindi poffe a
quovis alio conceptu, ultro coBtedimus \
fi vero intelligat, Sub/iant'ee cotf
eeptum neceffario a-fs excludere conceptum alterius rei, a qua ipfa
Subflantiq producatur, feu in qua in/it
fu-fficiens ratio, princprum fue
exijientia, et id gratis afferenti in zvutti
negabimus. Tnterim ex allata poenitenda definitione illa fua oracula
depromit catus Homo. Unicam in Mundo Subflantiam extare. Hanc unicam Subjlt.rt
'am ejfe Deum.’ Hujus deinde modificationes ejfe quotquot in Univerfo
cernimus f^c. Sed hac de re fuo
loco. 27. Ut poflibilis notio fiatuatur,
quot non repugnare dicuntur prznotanda
funt. Ea non mepugnare dicimus, quz
fimul effe polfunt. Ex. gr. Triangulum
zquifaterum, Subfiantia cogitans &c.
non repugnare dicuntur, quippe triangulum
*^cinn zqualitate laterum confiftere potefi : SubfWntia cum cogitatione,
tanquam ejus pro« p^ietate. ' 28. E contrario, quæ fimuI effe
nequeunt, ep quod unum eorum alterum
excludat, et atnbo fimul fe mutuo
deleant, e4 repugnare dicuntur: ex. gr. Circulus quadratus. nam notio circuli
notioneni quadrati excludit, et ambas
limuU. simul-fc mutuo delent. zp. Pojfibile dicitur quidquid in fui essentia nullam includit repugnantiam, quodque
ade& concipi potcft. £x.gr.Mons
aureus; triangulum -æquilaterum. E
contrario ImpojjibUe dicitur quidquid in
fui edentia repugnantiam involvit,
quodque adeo concipi nequit ^ cujusmodi ed circulus quadratus, qo- Pojftbilis notio diligenter
difcriminanda cfl a notione probabilis.
Poffibilitas enim fpe£lat ipfam entis naturam/ Pxobabi^itas vero refpicit
rationum momenta,jqjuibus,;|Mens ad affirmandum aliquid, vel negandum^
^movetur; feu indicat datum Mentis
judicaatis.de exidentia, natura,
proprietatibus &c. Entis. Hinc Probabilitas locum.habet in exidentibus,
poflibilibus, • infipoffibilibus
&c. 31. Notio pdJifibills, pofitiva
ed ; sidit enim aliquid Menti
contempianti.-£ contrario notio
Impojfibilis ed negativa, non enim fidit Menti aliquod ens, fed duo exhibet entia, quz fe
mutuo delent, adeoque aon ens, feu nibil.
32. Poffibilium numerus faltem duplus ed
numero impoflibilium. ImpofUbile enim coalefcit ex duobus, vel pluribus
inter fe pugnan. tibus: d hæc fingula
fecernamus, feorfim non -pugnabunt,
adeoque erunt Ungula feorfim poflibilia. Numerus igitur poffibilium, ad
minus im poffibilium humero duplus ed^ .
fmpoffibilinm duo datui folent genera
Alia enim funt intrinfecus, et abfolute talia ^ alia vero nonnifi
extrinfecus^ et hypothetice. Primi generis funt quotquot contradi£Uonem in B 4
/ voi- Yolvunt, de quibus ^.zp.ySc hxc metaphyjice int« ^olTibilia quandoque etiam dicuntur.
Secundi generis funt, quæ nullam quidem
in i'ui elTen> tia repugnantiam
continent, pugnant vero ex> trinfecis
quibusdam hypothesibus / ex.gr. prop*
ter imbecillitatem cauflæ producentis, propter conditiones loci, temporis, &c. aliafque
adpofi* tas circumftantias, Huc fpectant,
quæ phy fiet impoffibilia appellantur,
quippe quæ phyficis Mundi legibus*
pugnant. Ex.gr. Lunam eccliplim pati
extra oppofitionem cum Sole, hipotetibice
eft impolsibrie^in! hypothefi nempe, quod Mundi curllis jfrxfi'
confuetas leges cosmologicas pergat : flammam.in ære libero deorium
dirigi: Virum obliteratum, et rudem
acute, &. erudite de rebus
di^cilibus difputare &c., 34. Ad Jiypotheticam impoffibilitatem ad cedit,
quæ moralis nuncupatur. Illa nimirum
moraiiter impoffibilia' vocare confuevimus, quæ intrinfecus infpefta. funt quidem poflibilia,
non'nifi tambn raro, admodum difficulter effici
queunt. Ex. gr. diuturna culpæ declinatio ia
xnediis, et maximis periculis. Diligenter advertant Tyrones, quandoque
in communi fermone fimpliciter impoffibilia appellari*, quæ folum moraiiter ' funt impoffibilia / idque
potiilimum recolant in facrorum Librorum k£lione, ne in abfurdas incidant
Sententias. 35. Sunt qui aliud
impoffibilium moralium genus agnofeunt, idque Dei refpectu * definiunt nempe Ea efle, qux in fui natura.
infpc£la, funt quidem poffibilia,at fieri pugnant 'Divinæ perfecti 0 imæ Naturas. £x* gr.
mentiri in-. af inquiunt, cfl: quidem intrinfecus poflibile,
at Deo impoflibile moraliter, quia fummæ
ejus Veracitati pugnat ; fimiliter fe
habet innoxium aternis addicere flammis,
quod ejus Juflitiais op« ponatur. Sed hi
parum penficulate hoc impoffibilium genus introducunt, cum revera ad im« pohfibilia abfoluta fpectent. Sane quid
magis contradictorium, quam
ju(litia,& iniuftitia, veritas et mendacium &c. ? porro in nifee, quæ vocantur moraliter impollibilia, collifio
continetur inter juilitiam, veritatem, fanctitatem &c., qux in quavis Divina actione abfolute,
et cITentialiter elucere debent, et inter
injuditiam, iniquitatem, mendacium
&c., quz eidem confociari ponuntur. Quæ ergo moraliter impoffibitia dicuntur, funt reapfc impolEbi lia
mtr/w/ecMj, et fibfolute. Merito Divus
Anfelmus.* quodvis minimum inconveniens
efl Deo impojjibile, Sed juvat hic expendere quorumdam fententiam, qui poffibiie definiunt, omne
id quod a Deo effici potefl. Iftorum
fententia, nulla ed quærenda intrinfeca
pofdbilitas in Ente, Ibla extrinfeca
poffibilitas ex Divinæ Potentias menfura
ed attendenda. Verum qui ita philofophantur, (i
recte de Deo fapiuot, nulla dari impoffibilia Divinse Potentiæ refpectu datuant oportet'
fecus enim, fi aliquid per ipfura Deum
impoiTibile agnofeunt, totam fimul
evertunt Divinam Omnipotentiam. Sane,
fi podibile idcirco ed pofilbile, quia a Deo edici poted, erit a pari impoffibile, idcirco impodibile, quia a
Deo eddei nequit. Quare, fi Deus
omnipotens habetur, nihil pro impoflibili ftatui poteft. Quod fi c(l aliquid impoffibile, id nonnifi Divinæ
Potentiæ defectu impoffibile eft, atque adeo
Dei Potentia non infinita. Hæc perfpecte vidit Cartefius, qui propterea nihil Divinæ Potentiæ refpectu impoffibile effe affirmavit 38. At nihil efle in fe, 8f fui natura impoffibile, omnem evertit humanam rationem,
et ad Pyrronifmum deflectit Ex. gr. Triangulum
rotundum, Circulus quadratus &c.
quippe tam clare perfpicimus naturam, notio, nemque trianguli corrumpere, 8 c excludere
naturam, et notionem rotunditatis, et viciffim,
ut de hoc vel minimum dubitare, idem fit
ac humanæ rationi valedicere, et in Pyrronicorum caftra coin migrare.
Dantur ergo intrinfecus impoffibilia, fui nempe infpecta natura. Quare, quæ
funt poffibilia, hujufmodi funt pariter
intrinfecus, et fui natura. Sed inquies
; Si funt aliqua intrinfecus, 8 c natura fua impoffibilia, hæc neque per Divinam” Virtutem effici pofTunt -quf ergo
erit Deus omnipotens? Sed facilis
eftrefponfio: Quod nequeat Deus efficere
quæ funt intrinfecus impofi i fibilia,
id non ex imbecillitate, et virtutis defectu, fed ex ipfius efi impoffibilis
incapacitate, eo quod ejus componentia per fui naturam fe mutuo excludant. Horum componentium
repugnantia cohibenda foret, atque delenda, ut pofTet, quod eft impoffibile, fieri; nempe delenda,
vel mutanda ipfa ejus componentia. Sed
modo, quod inde coalefceret, fieret
intrinfecus poffibile, Sc omnino aliud ab eo,. quod impoffibile ponebatur. Sane
51. adverti muf Impofftbtle nfeo efle
Ens, fcd Nihil, et negatio cujuslibet
Entitatis. Qui ccgo Divini Potentiæ impoffibiiia fubtrahit, nihil
fubtrahit ; cdque Divina Potentia femper
infinita, quia omnia et Ungula» quæ iunt
Entia, attingit. De Relationibus Entium. Singula Entia ne dutn abfolute^Sc
ir$, trinfecusy qualia nempe funt in
feiplis, confiderari queunt ; fed et etigm.relative, 6 c extrittfecus, qualia nempi^^ aliorum
refpeftu ' concipiuntur. Quid abfolute,
et intrinfecus fint quævis Entia »
negatum mortalibus noffe; quippe intimas eorum effentias penitus latere totius
Philofophiæ decurfus edocebit. Confer quæ
diximus -ip. Reflat igitur jllas Entium' proprietates elucubremus quæ ex
eorum ad invicem’ collatione elucefcunt. Has nomine re, lationum continentur. Quæ hujus funt loci
ad tres clafles referri pofle videntur •
ad relationes nimirum I. fimilitudinis :
II. coexijlentia : III. dependentia. De
Relattonibus Simii ItuiUnis, ^ fw/ 7 w appellantur Entia, quibus una, aut Mplures proprietates, qualitatesve ex
communi iniidere concipiuntur. Eft ergo Similitudo proprietatum in abflracto confideratarum
complexus, per quas Entia dicuntur fimilia. E contrario diJJimUia dicuntur
Entia, quibus una, vel plures
proprietates, qualitatesve ex communi non irteffe concipiuntuV. Ex quo facile intelligitur, quid
dijfimilitudinis nomine veniat^ 0.“° plures funt proprietates, quibus Entia convenire deprehenduntur, eo major
in eis elucet /imilitudo : minor, quo
funt pauciores. Ex. gr. fi plures conferam figuras, quæ
triangula appellantur, fimiies ftatim appellabo: de communi enim habent, ut tribus
lateribus claudantur, tribusque angulis
gaudeant. Si vero animadvertam ejufmodi
effe illa triangula, ut communem quoque
habeant laterum rationem, proprius
fimilia vocabo. Ex Entium fimilitudine rationem de« fumimus, qua in determinatas clades illa
re digamus. Cum enim hujus Mundi Entium
tanta lit multitudo, ut nequeant fingula Mente di, iUncte complecti, ea ad certas clades
redigere confuevimus : ita nimirum, ut
quæ determinatani inter fe fimilitudinem habere concipimus, ad unicam revocemus
cladem, et ad alteram clafiem rejiciamus,, quas aliam determinatam
fimilitudinem exhibent. Deinde, cum Entium
ad eamdem claflem rejectorum alia, atque alia intenfiorem, fen peculiarem inter fe
fimilitudinem habere deprehendimus j
numerofiorem illam claffem in alias minores redigimus. tum primam Genus, has fpecies appellamus. Ex.^r.
Infinitas figuras tribus conclufas
lateribus ad unam Claffem revocamus, et triangulorum nomine infignimus : tum
animadvertentes ex hifce figuris quafdam majorem inter fe fimilitudinem habere, puta quod alia fingula latera inter
fe æqualia habeant, alia duo tantum,
alia finguJa latera inæqualia/ ampliflimam triangulorum classem in tres alias
minores tribuimus, quarum altera triangula scquilatera, altera ifofcclia,
altera tandem fcalena complectatur. Nihil vetat Entia, quæ fub aliquo rcfpectu fimilia funt, et vocantur, fub
alio diflimilia efle, et appellari. Sic
triangula, quæ modo pro figuris
fimilibus habui ob communem proprietatem trium laterum, et angulorum,
diffimiles mox appellabo, fi animadvertam non æquales angulos habere, neque
eam. dem laterum rationem Quare
intelligitur, ^ntium Genera, et Species,
ex cujufque Mente conflitui pofle, ut ita Entium Claflis,quas Uni Species eft, Alteri fit Genus plures
minores clafles, feu fpecies complectens.
4ec effe fuura, in aliis atque aliis temporum, -Jocorum &c. circumftarrtiis immutatum,
feu non aliud habere, idem appellamus.
Confidit ergo identitas numerica in
Unitate t» boc effe Entis in aliis,
atque aliis temporum, locorum &c.circumftantiis pofiti. Triplex vero ed Identitas numerica, metaphyftca fcilicet, phyjica ^ et moratis.
ldentisas metapby/ica prædicatur de Ente,
in quo nulla, vel ne minima, mutatio accidit. Soli Deo idhæc identitas convenit. Identitas
phyjica tribuitur Enti cujus quidem
qualitates mutationem Subierunt, led
ejus elfentialia attributa immutata permanent. Mentibus, et Materiie idhæc
con^venit iden. *> \ titas,, - -. Identitas tandem moralis confidit in unitate
dnis, cui varia media.diriguntur, tum in
perfeveranti ad idem habitudine.. Sic Lupus gregi druens infidias, tum Vigilum fugiens
mi^ nas, idem moraliter lupus ed / non
emendatus «nim fugit, et ed redire
paratus Vigilibus fomno correptis. 53.
Animadvertendum ed, vocabulum quandoque
minus proprie in communi vitæ confuetudine ufurpari - -l^es enim eadem
perfeverare vulgo cenfetur, licet- ejus locU alia, atque alia incontinenter iuccedat,!! tamen idhxc
fuc cef- ccflio fenfibus noftris non pateat. Ita 'flumen planta, animal eadem hodie dicuntur efle,
qux decem retro annis ; id quod proprie
verum efle nequit.• fiemo noflrum idem
ejl in /eneBute, gui fuit Juvenis.* nemo
efl mane y qui fuit pri^ eiie. Corpora
noftra rapiuntur fluminum more. Sen.
epifl. 58. 54. Triplici expoflte
Identitati . triplex opponitur
diflin6IiOy numerica yjpecificaf 8 c
generica. Primam tribuimus Entibus fu b eadem fpecie complexis/ alteram Entibus
ad di« verfas fpecies fpectantibus, fed
quz 'fub eodem' genere continentur *
tertiam tandem Entibus ad diverfa genera
relatis. Patet, adeo folam. Identitatem
numericam efle cujusvis diflinctionis nefeiam. Identitatem vero fpecificam
cum numerica diflin6Iione Identitatem
genericant cum diflin6Iione fpeciflea optime copulari. Rurfus diflinctio alia
efl realis, aliar formalis. Primim
tribuimus rebus, quæ in feip« fis, et nemine
adhuc cogitante funt diflin£læ. Quod n
harum una alterius flt modus, appellant;
qualis efl diflinctio inter corpus, &.
fuam flguram.Secundam vero prædicamus de re^ bus, quæ in feipHs quidem unum, funt, fed quæ, diverfls mentis conceptibus complectuntur,
ip& rei natura, quæ multiplex efl
fuifleientera ratio* nem fubmihiflrante.
Hujufmddi efl' diflinctio, quam ponimus
intellectum inter, et libertatemr
Mentis, Quod fi diverfi ejufdem rei conceptus nodt ex ejus natura, fed ex libidine intellectus
ab*t definitione, genere 'ticinpc ^ 8c difFcren-’ tia conftaot.'" ’ 1 : 5 p. Triplici cxpofit* compofitioni
triplex opponitur sJmpIicitks.liimirum physice
jfimplex di. citur Ens, quod pluribus realiter
difiin^is. ca* ret; hujusmodi ex- gr.
Mens cft humana. Hanc abfolutam
simplititatem efie, vari nominis nemo
non videt.,Metapbysioe vero simplex.yt
cujus eiTentia haud confiat ‘ pluribus' attributis, formaiiter difiin6Hs.* hanc fimplicitatsm
Deot convenire arbitror ^ quidquid
contra' Scotistx fentiant. Logice tandem
simplex dicitur, cujuS) conceptus non
coidlat genere, et differentia.tr hanc
fimplioitatem de Geo prsedtcari pbfieplu* :
ritni autumant.-* : ,^.^o.Perdiligenter animadvertaritTyrones, phyfice
Compofita non nifi cx plfffice, et abfolute.
fimplicibus elementis
confieri ”,i Sane, cujusvis. Compofiti
elementa vel funt compofita, vellunt abfolute. iimplicia. Sit hoc fecundum,
con* liftit afferti veritas. Si primum,
hujufrnodi) elementa, quia compofita,
aliis elementis con-' A ari debent. De
hifce fecundis elementis iterum qusBTO, funt ne compofita, an vere^ bc,
ab-, folMe fimplicia Pquorfum evadat
dilemma iftud per fe patet ; nempe, vcl
progreffum compofitionum in infinitum comminilci debemus, vel exiftentiarn vere, et abfolute fimplicium
elernentorum confiteri. At progreffus compofitiojnum in infinitum abfque
fimplicibus elementis fecum ipfe pugnat
; in hoc quippe progrdfu' oecturrunt
perpetuo compofi^ fine componentibus Quæ ftint itaque phy/icc Compofita, ex vtre, et absolute fimplicibus elementis
conflari debent. » • !' • I ^.6i. Ex
qiR) facile- deduoi poteft,- quamlibet
fingularetn Subftantiam Sub/eflum^.effe pbyftca fimplex. Nam
' -• > Subflantiarum
qualitates^ etfi e^dnOL liflt generis )
vel fpeciei, aliat tamen aliis prJt*
ilant,* moles tnfiniy ta
reputahitQr. ia.formica. Elephantis.rnoics
magnitudineita' animakuli a P. Francifco de JL.a> nir obfervati, ideo ' ’j i nfinities infinita
rrfpectu prædicti ianimalculi.r.Rurius (phse«
nuy cujus diameter iGt.. intervallum t Saturni, a Sole /.infinita haberi potefi''
refpectU'i|Tclluris atque adeoi
infinities infinita, refpecta.jElephaOr
feu. InfinUttm ftcundi ordinlti dt iofinuies •infinifies infinita reCpectu laudati pdmiitn
ajoi« malculin, tertii W/‘»/x.4'.Hujus^ modi comparationes longius proivehi pofifunt
: ^et itaque : dari pluces, immo
infinitos Infinitorum'.relativorum. ordine» Porro;, in ferie infinitorum Infinitum, -infensioris, onfinis
tfi,in•finite parvum refpectu Infinitr ondinis fuperioris\ quod propterea
appellatur it^nittfimumySc
iafinittfintde. Poffibilis proinde, efi Scabies Infi> natefitBalium.y InfinitoiUoi ex utraque
parte in. infinitum producta,. • ; !: '
»> Quantitates reales.) qux fint.
abfolute 4t)fwitæ' repugnant,;;
Quantitas enim nihil,. eft.«Itud quam plurium.* quæ funt eadem, c6l* lectio «. Sed qujacittnque pofita^hujufmodi
colJectione, fempcr.tui»las adjici poteft; Perrnovara wo tUnitatis adjectionem Bd augumentum. Quantitas
ergo natura fd» talis efl, ut..perpetuo augeri poflit. Sed quod perpetuo
augftri poteft, perpetuo limites habet,
(qjippe quodvis augumentumi fupponit (Imilem defectum antecedentem, adeoque
limitem )/& quod perpetuo limites habet, infinitum efle repugnat. Quantitas
ergo, quas fit actu infinita, repugnat. Ad
rem fapienter Mosbemlus Syjlem. intel.Cud.
feSi.
I. cap. 5. 24. ». a. de numero, qui
fpecies eft quantitatis, fic habet. Sciunt omnes
numerum i» fe nihil effe, fed sd ires,.y.r. >.':r^ i •.infinitusf id quod implicat.Nulla
ergo dari potefi extensio v^e.contanua *
8 c’ quam vulgo concipimus talem, pro
phænomeno haberi debet. Sed de hac re - copiosius io Cosmo-, • > - ' i, • -
*. • logia. Peculiaris, ac detcrrninatus modus, quo res infiar totius confiderata aliis flmul
coexiftentibus coexiftit, dicitur ejus /ocus ; fitus vero appellatur peculiaris, aC determinatus'
modus, 'quo rei partes præcipuæ aliis llmul coe« xiftentibus cnexiflunt. Si de libro A quæram ubi eft ? profefto locum flagito.
Refponfum, quod petitioni pratflabitur,
efit hujufm^i; Liber A eft' in tali bibliothfeci ordine, ferici primus,
fecundus &c.. Si rurfufti interrogem, qud
litu } refpondebitur, reBus\ invcrfus &c. Primum refponlum innuit determinat^um modum\
quo Jiber ’A aliis fimul coexiftentibus
coexilTit.Secundum vero refponfum"'^innuit determinatum modum, quo libri partes J^quæ præcipu'e iii
ipfq notantur, adjacentibus coexiflunt.'Quandoque tamen in communi fcrmonc fitus, æque
accipitur ac locus. i V ' 81. Locus, ut
modo definivimus ^ realh quidem eft,
fed relativus, non ahfolutus.’Philofophi, qui pro fpatio vacuo rerum,
omnium receptaculo communi pugnant, præter
‘ locum relativum, alium abfolutum
agnofeunt. Ex horum nempe fententia lodjs cujufque rei abfc^ lutus eft illa fpatii vacui pars, quæ ab ipfa
re occupatur. Nos vero qui fpatium
vacuum abfolutum pro imaginario habemus 78.
folum locum relativum admittimus, et fpatii nomine intelligimus Ibcoruth omnium
collectionem « 'Hoc fenlu ipatium^reale quidem eft, sed relativum, non
ablblufum, ut ita ablatis rebus Jocatis,
nihil reale amplius remaneat ; ' fcd^
fpatium, E. contrario in expcctationis ftatu, vel tædii,,vel cujusvis doloris? breve clapfum
tempus admodum longum videtur. (a) Sane in,. ^ • ' hi 00 Hic illud Poetæ obtindt: mifero longa, ff
Itci Luvis, hifcc cafibus Animus
raorjc, tædii, doloris impatiens, e molefta fenlatione fe fubtrahere continuo
conatur* at irritis conaminibus, moleftia
perpetuo recurrit. Adeft itaque velut interior colluctatio, et continuus conflictus mentis,
et doloris. Continuu^i hicce conflictus
loco eft continuæ fucceflionis, longum
fluxifle tempus, exhibet. Quæ cum ita
Gnt, continu is erroribus obnoxii elfemus, fertempus ex noftrarum cogitationum, fenlationumque ferie dimetiri
vellemus. Hinc factum eft, ut tutiorem regulam,
c^rtiulqus medium dimetiendi temporis fit quæsitum. Kihil huic fcopo
opportunius vifum eft motu æquabili: oam
licet quamplurimæ sint in Muhdo,
luccefsivorum feries, hæ tamen, quia æquabili
continuitate carentia, ad rem non videntur. Atqui nullibi forsitan rejjerire
eft hujufmodi motum, qui sit vere æquabilis
: conversiones attamen Solis circa
Tellurem ad fenfum faltem videntur æquabiles.
Ipfa itaque velut fuadente Natura, pro
certa temporis mem fura, ad hujufmodi'
conversionum fericra ‘devenimus.* tum singulas conversiones in partes minorem tribuimus, per motum artificialiter
paratum, menfurabiles, Illas diximus dies natura* les, harum partes horas denominavimus :
tum lingulas horas in minutiores, æquales
partes tribuendo, mirtutortm cudimus.denominationem
ad eas indicandas. §.8p. Ens pluribus
continua ferie fibi fuccedentibus coexiftens, durare dicitur : eft proinde Duratio continu^ jTcu permanens eatis exi
sten. .
flentia, qua pluribus in continua ferie flbi^ fuccedentibus coexiftit, aut faltcm
coexiftere per fe aptum eft, po.
Duratio itaque non efl quid ab ipfa* rc
durante rcaliter diftin£lum, neque quid ab-‘
iblutum, fed relativum; est nempe ipsius rei coexidentia ad plura
fu^lsiva, sive hasc realia fuerint, sive
tantum imaginaria. 5^r. Duratio cum Tempore confundi non debet : hujus notio in atquabili rerum
luc. cefsionc consiftit ; illa e
contraria in permanenti Entis, quod immutatum, et immobile concipitur, exiftentia. Fingamus unicum
Ens existere, et in eodem flatu perpetuo
manens nulli obnoxium mutationi : modo
nullum fo. rct reale tempus / adefl vero
realis duratio, quæ fat intelligi ex eo
potefl, quod Ens per fe aptum efl
coexiflere fuccefsivorum feriei. Triplex diflingui debet duratio. Vel enim interminata c(l, et inHnita,
principio nempe carens, et fine, et dicitur
^eteynhas. Hasc non nifi foli Deo convenit. Vel duratio
finita, feu terminata efl ex utraque parte, nempe principio, 8 c fine clauditur,
diciturque fimpliciter duratio. Ha;c durationis fpecies optime tempore
menfurari potefl. Cum enim tempus in æquabili,
et continua entium fucceffioæ confiflat, ex quantitate fucceffionis, cui Ens aliquod coexiflit, hujus durationem certo
determinare licet ; nec non unius durationem, cum alterius duratione, conferre.
'Duratio limplex omnibus naturalibus
productionibus convenit. Tertia tandem durationis fpccies,, •. vum bi^ :.
vum dititap y 'eflque illa j qiuap, initium qi;idem habet'V' attfine*
careti. Hstt ad Materiam et Mentes
fpectat, neque poicft tfcrnpore me«n
furari,) etfi. djus initium tempori alicui^ veniat * >. / '•, • 'V r^ifl . r..'.: C..ruUbf
f ;,.i >.i,i. De relationibus
dependentitr, i*ii de Cauffif », *
" ‘i ;• I Efr qiMcpiam ab alta
pendsre dicjtur.j 'X^‘ li huic infit
quævis alterius ratio^.,* ifth^’verb
unius ad alteram relatio dspenden^ tia
nomine. indicator. Ex. gri! Jiorologiijrnqtqs
ab tappenfo pondere, vel ab intus -in,clufo,..elai firo ptfwrfefe I dicitur, quia pondus
lappenruin., vel elaftrtrm rationem
co.ntinei)t, cur in hpto^ logio
motus-fiat. ‘ r«., *. Via, &c.
Hujufmodi Cauffa remota, et media^ ta
dicitur. E contrario proxima, et immediata
^ laudit, quam inter. et effectum nuHa interce^ dit alia: hujufmodi in adducto exemplo
eff organicæ plantarum flructuræ insita. 1^. 'XI2. Si Cauffa proxima, 8c immediata
de*, lerminationem fubeat ab intermedia
præcedente, ^fimiliter iflhsc ab alta, Sc ita porro; Cauf* fm ftt^ordinata ^dicuntur t 8t connexam
ferieiit i^nflituere. Hujus feriei prima
appellatur, quasnulli przcedenn fubordi natur, cztene vero in« tcnriedise mediata nuncupantur. CauflTz in
ferrem fubordiaata t]vSm6^ di ' funt vel
effentiather, vd æcidentaliter. £/•
fentialiter fubordinat» dicuntur, fi fubfcquen* |iuax actiones a præcedentibus fint excitz,
dc M . P i2eterminat«. ^ccidentaliter vero
fubordinatv appellaotur, 11 fubfequentes
a prascedentibus ia fola exifleotia
peodeaat, noo item in agendd. 1I4>
De GmdSs ba^ potiflimum tenenda funt-
'• I. Ex nihilo nihil fi*. Nullum Jioc*
antiquius axiomate in pbysicis, atque cofmologi. cis facultatibus « magifque receptum
communi Philolophorum confenOone. Sed
rectus e)us £enfus Qoo ab omnibus zque acceptus. Ita pmrro antelligaat Tyrones c,IQibHnm nequit effe
net tMuffa effieient, isrc materialis^
nee formatis^ ««. fue finalis ulliur
roi, Sane nihilo nulls, funt
proprietates, alias non effet nihil ; fi nulle proprietates nihilo
conveniunt, nulla caufialitadd Ipecica
tribui poteft^*, • 215«. Plures e
Veteribus ita intelligendum autumabant,
ut cuilibet productioni præcedens
fubjectum, tanquam materialis caufia, ftatuenduna «tlTet. Hinc «ternum Cahos, e quo omnia ortum
haberent illi imaginabantur, et. crcatioi
nem ex nihilo, ex nullo nempe prascedei^ fiib* jecto, impofiibilem decernebant. De fenfii
axioip^ mati a nobis tributo, nihil efi
quod dubitq^ mus, fi indubium cfi
contradictionis principium; at vero
fenfus ab hujurmodi hominibut excogitatus nulli certo principio efi
fuperexftructus. Creattonem ex nihilo in
CofmolQgia vindicabimus ; illud tantummodo heic monemus, gratis iupponere Adverfarios, omne quod fit,,ex
ali^ quo præcedente fub jecto fieri
debere. Certe
mp/ tus ell aliquid : interim contjnuo
experimur, ipos varios motus de noyo in
corporibus foln D 4 . voluntate producere jecto, tanquam ex.cauifa
naateria-li r repeti. Ecquid^ ergoavetabit,hGau(Tam inii* alita efficacitate prarditara' fola
•voluntate 4 ^ubftantias dt- nihilo condere? Certe nihil vetat, ficuti ex noto effectuum diferimine par
diferimen inter Cauffa? ponere, ita ex cognito Cauffarum diferimine, funile
dilcrimen inter effe» xtus iptereffe
pofle, decernere. Id quod contra xos
dictum fit, qui incogitanter allato exemplo
objici, pofle putant, morum efle qualitatem, non fubdantiam 4 cum contra iubiiantiæ
fint illæ, de quibus' quæflio vertitur,
utrum ex nihite creari' peffint'.’ - ^.11 d. II. Omnis Cauffit debet effe prhr
fuo effe. Siu. Sane Effectus exiftentiam
luam tfonfequi» lur ab actione Caufsæ
efficientis. Itaque efftetus natura fua
'cfl pofterior Caufla. «.•* e Duplicem
diflinguunt Philofophi priol ritatemiif
natura nimirum, et temporis • Cuni
Calilsa tempore prafcedit effectum, hanc dicunt ^iifitatem temporis. Si vero ' nullo
prorfus tvrtpore Cairlia fuum pra?cedit
effectum ^ feu iiumquam Caufsa’fuo
effectu fejuncta «xtitit^ modo nonnifi
prioritate naturæ, feu ordinis gaudeti. Hæc naturæi'-priorit.s in eo coniiftit, quod effectus fuam rationem, fuumque
princi*. pium- e caufsa petens‘ fine
caufsa exifteotiam conftquiunequit :
deinde in noftrarum idearum ofrdinc,
taulfæ conceptus notionem effectus neceffario
antecedit. • «. III. potefl effe
cauffa efficiens fui fpfitis. Revera,
cui tribuemus caulsalitstein » rei non
adhuc productæ, vel rei )»m -effectæ? Non
prjmuni, quippe res ^^on adhuc exiffens
nihil { agere, poteff 114. Non fecundum, canf faiitas'qiiip|X præcedere
debet, non fubfequi effectim; Quare
Nthil poteft elTe cauisa efficiens fui
ipfms. .. tiip- IV; Nequeunt duo Entia
fibi mutuo effe eduffa ef^eientts, Sit
primo -A caufsa efficiens B. 'A
‘erga:eft prius, B pofterius. i.i($.Sit
xnoda B taufsa efficieii& -A,. Erit A pofteriuss B. anterius'; idem ergo A erit anterhis
ffmuiy posterius ^B,‘i(f quod implicat.
Igitur &Cv ' «xoi Vi^ j^Uqmd efi in
effe&U y 'debet efi
fe^ht>:eayffai^^9^yfofttttdite0‘'.y vei eminenten-J i2oa^ ^ tineeii f^rinutite^' OM " res iir ‘
altera ^ ‘ dicitur, fi illa irt hac
continetur fecunduui ifusm ooncre^ tam:
effentiam ' ita formaliter * contineri in fii*
rnihe* dicimus futuræ •pI&ntai-^rndinTenta feri* cum in bombycis vifceribus &c. 'Eminenter
vc* fo ^ wtuaiiter ^ B nonnifi
virtus," et poten«^ tia '
fufficrehs.aUieri' iniit ^condendi aliam &qui9 exv dnodrit mdtum femaiiter in Anima,
quas xllURl fiia ioluntate^ pradneip,-
contineri ? equi^ defn folarViitus, &'
ponnfia> motum; produceiid. di
«iniiieff a^titBse pofitis^ifffaliquid eft' in
fectu V quod'"non fft 'iii (C^ifa, r» aliquid vel^ efi mt alia caufla, vel ex nihilo. Hoc
fecuifi «iuin r^giiAt t ^ 4 « Si' primum,
effectus it* ei^ non cx utiich, fed-«ex
duabus cauffisfociis, et confiftit veritas effati. IX f; -VI? Series 'omffdtium
fuberdhtatarum^ q[MæU*dque ea fit, abfque
ulla Cauffa prthha, et indeptn4ertti ^
muino tepugnat, etfi in infinitam J.1
produB/t concipi velit. In hac infinita fcrie qua* vis Cauffa cft cffe£Ius przcedcntis. Qui
ergo fiatuit infinitam fcriem caulTarum
fubordinata* rum abiqæ ulla prima
Cau(Ta,8c independente, ponit infinitum
numerum effe£luum -j- i ab* fi^ue ulla
caufla; id quod evidentiflime pugnat. •§ iiz. Sed lubet Tyronibus,
rerum mathematicarum fiudiofis, id ipfum alias exponere. In ierie
caulTarum fubordinata rum, quziibet Cauf*
fa determinatur a præcedente five ad exifiendum, five ad operandum 112. Nulla ergo caufia continet in fe ipfa fufficientem
rationem fux exifientiæ, vel a£Iioni$ :
adeoque nulla cauf* ! fa fufficientem,
et adæquatam continet ratioæft | cau (Tz
pofierioris. Itaque przdi6Ia feries in infinitum protenfa, e(l feries cauflarum
ejus natu- i rz, et conditionis, ut in
earum fingulis metum adfit nihil in
ordine ad determinatam exiilen* ; tiam
cauffarum pofieriorum. Summa autem om> |
nium nihilorum, utcumque numero infinitorum j efi nihil. Jamdiu enim confiitit, illud
Guidonis Grandi, ut ut fummi Geometræ, paralo*
gifmura fuiffe, quo, ex expreffione feriei paral* klz ortz per divifioncra ~, intulit,
fummam infinitorum zero effe revera
squalem dimidio» Series ergo illa, ut ut
infinita, omni caret fuf. ficienti, Sc
adzquata ratione ad exifiendum, nifi ab Ente extra ipfam pofito, zterno, et a quovis alio independenti ad exifientiam
deter* minetur. irq. Contra Atheos hoc pofitum ell theo rema delirantes, omnia in Mundo pendere
[ab infinita cauffarum contingentium
fcrie per im* JDca* p- :: --J. SP nienfam aternitatem produfta ; quafi nempe, quo longius, remotiufquc produ£tam imaginemur
hanc commentitiam, fetiera, minus opus
fit Caufla prima, et independente. At contrarium Tana exigit Ratio. Rem exemplo illuftrabimus, quo Atheorum dementia magis pateat..
Supponamus ferream catenam ab alto derivantem horizonti normalem,quam, fi
lubet, in infinitum produ£tam imaginemur.
Contendat vero aliquis, catenam iftam,
immane quantum ponderanteral nullo
fulcro indigere, ne deorfum tota ^uat *
fed hujufmodi pofitionem perpetuo ex feipla fervare poffe, hoc herculeo a-rgumento.
Primus, Sc infimus catenæ annulus, '^.e
ruat, detinetur a fecundo, nec ullo
indiget fulcro,* hic fecun» dus, quin et
ipfe fulcro indigeat, detinetur a tertio,
et ita deinceps in infinitum. Igitur tota catena, quin indigeat fulcro extra
iplam pofito, perfe verare ex fe fola poteft in illa poutione. Profeao ita
delirantem, non adducis rationibus, fed praftito quam citiflime elleboro, curare fatageremus.' En typus delirantium
pariter Atheorum, qui feriem caufsarum fubordinatarum infinitam abfque ulla
prima Caufsa, et independente
comminifeuntur. Una eademque res p 9
te!} /tmuf ejfe Caujfa finalk, et effeBus.
Eflfeaus nimirum non adhuc obtentus, fed
mente præcognitus,» volitus, ipfam movet
ad agendum, ut cfFe6Ium confequatur.
Finis, irquiebant Scholaftici, ns
intentione prior ^ in exeqttntione po/lerior, iEger, ut fanitatem confequatur, pharmacis
utitur ab amico Medico præfcriptis. H«ic
fauitas eft finis, qui in pharmacorum ufu intenditur, et quam pofthac xger coniequetur j eadem vero
fa« nitas eft Caufsa asgrum movens, ac
determinans ad pharmaca adhibenda contra
fuafioncs guftus, et oeconomiæ. Infcite
itaque Spinoza decrevit Etif. p. p. app,
ad prop. Omnes cau fas finales, nihil,
ntfi humana ejfe commenta: hanc de fine
dbiirinam naturam omnem evertere nam id,
quod revera caufa eft, ut effeSum confideraty et contra : deinde id, quod natura prius eft,
facit pofterius. Nempe non diPtinxit Spinoza in« ter eflfe£fura in actuali ftatu conftitutum,
et eumd^T.on ftatu ideali, feu in
intelligentia Caulsæ efficientis
comprehenfum. IZ5* Priufquam hinc
abeamus, celeberrimam qiteftionem, de qua acriter Philofophi jam inde a Cartelii tempore decertarunt, paucis
expendere juvat. Qjue vulgo dicuntur cauffa fecund(e-, feu atuffa creata, funt
ne revera cauffa efficientes } gaudent
ne infitts viribus, queis age» re
Valeant, agant} Jfn ne' junt tantum oc»
cafiones, cur Deus per ipfas, et in ipfis ftm» mediate agat, eofqua moliatur effeBus quos
0 vtrtbus creatarum caufjarum promanare
putamus? Jz6. Primum negant Cartefiani,
ftatuuntque creatas cauPsas omni prorPus agendi vi dcftitutas / nihil adeo
ipPas agere, fed Deum omnia operari fecundum generales a fe conftitutas leges pro variis illarum occafionibus,
nempe juxta illasmet leges, quas vulgo
natur* dicimus. Impingat globus A in alium B* hic protrudetur, ilPe vero vel
lentius perget, vel quiefcct, vel refle6lctur juxta Phyficæ leges. Ex *' 6i
Cartefianorutn fentcntia truditur globus' B' non motu, &. aftione irruentis globi A, fed
immediate a Deo, qui, juxta generales a Te fancitas leges, "pro occafione
irruentis globi A,' alium B propellit :
tum idem globus A occurrens in- globum B, etiam immediata Dei actione
retardatur, ad quietem adigitur, vel reflectitur ; non ex reactione, vel
elafticitate corporis percufli. Pariter non ignis pyrio pulveri applicatus, illum in flammam agit ' fed ‘ex
oc>» calione admoti ignis, Deus
pyrium pulverem inflammat • tum ex
occaftonc conflagrantis pulveris, pilam e tormento' expellit, et pe^
parabolicam femitani ducit j qua in parietes impingente,' iterum
liac'*occafione ipfe Deus parietes disjicit; rurfu?, ex ^occafione
corruentium* parietum, fubftantert
hominem perimit. Ita de cæteris quibufciimque
aliis’*. Neque corpus humanum aliquid ih 'animam agit, neque anima in corpus / Deus lingulas in anima
adfectiones gignit, quas e corpore
prodire putamus, fingui lolque motus in
corpore juxta animæ voluntatem’. Non moror Malebranchii opinionem ulterius
pergentis, de qua alibi opportunius. •
^ lay. Cartefianorum sententiam ' longius, quam par erat, prolequuti fumus, quippe
illam cxpofuifse, confutafse reor - Sane
communem illa hominum fenlum,
rationemque evertit. Tu ne, inquiet
Cartehanus, præjudicia pro ratione
obtrucljs } Perbelle | ii tara conflantem, univerfalemque hominum, turi^
philofophantium, cum naturali rationis
ductu judicantium, fententiam,
pnejudicii et falfitatis arguere velimus, o felices CartefKini, queis
unice bonus fenfus, 8c recta ratio
ceffit ! Deinde, fi vel tantisper Advcrfariis demus fententiam, quam tuentur,
quan« tum ab Idtaltsmo ( putidum
profecto delirantiun^ fomnium ) diftabimus? Unde corporum noftrorum, totiufque Mundi exiftentiam
ultra rcfcicmus ? Sane in hoc fyftemate
^ cum nihil inter fe agant entia creata,
fed omnia agat Deus, pronum erit
fupponerc, nihil exiftcrc» aliud præter
me, et iplum Deum. {a) ^ iiS. (o) Corporet Mundi exiftentiam noa aliunde,
quam ex Mentis noArz fenfationibus
nofcimus. Si has fenfationes non ex
aiAione circumflantium, et ptementium corpo-‘
rum, fed ex Dei immediata adione fieri ponamus, nullum dein fupererit
argumentum, quo contra Idealiflas Mundi
exiflentiam vindicemus. Quod enim Occaflonaliflac fubdunt, fenfaticnes ex
occafione circumflantium corporum a Deo Mentibus imprimi, quas numcuam infet-.
ret nullis eircumexiftentibus corporibus, nimis leve eft, ^ et hypotheticum, e quo Idealifla facili
negorio fe expediet i ita enim regerere poteft. Unde rejctvifii corpor0 extare * tum, juxta horum circumjltiniium
varias occafiones, Mentem varias ex a&ionh Dsi Jati Jenfationesi Equidem de nofiris jenfationibus nulli
dubitamus^ fed inquirenda tantum
occurrit, quanam fit noftrarum fenfatienum eaujfa. Has ego ex immediata Dei
aSione ref eto, quin quidpiam aliud extftere agnofcams quippe * illum fat
potentem,^ Jdpientem ejje intelligo, qui ideaiis mundi fpeSaculum et /dat, et valeat
menti mex exhibere, ProfeBo nec hilum
prnfiat, aliquem realem mundum comminifci,
qui et nihil ad meas fenfationes
conferre poteft, quo nullimode Deus indiget, quominus idealem^ mundum
menti mea reprafentet. Quare fi nofti,
haud Deum decere, entia multiplicare fine wceffitate, UT fuos adfequatur fines;
praclare me gero, dum nihil prater me,
et ipfum Deum extare fentie, Neque. . t%S. Sed quibus tandem -argumentis
Cartefiani hanc fuam conficere rentur opinationem? Duo præcipua adferam, nam cætera
(lomachum cient. L Nequit omnino
iiitelligi quomodo entia cneata jn fe agant, quidv^ fit illud, quod cjc uno tranfit in aliud, li. In idea
rpiritus non elucet profecto conceptus
vis corporum motricis. ' lap- I. At in
primo uberiorem Logicæ peritum in
Adverfariis eli, quod defideres.
Nem iuvabit Occaiionaliftafn
reponere, idealifmum cum Divina Boniute pugnare; nempe in ea fentenfia Deas
grande Mundi rpc6laculutn Menti tam vivide repra^fentando, ut omnes proclives Hmus, et quali cogamur ad
Ivniiis xealis mundi exillentiam
adftmendam, nos profefto illuderet, fi nuilns exificret mundus ; Non,.inquam,
id Occafionaliflas juvat ; ita enim merito refumere poteli Idealifta, fiiamqu.*
cauisam conficere. Pape ! Ei tu adeo vecors, et audart, qui Deo tuos errores.,
ac deliria adjudicas \ eccur judicium tuum, me tibi exemptum prmbertte, haud
cohibes l certe quas vividas fenf asiones te
fati ajfeveras, et corporum extjlentiam, ut dicis, faseri quafi
jubentes, et ego patiar s illud reliquum efl,
ut ratione teipfum cohibeas, et ab errore fetves immuitem, ficmti
ratione didicifti et alios plurimos profligate : ut ecce, te tua vi brachium,
ac totum movere corpus, hujus mundi corpora invicem inter fe agere, colores
corporibus inharere &c. Si hos errores Japienter rejicere Jategifti, neque
unquam Deo adjudicandos agnovifii, quippe ratione duce profligantur, ita
pariter eadem duce ratione veterem dedi f ce errorem, et prajudicatam expunge
fententi emr, realem nempe mundum exi flere:
tuaque ofcitationi, aic infcitia tribuas, nonDeo,q iod iu eam dementiam defcendifli: Itaque cum adeo
facilisfit, ac brevis ab Occafionalifmo
ad Idealifmum defcenfus, eadem cenibra ambx lignanda; filat fententia:,
fcilicet inter furentium deliramenta
reponenck. Nempe hsec duo • fececoenda cr
fuimus, uno conceptu complexis,
emereant, compofita dicuntur, Earum notiones, quippe quæ frequenter in tota Philofophia
occurrunt, feorfim heic exponere, operæ pretiuna duxi. Sunt autem hujusmodi Ordo, Bonitas
-, Perfecto, Pulchritudo. Plurium Entium five coexiftentium;, (Ive fe confequentium ita' connexa feries.,
ut iibique eadem ratio deprehendatur in
'modo, quo juxta fe collocantur, aut fc'
invicem excipiunt, ordinata dicitur J ejufque abftraftum appellatur Ordo. Confiftit itaque' in
fimiJitudine, qua plura' Entia juxta'-(e collocantur, aut fe confequuntur. Si fecus illa. fe>
habeant, ita nempe fint Cohftituta, ut
nulla- in eis eluceat fimilitudo five in coexiftendo five ip fibi invicem fuccedendo, inordinata, leu eonfufa
dicuntur. Exemplum fumatis ex- bibliotheca.
132? Et quoniam fimilitudoi, quam ordinerp dicimus Entibus præter
effentiam.convenit, ex aliqua 'profecto ratione pendere debet. E Ratio ifthcc ' Printifimn ordinis dicitur et PROPOSITIO ENUNTIANS communem illam
rationem, ieu fimiliiiadioem, qua Entia
co^xiftere iil» debeat, vel fe confequi conformiter>huic principio, Rtgulo
ordinis appellatur. Ex. gr. Principium ordinis in bibliotheca cft :| Lilrros
od comparandam eruditionem aptos in
promptu ba~ here. Regula vero ordinis
eft hujufmodi : J^ihri ejufdem argumenti Jimul componantur. igg. Atqui communis illa ratio, qua plura entia juxta le collocari debent, vel
fe confequi,ot ordo^io eis eluceat,
potell eife liBiplex, vel compofita. Hinc vel fimplex, vel compoHta eft ordinis regula, et ejufmodi
pariter Ordo iple. In præcedenti exemplo limplex pro bibliotheca eft >6rdo, tum ordinis
regula. Compofitus vero ^it, fi ifihaK
compofita regula obfervetur ; jLihri ejufdem argumenti, /mgutSf ty retatis
fimui collocentur. %• hibetur. Sub
Bonitatis abfoluta nomine venit quidquid
reale in quovis Ente concipitur; ejus
nempe edentia, fingulæquæ proprietates. Huic opponitur Malum abfolutum, quod confidit
in deficientia cujufvis realitatk in
Ente : id quod, ut patet, nunquam fieri
poted. Ipfe concep* tus entis, ed
conceptus alicujus realitatis : nui* '
lun^ Eoa fua edentia expoliari unquam poted.
£ 2 Sufboc itaque fenfu fingulia Euubua ahqua re/a./ua iis tant.m.ribm.ur ^ olinrum ablolutam bonitatem con et peteciunt,
vel confervare, et perlervani, ^ v immediate, five medtate. E rela»;™» te]ligi potell, Mundi nomine intelligendum clTe Syftema Entium tum
permanentium ^ cum fucceffivorum continuo nexu iater fe conjugatorum f quodque ad aliud Jimil e
fyftema minime pertineat, ' Entium
permanentium nexus eorum refpicit fitum,
feu coexiftentiam, et ex CJauffis finalibus repetendus eft,*> feu ex fine,
ad quem refpcxit Qui primo Mundum
fabricatus efl, et unum Ens ad aliud
ordinavit. Ita ex. gr. Tellus in ea
difiantia a Sole locata efi eamque
orbitam conficit, qua nec nimio ardo* fe
metalla fundantur, vegetabilia, 8c animantia
enecentur* nec nimio frigore rigelcant omnia, rurfumque pereant pjus viventia; fed
ejufmodi in lingularum tempeftatum
vicifiitudinibus tem* peraturæ 'limites
'perpetuo ferventur, qui et vegetantium,& animalium oeconomix conveniant. p. Entium vero fucceflivorum nexus tempus
fpectat, firque per CaulTas eificientes y internofei vero poteft, quoties
fubfequentis exiilentiæ fufficiens ratio in Entis antecedentis actione continetur. Hujufmodi ex.gr. efi
nexus, qui inter fructus, et flores
plantæ intercedit, tum ille, quem hos
inter, et fuccos ab organica planta ftructura, ejufque peculiari phyfi elaboratos, nofeimus. IO- Mundi ergo in genere Eflentia pra?cipue
confiflit in peculiari illo nexu, quo tum
Entia permanentia, cum fucceflfiva inter fe vinciuntur : iiquidem ex
^variato nexu alius atque alius prodiret
Mundus, licet Entia inter fe connexa eadem eflent. Ex. gr. fint A B C O &c.
N &c. ’fuis tandem
limitibus concludi illam debere, quQS
ultra progredi nequeat, Nemo ambigere jpfbteft ^ Prima illa componentia, ex quorum coagmentatione corpus phyficum primo
conftituitur, quxque ex aliorum nexu non funt conflata, Elementa corporum
dicuntur r tum ipfa hxc elementa
Mater'ut mundana nOmine veniunt. (a) De hifce elementis, quzremus I. funt ne extenfa, vel inextenla ? IX. similia, an diflimilia ? ACorpoYum Eltmtnta funt nt tnttnja, vet inext$nfa} 1
T^Ifcrcpantcs Philofophorum fenteaI J tlx ad duas QafTes, quod ad
rem prxfentero attinet, referende
videntur. Alii fiquidem corporum elementa vere fimplicia ponunt . ( 4 ) ElementoFum nomen diveifo plane Icnfu
a Cbemi. cis ufurpatur. Defignant
niminvn quafdam materiales fubfiantias (
non fenfu metaphfSco, fed vulgari fumunr
fubflantijE nomen, vide ont. §/ 6i. ), omnino fimilarec, cum in fui toto, tum in fingblis partibus,
quasque nulla artis, naturzque vi
confiat, ^folvi in alias diverfas fpeciei. Has folent appellare etiam
fn6ftaHti4$s fimpUees ; tum qwque prima
carporum componentia. Vide quantum obiant notiones Metaphyficonun, et Cheroicorun tidan Vocabulo labjeAc ! So
nunt, et inextenfa.• E. contrario alii extenft habent, et figurata. : • i I. In prima chfCc veteres Cunt Z*»onifl/e\ qui corporum* elementa punBa dixerunt
fimplicia, et mathematica. At rifu a Sapientioribus excepta.hac lententia,
ZerWt/ur, Vir equidem lummi 'ingenii, Monades dixit, fubftantias nempe vere
flmplices, et omnino inexten* ias,
natur^ fua aftivas, Ic diffimiles. Tum poliremus omnium Bofcovikhts
inextenforum elementorum et ipfe Patronus punBa appellavit non mathematica, ut Zcnoniflas, fed realia ;
quas viribus per vices attractricibus,
et expultricibus juxta certas, et determinatas
ad invicem diflantias gaudeant. Quid interfit difcriminis has im
ter Icntentias, probe advertant Tyrones. II. Ad alteram claflem fpe£lant veteres
De» mocritki, tum Epicurei, ^|.l' '. '
nere toitdem numero, quot idiomata funt, in quibus Jingulis omnes ejujdem idiomatts voces
re» •perirentur^ qua quittem numero
admodum pauca effent, difcrimine illo
ingenti tot tam variorum librorum
redaSio ad 'illud ufque adeo mitius di»
/crimen, quod contineretur lexicis illis, haberetur in vocibus ipfa
Icxica conjiituentibus. %^t inquijitione
promota facile adverteret, omnes il. las
tam varias voces conflare ex 24 tantummo
do diversis litteris, difcrimen aliquod inter fe habentibus in duBu linearum, quibus formantur,
quarum combinatio diverfa pareret omnes
illas voces tam varias, ut earum combinatio libros efformaret ufque adeo
magis a fe invicem di f crepantes. Et
ille quidem si aliud quodcumque sine microfcopio examen inflitueret,
nullum aliud inveniret magis adhuc
simile elementorum genus, ex quibus
diverfa ratione combinatis orirentur ipfa littera ; at microfcopio arrepto
metueretur utique illam ipfam litterarum compositionem e punBts illis rotundis
prorfus homogtneis, quorum fola diverfa positio, ac dijlributio litteras
exhiberet. Deinde pp. ita concludit. Mac mihi quadam imago videtur effe eorum,
qua cernimus in natura. T am multi,
tam •varii illi libri corpora funt, et qua
ad diverfa pertinent regna, funt tamquam diverjis con/cripta linguis. Horum
quidem chemka analysis principia quadam
invenit minus inter /e difformia, quam fint libri, nimirum voces. Ha tamen ipfa
inter /e habent difcrimen aliquod, ut
tam multas oleorum, terrarum, /alium /pedes eruit chemica analysis e diversis corporibus.
Ultertus analysis harum veluti vocum j litteras mi^ nus adhuc inter Je difformes inveniret, et ulsi» mo jUxta theoriam meam deveniret ad
homoge^ nea punBulay qua ut illi circuli
nigri litteras ^ ita ipfa diverfas
diverjorum corporum particulas per jolam
difpesitlonem diverjam efformarent :
ufque adeo analogia ex ipfa natura consideratiem ne derivata non ad difformitatem, fed
confor» mitatem. elementorum nos ducit. ^5. Re quidem vera/ conflat inter
Philofophos, diverfas ac multiplices qualitates, quas vulgo corporibus tribuimus, nihil elTe
ali> ud, quam noflrarum renfationum
phænomena * non vero fimiles entitates
corporibus revera in« hxrentcs: id quod
et in Logica monuimus, tum in
Psychologia copiolius edocebimus. Rurfus
condat, varias in mente gigni lenfationcs ex diverfo corporum in fenfus incurrentium
ta£lu, feu ex eorum diverfa in fenfus
no{lro^ a6lione. Atqui ex diverfo
elementorum corpora conftituentium nexu, et pofitione ad invicem., op« time intelligitur, diverfas in elementis
noftros fenfus conflantibus motiones
cieri, quin et ele/• reriKX • licet rem
alias ^explicarent, commentiti formarum lubftantialium theori* infiftcntes. Et
diftis patet, omnium qu* in corporibus infunt, vel ineffe poflunt fufficientem rationem ex intima ipforum elementorum natura
pendere, nec non cx diverfo elementorum,
ouo invicem copulantur, nexu. Cum vero inter ^ \ Phi
Erii elementa innumeros diverfos nexus, innumerasque varias inter fe
pofiriones fubire queant 5 attamen quantum ex chemica corporum analyC haflenus
datum ell nofse, videtur faltem telluris
noftrs refpedu, hanc eis 1* a fupremo
Conditore legem impofifam, ut nonnifi triginta tres primitivas combinationes,
qus fint fpecifice diverfe, fubire
queant. Sicuti nempe punftula illa nigricantia, de quibus §. 24., e quorum
varia pofitione caraderes efticl pofsent,
hanc debent fervare legem pro Boftro
alphabeto, et feriptura, ut nonnifi in 24.. combinariones abeant I Sane nonnifi
35* m^erialia cqmpofita haftenus novimus, qu* fingula fibi femper
fimilaria, et homogenea, nullo arris, et natura; molimine
in alia diverfi generis abire confiitit.
Hujufmodi fnnt lux ^ caloricum, fluidum eUQricum, oxygenium, hydrogentumy gezotum, ( quod ab aljis accuratius
nitrogenium appellatur ) carbonium, fulphur, phofphorum., quinque terra f ftptemdecim metalla, foda^ et fotajfa. Cætera
corpora funt combinationes fecundaria; ; nempe mixtiones, modi ficationes, vel
tandem intimæ compofitiones prodictarum 5?. conibinationum primariarum. Ita ex.
gr. Aqua et «ft intima corapofitio
hydrogenii, oxygenii, et calorici.
Acidum fulpburicum eft intima combinatio fulphuris,oxygenii, et calarici
&c. Philofophos conveniat, ab ciTentia aufpicandam cfle fufficicntem rationem omnium, quat in
qua> vis re infunt, vel ineflc
poffunt i 6. ont. • per fe liquet,
corporum effentiam in elementorum fimplicium natura, et vario inter fe
nexu reponendam effe. At quis
elementorum naturam, variofque ipforum
nexus plane perfpectos habere præfumet ? Corporum itaque eflentia pro
incomperta habenda, et verba efFutiiflc quotquot contrarium audacter prxdicarunt. y De
Legibus cofmologicis T Egum
cofmologicarum nomine veni^ unt certæ quædam naturales, ' ac infitæ determinationes virium materiæ,
juxta quas et elementa, et corpora hifce
conflata perpetuo in fe invicem agunt; tum gignuntur in Mundo omnia, pereunt, moventur, modificantur,
et quibus Univerfi ordo continetur. (a)
Hæ genericis quibufdam propofltionibus efferuntur, quarum præcipuas heic
exponemus. zg. Corporum elementa
viribus per vices attrahentibus,
repellentibus pro va^ riis a fe
dijlantiis gaudent ^ quibus in fe mutue
agen (d) Vis motrix in horologio
certam habet determinationem ex ipfa horologii mechanica ftruftura, qua
determinatos motus, et non alios, in indicibus gignit : ita vires elementorum infitas habent, ac cettas
agendi determinationes, a quibus, ne iulum quidem, recute pof fwt V agentia in fensibiles, et extenfas moles
concrefcunt - ( 1 Nifi enim hujufmodi
viribus gauderent, quam facile corpora
ex illis cotrfiata di flbl verentur, linde Univerfi moics in informe
Cfaaos quam fubito abiret,^ Gaudent vero
viribus at. trahentibus in majoribus
didantiis, repellenti* bus in minimis.
Primis fe >mutuo, petunt ad acceffum,
ne fingula i diffluant, &*, dilabantur :
fecundis vetatur intima eorum penetratio, ne fcilicpt eorum millena non majus occupent
Ipatium, ^uam unum : id quod li folis attrahentibus vjf ibus. gauderent,
extemplo » et neceflario fieret. Cura inter liraites harum virium cqrporuna elementa funt conftituta,
conquiefeunt, et cohærent. Itaque hac
lege mathematicus elementorum contactus / vetatur, &..fimul efficitur, ut coeuntibus illis ad minimas, &.
inobfervabi^ les ; diffmtias, extenfa,
et phyficc continua moles noftris fenfibus objiciatur. • Has autemt vires pro variis elementorum diftantiis pluries
mutari, ut ita attractrices abeant in expultrices, et vicissim, diverfa corporum 'denfitas,
tumidi-' veflb col^oefionis vis -exigunt
; id quod in Phy,fica uberius exponemus.•,
30. jLEX. II. \Singula Univirsi corpora
Junt' antitfpa. > r
^aatitypiam intelligimus vim illam, qua
corpus, quodvis alteri naturaliter refiftit, ne eumde,m occupet locum
;feu ne unius materies cum alterius materie intime immifeeatur. Hanc
legem elfe cofrnologicam ex eo patet, quod antirypia e corporibi^. eorumque
clerflcntis fublata, fingula ad unum indivifibi le punctum redigerentur, et Univerfi
moles illico evanelceret, 31. Hæc
fecunda lex corollarium eft pra;cedentis. Etenim elementa j ubi ad minimas
pervenere tliftantias, fe mutuo repellunt, et ita ^ ut decrclcentibus ultra quemvis adfignabilem
limitem diikntiis, e contrario, creicant fimiliter vires repellentes. Hinc
profecto fieri d-bet, ut elementorum
compenetratio fit naturaliter impolfibilis. Quavis polita extrinieca vi
corpui ad corpus apprimente, unius
elementa ad alterius elementa apprimentur, Sc quandoque utraque proprius
accedent • at id nonnili ad determinatas ufque diftantias: quippe his ad
infinitum delcrelcentibus, fimiliter augebuntur vires fingulorum repellentes. Singula Universi
corpora funt inertia. Cum dicimus corpora effe inertia \
intelligimus nulla gaudere vi, qua fponte fua e quiete ad motum, et viciffim e motu ad quietem, vel^ ex una motus directione, Sc gradu
celeritatis, ad aliam directionem, vel celeritatis gradum, tranleant. Si adeo
'fnoventur, nunquam, ni fi ob externas
caulfas actionem, e motu luo dcfiftunt •
fi vtro quiefciint, quietem perpetuo
iervanf, donec imprefla extrinlecus vi moveri cogantur, Sane abique inci tia omnis
mundanus corporum ordo, vel Iponte fua,
vel minima quavis vi deleri poflet. Singula Univerfi corpora inertia else,
quotidiana ^ edocet experientia. De
corporibus quidem quielcentibus, gg.
Newtoniani vocabulo inertiie alium
prsBtcr expofitum, fubdunt lenfum* vis nempe, qua corpora five quiefcentia, live mota
externis renituntur caullis iplorum ftatum live quietis, five motus perturbare
conanfibus. Hac vi, ipfi inquiunt, fit,
ut quarumlibet caudarum externas a6iioni
aqualis femper refpondeat, et contraria
rratlio. Hujus equidem effati
veritatem fingula motus phænomena tedatam faciunt, ut de ca nullatenus dubitare liceat. Atqui
non quod in materia illam comminiftamur
vim, ut prasfat* veritatis rationem
reddamus. Nimi* rum mufuis elementorum
viribus repellentibus, quibus corpora ad
mutuum, et mathematicum contactum
devenire vetantur 2p. ; optime
intelligitur, corpus quodvis in aliud incurrens, • ubi ad eam pervenerit vicinitatem, in qua
vires elementorum repulfivx fe exerunt, hilce
viribus urgere, et propellere illud in quod incurrit, unde flatus
mutatio in illo neceffano iuboriatur.
Similiter, cum repulfivæ vires elc
men quic perpetuo quietem
fervant, donec 'aliqua extrinfecus
illata vi deturbentur, nullum forfitan movebunt scrupulum Tyrones 3 non
item de corporibus ad motum aftis, qua:
ad quietem alia citius, alia tardius £ua veluti fponte redigi obfervantur.
Atqui fedulum ii fi infiituatit examen, deprehendent, corpora femel mota non
fua iponte, fed' externis obfiaculis,in
qua; continuo incurrunt, a motu defifiere, et ad quietem redici. Sane, quo
adcuratius illa removentur, eo diutius
in iuo perdurant motu ; ex quo faris
inrelligi datur i quod fi omnia adeuratimme
removeri pofscnt obftacula, perpetuo corpora in luo perdurarent motu.
Sed de his- opportunius in Phyfica.
mentorum corporis in quod fit incurfio, æque fe exerant contra incurrentis elementa,
pariter in iftius motu mutatio fieri
debet, et quidem in adverfam plagam. Eli
autem una, cademque virium lex in
omnibus elementis. duantam ergo (latus mutationem fubit corpus, in quod
fit incurfio, ex repellentibus viribus
incurrentis • tantam fimiliter patitur
hoc alterum ex viribus repellentibus prioris : nempe Uniuf aBioni iC^ualis femper efl, et contraria alterius
reaUiio. 34 Sed quajrent Tyroncs^Qui
funt inertia Univerfi corpora, fi horum elementa activa vi attractionis, et repulfionis prasdita
diximus? zg. Activa quidem funt
corporum elementa, fed ejufmodi naturas eft eorum vis, ut ex'trinfccus fe
exerat, non intrinfecus ; (eu ut ronnifi
acce(Tum, et rcceffum in extra pofita
elementa juxta determinatam diftantiam moliatur. Nullum elementum hac vi
ad motum fe unquam determinabit ^ ab
externo principio urgeri, et determinari
debet, ut directionem, et celeritatem
alTumat. Num ne omnes magnetem inertem fenfu lupra expolito 3 -. diciniDs ?
attamen alterum magnetem juxta certam
viciniam, determinatumque (itum agitat, dum et ipfe viciflfim agitatur, ad accelTum vel
recelTum mutuo fe determinantes. Itaque elementa, etfi vi motricc prædita,-
funt tamen inertia, utpote qux nequeunt fponte faa ex motu ad quietem, et e contrario, a quiete ad motum
determinari; (ed determinanda neceffario
lunt ab aliis elementis in certa difiantia pofitis, vel ab alia quavis
Cauffa. Singula Univerii corpora et magna,
et parva gravitate pollent. Gravitatis
nomine intelligitur vis, qua corpora ad datum punctum, quod ''appel latur,
tendunt. Ita corpora terreflria gravia dicimus, quia fibi relicta ad Telluris
centrum di, riguntur retenta autem conantur delcendcre vi fuse
mairx proportionali, premuntque dcorfum corpora, quibus incumbunt • Id ipfum
di, cendum de corporibus in' Luna,
Saturno, Jove 8 rc. exiftentibus,* tendunt nimirum, et conantur ad Lunæ,.Saturni,‘
Jovis &c. centra. Sane nullum
hactenus corpus conftitit, quod
gravitate fuse maflse proportionali non fuerit præditum (A). Nifi ita fe res haberet,
corpora terreflria ex -ipfius TeMuris
vertigine, vel ex quovis alio impulfu,
per immenfa vagarentur fpatia, neque
reciderent in Tellurem • Hinc Tellus
brevi, ex diflbciatis perpetuo corporibus,
minueretur, ac tandem evanefceret. Idem de Jove, Marte, Luna &c. dicendum.
Itaque Mundus in Chaos abiret corporum
undequaque pergentium. . ^* (rf) Ita quidem ad aniuATim res fe
haberet, fi Telluris figura fphierica
foret :. cum autem oftenfum fit a Recentioribiis Phylicls et Mathematicis,
Telluris figuram fpha:toldalem efse, elevaram nempe fub atquatore, et deprelfain
fub polis; id nonhifi quamproxime l«cum habere
potest. Sed alibi opportune hasc expediemus. (^) Lux, caloricum fluidum eleSiricum nullum
ha61 errus prxbuere gravitatis fpecimen J fed temere hinc quis colligeret, isthjc fluida omnino efse
gravitatis expertia., ' Sed et magna
Mundi corpora vl gra*^ vitatis 'fua
petere centra indubium eft. Nempe in
noftro Syftemate Iblari Planeta? primarii S'ol«m petunt; et lecundarii
primarios. Ira Luna Tellurem, Jovis,
Saturni, et Urani 1'atcllitcs, Jovem
ipfum, Saturnum, et Uranum vi gravitatis refpiciunt. Tum Mercurius, Venus, Tellus, Mars, Juppiter, Siiturnus, XJranus,
aliaque 'ingentia Corpora 'in Solem tendunt. Nifi enim^ yi, gravitatis continuo erga lua
ccntr.i Ibllicitarentur, nequirent curvas orbitas deleribere; Ijquidcm corpora curvas de[cribentia
continuo a rectilinca directione,
deflectunt, id qucKllbonte fua, line conamine gravitatis, nequeunt tfri. ccre. qy. Fit nempe tnotus curviliiieus, ut
Pby-' fici docent, ex conjugatione
duarum virium, quarum altera lingiilis
momentis recta lirgct corpus per
tangentem curva:, quam deferibit j
altera Vero indelinenter idetij lollicitat ad aliquod punctum in curvæ
area comprehenfum. Hauc'recundam v\vx\.
centripetam dixere ; primam vero tangentialem^, qox fi motus initio conlidcrari velit, proj e^ i uni s fibi vin
dicat, quippe quæ per projectionem corpori
invprefla intellegitur, ab externa Caulla. Cum atitem Secundarii erga Primarios, et Primarii erga Solem ita cieantur, ut arq^s delcribant
temporibus prop^ortlonales y hinc norunt Phyfici, v.im ce'nh-ipetnm indelinenter Planctas
Ibllicijantem ad Primarios dirigi, fi de Secunc|ariis loquamiir, ad Solem vero fi de Primariis.
Ambigi proinde non potefi gravitatem ad fingula.! no.
peditur, cogiturque fingulis momentis erga iilud immobile punilum
torqueri. Uaibus nempe viribus modo aj»I- >
rur corpus, vi imprefsa projedionis, qu$ per cur tangentem fe exerlt ^ et vi qua ad immobile
punitum per diftentam funem ' continuo
retinetur. Hic fecunda vis ’ typus est
et rniago iiljus,..quam ia Planetis dicimas )
vim gravitatis. ^, eoharent, frve' intime fommifcentur, aliis^
V^ ' ro non item. Eft vero duplex
affinitas, aggregationU^ nimirum, Sc compo/ttionis. Prima co* haslioniem particularum ^fimiJari-um molitur,
ex qua totum emergit undique homogeneum.
Secunda intimam parit unionem particularum diverfæ fpeciei, ex qua. totum
efficitur tertise fpeciei' omnino divcriæ,
quin tamen particulæ iUæ ob hanc
unionem, lua le exuant natura, ali^mque
dijverfam fubeant.Ita ex. gr. Aqua aquæ
cohæret 'affivitate, aggregationis, Acidum
fulphurieuna magnefiæ intime unitur affinitate cOmpositidHIs y' 8 c,cottl\itu‘n folphatum
magnefia, ( vulgo sai/anglicanum
),qii'vn acidum lulphuricurri, 8c m.ignefia naturæ lubeant mutationem* Si enim ^prsditio.iolphato. in aqua diluto
potaf» fam fupereffundas, ex prævalenti
affinitate potaifam inter ^ Sc acidum lulphuricum, mox fiet folphatum potaffiK, ( valgo tortarum
vitriolatum ), et reftiiUidtur magnefia.
Porro 'utramque affinitatem ad leges
cofmologicas fpc6lare, nihil efl quod dubitemus. Sine affinitate
aggregationis omnia corpora ffimilaria diffiol verentur, ipla adeo
univerfi moles. Sine affinitate com
politionis innumeras deficerent rerum
fpecies diverfas.* et omnia, quantum ex.
chemica analyfi 'hactenus, noffie datum? eft» faltem refpectu Telluris noftras,
ad triginta tres fpecies* materialium, combinationum redigerentur j et hasc ipfa, fublata
aggregationis affinitate, informem.-folutamque
molem exhiberent. Vires tandem vegetationis, . s lot
animalixationis fexta cofmolo^ica lege con-* tiitentur.
' Plantarum vegetatio foHs affinitatis viribus nequit expediri ; funt enim pjahf* corpora
A’cre • ' organica, viventia, et feipifa
ex femine reprodu* centia. In, viribus affinitatis,
aliifque 'fupra ex-* ^ politis, hon
inteffigitur fufficiens ratio' nec ve- ' ^ •.
getajionis, nec reproductionis plantatum ex femine. Similiter dicas de
animantibus, in quibus pra?ter vim affinitatis, 6c vegetationis, alia ' agnolicenda efl, t:^\xx: animalt 9 :ationis
nomine infignitur. Vires de quibus
hactenus haud exiflimandæ funt totidem di- •
ftincta: vires materiei iniit», fed totidem determinationes unius,
ejufdemquc viis. Ncfnirumvis ' a ftlmmo
Conditore materiei, elargita ejufmQcli,eft'effiqta, et intrinfecus comparata,
ut multi- '' ' plices modi^caliones ipfa
fuapte natura- fuheat.juxta diverfas circumllantias, et occaliones. '. Cum porro intimam hujufce vis. naturam
minime calleamus ; hinfc haud perfpicientes, qui unica illa vis tot diverfas jdetermi nationes
affumat, facile nobis fuademus, has. totideni diftin£Iarum virium efic
caracteres. Atqui funt totidem fpccies,
fcu. formæ, feu modificationes, .unius,.ejuldemque vis ex jpfa ejus natura,flu» entes. Sicuti qx. gr. vis ipotrix in
horologio.^plurimas fubiens modificationes ex mechanica horologii ftructura, multiplices gignit, ac
diverlos effectus puta hofarum, et.minutorum
oftenfiones, phalium lunæ, dierum hebdomedæ, • &c., quos infeienter profecto ex totidem
viri G 3 bus, leu clateribus quis repcttrer. Vis tamen mjii-^ntionis nequit ioii materiei tribui,
fcd potifiimum repetenda,eft. ab aiia fubfiantia ^ alius generis,, qua: materiei copulata illam
modificat,^ agit, ^ evehit ad ipeciem
animalem. ' >,,..,, Jllr De Mu fidi,
Materia crigir7e. * ^ 7" E te res
on^nes, quotquot de Mundi V origiite'
philolophati l’unt,li folos ’ excipias
Habreos KeVelationis lumine edo£los,
Mundi materiam' xternam, improduQam, " in» dependentem, a le ipl'a, et natura,fua
exiftentem poiuerunt. ('’ Epicurus, qui duplicem atomi* tribuit motum, rectilineum nempe ex
naturali * atomorum pondere 'derivantem,
et declinationi? alterum. 'Per inane'
fpatium "concurfantes atomi duobus
hifce motibiis in varias,*congeftjE 'for' mas niundum geriuere.Fere’ hanc ipfam
fententiami jam obfoletam in fcenam feproduxit nuperus Auctor anonymus’impii'
Syflmatis natura y qui ex «ternx, '& improductee- materiætiatura, ac
viribus (ut ipfe inquit ) fæcundiflimis,
Mundi machinationem, omniumque rerum feriem auf picatur. ' 4 ^. Orientales hanc coluere fententiam
; Deum aternum nempe, et actuofum
principiuni æternam materiem undique
pervadere, Sc cum ci intime commifccri.
Hinc iners materia to G 4, lius d : tius ordinatilTimi mundi, Hngularumque
proH^ 'ctionutn fascunda fit parens. At
Xenophanes eleaticæ fectæ inftitutor
abfurdam hanc fentelJtiam abfurdiorem reddidit, ftatueos unicam in Mundo exiflere iubffantiam asternam,
immuta, 'bilem, immpbilcm^ tura unica?
hujus rub/lantise diverfas^ effe
modificationes quotquot diftincta,
&’diverla Entia cernimus. Hoc paradoxon arripuit Benedictus Spinoza,
quod geometrica methodo exponere -fibi fuafit. Docuit itaque upi-cara effe
lubfiantiam actuofam, fimpHcem, in„divif]bilcra*f et infinitis prasditam
attributis, quam tum Deum, cum materiam,
appellat » De'indtf ex duobus ejus effentialibus attributis, infinita nempe
cogitatione, et infinita extenfione
omnia effe 0nfiata. Nimirum interna- unicas hujus rubfiantia? actuofi^ate; Sc natura;
neceffitate, in varias, diverfarque evolvitur modifiqata^ nes tum estt^nfio, tum cogitatio:
ExtenO^s ^modificationn funt quas
appellamur corpora, cot • gitationis
vero, quas funt entia cogitantia ^ $iicUti'..cera, quas.li interna vi agitari
ponatur, -io, vatias abeundo
modificationes, varia poteff. figilla exhibere. Abfurdiffima haBc fententia
Pan- ttbifams audit, quippe ^uz confundit Deum
cum Univerfo.. Xns aliquod aternum natura fud neceffititte ' exi
flere ^ indubie demonflratur\ tum ejus '
pracipui carActeres expenduntur. . ' r- » $• * aliquod 'aternum exiflere, ^ quU dem fua necejfitate natura j, inter primas veritates qua: fponte fua cuiHbet ?- Equidem hæc veritas adeo per fe conat, ut ii
ipli, qui de Divinitate peflime fenerunt, nec negare aufi fint. In
determinanda natura hujufmodj Entis
ajterni hallucinati funt, vel ex cordis
malitia aberravere / fed aliquid
aJtcrnum exiftere, omnes convenire oportuit. Nec leriem cauffarum in infinitum commimlcuntur,
et ipli fuifmet doctrinis aliquid æternum
exifiere revincuntur. Sane hi creationem ex nihilo impoffibilem ftatuentes,
nomine feriei caulTarum in infinitum
nihil aliud intelJigere poflTunt, quam infinitam feriem generationum, et corruptionum.
Materia igitur, qu» iubje£furn efi harum
generationum, Sc corruptionum in infinitum, aiterna efl, Sc improdu-cta.
Coguntur itaque aliquid atternum, et improductum fateri. Atqui caracteres
hujusmodi Entis, quod' æternum e/l II.
j&wr, quod, fua ruttura-.necejfitate exiflit, omnibus 'pofftbillbus
realitatibus., ftU perjekfionibus gaudere debet, et quidem ipja fui natlurd feu
effe infinite, per feBum' extenfive, ut
inquiunt, intensive. Id quoque cuilibet ingenue philofophanti'^
evidentiflimum- eft, quippe- nihiLnobilius, nihil excellentias ifta,natura excogitari poteft. At juvat metaphyficai^i
demonftrationcm adferre. In Ente natur*
fu* neceffitate exj (lente.. • ’ ' nulla
nec efle, nec concipi potcft.ratio eccur aliquam a fe excludat entitatem, feu
perfectionem. Nulla Entitas concidi ullo pacto. po* teli, qus natura fua litpitem expofcat, Se
quam tranfilicndo fiat non Entitas^ vel
cfetrimentum aliquod ptiatur. Riirfus
nulla veri nominis, et pura Entitas
alteri puræ Entitati repugnare. poteft,,,- earaque fe excludere. Igitur fi
Ens naturæ tfuæ neceffitate actu non cft
infinite perfectum;, 8 c inten/ive, nihil vetat per fici in infinitum poffe. At
oftenfum eft præc efle intrinlecus
impoflibile, Ens natura; fuæ neceffitate
exiftens perfici pofie. Igitur de- ' bet actu effe infinite
perfectum extenfive, inten/ive, » 54. Cum inter nobis notas. perfectiones præcipue emineant Sapientia, Bonitas,
Patentia, quin hifce gaudeat Ens «ternum, ambigi nulliraode potcft, atque adeo effe
beatiffimum. III.
£«r fua natura neceffitate exl/leht
debet ejfe pbyjlce fimplex. Ens quodvis, compofitum eft natura fpa
mutabile : eft enim intrinfecus poffibile, fimplicia componentia alium, atque alium nexum affumere poflfe, unde.
Ens compofitum, quod inde conflatur,
fiat plane diverfum. Sed Ens fu« naturæ
neceffitate exiftens eft intrinlecus immptabile 51. Quare Ens naturæ fuæ neceffitate exiftens debet
effe phyficc fimplex. Deinde Ens phyfice
corapolifum pendet a componentibus. Sed quod,fu«. aaturac neceffitate exiftit cft^ independens
• igitur Ens naturæ fuæ neceffitate e:nfteDs debet effe phyficc iimplex. /» materia originem inqdiritur^ eamque ex
nihilo conditam vi, &" potentia
fupte>ni Na'minis inviæ
df”^onJlratur. > • 5 ^* Entis «terni,
fu* neceflt X tate naturæ exiftentis expendimus
caracteres ; hos modo materiæ referamus, ut pateat, fi pro huiufmodi Ente haberi queat :
Bru-' ta materies, muItiplex'^,
generationum, et cor* ruptionum fe
mutuo, et perpetuo excipientium,
fubjectum, obftipa, iners, innumeris obruta defectibus, natur* fu*
neceifitate exiftit, atque adeo
immutabilis eft, unica et fimplex-, perfe- o
ctiffima beatiflima, infinita fapientia, potentia, ^ bonitate pr*dita.
Quid ! Cujus, h*c talia componendo ^
Mens non horret, Sc immanibus non refugit abfurdis ?, Quisquis equidem, ut ut
levem rationis particulam fortitus eft,
vcl ipfo primo obtutu agnofeit, ifth*c e genere cffe circulorum
quadratorum, tringulopum rotandorum. Materies igitur, 'ex qua Mimdus 'hic- ' ce coalefcit,, nequit e(Te Ens *ternum,.
natura fu* neceffitatc'exiftens, et improductum.
Quare furentem hic potiuf infaniam, an
fummam impudentiam demirer, nefeib, Au- '
ctoris anonymi Svflematit natura, nihil fef-. futire dpbitat, materiam exiftere
necelfario,-ipfam fu*, exiftenti* fufficientem continere ratio- nem. Certe ex
Petro Baylio ipfi non furpecto Auctore
edifeere potuiffet exiflentintn necejfariam, ce« r D 'convenire pojfe fulfflanthe ( kilicet
materui, de'qua fermo eft ), qits
catcroqmn' onitfia efl \ et »>ieiique prentitur defeSibus, et imperfitiionibus, id efl quod evertit evidentijftmam 'notionem,
nimirum Ent abjolute indspendens, et aternum,
effe debere infinite perfeSium.Difi. hifl. art.Epicur. liem. T. '.,
58. Sed quibus tandem rationibus fuader»
^utat profanus homo’, materiam neceiTario exiftcre, ipfam* Tuæ cxiftentiæ
fufficientcm rariorem continere ? Supponendo rnatcriam ( ha;c ha- 1 bet ) produElam y aut creatam ab Ente ab
ipfet dijiinilo^ ipfaque ma^is incognito,
oportet Jentper dicere, hujufmodi Enf, quodcumjue tandem' fit^ neceffarium jtffe, feu in fe continere
ca' dinem, eoncentum, quibus furrima et pulcKet*rima
Univerfi harmotiia, flabilis et ornatifTiina magnificentia cbhtinetut, nequit
latis admirari; Omnia fummo confilib, fummaque ratione ftatuta deprehendet /
fingula tum maxima, cum minima, numero,
pondete, et menfura conflare, ultra quam
intelligentiflimus quisque adlcqui
potefl, quam facile intelliget. Quum
itaque omnium quz funt, vel fiunt, nihil fi* ne fufficienti ratione fit vel fiat, •
prohuiri eft intelligere tyitam, tamque
rhirabilem machinationerh j non atomorum.iiullo confilio, nullaque ratione
pergentium opiiS effe, fcd Mentis ^
lumma fapientia, fummaque ratibhe utentis * tiic e^o rion tnirey, elegantiisime Tulhus fi
Tu de nat. Deor. c. . effe queitiqudm,
qui (jbi perfuadeat ^corpora quadam
foilda, atque indruidua, vi et gravitate feni, mundumque effici ornatifftmum, et pulcherrimum ex eorum cor
porum concurfione fortuita^ Hoc qui exiftimat fie• fi poiuijfe , non intelligo,
cur non idem putet, fi innumerabilei
unius et viginii forma literarum vel
durea, vel qualeslibet, altqUo conjiciatur,
poffe ex his in terram exuffis apnales Ennii, ut deinceps poffint, effici ‘ quod nejcio,
anne in uno quidam verfu poffit tantum
valere fortuna. 6^. Sed ajunt in poffibilibus atomorum combinationibus,
hape, qua priefenS Mundus conflatur, contineri. Quid ergo mirum’, atomos per immenfam æternitatem hac et illæ
concurfantes -, tandem aliquando in prafentem conformationem deveniffe ?, . 'Non heic ?qu4ritur j utrubi in possibilibus
atomorum combinationibiis, -hæc, qat* præfens
mundus conflatur, contineatur. Nifi enim
contineretur, hiud præfens Mupdus condi
potuiflet. S^;d illud inq^uirimus, an przfens atomorum conformatio, per
cafum et fortqnam, ut Democrito placuit,
fit poflibilis ; vel. per ipfa« rum-
atomorum naturale pondus, vfrefque, ut
Epicuro adrifit. Et sane primo vellem, fedoceret
Democritus, vel quisvis ejus fectator, quid fi. bi velit hujufmodi Cafus\ 8 z., qua du ce,
atomorum facta efl concurfio ? Equidem me
non intelligeVe fateor, fatenturqu^ omnes', queis cor fapit,* iifcilicet
verba funt inania', quibus 'nulla
iubeft. notio. Tum atomos Jeternas natur*
lu* vi exiftentes abfque lege vagari, et in-, vicem concurCari, fecum ipfum pugnat. Siquidem
h* atomi' nonnifi ingenitis viribus, et naturæ fu neceflitate cieri poffunt, fi
- quidem moventur. Deinde cum nulla
omnium Iit origo, tum par natura, et.neceflitas, iingula' eadem directione, et celeritate
profecto concurrere debent. Quid vero five n\onftruofi, five ordinati
moliri queant atomi commetoi directione, et celeritate percit*, equidem non video.
At"qui plura in hoc adfpecpabili ‘Mundo funt centra, circa qu* magna
revolvuntur corpora :'tum> horum.
fingula totidem funt centra minorum
corporum : nec non vegetantium., et animantium elementa diverfis motibus
cientur / finguJi tandem hi motus certis, fummoqUe confilio ftatutis legibus perficiuntur. Non ergo cafu
j et fortuna, neq^ue c*ca nattr* fu*
neceffitate’ in ordixiatiflimum fyftema
coalefcere potuerunt ^ H 2 Sa ilapienter Cicero de nat. Deot. c. a, »nim hunc hominem dixerit, qut cum tam
certos eali motus, tam^ ratoi aflrorum
ordines, tamqut ’ om§^a inter Je
conjiexd f apta viderit, neget in his
uUam inejfe rationem ^ eaque cafu fieri di* . eat ^ qua quanto eonfiiio
gerantur , nullo eotfiUi affequi
pofiumus ? ^5. Hujus argumenti t-obur
optime per* fpexi^ Epicurus, quod
effugere fibi fuafit duplicem atomis tribuendo morurh j fectiilneurrl unum fcx. proprio, et naturali pondere
derivantem ^ declinationis alterum (c) Hifce viribus* perfeverabunt quidem Pt
anet a iif fufs orbitis, fed nioturn
ipchqara rrfinitpe ppj^tergnt.* Yi;
Neyvt, Ppif nat. Sch. geq,,. n ^
hacjeiius e^^pofutrous jabunde patet, nonnifi futnmi. et intelligentiffirrti Numinis confilio, ?tqiie potentia brutam
matc^ri^m in elegantiffirtium ordinem ' congeri potuiffe, 8c prjefenteni
ordinatitemurn Mundum conftitui Scilicet ille ipfe n^ateriaj Conditor
omnipotens eft. Abundi rapientiffunus Molitor, et Artifex • Spinosa Syflema abfurdorum et contradi&ionur^ effe.cumti/urri, ojtettditur. d8. I. T^TNicam in Mundo dari fubftantiam
fimplicem, et individuam caput eft
ipinoziani fyftematis. Id vero adeo
falfum eft, quam certum innumera efle corpora^ 3c hæe extenfa efte, et jdividua. Sane sive
extcnfio pro fnbftantia. habeatur j ftve.pro fubftantiæ attributo, five pro
ph^nomeno e plurium fubftantiarum
coexiftentia derivante ( id quod) nobis
arridet ), certe corpora non funt unica, et fimplex fubftantiaj fed.tot» fubftantiarum
con-,. geries,, quot funt partes
realiter diftinctaz in quas phyfice
refolvuntur, ''vel,refoIvi tandem
poflunt, • Juxta SpinoKatn,
fubftantia hujus Mundi.uriica eft, et fimplex,
quæ tamen inter cætera oftentialia
attributa extenfipne fit prædita. Porro
extenfionis natura fimplicitati opponitur,
id quod norunt Omnes : tum, eflentialia attributa -non funt quid a rei
efientia, et fubftan • > t • tia
quot in decifi? habuimu? mpojjihih ejfe j
/intui ejfe, et no» ejfe. ’, Sicuti unicæ, et fimplicis fubftan*' tia utpote extenfe diyerfæ funt
modificatione? Vni verfi corpora, ita
ejufdem fu.bftantjæ utpote cogitantis diverfse fupt ippdificationes, quot ppyimus Entia, cogitantia, Facile
intelligunt H 4 / Ty («) QuO. tempore
cer® frustum fpsrica ex. gr. - figura ptsdirum agnofeirnua, cubica, conica, vel
alia quavis llmul affici adeo ration; repugnat, ac unitatem efse mil- > lenarium : proinde fi 'quandoque plures
intueamur diftinT ftas diverfafque figuras,
protinus nulli dubitamus, totideni
dfftinftis, diyerfifque fubjedis, leu fubftantiis illas adjudicare, ,. Ty/ones.hoc fecundum* ejufdem fiufuris cflTc, ac illud primum, quod pra:c. cxpofuimus. Itaque prselertim "vero Unica, eademque
fubftantia cogitans Igjta erit et triflis ; volens et nolens idem : amore et odio idem fimul profequens objectum ; approbans et reprobans &c. Hxbreus ira mq^us, et Spinozas cultri
ictum infers, ipfe idem eft Spinoza ciolo-r
rem^-^perferens, et fanguinem ex vulnere emittens. ' • 71. V, Tandem, ne diuturniori mora in hoc abfurdiffimo confutando fydemate
aliquid honoris eidem tribuere videamur,
in memoriam revocemus, materiam, feu
fubftarttiam hujus Univerfi, fubjectum e0'e infinitarum viciffitudinum, perpetuam 'gerere feriem 'generationum, et corruptionum,
perpetuis prtmi collifionibus, et op»
pofitis agitari viribus. Nil profecto ea vilius et deterius, ut ita omnes Philofophi
veteres prope nihilum eam pplucrint. At eamdem divi'na conflate natura,
perfectiffima, ik. immutabif Ii Spinoza
edocere audet. Tegatur Bayliu? erit.
art. Spind?a i \. De neau omnium Mundi Caujfarum ^ ^ effe6luum : ubi de Fato Juxta Philofophorum
placita dijjferitur. "VTIhil in Mundo cafu, et fortuna ' J.\| fieri, nec immo fieri poflTe, in» ter primas cosmologicas veritates
reponendum efle, Nemo, cui cor fapit,
ambigere poteft. Omnia fane fuis
fufficientibus rationibus, cauffarumque nexu contineri debent, fi ex nihilo
• nihil fieri pofle conflat, nihiique
cfie fine fufficienti ratione. Confer ont." 10. Sapienter Tullius nat. Deor. 1. i. c. 4. E/l enim
ad^ mirabilis qutedam continuatio,
fericfque rerum, ut alifB ex aliis nexa,
et omnes inter Je apta,,, ^ colligataque
videantur. Cujulmodi vero fit hif '
Cauflaru'^, et effectuum nexus, expendere modo juvat ; tum Philofophorum
de f^atp fenteq», tias ad incudem
revocare. Dt nexu omnium.Mundi CauJfarunj, et effectuum. * /^Uotquot Cauflas in
Mundo noviy mus., ad duplicenv cladem recen fend* funt ; aliai fiquidem
cogitatione ( ad intimum confeientite fenfum appello j ^ ali% fola VI raotrice
agunt •, ( quotidia* nat njB id edocent
obfervationes ). Atqui^, confcien tia teftante, cogitatio eft actio ipii
cogitanti rei immanens • motus vero,
experientia edocente, eft U'an(iens. Drverfi ergo generis, diverlis-;, que
naturæ habendæ fu n{ Cauflæ cogitatione, et CauflTæ vi motricc agentes, Equidem
alibi opportunius oftendemus
cogitationem non polTe motu abfolvi,
adeoque Cauffas fola vi motrice præditas
non pofte cogitationem parere, Curn ergo,in
Mundo motum, et cogitationem agno,
fcamus,' duas diverfi generi? cauflas popere co» gimur,
, CqufTæ fola vi motrice agentes ad
materiam Ipectaiit, At materiam fiputi vi rno* trice’ præditam, ita.& inertem efte, fuo
loco oftendimus §. Quotquot. er^Q e
materia? viribus gignuntur, juxta
earumdem virium mo* tricium legem
efficiuntur, neque Jili^S ac pro->
deunt, fiuntque, per materije vjres fieri, ac prodire poflTunt, Revera hujiifmodi lex,
quat^ tumque tandem ea fif, certa eft,
ac determina-» ta live enim has vires e
materi^ finu, na« tura emanare putemus,
et erjt earum lex certa 3? determinata,
ficuti certa. v determinata, ^ ex feipfa
immutabilis eft materias natura ; fiv?
ex Conditoris arbitrio illas vireq materias contingehter convenientes
inditas, effe prbitremur, Sc neque modo
poferit materia ex feipfa ilH? exui, vel
eaffiem ne minimum quidem m^difi’ care j
quippe qua fubjectum mere paffivuna
nullis agitur aliis viribus, præter quas Condi-» tor indidit. Materia igitur fuarum virium
le-» gem, ac naturam perpetug feqwi
debet, neq^uq . >, ii3 vel minimum
reniti potefl : atque adeo quotquot ex ea gignutur, fiuntque, nequeunt aliter
gigni, ac fieri, q 6. Quff cum ita Cnt,
facile perfpicitur, quod pofita pro
quovis tempore determinata, ac certa
elementorum coexillentia, quod deinde'
gignitur, phyfica neceflitate ( a.virium motricii um lege, et e materiie inertia derivante )
c procedenti rerum llatu tale genitum
eft, neque alias gigni poterat. Hoc
autem quod modo ge. nitum efi:, undique
determinatum eft tum reIpectu elementorum quibus conflatur, cum reIpectu loci,
et temporis, feu refpectu ad nexu rn, et politionem coterorum corporum, quibus
fti-^ patur. Qiiare quod fecundo hinc,
gignetur, rurlus certum erit, ac determinatum, et phyfice neceflarium, ficuti certa et determinata eft
corpot um mutua complexio, horum materiæ flatus, et nexus nec non phyfice
neceflaria vi. rium motricium lex. Et
ita deinceps in con. fequentibus
generationibus - Nimirum quivis
elementorum materiæ flatus gravidus eft lubfcquentis, neque hic alias
prodire, per miateriæ. vires poteft, ac
revera prodU : ut adeo, fi quis«^ vires
ipfas, earumque legem adoquate nofceret,
tutn «elementorum numerum, eorumque.pro quo-, vis tempore coejiiftentiam calleret, et ad
calculum adducere fciret-, is fingulos confequentes effectus," ac futuros eventus in
anteceffum edifferere poffet. Cum ex dictis quævis 'generatio phy^. fica neceflitate c præcedenti corporum",
et materiæ ftatu pendeat, nec non virium motricium le
V» ,\ lege; fi cogitatione ad Mundi uique
prlm^rcll^ afcenclamus, facile nobis
(uaclebimus, Unl-vtrfum, reJpeBu ad
folam materiam habito, nihil e[pt aliud,
'quam eertum ordinem neceffariant Jet
viem cauffanan, effectum, perpetuo, ac nsi cejfarto fe Cdnfrquentlum ^ Hiec aurem feries haud gutanda eff abfolute neccfiaiia, ut ita non potuerit alia
effe, ab ea qua: modo efi:, aut femel incæpta abfolu* te nequeat modo, vel in pofierum,
commuta^ ri/ vel perturbari. Cum enim quælibet
genera* tio, fiatufque materiei pendeat
o prascedenti, 8 $ rurlus hic ab alio
antecedenti, et ita porro i nequeamus
nutem in hoc progreffu ad infinitum
afeendere, confiUerc tandem debeiVius in aliqiia Caufia^extramundana asterna, vi «fuaj natura
exi* ftente, ctiju* imperio, et voluntate.Materies
primum nexum, primamque conformationem fufeaperit. Series itaque ^ et ordo
Caudarum qtfali^ modo exifiit, non
abfoiuta neccffitate exiflh ^ Je4
tantur,} hypothetica, cx hypothefi n?mpe, quocj * Cauffa illa extramundana talis fiuie feriei
exordia fua iibera voiuntafg conceiferit, et non alia, ^eis omnino diygrfe confequuta fuifiet
Cauffarum, effectuiimque feries. Id rurfus intelligi datur ex co, quod- neque
materies improducta eft. et æterna; vi nempe 'fuz naturas non
exiftit 5utr 2 Equc in fe mutuo agere, queant j,hinc eft, ut
altera alteram quamlæpc- modificet, ut
ita rerum fe* ries, ac complexio, quts
modo in Vniverjo pergit, aliqua Jaltpn fui parte diverfa ab ea sit, qi4‘^ pergeret, fl nihil in fe mutuo Cauffte
ilLt' agerent, atque infiuerent. Sane v^. 8i. Humanos Animos non ceeea libidine, abique ulla omnino fufficienti ratione
feiplos / cie. il 6.
tierc, et ad agendum determinare, intimus cori« Icientiæ lenius abunde edocet. Fon-pis
nempe rerum, quas ali^iiam boni, vel
mafi fpeciem exhibent^ ad ^t^eiulUM
excitantur, atque alii ciuntur. b«
formas, quibus animus afficitur, a
corporis fenfibilitatf, et temperaftiento, l'enluum valetudine > et tiatura
objefforum- fenfus percellentium»
pendent. Tum confilium rationis, quo actio vel non actio decernitur, ex praScedenti animi flatu |,feu habitibus, et ideis adhuc pendet ^ habituS vero, et idcifi ex
corporis, fenluumque temperamento’, et circumllantium objectorum actione rurfus
conflituuntur, vel modificantur. Cum pofro corpOris fenfibilitas, et temperamentum,
lenfuUm valetudo, et circimvftantiuni
objectorum natura e necelfariis Mundi
Cauffis pendeaht j liquet inter ipfas Hominum æfioheS, et phyficum Mundi
ordinem nexum aliquem interefTe ^ 8»; Hic autem nexus, quod fedulo
animadvertatur velim, et multiplex efle potefl,
eo quod multiplices lunt cauffas,* quas in nos agere poffunt » et nullus eft indeclinabilis,
ac necefiarius.* id quod intimus
confeientiæ fenlus, et noflraram actionum experientia lat lu« culenter ollendunt k Sane formis rerum non
rapitur animus, utcumque percellatur etfi validioribus formis animus concitatus
ad agendum, non cogi fe luculenter
animadvertit, et adhuc retinere
facultatem deliberandi,_quin immo a
facta deliberatione, et ab ipfa jam fufeepta ^actione d^fiftehdi, et aliam ‘quamlibet
edendi. Merito Tullius tuse. p^.l. i. Ck
23. Sentit ani. - / mus tif,kttts' fe
y idque dum fentlty illud i jt*a non aliena moveri. Accedit,, quod quandoque datuttt pecullatem nexum
Ivuraanas inter actiones, et fenfationcs ofrinino abhimpimus nulla alia ratione
perciti, quam ut noftratn ' experiamur
libertatem ; mus contra id quod temporis, rumqUe circumflantij^, et ipfaS fenfationes
exigere videntur. Datur itaque nexus inter hominum actiones phy/icunt Mundi
ordinem, fed efusmodi, ui illum
moderari, fleflere^ determinate i abturnptre ^ tutn iterum tejlituere pro arbitrio pojjimus 4 \ t Sicuti
humanz actioneS^cum neceffarlis Mundi cauffis connectuntur, ita materialium,
Cb* necBfJariarum Mundi cauffarum series
in aliqua sui parte, perturbari, nioderari, et fieBi pote/i Cauffarum 'liberarum labitu, O'
providentia. Cum enim omne id, quod materialium cauffarum viribus gignitur pro
quovis tempoVe, e ftatu prxcedenti
pendcat . ftatum autem harum materialium cauffarum
perturbare, & cOmmutare perfajpc valeant Caulis liberæ fuO confilio, et providentia pro
peculiati faltem locO, et tempore ; quin, fimiliter futuri confequentcs
effectus prafepediri, perturbari, et commutari poffint, nemo^profecto non intelligit. Ita fulmen, quod neceffatiis
Mundi cauffis e nubibus excuUum regium palatium labefactaret, ibique degentes
ertccatet, humana poteff providentia avertere,
fi Opportunos adhibeat conductores 4 Agrum a i .puta,
cum agi' loci, obiecto tis •
'dOSMpLOremum NinSm res omnes zterna, et immutabili • lege, nullios^ei {labita ratione,
dccrevrfle docent; neque proptercSf qui^pian\ a/nobis libere fulcipi pb^e. Tertia cJaflis illos
complectitur, Djeum fapienter, quidem-.
verum.fataliter ac necefliirjo re»
omnes' hujuS Univerfi dilpo • fuilTe fentiunt, Sc ex hac-, conffitutione
omnia quotquot {in Mundo 6 unt,
neceflaria et perpetua ferre, proficifci.
At quia fati AflTertoresv divtfrfas,.
quo 'quifque fuarVi fentehtiam conft^i-liret, femitas freflerunt i
klcirco hon pigeat prxcipuas' .exponere, jc evekere ‘ vv. •- 'De Fat^i Democrifiip • ' ' Democritus (, e ‘quo fetura quod demoeritkum
dicitur nomen fufcepit) nihil aliud.'
prxfer innumeras^ atomos ihcreatas, Don fuerunt 'confequut*, hinc negatum drju ; nempee collapfi ftmt, . • -I
'. > ac • f. ac diflbluti finguli ijli veteres Mundi.
Pofiremus tandem omnium emerfit hic adfpeflabilis, et iple
poft* fæcula diffblvendus. In hac itaque.
•fententia% cum nihil præter brutam niateriam neceffitate fuæ natura? percitam exiftat/
'omniaque fingularia Mundi entia neceflariæ fint illius modificationes, immite, et indeclinabile
fatum. omnia agere perfpicuum e!l. Hoc
fatum, quod, phy ficum alii appellant, definiri potefl ; Neceffaria, et bruta
feriys omnium Mundi cauffarum, • atque
effe£luum e natura, Sc neceffitate bciitæ
materia; -manans.,. ! •
Monftruofe hujus fententiæ refutatio
longa non indiget oratione* cfl ea quippe con» geftus abfurdorum. Nequit
materia effe increata /e^.II.Nequeunt fola; materiz vires ex ejys 'finu emanantes ouklinatiflimam, et riun-^ quam fatis admirandam Mundi compagem moliri.
et feq. III. Praster maieriam aliæ alius, nalurte fubflantia; cogitatione,
&• libero, arbitrio prxditæ exi'lunt..79.
et feq. Equidem hujus ffntentia;
abfurditatem Epicurus, atomorum
cacteroquin feftatpr, agnovit ex’ ea
parte, qu* humanam lædit libertatem,Quare illam emendare conatus’, atomis
tribuit declinationis, motum, qui nec
certo tempore, . nec- cerfa loci regione eveniret : ita nimirum abfoluta, et indeclinabilis neceffitas a
Democrito* indufta abrumpi opinabatur. Hanc rationem ( declinationem fcilicet atomorum )
Epicurus induxit ad tam rem, ne Ji
femper atomus gra - ' vitate ferretur
natural'i ac neceffaria ^ nihil liheram pohis effet, cum' ita moveretur animus,
ut atO" >morum motu. cogereturvTuUiuti de' f^to
c. 10. At quain vaBum, et inficetiira,fit
’ hujufmo 4 i effugium, nemo non videt.
Cdnfulatur 6 $. 1 ^ ' De Spot(orum-Fato
y.,« ' '>» •..... Fatum Sfoicorutn vulgo 'definitur,
"ine* Juftabilis, ’ac.neceffaria
rernn* omnium’ lefies.ex ne^efTaria,& immutabili -Dei voluntate •edo»
' ftituta v. fiuc ulla, ad hutftanam
libertatctn accomodatione., ' ‘ ". ' §• pi- Quid fati homine,fibi
voJue'rint- 5 foi^ ci, res eft
perobfcura adeo: quam «nequiverint
haflenus Eruditi extricare ; id quod- partim ib' lit« bujus Se£la
diirentiohi, partim' locUtionir bus
nefeio quid poetici, et erophatici continentibus tribuendutfi videtur..Te«erzfignificatioriem,
Itaque futurorum eventuum præfagia in
ftcllfs contineri, dicendum » . §• 91- quam, futile ifiud.fit, nemo non
' videt. Sane non minus infeite, quam
arrogan*. . ter cogitari potuit I. Deum caslefiia figna, nonntJfiris propriis
commodis infervienda condidiffe. II. Cum confequi non valeamus quam utilitatem illa queant nobis afferre,
temere,^ incogitanter*colligitur,ad
prafignificandos futuros eventus confiitufa/& difpofita fuilTc.Num- • ne pluri maraim^ rerum ad ipfam tellyrem,no^am
pertinentium, quasque proprius nos fpectar^ putandæ fuiit, fines jiro^ynios
minus ex. Plo-. I. ij 5 ploratos- habemus? Certe quilibet fans
Mentis libenter affirmabit, plurima
npftram Ip^Ure utilitatem, pofle,. quin
refciamus modum, ratiorfemqtie calleamus. IU Atqui lunt P^netas totidem incolarum fedes non lecus ac
Tellus iioftra, qjji omnes circa Sokm,
tanquan^ commune centrum, torquentur 5.
Sunt ve-. ro inerrantia fidcra totidem
Soles, nempe centra filorum Syftematum planetanpru.m tbid. Sid de his in phyficis opportunitls, et copiolius. " oS. Q.uarn vero fatuum, atqye
commentitium putandum lit iid ^ ^,
oftendunt. I.. Nulla phyfica vi hominum Animt cngi-poffunt ; folis illi percientur formis,
nettipe boni, raalique notionibus; tum neque iftis rapiuntur, nec indeclinahiliter Heauntur 79. et 8z. II.
^ quam lepida \ enim ef^, ^
' fe puto ntft pueroi, qui ad
globos i Hos terraqueosy aut igneos hac ferio referant. Omnem ve- • • ro leptditatem Juperat, quod, infani
ampoflores prcedicant, quum ingenium
nojlroritm animarftium Artetis,Tnuri,
Leonis, Capri, atque id egenus altorum
calejltbus conjlellationibus, attribuunt Cui. Calum, Plancta, Stella fixa vel
mediocriter nota fuerrnt qtiam ifibac
perridkula, ac putida videri debent. Ego vero nefcio, cur marmorefs fignts •,
quibus aut homines, aut animantia ars
humana exprimit, non. fimilher mores nofirosf aut brutorum animantium tribuamus}'
uint.Gen. el. metaph. tom. i. SchoU
prop. iSp. Atqui in fnajodbus ‘Univerfi
corporibus univ^faJem, et mutuam vim
agnovimus, qu* gravitat/onis vulgo
dicitur! Hac equidem invicem Jntcr /e' agere queunt, et generati^um
feries', quas fingula illa geftant,
invicem modificare.* f atemur
uniyerfalem. 'gravitatiobem corporum '
Umv^rfi ; fed nihil iftha»c fententiie adverfariorum favet, quin immo
eam evertit. I. Hjec vis corporum efi,
et in corpora diffunditur / fpiritus nullo pafto attingere poteft. II.
Novimus' Illam fequi maiTariim jlireaam,
et diftantiarum duplicatam inver/am
rationem ; fit profero hmc, ut fi
Solem,& Lunam exceperis, cztc. rorum
planetarum nulla cenfenda fit in Tellurem a6lib.*quid porro inerrantium
fiderum? De i Soleni &. luminis emiflione, et vi
attraftionis in 1 ellurem ^^gendo quam
maxime tprreftres genorationes,
corruptionefqiJe mqderari, res ell, qua omni dubio caret. oimile regimen
Lun* attribuerunt Majores poliri, De ‘Fato pantbeiflkq. ')•
100, Fatum panfheifticum, fivc Spinozifti» cum eft tcrum omnium neceflaria, et immutabilis
feries ex ipfa-Dei natura per eflcntiajera
emanationerfi neceffario prqfluens, Nempe hu'jufce fati
aiT^rtorCs^^micam exiftere fubftantiam
ponunt,- quapi Deum "appellant, sujus innume» » raj fiint modificationes quotquot Entia
Mundum^confiituunt ; ‘has’ vero modificationes, ca rum
ut 'adeo fuerint lunarium’ phafiitm diligentiflfimi pbferva-' tores : tum Gomeras, rrialorum' colluviem in
Tellurem fiV» pfjefagtentes, fiv% afTefent;ps,-habebant, metuebantquie 'cane pe)us, angue.. At ex Kecentioribos
'plures utrarnque feritentiam,
prayudicii redarguentes ^ ludibrio. V
exceperunt. Quid, fentiam libere edifseram,
I.. Qui' lunarem influxiun abfolute inter præibdicia amandarunt, fatis animum non intendifse.
videntur in rnaris, aflus, qui Lunie
motui circa Tellurem a.d amuflim,
refpondentes, ex'ejiifdem attraftione in aquas ufque maris protenfd,,
einni procul dubio repetendi. videntur.
Quod fi ita fe 'haber, non video '«ccur ipfius l!uns vi ne-. queat
terreftris atmoiphiera; alternas’ pari viclfiitudines.Cum vero e ftatu ^ et conftitujione
atmofphaiftE pluri, muin modificari
queant, qu£E in nofira Tellure fiunt ptodufliones, prpfeflo prono veluti alveo
fluit, Lunas, vim. phyfiers
produflionious aliqpid conferre pofse. Revera
ærrefirem afmofphteram hmx vjjn peffenrifcere ex teorolqgicis obfervationibus Gl. Virorum
Abbatis Frlfii,• et Thoaldl, aftronomias Prpfe.fsoris Patavini
conftitit ; ut 'adeo nondifi ex
prsjudicio fententia luparis influxus
abfolute inter ptiejilQicla recenfita videatui'. Deinde, etfi me tniniinfe lateat, Lun$ plena» lucem
cauftico fpeciilo coi- ' lectam nullam
in mobiliffimo thermometfo mutationem
afiS»rr&, tamen hgud confedum videtur, lucepi e Luna ih '. '. T-el
e / iigS. '
rumque feriem ex 'ejufdern.unitæ fubftantije na- ' tur^ effentialiter et neceflTario fluere. •
V-ide. 46. Hujufce fcediffimæ* labis
parentem -faciunt Xenophanem Eleaticæ
IcftjB Principem, quam. de- • Tellurem
repercufsani nibvegerantiiim, et anlnianfium cecononliæ pri/lare pofse : nam
rhermometrum nonnili r«/or/c/ liberi aclionem ollendere, et metiu poteft; at
novimus, lucem aliud onmino efse a calorico, et jaluHmum.conferre vegetantium/,
et aniluantium phyli, ac' fedenus
credidimus. Nolim' vero quis cx diclis inierat, me lunaris influxus
patronum eximium, referatque inter -adverlie immoderanrioris -fenrentix
tautories. Ecquis, cui cor ;l'apir,
calculo luo probabit-,. qua: eflutire folent infani et 'inficeri honiines ex
fingulis.Luns.quadraturis, terreftrium
phænomenorum vel vicilfitudines, yel pri-fagia fumerttes Quam fego ‘Luna:
adiofjeih in Tellurem, agnofeo, generalis prorfus, et liaruta fua indeterminata,
nec non una.eft, et qmdem minima ex innume-.
ris caiilfis in. Tellure hofpitantibus, *qu3E prsfertim in’ calculo' lingularium phxnorænorum afsumenaa:
perpetuo occurrunt. ' • ^ ' . II..Quod
vero Cometas fpeflat, nuMus certa,’ riifi excors pavebit hæp corpora per
oblongas ali ypfes incedentia, nec ab iis quidquam, boni, inalive iperabit,
nietlietque. • Fieri autem quandoque pofse, ut in laudatum influxus fyftema
aliquis eorum, adeenseri mereatur, ultro
fateor. Etenim fieri poteft i. ut aliquis eorum longa infignitus *cauda,fuam trajiciens orbitam in
Telluris vici; nia verfetur-; ex quo
‘fiet, ut mutuis attra6lionibus eoJnm armofphxrx turbentur. Dudum fane
Aflfbnomis c(^- • ftitif-Saturni
farellites’ab ‘artraflione Jovis in conjunflione^posirl, in fuis rurbari
motibus, et vicIUJm. Ita ex vijrinia
Comets tiflbari poterit Telluris muJP adeo
nihil addere heic putemus, 'ne rem a£l»m reagere videamur.' . G A R De Naturali y C* Supernaturali Ua*vis mutatio quæ cuilil^t rei continoere 'poteft, IT ex principio, fi. rei interno manat, a^io appel ; ipii.
latnr ; e contrario pajpo dicitur, G a principio eidem externo Gat, nempe ' ex principio
alteri Enti infito ; illud vero
princi^um, e qiio a£lio manat,
nun^ciipatur. Singula fpc6Wbi!is Mundi Entia continuas fubire mutationes,
equidem cuique conftat. Quare Gmplices
hujus rnundi fubGantize’ ejufmodi offe debent., ut in fuis occurftbus, et. Gbus pati /jueant, et agere ; *feu patiendi
potentia præditas eflfie debent, et principiq aliquo aftivo’, fcu vi gaudere. Non moror
quidquid in contrarium* ^afferunt
OccaConaliftæ. fecundæ hujus theorematis
parti. Vide Ont. feq. Cerre Univerfurrj
Philofophd nuHis præjudiciis præoccupato in fingulis fuis partibus perpetua
objicit a6livitatis argumenta ; atque, adeof»..
dubitare nullo • pafto fas ell,* ejus ' ftamina^vi . aai.
X .e oportet aliqua pottat cx fequentibus conditionibus. T Nullam ede in
> • univerfa natura caudam tanta vi.
prjBditain. qua! illi effectui
producendo potis sit • If. Sal- '*' • ' '
tem in’ dato cafu hujufmoldi.caudam defeqidc. - III. Effectum illum ede contra notas natu
ra^ Te-, 1 ges / IV. pr*ter notum, eonfuetumquc orqi
nem. Nam cum rerilm naturat cert». liat
ac detcrmii • * ! natæ, certafque
fingulæ fequantur l^ges^ a qui- ^ bus
ne hilum.quidem dehifcere poflunt-; quo- • -> ties una., aut altera ex, dictis
conditiomb.s in ' • dato effectu
occurrat, certi.erimus ad iiniverfam naturam illum haud pertinere. Q_iiare ite*
I rum patet^ fedula opus ede indagine,
et accurata rerum naturali.um.notitia ubi decernendum • fit de naturali, Si fupernaturaLi... MuJra;
qaian- • doque infanum Vulgus inter
•fupernaturalia ad'. ! '. ceni rum hujus mundi vires cohiberi pofTe,
quin fuos edant effectus, nil vetat :
ipfa fane experientia perpetuo edocet, contrariarum cauffarum incurfibus vires collidi, ut ita vel effjctus
earum præpediantur, vel omninp alii confequantur. Quare, quin etiam intrjnfecus
fubftantiatiarum "Vircs deleantur, coerceri illas pofTe a Cauffa extra naturam univerfam pofjta', ne
fuos gignant effectus, intrinfecus eft
poflibile. In hac porro hypothcG
effectuum confequutio plane contraria effet confueto nptur* ordini. Quare
iterum conficitur, miracula intrinfecus effe
poflibilia. Quod vero
adextrinfecam miraculorum polfibilitatem
adtinet, ille tantum negare eam poteft,
qui prxter materiam nll aliud exiflere
fiulte præfumit, cujufmodi funt Spinoza, et Athei csteri. Simulæ vero, recta cogente
ratione popimus, præter Ipectabilem mundum
Mentem effe æternam ipfius Mundi Opificem, infinitam, omnipotentem, pleno et fummo
jure in res a fe creatas præditam, nihil
dubitare poffumus, hujus vi, et actione
innumeros edi poffe effectus et contra,
et fupra Naturæ ordirem. Luce igitur meridiana clarius elucefcit cum interna, tum externa miraculorum
poflibilitas. Sed audiamus Rouifpjum
adverfariis, quibufeum agimus, non
furpectom certe auctoi ctorem, 3. ^crlt. dt la Montaignt.
fe. tejl ne Deus miracula efficere ^
idefl poteft ne legibus ab ipfo ftatutis derogare ? H^e qutefiio ferto pertrahat» impia foret, nisi »ffet
abfurda. " M'. honoris, ei, qui silam negative
folveret, flagris tribueretur ‘ Jatis
effiet inter infanientes eum concludere.
Re quidem vera, Ecquis unquam inficias
ivit, Deum pofjfe miracula perpatrare ?
oportebat Htebreum effe, ut qiutreretur, an Deus pojfet in. defetSo menfam ‘parate, 118. Atqui, quam futilia fint, ridicu la, quæ
contra miraculorum poflibilitatem objiciunt profani homines, operæ pretium eft
expendere. I. Inquiunt, nfiracula Dei op[)onuntur irrtmutabilitati : qui enimODeus immutabilis
confiflerct, fi naturæ ordinejn 3 fe fiatutum mutaret? Accedit quod majeftatis deminutio
cft, et confcffio erroris mutanda
feciflTe. II. Miraculum eft legum
mathematicarum, divinarum, immutabilium,
æternarum violatio; quare miraculum
expreffam involvit contradictionem.
irp. Sed facilis ad hæc refponfio. I. Sicuti Deus æterno fuse fapientix
confilio, æternoque fuse voluntatis decreto natur* ordinem fancivitj ita eodem
conftituit, pro certo futuro tempore
peculiarem jn aliqua univerf* naturas
parte ordinis mutationem* inducere. Summa equidem providentia, Sc
numquam fatis laudanda ! ut nimirum
fopiti mortalium Animi, eventuum
infolcntia commoti/ tum eauffarum naturalium' impotentiam animadvertentes, quæ
Supremum Numen confilia panderet,
venerabundi adorare moneantur.‘^Hinc patet, miracula nedum nihil Divinæ
immutabilitati Occurrere, fed infuper Divinart Sapientiam, Majeftatem, ac
Bonitatem iuminopere commendare. K
2 /
%,; rumquc feriem ex 'eju(dern.unica»
fubftantia» natur^ effentialiter et neccffario fluere. • V-ide 4(5. Hujufcc fcedilfimæ* labis parentem
'faciunt Xenophanem Eleaticæ dcAæ
Principem, quam. deTellurem
repercufsani nil*vegerantiuin,'& animantium cs(Jononli pri/iare pofse : nam
titermDmetrnm nonnili cjiImici liberi aclionem oHendere, et metiu potefl; at
novimus, lucem aliud omnino efse a calorico, et jalutimum jCon*'erre vegetantium/, et animantiuni phyli,
ac *liadenus credidimus. Nolim* vero
quis cx dictis inferat, me lunaris influxus patronuni eidmium, referatque inter
• adverfte immoderantioris fententix fautores. Ecquis, cui cor ;lapit, calculo fuo probabit-,, qua:
efiutire folent in-. fani et inficeti
honiines ex fingulis.Lunie quadraturis,
terreflrium phanomenorupi vel viciflitudines,,yel priefagia fumerttes ? Quam fegd *Lunuf acteo nihil addere heic putemus, 'ne a£lam
rea» gere videamur.' Dff Naturali, O* Supernaturali... ^.loz./^Ua^vis mutatio quæ cuilibet rei \Lr contingere ‘poteft, iT ex principio. • ipfi, rei interno manat, appel lator ; e
contrario pajfto dicitur, (i a principio
eidem externo fiat, nempe 'ex principio alteri Enti infito ; illud vero princij^um, 'e qilo
aftio manat, ^I^?/■z'K^M
nur.cUpat^r.^ 103. Singula fpcfWbiHs
Mundi Enjia continuas fubire mutationes, equidem cuique conftat. Quare fimplices hujus rnundi fubfiantia:'
ejufmodi effe debent., ut in fuis occurfibus, et iocurfibus pati /queant, et sgere
; *feu patiendi^ potentia praidit® effe debent, et.principiej aliquo a£livo\ fcu vi gaudere. Non moror
quidquid In contrarium*.afferunt
Occafionaliftæ. fecund* hujus
theorematis parti. Vide Om. i- 5 * 5 ^
feq. Certe Univerfurt? Philofophd nuHis praijudiciis prazoccupato in
fihgulis fuis partibus perpetua objici|t adfivitatis argumenta ; atque
adeof dubitare nullo* pa^o fas eft,*
ejus ' ftamina*vi aai. aftiva prodita cfle. Principium aQivum Enti
internum cum patiendi potentia
copulatum, /dicitur *ejufdem ’Entis :natura. Ita ex. gr.matufa planftB eft ‘principium ;feu' vis. a£tiva planta! intimam
fuam fubftatitiam pervadetis, qua vjget,
efflorefeit, fru6lus* gerit' &c., et
patiendi potentia, qua fubditur aflionl'
'extcrnaru'hi caulfarum, puta lucis, æris,
&c. Natura gen&rattm, ubi quid
sit naturale edocetur. • ‘ i'T\Uoniam Univerfum inftar totius • confideratur complcftcntis omoia, . et fingula entia : pronum eft, ex naturis fingiriorum Entium notionem effingere uoiverfalis cujufoiam naturæ per omnia fufæ',
&* 'Univerfum- percientis. Hæc
itaque''notio ( quod perdiligenter
aniifnadvertatur velim ), nihil re. apfe
e(l- aliud, nifi generica quædam a6Iivitatis
notjo ex a£li\itate‘fingularium* mundi entium mentis abflractione comparata Tta, quam
dicimus' plantæ, animalis &c..naturam \ neque 'eft ani^a quædim fingutaris, et per fe
con. ftans, plancam, animal 5 cc.
pervadens, et veluti fufa per ifth*c entia compolitaj fed eft activjtas, qir$
conflatur ex activitatibus fe invicem
modificantibus. fingul 9 rum fimplicium fubftantia^rum, quæ p/antam,.
animal &c; coiiftituunt. '9 $. io 5.* jatn * Aterq qaamgluribus non fat cau- C
(autis*^ a ^propriæ imaginationis illufiohe ab* reptis, univerfalis natur* nqrfiine non
idolum ^ noQræ ræntis intelligendum efle
placuit, fed* fubftantiam a fingulis
mundanis rebus prorlus diftinctam, per fe conftantem, intime, omnia pervadentem, &' Univcrlum percientem,
Hanc principium Hylarcbicum, t/frcheitra.Mundi,
£»* ihelechiam y. Animam dcniqu*
mundanam appel*. læunt. Nimirum
Philofophi iiU Mundum^ veluti iogens Animal habuerunt ex Anima, et corpore conftantem ex ejus Anima fingu» las* fieri, quas obfertramus, rerum
generationes, atque corruptiones. -Sed*
in.definienda.hac. Natura, feu anima mundana ipfi ejus Patroni, in diverfas abiere lertteittias. Fuerunt qui
com.-. mentiti* anvm* genus mveiligantes
ufque adeo Hallucinati Vunt, ut eam Deum
ipfum elfe de* finierint, ut ita Deus
fit Mundi MenS, et J^lundus Corpus Dei. Hos ji Paotheiftis aflidere firmes, profecto non falleris. At Cudworthqs,
doctiffimus equidem Vir, univerfali namr*Sc '
ipfc favens, genitricem et fi^rit^err, hanc appellavit, elque id muneris
a fuo Conditore coinmiffum ftatuit, ut materi* difpofitionem,-tcm. perationem, et gubernationem fataliter
moliatur.* tum#ordine, et ratione omnia.gerere iftam genitricem naturam pofuit, ipfam vero,
confilio, ratione, et intelligenfia carere. S^d nihil folidi protuliffe vifus eft Cl,. Vir, quo
hanc ' • •.. fuam .(a) In Dijfertatione de natura genitrice^
qua: legitur poft cap' j* Syji. intel.
fuam conftabiliret feiitentiam. ' Mofhe-.
inius /Vi ^otis /toc? fit,, > ' • IG7. Quotidiana edocemur
experientia Ungularum rerum generationes, et corruptione? lub (hi^rminafis quibufdam, ac'
conflantibus coqditioriibus fieri, nec
non determinato quodam, ac cti^flanti modo. Determinatus hicce modus, rerum fiunt generatidnes atque corruptionesf,
determinatæ iftæ &. conflantes, qux
requiruntur, cOnditiones, id. funt, quod Ordinem natura appellamus / ^.cdnfequuti^nejja
rerum, juxta hunc ordinem evenidVitium,
natura curjum dicimus. Cum nulkis fit
Ordo abfque ordini» • regula ^, 0«f.,
proniftn 'efl intelligere, da ri regulas' -leu normas quafdam, jucra quas
Yi* res Entium’ hujus muntii' perpetuo.agant.
Equidem, fi nullæ hujulnfddi flatura; ' forent norrnas a'Supremo CoYidinore nUllus confiflere
pofle.t ordo.’, Icd Chaos perpetuum
regnaret. Hz
norm»,^eu ordinis r$gn'!z leyts rfatura ' a^jpellantur.ninc quivi^S effectus a
naturjs, leu viribus . Cauffarum ad'
hocce Univerfum lpectantiun> -, et juxta
•'præfatas leges Agentium editus, wj-/»r mitlam peperiffe ^miratur y ts
'qucmodo, equa pariat y aut omnino
quomodo natura par -, tttm animantium^
faciat, ignorat, Sed quod crebro L?'^?tur De*'a,Pira. Memoria /ulla pioggia della Mt!7ma caduta /« Sicilia, yidesis Ablh Dominicum Tata. PioggiA dt
pietre mvvenuta nellji cartipagna Santst,. r X
( bvo vldety non miratur, cur fiat ^
nefcit: ' quod ante non indit ^ id fi
evenerit often*um ejje cenfet. Secundum,
quod ad miraculi notionem requiro, eft
infolentia/ nempe non quofvis etFe£tus fuperhatiiriles miracula appellare
folemus, Ced qui ob ir/olentiam, five
ratione temporis, (ive adjunft iioim,
extra omnem alias notum ordinem vagantur, et in admirationem rapiunt fpeftatorem.Ex. gr.. ita nemo miraculum
appellabit animæ rationalis creationem et infulionem in humanum corpu,'^ jam organizatum in
matris utero degens, licet omnes
fateantur eflfectum hunc fupernaturalem
effc. Graviflima licet folutu facillima
heie occurrit quæftio de miraculorum
po/Iibilirate, quampravæ mentis
Philofophi impio conlilio exiufeitarunt.
Hi nimirum non veritatis amore, fed revelatæ Religionis livqre perciti, nihil-
ex jecinore fuo decernere dubitant, veri nominis miracula impoffibilia effe; quæque
mitacula appellantur, phænomena naturalia elfe cen-’ fenda, ex ignotarum caulTarum naturalium
concurfu genita. Longa equidem non indigemus ‘oratione, quo ifthæc lalcivientia
ingenia confringa- • ' mus. Sane I.
Subftantiarum hujus Mundi vires finitas
efle tum intenlitate, cum extenfione, extra omnem dubitationis aleam pofitum
efl. Qua,^ re infiniti Innt effectus
intrinfecus poffibiles quos naturales
fubftantiarum hujus Mundi vi! res
attingere non poffunt. Porro ad hujufmod*
effectuum genus- miracula fpectant. Miraculo ergo funt intrinfcchs poffibilia. II. '
Subfiantia- * • ' ^ ru^m . f.- 14gulas
adcurate, non perfpexiffe leges ; fed peculiares aliquas et ignotas leges notis
hactenus adverfari haud poffe, nihil dubitare poflfumus. Qiiz cum ita fint,
concedimus quandoque incerta futura elTe
noflra de miracu. lis judicia, adeoque
cordatum Virunr haud przcipitem hac de re fe gerere debere, immo animis fjepe
pendere fummum effe confilium j at alias
tam clare patere miracula autumamus, 8c
in ipfps veluti oculos fponte fua incurrere, ut excors fit oporteat, qui de iis fuum velit
judicium cohibere, et irftcr ftupidps adcenfendus. Ut ecce fi Sol hominis obtemperans voci e
fuo ciirfu defiftat, neque occumbere
feftinet. Si ma. ris aquæ ex hominis
imperio fcindantur, et con> tra
naturalis aquilibrii legem ftantes liberum, iter fugienti populo per imum fundum præbeant,:
fi hominis cadaver molle 8c jam fætens
in vitam fanum et integrum revocetur
abfque ullo omnino apparatu, l’ed fola jubentis voce ; fi mare procellis, Sc tempeftate jactatum quiefcat
illico et indomabilem, qua furebat, iram
deponens, ridentem adfumat
tranquillitatem.* 8c innumera hujufmodi,
quibus Sacra: redundant paginae. Si
quandoque in mundo miraculum ^*^fi'^i'um, eflfectuumque feries, quæ poft. hac lequetur, alia erit ab ea, qux futura
fuiffet, miraculo non patrato. Nam omnia, qu*
in mundo fiunt, contexte, connexeque fiunt, et singula, qu« confequuntur
ex præcedentibus determinantur Si itaque in hujufmodi connexa rerum ferie
aliquid novi ingrediatur, quod fcllicct non fit ex ipfa fcrie, nova huic
adcedet" determinatio » qua equidem citra !T\iraculum caruiffet. Subfequens ergo ferici |>ars
propter novam fufeeptam determinationem
non poterit alia non efle ab ea, quæ
citra' miraculum futura erat. «v lai.
Si itaque miraculo perpatrato fubfequens rerum feries eadem, ac qua; citra
mira^ culupii fuiffet, pergere debeat j
nonnifi novo miraculo reftitui poteft.
Sane res, quæ miracuio mutatæ fuerunt, alios atque alios natura fua edid iffent effectus, alia»^ poflmodum
feriern con %quentium conflitu^imt ; hæc
ut deleatur, ^cipfque loco reffituatur
Hia prior feries, nifi novo ^llfaculo
fieri“ non poteft. ^0 Juvabit, ^uæ mox
diximus, ^exemplo ab horologia petito', illuftrare. Sifigulæ, qu^ in horologio fiunt mutationes’ ex
mech,a-' nica partium ftructura, et politione
fiuunt^tum connrxai funt inter fe, et continua''
ferie fiunt, ut adeo, earum curfus hujus
Mundi curfui conferri merito poffit. Ponamus.minutorum' indicem a fitu, quem
hoc momento obtinet, aliquot minutis retorqueri : id ab ipfa mechanica horologii structura fieri quideni pugns^,
nihil vero vCTat, ab extefna caufia
fieri. Deinde retorto eum in modum minutorum indice, et horarius index proportionali ter retorquebitur, alia^que fient interius mutationes. l*ofthac-
minutorum', et horarumr fignattones pro quovis
tempore diverfæ omnino confequentiK*, ac fi nulla fact^ fuiffet in utroque incfice
^mutatio •. Qiiod fi reftituenda fit
prior otriufque indicis poil. 1 poGtionum feries pro quovis tempore, illa
Icilfcet eadem,.qu* confequtura erat nulla fafta indicum retorfione, iterum ab
externa cauifa impellendi funt indices, et ad eam politionem con(lituendi) quam
modo fponte fua obtinuilTerit, fi
horologio fibi rclifto', nulla unquam extrinfecus illata fuiflct mutatio. Ita
miraculum in mundo fieri et intrinfecus,
et cxtrinfecus pofr fibile eft IIJ*,Sed
mirapulo patrato confequentium eventuum
feries diverfa occurret ^b ea', qiiz
citra miraculum fuilfet izt. Hzc itaque
fi reftituenda fit, pariter per miraculum nova rebus inducenda efi mutatio,
ut eadem, et eodem ordine redeat rerum
feries, qux per primum miraculum deleta'
fuit. Fi»!s CofmihgU» I
pAo, p-^-^ f-^-1 r^-n r^ r^ r-^
ff.W/KfiW rit 7. et 8., nec non
fenfationum phænomena in noftra non
furtt poteftate 18. Quod ad fecundum
fpectat, fenfationes non funt im mifliones qualitatum ex objettis externis
in ‘ animam adeuntium iz.Sc ig., neque
Mens in fuis fenfationibus- mere paffive
fe habet ^ Sed de hac re copioiius fuo loco. Qua sit [edes principii fensitiva
facultate praditi. 22. '["'Ibrarum irritatio in organis
fenforiis X excitata a quavis externa
CauiTa, nifi ad cerebrum ufque
propagetur, nullam in Anima lenlationem
gignit. Pridem do experientiam - Sane obtruncetur nervus, vel fortiter
ligamento comprimatur • quavis producta
irritatione infra fectionem, vel ligamen, nihil anima experietur^ illico
tamen fenfationem patietur, five ligamen
relaxetur, five irritatio ultra nervi
fectionem inferatur. Quare principium fentiens, feu Anima non ubivis in corpore
refidet, et in quolibet organo fenlorio,
led in cerebro, cx quo fuam originem nervi aj^fpicantur. At dua! heic occurrunt
qua»ftiones 1. Quænam eft illa cerebri
pars hac prærogativa c£bteris præftans, ut ad eam fint deferendæ fingulæ
fcnfuum irritationes, quo in Anima fenfationes^ant ? hanc cerebri partem,
commune ftnjorium, et Animæ fedem
dixerunt. Qut fenfuum irritationes ex
intimis corporis partibus ad cerebrum, vel potius ad commune fenforium
deducuntur ? Quod ad primam adtinet, nulla cerebri pars pro communi Animæ
fenforio flatui poffe videtur. Ut enim
aliqua hujufmodi cenferi queat, illud prius conflare debe^, lingulos’ nervos,
quot quot per fingulas cor poris partes
migrant, et lon^e lateque diffunduntur, ex ea primam originem ducere.-Al nullam cerebri partem hu>ufmodi effe \
recen» tiflime conftitit ex
obfervationibus fumma fagacitate ab Ab. Toffoli captis, {tom. Xlll- opujcoii
fcelti [ulle feien^e, e Julle »Arti. ) Olfactorii nimirum in duo priora cerebri
Ventricula pergunt. Guftatorii ad
tertium. Acuftici e corporibus ftriatis labuntur. Optici e corpore calJofb
emergunt. Somniavit ergo Cartefius cum
Anim* federa in glandula pineali locavit : quippe ex pineali glandula nec unus
nervus originem ducit’. 'Idem de Digby dicendum, qui ex glandula pineali in feptum lucidum animx
fe. dem tranftulit. Neque adfentimur CJ.
De la Peyronie, aliifque in corpore xallojo anima* fedem conftituentibus licet enim hinc emergant
aliqui nervi, veluti optici, non omnes tamen.
l6. Quo fecunda! qua*ftioni facerent fatis, Cdduxerunt Nonnulli exemplum chordarum,
qux altera fui extremitate perculf*,
illico alteri, extremitati motum fuum tribuunt ; at non fatis penficulate, Sane tremor in unam chordse
extremitatem illatus, ad extremitatem alteram
illico’ propagatur, fi tenfa illa fuerit, et in xjfcillando libera, ab omni fcilicet externo
impedimento expedita. At neutrum de nervis dici potefl:,
nullam tenfionem habentibus, et in lui
ductu undique irretitis. Alii vero nervos ha. bent veluti totidem tubulos; quos purior,
ac fubtilior fanguinis p&rs, qpam
Jluidum nerveum, et 5c
fpiritus animales vocant, perpetuo implet,
ac pervadit. In hac porro hypothefi inquiunt, nequit nervus, nervulu/que contingi, quin
aliquatenus prematur ; neque potejl^ ullatenus premi, quin ob dijlensionern
fpiritus contentus' urgeatur, neque jpiritus il/e sic urgeri ^ quin pellat ^
feu potius repellat vicinum inflantem, ac
pari ratione advcnientetn ex cerebro • neque ijle porro repelli, quin tota ferie ob'
repletionem, continuitatemque compulfa,
fpiritus exi flens ad ipfam originem
nervi, nervulique in cerebrum quasi
resiliat- Verba lunt Caffendi phyf, f.
membr. . c. 1. Hujus explicationis exemplum ex tremulis æris undis Ionum
deferentibus e corpore fonoro ad aures, facile eft defumere. Atqui hujulmodi
fententia licet comjnuni voto veluti cæteris
verofimilior excepta Iit, Iblida tamen
caret demonftratione. Hac interea utemur, donec melior non occurrerit. GAP. Nuperus Audior Thouriy in
dIfsertatione'Lugdur)enfi Accademiie
exhibita, in qua qusftionem exiendir, utrum
atmol'pha:ra eledricitas aiiquid in hunianum\ corpus influat &c.
novum hac de re lyflema propofuit. Utraque, afserit, eledricitas, pofsttva nempe et negativa
ifeorfmi in cerebro hofpitarur.
Siibflantia corticalis puta pofitivam continet eledricitatem, negativam vero
medullaris fubflantia. Utraque habet
luos condudores, nervos 1'cilicet, quorum alii politiva; eleflrlcitari
inferviunt, alii vero negativ*. Hi ex extremis corporis partibus eleilricitatem
deferunt ad cerebrum ; illi vero ex cerebro ad
mufculos, et ad extreouis partes. SenfatioiTes Menris fiunt ex appulfu
ad cerebrum eledricitatis, quam nervi
negativa eledricitati inlerxientes a corporibus in lenfus incurrentibus rapiunt, ocleruntque ad
cerebrum. \iotus ve De Memoria.
I j^.Uotidiana experientia
edocemur, Mentem etiam remotis objectis, quibus afficitur, adhuc fibi prxlentem
retinere poffe illorum ideam,. feu notionem. Hujusmodi Mentis actus coram reti-
I nendi ideas, notionesve objectorum,
etiam il» lis remotis ac absentibus,
vocabulo contemplationis y^ockio duce, defignamus. Rursus experientia pat.efacir, Mentem persæpe occafione externæ cauflæ, persæpe
suo veluti arbitratu, et imperio,
antehabitas, con. sepultasque ideas,
notionesve revocare. Hunc mentis actum,
reminlfcientlam appellamus. Eadem
experientia novimus, Mentem antehabituS
ideas fibi recurrentes ut plurimum
recognofeere,• scilicet animadvertere, illas ideas notiooesque haud elTc recentes, sed jam
dlim habuiflTe. Hanc anima: conscientiam,
seu anim.i.ivcr;ionem, recognitionis vocabulo exprimimus. qo. Tres modo rccenfitos Ment;s actus vulgo
Memoria nomine complectimur. Itaque Me.
mo vero mufculares cientur ab
ele^trlcirate, quam Anima in mufculos
immittit per nervos pofitivs eleflricitati d-'dinatos. Atqui clariffimus Au6lor
in præfata difsertatione ar^qumentum
ouidem fui ingenii præbet, non vero fui fyfiemaris. Ipfemet videtur iftud
proponere pro imaginationis fpecimine ad rem perdifficilem, fi fuperis pbcfet, c:cp!ic aridam.morla ell illa Anima: lacultas,
qiia retinet-, revocatque antehabitas
ideas, ac recognofcit veteres effe. N •
- ^De Contemplatione . *]A yCOtus ab
externis objectis in no-, J.VX ftri^
fenfibus exciti, et ad cerebri fibras perducti Animam diverfimode 'modificant,
live repræfeiitationem aliquam ( quam
dicimus ideam ) five affectionem ( quam notionem appellamus,.),.ingerendo..
j^Quare pronum cft intelligerc, fibrarum cerebri commotionem eo ufque perdurare debere, quo illa notiq,
vel reprasfentatio Animam occupat. Animaie
itaque contemplatio' ex continuatione
motionum in cerebri fibris efi repetenda/ atque adeo ad fentiendi facultatem
fpectat. At continuatio motionum in cerebri fibris duplici ex- cauffa fieri
poteft. 'Vel enim, fortior, et vehementior
illata eft, concuflio in' fenfuum fibras
ab externis objectis, et modo cerebri fibræ vehementius commotæ in eadem
fufcepta commotione, etiam citra Animæ impc-'
rium, diutius perfeverabunt. Hinc fiet, ut ea-'
dem idea vel notio Mentem five lubentem, five invitam occupabit, et qtfidem
vivide. Vel' fibræ leniter commotæ, ad
quietem mox fu a' fponte redirent, quo
cafu paullatim evanefeeret ‘ idea, et notio
; et modo ut in inchoata com-^ motione,
illæ perdurent, Mentis quoddam velu-* M
ti '• ' ti conamen adhibemus : hoc conamiiw fibras in inchoata commotione veluti foventur,
con^ fervantur; atque hinc confervatur,
et perdurat idea, et notio coram Mente.
Vis, quas in plura difcerpitur, languefcit ; at in unum colkcta potior
efficitur. Quare facile jntelligimus,
eccur ad contempla* tionem faciliorem,
diuturnioremqne confequen> dam,Mens ne ab aliis ideis, et prasiertim
fe«« iationibus perturbetur, cavere
debeamus. • r . MI. f » De
Remintfcientia t 'I
'AIfficillima occurrit de reminifcientia inquifitio-. Hanc ineptiffime ^videntur -Metaphyfici vetcreS perlequuti
fuilTe ; quasfierunt enim.* quo abeunt^
receduntqite ideat nothnefve, cum ab
earum contem^atione Mens feriatur ? In ^nima ne, vel in cerebro confepediuntur ad
sAnima imperium rediturai Ecquid funt
confepuita idea ? Hiice quasftionibus ineptas re* fponiiones fuppeditantes, illud quah fuadere
vel* Jent, penes Animam promptuarium
eife, in quo ideæ conferventur iterum
educendæ ex ejus imperio, quoties opportunum eflfe judicat, vel ex alia quavis caulfa. Audiant hi Ciceronem CICERONE
(vedasi) egregie cos increpantem',*Qjiid igitur ? utrum capasitatem. aliquam in
xAnimo putamus ejfe, quo tan~ quam in
aliquod vas^ea^ qua meminimus infun~
dantur} %Abfurditm id quidem: qui enim fundus^ aut qua talis «Animi figura intelligi poteft
? aut > quæ tanta 't/fnimo capacitas? %4n imprirnt qua fi ceram, »^nimum putamus, et memoriam ejff
fi' gnatarum rerum. in Mente vejligium ?
Qua pofi funt verborum qua^ rerum
ipfarum ejfe vejligia? \ tufc. qq. /. I.
c.Ut frbi cavcanf Tyrones ‘ab hifce abi
furdis opinionibus, fufficiat recolere, ideas, notioncfve nihil effe
aliud, quam Animæ modifi« catioiies ex
fibrarum cerebri commotionibus genitæ j ut ita ficuti fibris ad, quietem
redeunti-* bus, ftatim illæ Animæ
modificationes definunt, ita et ideæ,
notionefve omnino evanefcunt. Cum ergo
quæritur, quo abeunt-, receduntque ideæ,
cum ab earum contemplatione Mens feriatur, optimum refponfum erit/ evanefcunt. Ubi
confepeliuntur hi Anima ne, vel ip cerebro ? Nullibi.* nam ab Anima cui inerant,
evanuere. Ecquid funt confepultæ ideæ ?
Nihil. De Recognitione. A Memoriam proprie fpectat, quod jt\. dicimus idearum recognitionem^ Si enim veteres ideas.Menti recurrentes
percipiamus, minime vero nobis confcii fimus, ilJas veteres effe, nempe eafdem quas olim
percepimus, reiterata ifthæc five notio five perceptio ad memoriam nonnifi improprie referetur. Licet
reminifcienti* cauffam incom pertam adhuc habeamus, recognitionis tamen idearum
facilem explicationem exhibere autumamus.
Duo funt principia*, ex quibus illam deriva, mus. r. Interior experientia, qua a teneris
unguiculis novimus diferimen quoddSm inter ideas, notionefve Menti recurrentes
ex reminifeientia, et ideas notionefve actuali fenfationc in Animam incurrentes. Licet enim verbis non
poffct explicari diferimen' iftud, interiori tamen fenfu difeimus, alior prorfus modo Mentem
affici Cx fenfatione objectorum prsfentium, ac ab 5 deis notionibufve eorumdem abfentium.
Videtur hoc diferimen in eo |»ofitum, quod fenfatio Animam vividius, ac veluti
intime afficiat* € contrario leviter
commoveant ideæ, notionefve objectorum ''ubfentium, et quafi a longe ei exhibeantur. Lex ilia adfociatibnis
idearum, qua fit, ut una recurrente
idea, vel notione, fi. mul recurrant
Menti una vel plures aliæ, quo. cunque
tandem modo, priori adfociatæ. Sane recurrat Menti idea, vel notio objecti cujufvis j five id fiat ex interiori
quavis cauffa, five ex externæ caufTæ actione. Vel in hujus \idea: recurfu excitantur in Mente
ideæ ei adfociatæ ex priori fenfatione,
vel non. *Si primqtn • ejuidem objecti
idea in duplici illitarum ferie Menti obverfabitur ; in ferie lci*icet præfentium circumftantiarum temporis, loci, aliorumque objectorum^ adftantium, et fenfus percellentium, et in ferie idearum fociarum
ex veteri fenfatione, qua; per
reminifcientiam refiaurantur. G,m ergo altera feries, ab altera interiori lehfu dignofcatur prasc. n. i.,
facile eft recognofcere, objectum, quod
modo Menti occurrit, alias quoque
occurri Ife. 45. Si vero ex alicujus
ideæ recurfu ( quacumque ex caufla hic
fiat ), nullæ excitantur ideas focix temporis, loci &c., nulla fit recognitio, vel incerta admodum, et obfcura, fi nimirum obfcure, et confufe fuerint
excitatæ ideæ focis. Experientiam appello. Hinc efi, quod fi hanc recognitionem claram, et difiinctam
reddere qusrimus, conamur veteres circumftantias loci, temporis, perfonarum
&c. revocare, vel ut alter commemoret, flagitamus. Hs ides Mentem redeuntes lege
adfociationis veluti ftipantur illam,
cujus recognitionem qu*. rebamus, ficque
ipfa recognitio redit. Eadem eft
explicatio recognitionis idearum reflexione
genitarum. De Facultate
attendendi, et reflectendi. 4^. "A
^^Entem a vividis, claHfquc five J.VX
(enfationibus, five ideis veluti
pertrahi, atque occupari; nec non iifdem libenter cedere, et conquiefeere,
quilibet intimo fuo confeienti* fenfu
edocetur. Atqui et interiori experientia
non minus conftat Mentem facultate pollere vividis etiam, clarifqUe five
fenfatlonihus, five ideis obnitendi, quominus iis afficiatur, feque' convertendi ad alias five
ideas, fjve fenfationes etiam
remiffiores, et hifcc elicito veluti conamine intenfius vacandi. Iflud Mentis elicitum veluti conamen, ^uo ipfa fe determinat, ac defigit in
peculia, ri aliqua five fenfatione five
idea perfequenda, attentio nuncupatur;
et attendendi facultas illa'met Animæ vis, e qua illud conamen procedit. Attentionis vero translatio, quam feientes,
et prudentes efficimus ex uno in aliud
fucceffive objectum, vel ex una in aliam
ejufdcm obje. cti partem, reflexio
dicitur. Facultas adeo refleBendi illamet efl facultas quam attendendi dicimus, quatenus, nobis animadvertentibus,
ac volentibus ^ plura fucceffive
perluftrat objecta % ex uno ad aliud
rimandum pergit, reditque ad alterum. Attendendi
facultas alia putanda efl a facultate
featiendi, etfi hanc perpetuo comitem
ha. r ; r : tar ;;::tatem ad illam reflectendi revocandam
eflc. RATIOCINARI dicimur, cum
idearum A puta et C convenientiam, vel
repugnantiam, vel quamvis aliam
relationem intuitive non percipientes,
iJIam deprehendere fatagimus per
ioterpofitionem medi* ideæ B. Media porro hæc idea nonni/i ex reflexione', et analyfi
primarum idearum A& C Menti
occurrit. Hæc enim me« dia idea, vel una
efl ex limplicibus, quæ in compofifis
ideis A et B continantur • vel ejulmodi eft, ut dum alteram -puta A tontinet,
ipfa tamen in altera B contineatur ex
quo inferimus «tiam A in B contineri. Alterutro modo res fe habeat, evidens efl, Mentem fuam
ratiocinationem nonnili reflexione abfolvere. Facultas generalium idearum
nexam, 2^ relationem clare pervidendi,
Ratio communiter appellatur. Hoc fane fenfu Tullius de ofF. 1. i. hoc vocabulum ulurpavit. Homo enim^
quod rationis eji particeps, per quam
confequentia ctrnrt, caujfas rerum videt, earum progrefjus, et quafi antecejjiones non ignorat, Jimilitudines
compa^ rat, rebujque pr' Huc’ IpeAant '
Ciceronis CICERONE (vedasi) verba /. 2. di divinat. Sanguinem piutffe ’ [enatui renunciatum eji
clatratum fitniiufn fluxi^^e /anguine :
deorum fudaffe fimulacra atque h(ec ;« lallo plura, ^ majora videntur ti^ mer^il^us ' eadem non tam animadvertuntur tn
pace. '
byterum qutmdam Rejiltutum nomine lauJat 'n fuo tempore, viventem, qui, et fponte fua, et
aly amicis rogatus adeo fe e fenfibus
evocabat, •Ut non folum coram loquentes
non audiret, led neque punctiones, neque
inuftiones fuo cor* pori illatas
lentiret, nifi cum ab alienatione Mentis
ad fe iterum redib?kt. ^ ^ §. 67.
Tandem cum imaginatio ex facili ^
cerebri irritabilitate dependeat,.confequitur, illam ex mutato corporis, et cerebri ftatu
obtundi polle, nec non obtufam revivifeere. Id
cum ex pluribus fieri queat cauffis, tum pras, cipue ex state, cibo, potuque plurimum
pendet. At haud prstereufidum eft, morbofa aliqua cauffa fieri quandoque, ut
imaginatio, et memoria alias obtufa, et difficilis',
vivida fiat, ac facilis ex inducta' in
cerebri fibris fenfibilitate, feu irritabilitate' majori. Nempe,, quas cerebri fibrs’ olim agitats propter
craffiorem; conftitutionem, parvam aut
nullam mobilita tem fulcipientes, minus apt* erant quominus veterem commotionem renovarent^ modo mobiliores,
fenfibilioresque effects, illam diftin-^
cte queunt renovare ; adeoque, qus olim obtufa difficilis, vel nulla
fubjbat Menti imagi-, natio, et memoria,
clara fiet, facilis, et promota. Hinc ftupendi prorfus phsnomeni rationem'
depromere facile poffumus, eccur nempe
Rudes, et illiterati homines febri et delirio correpti plura quandoque
loquantur erudite, et irllomate antehac
iplis prorfus iirtomperto; tum hsc
iterum ignorant, fi > N 3 I
rio reliquuntur. » 6S. Ad vim imaginationis Mpjierum prægnantium
referunt Nonnulli monflruofos et informes, quos illæ edunt quandoque partus, tum partuum infolentes macufas. Sed nolim
^ ego quidquam de hac re decernere. e I —
i ^ I I. (Adolefcens quem Prarceptor
;nihil untjuam edocere poruir, quique nec callebat, ut vulgo dicitur, adjungere
adieAivum fubjedlivo, pofl aliquot dies febris
jnalignx, latine loquebatur, nil hsfitans; dodrinas antehac fibi ignotas
recitabant, ideafque quibus eatenus
caruerat, egregie edilarebaf. Medici», fepten. r. i. p« 88. Huart ( !*.«»»« «fcj’£/pr/>j)Ruflicum
memorat bardum, qui ^lirio correptus, eloquenrlflimus evaflt: nec non quemdam famplum, qui craflillima: licet
minervz, et ideis vacuus, morbo tamen
laborans, cordatioris politicas eruditus apparuit. Erafmus italum cognovit,
qut in morbi acce^onibus germanicum
idioma, quod nunquam didicerat, loquebatur. Ac.. Hzc phænomena, et alia huiufmodi quamplura imperite, A
olcitanter inter miracula, rejicerentur,
vel magicos efferus. Sola fibrarum cerebri difpofitio vi mOrbi mutata hos omnes
producit effedus. Nempe imprefliones olim habitie, at debiles, quominus
fentibilem gignerent efi^tiun in cerebri
fibris pamm mobilibus, novam majoremque vim nancifcuntur fibra
irritabiliori, ac mobiliori per morbum efledfaj
iienti pondus^quod machins rubiginofs adplicitum nullam in ea motum ciet, extenmlo tamen eamdem in
morum agit, f! rubigitie TOlita fuerit,
ejufque axes ex inunco #!fO mobiliores
emciaotur. De Facultate appetendi, ejufque ' obje^o '. ubi de dffedibus fummatim. De Facultate appetendi j ejufque ob/eSle. 6 p. ^^Uique ad intimum fuas confcicntiæ fenfum attendenti fequentia liquent. I.
Animus ex quavis Tibi objecta boni,
malivi fpecie agitatur * neinpb erga objectum quod bonum cenlet incJinationem nilum vei
^ invitus experitur/ 'e contrario,
declinationem a malo, et veluti renifum
quemdam ad ei ob« fidendum. Illa Animi inclinatio,'& veluti nifus ad bonum ", appetitionis nomine
defignatur / Sc contra averfatio dicitur
Animi declinatio, æ renifu^ a malo
^ II. Quo majus Menti objicitur bonum,
ma lumve, eo vividior eft appetitio vel averfatio/ et contra, ut ita fint appetitiones et averfationes in directa ratione bonorum, ' malorum ve
Menti repræfentatorum., • III. Appetitiones, et averfationes non
fiint in noflra potedate, nili quatenus
Mentem ab objecta boni, maiive fpecie
avertet^ polii m us. Cxterum licetd
bonum minime profequamur, malumve
fugiamus, intrinfecus tamen »• quali polient ratione, qua rerum naturam, re-. lationesque complectentes-, illarum.bonitatem"' malitiamve affequantur. Proinde: in
perfpicqo «ft*, cctur tantum fit ijiter
homines ' appetitio ' num
>sVcHOlo6iA 4 T nnim, atque,
averfationum difcrimen.Sanc quod uni
bonum apparet, alteri malum videtur, et ^ Contra.'Quod uni voluptatem conciliat,
alteri dolorem, tædiumque ingenerat' 'Ipfi nos
fententiam de bonitate et itoalitia cjusdetn objecti pluries in hora,
•& quafi momento tenii poris
pronunciamus, et mox delemus. QuJ in
"tanta affectionum, idcarurti ', et calculi difcre‘pantia ftare
poffet appetitionum, averfationumque identitas? [Do not multiply idetities
beyond necssity – Grice e Semmola -- ^
74- Quæ appetitiones et averfationes
Anima excitantur ex confufa bonorum, malorum- ’ ve repra?fentatione ope fenfuurn et imaginatio'nis
facta, appetitiones carw/j/ex, feu animales "^diQUtitMT.Rationales e contrario
appellantur 'iJlaSjj' quas Mens concipit
ex clara, et diftincta bo-, noruni,
malorumve fpecie ipfi exhibita 'a ratione. Porro p^fæpe fit, ut‘qus veluti
bo-T na vel mala Menti reprefentantur ’
fcnfuum et imaginationis- ope, ea
itidem' bona vel mala ex ratione
dijudicemus. Hinc 'duplex iq Animo excitabitur appetitio vel avcrlatio,
carnalis feu animalis altera, altera ' rationalis j modo amba;,hæ convenient. Alias contra fit, ut qua: tamquam bona* Vel mala" Menti
fiffuntur fenfibus et imaginatione, tamquam mala vel bona ratio, decernat.
Quare appetitio carnalis gum aVerfatione
rationali pugnabit, et viciffim ^‘adeoque Mens in diverfa,
&.con-, traria dillrahi experietur,
et internum, luctamen, conflictumque patietur. Huc fpectant illi^. ApoftoU verba : Sentio aliam, legem ^
in memltris jneif, repugnantem legi
Mentis Nem. Nempe in Apoftoli Anima ex fenfuum
illecebris appetitiones excitabantur, erga objecta", quæ ipfc Apoftolus averfabatur ut mala
ex monitu rationis. 75. Hanc pugnam ut explicarent vetcreg Philolophi duplicem diffinxerunt appetitum, animalem et rationalem : tum non uni eidemque
fubjecto utrumque tribuerunt, fed diverfis. Opinabantur nimirum, duplici parte
Animam conftare, wtelie£liva, leu Juperiori, cui appetitum tribuerunt rationalem, et fenjitiva altera, quam inferiorem dicebant, in qua
animalem appetitum pofuerunt. Has Animi partes et revera diftinctas efle, et fecum
ipfas pugnare, veluti Equus cum Equite
fyquæ locutio Platoni in primis familiaris eft j, /autumabant. Atqui- doctrina
ifthæc fenfui intimo, quo eum conflictumMn, uno eodemque individuo fubjecto ineffe experimur,
repugnat. Accedit quod cum ^ Anima fit
incorporea et fimplex lubftantia ( ut
fuo loco evincemus ), vocabula partium
inferioris et fuperioris, vocabula funt nihili.
De Jiffefiibut •. ' ^» ' A‘ Ppetitio, vel aversatio vehemenjCX tior, 8c
cum infolenti naturæ humanat commotione
fociata,' affectus appellatur. Equidem quævis boni, vel mali reprpfeatatio
appetitionem, vel averfacionem ciet':
at aon qu*vis appetitio, et avcrfatio affectus nuncupatur / quæ
incitatior eft, et intenfior hoc nomine denotatur. Affectus itaque nonnifi ex rcpræfentatione boni vel mali,
quod gravioris momenti putamus, pendet,
70« Inlolens humanse natur* commotio,
qua affectum comitatur, ex actione Anima
affectu percita in commune fenforium leu
cerebrum gignitur. Ex intimo enim vinculo, quo Anima, 5 c corpus conibeiantur, quoad homo vivit, fit,
ut ficuti fingula corporis commotiones
nervorum ope ad cerebrum traducta Animam
afficiant, ita reciproce Anima
commotiones ex reprefentatione bonorum, malorumve genita nequeunt in cerebrum non derivare, ipfumque
determinato, quodam modo agitare. Cum
porro e cerebro originem ducant quotquot
per corpus dilabuntur nervi ; hinc intelligitur cccur ex Animi vehementiori appetitu vel averfatione,
concitato cerebro, et nervis, 'infolentes natura humana commotiones oriantur
(a). Ita ex terrore pereuHus Animus
faciei pallorem, cordis pal-, pitationem,
artuumque tremorem comites habet. Ex ira inflammatur Vultus, linguli tenduntur,
atque convelluntur nervi. Ex amor*
per. Non quavis Anima commotiones
io fm^Ias cerebri partes derivant, neque eodem modo : fed fingula certas, ac.determinatas partes ceijelHi
afficiunt, tk de*terminato.modo. Hinc unguli Anima affe^us determinatos cient
in corpore motus, qui quandoque funt diverfi,
quandoque prorfus oppofiti ^ Juxta affe^uum naturam ». et intenfitatem. ' ^ L (. I percurrit mollis
flamma medullas Scc. Hinc in numera phy fica mala, qux fapientes Medici
norunt ' Cum natura fua Mens in bonum te
ratur, malumque refugiat, liquido conflat,
aflectus humanam naturam, qualis modo efl, necefsario confeqai. Quid ergo fibi
volebant Stoici, cum affectus, Animi
morbos appd-. tlantes, in Virum
Tapientem minime cader^ pertinaciter autumabant ? Num ne fapientia eo, pertingere potdt, ut hominem fua expoliet
natura, 8 c alia prorfus commentitia induat ? At nemo unus ex Stoicorum familia ad hunc
fa-. pientiæ apicem deveni(. Equidem qui
in humana natura deleri affectus optaret, ille et vim qua Mens bonum naturaliter appetit, refu^it''
' qqe malum, radicitus ab ipfa Mente avmlfam
vellet »,Hoc femel conceffo, non video, quid, homo a crudo diflaret latere.* nempe
hiccine erit Stoicorum Sapiens ? ^•7p. Atqui human.'> natura, Sc ut fit,& bene fityfibi non fufficit • bona proinde quibus
caret, ^ profequitur oportet,
declinetque ^ impendentibus malis. Bona
vero profequi non potefl, Jiifl ipforum
bonorum appetitu incitata j neque mala
refugere, et propulfare, nifi odio percita erga mala, quæ funt inimica
felicitati. Sunt itaque affectus nedum
neceflaria humanæ naturæ -confectaria
70., fed ipfi 8 c ut fit, et bene fit
omnino neceffarii_ clatere?. Sunt præterea affectus inftar vectium „ quorumdam, quibus mirifica in homine ex„.citatur,
aliturque magnarum rerum effectrix „ vis,
nec fine magnis affectibus quidquam f gre ‘
« g**cgjutn > et prsBcIarum unquam ab homini„ bus factum i R^tio in
nobis recta, nullo im« j, petuofiori
affectu concitante, conftantius ope„ ratur, et xquabilius,l'ed eximium qmdqbam,
> „ et diftinctum ipfa per fc-fola
efficiet niin’„.quarn. Eadem, ubi natura vehementiffime „ affecta eft / velut erigitur j ac, licet
paullo' turbnlehrius efficit tamen quje
mira viderf „ poffcnt’ nafurs humanæ
vires omnes ignoran> tibus. Itaque
Plato fæpe fcribit magnorum vircrufn
fuifle neminem fine enthusiasmo ^
quodam^ ideft vehementio riaffectu; xAnt. Gtnu- ^ T enfis Metbaph. part. tertia, Scbol. prop. 4
^* Boni,malive repraslentationes in
Mente factæ five fenfuum renunciationibus, five rationis adminiculo non femper
funt ‘ex æquo' conformes realibus concretifque
objectis, qui- " bus ilias
referimus. Quare neque., affectus ex.
hujusmodi repræfentationibus 'r geniti fempet* proportione refpondebunt bonis, malifque
realibus. Hinc duplex affectuum partitio ex eorum relatione» ad objecta Alii
nimirum "funt veri, alii vero
/«/>/. Veri
dicuntur, qui objecta realia' refpiciunt, et ipfis realibus objectis proportione refpondent. F7 damus, quafi nihil ^dhuc ab aliis traditura .
Mentem.humanam infita vi, et natura fujc neccffrtate bonum appetere, et aver.j '
' fari malum, fuperius 70..,exporuimus ^
Mp»» nemur hinc, nos ita natura
comparatos, >.ai; ad bonum in genere,
feu ad beatitatem necessario, et indeclinabili pondere feramur,v et miferiam' relugiamus, quin valeamus vel-,
„minirfium obfiftere. Perfpecte prpfecto. Divus Au», guRinus inquiebat : Beati effe •^olumui, et nti'
feri effe non fotum nolumus fed nec velle -pofo
/limus. At quid 'Anima contingat, quum aliqua boni j malive fpecie
afficitur, operæ prætmm eR ex intimo 'conicientiæ fenfu perdili- ^ genter edtfcere : ipfo enim Magiftro in
devia certe haud abibimus.. r. rntimus confeientiæ fenfus uberrime edocet, quod ficuti ex oblata boni, malive
fpe» cie mox tu Auimo cietur appetitus,
vel aversatio A J ^49 fatto in* ratione ipfius boni, vel mali repræTentati,
ita hoii rapitur ab illa fpecie Animus,
fed allicitur, vel t*dio afficitur. Non rapi ex eo I* intelligit, quod cuique
appetitui', averfationi, quoufque durat,
efficaciter obfidere* poffe, tum premjre, et infrenare, evidentiffime
animadvertit : %. quod Ipfe fe ad bo'num perfequendum ciet, fi quidfem
perfequafUr, vcl ad malum fugiendum. Sentit Sinimur præclare Tuilius mare fuo tuf. qq. 1. i. Cw 23. ‘Je moveri, idque dum fentit,
illud una fentit, Je vi fua i non aliena
moveri. Animus ex oblata boni fpecie alle£las, ' crampentem mox inclinationem quandoque
extemplo fequitur j alias vero immoratur, &' appetitum cohibet, ut rationis
conHlio adhibito ejC{>fendat, num
'bonum ei exhibitum revera bo-» /lum fit,
atque amplexandum, afl %ero malum fub
fpccie boni, adeoque refpuendum. Inito
tandem confilio, et de bp^itate, vel malitia objecti monitus, fe ad
illud perfequendum, vel avertendum ciet:
animadvertit vero i. ipfum fe ciere, hon
rapi/ z, etiam 'poflquam perfequi rapit,
facultatem integram defillcndi penes fe, retinere, licet revera non dcfiftat; hanc ut
experiatur, fufeeptam determinationem ex
^rte, vel ex integro quandoque remittit-, vcl, aliam omnino' diverfam, contrariamve elicit., Cum plura Menti exhibentur bona, quorum uno
tantum potiri liceat, vel plura media ad idem* adfequendum bonum, rationis
ad-' hibernus confilium • fingula
undequaque expendimus, et quidem quo efficere pofTumus accu ratius. et acutius / media propoGta irfter h, et cum
fine comparamus, ut. qu? Gnt aptioia
perdilcamus. Hoc demum inftituto examine
Td id quod melius videtur, fe inclinare, feu allici Animus perfentit; at
inclinari, inquam, non 'i nam i.
inclinatio illa m attum non Jodit, nifi
ipfe Animus fc cieat, detcrminetaue ad'id,quod melius vilum^ cft
amplexandum; 1 quia quovis' pbfito
rationis confilio, Mens ‘oildvertit. le
facultatem minus bonum fe determinandi ;.de
hac facultate experimentum capere potett, quoties libet, ut fui' juris eife
plene perdifcat. _ V Ex diais fequentia
quam evidentiffime natent. I. Inefle Menti aaivara facultatem, qua ipfa fe cieat, moveatque ad bonumx
pecu?hre perfequendum, ipfa fe avertat. a peculiari malo Hanc aftivam Anim* faculutem t^ohn^ " IMbulo dkliguamus. II. Aa.vam fa.-ultatem, nempe Voluntatem ratioms
confilio equidem regi, at ei non
lubeffe; rationem Ic«ui ducem et comitem, ipfam vero etfe fui Lminam, ipfam, f.bi Di vus Bernardus, de
grat. ratio data voluntati, ut tnfttuat
tlUm, non up ^cflruai ' deUræret auten
/7 nece(fttatem ulla» i^roonere^. UI-
Voluntatem, ^ tionis confilio, deu
incitamento, fuam deter minationem
fufpendere polTc,s’immo aliam pominationem mcitamen nere omnino contrariam ei,
q * V. - ritionifque confilium
fuadent. LilLt/r momine.intelligimus
eam aaiv/poteht.a, indolem-..90,: nMlU
natur* fo* ( V
n^ceflState, nec ulla \extcrna coa6lione invincibiliter determinatur, ad
a£liorverq.; redjipfaj fe determinat,
'ut ita, politis oninibus ^djiagpji^urn.
requifitis,
queat non agere, vel,aliud;5^qU9dvi^. a
politis requilitis alienum. Qfiandoq^ IJbertatU
nomine ipla a£Hva facultas, præfatx -indolis, et natur» intclligitur,.. f - 4
' pt. Duplex adeo Libectas., diftingui folet juxta duplicem neceUttatem ; cui activa
poten? tia fuhjacere poteft. Alia dicitur likfftfl cejfitaie y qu» confidit in immimitate. a
quavis naturali, et interiori vi
rapiente» et determi^ nante ad datam
a£tiodem. Altera vero dicitur iibirtas a,
et hase ia. immunitate a aliquo motivo nihil unquam vult, nihil advefatur.
Sicuti ergo lanx ob impolita pondera
inclinans nihil in fe inclinando libera eft, ita nequi' humana Voluntas, quas a motivis
perpetuo determinatur. At duo præcipue heic
reprehendenda occurrunt I. Mentem a
motivis determinari. ' ir II. Lancis exemplum - Quod ad primum
f|sew ctat, fedulo hæc duo' toto cælo'
cliverla fecernenda funt : Mentem a.mdtivis
determinari; Mentem feipfam ex calculo
mottvonm determinare.Primurd' fi verum
foret, actum eflfet de humana libertate. Atqui’ illud 'ita evideq^ter f.iffum'
eft, quam evidens Animum lentire fe vi
fua, non aliena moveri j fe. a' n?oti
vis allici. quidem> 1’ed non rapi ;
fc facultatem integram habere cuilibet appetitui efficaciter obljftendi/
;fuiqtie juris perpetuo efle. Alterum
vero utique At fjtram quadrare. Sane
Lanx nulla aftiva vi eft£x. gr. Qui
tonos a nervo redditos in. ejus tremoribus confiituit, nequit
‘multiplicium, ac diffimilium tono A
norum rationem aliter expedire, nifi per toti* dem diverlos, ac diflimiles ejufdemque nervi
tremores. -Si ab uno eodemque tremore plures^ac
diflimiles tonos effici contenderet, infeite profecto fe gereret, nec»
feipfum intelligeret; quippe in illa hypothefi necelfe eff^URum eumdemque
tremorem unum eumdemque tonum perpetuo reddere. Ita profefto in hypothefi, qua
Mens humana pro materialis fubflantiæ temperatione
ffa-^ tuitur: cum ideæ Sc notiones aliud
nequeant eiffe nifi moriones, tot
diflin£tas puitiones, atque diverfas fubflantia cogitans fulcipii>t necefle
eft quot diyerfiis, ac multiplices
h:vbet ideas, notionefque. Neqpie juvat' reponere', Mentem ideam B,
t. f:. B, 'qui coram adRat, poflc cum; idea
A,cu-> jus remimfcentiam, habet,
conferre. Quid enim cft^iRuci ideæ
alicujus reminifeentiam habere,, nifi
illam ideam habere præfentem ? Habebit
igitur Mens bmul prætentes ambas ideas A dc B. Datur ergo quod a nobis pofitum eR.
Humanat» Mentem haud effe temperatienem btu>
mani corporis, ac pracipue cerebri^ inviBe y demonfiratur. I. externa Objecta noRri
cor?* poris fenfus percellunt,
'6brar* rumque irritationes ad* cerebrum
ufque deducun»' tur, mox Anima
(enCationes fufcipit. Sed h».
fenfationes phasnomena funt,^ quas tnihibeommune habent cum fibrarum
cerebri, St fenfuum* commotionibus, a
-quibus toto c^l» differunt;
^^.iz.ij.Nequeunt ergo efTe ipfæ commotione^: atque^adeb nec Subjectum cogitationum eR
cerebrum, nec Principium cogitans feu Mens eft.
cerebri, humanique corporis temperatio. Ex intimo confeientiæ.
fenfute.videntiflime docemur, Subje6Ium fenrattoaura, quas five* per unum idemque organon, five per fe
invicem modificantibus, 5c
collidentibus compofitam exprimi poteft, II.
Indicatio horarum eft indici prorfus' extranea : ' Nobis- comparantibus indicis pofitionem ad
va-, ria Digilized by Google quolibet noftrum, haud foret unus et fimplex,
fed adeo multiplex, quot funt illæ
partes A, B, C. ' IIL Tertia tandem
'hypothefis evertit et judicii naturam ( num. I. ), et iotinram fenAita ( n. II. ) nec non fimplicitatem, et ilidivifi•bilitatem
perceptionum (» iia, ). Regeri haud potefl, quo farta teffa fiat prior hypotKefis, illas partes A, B, C
cpmmifeeri, vel in unam coire, -atque hinc judicium emergere. Non enim, nifi
fumnrKa' ofeitantia, "effutiri ifta queunt. Quid fane iftud cft commifeeri ? profecto particularum fitus,
pofitiooes, et tactus ad invicem immutari, et pei^ turbari. At non video, qu? hinc fiat
idearum particulis illis feorfim
infitarum collatio, et com. plexa omnium
perceptio • adhuc enim funt illæ
particulæ totidem diflincta fubjecta, et feorfim 'cxifientia. Illud vero akerum in unum coire pugnat cum naturali partium impenetrabil
itate. Neque quidquam valet, quod incogitanter alii reponunt, cogitationem non
partibus corporea? fubftantiæ convenire, fed toti fub* fiantiæ : non humani cerebri pattibus, fed
ce* rebro,’ quod veluti unum totum
confiderandmfi venit. Revera, quod
totius nomine’ defignatur non eft aliud,
nifi Mentis noftræ conceptus, plu* ra
fimul fub communi aliquo figno, et notione, complectentis : atque adeo, quod
dicitur 'P-2 *. • ' unum o ^8 psychologia' unum totum eft quid tantum ideale, non
reale. Quod reapfe notioni totius
refpondet, eft collectio plurium, qux propriam fingula, et ieparatam habent
exiflentiam, quzque - proinde æque fe
habent, five colIe£live, live feorfini
cxillant. Ita' ex. gr. cum inquam, totus exercitus, totus populus
&c., reapfe hifce. notionibus plurium, et diflinflorum fub;e6Iorum collectio refpondet, quat^, licet collecta,,
adeo funt didi neta inter fe, ac fi
forent fejuncta. Si propterea fubjectum
cogitationis eft fubftantia corporea, plurium nempe realium fubjectorum
collectio, jure, meritoque inferenda veniunt abfurda f^ierius notata. Quævis
materialis fubftantia naturar fua eft iners,* modus autem agendi et cogitandi,
qui humanæ Menfis eft proprius-, inerti* omnino pugnat. I. Nonne Mens vi fua,
et fua libera fponte innumeros ii\
corpore gignit tn9tus, aliofque a caufta
externa ipfi corpori imprelTos, vel ex
mechanifmo pendentes cohibet, ac deftruit ? Atqui quid efl hoc, quod obluBatur
corpori^ fi ni hU fumus prater corpus? cum
fluvius decurrit in hanc partem, non potefi fua V» aquas fifterey aut retro flevere in
contrariam partem. Materia nulla agit in
je ipfam • nulla machina efl fuorum
motuum, confei a ^ ex illa confeientia
fuorum errorum torreBrix, et refor*
matrix. Si errat, nefeia' pergit ^errare, donec ad‘ mota manu %Artificis, aut Domini in flatum
reBum ordinatur f et reflituitur. Thora. Burnet (a).
II. (a) De stat, mort, O*
refarr, c. J. II, Nonne %Animus fenth fe
moveri, iJque dum fentit, illud et una fenth, fe vi fua non aliena moveri} Vividus'hic confcientiæ
fenfus, cui contradicere nemo, nifi efFrxnati Pyrronii poffunt, Juculentiflime
oftendit, humanam Mentem haud elfe poffe
e genere fubftantiaruni materialium. Ipfe RoHflojus eo fenfu monitus, hanc veritatem fateri, coa6lus eft. Natura
cuique animali imperat, et Brutum obtemperat.
Homo eamdem Jentit imprefftonem,* at vero ft liberum agnofcit ad affentiendum ^ aut contra
obnitendum ; et in intimo fenju bujufce libertatis ^nimtr fpiritualitas prafertim
elucefcit In facultate volendi, vel
potius eligendi, et in bujus facultatis
fenfu nibil eji, quod explicari queat
mechanicarum legum ope (a). §.117.
Lockius, etfi non e grege Materiali-,ftarum, fententiam tamen coluit, qua non
immerito vifus eft pluribus, Materialiftarum cauffam indire6^e egiffe.'Haud
nempe conftare pronunciavit, num Deus vi cogitandi materiam ( subftantiam ex mente iua extenfam,
multiplicem, inertem ) inftruere poffit, ficuti vi vegetandi ornaffe in
comperto eft. Certe id opinans, aliquid humani paflus eft, nec fibi compar
extitit : animadvertere enim facile potuiflet,
Animx humanæ immaterialitatem ( fimplicitatcm ) fimili argumento
conftabiJiri, quo ipfe,,Dei naturam immaterialem evicit (b)., u8. Porro Lotkianæ
fententiæ falfitas ex P 3 ha- • * l, / J 'V* * /• V » ' ». Dircours sur
l^inegalitedes iamiptefJ,part,p,'iQ^
(b) SJfai pbllof, cone. i'*nttiid, 'hum, l. 4. liancnus dl£)is
luculentiffime patet. Rtvera »
> cui no^ conflat, Deum non pqHe',
qux fa«C intrinfecus iinpoffibilia
efficere ? on$» ^8. Jam vero cagitandi^ 8 c agendi modus^, qui hu« manx Mentis eil proprius, nequit ulio
pa£h> ConfiHere cum extenfione *
foliditate, et drati ' diametros, elTe inæquales, contra vero ^ æquales diametros circuli. Ita in re
noftra, fuf'‘ikit agnoviffe, cogitationem, fimplicitatem iqi 'Ente cogitante,
requirere e contrario extenfiQ* nem, e
pluribus coagmentationem : agendi facul- ^
tatem fua fponte, lua propria eIe6lione, et quidem libera ( qu* humanæ
Mentis eft propria )- f^X iis, quæ haftenus profequuti fumus, difficile non
eft. Mentis hu« ' manæ naturam et genus
definire. Cum enim cogitationes, ac volitiones Hominis nequeant ef-fc e
temperatione ODrporis: Rurfus> cum
neque cogitandi, ac libere agendi vis, quæ
hominis e ff propria, fubftantiæ extcnfæ, multi' plici, inerti,cojufmodi
lunt quot quot ad ftnfibilem Mundum (peffant, cohvenire poffit ( art. 3.
): Agnofcere hinc cogimur fubje£fum
noftratum cogitationum, et volitionum
effe debere vere, & phyficc fimplex,
ac alius prorfus generis, quani lunt
'Entia quævis fenfibilia. Neque fuipicari 'pofTumus, humanarum cogitationum, ac volitionum *fubje£lum e
genere cfie elementorum corporflm., quæ ex noffra fentertia ( Materiali ftis tamen ncn accepta
), funt'& ipfa phyficc
fimplicia,co/. Nam I. corporum elementa
fola gaudere vi motrice ftatuimus, quemadmodum fingula phænomena edoctnt: cogitandi autem vis omnino alia eff
a vi motrice, neque ut ejus 'temperatio
quævis interpretari poteft. II. Corporum
elementa funt natura lua inertia :
inertiæ autem. pugnat illa cogitandi,* et
libere agendi iacultss, qua fua natu«
psy:hologia ‘ ra Mens humana
juadet : id qiKxl ewncit quoI que, neque ex div na virtute corporum elemeB-'* lis Subjlantia nuncipari. 125. Opponunt Epicurei : I. Anima in ' corpus agit, et viciflim corpus in Animam. Similis ergo eft utriufque fubftantiæ natura:
qut enim fubftantia extenfa in fimplicem,
et viciflim, agere poflet ? II. Animi ftatus determinatur a ftatu corporis : ægra
quippe eft Mens, triftis, lata, delira
&c. juxta diverfos corporis ftatus •
et e contrario, pluries corporis ftatus ex
Animi ideis et modificationibus pendet.
12 ( 5. Refpondemus ; I. fubflantia extenja in Jimplicem agit ? (tf)
Norunt’ ne melius Ad I nui
' Ii—. II l 1 i a K V
Juxta opinionem quam in onrdiogia §. fequut^, fiimus, qu 2 v is fubftantia natura fua.fimplex
eft, ipfa, corporum elementa vere
fimplicia funt §.i6wC^/' stantiam ( fcilicet
"Mentem ) agunt? In nostra ergo da* >
fimplkitate elementorum tenrenria" evanefcftt omoino iHa' apparens contradidio, quæ primo occurrit, cum
invicem^ conferuntur extenfio, qua;
corporis est proprietas (( nem-^ pe_
phamomenun pendens ex plurium C0mristenria)^&fimpUeius; qu£ est Mentis..
\ .1 ’ ' •. Adverfarii, quf corpora invicon inter fe
aganf, pufa, qu? magnes trahat ferrim ? Corpus
equidem in corpus agit, neque ttmen de hoc phænomeno adeo fenfibus obvio, tot
tantifque experimentis, et oblervationibu} undique expenib, probabilem, imrao verofimiicm
explicationem protulere. Quid ergo mirum,
fi æque ignorare nos fatemur, quomodo Mens ( fubftantia^firaplex ) in corpus,
et corpus viciffim in 'Mejitem agat ? Itaque infeite nimis Epicurei ex hac «oftra ignorantia contendunt, unam,
eamdemque naturam utrique fubftantiæ
tribuendam. Simplicitas certe humanæ Mentis apodiftice cft dcnionftrata.
Evidentibus ne demonftrationibus vai
ledicemus, et in innumeras nos conjiciemus contradi6iiones, quia phænomenon,
cui explicando pares non lumus, occurrit,
aftio fcilicet Mentis in corpus, et corporis in Mentem ?( I -I ' * id) Mons fenfuuih confnetndir» abrepta
nihil follicita 4St rationem,
investigate reciproca; corporum inter fk
aiflionis^ feque intelligere putat, quod profoiAo non inf teJiipit"*» Deinde reciprocæ aftionis
notio, quam fenfuum ministerio nobis'
comparavimus,* perpetuo stipata occurrit cum' idea fimilitudinis -naturse, Teu
generis Entium inter /e a,{enrium. -ista idearum. adfociarione illuhs,
tecl{HTOca Entium diverii generis inter fe a^io extra communes ideas vagari
videtur ; atqui noonifi fumina infeitia,
Si. temeritate inter impolIiblU» rejkl potest * $. *
invenire (a) ? Sed d 6 hac re uberius infra ۥ differam.
II. Harmonia, quam inter Animi, corporifque determinationes, et ftatus
perpetuo experimur, non ex natur* fimilitudine, fed ex qua* dam reciproca utriufque fubffantix
communicatione pendet. Sane cum Homo fit Ens mixtum, feu individuum ex Mente et corpbre conflans,
ejus Au^or Deus utriufque fubflanti*
naturas cudit, ac temperavit ejufmodi,
ut mutuum inter eas intercederet
commercium, alias biceps monftrum
effeciffet. Commercium i(lud,feu mutua iftæc ani-. mæ, corporisque Temperatio in eo confiflit,
ut nc- • queat Mens, quoufque in corpore
degit, inlitarum fibi facultatum a 6
liones edere, nifi concomitantibus. quibufdam fibrarum cerebri motionibus.; et c- converfo, nihil queat in corpore ^effici,
nifi affines in Anima refpondeant
affectiones. Hinp fit, ut Anima flatura
affumat corporis flatui affinem ; et e
converfo, corporis flatus ab illo
lyientis modificetur. Quo Adverfariorum oppofjtionibus aliqua poffer vis
conGflerc, oftehdcn*. dum ipfis foret,
impoffibile effe, fubflantias diverfi generis, et natur* in fe invicem agere, 8c quidem evidentibus rationibus, non
infulfa, 8c ridicula captione : id haud
concipi poteff, ergo eft impoffibile. De
Commereto Animam inter Cf, Corpus
attentionem ad ea, qusc 'in nobis
ij perpetuo geruntur convertamus,
deprehendemus I. Quoties renfuum organa rite funt -confHtuta, et actione 'externorom
objectorum pultantur, toties Menti etiam n» appellatur. Præter hxc tria ^ nullum aliud lyftma nec eife, nec concipi
poffe y videtur..... 4. Tria Jsc
fyljcmata copcinna >fimilitudine, e-x duobii horologiis conlonantibus
petita, illuftrari pount. Triplici equidem ratione fieri poteft, ut do horologia lint inter fe
con. lonantia: i. per ifLuxum ^ fi nempe fecerimus, ut alterum in alrum 'agat ; alterum
alterius motiones excitet ac determinet.
%. Si quadam præordinafione it fapienter
eas machinas perfecerimus, ut lingip luas exa£le legei fequentes, et quin in fe invjem agant, barmoriite fihi
perpetuo refpondeani 3. Si opificem operi cwnitcm vigilem, ac perriuum 'adjiciamus, qiri
fiugulis momentis alterii motum unius
motui» attemperet, 3 c alterurex altero dirigat Erit modo opifex harrniæ inter
utrumque horologium intercede s efficiens CaulTa, ipfa Vero horologia cauffauafionales. ff i •
/ V'' i ' sAdfi flentia SyfleMa.expendhu* f' ac'
refutatHr. O Yftema adfiftw*ntk
_^Malebranchium ‘ primum habet Aiflorem.
Nc» torporm ( ita ille )non poffunt vera Cauffa
ul' ' lius rei, Mentes etiam[ uciiiflima i» eadem ' verfantur impotentia. Nihil loffunt
cogttofcere, nifi' Deus illas >
illuminet. Nhil poffunt feriti're i nifi Deus- illas modijeet. Nihil pof' JuMt
velle'' ^ nifi Deus ipfas verjus Je moveat,
l' ‘. Cauffa naturales nor. funt vera eaufl
' t f a. Nihil funt \ quryn. Catffa
oceafionales, qua non agunt, nifi vi, C?
efficacia voluntadivina.. Hinc igitur concludendum efl, homines quidem.velle (movere trachium, fed
Deum > Joium poffe, O" noffe
illud nOvere. (a) r ^ 1^4. Alii moderatius
opinantes lolam vim fentiendi corporis
modificationes Animæ dene* . gant y et vira
corporis motricem. Deus ; in* ',
'quittht, fenfationes Animat ingenerat ex occa. ” ^iione motionum corporis, nec
non. motiones in corpore ex occafione
volitionum, et affeflionum • Animæ,
idque.conformiter legibus a.fe fiatutis:
^ Cæteras vero ideas ex (enfuu!n motidnibus miinæ- pendentes ipfa' libi
Mens cudit meditatio ne, abfiaa^ione, ratiocinio ''&c. ex antehabiris tdeis a Deo imprciTis occafione motionum
corpo. * i ' t-i r (a) Hecher. de' la veriti lib. fiuiem, chap,
traif. /econd,>part. bG rfoph»nti vacuum, ac prorfuS ebramentititim videri" iftud
OceaGonalidarum fyfteln^i’hihil dubito. Equidem, ut merito inquit Tullius, magna flultitia efi
earumterum- Deos facere effe£hores\ 'Cauffas 'rerum nort quterere - quidquid enim' oritur, '
quaUcunque ilm tud sJt, cauffam 'hSbeat
a ' natura^ neceffe eji. Sane Philolbphf
V^ferum naturaliurii’' -cauffas ia«
quirentes, haud Gbi proponunt primam', et uni« verfalem Cauifam determinare ( ecquis
ignorat) rerum omnium Caudam primam, et univerfalem
Deum eflel ), fed aliam pratter Deum quæ»
runt, quæ Geuti a ‘Deo ipfo exidenttem lufce* pit, ita et ageriiii" facultate’
ab-e^em> prajdjta i propria, et i m
mediata -phyGca actione effectum
producat. ‘Porro in 'syflbmate-* adGftehtiæ" omnis bujurmodi caufla fubmovetur, Deus in
raa* chinam advocatur. Vacuum^ proiade
eft. hujufjmodi (ydfema’^, &“ philofopho indignum Nonno deridiculus eflet^^qui interroganti eccur
Magnes trahit ferrum* eoalr" Maris
aquas pene lenis quibufque horis
'-intumefcaht, tu*!!! alternatim,
^tumclcant, gravittr refponderet, id ex ea ‘ Q.'' iti i, Dt' divinat.^ Si fieri, quod Deus, juxta ftatut.m fibi ipfi
legem, ad magnetis prælcntiam, ferrum ad
magnetem ipfum propellat, aqu s vero
maris alternis vicibus elevet, ac deprimat ex occafione determinati aipe^us Luræ
? Ecquid philolophia iflEæe muliercularum infciiia, omnia ad immedia« tam Dei virtutem referentium, piæflaret? 1^6 Atqui, inquiunt, iniolubilis. alias eft nodus commercium Animam inter^ et corpus.
QuaG nempe in adnilentiæ fyftemate
perdifficilis hic nodus folvatur, non amputetur
potius. Jam vero, quod Animæ, et corporis commercium fit, phænomenon inexplicabile,
id trguit quidem,noftram ignorantiam,
non, vero naturalis caiiOæ- deft£lum.
Confer ont. - Deinde fi corpori.^ motiones nihil omnino conferunt ad diverias, Animi
perceptiones, cui ufui dicemus fabricata fenluum organa ? Nempe,! inquiunt,
iunt fenfuum organa eo refpe£fu,
neceffana, ut ex. horum mutationibus,
tanquam occsdk)nibus,.Deus juxta generales a ie fancitas leges determinetur ad Animaro
diverfifnode modificandam:. Sed iUi^d yelim edoceant Occafionalilts,. mptationes, quas fenfuum
organa fubitura Junt fiupt ne asione circumflantium, ac prementium corporum,
tel immediate a Deo cx eorum occafione ?
Si primum afTe> runt, jam cau^m
produnt :. tribuentes enim corporibus
a£f ivam- vim, qua inter fc agere
queant, nuUo jure feofihus, deqegare pofTunt activam vim, qua in Animam
agant. Alterum vero fi- fateantur. ( ut
fciiicct ipfi jGbj fint confentanei ),
inutilia efficiunt fenfuum, organa * quippe ex occafione circumflantium
corporum 'poteft Deus illico fenfationes
in Animam immittere, quin fenfuum
motiones, ab iplb Deo>excitiaDdat intercedant. Nimirum in adverlariorum
fyftemate circumdantia corpora lunt
occafiones, Deo, ut motiones in fenfuum
organis excitet ; deinde ha: motiones
funt rurlus occafiones Deo, cur
fenfationes in Animam immittat. Non ne breviori via, &' fapientiori
confilio faftum. effet, fi 'leniationes
immediate circumdantium corpo' rum occafionem fequerentur ex ipfius Dei aftione,
quin fenfuUm. motiones intercederent ? Sane
non funt multiplicanda, entia fine necelTitate, et fi^uftra fit per plura, quod fieri poteft
per pauciora. Vel ergo. Deus inconfulto
egit hominem fenfibus ornanda, vel noftrorum fenfuum, totiufque corporis exiftentia ludrica rescft.
Con^ fer quæ diximus in nota iTq. ont.. > ; 1. iir.. ' i ' ' Harmonia praflabilita fyflema a
Lelkniti», . propqfitum’ exponitur y
atque rejicitur.. i tV.' 1 i ; ' ' ' r
i » i ' . T Eibnrtius, Vir et acumine,
et fub^ ri*'-'!- limitare ingenii. nulli
certe fe^ cUhdus, quo mirabilem Mentis,
et corporis hatH moniam expediret, ita
philofophatus eft. t Et r. quod ad
Animas. fpe£lat, pofuit,i. Hominum Mentes vi fibi repræfentandi Univcrfum prædiras efre,& quafi mappam
cofmographicam. interius geftare ; Nempe
efle in continuata ferie cogitationum,
et appetitionum ie ita excipiens Q, 2
tiura. ^4 PSYCHOLOGIA tium, ut quævis cogitatio contineat
fufficfentem rationem fubfequentis : et quivis Animje flatus antecedens gravidus fit pofterioris. 2.
Quamlibet Animam cx fua effentia, ac natura propriam habere cogitationum, et appetitionum, leriem, et cur potius talem, quam alteram.• Hinc Mentem automaton fpirituale dixit
Leib; nitius., II. Quod vero humana
corpora, refpicit, cen- fuit, I. quod vis corpus automaton effe vi, fibi. propria, et fua natura fingulas. fubiens
motio-, nes etiam in continuata ferie,
ut adeo quzvis: antecedens motio
lufficientem habeat -rationem
fabCequcntis : 2. nec noq ex fua natura habere, ut talem potius, quam aliam feriem
motionum ceperit, profequatur,
modificcfque juxta varias circumflantium
corporum actiones, et cpnve-r njenter
legibus mechanicis. III. Hilce pofitis
principiis ita profequutus eft. Deus
infinitas numero Merttes, et corpora
fibi quam diftinftilfime repr*fentans, prxordinavit, eas': Mentes V
caque Corpora confociai^, .quorum feries. operationum ac.flatuum perpetuo
harmonicæ elfent, et apprime confentientes,
Ex hat perfeftj operationupi utriufquf autotna^ ton harmonia fieri cenfiiit, ut videatur
Anima in cqrpos-agerC, et vicilfim. At
vero nihil inter fe mutuo agunt ; utrumque quam cepit ex lua natura operationum feriera, camdem vi
fua perfequitur, et independenter a vi,
et operationum Icrie alterius, quin
nimirum, alterum in alterum agat: et ita,
quidem, ut ufraque fubflantia. feu
Autpmatop4^ Mcns fciJicct.^ corpus, eamdetn; operationum feriem cepiflTet, ac deinde
perfequeretur, etiam Ci fejun£lim' altera ab altera exifteret, vel nonnifi alterutra tantum
condita fuiflet. Ingeniofum equidem
inventum, at extra communes ideas ; et quod
nulli fuperex» fru£lum rationi, mere eft
hypotheticum : Id quod et ipfe ejus
Au£Ior, et acerrimi propugnatores WoJphius, et Bilfingerus ingenue funt falli. Sed expendamus utrum hominis realis
naturæ, et phænomenis conveniat. 140.
Principio ponitur in hoc fyftemate
Mentem in continua verfari cogitationum feriO, quarum quælibet rationem fufficientem
fubfequentis contineat / id porro eft, quod hominis realis phænomenis pugnare, et fine
fufficienti ratione pronunciatum efle,
perpetua experimenta quemlibet uberrime edocent. Adpofite Qe*. nuenlis ; fumat quis i» manus Itxkum
aliquod lingua alicujus, catalogum
plantarum \ animan* tium, aut aliarum
rerum, di£iionaria artium, fcientiarum,
bifloriarum j intra- horam percurre» re
poteji duo millia verborum idearum inter fs
nullo modo connexarum, plantatum dljffimilium. animantium y artium, faStorum, hominum
illtiflri* um. Quis ia omnibus his
dixerit rationem pojte* rioris idea aut
pereeptionis contineri in anteric» re y
et non potius in imprejfionihus in fenfibus \
aut cerebro faflls ? Ex. gr. lego hac verba y '%/fa» ron,,Ari/lides y ^ri/lippusy * 4 verrobs y
Buflris y Bucephalus, Binckerfoek,
Bilfingerus y Cedrus Cafar y -Cefenates.^ Centaurus^.David y Delphus; Dido, Dantes, totidem,\obverfantur menti Q.‘i
De Commento Animam inter &. Corpus
attentionem ad ea, qua; "in nokis
iJ perpetuo geruntur convertamus,
deprehendemus I. Quoties fenfuum organa rite funt -confHtuta, et actione 'externorum
objedto» rum pullantur, toties Menti
etiam nolenti-* pras» fto occurrunt
eorumdem notiones, et quidem >
vivldai, vel confufæ in ratione irritationum in ipfis fenfuum, organis factarum, et ad
cercbratn ufque productarum' II. Etiam
Corporis.affe» ctiones in Animam
redundare videntur,-_Mens nempe (latum
adfumit corporis (latui afHnem 4 ita ex.
'gr.' 'læta eft, et viribus erecta-, (i corporis temperatio vegetior (it, et valeat
• tridis e contrario, 5c veluti
dejecta^^ corporis temperatione 'ientcfcente, torpentrbufque viribus; ha. bilis expedita in fuis obeundis
operationibus, vel e contrario tarda, ac
incerta,' juxta æquilibratam', Vel turbatam fui corporis conflitutioncm. ' III. VicifBm. Ex Mentis arbitrio
extemplo’ torporis membra' motiones
lubeunt, quæ nie-'^ ^anicJt- eorum
(Iructutæ fuiit conformes, et io his
r.|nvdiu durant, quatmdiu 'Menti libuerit. •
ly. Nec' non Anjmj jdta:,& affectiones pluTimum modificant corpus',
ut adeo in corpus ipfum manare videantur.
Sic animo ira concitato rubent oculi, faciei et totius- corporis niu, fculi^tcpJunrur. Invidus alterius macrefcit
rckus opirarn: &t..'-r, i»8. Hzc phainomena ne dum miram intercedere
harmoniam oftcndunt Animam inter et corpus;
fed et mutuam dependentiam ftatuere videntur, nec non arctiliimum vinculum, quo invicem inter fe con(ociantur.
Equidem vinculum iftud, quodcumque
tandem fit, ficuti præter noftri
arbitrium feniel conftitutum cft:, ita
prjeter noftri imperium, qupad vivimus,
pergit, ac tandem diflblvitur. Ffthæc liartnonia, qua Animi affectiones, notionelque'*
apprime rdpondent temperationi, ac
motionibus corporis ab externa cauffa illatis,* et qua vicifiim corporis
motiones atque ftatus, ideas, affectionefque Animi, feqUuntur, commercii nomine
venit. Perdifficilis
heic occurrit inquifitio; qui Commercium
iftud Mentis &' corporis ablolvitur? Difficultas maxima in eo primum
con* fiftcre videtur, quod Mens et corpus
fint. naturæ toto cælo diverfæ ; deinde,
quæ funt corporis, et fibrarum cerebri
motiones, excitant in Anima perceptiones, notionesque ^ et viciffim, quas funt Animi ideæ, et volitiones, in corporis
fibras, et membra, motum cient,. 'Definiuntur hypotbefes, ^ua hlfce fuperjirui pojfunt Metapb/fieorum fyfiemdta ad exptieandum Mentis humana > et Corporis commercium. y* mirabilem harmoniam Mentem humanam inter 8c corpus expen^ ». dens, ejus rationes inquirere fa i * tagit,
protinus agnofcit jnonnifi alteram dua* .
• rum fequentium 'hypothefiura pbfle affumi. I!, Vel nempe realem quamdam, et reciprocam
in« ter utram que Tubllantiam actionem
intercedere • ^ ut adeo Anima fua
propria actione corpus mo» dificet, ac
moveat: Sc viciflim corpus in Ani®i^m agens illam di verfimode aihciat,
variafque excitet ideas : Vel II, nullum
intereffe reale commercium • Animam
inter et corpus, sed 1 tantum apparens •
ut ita nulla fit Animai in, corpus a^io, et vicilSm corporis in Animam, Jicet^ ftabilem in utriufque fubftantiæ ftatu
harv^moniam confiftere deprehendamus •'*, '
^ Syftemata,qux priori hypothefi inædificantur ve/ pbyfici influxus de
nominari merito poffunt, Altera vero hypothefis
ad duo diverfi genens fyftemata abire cogit. V^l enim deveniendum eft ad quamdam prseordjn^tioncni
a fupremo rerum omnium Opifice faflaip,
qua dua! fubftantije, Anfma et Corpus, propri'i quidem vi, at fcorfim, quin altera ab
altera ullo pa£lp pendeat, Tuarum
aftionum fimilem -.A. « •
8c confonjtn lenem perhcientes,
invicem lint confociatæ. et lyftema
iftud harmoma ^rajlab‘f litte nomine
defjgfcatur.* Vel ftatuendum cft, Animæ,
et Cor|^ri perpetuo adefle. vigilem et fatis potentem Cauffam, quse juxta corporis
flatum', fingulafque fenluum determinationes, Ani- mam fimiliter afficiat, et conlonas
iii, ea gigrtaf ‘ notionesj ac vicifim,
juxta diverfum ' Anirr.as ftatum,
ejufque dverlas determinationes limilitcr modificet corjbus, et varios in eo
motus cieat' et hoc syft ma adfiftentite,
vel- caUffa» rum occafionalium
appellatur. Præter hæc triai,.» nullum
aliud lyftema nec effe, nec concipi pofIc y videtur.., t. 4.
131. Tria h*c fyljcmata concinna \fimili- t
tudine, ex duobus horologiis conlonantibus petita, illuftrari poffunt.
Triplici equidem ratione fieri potefl,
ut duo horologia fint inter fe coa»
lonantia: i. per influxum^ fi nempe fecerimus, ut alterum in alterum 'agat ; alterum
alterius motiones exciret, ac
determinet, a. Si quadam præordinafione
ita lapienter eas machinas perfecerimus, ut lingulaz luas cxa 6 le leges
fequentes; et quin in fc invicem agant,
barmoniee fihi perpetuo refpondeantj Si opificem operi comitem ' vigilem, ac perpetuum 'adjiciamus, qui
lingulis momentis alterius motum unius
mgtuir^ -attemperet, et alterum ex altero dirigat ‘. Erit modo opifex harmoniæ
inter utrumque horologium intercedentis efficiens Cauffa, ipfa Vero horologia cauffa accafionaUs. n mod»
' corftrx ( ita ille )noa poffunt 'effe verg Cauffa ullius rei, Mentes
etiam' uobHijfima in eadem ’ wrfantaf'
impotentia. Nibil poffunt cognofcere ^
nifi Deus itlas^ illuminet. Nibil poffunt 'fentire / nifi Deus- illas
modificet, Nihil pofjunt velle'- ^ nifi Deus ipfas verjus Je moveat. . Cauffa naturales non funt vhra eauf'V fie Nibil funt \
qutyn. Cauffa occafionaies, * qua non
agunt, nifi vi, et efficacia volunii'
divina... Hinc igitur concludendum efi,
‘' homines quidem. velle ^fio ne
motionum corporis, nec non. motiones in
corpoM ex occafione volitionum, 8? affeflionum ' •Animæ, idque^conformiter legibus a /e
(latutis: ^ CaiTtras vero ideas ex
ienfuum motidnibus mi^ ^1» ime- pendentes ipfa fibi^Mans cudit meditatione,
abflEaSro&e, ratiocinio &c. ex antehabitis tfdeic a Deo impre,flis occafione motionum
cor poRecber'. de la veriti lib. fiteiem. chap, treif. fecotui.-Part, t
b,’.C *i’'‘i 8^ pdris Atqui Alii
lyftemati caulTaruni occafio» nalium
tenacius ‘adhærentes, has ipfas ideas a
Deo 'infundi perhibent oc inodi
lyftfema ; et philofopho indignum.' Nonno
deridiculus effet'''qui interroganti eccur -Magnes trahit ferrumi' eocilr” Maris aquas pene
lenis quibufque horis '-'intumefeant,
tum alternarim ^tunfielcant, graviter
refpohdcret, id ex ea ' ' Q ' " '
• -fie .(a) '• JL' i. De divinat. fieri,
quod Deus, juxta ftatut,m fibi ipfi legem"'*, ad magnetis prælcmiam ferrum ad magnetem ipfum propellat, aqu s vero maris alternis
vjcibus elevet, ac deprimat ex occafione deter«
minati aipecfus Lunse ? Ecquid philolophia i Illise {nuliercularum infciiia,
omnia ad iromedia^ tam Dei virtutem
referentium, pt*Haret? i^S Atqui, ir^uiunt,
infolubilis. alm eft nodus commercium
Animam inter^ 8 c corpus. QuaG nem,pe in adfiftentis^fyftetnate perdifficilis
hic nodus Iblvatur, non amputetur potius.
Jam vero, quod Anim*, et corporis
commercium fit,ph*nomenon, inexplicabile, id trguit quidem vjnoftram ignorantiam, non,vero naturalis catUiæ defe£lum. Confer ont.
jzp. - J37. Deinde fi corpo^i$ motiones
nihi^ omnino conferunt ad diverfas,
Animi perceptiones, cui ufuj dicem.us fabricata fenfuum organa ? Nem{%,:
inquiunt, iunt fenfuum organa eo
refpe£lu. nccefTari», ut ex. horum mutationibus, tanquam occafiunibus, Deus juxta generales a
fe fancitas leges }i MenS;fcili.cet et corpus,
eamdem.: operationum feriem cepiflct, ac
deinde perfe* queretur, etiam fi
fcjun£lim' altera ab altera exifteret,
vel nonnifi alterutra tantum condita
fuiflet. Ingeniofum equidem inventum, at
extra communes ideas ‘ 8c quod nulli luperex» fruftum rationi, mere eft hypotheticum :
Id quod et ipfe ejus Auftor, et acerrimi
propugnatores Wolphius, et Bilfingerus ingenue funt fafU.Sed expendamus utrum hominis realis
naturæ, et phænomenis conveniat. §.
140. Principio ponitur in hoc fyftemate
Mentem in continua verfari cogitationum fcric', quarum quælibet rationem fufficientem
fubfequentis contineat,* id porro eft, quod hominis realis phænomenis pugnare, et fine
fuffirienti ratione pronunciatum efle,
perpetua experimenta quemlibet uberrime edocent. Adpofite Qe*ruenfis : fumat
quii in manus lexicum aliquod lingua
aticujus, catalogum plantarum, animan*
tium, aut aliarum rerum, di^ionaria artium, fcientiarum, bifloriarum j intra- horam
percurre» re pote/i duo millia verborum
idearum inter fe nullo modo connexarum,
plantarum dlffimiliuni. animantium y artium y fa
Siorum y hominum illujlrt^ um. Quis in
amnibus his dixerit rationem pofie»
rioris idea aut pereeptionii contineri in anteric» rcy et non potius in imprejfionibus in
fenfibus i aut cerebro faSlls ? Ex. gr.
lego hac verba, “i^a* tony tAri/lides,
tAriftippuSy *AverroSsy Bufiris,
Bucephalus, Binckerfoek, Bilfingerus y Cedrus Cafar y Cefenates..y
Centaurus^ Davidy Delphus, Dido, Dantes,
totidem.\obverfantur menti perceptiones y efl autem quis Adeo ineptus qui
di» cat y rationem Jufficientem notionis
^ 4 rijlidis efft in perceptione fuwmi
Sacerdotis » 4,ironis, */Triflippi notionis in i^rifiidey -^-verrois in
x^ri/lip^ po &c,.... niji hac
componant Leibnitiani y fciant y neminem
effe adeo incogitantem, qui hac Jibi
velit perfuadere. Sunt, inquiunt, rationes ^ uf^ fidentes, quas non pervidemus,* fci licet ita
lu» dere cum pueris potuit renatus
Pythagoras, ut jis una e(fet^.rat'Oy
ipfe dtxit e at philofophis ut nova
doSlrlna perfuadeatur, rationes faltem pro habiles reddenda junt rhefim rcfta
in iciealifmum, tum et egoifi mum
ducere. In animum quis ponat luum,
Mentem automatoA elfe ejulmodi, ut vi et na. tura fua independebter a quavis extrinfeca
cauffa in fua verfetur perceptionum fcrie, undcnam refcire poterit, fpe£labilem Mundum,
ipfum* que fuum corpus exiftere ?
Perceptionum feries, utpote ex Animi
natura manans, eadem evolveretur etiam fa£la hypothefi, qua nullus exifle* ret Mundus, nullum ^corpus, nulla alia
Mens. Equidem Animi ideæ realem libi
vindicant exiftp^tiam, funt quippe iplius Animi modificationes, quas interiori
fenfu perfentifcimus atque adeo de
ideali Mundi exifientia certi efficimur. Sed cum hæ ideæ nullatenus ab
extrinfeco pendeant, nullatenus conftarc poterit, extra ipfam Mentem cogitantem aliquid
reale exifiere. Caujfalitatis jyfiema
Peripateticum exponitur^ et exfufflatur.,.
.,^^ AufTalltatis, feu phyfici influxu»
V y iyflema a.Peripatericis peflime «
Sc portentole expofitura i. duplicem Animas tribuit intelle6Ium, agentem
unum, patientem alterum ; i. duplicem pojnit idearum, feu fpecierum naturam,
quas imprejjfas dicunt, et expreffas. Hifce pofitis principiis, ita rem
expediri putant. Externa objecta ftatim
ac in corporis organa fenforia agunt, commotionem in fibris excitant, quz ad*
cerebrum illico perducitur. Hanc fibrarum cerebri commotionem ideam materialem,
et fpeciem imprejfam dicunt. Imprefla ifth*Ec fpecies ab agente intelleHu
arripitur, et fpiritualiratur, feu in ideam vere talem, et perceptibilem
convertitur, et in inteU ie$lu patiente
exprimitur, a quo propterea percipitur • et hasc vpcatur idea exprtffa • Simili modo ungulas corporis affe£liones Animz
communicantur. Quod vero fpe£lat corporis motiones ex Animi imperio derivantes,
inquiunt, vim quamdam ‘ex Anima in
corpus manare, et eorporatig^ari,
ejufque membra agere juxta determinationem ab Anima acceptam. 145. Portentofam opinionem expofuifle, confutafie eft : neque enim operas pretium
cft in ea diutius immorari. Alias ergo
concipiendum cft caulTalitatis fyftema. Cauffalltatts fyjlema novo conamine
expomtut, quidque tandem fentiendum fit
de *^nima, Cr corporis commercio
edocetur, 146. T Ictt cAuflaiitatIs
fyftema feffime Gj i A a Peripateticis
expofitum, Gaud tamen ab eo recedendum
videtur j fed potius novo conamine, fi
Superis placet purgatiori philofophia
duce adriiti debemus. in eo, adornando. Sane cujufque phænomeni-'fua.
fufficiens ratio effe debet. Cum ergo
ratio fufficiens har* moniæ Animam
inter-& corpus nequeat aliunde
derivari, quam ex altero trium fyftemafum, feft cum coV. S cum
ad hominem conftituendum natura fua fi
deftinata. ;a. ; /«mnrU in ir.
Quod vero fpectat " Animam, quid
pugnat aflerere, A”'™" ' effe
natur*, ut affici queat actione et tempe
ratione corporis, ejulque y.m
terminari ad vi T l^cu c)us natura fluentes a modificat, vl, et F^cu^ liari actione um ? (a) Nempe vis, qua fubftantia mate in alteram ejufdem natur*, agens ; receffum ( fcilicet motum ) gignit, m
ulKra fubftantiam diverf* natur*, An
virium, e qui“ if 1 r I I X.. ,^i,
' Nolim calumniam quis milii inferat ex hoc ex>•mplo. Quorfum exempla
fpe^ent, norunt quotquot equo judicant
)ove, quod femelmonuifle fufticiat. Quod
ad prafens adtinet, aperte dico, vim plantjc vegetari* vam ex fumma virium omniurti fimplicium
fubstantiarum, ftu elementorum, quibus planta coalefcit ) confla* ri i atque adeo yel diflblutis- planta;
elementis, vel extra Ordinem pofitis,
violenter aftis, diflbeiatis &c. v \s vegetariva deperit. Contra fe res
habet de Anima, qiiat cum fimplex fit
fubstantia j et una, viia^liva cogitandi expoliari non potest ; ad fummum in
agendo obtundi poterit, neuriquam
extingui j. fubstantiarum quippe natur* mutuis inter fe aflionibus
modificari" quidem' poCftfht*J‘at deteri lifequeunt * i • bus actiones fluunt fubflantiarum,
quibua vires, ipfa infunt, mutuæque
excipiuntur actiones. At virium
quarumvis incomperta nobis cft interior natura, et realis effentia, non fecus
ac fubflantiarum, quibus illæ inlunt. Et
quod ad præfens adtinet., fufflciat
animadvertere, i,, fubflantiarum
materialium nos 1 nihil aliud fci pe, nifi quod invicem in:> fe ij^^pt, et in
feni' fus noftros y atque hinc varia^
Meati percipien». ti phænomena
occurrere.^ 2. fimilit^ Jiumanæ Meritis
nihil aliud no« fcire, nifi qnod.firnf*
plex fit fubftantia, fentiens, attentjcns, fibi confeia &c. Cum igitur intimam realem
effentiam ignoremus utriufijue generis fttbiftaqtiariHmyi. nec, non realem *:naturam virium ;iis
ipfitprwinlU*'' hint profecto fierlt
neqyit *, quia inexj^caubilCf fjt phænomenon
commdrcium Animam inter et corpus,
ejufque plendi foli^tio etttra hutnai
nas ideas vagetur, ' , C^uo cpgo, inquies, philofophorun\ fpectant theoriæ, et fyftemata ? Nempe humanæ
cognitiones jeapfe circa phænomena verfan-'
tur, non circa phæriomenorum caufiTas. Cum enim phænomena vel quamdam
inter ie habeant analogiam, vel
qiKemdara nexum, tum alia fint aliorum
modificatioæs* ; in eo totius- philofoi
pbiæ fumma verfatur, ut phænomena peculia». rifl;.per
pauca* quædam generalia, $c lingulis nota,'
ex-po.oaraus, vel per eis fimilia, quæ, magi^ patent. Analyfis,ope Philofophi ex
peculipri^ bus phacnomeYiis generalia,:
quorum illa lunt, niodificationes ;;
colligunt : tum inverfa metho»i do, quam
fynthefim appellant, h?ec genepalifj phjEnomena pro principiis ponunt, 8 c in
com. binationes, quas fubire pofTunt,
inquirunt • atque hac methodo ratjonem adfignant peculiarium quorumvis
phasnomenprum, qua; per illas
combinationes poflibilia funt. Theoriæ itaque, fyftcniata, explicationes philofophorum
&c. peculiaria refpiciunt phænomena ad certam claffem fpeflantia, quatenus
ex primitivis, et generalibus phxnomenis derivari poffunt. Jam vero cuna quæritur,
quomodo Anima in corpus, et viciffim
corpus in Aninaam agit, patet, primitivi et generalis phænomeni rationem quæri,
(icuti in phyficis fi quærerem, quomodo Planetæ in Solem, et Sol viciflim in
planetas agit ; qui vegetantia, et animali^ feipia reproducant, et illa
exhibeant phænomena, quaj cujufque funt propria &c. Cum ergo r. virium interior natura lateat * 1.
nec generaliora, et magis fimplicia
nobis pateant ejus generis phznomena,
quorum reciproca Mentis, et corporis harmonia fit modificatio, nullam adæquatam,
vel fufficientem illjus explicationem adfignare poterunt Metaphyfici. Quam ergo
hac de re lupra expofuimus opinionem, et explicationem, mancam effe, et tenebris
circumfeptam, ultro fatemur* fed ab ea haud recedendum putamus, neque ultra follicitos nos effe
debere. 153. A£\ionem Animæ in corpus
negant aliqui eo permoti argumento, quod
ipHs ignota fit fibrarum cerebri textura,
tum nervorum, et mufculorum per corpus
dimanantium jorigo, quorum fcilicet ope
finguls motiones cieri debent. At id nihil vetat, quominus Animam ex imperio
(uum ciere corpus dicamus j quam enim
ii£lioncm in corpus exercere Anima de*
beat, et in quam cerebri partem, experientia edocetur, quin corpofis et cerebri texturam
calleat. Sane videndus, pueros manus, pedelque &c. diu inordinate geftare, ad objefta parum,
aut nihil dirigere Icicntcs, demum
fuoram organorum ulum longa experientia edifeere. Concipe ab. ingeniafo qmdam
tArtifice fontem quemdam ad artis
mechanica, et hydraulica amufjim ita
conJlruSum effe, ut quqmprjmum, ajfercuti, per quos aditus demum ad fontem datur,
incedenti* um grejfu deprimuntur,
occulto mechanifmo variarum rotarum y funiumque ope jub affer ibus a b-^ f condit orum, alia atqua aha mirifica f
pectes, e fonte conjejltm profiliant y
quales v. g. fontes Kirc herus, Sebottus, alii que dejeribunt. Concipe Jam tibi y puerulo ad hocce Jptbiaculum edmifjo.y
cum hac adeurrit, "Neptunum cum
tridente minaci obviam fieri y dum illæ, Nereides,* ex alia parte Glaucum marinum y alibi vero Delphinos ^ 0“
fic porro. Puer ifle mechanifmi
abfeonditi ignarus, nec ad omnia praf
entia attentus y non obfervabity fe
revera asione fua producere bofce effe&uSy obfervabit tamen, ft adverfus
eam partem procefferit y jemper fibi hoc potius, quam, aliud obviam fieri
obJeCium : poterit igitur Jam pro lubitu
hec phtrnomena moderari, ac fi v. g. Neptuni, ac Jceptri e/ufdem tricipitis contemplatione
deleBetur y tff ere y ut prodeat y fi Jcilicet verfus certam plagam adeurrat.
Nemo dubitaverity puerum horum motuum
cauffam effe, ac aflione fua phre^
namena producere. Ve idearum,
mfionumque nafura, afque origine. 154. TNquifitio, quam modo adgredimur, J. idearum notionumque naturam, atr. que originem expenfuri, adeo eft cum præce-’ denti, qu* commercium Animam inter, et corpus
ifpe^abat, copulata, ut altera ab altera fejungi nullo modo poffit / et qui in
una erra* veri t, in altera per devia
pergat, oportet. Multiplices,'dilcrepantefque hac de re philofophorum
fententia; nequeunt veritatis confecutionem
difficiliorem, et abftrufiorem, quam reveræft, non reddere Quare hifcc modo pofthabitis, tres animadverfienes, quæ ad veritatem
capeffendam fternunt viam, in anteceffiim exhibebo, tum rem ipfam expediemus;
tandem prasx cipuas aliorum fententias
fummatim exponemus, ^ breviter
perftringemus,, \. ». i ‘ t/^nimadver/tones • prallmtnares ad idearum, ' notionumque natufam^ atque originem. ^ i'A •' expifeandam, ‘ 155^^ A J^trnadverfro I. Nihil Mens per’
" ‘jfjL cipere potaft nifi in feipfa. Id
equidem loco axioraatj^ haberi poteft; five enim perceptiones pro aflionibus, live pro.paffioni» j- J bus Mentis haberi vcJint, funt profe£lo
) piius Mentis modificationes, et immanentes,
non^effluentes. Nequit ergo Mens quidpiara percipere nifi in feipfa. • ' X
’ 155. % 4 mmad. IL Cum dicimus;
Menteirt objefta externa percipere,
ifthzc reapfe non* percipit. Si enim ita,
cum nihil Mens pfercipere poflit nili in feipfa, vel Objecta, quæ dicuntur externa, in Mente *formalitcr
contineantur oportet, vel ipfa Mens perceptis Objcftia intime fiat prasfens. Ambo hsc pugnant. ergo dicimus, Mentem externa obje 6 la
pt^eiperc, reapfe oon percipit ipfa objcfta.
§.rea' extra pofitas perci-^^
pere'. Nam i. Si ita: ubinam has rdeas, fcu imagines refidere' dicemus in Anima ne
vel in cefibro Haud quidem in cerebro;
nOi ^ * R quit l T>
ai A( quit quippe Mens quidquam
percipere, nifi.iii fcipfa i’ ; a. quævis
rei -imago nihil eft aliud ^ nifi talis partium ^ difpofitio, ordo,
figura, magnitudo &c., quæ fimilis
fjt rei,.cujus eft imago. Si porro idtæ
forent imagines rerum cerebro expictæ',
minimæ cerebri,? fibrillæ tali ordine,>figura
tu, colore &c. componi deberent, ut fimulacrutn rei Menti exhibere
ppl^, fent. Sed nihil præter motum in,
cerebri fibris adeftjcum Menti adfunt
ideæ.Neqoeunt* igitur ideas efle rerum
imagines cerebro expictæ.. Ad hæc g...
qui Mens expictas cerebro imagines- iotuc'*
retur, ipfum vero cerebrum nullo, modo? qua» fi,, nempe pofTit quifpiam pictas in tela
figuras videre,. nec videre telanv
ipfam, quæ eft figor»* rum fubjectum, '
Sed neque poffunt, ideæ efle. imagines Men*
ti percipienti vinJi*ryites v Eft. «nim Mens fim pkx.fubftantia,
icuinpfoinde addo pugnat. in faa(H|
rere^imagines exfitbente6,aoagn»tudi«em, fig«9 wm, 'colorem ^ partiup ordindfn 8cc.^,. ac
pu» gnat puncto gefwnetrico triat^lum,
polygonum ^.&c. infcribi 4..Deinde rerum ideæ, cum Menti primo occurrunt, vel ; perpetuo
eidem permanentes inhærent vel femel,
perceptæ poft* hac pereunt, evanefcunt. Si
primum Mens ' perennes, ac indeficientes
habi^it...pesceptio* nes rerum olim
perceptarum ; Qut -^aim.. fieri poteft,
ut pictas, fibique adhærentes-, 8e immanentes ideas non -advertat? >Si
altecuBL, cum- n*i queat Mehs-objecta-
percipere nifi in ideis - hiic«
cvanefcentibus, non poterit Mens ad eatumdem m nun modo abfcntium
contemplatiojMlblvdire^ntfi iiu r». js.ite« Malebranchius omnem agendi vim Entibus creatis denegans, Mentibus etiam'
ademit facultatem fibi cudendi' ideas. Hoc autem
potiflimum argumento rem conficere fibi fuafit. R 4 Ide»
(«) Sed hac difficultas ipfum premit A uflorem ideas a perceptionibus fecernentem. Quis enim
ignoti objefU expreflam imaginem intuens,
objeftum illud in imagine recqgnofcere
potest? Non magis profeCTio poterit Mens
in idea feu imagine ipfi oblata objeilum, quod ignorat, recognofcere et perpetuo ignorabit cujus fit
obj'efti iniago illa, qua ipfi obverfatur ^ nifi aliunde, feu extrinfe* cus moneatur. to+ Idea: :unt ver* realitato: imrao funt
realiti-' tes ipfis corporibus
nobiliores, quippe fpirituaJes. Harum itaque produaio nihii diftat a creatione
Nequit vero Entibus creatis facultas ereandi ullo paao convenire. Nec iaitur
humana’ p >*as libi cudendi. V Equidem Ide* funt ver* realitates. at Wa/es ut inquiunt Pbiloiophi, non Mfiam.
ah, : feu non funt totidem fubftan- '
•’.P" j', lid totidem Mentis
coptantis affeaiones,, feu modificationes, cu julmodi funt volmones, et nolitiones.
CunC Itaque communi Phdofophorum fenfu
creatio fit fubfiamiaimm ptodua.o ea
nihilo: idearum pro. duaio toto calo dillabit a creatione, et „ihil vetabt.eam. Anima; tanquam effearici
caufTa;, adjudicare. Re quidem vera, ide*
refpcau Meo. tis perinde fe habent ac
volitiones, nolitionef. que r utr*que
enim funt >/us, modificationes. Si
Idearum Produaiva facultas Animæ repugnat, que pugnabit ipfam Cbi ede iuarum
volitiol num efreancera caudam, eritque.Mens
crudus, putufque later. Quod fi
volitiones merito Ani' Z’ 31 “"' f
‘"‘>“'"d* veni, unt nihil
profeao vetare poteft, qui„ eidem
adjudicemus facultatem fibi ipfi cudendi ideas. Quadam Pbtlofopborum placita, qttof
idearum I JpeBant originem fy breviter
exponuntur. \6j. idearum origine
communior xn« I ^ fer Peripateticos
Tententia fuit, Nihil effe in intelleBu,
quod ^ius non fuerit in fenfu : omnes
nempe ideas primam petere ori», ginem ex
fenfuum minifterio. Atqui fententiam
iftam per duplicem intelleftum agentem y ^patientem exponebant. ; qu*
quidem hypothefis purum eft, putumque figmentum a communi abhorrens ritione. Malebranchius de idearum origine fingularem prorfus fententiam coluit. Hic
fuo inh*rcns fydemati, etiam nobiliffmas,in ea ' verfari impotentia, ut nequeant effe
vera cauffa ullius rei, commentus eft,
nihil eas c»m gnofcere poffe y ni fi
Deus illas illuminet 133. Nempe ut alibi
{a) clarius.* Sciendum eft, Deum
mentibus neftris prafentla Jua arhlijpme uniri » adeo, ut Deus dici poffit locus fpirituum y
quem» admodum fpatium eft locus
corporum. Mens itaque in Deo poteft videre opera Dei y dummodo Deus velit ipfi retegere id^ quod in fe habet, quod illa reprafentat opera y nempe ideas,
quas in fe habet. i6p.
Atqui Humanam Mentem omnia in Deo
videre, adeo communi fenfui occurrit, ut
ne - *..4 •' dU . R^her. de la verit. l. Jt p, z, ch. 6
4 nemo Sapicntum fententiam iftam adunco
nor exceperit nafo : nec fine ratione,
etfi injuriofe. de eo d:clum fuerit,
Ipje, qui omnia in Dec cernit y haud
videt fe injanire '{a). Quifque-^intciligit, fententiam iftam, præter cætera,
quid* piam ftatuere, quod cum Dei
bonitate et fapientia minime congruere potefl: *' tum rcfta ad pantheifmum ducere. 170. Plures e Cartefianorum familia triplex
idearum genus (latuerunt:, qua*
'nimirum Menti occurrunt ex occafione motionum in organis fenforiis
excitarum ab externis '^objectis; quas
nempe Mens fibi cudit cx adventitiis
ideis • tandem innatas, quas fcilicet, neque fcnluum fubfidio, neque reflexione
partas, rentur : fed a Deo Mentibus noftris
ab ipfo exordio veluti infculptas, ac perpetuo immanentes arbitrantur. 17 1. Sed innatas, quas dicunt, ideas,
commentitias prorfus e(fe, binis verbis oftendi poteft. Vel enim has ideas idem
funt ac perceptiones, vel forms et imagines a perceptionibus realiter diftinctas. Si* primum, inerunt Menti tot perennes, et fimultaneæ perceptiones,
quot funt ideas innatas j quod profecto
interiori experientias refragatur. Si alterum, contra faciunt, praster alia,
quas §. 158. monuimus. Deinde nulla cft fufficiens ratio, eccur præter
adventitias, et factitias ideas, alias, quas fint innatas, agnolcamus' cum
conflet, nullam omnino (a) Lui, qui
voit teut ^en DitUy nt^voit paSf\qu* il
eji foH.. ’ J no ideam Menti
inefle, cujus exordia c fenlitiva, et reflexiva facultate nequeant quam
facile repeti. Vide, fi lubet, fufe hæc
pertractantem Lockiinn. Efjftff philof. cone- l'
entend, htm. Q A p. X. Ve Animæ bumanæ origine. L ket humanæ Mentis
natura, feu potius genus, philofophia
duce. li quido confiet, ejus tamen origo
adeo tenebris cft circumfepta, ut
potius, quid fentiendum non Iit, qu»m
quod tenere debeamus, intelligere detur
* V. E veteribus Pythagoras docuit,
Deum cGo •Animum per naturam rerum omnem
inten~ commeantem,. ex q»o mflri animi
car tum perentur (4). Huic turpiflkno.errori adhæfiife videntur Stoicorum aliqui, ut ex Seneca, et Epicteto difeimus/ eqmque jam obsoletum
itenun exfufeitavit Spinoza. Hujufce
fententiæ abfurditas.tam clare patet, ut illam refutare nec.operæ pretium duco,.,
Plato,. qui inter veteres cateris
rc. ctius de Deo philofophatus efi,
Animas a Deo conditas docuit, licet eas
quafi partes Animat' Mundi totius
habuerit Id vero Pythagoreis, et Platonicis
commune erat, humanas Animas primum
aftra incoluiffe, et felicem ibi yitam
du- Tullius lib, I. ile nat. d«or. c. ii. tduxifle: hinc vero expulfas,
et in humana corpora tanquatn in carceres, detrufas, quo commiffi criminis
pznas lucrent: tum ad adra iterum redituras poft corporum diffolutionem,
fi mortalem hanc vitam jufte, et fobrie
duxerint, vel in deteriora corpora
migraturas, fi novis criminibus fe
obruerint. Hinc celebris apud ifios
Philofophos Metemp^ycbo/is. Atqui Stoicis
nec Animarum incolatus in aftris, neque earum de corpore in corpus
migrationes arridebant ' fed illas pofl: terreni corporis fata ad Eteum, e ‘
quo' dificerptæ erant, iterum redituras
afferebant» ^ 175.i^Orlgene^
nimio e.^ga platonicam philofophiam ametrtr’ abreptus Pythagoræ Plato, nis fententiam emendare ftuduit. Docuit
itaque, Ani mas' nec Dei emanationes
effe, nec partes ab Anima Mundi avulfas,
fed a Deo ante corporeum Mundum’ oijines fimul conditas fuiffe cum intelligibili Mundo • has vero peccaffe a
CxmJitort feceiendo'. hinc pro diverfitate peccatorum a Cteiis' ufqne ad terras diverfa corpora, qua
fi vincula, meruijfe. Et hunc ejfe
mundum eamque cauffam Mundi
fuiffe faciendi^ non. ut conderentur bona., fed ut mala cohiberentur. Sed
hacc deliria funt, quæ nec refutari
merentur. Leibnitius, Animarum præxiftentiæ et ipfe favens, aliter rem explicavit.
Putavit nempe, Deum ab ipfo rerum initio
omne$ Animas creaffe, ac fingulas totidem organicis corDivus Augujt. Lib. XI.
De ejvitat. Dei cap.sj* lop pufculis inferuiffe. Hzc iUnt germina humana, quJB juxta involutorum hypothefim, olim
in JEv» ovario pofita, e Matribus in
filias tradu- cuntur. Sententiam hanc Wolfius ambabus ulnis amplexatus eft.•
tum Cl. Carolus Boanct fuam fecit. Atqui licet primo adipectu, quo ab hifce Auftoribus commendatur, haud philofopho
indigna videatur, fedulo tamen pcrpcnfa, et fuas patitur difficultates. v Tertullianus, et Apollinaris putarunt, humanas AninTas e parentibus in filios per
traducem propagari; hoc eft Animam >h ilii partem efle Animaj parris,' quæ
'filii corpufculo in matris utero
delitelcenti communicatur, et /incffabilirer conjungitur. Sed ifthæc fententia
cum Animæ natura, quæ fimplex omnino eft,
et cujuivis phyficæ coagmentationis
nefeia, nullo modo conciliari poteft.
Communis tandem fententia, et profefto
fanior, eft, Animas humanas in dies a Deo creari, et cum tenera fetus
corpufculo copulari, cum iftud
fufficientem partium evolutionem, et organizationem obtinet, qua par fit ‘ad præcipuas
vitales operationes obeundas*.-i ! f ’ ‘i. Pa/igini/ff philofo^h. Annihilatio
creationi, et confervationPe diarrietro
opponitur. Illa erqoCaufia folum. potest aliquod Eas annihilare, quæ
illud creavit, et perenni a^ioce confervat. Sed hujufmodi est tantum Deus: omnes
' tlniveiii Cauffie funt contingentes,
quæ nec fuæ existenttæ, et confervationis fufficientem in'fe habent
rationem. Facultas igitur. quidpiam annihilandi nequit ulli, naturafiuna cauffarum convenire. (c) Lib, L tufe, f. jp. ' •dubitare non possumus,
nl/i pla*tf plumbei fumus, quin nibil
fit %dnhnls adrnix» tum, ntbil
concretwn, nihil copulatum, nihil
ngmentatum ^ nihil duplex quod cum ita, fit y qette nec jecerni, nec dividi, nec difcerpi^
nec diflrahi pote/i, nec, interire
igitur. EJI enim in» iefitus qua fi
difcejfus,, &, fecretio, ac diremptui^
earum partium, qua ante interitum jun^ione 'gl
poribus funt interfipta quod.rnimfdo : cum autem nihU erit prteter v/Ltimum, nulla res objeBa
im^ pediet y quo minus percipiat quale
quidquam fit. Ita eleganter Tullius
tulc. 1. i. c. zo. {a) l et R T. ir. Mentem humanam ex fui Conditoris
voluntate infpeBam immortalem effe,
naturali ^ ratione affevitur, . T TUmanam Mentem natura fua in* J. X corruptibilem atque immortalem clTe, neque ullis^ naturalibus cauffis fieri
pofle ut pereat f jam evicimus. Hzc
ratio ingenue philofophanti fatis foret^
quominus de fuprerni Conditoris
voluntate, illam immortalem fervandi f non ambigeret: nullum enim 'in uni verTa
Natura occurrit annihilationis exemplum j
nec quidpiam efl, quod^a fummo Conditore S z non
(a) Plures eit antiquioribus Phiiofophis, et ex ipfis Ecclefia; Patribus, quibus incorporalitatis,
et iinmoitalitatis Animorunj dogma probatum erat, opinaii funt, humanas Mentes nunquam omni corpore
vacare:* ut adeo, cum ex ifthoc cra^o,
et corruptibili corpore diflolvuntur,
adhuc leviflfimum, ac tenuitTimuin, live
æthereum, et incorruptibile corpus geftent, eoque lint perpetuo amidse. Sententiam hanc inter Recentiores
litam fecit CI. Vir Carolus Bonnet, et communivit noti contemnendis rationibus ; quam, cum In
pluribus locis, tum pr^fertim parte XVI. paligenifie philof. et.-. pofuit. Si quis in hanc fentenriam defeendere
velit, ^ Adveriariis morem geret, et «na
fjmul objeilain didir «ultatem elevabit.
itS non fervetur juxta propriam naturam,
et ad fuos non dirigatur fines. Atqui
profani homines, eam non latis effe, contendunt, nec non dolofe effutiunt, Animæ immortalitatem problema
efle, qjuod nequeat fola philofophia extricare: ad Divinam revelationem idcirco confugiendum
neceffario effe, ut conflare queat, Deum pod corporis obitum nolle humanam
Mentem delere, fed,''velle in æternum
fervare. iSp. Ut iflorum levitatem
perflringamus, animadvertant Tyrones,
quod quandoque etiam abfque revelationis
face, fed Ibla naturali ratione Divina Voluntas nobis conflare potefl. Etenim
ficut naturali ratione plura nobis patent
Divina attributa, ita conflat quoque, non pofTe Divinam Voluntatem ab illis attributis vel
minimum defcilcere, fed iis plane conformem
perpetuo '•effe debere. Si adeo quidpiam Divinis attributis repugnare clare nofeimus, tuto
poffumus decernere, Deum nunquam id velle : et e contrario perpetuo velle ea, fine quibus
farta tc6la conliftere eadem attributa non poffunt. Hujufmodi
porro cfl immortalitas Animorum, quos fi
pofl corporum diflolutionem Divina Voluntas deleret, nequiret Dei Sapientia,
Bonitas, Juflitia, ac Providentia farta
te61a permanere. Rem expendamus. ^ 1^. ipo- I. Naturali ratione pleniflime
nofejqaus, potiffimam Sapientiæ legem eam effe, ut fingulorum Entium Naturæ fuis exa£le
attemperentur finibus, ut ita nec a præflituto fine, deficiant,- nec ultra
redundent, vel extra vageUtur V Quare ficuti ex noto fine, de Entium na
Diuiii4tj . fuprerai Numinis revelationem. Audi ut h«c
eleganter profequitur Romanus Philosbphus
tufc. qq. c. Maximum argumentum ejl, naturam iffam de immortalifate Animorum
tacitam judicare » quod omnibus curttf
funt y maxime ^quidem y qua poft mortem f utura Jint: ferit arbores, qua alteri Jeculo projit, ut
ajt St^tiut in Synephebis: quid fpetlans,
nifi etiam poflera fecula ad fe
pertinere ? Ergo arbores feret diligens agricola y quarum adfpiciet baccam ipje nunquam : Vir
magnu» seges y injiuuta, rempublicam non
feret i Quid propagatio nominis l Quid adoptiones filiorum f Quid teJlamentorum
diligentia l Q*dd ipfa f^ultrorum monumenta f Quid elogia figritficant, nifi
nos futura etiam cogitarel.-- Quid in
hac republica toty tantof que viros ob
rempublicam interfeSos cogitaffe arbitramur f iifdenx ne ut finibus nomen fuum, quibus vita
terminaretur f Ne/no unquam fine magna
fpe immortalitatis fe pro patria offerret ad mortem: licuit ejfe otiofo
Themiftocli \ 'Jicuit Epaminonda y
licuit, vetera y Cb* externa •moram,
mihi ; fed nefeio quomodo inharet in trpinti%us quqfi feculorttm quoddam
augurium futurorum; idque in, maximis ingeniis, dltijfmifque animis ^ exiJiit
maxime, iy adparet facillime ; quo quidem demj)to y quis tam ejfet amens y qui
femper in laboribuSy iir periculis
viveret' \ loquor de pfinctf ibus : quid poeto t nonne poji mortem nobilitari volunt t Unde
ergo illudf " Afpicite 0 cives !
Senis Ennii imagini’ formam; Hic
ve*»rum panxit maxima fafta parnm).
Mercedem gloria fiagttat ab iis, quorum patres ^ff)' terat gloria -,
idemquey -• Nemo ire lacrimis decoret,
nec funera fletu > Faxit : Cur?
Volito vivu’ per ora virum. Sed quid
poetas l Opifices pofl mortem nobilitari vaiunt quid emm fhidias fui fimUetn
fpeciem inculfit ‘ • • >,. 'in-.
' ip2. IV. Ad Divinam Ipcflat
JufHtiatn'^ atque Providentiam hominum
virtutes muneribus ac prsEmiis ex merito cumuIafC : ficut c contrario condignis' poenis '“eorum fl gitia
corripere. Eft enim duplex in Univerlo OrAn: phy~ ficus nempe, ac ^moralis 8c ad utrumque
Homines procul dubio,, fpt£Iant Si quis hæc in
"Controverfiam adducit, peflime fe de Deo.fendre^oflendit, quafi
hic cardinem c*li ambulet, A n.oftra non
confideret: et \r\'*athe'tfmum fivO
IJrolapfum elTe, five jam jam prolabi. Sed experientia Pedante, Kominum
virtutes, ac flagitia admodum raro condigna pr^mia ac p»na« copfequuhtur : ut adeo vetus Iit iquærela',
latos idiu florere nocentes, vexarique
pios. Divina ergo Juftitia ac Providentia utique expoftulant * poft torporum obitum Mentes adhuc • lervari
ia .vilam, ina qua bene vel' male TaSIorum præmin /ecipiant, poenafve luant. Hajc cum
naturali conflent ratione, concludere
non dubitamus., 'plurali quoque"
ratione conflare fu mmi Condi‘lofrs voluhtatem de ‘humana Mcnte in æternum servanda.
' / *in ! "-. l '• J 'i' i . ' !
3. ' ".au ' :v. ( I»»» ^. 1.. III i mu iii m ^jWii I. Tufe.
qq. I. I.. f. X6, '., \ib) ^, fr) Jn fomn. Scip. /. I. e, X4, > •., (,d) "XmIUhs Iw. cit, f. 12,, 1,
w P */f R S ilu ^.R T ^ y’ Ei ‘ nomine inteJligimus Men» 'n 4 tcm naturæ fuæ nrceffitate ex i flentem, atque adeo aster
aW,®>S af^isiiaSce AK -omni
materiali coneretione fejunfbm, perfe^iffimam,
effectricem et liberam Univerfi Cauffam, ' et omnia providentem. Equidem Dei notio fu^
conceptu primas Cauffas efficientis Mentibus noflris primum occurrit,* banc poflmodum rectæ rationis
ope rimantes prolatamus, et attributis,
quæ omnimodam continent perfectionem, locupletamus. Atqui tantum abcfl, nos adæquatam
adfequi poffe pei notionem, eamqu.e
verbis exponere, quantum finitum inter,
et infinitum intercedit. Quf verbis
complectemur-; quem natura iua et effentia undequaque infinitum nulla creata
Mens comprehendere valet Hinc, ingenue
fatendum, aul%*’^ nulla definitione Dei naturam contineri
pofle. Facultas, quæ Dei exiftentiam,
ejus«. que attributa rimetur, Theologia
audit, quæ in naturalem^ et difpdcitur.
Prima de Deo differit quantum naturali
ratione adfequi poffumus. Secunda
revelationis' face myfteria pandit, quæ
ultra naturalem rationem lunt pdfita. Priorem heic perfequemur, quippe quæ fola ad Philofophos Ipectat, 4. Nobiliflimam vero, ac jucundiffimam hanc efle totius Mctaphyfices partem,
nulftr* ambigere poterit. Quid enim
pracftantius, quid- ‘ >e jucundius,
quam rerum omnium Opificem, præfentiflimum
totius Univerfi Moderatorem, ac noftri
præferrim Parentem optimtim contemplari? Si quod ex cæteris difciplinis
folatium, atquC' in adverbs perfugium,
in fecundis rebus animi moderamen, et ornamentum capere poffumus.'inhatc
profecto cynnia ex eapotiflimum uber-
/ Merito Thales Milefius, ut Tertullianus refert, a Crefo qua:fifus, quidvefTet Deus, post
multas et multo, studio perquifitas refponfiones, faffus est tandem, fe nihil adeurare, quod ad rem quadrarer,
dixifTe. Idem de Simonide testatur Tullius de nat. Deor. 1.
zi.' Roges me, quid, aut quale fit Deus
? AuBore utar Simonide : de quo cum qu/efivijfet tyrannus Hiero, deliberandi
cauffa fibi unum diem pojiu/avit. Cum idem ex
eo poflridie quareret, biduum petivit. Cum fapius duplicaret numerum
dierum, admiranfque Hiero requireret, f«r ita faceret : Quod quanto^ inquit^
d’utius confidero, tanto mihi res videtur obfcurior. Hinc perfpecte monuit
divus Augustinus, nihil, quod de Deo
accuratius prsdlcemos, nobis occurrere poITe, aiC quod U^oiopt^CniibUis fit. naturalis uberrime confequi poifumus, qu* omnium
Lan. gitorem bonorum, rerum omnium
[nfpectorem, et Proviforem optimum pandit, et in ^uo
nos efle, vivere, et moveri edocet. Tum
nihil ea utilius in univerfa vita civili.*
nequeunt enim ! fine legibus, et religione
in officio cives contineri n arbitror^ inquit, multas ejje gentes fic
immanitate efferatas, ut apud eas nulla fufpicio deorum fit Cic. de nat. deor. c, 2 ^.
Arbitrari fc, non noviffe, aut fando
faltem inteUexiff?, repoluit. Nullas
proptcrea tunc temporis innotuiflfc Gentes fine. Divinitatis perluafione,
tacite fatetur. II. Lucianus, acerrimus
equidem Divinitatis, et cujufvis religionis ofor, in dialogo, cui titulus
Juppiter tragadus difputantem inducit Timoclem religionis cauflTam, et afferentem
Gentium omnium hac de re confenHira; at
quid Timodi reponit pamides, fub cujus
nimirum nomine Lucianus 'latet ? Conftahtiffimam, percnnemque gentium
confeufionem fibi objectam ne carpit
quidem ; ejus tantum vim ad
demonftrandum, et perfuadendum elevare conatur adductis futilibus omnino
excogitatis, qua mox exfufflabimus. Si
quas Gentes exleges, et a religione extorres Lucianus noviffet, aut fando audiviffet, nura ne fcirpum in
ovo firaulaffet? illas profecto
objeciffet, cum nihil hoc opportunius ad
extenuandum Timoclis argumentum afferri potuiffet. Atqui in diverfa abit Lucianus * dat ergo quod afflv.Tamus, nullum unquam hominum genus Divinitatis
notitia caruiffe. Adeo nimirum Eruditis quibusque innotuit, quod Piutarchus
clegantiflime contra Colotem difputabat:
Si univerjam peragraveris terram invenire quidem poteris urbes sim moenibus, sine litteris^ sine regibus,
abfque teSio divitiis, abfque nummis,
theatris, gymnasiis. urbem sine templis, ^ sine Diis, ^quie precibus, jurejurando careat. nemo Videt, nec vidit unquam. Quantum vero ponderis ad demon» ftrandum, et perfuadendura univerfali
Gentium omnium confenfui tribuendum fit,
in Logica aperuimus. Rc quidem vera, ea cfl hominum indoles, 8 c ingeniofum
conftitutio, ut, fi de re vel minimum
obicura, dubiaque judicium ferre de,
beant, tot fere numerentur fententisE, quot capita : id quod totius
humani generis, fed et præcipue
philofophantium hiftoria edocet. Si
itaque quandoque omnes Gentes quacumque tellus patet, omnefque Seftas',
licet in cæteris admodum difcrepantes, convenientes omnes ad unam deprehendimus ; id, in quo conveniunt, vel communis naturæ lenium, yel naturalis
rationis evidentiffimum præceptum, habere debemus. Eft vero omnium ubique
Gentium univerfalis et perennis fententia, aliquem effe rerum omnium Opificem,
et Rtftorem. Deum ergo exiftere, inter
prima humanæ rationis fcita, vel potius ad communem naturæ fenfum referri debet.
Ad rem noftram
elegantiflime Balbus apud Tullium. Quid enim ejl hoc evidentius ? Quod niji cognitum,
comprehenfumque animis haberemus,, »0» tam flabilis opt“ nio permaneret f nec confirmaretur
diuturnitate temporis, nec una cum
jaculis, atatibufque hominum inveterare potuiffet. Etenim videmus cteteras opiniones
fi^as atque vanas diutuVnitatp
extabuiffe. Opinionum enim commenta delet dies, natura judicia confirmat \ 12. Neque fcrupulum faceffat Tyronibus, j. quod quandoque penes hiftoricos
athearum Gentium meotio occurrat. II.
quod infignes ex t Ve 'i:^o Veteribus Phllofophi inter Atheos
reccnfeantur ; Uti ex. gr Anaxagoras,
Diagoras, Protagoras Anaximander
&c., quæ fi vera lunt, haud conflare videtur univcrlalis humani Generis
confen» liis de Supremi aircujus Numinis
exiftentia. Hæc equidem nulJius funt momenti
-I. Hiftorici etenim grajci, et lati ni, dum Africanas, aut Afianas qualdam Nationes inviferent,
nec templa, idola, immenlumque
externarum ca:rcmoniarum apparatum habere animadverterent, Velut quæ antiquo more fub dio, et fine
ulla pompa Deo facrificarent,
quemaamodum de veTuftis Parthis retulit Herodotus, in eam venerunt fufpicionem,
nullos ab iis Deos coli. Quid quod iidem
Hiftorici idem fecerunt cum Judæis, et Chriflianis ? Accedit eodem,
veteres mercatores, aliofque
itineratores aut infeies morum earum Gentium de quibus feribunt, aut non fatis peritos, ut pretium fuis mercibus, fuifque itinerariis adderent, atheilmi, et irreligionis
infamia illas prafpropere notafle ; qu*
deinde portentolse fabellæ novitatis amore, ut fit, creditæ funt Hujufce rei exemplum
temporibus prope noftris de Huttentottis habemus. Hi primum pro Atheis in Europa vulgati funt, et habiti.* at fummum illos agnofeere
Deum, reflatur Andreas Kolbi in hiftoria
ejus nationis, quacum decem annis
familiariter uius eft. Philolbphi veteres, qui inter atheos reputati funt Confulatur Johannes Albertus Fabricius
in ApoJogia Generis humani adverfus accufationem atheifnu THEOLOGIA i?i funt, nonnifi fumma injuria hanc pafli funt
infamiam. Conftat, Anaxagoram atheum e ffe habitum, quod Solem e Deorum numero
expunxerit, et ignitum habuerit faxum. Conftat,
Socratem de Divinitatis natura prx cacteris bene fentientem, (limma invidia, et lethali
calumnia atheifmi accufatum, cicutani bibifle. Protagoras i inquit Tullius 1: i. de nat. deor. c, xq. cum in principio fui Irbri sic pofuiffet.
De diis neque ut sint\ neque ut non
sint, habeo di^ tere, ^Atheniensium
juffu urbe et ‘ttgro eft exterminatus y librique ejus in concione combufti, quippe— atheus reputatus eft. Atqui, ut patet, Protagoras de diis, qui a plebe venerabantur
vulgo autem Philofophis, qui præjudicatis opinionibus haud tenebantur,
dcfpectui erant, lo» 'qjyitur; non de
Divinitate, leu de Deo fummo rerum Opifice. Idem de aliis dicas.♦ folum
Epicurus inter atheos recenfendus videtur, etfi de Epicureis nihil certo conftet, quippe Tullius
1. cit. c. qo ija habet, novi ego
Epicureos omnia stgiUa venerantes. Jam
vero quilibet, cui coit fapit, optime
intelligit, hujufce gregis opinionem, etfi indubie Divinitati aveidam
fuifle jjonamus, nihil communem
perennemque humani Generis fententiam labefactare pofte. Sicuti enim in M-tindo phyfico peculiaria quædani
monfira quandoque occurrunt, qua; nihil de ordine totius detrahunt: ita fimiliter in Mundo
morali fieri poteft. Igitur inter opinionum monftra, febrientium deliramenta
ifthxc Epicureorum fententia reponenda eft^, quæ nihil de communi humani Generis fenfu detrahere
poteft. Allati fuperius ^ 10 argumenti vim
non fugit profanos homines* hinc omnes intendunt nervos ed earh
elevandam. Quare operæ pretium eft, quæ objiciunt potiora, referre, et explodere Inquiunt itaque I. Si ex Gentium confenfu aliquid
confici poffet, equidem potius
conficeretur, polytheifmum efle
profitendum : nam huic coeno omnes infixas
fuerunt • Atqui nihil magis Dei naturam, quam polytheifmus, evertit. Quare.neque Dei
exifientia ex Gentjum confenfu adftrui poteft. Deinde quot quantæque et Gentium,
et Philofophorum diferepantes de Divinitate opiniones ? deos ejfe dixerunt, inquit Tullius,
tanta funt in varietate y ac diffentione
ut torum “teflum sit dinumerare
fententias, .11. Hujufce confenfus origo petenda eft ex naturalium phasnomenorum timore j quo
peis culfi hominum Animi, quoddam
terrificum Numen, fupremamque Virtutem ^ illa phænomena producentem, fibi effinxere: • Primus in orbe deos fecit timor, ardua
cato Fulmina cum caderent. Petr. in
fat. Ad hunc adeeffit naturalium
cauftarum ignorantia propterea quod Ignorantia caujfarum conferre Deorum CogiV
ad imperium res, et concedere rt»
gnum: Quorum operum cauffas nulla
ratione vU dere Poffuntf bæ fieri divino numine rentur. Lucr. 1. 6, V. $1?
Alias Divinitatis notio ex Legumlatorum
calliditate conficta, et populis inculcata. Nempe quo ifti facilius
populos legum jugo fub« mitterent, et in
officio continerent, Deorum numine illas leges conferiptas efle, fibique
concreditas tradiderunt. Ita Livio tefte, Numas
Pompilius nocturnos congreflus cum Dea Egeria commentus eft, cjufque
nurnine ritus diis gratiffimos fanxifle.
Eamdem adhibuerunt artem Ligurcus,
Minos, aliique, Confenfus ergo Gentium, ita concladunt profani homines., in'
Divinitatis adftruenda exiftentia nullius eft ponderis. Ad primum refpondemus. Licet concedere quis vellet, omnes Gentes
polytheifmi cceno volutas, nullo tamen pacto confici poffet, polytheifmum profitendum efle. Ut
iJ concedi poflet, demonftrandum foret,
omnes ad unam Gentes eofdem et numero,
et fpccie D eos, et perenniter
cognovifle ; hi enim funt veri
characteres perennis et univerfalis confenfus,
quem natura; fenfum,8c veritatis vocem efle autumamus. At vero Gentes
omnes nec fibi unquam convenerunt, nec quælibet fibi perpetuo conftitit, quot, qualefve Dii eflent colendi
: ergo nonnifi perperam conficitur,
polytheilmum Gentium confenfione
firmari. Itaque Polytheifl* plures,
diverfofque deos agnofeentes, Divinitatis declarant exiftentiam, quippe de qua
omnes conveniunt* at vero fibi invicem
contradicentes, tum in numero, tum in fpecie, et natura. deorum, fcipfos fanatifmi arguunt, fuofque
deos T 3 fua 1 1^4 ' fu a e fle commenta declarant, Si.Phyficos
de corporum eflentia, 'atque natura difputantes audiamus, non unas numerabimus, nec fine moleftia difcrepantes fententias. Quid ? num
ne ifti de corporum cxiftentia dubitant
? Minime profecto,* exiftentiam corporum
nifi perfpectam exploratamque haberent,
tot non inftituerent de eorum effentia,
et natura perpetuas concertationes ; jam vero, difcrepantibus fententiis, fatis clare innuunt, harum nullam certo
-ftarc talo. Sane non heic quærimus qUam
recte homines de Deofentiant,,fed fentiant
quidquam, nec ne. Hæc duo mifcent Adverfarii rvon fine Logica imperitia, quæ funt omni procul
dubio fccernenda. Quum poflremum conflet
inter omres, invictum efl argumentum, cur Deum efle credamus. Ignorarunt enim vero, et turpiter hallucinafi funt, qualis eflet habendus,
habendum tamen omnes conftanter tenuere. II. Atqui nonnifi fumma in Veteres
injuria, vel faltem fumma hiftoriæ
imperitia affirmant Adverfarii, omnes ad
unam Gentes polytheismi ccsno infixas.
Nam i. valde probabile efl, polytheifmum, et idololatriam antiquiorem non
fuiffe babelica turri, i. De hasbraica Gente unum Deum colente nullus moveri poteft fcrupulus. De
Gentilibus vero, fi ftupidam ple be- Eleganter Tullius more fiw. Itaque inter
omnes omnium gentium Jententia conflat.
Omnil/us enim innatum efl i ^ in animei quafi infculptum, effe Deos • Quales fint, variurri' efl : efl» item» negat.
I. a. Indi, Sinenfes, ne quid dicam de Tureis, uni- ' cum fupremum Numen et Regem adorant.
i^uttentotti, quai Gens nullo alterius nationis com^ ^ j mercio unquam ufa. eft, fummum hunc Deum intelligunt, etfi illi nullum offerant
facrificium, nullas preces, quod ajunt, quum fit beatiffimus, nulla re
indigere. Priufquam ad II. et KL objectum,
refpondeamus, operæ pretium eft iummam, ac , pene
incredibilem Atheorum vecordiam in an, ' '
teceffiim indigitare. Affumunt hi ingenioli oi, Iputatorcs, id de quo unice quxftio
inftituitur nempe religionem commentum
effe, &; fabulam : tum ui cauffas inquirunt erroris, j^rius-, ^ quam errorem effe demonftretit illud, cujus
ori, j gines, et rationes explorant;
quo quidem «e- i Icio an vitiofius, et ineptius
aliquid effe pol-. ! fit. Sed
expendamus utrum aliquid momenti infit
in objectis.Si prima Divinitatis notio fingulas ; Gentes e ftrepentibus per æra
fulminibus per- ^. terrefa6Ias invalit, quam profe£\o fortes Atheo-., rum Animi, quos unice, nec fulmina terrent,
1 nec nubila fiftuntljam vero lemel
pavore con cuffis hominum Mentibus, perpetuo ab eis di-. '., fcelfit ratio, et tam longe abiit, ut
nunquam ' fepofito terrore rediret,
difcuteretque prajudicatam opinionem ? nec feri Nepotes, iplis li-. ‘ ] w ig
cet Atheis ducibus, et magiftris adnitentlbus,
commentum Avorum nec rejecerunt, nec agnoverunt ? Equidem, quum conflet,
diem hominum commenta delere, excutiifTent tandem aliquando Gentes
prajjudicatam fententiam, vel haftenys
faltem ad cor rediiffent. Sed contra efl;
quo enim cultiores fuere Gentes ^ et Religioni magis incurabuerunt, et tenacius
adhjefere. Deinde Divinitatis notio, quam ubique Gentes olim habuerunt, et modo
habent, efl Numinis Uiiiverfi Rectoris, benefici Patris^^hominum felicitati non
modo non invidentfs, fed cumulantis. Si
ex terrore, e quo nunquam homines funt expergefacti, ortum duceret Divinitatis
notio, profecto hac foret Divinitatis terrifica, hominum bono invidentis,
eofque in tranfverfum agqntis :
hujufmodi fane funt idese, qu2 animis ex
terrore informantur. Nec minimum prodefl profanis, naturalium cauflTarum
ignorationem afferre, quafi ex ea
hominum Mentes fupremam Virtutem, feu D
um fibi effinxerint. Si ita foret, effet
notio Divinitatis, ac in hanc religio in inversa ratione feienti*, et cognitionis cauffarum.
At contra efl : fiquidem Gentes literis
florentiorcs, et Divinatis fludiofiores
fuere.* fummi int^r ve^ teres Sapientes,
Thales, Plato, Socrates &c..accur.itius de Deo loquuti funt, et religiofius
fentiere ; inter recentiores Nevvtonus, Eulerus Scc. et fcripfere elegantiffime, et fumma
religione, coluerunt. Quod ad *Iir.
fpectat, perbelle efl obfervare, quomodo profani homines fuo fe jugulant
gladio. Qui circumvenire alios fatagunt,
ii Animorum affectiones, quas in hominibus extare vident, in rem liiam convertere
adnituntur, non vero novas in eorum mentes introducere. Legumlatorum itaque
calliditas ac vcrlutia, qua Divinos
congrefTus commenti funt, ne lubjecti
populi a legum propofitarum norma
defcifcerent, edocet, populorum Animos
ante imperium imbutos fuine Divinitatis notio, nc, nec non religioni addictos antequam de
rebus publicis condendis quispiam cogitaret. Ita ex. gr. Numa nunquam colloquia cum Egeria finxi
flTet, neque leges ac inftituta fibi ab hac Diva tradita fuiffe, mentitus
effet, nifi in populo Ro nano
animadvertiffet notionem Dei alicujus, et propenlionem ad religionem > alias qui
impatientes, elafiicos, et fervitutis nefeios Romanorum Animos duplici
graviflimo jugo et legum latarum, et Divinitatis
vindicis fubmittere potuiffet ? Deinde, fi ab imperantibus in populos derivavit Divinitatis, et religionis notio, profecto omnibus retro fæculis ante
conflitutionem civilis imperii Gentes et Populi, fuiffent Divinitatis ignari • nec non
religione carerent qui nullis vivunt
legibus, neque aliis parent. Atqui e
contrario Nationes, quo primis Mundi cunabulis viciniores, eo magis religiolæ
fuiffe comp.riuntur ; neque deficere religionis femina in illorum etiam
populorum Animis, quos nulla civilis
focietas colligavit, penes Doctos omnes
confiat. Delirationes itaque funt, quæ ab Atheis afferuntur Cauflas univerfalis
^ ac perennis conienfionis Gentium cie Divinitate, ac religio, ne. Quod fi, Cepofitis Animi Audio, ac
prai. judiciis, veras hujufce conlenfus
cauAas inve. Aigare velimus, nullo
negotio deprehendemus, has fuifle, I.
Gentium omnium ex communi fti. pite, et protoparente
originem.* II, Mirificum Univerli
Ipectaculum fingulorum oculis perpetuo præfens. Ex prima equidem factum eft, ut Filii, ferique Nepotes a parentibus edocti, primam Divinitatis notionem lacte fimul
exceperint. Ex fecunda, ne prima
ifthzc notio parentum traditione Animis informata in oblivio- ' nem abiret, quin immo firmaretur in dies. Haic fecunda Caufia, profecto potior prima,
et ipla fola focordes Animos, vetcrifque
traditionis vel immemores, vel indoctas ab Atheifmi fomno fortiter difeutit, Deumque
agnofeere cogit. De attrihufisy qva Dto
^ u^i Enti a . ' fe ^ conveniunt ', ; ' -v
v t, » T~^Fi exiftentia fub
notione primxre.1 J rum.omnium Cauflas effectricis adverfus profanos homines vindicata, illius
modo naturam expendere, operæ pretium eft. Hant-equidem, utpote undequaque
infinitam, finitis Alentibus et brevi
admodum intelligentia prædi, tis,
vetitum complecti, et adæquate introlpicere. Quare imbecillitati nofiras
conlujentes theologia variis illam adfpectibus feorlim
'^contemplandam fufcipimus, ut quoad
fieri pottft, excellentio. rem iplius
cognitionem aflequamnr. nue I ut Ens a
(e ; II- ut Mentem ; III. ut huius Mundi
liberam efficientem cauffam conCderabimus, et in pratcipua inculcemus atmbuta,
feu* perfectiones, quæ ei tub hoc triplici
adfpectu conveniunt. Re autem vera, quz icuntur Dei attributa lunt una
et fimplex Dm na Elfentia : W vero
nifiil vetat, quin leorfim ea expendenda
fumamus, ne (cilicet u in ni tate Divinz
naturæ deficientes, cæcutiamus omnino, nec dein quidpiam delibare valeamus. et Cum Deus fit prima rerum omnium CaulTa, eft idcirco improductus : nequit
pro^ inde cxifiere nifi fua vi, et neceffitate
luæ Naturæ - Si aliunde fufficientem fuæ exiltentiæ rationem peteret, non effet prima rerum
omnium CaulTa. Patet itaque Deum, efle Ens 9 fe et neceflitate
-fuæ naturæ exiftens. \ ni. Cum ex
nihilo nihil fieri queat, neque quidpiam elTe poflit caufla efficiens fui
ipfius It. 114, et “8 ; Ens, quod a fc
eft, femper cxtitilTe neceffe eft. Deinde cum neceflitate et vi fuæ natur* exiftat, nequit
Ii* bi deficere, et ficuti necelTario
lemper extitit, ita et necelTario femper
extabit. Deus itaque eji teternus. r i.
- JI. Cum Deus neceflitate fuæ naturæ
exiftat, quidquid ad Dei naturam fpectat, ne celTario pariter exiftit.
Quare nihil, quod Uei eft, nec defecit
unquam, nec deficere ullo mo’ do do
pofeft * Dsus adeo eft immutabilis. Finge
fane, Deum mutari pofle : necefle cft, cum aliquid de novo pofle adfumere, vel aliquid, quod habebat, ex eo decedere poffe. Utrum
vis dicas, eflfet aliquid in Deo non æternum,
nec neceflitate fuse natur* exiftens,
fed contingens. Id vero eft abfurdum §.
zr. Efl proinde Deus omnino immutabilis
- Confer 51. cofmol, 24. Patet hinc i.
nullos in Deo efle, nec effie pofle
modos. Sane modorum fufficiens ratio in parte 1'altcm ab externa caufla
repetenda eft ont. 16. Eft vero Deus
omnino independens, alias non eflet Eris a fe. Nulli ergo funt in Deo modi. Quidquid proinde in Deo eft, ad ejus fpectat naturam, et eflentiam, et neceflarium
eft. Ex utroque mox expofito theoremate
patet 2., Deum actu efle, quidquid efle poteft, et neceffario, et ab sterno; nec ullam
realem fucceflionem in eum cadere
pofflp, cujufcunquc generis ea fingi
velit. Sapienter
Plato in Timso ERAT, EST, ERIT partes Junt tem»
porrs, male transferuntur ad naturam ater^ nam. Huic EST tantum competit, ERAT vero,
ERIT pertinent folummodo ad res in
tempore fluentes ; Junt enim, motiones. Illa fem» per immutabilis Natura nec fenior, nec
/unior ullo modo effe potej }., Contra
Divinam immutabilitatem fequentia obftare videntur.!. Cum Deus Iit æternus,
Mundus vero fit in tempore ab eo productus, ex non Creatore factus cft Creator.'
reu actionem in tempore edidit, qua ab *terno feriatus eft. II. Cum tanta fit
rerum hujus ;Univerfi novitas, 8c mutatio, caque Deum habeat Auctorem, haud illum eadem femper velle, oec eadem femper nolle, dicendum eft. III.
Cum nihil Deus neceffitate fuæ naturæ
velit, agatque, fed ex liberrima fua voluntate ; profecto quæ voluit, nolle : et quæ noluit, velle
po. test; id quod certe cum abfoluta
immutabilitate conciliari nequit. IV. Vel vanæ funt preces, fupplicationefque,
quibus homines in fua vota Divinitatem
pertrahere latagunt.* vel fi hac non
inutiles fuum quandoque lortiuntur effectum, Deum mutari dicendum eft j quippe
fua confilia, fuamque in homines
providentiam flectit, attemperat &c.
zy. Sed fingula ifthæc futilia funt, et bi. nis verbis exfufflantur. I. Quam dicimus
crea, tionis actionem, nihil eft aliud,
nifi Divinæ Voluntatis actus, quo Mundi
exiftentiam efficaciter decernit. Hic profecto Divinæ Voluntatis actus æternus eft, ficut ipfe Deus r at vero
ejus objectum, feu effectus a Deo
intentus, Mundi fcilicet molitio, Tion
pro æternitate, fed pro tempore
intendebatur. Nihil ergo novi egit Deus, cum Mundus c nihilo apparuit. II. Tota
rerum mutabilium feries, quanta quanta eft, unico, et fimplici, et æterno Divinæ
Voluntatis actu continetur. Deus ergo
immutabiliter vult mutabilia. III. Cum æterna
fuerit in Deb ratio tum volendi quæ
voluit, cum quæ noluit nolendi, ctfi nihil necesfitate naturse velit, nolit -V,.
- it V ii VC • '.«i ve ; quz femel voluit, aut noluit ob
camdem jtternjim rationem perpetuo volet,
noletve. Sane incoftantisE,
levitatis, vel infeitia e(l argu. mentum
nolle quat olim funt volita, et e contrario, velle qux noiita funt. Sed nihil
horum in Deum cadit. IV. Preces, fupplicationefque ad Deum, non Deum erga
homines, fed homines erga Deum fle unt. Perpetuo manet Deus in amore Juftitiffi,
et ordinis : prout ergo homines vel in
ordine manent, vel abeo defeifeunt, vel
ad eumdem redeunt, bona vel mala
experiuntur ab imperturbabili et immota
Divina Natura juxta ordinis leges agente. Nimirum preces,
fupplicationefque &c. ad illum
fpe£l:ant ordinem, cui Divina Voluntas atque Providentia perpetuo, et immobiliter adhasret. 28. III. Veus tft Etif infinite
peyfeB^n extenrive, et intenfive. Si non
eft infinite per, feftum, eft profecto
natura fua perfeilibile. Cum enim
Entitas entitati haud pugnet, quavis finita Entitas nova feraper augmenta
lufcipere poteft' tum extenfive, cum intenfive. Sed quod natura fua perfectibile eft, hoc ipfo
eft mutabile. Id ergo cum de Deo pugnet,
necef. fc eft, eum omnem poflibiiem
entitatem complefti,* atque adeo infinite perfectum efle et intenfive, et extenfive. Revera finis, feu limes non eft quid pofitivum, led negativum ; eft
nimirum defectus majoris entitatis. Fiat hypothefis, Deum haud elTe infinite perfectum j et quoniam Is eft Ens necelfitate fua! naturæ exiftens
et irm mutabile 1. 2^, erit Deus Ens
cjufmodi, ut natur* fu* neceffitate fit
finitum, et in fu finitionis flatu immutabile. Id vero abfurdum cft. Concipi enim nequit Entitas, quæ naturæ fujc neceflitate certam fui limitationem
expofcat, certamque menfuram, quæque repugnet
fui ipfius augmertto. Deus igitur eft Ens infinite perfectum 8 fC.
Confer cofmot. Deus efl Ens fimpt}ci£imum. Ens
compofitum pendet e comptinentibus. Deus vero eft Ens omnirvp
independens. Nequit ergo effe nifi
phyfice fimplex. Deinde quodvis compofitum natura fua eft mutabile. Deus
autem cft immutabilis. Iterum ergo conficitur, Deum
effe ens fimplex. 30. In Scholis
difpufatum cft, an ntetaphyfica faltem. Vel logica compofitio Deo conveniat.
Quod ad primum Ipectat, affirmativam fententiam . Scotiftæ tenuerunt,
alferentes Dei attributa formalifer ex natura tei inter fe diftingar. At
non fatis penficulate, quippe qupdvis
Divinum attributum natura fua nequit aliud effe quam ipfa Divina effentia ^ in qua fapere ex. gr»
idenr-profecto eft ac effe. Quod fi diftinctiones inter Divina attributa ftatuere folemus, id
quidem efficimus imbecillitatis Mentis
noftrs gratia, non quod fit quidpiam in
Deo multiplex. Verbo, funt ilfjE
diftinctiones virtutis feu rationis in
Mentis noftras conceptibus fundamentum habentes, non formales in natura
rei in fidentes J Quod vero ad alterum
fpectat, ad quaftionem nominis tota res mihi perduci videtur. Cum enim iogica compofitio CX genere et differentia
conffet ^ 2. ont. ^ Genera autem fint noftrx Men^ tis notiones abftractione confectæ appofitis
nominibus defignatæ : has primum notiones ac#
curate funt determinandas, atque exponendas, critque poftmodum facillima
qujeftionis folutio. Ita ex. gr. li
nomine quis intelligat, id quod in
quaque re fjibftat, et adjunctorum
fulcrum eft-, Deus fub genere liiblfantise haud comprehendi.poteft. Si vero illo vocabulo
*intelligatur omne id,f quod ‘per fe fubfiftit
modo Deus ' fubftantia eft. qi..,V. De«/ immettfuf. l. Quipiie pugnant Deo, utpote. Enti infinito,
quavis mirationes ficati effentias_, ita
et exidentist; at» que adeo ficuti
infinitus cft in elTchtia,• ita iq
exiftentia immenfus effe, debet.*
II. Exifiat tenim vero Deus in- aliquo tai»r tum loco, non ubique. rSufficiens ratio cur.
iq hoc potius rloco, et non in alio, nec
->ubivi| exifiat, vel in ipib
loco.inefi, vel (ih Dei tura. Utram vis
dicatur, non r; foret Natura Dei
omniraodfiiindependens ; ejufque exiftentia cum iit d^termbato loco alligata, haudeffet' fibi
fuiSr cientilfima et a fe. Hoc autem
repugnat. Deos Igitur ubiquq locorum
exiftat) 4 ^us oportet jfiiat
immenfitate naturas., ^ qa. At opinemur illunt, fpatiofa
magnitudiiie.. ubique diffundi., Qpa de
rp animadvertatipr, 00.-« tionem
'Divinis.immenfilatis non pofTe ulfo pOf
eto fecerni. a. notione fimplieitatis vetras, et ab# folutas : 'nequ«; Deum dici poffe ^imm.eofum,
air ii et una J^ui fimplex habeatur 4
$ane guævia c. roa l,magnitudo minor eft in lui parte, quam
in toto ; Deus vero per luam
immenfitatem unus et idem ubique locorum
eft, et rei cuilibet intime præiens. Certe
immeiifitas, et limplicitas duæ lunt
perfectiones puræ : amb adeo de Ente
infinite per{pcto prædicandas veniunt. Cum vero utriutque perfectionis nec adæquatas
nec pofitivas habeamus notiones / hinc
ratio, fibi deficiens ab imaginatione exfuperatur,' quæ, immenfitatem cum fimplicitate pugnare,
faJfo repræfentat. Quod fi clare
pervidemus immenfitatem non poffe nifi Enti limplici convenire, ratio imaginationem corripiat, neque linat ab ea
rapi. ^3. Deus ejl unus. I. Nulla adeft
ratio eccur plurcs efle Deos putemus.
Sane Dei notionem ex neceflitate primæ alicujys CaulTæ effeflricis nobis
compatamus: lemcl ac (latuimus, aliquem
exiftere Deum primam rerum omnium
caudam, nulla adefl ratio cur pl u res Deos comminifeamur. Deorum
pluralitas manifclliffime rationi contradicit. Quid lane Deorum nomine
intelligi debet, nifi Entia natur* fuæ neceffitate exiflentia, atque adeo
infinite perfeSla? . cof. ^.zS-tieol.
Atqui duo infinita, non inquam plura,
manifeftilfime repugnant. Sint, fi fieri
poteft, hæc duo infinita A, et B. Infunt ne Enti A illæ- cædem numero
perfe£liones, quæ infunt B, et viciiTim : vel non,? Si primum, illa duo Entia A, et B non funt
reapfe nifi idem, et numero unum Ens. (’quot yel ad idealem coexiftentian>, vel ad idealerp fuccffljonem fpectant ex
natura^ et complexione tot is syflcmatis, nec nOn
ex nataris fingulcrum Entium
syfleinaconfiantiura, V ‘ fiuc
natur'alis fluere debent; nec aliter
fluere, quam i pix Entium naturx, mutuzque ad invicem relationes exigunt. Hinc profecto efl, ut, vel ex ipfis
exordiis cujufque Mundi intelligibilis, infinita Divina Intelligentia, cui
p^enitiflime patent et naturas, et relationes ut ut minimas Entium ad illum Mundum fpectantium, perfpectiflime, et plenillinie nequit non attingere lingulas
fuccefliones, et evolutiones ad eumdem Mundum
fpectantes. Divina polTibilium fcientia, quam breviter modo expofuimus, fcientia fimplicis
in^ telligentia folet nuncupari. Ejus
fons et origo, ut patet, ipfa eft
infinita Dei Entitas Divinæ Intelligentiæ
pleniffime patens. Atqui gaudet quoque Deus completa fcientia omnium futurorum, quæ ad certa
quavis et determinata tempora fpcctant ; quam vi/sonis fcientiam dixerunt.
Hujus fcientia:, eo quod et futura
libera complecti debeat, ex humanis ideis explicatio, acriter torfit
Theologorum ingenia. Ita vero nobis exponenda videtur. Mundus hifce realis,
quantus quantus efl (8c duratione, et extenfione,
et intenfitate, expreffio eft et deferiptio uniiis ex illis infinitis tntelHgibilibus Mundis Divinse Menti longe
lateque ab ipfa æternitate patentibus: illius feilidcf, cui JEterno, et efficaciflimo
Divinæ Voluntatis decreto adjudicata fuit exiftentia in tempore confequenda.Nihil
profeqjo eft, nec fuit, \ncc erit
quidpiam in hoc reali Mundo, quod vel
latum unguem ab illo asterno exemplari re. '
C« ceiendo alterutram denegare, quam fui imbecillitatem ingenii
fatentes, utrique veritati acquielcere. Ho.
rum nempe Alii, de humana libertate nihil hslitantes,futurorum liberorum
feientiam ab sternitate Deo adimerunt. Alii vero, Divinam re, rum omnium certam et infallibilem
prsfcien-. tiam pro rata, Sc indubia
ftatuentes', Mentibus agendi libertatem
eripuere,. Hi e Fataliflarum funt grege,
qui Divinam prsfcientiam nobis
neceffitatem imponere agendi qusciinque agimus, contra intimum confeientis fenfum effutiunt.
lif* ' dem ElegamitHme Boethius confoUt. T« cun6ia fuperno Ducis ab exemplo : pulchrum, pulcherrimus
IpP^ Mundum mente gerens ^ fimi lique in
imagine forma'*^') FerfeSla/que jubens ^
per f edum abfolvere partes, ' y dem pene armis Utrique pugnimt,quo
propSam tueantur fententi-sm. Hos audire
et refutare ma. xiniopere infereft,.Inquiunt:
I. Gum Dei fcientia certa fit, et infallibilis,
quæ Deus prænovit, neque|int profecto non evenire. Sed qræ nequeunt non evenire neceflario eveniunt. Quæ ergo
futura Deus prænovit, neceffario funt futura. Vel ergo ‘ nulla funt futura libera, vel fi
aliqua funt tujufraodi, a Deo neutiquam
funt 'prævifa. II. Et revera, facta hypothefi, Deum fingula ab æternitate prævidifllp,k
ficuti fi modo aliquid fieret contra id,
qu^ Deus pwevidit, actu Dei prævifio
errori obnoxia foret : ita profecto, fi aliquid contra id. quod Deus prævidit, evenire poffet, Dei fcientia poITct errori
fubjacere. Quum ergo Divina prasvifro, nec unquam a veritate, aberret, nec
queat aberrare : dicendum' eft, rerum
omnium et Cauffas, et effectus ne dum
ita pergere, rUt Deus prajvidit, fed nec
aliter pergere poffe. firmatur ita. que,
vel nullam habere, Deum* certam feientiam
futurorum : vel quæ dicuntur futura libera non effe hujufmodi nifi vtrbo tenus, reapfe
tamen Jieceflaria efle. ♦ ' s? Ad
fingula refpondemus. Ac I. diftinctione indiget, quod principio ponunt:
qute Detts tranavit^ y nequeunt, non
evenire." nequeunt profecto non.hypoihetice
y 8 c confequen* ter y non item
abfolute ^ et antecedenter. Quæ diWnctio
ut in propatulo ponatur, fupponamus, me,
omni illunonis periculo remoto, Petrum
coram ambulantem intueri, profecto,, quandiu 1\ theologia . iUum a Abulantera intueor, fieritne^uit i
^uin deambulet,* non enim fieri potcft,
ut idctn fit fimul, et non fit» At nemo
non videt, 4ticirco fieri non-polfe,
quin Petrus deambulet quia, ipfe fe
&.ad deambulandum determinavit, 5c
adhuc in, eadem, determinatione manet ; non quod neceflitatem aliquam tex.mea vifione
paflus fit, vel actu, patiatur. Neceifitas itaque, qua Petrus actu deambulans nequit non
deambulare, hypothetica eft, et co»/e^«»x, fluenS, nempe ex ejus
libera^eterminatione, n deambulantem. certo«intuear, et cur nequeat ille
actualiter et de facto non deambulare. lU porro
tera (ejungi nulfo modo‘pofiit, patet, Deo Voluntatem tribuendam -effe i
Revera cum hicce Mundus e nihilo Iit
conditus, nonnift Divinæ Volitati '
tribui* poteft r, eccur inter « infiiiitos
«lios «que polfihiles et fit electus, et fit ad exiftentiam perductus. '• 54. Dei.;autem 'Voluntas nequit effe' niff
rectiffima, fcilicet infinita; fuæ Sapientia; iciris, æternifque rationibfus apprime* conformis.
Cum enim Natura Dei fimpliciffima fit,
ac perfectilfima qo., equidem fieri non potefi, ut in Eo aliud fit velle, aliud fapere. Sane
qiitd magis ablonum quam, Voluntatem a Sapientia defcifcere, ac' Sapientiam erroris, levitatis,
vel ofcitanrias Voluntatem' redarguere ?
Profecto id everteret intimam Dei
NatUram numeris omnibus abfolutiflimam. Divina Volyntas, qua parte objecta. extra fe pofita iritendir, lilxrrima eft, et
immutabilis. Sane nulli externo fato potefi^ Deus fubjici, eum fit'omnino independens^ et a
fe^t neque ulla neceilTtate naturæ,
nulloque interno. impeto- rapi poteft ad
profequenda (Ejecta extra fe, quum fit intrinfecus Sc natura fua bea- « tiffimus, nullumque licet minimum
bfatit^t» nis augmentum advenire ei
extrirtferuff poffit, Liberfima igitur Deus Voluntate gaudere debet. Cum vero
nequeat Divina Voluntas noa effe i ni
mutabilibus, ac asternis fua; Sapientiæ 'rationibus apprime conformis' præ.,
confeqiiens eff, illam nec unquam mutari
nec mutari poffe- - ' ' Qpæ Deus vult,
aut non^v^t / ab ' I æterno, ac lemper
voluifle, aut noluiffe opor- ^ tet ; nec
'^quidpiam ‘Deus velle poteft, quod ab ' |
æterno noluit, aut fnodo nolle, quod ab æter- 1 no voluit. Itaque Dei Voluntas non inftar
facultatis concipi debet, fed infbarfimpliciffimi actus pci^petuo, et immutabiliter permanentis, -quo
• ab ipfa æternitate voluit, noluitve
fingula fi. ntul j, qux efie poterant fuæ
Voluntatis objectum. Patet hinc nonnifi cx imbecillitatis noftraj modulo pl ures Deo tribui Voluntates, quibus res extra fe intendat, et quas
Dei decreta appellare confuevimus....
iir., De attnhuus, qu(t Dvo, utpote
primee rerufn omnium Caujfa, conveniunt
: ubi dt confervittipne, bonitate, ' 0 providentid.De Conjervatione. «^ fingulæ
hujus Mundi fubftantiæ . j non ex fe, et
vi fua, fed efficaci Divina Voluntate
olim exigentiam fint confequutæ^ fponte veluti fua inquirendum modo occurrit,
qua vi ha^enus in Tua perdurarint exiilcntia, feu cui referenda veniat fuse
exiflentise continuatio. I. inhæc exidentiæ codtinuatio nequit Entibus contingentibus vi propriæ effeftiæ
con.^e^ire. Si enim cxiftent^id eorum effentiam
pertineret, forent Entia illa immutabilia : contradi£lorium fane e(l,^quidpiam
fua effientia exiiientiam, vei continuationem exiftentiæ obtine, re, et interim elTe, et beri pofTe aliud ab
eo quod effiSunt vero Entia quxvis hujus
Mundi ut origine fuacontingentia ^ ita
&: ejulmodi in fuæ exiftentiæ continuatione. Exiflentiæ itaque continuatio
nequit Entibus contingentibus vi propriæ*^^ eflentiæ convenire : atque adeo
aliunde ejus fufficiens ratio repetenda
venit. Ratio futiiciens continuationis in exi ftendo nequit alia effe a ratione
fufficienti exiftenti* primo temporis momento confequutæ. Revera exiftentia fecundo, tertio 6cc.
momento cjufmet naturas eft, ac
exifteotia primi momenti ; immo una eft eademque exiftentia; nempe Entia
contingentia fubfequentibus momentis
{'uum ejfe haud aliud et diverfum habent ab illo, quod primo momento obtinuerunt. Igitur
fufiiciens ratio continuationis exiftehtias Entium con fuam exiftentiam primo aufpicata funt. II.
In hypothefi, qua Ens sternum niWl
curaret entia a fe olim condita, fed ea veluti ipfa fibi relinqueret, nequirent profecto, ne minimo
quidem temporis intervallo, perdurare,
in nihilum illico abitura. III. Quum exiftenti® contiouatio, eofifervatio appellari foleat, liquet, illum
ipfum“ rerum omnium Conditorem effe
Carumdem Coa* Jervatorem optimum. IV.
Rerum confervationem haud infcite
continuatam creationem di£Iam effe: quæ
phrafis haud ita intelligenda eft, quafi De«
us fingulis momentis. reiteratos edat creandi aftus, led quod rerum confervatio non
conliftit, nifr ex eodem Divinæ Voluntatis æterno, atque efhcaciflimo actu, e quo ilis luam
cxi6- Quoniam Bonitas mora Bs ‘ condUit in‘
conforraitatc actionum liberarum cum prasferipto legis » botio bonitatis
moralis fupponit legem a fuperiore latam
; potentiam in fubjecto morali delciicendi ab illa ; 3, necefiita^ tem illam lequendi, ut fuam confequatur
felici-? tatem Atqui hx notiones •
pugnant omnino^ cum Divina perfectiffima
Natura, quæ et abfolute independens efl, et intrinfecus ac per fe beatiflima. Nequit igitur hujusmodi
bonitas moralis Deo attribui. Divina
bonitas eft Ordinis, cft plena
Voluntatis confbrmitas zterno rerum Ordini ab «ternis infioitz Sap entiz fcitis atque
re£liilimist, confiliis fluenti. Itaque
non Bonitas Sapientiz ac Potentrz
imperat, fcd Sapientia Bonitatem et Potentiam
moderatur. Quare fi zternus ac
iiqnentiflime conflitutus rerum ordo haud patia. tur>, homines in ipfis exordiis fuz
immortalis vitz ( nempe in hac vita
przienti ) plenam coflfequi perfcflionem,
et beatitatem fu» nature congruentem ; fed exigat, refervandam eam ^e alteri feculo ; minime profecto
Divinam Bonitatem redarguere licet ^
quod nos non eflPecerit heie^enc felices,.fiveritque plura mala obrepere. Ita porro rem fe habere, facili
argu. m«iu \ 6Oe malis, quz ex
indeclinabili MiAidi ordine patimur,
quseque contectaria iunt legum
coimologicarum, nihil efl, quod jufte conque. ri poiTimus. I. enim ex ipfo Mundi ordine, iifderrique cofmologicis, legibus noflra pendet exiflentia, 8c innumera illa bona fluunt,
queia in præfenti vita fruimur. II. Quod
ita Mundi ordo ab initio (it conflitutus,
ut omnium minima ^ pauciora mala irreperent, maxima vero, et plura bona : id
quod pluribus demon* ftrare poflTemus
per totum Mundi orbem mente difeurrentes
I III. (J^uod
fæpe numero voluptates doloribus adeq
iinitimæ et conlequentes fint;po« fit*,
ut hos fatis, fuperque rependere videantur. IV. Quod mala illa optima fu nt
media quibus a nimio pr*fentis vit* amore revocemur, neve vit* voluptatibus irretiti ' faifq nobis
fua. . deamus, permanentem heic habere civitatem, nihil de futura folliciti : tum legem
fenfiium legi rationis praferamus. V.
Quod>lunt illa auf przparationes ad
virtutem ne peccemus, aut juflz
punitiones fi peccavimus, ut a peccatis
recedamus. Nulla fane utilior, atque eloquentior virtutis fchoia >
quam malorum perpaflio j nec capitalior
virtutum peflis y quam perpetua vit*
profperitas; Mifyri/e toiSrantur, pcrfpcctc
Tacitus inquit, felicitate corrumpimur. Ilf. Mala, qu* ipfi nobis confeifeimus ma. lo' five corporis ^vc Animi reginiine
plurima equidem funt. Atqui h«c nequeunt
certe D/o Sd' adjudicari nifi fumma
inicitiav et stolida temc. ritate, quæ
non verbis, led verberibus.corripienda foret. Quid enim, Deo ne tribuam fi doloribus, vel febri laborem ( ut id
exempli loco auferam ) ex ingefto cibo,
potuque ultra quam natura exigebat, et (lomachi
vires patiebantur ? Profecto juRum eft, quod intemperan. tia! poenas luam : -nec eft, quod Divinam
bonitatem redarguam, cUm e contrario maximopere commendanda veniat.. Hæc fane
mala, mali nr ftri regiminis confectaria,
fræna funt, ne in vitia corruamus,. et ad
virtutem colendam caleatia tum juxtæ funt punitiones, fi hac contempta, in illa
concc fieri mus. Reftant tandem mala, qusE 'e?c noftris
fluunt præjudicatis opinionibus., ab effræna imaginatione. Quas ad /hanc fp^ctant
clafiem, maximam malorum partem capiunt,
et ea præfertim', quæ focialis vitæ felicitatem maximop,ere pertubant. Sed
nihil hæc mala contra Dei Bonitatem
faciunt, quippe fepientia et prudentia profligantur, ficuti e contrario sb
inicitia et imprudentia gignuntur,-ScitifSme
Epictetus in Encbir. cap. V. Pet^tnrbant
bomirtes non res ipfa, Jed de rebus
opiniones Cum- igitur ' aut perturbantur
aut trifiamur ^ nunquam alium
irtcujemus., ^ed nos ipfos, boe eji noflras opiniones. Verum vero
inquient. Potuifict Deus in alia rerum
(Siconomia humanum Genus conftituere, e qua perpetua bona fluxifient, quin ulla unquam irreperent mala /' Quod fi ita, haud fumme bonus-, in. bonitate, admodum
parcus Deus fuitje videtur, qui illa podhabita
ceconomia banc przfeutem ^ condiderit pluribus Icateutem naalis. 'j6. Sed facilis ad hzc refnonGo • I. ‘Non heic quzrijtur, quid Deus potuerit efficere,
fed quid efficere eum decuerit ^ Jam
vero, non, no« ' Ilrz caligantis
intelligentiz e(l decernere a priori, quznam ex poflibilibus oeconomiis
przdet ceteris, fitque Dei Sapientia ac
Bonitate di« gnior. II. Nutn ne tantum noftri ergo Deum condere
mundum oportuit? Equidem Deum horni, num
non' demerentium felicitatem velle, i omni
dubio vacat.* at Eum in Mundi creatione noflram plenam felicitatem
primario intendifle vel intendere debuiHe, id ed quid' ^uidpiam ab illa ratione diverfum. Sed
hanc rationem five verbis præclare
definire, five pura mente complecti pofie, certe negatum mortalibus effe
autumamus. Ecquis fane perfectiffimam, et undequaque infinitam Naturam Divinam
perluftraverit ? Quas rerum ideas, quasve
notiones adeo puras, et præcellentes mentibus noftris gerimus, queis Divina
incomprehenfibilia arcana decentet relerare audeamus? (a) 80. Verum vero, utut explicanda veniat Divina ifthæc excellentiflima ratio, et finis
^ autumamus, creaturarum felicitatem,
Divinæ- ^ que glorise manifefiationem
illa ratione ccrtc contineri. Revera,
haud aliter decebat Deum fe gerere, quam
ejusmodi Mundum condere, In quo Hanc rationem et finem ut expedirent
Platonici, aifeverabant, Deum ipfa fua
infinita bonitate percitum fuilTe ad
Mundum condendum, ut fcilicet effent, quos
benignitatis, ac famma:,qua ipfe fruitur, felicitatis participes
etiiceret : quaf fententia antiquis Chriftiani ccetus Dodorlbus non difplicuit. Procedente vero
tempore ufu ienfun invaluit inter
Theologos, ut Deos glorix fpf caufla
Mundum condidi fle diceretur j quod rede explicatum, et intelledum, nec
quidi-uam habet offenfionis, nec cum
priori illa fententia pugnat. Nam ut perfpedt
Cudworfhus Syflem. inrelled. Cap. V. fed. 5. Neq:lTet vel minimum obflare. Q^ua igitur Deus voluntate finem infendeb.it, profecto et optimum Mundum *legit ex
infinitis poflibilibus, tum et opere complevit. Revera finge, hunc Mundum non
effe optimum^ feu fini pr*4ituto non
apprime congruentem ^ equidem vel
defectui Sapienti*, vel Potenti*, vel
Voluntatis in Deo tribui debet, quod non
Iit conditus optimus Mundus. At 'priora duo Divina: pcrfcctiffim nanif* repugnant: ternum
vero contradictorium eft,,: media enim ad finem
confequendum eadem voluntate, continentur, qua finis intenditur. Quin ergo hic Mundus fit optimum, et ^ptifiTimum medium ad
confequcuf dum finem a Deo intentum
nullo pacto ambi, gi potcft. Sed hasc
rerum Univerfitas fummd Divinas
Sapientias confilio,'.ac pie niifima omnium futurorum ptasfcientia plim a Deo condi* ta, incelfanti actione ab eodem Deo
perenniter confervatur, nec aliter
confervatur, quam Men. te concepta fuit.
6 z, Deus 'igitur perenni ifthac
confervatione curam oftendit, ut mun«
danorum entium, syfiema illum confequatur fi» nem, cujus» olam gratia * mente conceptum,
tura reapfe conditum eft. Et quoniam mediorum ad finem æcomodatiflimorum
electio cura ne ab illo fine deficiant,
providentia vocabulo dcfignatur.* Deum
providentiffimum- plane effe ex modo
dictis 81. 82. evidentiifime patet..Equidem Dei Providentia cx ipla ejus natura tam'
arcte ac necefiario fluit, ut p^rfpecte
Cicero de. Epicuro, qui Deos nihil mundana curare fluite effutiebat, dixerit,
Epicurus ve tollit, oratione relinquit
Deos (a). Certe omnes, Gentes, ficuti
Sdpremi alicujus Numinis 'exiflentiam agnovere, ita et ejusdem
providentiam hffx funt, et coluere.*
quod adeo omnibus in eompertO/ efl ^ ut
demonftratione non indigeat, Di nat. D eor.'l. i, - v. - 'At circa Dei
providentiam plura occurrunt, quæ maximopere intereft animadvertere. I.. Dei
providentiam. haud in eo confillcre, ut
per lingulos dies,pcrque fingulas. horas perfpiciat quid. factu opus ht, et qua
flectenda fit rerum feries, fi quuipiara
erraverit, Abfurdiim id quidem, 8c
infinita Dei Sapientia indigniffirnum. Potiflima Divinæ providentiæ notio
codfiftit I. in illa rerum omnium præordinat io ne fapientiffime oliro conftituta ex ad^uata
omnium futurorupa prastcientia, qua præordinatione fingula entia hujus Mundi
fuas exacte leges fequentia tum ad fuos,
peculiares fines pergunt, cum ad ultimum
illum fipem, qui in Mundi molitipne fuit
a Deo intentus. 1. Divina prexvidcHtia continetur in illa inceflanti actione, quam confervatiooem dicimus, feu io
perenni illa et efficaci voluntate, qua
fit, ut fingula Entia.perdurent, &“
pergere non definant juxta præordinationem
in principio, factam. II' Syftema Divinæ providentiæ pror fiis
incomprehenfibile haberi debet, ficuti enirn
' 3 * brutis., animantibus intelligi nullo modo poffunt quæ ah hominibus
conduntur fyfteniata politica,
mathematica &c., ita profecto multo
minus comprehendi ab hominibus poteft lyftema gubernationis Mundi, quod
eft opus ab infinita Sapientia attern* Mentis conditum. Revera hujusmodi
lyftema ferienti complectitur omnium
temporum, omnium entium, omnium eventuum
fibi invicem cohærentium, et lele motuo. explicantium, duantum profecto eft nu
jusmodi fyftema, et qu«m la;c patet i at qu^tn exigua illius pars efl, qux
nobis innotdcit ! Tum, quantilla cft
human* caligantis inteJligentiæ et vis et extenfio 1 quam manca, quam perverfa de quavis ut ut minima re noftra
cognitio 1 Num ne rerum relationes, ac nexum
vel longe perfpeximus ? Quam plura funt,
qnse de unaquaque re ignoramus, quam qus
novimus, vel potius quæ noviffe putamus? 86, III. Divinæ Providentiæ Syftema eo magis adorandum, quo minus illud
comprehendere valemus. Hinc enim i. in admirationem rapimur Supremæ Dei Majeftatis, nec, fi
lapimus, non poffumus venerabundi non adorare
altitudinem Scientia ac Sapientia Dei, cujus adeo incomprehenjibilia funt judicia y
invefli* gabiles via. a. Incerti de
rerum eventibus probamur, et ad fummas
virtutes fidei, fpei, et omnimodæ
religionis excolendas incitamur . Totum Divinæ Providentiæ Sy-, Ilcma dno præfertim peculiaria ac minora
Syfiemata complectitur inter fe fapientiffime, et mirifice connexa ; phyjicum nempe, quod
ad brutam materiam fpectat, et morale,
quod Entia ratione, et libero arbitrio
prædita refpicit. Phvficiim Mundi
Syftema phyficis legibus regitur, et ad
pra^itutum a Deo finem recta pergit Sunt
enirnvA-o phyficæ leges nihil aliud,
nifi certæ determinationes viribus materiæ a Supremo Conditore imprelTæ, quibus
phyfica neceflitate fiunt quæcunque
fiunt, et hd smuifim infinitæ præordinantis
Sapientiæ. De hoc phy£co Syftemate fatis in Co/. c. 4. Atqui Entia, Y quæ funt ratione et libero arbitrio prædita
aliis omnino legibus profecto regi
debent, quæ lint eorum natur* conformes
j leges quippe, quas phydcas dicimus^
rationem et liberum arbitrium
deftruerent. Determinationes,
qu* Entibus ratione Sc li- bero arbitrio
prxditis conveniunt, nequeunt aliæ cfTe,
quam qu* ex illiciis bonorum, et amore
felicitatis, vel ex horrore malorum, et mife- ri* odio fufcipiuntur. Leges itaque, quæ
En- tibus libero arbitrio pr*ditis
conveniunt, oc- queUnt aliud efle niti certa et immutabilia tita- tuta Supremi Conditoria, quibus bonum et felicitatem
creaturis rationalibus in ordine n>a-
nentibus præordinaverit, miferiam vero et in- felicitatem creaturis ab ordine
defcifcentibuS. Ifthæc flatuta /e^ef
morales naturales dicUntur^ * 88. V.
Leges morales haud cenferi debent
creaturis rationalibus extrinfecus et accidentaliter impotit*.* fed in ipfo Mundi ordine intit*,
et in creaturarum naturis. Neque
putandum eft, ex folo Conditoris
arbitrio illas luam obtinere fan-
ctionem, fed pr*fertim ex rectiffimis et infle- xibilibus Sapienti* fcitis, quibus omnis
mun- danus rerum ordo primum conceptus
fuit ^ tum demum Divina* Voluntatis
efficacitate ad exi- ftentiam perductus.
Nimirum generale Mundi Sytiema ea arte
ab infinita Divina Sapientia conditum
efl, ut indeclinabiliter ad felicitatem
ducat Creaturas rationales ^ quæ fartas tectas fervant relationes, quas ad tingula qu*vis
En- tia natura fua habeat, fuasque illis
attempe- rant actiones: ticuti c
contrario ad miferiam et in- lyp
Sc infelicitatem efficaciter trahat illas Creaturas rationales, quæ eas relationes violant,
corrum- punt, fuifque actionibus
peffumdant. Requ dem vera nifi res ita
le haberet, haud foret 'iVfua^ danum
Syfiema ordioatiffimum, infinitaque Dei
Sapientia ac Majefia^e dignum, fed opus na- tura fua hians, quod externis veluti
prasfidiis pofimodum circumvallatum,
infcitiam et im- potentiam in Conditore
argueret. * Sp. £ mox dictis patet I.
generale Mundi Syflema ne latum quidem
unguem a præfiituto fine aberrare, five
Creaturæ rationales in fuo maneant ordine,
(ive ab eo defcircant. In fuo enim
ordiiie manentes fuam confequuntur feli-
citatem : a fuo ordine recedentes miferiam et infelicitatem nancifeuntur, et quidem in
ratio^ ne fuæ aberrationis - At utrumque
verum, et realen-i ordinem generalem
confiituit : utrum- que ad generale
Mundi syftema æque fpectat, et mirifice
conrpirat fini, quem ^us munda- no
syftemati przftituit. 2, Patet,Vmnem le-
gum moralium naturalium notitiam aufpican- dam pfTe cx relationibus, qu® rationales
natu- ras ad fingula quavis Entia
nectunt. po. Contra morale syftema
Divina pro- videntia objiciunt profani
homines maximam ac increciibilrm pene
rerum humanarum confu- fionem. Inquiunt, aque omnia
eveniunt omni, bus: nrobis et improbis,
religionis contemptori- bus et amicis
idem imminet periculum, et aqua fors.
Quin immo perjuri, facrilegi, et criminoii homines non raro melioribus
gaudent fatis, quam optimi, et juftiifimi.
Nullam er- Y 2. go naturalis
go Deus, ita concludunt, humanarum rerum
procurationem habet. pi. Equidem
vis huic objecto confifteret, fi inter
demonftrata foret noflrorum Animorum cum
corpore mortalitas. Id autem cum tantum
abfit, ut contrarium recta ratione dcmonftre- tur, ruit propterea objectum illud ipfa fui
mo- le, tum facili refponflone
exfufflatur. Ita præ- clare Auguftinus
ia).' Placuit Divina providen- tia
praparare in poflerum bona juflis, quibus
non (ruentur injujli, mala impiis, quibus nofi excruciabuntur boni .
Ifla vero temporalia bona et mala utri f
que voluit ejfe- communia ut nec bona
cupidius appetantur, qua mali quoque
habere cernuntur ; nec mala turpiter evitentur, t^tibut et boni plerumque afficiuntur ., . Dein
fuhdit. Si nunc peccatum (Deus ) manifefla ple&e- ret poena., nihil ultimo judicio Jervari
putaretur.' rurfus, Ji nullum peccatum
nunc puniret aperte Divinitas . nulla
ejfe providentia Divina credere- tur .
Similiter in rebus fecundis, Ji non eas
Deas quibufdam petentibus evidentijpma largi- tate concederet, non ad eum ifla pertinere
dice- remus itemque,fi omnibus ea
petentibus daret nonnift propter talia
pramia ferviendum illi eJfe arbitraremur
. pz. Qui Dei providentiam vituperant, quod mala et impia facta non llatim plectat,
equi- dem fimillimi eorum (unt, qui
videntes in fce- nsm prodire facinorofos
^ fceJeratofque homines, eof- de Ci
vit. eofque per totum carmen in luis criminibus
exulMre, tragicum Poetam incunctanter convi- ciis petunt } totamque fabulam ut Icclcratam rejiciunt . Tragoediæ exitum hos expectare
opor- tet, mox enim illos dignis excipi
fuppliciis videbunt, fuorumque fcelerum
meritas poenas lue- re . Vera fabula
prxfens efl vita : quilibet no- Urum
luam in hoc telluris theatro perfonam
fubflinet, et ita, ut de fuo femper aliquid ad- dat fabulæ . Atqui Deus totam
fapientiffime fabulam moderatur, et regit
. Is lapientiflime nectit noftras
hujufce vitSB actiones cum fuis geftis,
quæ in altera vita lequentur : eruntqua
futura cum pr®fentibus ita inter fe apte Sc con- cinne connexa, ut fumma de rebus omnibus providentia eluceat . pq. Tandem, fi Deus in humanis rebus
moderandis ubique fusE providentiæ vim, 8c,
præfentiam extraordinariam oflendere vellet, ficuti Adverfarii
infcitiflime et arrogantiffime poftulant
• profecto miraculis cuncta elfent re-
plenda, naturæque leges perenniter interpellan, dæ . At quæ fumma confufio rerum hinc
pro- diret, quæ maxima perturbatio !
Edifcant ergo Adverfarii rectius
philofophari : ficuti apparen- tes illa;
perturbationes, et monftra, quæ in
fyftemare phyfico quandoque occurrunt, nihil de ejus ordine et harmonia detrahunt,
quippe ex ejusdem ordinis vi 3c legibus
confequuntur, et in ipfum ordinem
redeunt : ita nihilo fecius divina de rebus humanis providentia confiftit, licet quædam moralia monfira quandoque
profilire et exultare videantur. Moralis quippe y q or. NATURALIS ordo, 8c providentia ex harmonia legum
cosmologico-moralium, et ex nexu actionum hujus vitæ cum alterius futuræ vitæ
ordinatione refultare debet. Finis Theologia, TOTIUS OPERIS CONSPECTUS Jn unlverfam Metaphyficam^ prafatio. i METAPHYSICARUM INSTITUTIONUM In Ontofopbiam
prolegomena De effentia, et attributis. De variis entium generibus
De relationibus Entium . Dff
relationibus fimilitudinis. De relationibus, e coexifletftia dependentibus . De relatio.nibus
dependentiis, ubi de Catijfis. De quib.usdam
"relationibus compo/itis . INSTITUTIONUM
METAPHYSICARUM PARS ALTERA In
Cofmologiam prolegomena. De Corporum elementis. Corporum elementa Junt ne
ex- tenfa, vel inextenja Similia Jint ^
qn diffimilia cor- porum elementa expenditur . . niTT De Legibus cojmologicis . De Mundi, Materia
origine. sirr: Etis tttiquod aternutn natura fua necifjitate exi/iere, indubie
demon- firatur j tum ejus pracipui
c&araSleres expenduntur .In materia
originem inquiri - tur, eamque ix nihilo
conditam vi, potentia fupremi Numinis
inviBe demonflratttr . I op Democriti, et Epicuri fenten» tla refutatur ; ubi Mundum potentia, et fapientia
Entis aterni conditum effe evincitur . I
£ 5 Spinosa Jyflema abfurdorum, et contradiBionum
effe cumulum ofien - ditur . De nexu
omnium Mundi Cauf- Jarum et effeBuum :
ubi de fato juxta . Pbtlofophorum
placita di [feritur De nexu omnium Mundi Cauf-
/arum, effeBuum, lai P
bilofophorum de fato fenten* tia
enarrantur, atque refutantur. ia8 De
Naturali, et jupernatu» De Natura gener
at m ; ubi . quid fit naturale edocetur De fupernaturaii : ubi de Mi’ vaculis generatim Pinis Cofinologia METAPHYSrCARUM INSTITUTIONUM In Pfycbohgiam
jtrole^omena . g CAPI L De Facultate
fentiendi . j Senjitiva facultatis indoles
at» que natura expenditur ^ &“ plura
fenfa ^ tionum do^lrtnam Jpe^antla
enucleem tu* . Qna Jit fedes principii fenji- tiva facultate praditi .De Memoria De
contemplatione DV remintfcientta .De recognitione De facultate attendendi ^ et refle^endi, zS De imaginatione, De facultate appetendi ^
ejuf~ que objeElo : ubi de affe^ibus
fummatim. De facultate appetendi,
ejuf- que objeblo . ibid. De affeBibus .
at, De humana Mentis Volunta* te, ac Libertate . De Mentis humane
Natura.. . •^nimadverfiones ad invejiigandam %Anima humana naturam preeli- mtnares .Humanam Mentem haud effe ' temperationem humani corporis, ac pra^ cipue cerebri inviate demonjiratur Ct*tvU
fubjlantite corporea in* trinfecus
pugnare cogitationem, /Jw De idearum^
notionumque natura, atque ongtne
%/inimadverfiones praliminares ad
idearum,netionumque naturam atque originem expijcandam. Idearum origo ac,
natura ex~ penditur. Quadam
Pbilofopbortm.placita, qua idearum
/peliant originem, brevi - ter
exponuntur . Df tAunue humana orij^tne’ .De Mentis humana Immorta- litate . I loi Mentem humanam ex natura Jua infpe^am, immortalem effe, demon- flratur . Mentem humanam ex fui Con- ditoris voluntate infpeBam immorta- lem naturali ratione afferitur.
METAPHYSICARUM INSTITUTIONUM In
naturalem Theologiam prolefromena . Deum exi/lere invitiis ratio - nibus demonflratur, et *Atheorum
pracipua cavillationes difpelluntur . Deum
exi flere met a phy fice de - monflratur
. ibid. ART. II. Dei exiftentia morali
demon- firatione vindicatur .De
attributis, qua Deo, ut Enti a fe y
conveniunt. 1^8 De attributis y qua Deo
y ut Menti, conveniunt . Dei Scientia
expenditur . ibid. Ds Dei abfoluta
Beatitate, De Dei Voluntate. De attributis, qua Deo y ut - pote prim-rfetur, et fi merito typis mandari pnfit . Ac pro executionc Regalium
Or- dinum idem Revifor cum Jua relatione
ad nos di- rede tranf mittat etiam
autographum ad finem', Datum NAPOLI ^ .»79d.
FR. ALB. ARCHIEP. COLOSS. CAPP. M. S. R. M. J Uffu tuo accurate legi docfl-flfimi Viri
Sacerdo- tis D, Mariani iJcmitula
in^itut ones philofo- phtCas^ nempe
infi/turiones metaphyfices, in qui- bus
quxcunque a ienfibus funt remota ) leu le-
ruin naturam, feu univerfi ordinem, Icu nafU- Tain animorqm, feu durina attributa,
quantum i-tio »e adfequi licet, facili
methodo dilucide per- tvadlantur ; atque
infitutiones logices quibus, qu.ie ad hu
minam mentem formandam fpeiflant, folide
præcipiuntur, in his utrifque inititutionibus bu8 omnia fumma eruditione, Ir
dodlrina, neo minori pietate explicanrur
; tantum abeft, ut qoidpiam aut juiibus
Majeftati", aut boniS mon. bus
advei ium commeant ; quare edi pcffe cen»
fto, nifl aliter Majcftati Veftrae fuerit vifuin, NAPOLI MAJESTATIS VESTRAE. JlVmiliJtimuS addidi ffimus 6-
obfequtl^ffimus, Jofephus Maffcjus
Regius Profcffor. NAPOLI ec. Vifo refcripto S. R. M, fub die 5.
currentis 'fnenfis, cSr anni, ac
relatione U, J. Dodoris O, Jofephi
lAafiei ^ de commijfione Reverendi ReffH. Cappellani Majoris, ordiie pr^fau
Regalis Majejiatts &C» Reffjlis Camera S, Clara providet,
decernit^ Mtque mandat, quod imprimatur
cum inferta forma prafentis /upplicis libelli, ac approbationis dtdi revi fotis . R erum no<» publicetur
ni fi per ipfun Revi/orem fada iterum
reviftone, . ajir- metur, quod concordat
^fervata forma Regalium ordinum ^ ac
^etiam in publicatione fervetur' Re- gia
pragmatica» Hoc fuum ec, JARGIANNI PECCHENEDA
VOLLARO V. A. R. C. Izzo Cancelliere Rfg- fol, t?, tt u Pafcale Uluftris Marchio MAZZOCCHI P. S.
C.& ceteri Aularum Praefedi tempore
lub. impediti . EMINENTISSIMO SIGNORE .M trhele Migliaccio pubblico Stampatore
fup- olicando efpone ali’ E. V. come
defidera dare alle ftampe un’ opera
tntitolata In/iitutionet, Philolophicte
Auctore Mariano Stmmola . Prega percio 1
’ £. V. a commetterne la reviiionc a chi
piu le piace • Admodum R«v,
Dominus D. Donatus GigUo St Th. Prof. revideat, et in Jcriptis
referat. FRANCISCUS ROSSI CAN. DEP. Institotiones Philosophicae appofite ad
Tyrona u captum a S. concinnatas, ea
diligentia, qua tua juffa capeffere par eft. Princeps Eminentidime,
perlegi, In illis, prxterquam quud
methodo meridiana luce clariore argumen-
ta tum unde unde exquidta, tum propriae penis depronua (apienter ad Philoruphiae firmanda
dog- mata congerit Audior, in i!l ud
porro omnes lol- lertix nervos intendit,
ut et fandi di m a morum ratio redle
libi condet, 8c jura Rei gionis, li
unquam antea fufque deque habita*, nunc ut cum maxime pedimo fato divexatx, farta tedla
fer- ventur . Qux cum ita le habeant,
cumque nihil optimo Prxfult antiquius,
fan^iufque effe debeat, ? uam ut
adolefcentes fandlionbus, minimeque
iibdolis fententiis imbuantur ( nam quo Jemel ejt imbuta recens, fervabit odorem Tejia diu )
in publica commoda peccatum iri 'rcor,
fi hujufmo- di Opus minime Typis
mandetur, Quare fi ita Z * Emi Sminenti*
Tu® videbitur, publici jur» fieri pof-
fe cenfeo . l-)ab. ^Alib. Seminat ii Urbani XV Iil. EMINENTUE TU.E,
AddidiJP Obfequentijp, Ta/nuius iionatus
Gigli, yy/ff ip is. Mariano Semmola. Semmola. Keywords: istituzioni
di filosofia, l’istituzione della logica, l’istituzione della metafisica. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Semmola” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Semprini: implicatura
cabalistica nel deutero-esperanto di Pico -- filosofia italiana – By Luigi
Speranza, pel Gruppo di Giocodi H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Bologna). Filosofo italiano. Bologna,
Emilia-Romagna. S. progetta una lingua internazionale su base latina che chiama
“neo-latino” – “Rubrica del movimento interlinguista” --- e l'anno successivo
ci prova anche LAVAGNINI (si veda) con l'Unilingue (o Interlingue)
pubblicato nel Corso pro Corrispondenza d'interlingue od Unilingue in sette
sezioni a Roma e ancora con MONARIO (si veda), dato alle stampe nel Corso
de Monario prima e nell'Interlexico Monario. Italiano-français.
English-deutsch poi. GIOVANNI PICO (vedasi) DELLA MIRANDOLA. LA
FENICE DEGL’INGEGNI -- saggio di
S. nella quale si raccontano i casi della vita del
principe-filosofo e s’espongono i segreti cabalistici magici e astrologici
della sua esoterica filosofia. Con un esame
delle sue poesie in volgare e un ritratto fregiato da Carolis ALL'INSEGNA DELLA CORONA DEI
MAGI PRESSO ATANOR. TODI. Il saggio che offre al suo C. non ha la pretesa
d’essere una monografia e molto meno uno studio completo della vita del Mirandolano.
Esso, così come si presenta, porta l’impronta dei sentimenti e dei pensieri non
sempre contenuti che in me sorgeno via via che il velo si discopre e la bellezza
d’una vita intensamente vissuta per un ideale l’appare nella sua immediata freschezza.
Ciò che li mosse a scrivere di Pico non è,
lo confessa, quella preoccupazione pella verità storica che spinge molti a travagliare
per anni interi intorno a manoscritti, a cimeli, a documenti, pur di riuscire a
determinare colla massima certezza le date della vita d’una personalità o d’un avvenimento
storico. È stato il desiderio di conoscere, attraverso un personaggio quelle altre
verità che, non essendo sempre dì dominio
del pensiero riflesso, le chiamiamo con altri nomi. Tale desiderio l’ha portato a conoscere quanto Pico, al pari degl’uomini
del suo tempo, fosse assetato di verità, e come più di tutti i suoi contemporanei
avesse il senso dell'inanità degli sforzi umani e della vita stessa. Quanto egli,
pur aspirando alla verità come luce rasserenatrice, fosse convinto, anche prima di raggiungerla, che desso, purtroppo, non è il
fine ultimo della vita, che c'è qualcosa di più alto ancora che più della cristallina
chiarezza del vero esprime l'essenza della vita, e cioè l'amore. Non è tragico tale
sentimento che rende inquieta l'esistenza di quest’aristocratico il quale, sotto
la femminea placidezza del suo volto avvenente, nasconde un'anima irrequieta e
nostalgica, non già agitata dalle passioni 0 dai perturbamenti del
senso, ma dal dubbio della ragione, dal contrasto che sorge come nube procellosa
negli spiriti meditabondi ogni volta che vedono l'inconciliabile opposizione fra
il reale e l'ideale? E ciò che nel Pico rende insanabile questo dissidio interiore
era il senso del mistero che in combeva su ogni manifestazione del suo vivere, il
senso dell'arcano per penetrare il quale
s'illude, come gli spiriti profondamente mistici, che al di là della conoscenza
comune, al di sopra delle nozioni volgari ci fosse una dottrina esoterica, accessibile
a pochi, per mezzo della quale l'iniziato potesse inoltrarsi nei sentieri reconditi
ove splende la luce che trasumana. Non so quanto sia riuscito nel suo assunto che
era di rappresentare Pico quale mi si
rivela più che dai documenti d'archivio, dalle sue opere e dalle lettere
del suo epistolario. Certo sarebbe per lui motivo di conforto poter constatare che
il suo studio potrà essere stimolo ad altri a darci di Pico quell'opera completa
che tuttora ci manca. Bologna, Villa Serena. In un'alba nasce nel castello della
Mirandola Pico. Sua madre, in un sogno di fiamma, n’aveva presagito la bellezza superiore a quella delle sue splendide
figlie, e l'ingegno e l'amabilità che non aveva saputo riscontrare nei figli Galeotto
e Anton Maria, in perenne lotta pella supremazia del feudo. Muratori, Amali d'Italia;
Tiraboschi, Dizionario Top.; Bratti, Cronaca; Cronaca della Nob. Famiglia Pico,
scritta d’autore anonimo, illustrata con note e documenti da Molinari, pubblicata
in Memorie storiche della città, ecc. Mirandola;
Ceretti, Giulia Boiardo in Atti e Memorie della Deput. di storia patria dell'Emilia,
Modena; Burckardt, La civiltà italiana nel ri-nascimento, Firenze. La prima biografia
del Pico è quella scritta dal nipote Gianfrancesco e premessa in tutte le edizioni
delle opere. La contessa Giulia, che aveva nelle vene un po'del sangue del cantore
dell'Orlando innamorato, ci si presenta una
di quelle donne meravigliose del ri-nascimento, abilissime nei lavori muliebri e
aperte a ogni manifestazione dell'arte, capaci d’accudire alle cure più minute della
famiglia e di tener testa agl’affari più difficili dello stato. Questa donna, che
altrove ci appare energica e severa, accanto a PICO, rivela i caratteri più squisiti della maternità.
Ora la vediamo tutta compresa di
tenerezza nell'atto che la nutrice mostra il bimbo in fasce a Merula, ospite
durante il suo viaggio per Bologna delle figlie Lucrezia e Caterina. Ora notiamo
lo sforzo della sua maschia natura per condiscendere a certi capricci e vizietti
di PICO. Oh! la gioia di questa madre quando assiste alle prime rivelazioni di quell'ingegno
precoce, che era pronto a cogliere sul punto qualsiasi istruzione impartita, che impara con rapidità
sorprendente una poesia, che rivela sin dai
più teneri anni una memoria prodigiosa. L'indole dolce e arrendevole che Pico aveva
sortito da natura, l'aspetto quasi femmineo del volto che si tinge di rossore o
impallidiva ai fremiti insoliti dell'età critica dell'adolescenza vicina, l’inclinazione
agl’ardori d’un misticismo incipiente, dovevano senza dubbio indurre la contessa Giulia a provvedere per tempo
all'avvenire del figlio, non senza quella trepidazione propria delle madri che vorrebbero
vedere immutata l'ingenuità delle loro creature. A Giulia parve
che lo stato
ecclesiastico fosse il
più adatto all'indole
del piccolo Giovanni
che, da parte
sua, era più
che mai disposto
ad abbracciare uno
stato in cui
avrebbe potuto svolgere
più agevolmente quei
sogni che cominciavano
già ad agitarlo.
Giulia s'interessò per
ottenergli la elevazione
a protonotario apostolico,
e appena il
figlio ebbe raggiunto l'età di
dieci anni, la
contessa ne celebrò
solennemente l'investitura. Alcuni
anni dopo, nel
1477, Io mandò
a studiare diritto canonico
all'università di Bologna
. La festante
città dei Goliardi,
la cui vita
politica era guidata
in questo tempo
dalla potente famiglia dei
Bentivoglio, poteva considerarsi
per il suo
Ateneo « il
tramite per cui
le idee umanistiche passavano dall'Italia
all'Europa. Da ogni
regione d'Italia e
paese d'oltr'Alpe convenivano
quivi numerosi gli
studenti con le
caratteristiche e i
linguaggi delle loro
terre; e quivi
formavano corporazioni con
statuti propri. Si
deve far risa
ci) SCARABELLI, Dell'antico studio
bolognese, Bologna, 54-55;
Gavazza, Le Scuole
dell'antico Studio bolognese,
Milano, 1896, 78.
4lire a questo
periodo l'attrattiva esercitata
sull'animo del Pico dall'ordine
domenicano, che finirà
per essere una
delle mete sospirate.
La chiesa di
S. Domenico era
il luogo in
cui solevano radunarsi le
corporazioni dei «
legisti », i quali erano
tenuti a intervenire
processionalmente alla festa
di S. Domenico
e ad assistere
dal coro alla
messa dello Spirito
Santo. Tra quei
frati predicatori che,
per la loro
dottrina e il
loro ascendente, avevano
sì gran parte
nelle cose dello
studio, uno dovette
attrarre l'attenzione del
Pico, per le
maniere semplici e rudi,
gli occhi vivissimi,
la fronte solcata
da rughe e
il colore bruno
che contrastava col
biancore del lungo
saio. Questi era
Girolamo Savonarola, giovane allora
venticinquenne, già emaciato dai
digiuni e dalle
astinenze che a
« vederlo passeggiare
pei chiostri, pareva
piuttosto un'ombra che un
uomo vivo. È
dubbio se fin
da allora si
stringessero rapporti fra
i due, che
dovevano in seguito legarsi
coi vincoli di
reciproca stima; certo
da quel momento
i loro occhi
si saranno incontrati, non
con l'indifferenza onde
passano le innumeri fisonomie
umane, ma producendo
quella recondita impressione
che rifiorisce presto
o tardi negli
scambi di idee
e di sentimenti. VillAri, Savonarola,
Monnier. È durante il
tempo de' suoi
studi di filosofia a BOLOGNA che
muore a Pico
la madre, e ci
duole di non
trovare alcun'eco ne'
suoi saggi di questa
sventura. Ma faremmo torto
al suo delicato sentire
se volessimo ciò
attribuire ad uno
scarso attaccamento verso la
persona che pili
di tutte lo
ha amato. La
contessa Giulia che
si era portata
a Bologna per
stare vicina al
diletto figliuolo, fu
colpita da un
malore che la
trasse in breve,
il 13 agosto
1478, alla tomba.
La sua salma,
trasportata il giorno seguente
alla Mirandola, fu
tumulata accanto a quella
del marito nella
chiesa di S.
Francesco. Pico, forse perchè
non si sentiva
portato allo studio
del diritto canonico,
decise di recarsi
a Ferrara ove
lo invitava il
Duca Ercole I,
già imparentato con
la sua casa,
avendo sposato la
sorella Bianca a
Galeotto, fratello del
nostro Giovanni. Quando nel
maggio del 1479
giunse a Ferrara,
che era allora
una delle città
pili popolose e ricche
d'Italia, fu assai
lieto di poter
frequentare la scuola di
rettorica e di
poesia di Battista Guarino, che
proseguiva con pari
valore le direttive
del padre suo,
il celebre Guarino
Veronese. Come un'aura
di poesia doveva
respirare nella città
che della poesia
cavalleresca ed epica
stava per divenire
il centro d'Italia,
e come un'ebbrezza
6materiata di sensualità
doveva ispirargli la
tragica storia ancor recente
di Parisina e
gli amori un
po' violenti del
padre di Lionello
e di Borso
d'Este . Il
Pico trovò modo
di appagare più
di un desiderio
come ci attestano
i frammenti delle
sue poesie amatorie
e Raffaello da
Volterra ne' suoi
commentari in cui
parla anche del
successo che conseguiva
nelle pubbliche discussioni.
Non ostante la
simpatia ch'egli sentiva
per Ferrara in cui aveva
contratto varie amicizie
cogli Nell'interno del
palazzo accadono fatti
spaventosi: una principessa,
Parisina, è decapitata
insieme col figliastro Ugo per
adulterio (1425) (v.
Muratori, R. I.
S. lib. XX); principi legittimi
e illegittimi fuggono
dalla corte e
sono minacciati anche
all'estero da assassini
inviati ad inseguirli, come accadde;
oltre a ciò
continue cospirazioni dal di
fuori; il bastardo
di un bastardo
vuol rapire a forza
la signoria al
legittimo erede. Ercole
I ». BuRCKHARD.
Cfr. Solerti, Ugo
e Parisina in Nuova
Antologia, 1893, voi.
129, 593-618. Ivi
il Volterra dice
di avere veduto
il giovinetto Pico,
vestito da Protonotario
apostolico, discutere fra le acclamazioni
di tutti con
Leonardo Nogarola. Devono
alludere a questo
tempo le parole
del nipote: «
Prius enim et
gloriae cupidus, et
amore vano succensus,
« muliebribusque illecebris
commotus fuerat, foeminarum
« quippe plurimae
ob venustatem corporis
orisque gratiam, « cui doctrina
amplaeque divitiae et
generis nobilitas ac«
cedebant, in eius
amorem exarserunt ».
Opera, Vita, senza
numerazione di pagina.
uomini pili in
vista del mondo
letterario come col
Guarino e con
Vespasiano Strozzi, il
demone dell'irrequietezza cominciò
a fargli sospirare
altre città, a comunicargli
il tormento comune
a tutti gli
umanisti di allora
pei quali la
più gran gioia
era quella di
andare in cerca
di nuovi codici, dì
poter frugare conventi
e biblioteche, di
scoprire qualche nuovo
volume. Benché ormai
rimanesse poco o
nulla da scoprire,
dopo che, sull'esempio
del Petrarca, il
Filelfo, il Guarino,
Giovanni Lascaris erano
riusciti a riesumare
tante opere preziose
dell'antichità, non era
peranco cessata la
bramosia della scoperta
di nuovi libri .
Il Pico, spinto
da un ardore
che nasceva da
uno spiegabilissimo sentimento
di emulazione, non
risparmiava spese nell'acquisto
di libri, e
intraprese anche dei viaggi
per raccogliere o
rintracciare qualche codice antico.
Nell'autunno del 1480
troviamo il Pico
a Padova , dove
in data 16
dicembre di quell'anno
Sabbadini, Le scoperte
dei codici latini,
Firenze, Sansoni, 1905.
Cfr. specialmente i
capitoli IV, 72,
VI, 114. Anche
il Muntz, Precursori
e propugnatori del
Rinascimento, trad. Mazzoni,
Firenze, Sansoni, 1902,
76-78. II Pico
rimase a Padova
per un biennio,
dal 1480 al
1482. Cfr. Della
Torre, Storia dell'Accademia Platonica di
Firenze, 1902, 749.
8 gli venivano rimesse
le patenti ducali
con le quali
si concedevano a
lui studente di
filosofia nell'almo studio
patavino, tutti i
privilegi che vi
potevano godere gli
scolari. Pare che
l'indirizzo di studi
che si perseguiva
in questa città
e l'ambiente studentesco lo soddisfacessero molto,
poiché in una
lettera ad Ermolao
Barbaro dice che,
fra tutti i
«ginnasii» d'Italia, quello
di Padova era
stato da lui
frequentato più volentieri
. Era il
Pico allora in
quell'età in cui
la vita sorride
più che mai
all'occhio dell'adolescente che,
nell'esuberanza delle
proprie forze psichiche,
non trova limiti al
suo pensiero, e
il bene e
il male rientrano
in quella sfera
che li assorbe,
direi quasi, li
accomuna, cioè l'amore. Ciò
che in altre
età può sembrare
scandaloso, indegno dell'uomo,
è nell'adolescente tollerato;
e anche quando
l'uomo avanzato negli
anni piange, come
il Pico, i
peccati della gioventù,
sente nel-, l'amarezza
del rimpianto il
rimorso di così
cari ricordi! E
il Pico era
troppo sensibile per
non sentire questa
vita fremente che
gli s'agitava intorno, egli
ch'era così bello,
colle chiome d'oro
svolazzanti sul volto
radioso, quasi novello
Ado « ex
Italiae gymnasiis mihi
sedem ad philosophiae
« studium diligerem...
» opera, 376.
Cfr. DoREZ et
ThuaSNE, Pie de
la Mirandole en
France, Paris, Leroux,
1879, 9. 9
ne, come
ce lo dipinge
il Ramusio in
un carme latino.
Testimonianza di questa
vita goliardica di Padova,
è la raccolta
dei carmi latini
di Girolamo Ramusio,
ch'egli volle dedicare
al Pico verso
il quale si
sentiva attratto, oltre
che da tenera
amicizia, da identico
amore per lo
studio delle lingue orientali
e per la
vita avventurosa , con
un carme intitolato:
Illustrissimo loanni Mirandolae
principi ac concordine
corniti benemerenti, Hier. Ramusius
paiiper Ariminensis. Girolamo Ramusio, della
cui memoria non
c'è traccia nelle opere
del Pico, benché
nella raccolta delle
sue poesie si
trovino inseriti alcuni
carmi di quel
Donato col quale
il Pico rimase
in Ecco i
distici del carme
Lusus in Venerem:
Pacem vultus habet,
facies exorat amorem
Membraque scytonia sunt
magis alba nive.
Cuncta dicent Divum,
ut sydus ocelli,
Et volitant circum
tempora amata comae.
citati dal Flamini,
Girolamo Ramusio, in
Atti e Memorie
d. R. Acc.
di Padova. Viaggiò
in oriente in
cui imparò la
lingua araba, fu
a Damasco nel
1484, morì a
36 anni il
5 giugno 1486^
mentre si recava
da Damasco a
Beiruth. Flamini, 1.
e. Anche il
Donato studiò a
Padova nel 1476,
conobbe Catta, amata
dal Ramusio, e
l'amore della fanciulla
per l'amico gì' ispirò
versi di rimpianto
per la immatura
morte, e in
essi cerca di
riprendere il Ramusio
pe' suoi carmi
lascivi. Assistendo alla laurea
dell'amico nel 1476
scrisse una saffica
per quell'occasione. Divenuto
personaggio influente nella Repubblica
di Venezia, protesse
letterati e umanisti.
2 10 rapporti epistolari,
era oriundo da
Rimini dove fu
caro a Pandolfo
Malatesta; venuto a
studiare a Padova quivi
nel 1476 si
laureò, come dice
in un carme
dal titolo: Dum
subirem artium laurearti
in collegio doctorum
Ramusius pauper. Nelle
sue poesie «
di un'oscenità da
disgradarne VHermaphroditus del
Panormita... e che
sono veramente nugae
da giovani spensierati
e scapestrati »
canta gli amori
per una bella
fanciulla di Narni,
di nome Catta,
morta in età
immatura, da cui
pare fosse corrisposto.
Al Pico indirizzò
due carmi, nel
primo dei quali
si duole di
non poter essere
sempre con lui,
a cagione delle
strettezze che lo
costringono a starsene a
lungo in casa;
nel secondo (ch'è
una saffica all'oraziana)
ne loda la
bellezza, la dottrina,
la liberalità .
Si deve attribuire
senza dubbio a
questo periodo, in cui
dovette influire non
poco sulla condotta del
Pico la convivenza
con studenti del
temperamento di un
Ramusio e di un Donato,
la composizione di
gran parte delle
poesie del nostro,
le quali non
dovevano essere diverse
Flamini, op. cit.,
19. Flamini, Delle
donne amate dal
Pico, due sono
celate sotto lo
pseudonimo di Marzia
e di Fillide
Peona o Pleona,
morta quest'ultima in
Padova nel 1481.
Cfr. DoREZ et
Th. op. cit.,
16 e Della
Torre, op. cit.,
758, n. 3. 11 dalle nugae
degli altri, se in seguito
il Pico le
diede alle fiamme.
Ma non tutti
gli amici del
Pico erano del
tipo suaccennato; ve
n'era fra gli
altri uno che
per la sua
anima candida e
mite, per la
sua profonda conoscenza
della filosofia aristotelica, doveva lasciare
traccie visibili sull'opera
del Pico, e
legarsi a lui
coi nodi della
più dolce amicizia. Eia
questi Ermolao Barbaro
che da alcuni
anni era titolare
di filosofia morale
in quell'Università dove
si era addottorato
a ventitré anni
nelle leggi civili
e canoniche .
Benché nei periodo in
cui il Pico studiava a
Padova, Ermolao stesse
per lo più
a Venezia, ove
copriva importanti cariche pubbliche
, pure, le
poche volte che
poterono vedersi, si
sentirono subito due
anime gemelle fatte
per intendersi e
per amarsi. Conoscitore profondo della
lingua greca, Ermolao
ri Nei Fasti
Gymnasii Patavini, Patavii,
1751, del FacciOLATi,
abbiamo Ermolao Barbaro
prof, di filos.
morale dal 1472;
Fr. Io. Battista
ex eremitis di
S. Agost. prof,
di logica nel
1480, 114; nello
stesso anno era
rettore degli artisti
Benedictus Ariminensis, 88-89.
Cfr. Colle, Storia
dell' Univ. di Padova,
1824. Apostolo Zeno,
Disseri. Vossiane, Venezia,
1753, t. II,
368. Causa la peste
a Venezia, ritornò
in Padova ove
si mise a
disposizione dei giovani
che lo pregarono
d'insegnar loro il
greco. In quell'anno
fu creato senatore.
Cfr. Colle, 12—
poneva ogni suo
intento a tradurre
Aristotile, le cui
dottrine solide e
profonde erano un
pascolo per la
sua mente costretta
sovente a ben
altre faccende. Bisogna
riconoscere che Padova,
la quale era
il centro del
movimento intellettuale del
Nord-est d'Italia e
per l'insegnamento filosofico
faceva tutt'uno con
l'ateneo bolognese ,
esercitò sul giovane mirandolano un
influsso le cui
traccie si scorgono qua
e là nelle
sue opere. Anzi
tutto ciò che
vi è di
scolastico e di
medioevale nelle Tesi
e in altri
lavori filosofici del
Pico, è dovuto
a questi anni di
studio nell'università patavina
che ha continuato
più a lungo
di qualunque altra
le abitudini del medioevo.
Era Padova la
rocca forte dell'Averroismo e uno dei
professori piìi ragguardevoli, non privo
di una certa
originalità, fu Nicoletti
Vernia che insegnò
a Padova dal
1471 al 1499.
L'insegnamento di questo
averroista, che sosteneva
senza restrizioni la
teoria dell'unità dell'intelletto, non dovette
svanire si tosto
che il Pico,
il Nel 1475
aprì nella sua
casa alla Giudecca
una scuola privata
di filosofia, e
aveva in animo
di tradurre tutto
Aristotile; peraltro tradusse
V Etica, la Rettorica,
la Dialettica e
inoltre scrisse una
parafrasi di Temistio.
Cfr. Renan,
Averroès et l'Averroisme,
Paris, 357-58; Burckhardt,
op. cit., 242-244;
Mandonnet, Sigerete Brabant,
2^ ed. 111-112, n.
1; Windelband, Storia
della Filos. trad. it.
Palermo II, 16-17;
Petrarca, Opera» 1581,
Basilea, II, 1093.
13 cui soggiorno a
Padova coincide con
gli anni scolastici 1480-1482, non
palesasse una certa
indulgenza per l'arabismo
da fargli vagheggiare
l'accordo oltre che
fra Platone e
Aristotile, fra Avicenna
e Averroè. Durante
i due anni
di studio a
Padova si recava sovente nella
natia Mirandola, la
cui quieta e
semplice vita paesana
gli tornava sommamente
gradita e dove
amava invitare amici
e maestri. Ma
in quegli anni
la pace del
castello avito doveva interrompersi agli
orrori della guerra
fratricida scoppiata fra veneziani
e ferraresi. Anche
il Duca di
Milano, i Bentivoglio
di Bologna, la
Repubblica di Genova
e qualche altro staterello,
erano stati attratti
nell'orbita del conflitto;
e i soldati
mercenari coi loro
cavalli e carriaggi taglieggiavano e
smungevano, durante le
loro scorrerie, i
pingui contadi della
pianura padana. La
piazza di Mirandola,
che era come
una tappa sulla
strada maestra, dovette
senza dubbio subire
tutti gl'inconvenienti che
derivavano ai piccoli comuni
incapaci d' imporsi alla
forza dei più
potenti, La visione
di una realtà
intrisa di sangue,
quale può essere
in periodo di
Per la guerra
tra Venezia e
Ferrara, vedi Marin
Sanudo, Commentari della
guerra di Ferrara,
Venezia, 1829, 7;
Muratori, XXIV, 257.
Du Mont, Corpus
Diplom., Ili, 2,
128. Cipolla, Storia
delle Signorie Italiane
dal 1313 al
1533, Vallardi, Milano,
1881, 603-640. 14 guerra, così
lontana da quella
che i suoi
studi umanistici rendevano
idealmente gentile, avrà
certo contribuito a
far abbandonare al
nostra ogni pensiero
di partecipazione alla
vita politica e
di scegliere tra
l'instabile carriera di
principe e la
missione di dotto,
questa che gli
apriva la via
a una meta
pili certa e
duratura. Già fino dai
primi anni aveva
sperimentato la precarietà
della vita principesca,
quando poco dopo
la morte del
Padre, avvenuta nel
1468, i suoi
fratelli vennero a
contesa per la
supremazia del loro staterello,
e di cui
si ebbe il
primo epilogo nel
1473, avendo Galeotto
fatto prigione il
fratello Anton Maria.
Questi, liberato dopo
due anni di,
carcere, si vide
spogliato dei beni
paterni e costretto
a cercar asilo
presso il Papa
e il duca di Calabria,
i quali con
grandi sforzi e
soltanto^ mediante l'intromissione di
Ercole, cognato di
Galeotto, riuscirono nel
1483 a farli
venire a un
accomodamento. Galeotto ebbe
il dominio della
Mirandola e del
territorio e il
conte Anton Maria fu
ammesso a condividere
il potere in
moda che i
due non dovessero
pregiudicare alle ragioni
della terza parte
dell'entrata di detta
terra che spettava
al loro fratello
Giovanni. Il nostro
Cfr. Memorie stor.
della ciità e
dell'antico ducato della
Mirandola, tomo unico,
Mirandola, 1874, IL 15 per essere
più libero di
attendere a' suoi
studi, declinò ogni
inframettenza nelle cose
che gli appartenevano, e incaricando
il fratello maggiore
dell'amministrazione di ogni
suo avere, partì
alla volta di
Pavia col suo
maestro di Greco,
Manuello Adramitteno, mentre
col compatriota di
questi, Elia del
Medigo di Candia,
con cui aveva
già cominciato a
studiare ebraico a
Padova, rimase in relazione
epistolare. Il suo
soggiorno a Pavia
dovette essere di
breve durata, perchè
alla fine del
1482, lo ritroviamo
ancora a Padova,
di dove indirizza,
il 22 dicembre,
una lettera al
Ficino, la cui
fama d'interprete e
volgarizzatore delle opere
platoniche e alessandrine
si diffondeva ovunque .
Il Cassuto basandosi
su alcuni passi
ebraici di Elia,
ritiene non risponda
al vero la
congettura avanzata dal
Della Torre (Storia
dell'Accademia Platonica di
Firenze, 1902, 752)
che il Pico,
partendo da Padova,
conducesse seco Elia.
Gli Ebrei a
Firenze nell'età del
Rinascimento, Firenze, 1918,
286. Proprio in
quell'anno (6 novembre
1482) usciva la
neologia Platonica del
Ficino e il
Pico nella sua
lettera lo prega
di inviargliene una
copia e di
assisterlo nei suoi
studi i quali
come erano stati
indirizzati al peripatetismo, voleva
d'ora innanzi integrarli
col platonismo. Vi è in
questa lettera del
Pico una frase
che fa sospettare che egli
abbia veduto il
Ficino tre anni
innanzi e cioè
nel 1479: «
Cum enim apud
te essem superioribus
an« nis adhortationes
tuae nec unquam
ardenter magis, quam
16 « ex
illa in hanc
usque diem me
totum literis addisci
* id., 373,
Ma dove aveva
egli veduto il
Ficino? Il Della
Torre nella sua
opera afferma a
Firenze, ma senza
portare nessuna prova di
questo soggiorno del
Pico nella città
dei Medici. Egli
stesso dice che
il 14 aprile
del 79 il
Pico scriveva da
Mirandola al Marchese
Gonzaga che si
recava a Ferrara
e il 29
maggio era in
tale città. Se
coi mezzi odierni
di trasporto il
fatto non avrebbe
oggi nulla d'inverosimile, non
altrettanto può dirsi
del tempo del
Pico. Comunque il
quesito resta ancora
insoluto. Pico dopo aver
fatto una nuova
visita a Pavia e
dopo avere soggiornato
alquanto a Carpi,
presso la sorella
Caterina e il
nipotino Alberto Pio,
del quale era
allora precettore l'amico
Aldo Manuzio, si
trasferì ai primi
del 1484 nella
città di Firenze.
L'Atene d'Italia si
trovava allora in
quel mirabile meriggio
in cui la
vita sociale era
fervida in tutte
le sue innumeri
attività e l'arte
splendeva in ogni
angolo della città,
in ogni manifestazione del
popolo. Lorenzo Magnifico aveva potuto,
col suo tatto
mirabile, rimettere in equilibrio
la bilancia dello
stato che aveva
Poliziano, Episi., lib.
VII, 7; Calori-Cesis,
Vita, ecc., Modena,
1866, 14-15; DoREZ
et Thuasne, Pie
de la Mirandole
en France, Paris,
10; Berti, Rivista
Contemporanea, t. XVI, 1859,
9; Della Torre,
L'Accademia Platonica, 747, n.
6. 18 momentaneamente tracollato
con la congiura
det Pazzi; mentre
i suoi cortigiani
e tali erano
il Ficino, Cristoforo
Landino, Giovanni Argiropulo cercavano di
attuare un analogo
equilibrio nel campo
del pensiero e
della religione, mediante
l'Accademia Platonica, e
il Poliziano teneva
alto il nome
dello Studio fiorentino
con le sue
affollate lezioni di letteratura
greca e latina.
Quando il Pico
arrivò a Firenze
non vi giunse
come straniero in
mezzo a gente
sconosciuta, ma come
un amico desiderato
dal Magnifico e
dal Poliziano, e
come il benvenuto
in mezzo a
persone che nulla piìi
desideravano che il
vedere aggiungersi alla
schiera dei ricchi
borghesi e letterati un
principe umanista che
veniva a fare
pìit bella la
corona dei Medici.
Tra i tanti
letterati che convenivano
nella casa medicea,
molti facevano parlare
di sé oltre
che per la
loro erudizione e
dottrina per le
produduzioni poetiche, filosofiche
e letterarie. In
Firenze il lavoro di
preparazione, ormai matura
degli umanisti italiani,
cominciava a fiorire
in creazioni originali.
Il Pico sentiva
la sua inferiorità, nonostante che
i suoi tentativi
poetici venissero lodati dagli
amici; s'avvide che
la stoffa di
umanista si era
ormai invecchiata e
conveniva ristorarsi a quelle
sorgive popolari cui
attingevano il Poliziano
e il Magnifico.
19 Fra quanti avvicinava,
nessuno gii pareva
brillasse di pili viva
luce del Poliziano,
e nessuno più
degno d'essere preso
a modello di
un « novizio e
quasi scolaretto», com'egli
si giudicava, E
c'è quasi dell'accoramento in
alcune frasi della
lettera critica alle
poesie del Magnifico
in cui, dovendo fare
da giudice di un poeta
« adolescente »
esclama: «So purtroppo
di non potere
far parte «
io pure di
questo albo (di
giovani poeti), nò
di « essere
così maturo da
arrogarmi il titolo
di «critico». La
lettura delle poesie
dell'amico lo aveva
entusiasmato; scorgeva in
esse i segni
dei tempi nuovi:
una certa «
vivida luce »,
una nativa freschezza
che sembrava scaturire
in suolo vergine- In
quelle poesie che
toccavano tutte le
corde della vita:
laudi mistiche e
religiose, canti satirici e
burleschi, canoni d'amore
e « carnesciali
»., Lorenzo Magnifico
gli si rivelava
grande poeta. Tali
poesie gli ricordavano
i due pii^i
grandi poeti della
letteratura italiana: Dante
e Petrarca. Aveva
del primo la
maestosa serenità del
verso « aspro
e stringato »
quale si addice
a poesia di
argomento filosofico, senza
però essere come
quegli «impolito e rude»;
del secondo la
«molle tenerezza *
propria della poesia
erotica con in
pili la maschia
robustezza (iorosus) dell'uomo
d'azione. Ciò che
spiace nel Petrarca
è il notare
qualche freddezza e
ridondanza nel verso
e una 20 certa
ostentazione nell'uso delle
parole che tradiscono il
lavoro di lima,
mentre in Lorenzo
ogni parola appare
al suo posto
«con naturalezza». Dante
vola sublime e
mesce con dignità
severa le cose
gravi dei filosofi
cogli scherzi degli
amanti, ma Lorenzo
nell'aver saputo cospargere
qua e là
versi ilari e
graziosi «sembra abbia
superato Dante». Tuttavia
se Lorenzo appare
più fine, Dante
resta più grande.
Questa lettera scritta
a Firenze nel
luglio del 1484
per l'acutezza di
alcuni giudizi, incontrò favore presso
molti amici e
fu uno dei primi passi
verso la capacità
critica del nostro autore
il quale, se
si è lasciato
prendere la mano
dal calore della
prima impressione e
dalla simpatia che
lo faceva indulgere
troppo verso Lorenzo
bisogna del resto
tenere presenti le
circostanze singolari in
cui nacquero queste
poesie di Lorenzo, le
feste pubbliche in
cui giovinetti e fanciulle
le cantavano, le
mascherate in cui
venivano recitate rivela
tuttavia un acume
penetrante e misurato.
La frase quo
mihi videris Dantem
exsuperasse, potrebbe sembrare
una Opera, 349-50.
Cfr. Carducci, Cavalleria
e Umanesimo, t. XX
delle opere, 1909, 258; ROSCOE,
The life of
Lor., ecc., London,
1800, voi. II;
Thuasne et Dorez,
op. cit., 15;
Geiger, Renaissance und
Humanismus in It.
und DeuL, Berlino,
1882. Vedi infine
il bello studio
di SCARANO, Le
selve d'amore in
Nuova Antologia, voi.
131, 1893, 49-66.
21 recisa dichiarazione circa
la superiorità dell'ingegno del Magnifico,
rispetto a quello
dell'Alighieri, mentre si riferisce
solamente all'espressione
formale in voga
a quei tempi
che tenevano in
gran pregio V hilaritatem
gratiamque in cui
Lorenzo era maestro. Naturalmente
il Pico non
poteva rassegnarsi a
rimanere semplice amatore
di poesia in
mezzo a tanti
dotti che avevano
pagato piiì o
meno il loro
tributo alle Muse;
voleva anch'egli dare
qualcosa di suo
per sottrarsi a
quel senso d'inferiorità
che gli era
reso tanto piiì
penoso quanto piii
sentiva in sé lo stimolo
della gloria e
il sentimento della
propria ca pacità. S'indusse
dunque a pubblicare
i suoi versi,
distribuendoli in cinque
libri, e inviò il
primo ad Angelo
Poliziano perchè lo
correggesse e criticasse. «
Voglia tu essere,
gli scriveva, giudice equo
non iniquo, cioè
severo, non indulgente
». E il
Poliziano gli rimandava
il manoscritto corretto di
alcuni versi difettosi,
con questo giudizio
che non è
privo di grazia
lusinghiera: «Ho corretto alcuni
versi non perchè
li disapprovassi, ma
perchè sembrano cedere
ad altri più belli».
Il Pico lusingato
sulle prime da
simile benevolenza dell'amico
per i suoi
componimenti poetici, dei quali
in un'altra lettera
aveva Opera, detto:
. Ecco la
Conclusione Si quis in • opere
prnecedentis conclusionls intellectualiter operabi •
tur, per mcridiem
li^^abit septentrionem, si
vero mun • dialiter
per totum operabitur,
iudicium sibi opcrabitur
». 107. Conci.
21, Opera, 107.
Conci. 11. 105-10^1.
(4) • Non
potest operari per
puram Cabalarli qui
non est «
rationaliter intellectualis >.
Id. 109. 112 mondo,
compose il suo
Heptaplus o settemplice
spiegazione dei sei
giorni della Genesi.
In quest'opera del
Pico, in cui
l'elemento lirico prevale talvolta
sulla serena spiegazione
cosmogonica, i tre mondi:
il divino, l'angelico,
e l'elementare, sono
legati da un'intima
armonia. « Haec
satis de tribus
mundis, in quibus
illud in «
primis magnopere abservandum
unde et nostra
« fere tota
pendet intentio esse
hos tres mundos
« mundum unum,
non solum propterea
quod ab «
uno principio et
ad eundem finem
omnes refe« rantur,
aut quoniam debitis
numeris temperati et
« harmonica quadam
naturae cognatione atque
or« dinaria graduum
serie colligentur ».
L'uomo, in questo
sistema, è il
compendio dell'universo, la
sua figura rappresenta
i tre mondi,
l'intellettuale, il celeste e
il corruttibile; è
quindi un piccolo mondo
. Ma l'armonia
non dev'essere solo
una legge dell'universo, un
dato della realtà
in tutte quante
le sue manifestazioni, essa
deve regnare anche
nel pensiero dell'uomo,
e ogni prodotto
dell' in Heptaplus. Prefatio,
id. 6. «
Nam si homo
est parvus mundus
utique mundus «
est magnus homo,
hinc sumpta occasione,
tres mun« dos,
inteliectualem, coelestem et
corruptibilem, per tres
« hominis partes,
aptissime figurai ».61. 113 tcllctto
deve seguire la
legge musicale. Come
nei mondo esteriore
all'armonia si contrappone
il disordine, cosi anche
nelle discipline intellettuali
prevale molte volte
la discordia, prodotta
dalle basse passioni.
È scopo nobilissimo
quello di cercare
l'armonia e di
far notare la
concordia anche nelle
teorie più disparate.
Questo scopo il
Pico se lo
prefigge nell'opuscolo De
Ente et Uno.
Era vecchia la
questione se Aristotile
si opponga a Filatone nella
determinazione dell'essere e dell'uno.
La scuola platonica
ammetteva la superiorità
dell'essere sull'uno (unum
esse superius), mentre
Platone nel Sofista
ne proclama l'identità
(!'. Com'è facile
comprendere, i primi
avevano preso l' ipotesi
per la tesi,
e attribuivano come pensiero
del maestro ciò
che non era
in fondo che
la loro erronea
interpretazione. Quando parliamo
dell'essere, intendiamo con
questo tutto ciò
che è al
di fuori del
nulla, e in
questo senso Aristotile
aveva detto che
l'um» è uguale
all'essere 2). «
tnim vero in
Sophistc in liane
scntcntiam po« tius
loijuitur esse unum
et ens aequalia
•. 243. «
Quomodo usus est
Aristoteles cum uniens
ae. quale fecit.
Nec dictionem absque
ratione sic usurpavit.
« nam
ut vere dicitur
sentire quidcm ut
pauci. loqui autein
ut plures debemus. Contro quei Platonici
moderni che presumonodi
avere dalla loro
Dionigi l'Areopagita, possa
affermare, soggiunge il
Pico, che Dionigi
è piuttosto della mia
opinione, e gli
avversari si trovano nel
dilemma di dover
dire che Dio
è e non è nello
stesso tempo. L'essere
in sé che
diciamo Dio, non
è l'essere che
noi intendiamo, vale
a dire l'essere
concreto^ ma quella
superentità, che è la pienezza
di ogni essere
e che non
procede altro che da sé
stesso . Noi
dobbiamo ritenere l'uno
superiore all'essere nel modo stesso
che si dà
a Dio l'attributo
dell'unità, principio di tutti
i numeri. Cosi
si spiega se
gli Accademici attribuiscono
a Platone l'affermazione che l'uno
è superiore all'essere;
senza dubbio intendevano
parlare dell'uno principio
di tutte le
cose, che è
Dio. Nel V
il Pico espone
i modi secondo
cui perveniamo alla
divinità, i quali
però sono sempre
inadeguati a farci
comprendere piena Sed
et Dionysius Areopagita
quem qui centra
« POS disputant
fautorem suae sententiae
faciunt non ne•
gabit vere a
Deo apud Mosen
dici Ego sum
qui sum ».244.
« Hac
igitur ratione vere
dicemus Deum non
esse « ens,
sed super ens,
et ente aliquid
esse superius ».245.
115 mente
Dio (I). Questi
modi sono qiiatii
i li f^ico
li chiama gradi
dell'ascensione dialettica a
Dio; essi corrispondono
alle qualtro forme
musicali che abbiamo analizzato.
La prima forma,
poiché si rivolge
ai sensi coi
suoni, ci fa
conoscere che Dio non
ò forma corporea,
come insegnano gli epicurei
e gli Stoici.
La seconda che
è l'ars numeranJi,
ci fa intuire
nell'essenza divina qualche cosa
che va al
di \h della
vita, deirintelligibilitc^, e
cioè la deità
che 6 in
sé. si raccoglie
e si unisce
non come uno
fra molti, ma
come uno innanzi
a molti (2.
Colla terza forma,
che il Pico
fa corrispondere alla
Magia naturale, c'imposessiamo delle
leggi stesse che
presiedono ai destini
umani e nell'ordine mirabile dell'universo
Dio ci appare
non solo come
la bellezza che
traluce in ogni
cosa, come il
vero che può
essere frammentariamente presente
nelle più differenti
dottrine, ma sopratutto come bontà,
poiché l'universo rivela
essenzialmente un valore etico.
La quarta forma,
che nella gradazione
pichiana e la
Cabala pura, ci
• Deus enim
nmnimoda et infinita
pcrfectlo est. ». 247. •
Deus ipse sua
unica pedectione. quae
est sua «
infìnitas. sua deitas.
quae ipsc
est, in se
unit et colligit.
« non sicut
unum ex illis
multìs, scd unum
ante illa multa
>.249. 116 mette
in rapporto diretto
con Dio, senza
peraltro farcelo ben
comprendere. Dio infatti
non è solo
ciò di cui
non può pensarsi
nulla di più
grande, come dice
S. Anselmo, ma
ciò che è
infinitamente pili grande
di tutto ciò
che può essere
pensato. In questo
quarto grado la
nostra mente è
come ottenebrata da
caligine, si da
poter appena intravvedere
l'essenza di Dio
elevantesi al di
sopra della stessa unità,
bontà e verità,
e innanzi a
cui conviene solo,
come dice David,
il silenzio: «
Tibi silentium laus».
Il silenzio! ecco
la musica, la sola
musica che convenga
a Dio. Al
filosofo musicale, è subentrato
il mistico, l'uomo
cioè che rinnega
ogni armonia, ogni
bellezza formale e si ritira in
quel mondo chimerico
in cui la
tenebra ha lo
stesso valore della
luce, il silenzio ha
uguale malìa del
suono . Gli
ultimi anni del
Pico sono caratterizzati da
una vita di
fervido misticismo unicamente
spesa per l'amore
di Dio e
il bene della
Chiesa. A Dio
egli dedicò lo
scritto In Orationem
dominicam ex oEx
quibus colligi illud
potest non solum
esse « Deum,
ut dicit Anselmus,
quo nihil maius
cogitari po« test,
sed id esse, quod
infinite maius est
omni eo quod
« potest excogitari
».250. « Ego
vero dico Chimaeram
quam mente conci«
pimus ».261. 117 positio; per
la Chiesa scrisse
l'opera poderosa: In
Astrologiam. Nella prima,
che è un'analisi
dell'orazione domenicale,
preceduta da un'enunciazione delle
teorie del Pico, l'elemento
musicale è intimamente
connesso a quel
desiderio il cui
obbietto è il
sommo bene. Diremmo
che quanto più
la preghiera è elevata
e disinteressata, tanto
più è pura
musicalità. Quando l'uomo
prega non per
chiedere favori o qualche
bene immediato, ma
per essere purificato
dai peccati, per
raggiungere la dolce
contemplazione dei beati
e conseguire la
purezza degli angeli
, allora egli
è in contatto
di quel profondo
io, che, come
si esprime il
Tagore rivela l'intima
natura dell'uomo « più che
« il bisogno
di sostentamento per
il suo corpo,
« più che
la sua avidità
di onori e
di ricchezze. «
E quella preghiera
non proviene solo
da lui, «essa
è nella profondità
di tutte le
cose, è l'in
• Scimus autem
illud esse sumnie
desiderandum « quod
est summum bonum
•. Opera, fol.
a 1. Et
monebimur ad petendum
hoc efficacissime su«
per omnia a
Dee ut praeservet
nos a peccato.
Nihil aut
« de rebus
huius mundi, aut
de gratiis gratis
datis vel «
desiderantes, vel a
Dee petentes. Diximus
igitur nihil «
ex his honis...
adiumento esse
sicut scientia et
dulcedo « contemplationem... ^fol.
a 2. 118 «cessante
stimolo in lui
deW Avih, dello spirito
« di eterna
manifestazione (5). Nell'opera
contro gli astrologi,
nel mentre il
Pico ribatte uno
per uno gli
argomenti degli avversari che
si erigevano a
paladini dell'astrologia,
prende occasione per
esporre le sue
idee sulla forma
e le leggi
degli astri, e per far
rilevare anche quella superióre
armonia in virtù
delia quale si
compone l'apparente disordine
del cielo stellato.
Intanto fa risaltare
subito che è
assolutamente arbitraria la configurazione dello
Zodiaco, come fantastiche
e ridicole sono
le rappresentazioni animali di
cui gli astrologi
popolano il cielo
(6). Bisogna premettere
che l'opera del
Mirandolano rispondeva a
un bisogno del
tempo in cui
era tutto un
rifiorire di pregiudizi
astrologici, magici e negromantici. Il
Pico che in
questo tempo (1492)
frequentava il Monastero
di S. Marco,
in cui convenivano (5)
Tagore, Sadhana, reale
concezione della vita,
tradCarelli, Carabba, Lanciano,
46-47. Cfr. Semprini,
La preghiera nell'
Imitazione di Cristo
e suoi rapporti
col misticismo, in Rivista
di Psicologia an.
1919. (6) «
Quod nos in
universum primo declarabimus,
tum « singillatim,
quascunque aliquis Astrologorum
signavit co« niunctiones
magnas, retulitque ad
eventa rerum admi«
rabilium, et falsas
et falso supputatas
et ad effectus
falso « relatas,
luce clarius ostendemus lanti ammiratori
del Savonarola, dovette
sentirsi stimolato dal
frate ad impugnare
quell'arma potente contro la
pretesa degli astrologi,
che consisteva nel far
dipendere i miracoli
dal potere diretto
di Dio e
quindi dalla sua
grazia, non già
dall'influsso degli astri.
Era ben vero
che egli andava
con questo un pò contro
le convinzioni care de' suoi
amici, contro il
fervore delle idee
astrologiche del suo
tempo e in
parte contro certe
convinzioni sue precedentemente manifestate.
Ma appunto in
questa serie di
contrasti, la natura sua
battagliera trovava stimolo
ad agire e
a incanalare le
aspirazioni del suo
cuore dietro le
orme del Savonarola.
Era propria dei
popoli primitivi la
concezione che il
mondo fosse un
vasto organismo le cui parti
sarebbero unite da uno scambio
incessante di molecole
e di effluvi.
Gli astri, generatori
di energia, agiscono
costantemente sulla terra e
sull'uomo, e l'uomo
ha il suo destino segnato
in una delle
tremolanti stelle che
vibra nella sua
corsa pei cieli
insondabili in armonia con
quell'essere umano. Tale
concezione sopravvisse nel
mondo greco, s'impose agli
scrittori latini, ricomparve
arricchita di una
vasta letteratura nel
medioevo e nel
Rinascimento. Al tempo in cui il
Pico scrisse la
sua polemica il
tema astrologico trovava
dei cultori 120 appasionati e
già Ambrogio Traversari,
Paolo del Pozzo
Toscanelli e Matteo
Palmieri avevano preparato,
colle loro discussioni
nel convento degli Angeli
in Firenze, la
materia per i
difensori e gli oppositori
dell'astrologia. Era pur
sempre in questi
lontani e talvolta
semplicisti precursori della
Astronomia moderna, l'aspirazione
a poter misurare
il corso dei
pianeti, ridurre in numeri^
in intervalli di
tempo la danza
delle infinite stelle
i cui movimenti
complessi producono «
l'armonia delle sfere
» . Ma
il Pico, sebbene
avesse avuto un
concetto così grande
della potenza dei
numeri e avesse
propugnato la sua
ars numera/idi, quando
vide con quale
leggerezza fossero numerate
le plaghe del
cielo (universas coeli
partes) e con
quale baldanza venissero
attribuite ad esse
le diverse qualità della
natura umana (diversas
in rebus naturalibus proprietates), reagì
con la voce
del buon senso.
È impossibile trovare
un'affinità matematicamente
determinabile fra le
figure del cielo
e le affezioni
umane, com'è anche
assurdo voler determinare
dai segni, dalle
case e dalle
con Soldati, La
Poesia Astrologica del
Quattrocento, Firenze,
Sansoni, 1906, 199-220.
« Erraticae stellae
per zodiacum aequo
cursu non «
deferuntur, hoc est
non acquali temporis
intervallo... qui «
igitur metiri illorum
motus et dirigere
in numeros volu«erunt
».561. 121 giunzioni
degli astri, il
sesso, le qualità
fisiche e morali
degli individui. Anzi
il Pico sembra
andar contro persino alla
sua favorita idea
dell'armonia che gli faceva
vedere rapporti musicali
non solo negli
oggetti tra loro
ma anche fra
la natura e
l'uomo. Egli crede
che si voglia
correre troppo quando
si applicano questi
rapporti musicali agli astri,
poiché la loro
infinita distanza rende
impossibile qualsiasi esatta
determinazione. Vi sono
dei moderni, egli
dice, che vorrebbero
trovare delle dissonanze
e delle armonie
negli astri; come
i musici le
trovano fra le
diverse voci del
suono. Troverebbero delle
assonanze, come tra la terza
e la quinta,
o dissonanze fra
la quarta e la settima,
anche tra i
triangoli stellati della
quinta e i
quadrati della quarta.
Ma è un
volere, soggiunge il
Pico, prendere per
realtà ciò che
non può essere
che similitudine. Non
vi sono spazi
celesti muti, altri
dissonanti, altri armonici, perchè il
cielo non emette
voce alcuna .
« Excogitata postremo
neotericis quibusdam de
« musicis consonantiis
alia ratio, ex
qua radios planeta«
rum tum concinnere
invicem, tum dissonare
harmonia« rum quadam
similitudine tradunt. Est
enim, inquiunt, apud
« musicos comprobatum
ratione et experientia
tertiam vo« cem
et quintam primae
consonare, quartam vero
et sep« timam
nequaquam ».596. «
Nos vero ut
omittamus istas in
tam diversis re«
rum generibus similitudines, efficaciam,
rationem decla 122 Vi è
sì l'armonia anche
nell'universo stellato, la
legge musicale vige
anche in mezzo
alle erranti comete
e all'immobile fascia
lucente della via
Lattea. Ma questa
musicalità è avvertibile
da ben altri
orecchi che non
siano questi sensibili,
essa appartiene a quel grado
di cui la
musica dei suoni
è la forma
più grossolana e,
per essere gustata, richiede
un processo laborioso
della mente umana,
un'elevazione spirituale che
non a tutti
è dato raggiungere.
Nondimeno tale elevazione fu
raggiunta e quei
pochi tra i
mortali che hanno
potuto gustare il
concento della sinfonia
universale, si sono
sforzati di tradurre
le impressioni in quelle
forme del nostro
linguaggio che obbediscono
più visibilmente alle
leggi della musica. Nell'opera del
Mirandolano contro gli
astrologi si trova spesso
citato il salmo
XVlll in cui
il profeta Davide
fa risaltare la
grandezza di Dio,
richiamandosi all'armonia del
firmamento. . E
invero pochi brani
delle varie letterature
possono rivaleggiare con questo
salmo che sintetizza
e rende quasi,
con sublime laconicità,
il linguaggio' degli astri.
« Coeli enarrant
gloriam Dei, et
« opera manuum
eius annuntiat firmamentum. «
rabimus non habere
atque computationem et
similitudi« nem non
procedere... sed (coelum)
nuUam vocem emit«
tit ». Opera,
597. 123 «
Non sunt loquelae,
neque sermones, quorum
« non audiantur
voces eorum. «
In omnem terram
exivit sonus eorum
: et in
« fines orbis
terrae verba eorum».
Il suono della
musica stellare è
cosi diffuso e
riempie di sé
ogni punto della
terra, che non
c'è creatura che
non goda di
una tale armonia
e non esulti
alla vista del
re degli astri
che • spunta
fuori qual gigante
per correre il
suo cammino». La
musica degli astri ha
la sua scala
e le note,
di cui questa
si compone, risuonano
in modo diverso
nel cuore umano.
L'uomo, se è
proclive ai beni
frivoli della vita,
non trova negli
astri un'armonia diversa
da quella che
ci descrissero gli
astrologi. Se intende l'armonia degli
astri da un
punto di vista
naturalistico, considera il
cielo alla stregua
di tutte le
cose create soggette
a trasformazione. Le
stelle percorrendo le
loro orbite sono
illuminate da altri astri
a volte compagni
inseparabili, a volte sconosciuti
che incontrano forse
una volta sola
per non più
rivedere nel periodo
lunghissimo della loro esistenza,
durante la quale
mostrano la giovinezza
nelle iridescenze del
verde aranciato, la
pienezza matura nella
chiarità bril «In
sole posuit tabernaculum
suum: et ipse
tamquam sponsus procedens
de thalamo suo:
Exultavit ut gigas
ad currcndam viam
•. Ps. XViiI,
5. 124 lante, l'agonia
nel tremulo guizzo
di porpora. Ma
se invece l'uomo
cerca nel cielo
un simbolo, nelle
leggi che regolano
il corso delle
sfere un termine
di confronto per
le leggi eterne
che sgorgana dal
profondo del suo
io, allora egli
non può non
proiettare in questi
mondi, così lontani
dalla propria esperienza, la trama delle
sue piij squisite
elucubrazioni. S. Agostino
ci ha descritto
in alcune pagine
delle sue Confessioni
il momento in
cui egli con
la madre Monica,
ragionando della felicità
eterna di fronte
al mare di
Ostia, fu compreso
da quelle squisite
risonanze che sembravano
provenire dall'alto. « Peragravimus
gradis cuncta corporalia
et « ipsum
coelum unde sol
et luna et
stellae lucent «
super terram ». Dinanzi
a quella musica
tutto quanto sapesse
di suono era
uno strepito^ anche
il timbro della
voce più cara
parlante di cose
spirituali: «Et dum loquimur
et inhiamus illi,
at« tingimus eam
modice toto ictu
cordis et suspi«
ravimus et relinquimus
ibi religatas primitias
« spiritus et
remeavimus ad strepitum
oris no« stri,
ubi verbum et
incipitur et finitur
» . Tutto
doveva finire e
scomparire dinanzi a
ciò che era
la vera realtà,
la musica celeste.
« Si
cui AUG. Conf.
lib. IX, cap.
X.125 « sileat tumultum
carnis; sileant phantasiae
ter« rae et
acquarum et aeris,
sileant poli et
ipsi * sibi
anima sileat et
transeat se non
se cogi« tando.
Sileant sommia et
imaginariae revelatio« nes,
omnis lingua et
omne signum,et quidquid
*transeundo fit, si cui sileat
omnino ». Ecco espresso
con linguaggio umano
ciò che rappresenta la musica
pura, il misticismo.
11 silenzio profondo,
ottenuto con l'astrazione
da ogni flusso
del tempo, da
ogni ritmo che
accompagna le cose
viventi, da ogni
procedimento verbale che
esprime il pensiero,
è indispensabile per
metterci in contatto con
V Armonia, che, come
ben la definì
il Pico, è
quella legge suprema
in cui si
compone ogni discordia,
si rappacifica ogni
contesa, si unifica
ogni cosa dispersa.
Tale è la
dottrina occulta del
Pico, dottrina che,
pur avendo nel
suo autore diverse
denominazioni : ars numerandi,
ars combinandi, alfabetaria
revolutio, si riduce
a un concetto
sempre chiaro nello
spirito dell' autore: musicalità
o armonia. Ciò
che ci riempe
di ammirazione per
il Pico è
il vedere come
abbia saputo valorizzare
tutto ciò che
nel mondo e
nella vita vi
è di occulto
€ di misterioso, come
protendesse sempre lo
{!> AuG., Con/.,
lib. IX, cap.
X. 126 sguardo suo
curioso al di là della
natura fenomenica e cogliesse
da ogni dottrina,
da ogni scuola,
da ogni manifestazione del
pensiero anche meno
evoluto, anche più
avvolto nelle favole
e nei miti,
quegli sprazzi di
luce sulle arcane
verità che accendevano ognora
la sua fervida
immaginazione. Ed è bello
vedere questo giovane
dovizioso e fervente
compreso della verità
di questa dottrina occulta
che, pur essendo
implicita nelle più
antiche filosofie, dalla
Pitagorica alla Platonica,
dall'Egiziana (Ermete Trimegisto)
alla Cabalistica, non
ha mai trovato
alcun assertore della
sua importanza metodologica,
di scienza, cioè,
atta a farci
penetrare nel sacrario
delle segrete discipline. È
bello pure vederlo
sostenere la bontà
della sua dottrina
contro gli oppositori
e i giudici
del santo uffizio.
Egli si sforza,
è vero, di
trovare qualche scappatoia per sfuggire
alla condanna e
si rifugia nella
casistica della scolastica,
quando distingue una
Cabala vera (tradita)
da una falsa,
una Magia naturale, da
una illegittima; ma,
pur attraverso i suoi
distinguo, egli afferma
solennemente la lealtà
delle proprie intenzioni,
la sua sincera
dedizione alla verità. Convinto
che la sua
dottrina esigesse da
parte degli esaminatori
una competenza in materia
occulta, cioè una
vera e propria
iniziazione, egli prega
gli amici e
i nemici, i
buoni 127 e i
cattivi, i dotti
e gl'ignoranti che
vogliano leggere i suoi
scritti, con quella
purità d'intenzioni da
cui era stato
mosso nel redigere
le Tesi. E
poiché molte cose
da lui dette
potrebbero trarre in
errore coloro che
non hanno pratica
di scienze occulte,
spera che ciò
che è stato
scritto per gì'
iniziati non venga
esposto pubblicamente a
tutti, perchè sarebbe
come dare le
perle ai porci
e peggiorare la
sua causa. Nel
corso della narrazione
vedremo come venissero ascoltate queste
parole, e come
rimanesse il nostro
fedele alla sua
dottrina esoterica .
(Il «Oro igitur,
obsecro et obtestor
amicos et inimi«
cos, pios et
impios, doctos et
indoctos... non explicitas
« non legant,
quando Inter doctos
eas proposuimus di«
sputandas, non passim
legendas omnibus pubblicavimus
». Opera, 237.
Parte di ciò
che formava il
contenuto di questo
doveva essere pubblicato
nella collana Ritmo
f ndata da
Diego Ruiz, alle
cui idee originali
sul concetto di
musica, benché contrastanti
con le mie,
devo rendere qui
omaggio. VII La
pri:xioiiia del Pico
in Francia. 8cc(MmIo
soggiorni» a Firenze
Il Pico clic
riguardava la città
di Parigi come
un luogo in
cui sarebbe più
facile ottenere quel
successo che a
Roma non aveva
potuto conseguire,
s'incamminò sulla fine
del 1487 alla
volta di Francia.
Innocenzo Vili, non
contento degli ordini
impartiti alle autorità
religiose perchè denunciassero o impedissero
ogni tentativo del
Pico per divulgare
le sue Tesi
e la sua
Apologia, si rivolse
anche all'autorità secolare,
come fece con
un breve indirizzato
ai sovrani di
Spagna, fi) Bolctin
de la Rcal
Accademia de la
tìisioria, Madrid, Pico
de la Mirandula
y la inquisición
cspanola. Breve inedito
di Innocenzo Vili,
cfr. DoREZ et
Th, op. cit.,
71, n. 1. 130 perchè
si procedesse all'arresto
del Conte recidivo.
Nel Gennaio dell'anno
seguente mentre il
Pico attraversava il
Delfinato, veniva a
conoscenza del breve
del 5 agosto
« essendo io
nel cammino di
Pranza», e fatto
arrestare dal Signore
di Eresse, zio
del re di
Francia e governatore
del Delfinato. L'ordine
di questo arresto
si spiega subito:
avendo il papa
inviato in Francia
ai primi di
Gennaio due nunci
di valore Leonello
Chieregato , vescovo di
Traìi e il
protonotario Antonio Flores,
per trattarvi affari
di grande importanza,
come il processo
dei vescovi che si erano
dichiarati contro la
reggente, e il
ritorno alla Prammatica
Sanzione, incaricò pure
costoro di far
ottenere l'arresto del
Mirandolano. Ed essi
con una tenacia «degna di
cagnotti polizieschi »,
riuscirono, malgrado che
in favore del
Conte intercedesse presso
il re l'ambasciatore del
duca di Milano,
a farlo trattenere
in carcere. La
rocca di Vincennes
nella quale venne
rinchiuso il giovane
conte, dovette ispirargli ben
tristi riflessioni sul
proprio avvenire con
la prospettiva di
una lunga prigionia. Forse allora
piia che mai
avrà sentita a
sé (1,1 BERTI,
/. e. doc.
I, 52. Simeone
Ljubic, Dispacci di
Luca de Tolentis
e di Lionello
Chieregato, Zagabria, 1870,
9-11.Cfr. DoREZ. et
Th. op. cit.,
72, n. 2. 131
vicina l'ombra del
grande Origene, le
esperienze della cui
vita egli ripeteva
con non poca
somiglianza! Ma se il
Pico aveva dei
nemici che tentavano ogni mezzo
per perderlo, contava
altresì amici che
sinceramente lo amavano,
e che non
l'abbandonarono nella sventura.
La figura del
Magnifico assume, durante
questa drammatica vicenda, un
aspetto del tutto
nuovo e simpatico,
forse perchè ci
è meno noto,
e tanto meglio
riconosciamo l'umanità del suo
cuore, in quanto
sta a lui
di fronte l'anima
intransigente di Giambattista Cybo, che
portò sulla Cattedra
di San Pietro
i difetti della
sua scarsa intelligenzaLa lettera
che scrisse in
questo tempo (19
gennaio) Lorenzo al
Lanfredini, il quale
non appare molto
ben disposto verso
il Pico, è
una bella testimo
(Ij Fu la
sua bolla contro
la stregoneria (1482)
che elevò, per
dirla col Symonds,
a metodo la
persecuzione contro disgraziate
vecchie e idiote.
Lo Sprenger nel
Malleus maleficarum nota
che, nel primo
anno dopo che
quella fu pubblicata,
41 streghe furono
bruciate nel distretto
di Como. Intorno
alle persecuzioni contro
le streghe nella
Valtellina, vedi Cantù,
Storia della Diocesi
di Como, e
Folengo nella sua
Maccheronea. Non bisogna
però disconoscere il
debito che deve
a Innocenzo Vili
l'Università di Roma
«sotto il quale
co« minciò a
respirare, e a
riprendere in gran
parte il vigore
« e il
lustro primiero ».
RoviNAZZi, Storia dell'
Università degli studi
di Roma, Roma,
1803, 196-197. 132 nianza
dell' affetto che
Lorenzo nutriva per
il giovane Mirandolano. Essa
dice che le
molte persecuzioni che in
Roma si tramano
contro il Pico,
potrebbero menarlo per
disperazione a «
qualche via cattiva»;
che è piiì
facile riuscire nell'intento
con le maniere
dolci che con
bolle e scomuniche,
che avendo fatto
esaminare l'Apologia a
persone religiose e
dotte e intelligenti,
le quali non
trovarono nulla contro la fede, non
può comprendere perchè
si voglia essere
così intransigenti, massime
quando chi ha
scritto tali cose
è un «
giovane doctissimo et
fresco su la
doctrina». Meno nota
ancora è la
parte che ebbe
in favore del
Pico Chiara Gonzaga,
sorella del Marchese
Francesco di Mantova, la
quale, andata sposa
nel 1481 a
Gilbert di Montpensier
della Casa Borbonica,
cooperò con insistenza
presso il consorte,
così che questi
« motus praecibus
et commendationibus «
quae ex Italia
mittebantur » ,
ottenne che il re Carlo
Vili, che non
nascondeva le sue
simpatie verso l'illustre
erudito, menasse le
cose per le
(Ij Berti, 1.
e, 32. (2i
« Numerose lettere
gli arrivavano ugualmente
dal« r Italia,
in cui contava
molti amici, tanto
alla Corte di
« Milano che
a quella di
Roma, i quali
lo pregavano di
« usare tutta
la sua influenza
sul re in
favore della causa
« del Mir.
» Dorez et
th,. op. cit.,
97. V. anche
nella stessa opera
appena, doc. V,
4, 133 lunghe. I
nunci, frattanto, la cui opera
svolta in rigida
conformità ai brevi
pontifici, è ampiamente
trattata col sussidio
di preziosi documenti
dal Dorez e
dal Thuasne nell'opera
piìi volte citata,
dovendo lasciare Parigi
per accompagnare la
Corte « pour
l'expédition des autre
affaires dont ils
étaient chargés »,
incaricarono il vescovo
di Grenoble, Laurent
Allemand, di volerli
sostituire. Ma ormai
era troppo tardi:
il Pico, dopo
una prigionia di
circa un mese,
venne posto in
libertà, e potè
passare il confine. Corse
allora la voce
ch'egli si fosse
recato in Germania,
avendo più volte
espresso il desiderio
di visitare la
biblioteca del Cardinale
di Cusa e
di fare acquisto
di libri. Si
disse pure che
fosse stato invitato
dal re di
Castiglia, Ferdinando, che
si era mostrato
desideroso di riceverlo onorevolmente
nel suo regno .
il vero si
è che il
Pico ripassò le
Alpi e giunse
all'ospitale Torino. Mentre
attendeva a riordinare
in questa città
le sue cose,
libri e ba ll
i DOREZ
et Th. op.
cit., 92. Qual'era
il movente di
questo re, si
domanda il Dorez,
la cui slealtà
e perfidia sono i suoi
caratteri salienti, ad invitare
nel suo regno
il Pico? Forse
per impadronirsi della sua
persona e consegnarlo
al Santo Uffizio
per ingraziarzi Roma?
l'ipotesi non è
inverosimile. Op. cit.,
99-100. 134 gagli, che
durante la cattura
erano stati manomessi, e
a scrivere in
tal senso a
Filippo di Bresse
e ad altri
personaggi, di cui
ora non aveva
piiì nulla a
temere 0); ricevette
una lettera dal
Ficino (30 maggio)
che gli offriva
1' amichevole protezione
del Magnifico e lo invitava
a Firenze. Intanto
nell'animo dei nunci si
era prodotto un
cambiamento singolare, come
lo dimostrano le
parole con le
quali terminano uno
dei loro rapporti
al papa: «
Existimamus qiiod bonum
esset si Sanctitas
Vestra « eius
conversioni et ad
gremium suum reductioni
« operam darei
» . Tuttavia
l'animo del pontefice
era lungi dall'essere
placato e disposto
a rimetterlo nella sua
buona grazia; forse
gli suonava sgradita la
frase con cui il Pico
lo aveva qualificato
nell'Apologia: cui ab
innocentia vitae nomen
meritissimum. Si sa
infatti che Giovan
Battista Cybo, prima
di abbracciare lo
stato ecclesiastico, visse
nella depravata Corte
aragonese, conducendo una
vita punto migliore
dagli altri, ed
ebbe due figli
naturali : Teodorina
e Franceschetto. Sebbene,
come osserva il
Pastor, non si
abbiano testimonianze sulla
sua condotta morale,
allorché entrò nello
stato sacerdotale, pure
quando fu divenuto
papa, Op. cit,
100-101. Docum. V,
6, cit. dal
DoREZ et Th.,
op. cit, 162
€ anche 101.
135 -correvano voci sopra
altri figli, ed
è notorio un
epigramma del poeta
Marnilo che taluno
prese alla lettera:
. Octo nocens
piieros genuit, totidenque
puellas; Hunc merito
potuit dicere Roma
patrem •. Del
resto è con
questo papa che
si accentua quell'infausta politica
che produrrà la
piaga del nepotismo
da cui tanti
guai derivano all' Italia.
Innocenzo Vili pone
sulla scena politica
il suo figlio
Franceschetto, giovane più
che mai dissoluto, il
quale « commetteva
disordini tali, che in «un
figlio del papa
doppiamente sconvenivano »,
a cui diede
in isposa Maddalena
de' Medici, stringendo
così parentela con
Lorenzo il Magnifico (l). Questi
perorò insistentemente la
causa del Mirandolano
presso il papa,
il quale da
uomo debole ed
arrendevole com'era, si
lasciava con dì Pastor,
1. e, 197.
Se Sisto s'era
arricchito colla vendita
di ogni sorta
di grazie e
di dignità, Innocenzo
e suo figlio
eressero addirittura una banca
di grazie temporali,
nella quale dietro
il pagamento di
tasse alquanto elevate,
poteva ottenersi l'impunità
per qualsiasi assassinio
o delitto: di ogni ammenda 150
ducati ricadevano alla
Camera papale, il
di più a
Franceschetto... Per Franceschetto
la questione principale era di
sapere come avrebbe
potuto piantare tutti
con quanti tesori
poteva, nel caso
che il papa
venisse a morire.
Burckhardt, op. cit.,
126. 136 vincere dai
malevoli per intentare
qualche cosa di
serio al Pico.
Ad irritarlo maggiormente
contribuirono alcuni
famigliari del Mirandolano,
i quali, avendo
« troppo temerariamente e
super« bamente parlato
contro il papa
» erano stati
messi in carcere,
recando così pregiudizio
alla causa stessa
del loro Signore.
Questo incidente impensierì
non poco il
Pico, cui premeva
che le dicerie
esagerate a suo
riguardo non finissero
per alienargli la
simpatia di Lorenzo,
e in questo
senso chiedeva informazioni
al Salviati, fornendogli
le prove della
sua incolpabilità in
tale faccenda. A
questa lettera rispose
il Ficino rassicurandolo della
costante benevolenza di
Lorenzo il quale
soggiungeva « il tutto
volentieri udì e
per ciò po«
temmo considerare che
nell'animo suo non
era « odio
alcuno verso di
voi, ma tutto
amore » .
Che così fosse lo vediamo
in un'altra lettera
del Ficino (30
maggio 1488) in
cui narra che
Lorenzo, pur nel
dolore per la
morte di una
sua figliuola, trova
modo di pensare
al Pico, la
cui sorte travagliata gli pare
simile alla sua, quasi
che un (1
« É ti
fa l'effetto di un uomo
il quale si
lascia consigliare da altri
più anzi che da sé
stesso », scrive
l'ambasciatore fiorentino il 29
Agosto 1484. 2'
Come attesta una
lettera del Ficino,
lib. Vili, trad.
Figliucci senese, Venezia,
1548, t. II,
114. 137 fato
gravi sulla vita
dei principi e
degli uomini grandi,
il medesimo, dopo
aver accennato da
«quanti pericoli sia
questo giovane minacciato»,
rivolgendosi al Ficino
dice: «E voi
avete mai di
questa cosa qualche
più ascosa causa
ritrovato ? » Al che
il Ficino risponde,
conforme alle sue
teorie, che la
causa risiede nelle
essenze che presiedono,
come ai vari
ordini di uomini,
alle congiunzioni dei
pianeti; per cui
essendo tanto Lorenzo
che il Pico
nati sotto la
«copula di Saturno»,
i demoni di questo
sono ostacolati da
quelli di Marte.
Tuttavia siccome Saturno
è superiore a
Marte, così i demoni che
presiedono alla loro
sorte, avranno il
sopravvento su quelli
avversari (1 ).
Questa lettera illustra l'indole
mistica e superstiziosa
del Ficino, il
quale dilettavasi di
predire il futuro agli
amici, e a
proposito del Pico
soleva dire che
era nato l'anno
in cui egli
aveva posto mano
alla traduzione di
Platone, ed era
venuto a Firenze
il giorno e
l'ora stessi della
publicazione. Il Pico
da parte sua
si tenne sempre
esente da queste
aberrazioni, grazie a
quell'amabile ironia insita
nella sua natura.
Ecco com'egli scherza
sul significato del
pianeta Saturno e
sulla fede che
l'amico dimostra nell'influsso
delle stelle. «
Forse, 1» lib.
Vili, 119-120. 10
138 « dice, Saturno
non è cosi
propizio come voi
as« serite, perchè
il suo moto
retrogado comunica «
la stessa direzione
ai vostri passi
ogni volta «che
v'incamminate per venire
da me, perchè
«per ben due
volte siete tornato
indietro*. Ritornando a
Lorenzo, questi non
si lasciava sfuggire
nessun'occasione per rendersi
utile al Conte.
Essendo di passaggio
per Firenze Anton
Maria, fratello del
nostro Giovanni, che si recava
a Roma, Lorenzo
lo incarica di
« operare gagliar«
damente per indurre
il Pontefice a
far venire a
« Roma il
conte Giovanni. A
me piacerebbe que«
sta venuta perchè
forse (Giovanni) purgherebbe
« questa sua
calunnia et contumacia,
et sua San«
tità lo raccoglierebbe in
grazia » .
Veramente nessuno sembrava
più indicato a
perorare presso il
Papa la causa
di Giovan Pico
del fratello Anton Maria,
il quale godeva
la benevolenza di
Innocenzo Vili, ed era
dal medesimo protetto
in ogni contesa
che, a causa
della signoria della
Mirandola, aveva col
fratello maggiore Galeotto.
Ma non pare
che quegli si
desse molto d'attorno
per Giovanni, e
il Papa era
pieno di un
si osti li) Epist.
libr. Vili, 120.
Dal carteggio mediceo,
riportato dal Berti
nel suo studio
1. e, 35.
139 nato rancore, che
nulla valeva a
migliorare la situazione
del Mirandolano. Tuttavia
le insistenze del
Magnifico riuscirono alfine
a smuovere l'animo
di Innocenzo Vili,
che accondiscese a
permettere al Pico
di venire a
Roma a discolparsi
dinanzi a testimoni,
riservandosi di dargli quella
penitenza che avrebbe
creduta necessaria all'uopo. Il Mirandolano, cui
era pervenuta una
lettera di Lorenzo
che si dimostrava contento dell'esito
promettente delle sue
premure, non sentendosi
ancora disposto a
fare il gran
passo, credette più
opportuno di fermarsi
a Firenze (giugno
1488). Quivi, nella
città che aveva
dato il primo
spunto alla sua
gloria, vicino agli
amici che teneramente
10 amavano, si
senti rinascere alla
gioia dello studio,
una gioia però
velata da un'intima
tristezza che gli derivava
dal suo sogno
svanito. 11 dissidio
interiore che qualche
anno addietro aveva
provato nella città
fiorentina, si era
approfondito in un doloroso
travaglio, che non
toccava solo come
allora una parte
della sua attività,
oscillante da una
forma di espressione
a un'altra, ma
investiva tutto il
suo essere, sì
« Laurentius..., scrive
il Ficino, praestantissimus, et
« metuetur et
Picum ad Florentem
revocat urbem ».
Opera. da portarlo, attraverso
a una crisi
spirituale, sulla via
del misticismo. Pur
in mezzo agli
amici e alle
persone dotte di
Firenze che ambivano
la sua compagnia,
si sentiva inquieto
come se qualcosa indefinibile ma
necessaria gli mancasse;
la parola «eretico»,
ronzando insistente all'orecchio
anche tra i
conviti e le
adunanze allegre, gli
dava un senso
d'isolamento che lo
rendeva malinconico. Gli amici,
che notarono, senza
forse comprenderne i
moventi, l'avvenuto cambiamento,
s'affrettavano a darne
notizia agli altri
lontani, in vario
modo. « Il
signor Giovanni Pico
scrive « il
Ficino ad Ermolao
Barbaro che ora
in Fio« renza
alla filosofia attende,
assai vi si
racco« manda ».
E Lorenzo che
ha sempre per
il suo Pico
parole di tenerezza,
scrive: «Il conte
« della Mirandola
si è fermato
qui con noi,
dove « vive
molto santamente, ed
è come un
religioso, « ed
ha fatto e
fa continuamente degnissime
opere «in teologia;
commenta i salmi;
dice l'officio or
Knte et Uno».
Appena il Pico
ebbe terminato il
suo Ettaplo l'inviò
per primo a
Lorenzo al quale
l'aveva dedicato, e il
A\aj:;nifico si affrettò
a passarlo a
Roberto Salviati, perchè lo
facesse esaminare dai
dottori, e poscia
pensasse alla pubblicazione. Il
Salviati risponde che
l'opera del Pico,
«primizia de' suoi
studi', gli fece
nascere un sincero
affetto per il giovane, ben
degno dell'amore di Lorenzo;
perciò, essendo stata
giudicata eccellentissima,
sarà suo dovere
di curarne l'edizione con la massima
diligenza perchè riesca
utile agli studiosi.
E infatti, tosto
che V Ettaplo
fu terminato di
pubblicare, venne dal
Salviati distribuito a tutti
i letterati di
Firenze e inviato
agli amici delle
varie città d' Italia.
Quest'opera armonicamente
concepita, scritta in
un latino 150 piano e
scorrevole, non privo di
colorito nei passi
più salienti; con
la fusione ben
riuscita delle varie
teorie che s'imperniano
tutte intorno a
un'idea centrale: la
identità di pensiero
che riusciva a
svelare nei misteri
di Mosè col
pensiero di tutti
gli altri filosofi
che hanno fatto
uso del velame
arcano; infine con un'intuizione
semplice e grandiosa
del cosmo, che
dalla distribuzione dei
cieli, delle cose
create e delle
facoltà dell'uomo, accoglieva
in una euritmica
totalità il sistema
cabalistico, gnostico, neoplatonico
e peripatetico, non
poteva non destare
unanime ammirazione nei
dotti di allora.
Molte sono le
testimonianze, specialmente
epistolari, che attestano
il grande successo ottenuto dal
Pico, che ormai
era ritenuto un
vero portento dagli
uomini piij rappresentativi di
quel tempo. Al
Salviati, che era
l'editore più importante
di Firenze, scrivono
con espressioni d'entusiasmo
per l'opera del
Mirandolano da ogni
parte d' Italia gli
umanisti che avevano
ricevuto copia dell'
Ettaplo. Nella raccolta
delle lettere comprese
nelle Opere del
Pico, troviamo quelle
del canonico della
Badia di Fiesole,
di Baccio Ugolino,
di Giuliano Maio
di Napoli, del
Poliziano, che non si
stima degno d'essere
avvici Opera, 393-94
e 303-407-409. 151 nato al
Mirandolano, di Ermolao
, che confessa
d'aver letto Vexameron
tutto d'un fiato,
del vecchio Cristoforo Landino,
al quale pare
di veder congiunte
nel Pico la
sapienza dei filosofi
greci con la
dottrina dei Padri
della Chiesa. E
l'eco di questa
unanimità di ammirazione
per V Ettaplo
varca anche i
confini d'Italia, come
dimostra una lettera scritta
al Salviati da
Bartolomeo Ponzio, addetto alla
Corte di Mattia
Corvino, re d' Ungheria.
Forse nessuna lode
poteva tornare più
gradita al Mirandolano
di quella tributatagli
dal suo antico maestro, Giambattista
Guarino, il quale,
scrivendogli da Ferrara, loda
la vasta cultura
profusa in picciol volume
dal suo ex
allievo (ex tuo
praeccptorc factiis sum
tibi discipulus). Il
Pico era di
quelli che nella
gloria non dimenticano
chi per primo
ha aperto le
porte dell'anima, illuminandola alla luce
del sapere. Rispondendo
al vecchio precettore,
lo prega di
non corrugare la
fronte se lo
chiamerà a partecipare della gloria
che gli deriva
dal suo Ettaplo .
Ed era sincero,
perchè non c'è
soddisfazione più intima
di quella che
si prova al
PoLiT. Epist. lib.
II. Opera, 390-91.
Opera, 396-9.7 152 riconoscimento del
proprio valore da
parte di quegli
che, essendo stato
maestro nell'adolescenza,
rimane impresso come
un giudice equo
e spassionato. Ma
quanto favore incontrò
V EU apio
fra i dotti
umanisti, altrettanto severamente
venne accolto da
parte dei teologi
romani che vedevano
in esso un'altra
prova del persistere
del Pico nell'attitudine contraria alle
dottrine ortodosse della
Chiesa. Non migliorava
quindi la posizione
del Mirandolano di
fronte al Pontefice,
il quale^ facendo
suo il giudizio
della Curia, assumeva
un atteggiamento sempre più
intransigente. Invano si
adoperava Lorenzo per mezzo
del Lanfredini a
mitigare l'animo di Innocenzo
Vili, e invano
gli faceva pervenire
uno schema di
Breve, compilato dallo
stesso Pico, per
dimostrargli a quali
condizioni il conte
si sarebbe sottomesso.
Il Papa era
irremovibile e rispondeva
al Lanfredini che « il caso
del Pico era
importantissimo » e
che ben «
altra cosa era
gratificare Lorenzo del
« figliuolo (accenna
al cardinale Giovanni)
o com« piacerlo
non entra questi
casi della fede».
Berti, Op. cif.
39. Ecco parte
della lettera del
27 agosto 1489
in cui il
Pico dopo aver
espresso la gratitudine sua al Magnifico,
seguita: « Quello
ch'io desidero «
è un Breve,
nella forma eh'
io scriverò di
sotto. Faccia »
vedere la Sua
Santità se per
concederlo, ne li
può na 153 II fratello
Anton Maria aveva
riferito al nostro
Giovanni che un
certo monsignore di
Napoli lo accusava
di due cose:
che cioè egli
aveva sparlato della Bolla
a Parigi e
che continuava a
trattare di nuovo quelle
cose che gli
erano state vietate.
II Pico allora
si difende contro
la prima asserzione,
chiamando a testimoni
gli stessi « ora« tori
che erano in
Pranza, se non
vogliono tacere « el vero
» : e
contro la seconda
che « non
ho « scripto
altro di nuovo
che quella expositione
« sopra el
Genesi ch'io ho
mandata alla M.^'^
Vo« stra, et
Lei può far
fede se è
contra el Papa
o « no,
che tanto è
distante dalle materie
di quelle «conclusioni,
quanto è il
cielo da la
terra». II Magnifico,
infatti, faceva fede
che l'opera era « stata
veduta da quanti
religiosi dotti ci
sono e « uomini di
buona fama e
di santa vita
e da tutti
è « sommamente
approvata, né io
però sono si
cat« tivo cristiano
che quando ne
credessi altro, me
•« scere o
danno, o vergogna,
o scandalo alcuno
nella Ec« desia
di Dio, ch'io
so gli sarà
detto di no,
se ne sa«
ranno domandati huomini
non passionati. Il
Breve voria «
che fusse in
questa forma: Havendo
tu già proposte
per « discutere
alcune conclusioni fu iudicato
per noi che
« il libro
di queste non
fosse Ietto, come
in una nostra
«tale Bolla si
contiene ecc.». Dall'Appendice II,
doc. I, nello
studio del Berti,
1. e. 39
e 51-53. Berti,
doc. I, Append.
Il, 52-53. 154 «
lo tacessi o
sopportassilo. Sono certo
se costui «
(il Pico) dicesse
il credo, cotesti
spiriti malvagi «
direbbero ch'è un'heresia
». La lettera
poi accenna alla
debolezza del Papa
il quale, essendo
occupato in molte
altre cose, si
lascia raggirare da
persone malevoli che,
« come diavoli
lo ten« tano
con queste persecuzioni
e sono troppo
cre«duti». Avverte che
il conte è
«un istrumento «
da saper fare
il male e
il bene »
così che tormentarlo sarebbe farlo
deviare dal bene
(«e ul«timamente si
era ridotto qui
a vivere santamente
«e con buoni
costumi e quetare
l'animo suo *)
e fargli tentare
cosa che «
potrebbe essere di
gran «scandalo». E
conclude: «Se la
forza gli farà
« pigliare altra
via, io ci
perderò poco perchè
in « ogni
luogo dove anderà,
so mi vorrà
bene, per« che
ne voglio assai
a lui». Esorta
quindi l'oratore a fare
il possibile per
riuscire nell'intento «
che non potreste
mai stimare quanto
questa cosa «
mi è molesta
e che passione
mi da »
. Tutto inutile;
il Papa era
irremovibile e non
sapeva capacitarsi a veder
persistere uno che
aveva ancora l'aspetto
di scolaro imberbe,
a sostenere cose
di teologia, per
le quali si
richiede una lunga
vita Lettera conservata
dal Fabroni Laurentii
Medicis Magnifici Vita, voi.
II 291. Cfr.
Berti in op.
citata pag. 39.
Id., 40. 155 di
studio: «perchè, diceva
il Papa, non
si mette «
a fare della
poesia ?» Questa
gli pareva un'applicazione più rispondente
alla sua giovane
età. Cotesta frase
del Papa, che
può parere ironica,
ed è invece
sprezzante, dimostra quanto
poco ei sapesse
comprendere quell'anima assetata
di gloria e di
luce, che coiu)Sceva
tutte le ansie
del dubbio e
il tormento di
tante notti insonni
per decifrare, nei
libri degli orientali,
qualche sparso raggio
della divinità. 11
Papa arrivò a
dire, anzi, che
V Ettaplo peggiorava
la causa del
Pico « es *
sendosi trovata questa
opera sopra il
Genesi, « et
vista per questi
docti di Sacra
Scriptura, «l'hanno dannata,
perchè in molte
parti entra «
nelle medesime heresie,
et quelle medesime
cose * che
sono state detestate
per indirecto, lui
le in« troduce
in questa opera
in molti luoghi».
Bisogna poi aggiungere
che il libro
del Pico sortiva in
un brutto momento
per trovare in
Innocenzo Vili un animo
ben disposto, essendo
in quel tempo
amareggiato dai gravi
scandali che Cit.
dal Berti, I..
e. 39. Si deve convenire
che contrariamente all'asserzione del
Pico che sosteneva
non aver tenuto
ncW Ettaplo parola
del contenuto delle
conclusioni, abbonda invece
di quelle idee
che erano state
condannate nelle Tesi.
E noi abbiamo dimostrato come
l' Ettaplo sia la
sistemazione delle varie
teorie che formano
argomento delle conclusioni.
156 erano avvenuti proprio
a Roma in
seno alla sua
famiglia. Stando cosi
le cose, il
Pico si rassegnò per
il momento a
rinunciare ad ulteriori
pratiche e tutto
s'immerse negli studi
ch'erano forse l'unica
cosa in cui
trovasse continue e pure soddisfazioni. Riprese
con gioia lo
studio delle Sacre
Scritture e in particolar
modo dei Salmi,
di cui voleva continuare l'esposizione
esegetica. A farsi
aiutare nel lavoro
di traduzione dall'ebraico,
il Pico teneva
presso di sé
un giovane ebreo,
Clemente, il quale, essendo
stato convertito al
cristianesimo e indotto a
vestire 1' abito
di S. Domenico, è
richiamato da Lorenzo
come una prova
dello zelo cristiano
del Pico, e
un esempio per
stornare la vana
calunnia di eresia
. Grande Nell'anno
1489 venne scoperta
in Roma una
lega d'impiegati senza
coscienza,! quali esercitavano
un traffico lucroso con
Io spaccio di
Bolle papali falsificate.
Franceschetto Cybo dava
l'esempio peggiore e
getta uno sprazzo
di luce sulle
condizioni morali della
Corte pontificia. In
compagnia di Girolamo
Tuttavilla percorreva nottetempo
le vie e
per futili motivi
aggrediva le case
dei cittadini riscuotendo
di necessità scherno
e vergogna. Presso
il cardinale Riario
perdette in una
notte 1400 ducati
e si lagnava
poi col papa
d'essere stato raggirato.
Pastor, 237. L'accenno
nella lettera di
Lorenzo al Lanfredini
è testualmente così:
tra gli altri
segni di vita
cristiana del Pico,
vi è quello
« di aver
convertito un ebreo,
giovane 157 era l'aspettativa
per questo lavoro
del Pico tra
i letterati e
gli amici, le
cui lettere di
questo periodo vi alludono
come a qualche
cosa del genere
dell' Ettaplo. «
Ci aspettiamo davvero
qualche «cosa di
delizioso, scriveva Matteo
Vero al Sal*viati,
dagl'inni di David,
ch'egli ò dietro
a in«terpretare e
a spiegare con
grande premura. «
A compiere il
qual lavoro mi
compiaccio che «in
questo momento abbia
scelto la quiete
del « nostro
Cenobio di Fiesole,
dove il solo
vederlo «e udirlo
è una vera
gioia». Siccome all' infuori del commento
al salmo XV,
di cui abbiamo già
parlato, non ci
rimane nulla, se
non qualche frammento
inedito, scoperto dal
Ceretti, che possa
giustificare l'ipotesi che
il Pico facesse
un Commentario di
tutti i salmi,
dobbiamo ritenere ch'egli
continuasse lo studio
dei salmi più
tosto per un
bisogno suo particolare,
per fare cioè
una specie di
esercizi spirituali; e
questo spiega anche
perchè amasse ritirarsi
nel Cenobio fiesolano.
Ad avvalorare questa
nostra supposizione ci
soccorre la lettera
ch'egli scrive il
13 gennaio 1490
« assai dotto
in quella lingua,
al quale faceva
tradurre « certe
opere in casa
sua e colle
armi sue medesime
e « ridotto
a farsi cristiano,
che non sono
opere da eretici
». Il Berti
corregge il Fabroni
da cui desume
questa lettera e che
publicata con la
data del 1492
è invece del
1489. 1. e.
41. Cfr. anche
Cassuto, 315-317. Opera,
393. 158 da Firenze
a un certo
padre F. B.
C. che lo
esortava a una vita
pia e virtuosa.
« Vedrai, sog«
giunge il nostro,
che, quando mi
sarà dato di
« ritirarmi nella
solitudine, allora potrò
filosofare « piamente
(pie philosophari) e
congiungere la «pietà
alla sapienza. Anch'io
sono convinto non
« esservi vera
sapienza quando manchi
la eterna, «
poiché il trattare
le varie discipline,
può ben «
dare il colore
alla pelle, ma
non farci più
belli. « Ma
la mente sana,
ferma, gagliarda non
si può «sperare
che dall'integrità della
vita, dai buoni
« costumi e
infine dalla santa
religione ». Non
dobbiamo credere che
i soli salmi
assorbissero il suo tempo;
coltivava anche gli
studi teologici e filosofici,
certo anche quelli
poetici, come si
ricava da una
lettera datata da
Firenze l'undici febbraio
dello stesso anno,
indirizzata ad Aldo
Manuzio. « Ti
mando 1' Omero
che mi hai
chie« sto tempo
fa; mi trovo
così stretto dalle
occu« pazioni, Aldo
mio, che non
ho neppure il
tempo « di
respirare. Mi sono
dato alle lettere
le cui «
esigenze sono cosi
grandi che ho
appena il «tempo
di rimettermi in
salute . Tu che stai
« per accingerti
alla filosofia, ricordati
che non Opera,
375. Questa frase
indica che la
salute del Pico
doveva essere alquanto
scossa, e forse
si era ritirato
a Fiesole anche
per scopo di
cura. 159 « vi
è nessuna filosofia
che ci dispensi
dalia ve« rità
dei misteri: la
filosofia cerca la
verità, la «teologia
la trova, la
religione la possiede'».
In queste tre
sentenze il Pico
ci dà, in
ct)mpendio, il programma
de' suoi studi,
i quali andavano orientandosi verso
quella fase finale
della sua attività,
che è, come
in ogni processo
della vita umana,
la liberazione dello
spirito dagl'impacci del mondo
esteriore. E così
avremo modo di
notare come nel
Pico questo processo
si svolgesse con ritmo
più accelerato che
in altri, e
il ciclo si
chiudesse proprio nel
periodo che d'ordinario separa il
trapasso dallo spirito
volitivo che cerca
di fissarsi nel
limitato, allo spirito
libero che aspira all'infinito. Durante
la primavera, per
riprendere il vigore
delle sue forze,
usciva sovente con
qualche amico a
passeggio pei dintorni
di Firenze: e
il Ficino ci
ha descritto con
insolita semplicità, in
una sua lettera
a Filippo Valori,
una di quelle
passeggiate che i due
filosofi solevano fare
insieme, ragionando con
poetico fervore delle
comodità della vita
. Ecco in
che modo il
Pico stesso faceva
conoscere a Battista
Spagnuoli come Opera,
359. « Alli
giorni passati andando
a spasso il
nostro Pico «
della Mirandola, uomo
certamente meraviglioso e io per
« gli colli
di Fiesole, riguardavamo
cosi per il
cammino tutto 160 passasse
il suo tempo.
« Al mattino,
dice, mi «
applico assiduamente alla
concordanza di Pla«
tone e di
Aristotile, serbo le
ore meridiane agli
« amici, alla
ricreazione dello spirito
mediante la «
lettura dei passi
e degli oratori,
le ore della
« notte le
ripartisco fra lo
studio delle sacre carte «
e un breve
sonno». Come si
vede il Pico
aveva intrapreso un
lavoro che lo
teneva occupato le ore
migliori della giornata,
e cioè la
concordia dei due
massimi filosofi dell'antichità. A
tale intento domanda
in prestito agli
amici i libri
che gli occorrono
e, se non
li trova a
Firenze, li chiede per
lettera a quelli
che risiedono in
altre città. Ringraziando
in una sua
Baldassarre Migliavacca di Milano
delle copie dei
libri greci inviatigli,
lo prega di
acquistargli il commento di
Giovanni Grammatico sulla
fisica di Aristotile
e, se gli
è possibile, anche
la metafisica dello stesso
filosofo . Nel
mentre che si
fa inviare dal
carmelitano Battista Mantovano
l'indice della Biblioteca di
Bologna in cui
risiede, gli chiede
ragguagli intorno alla
vita di Filostrato
« il paese
di Fiorenza, habitazione
per certo felice,
pur « che
due soli incommodi
si schivassero, cioè la nebbia
«che l'Arno cagiona
e i gran
venti del monte
che gli è
« opposto ».
Fi(;;iNO, Epist. voi.
cit. lib. IX.
Opera, 358-59. Opera,
370. 161 e del
filosofo Zaccaria che il frate
aveva conosciuto a Roma .
Da tutte queste
lettere traspare il grande
affetto che ormai
legava il Pico
al Poliziano e
nei saluti agli
amici troviamo sempre congiunto il
nome di lui.
Scrivendo agli ultimi di
luglio a Ermolao
lo prega, con
dolce rimprovero, di voler
moderare le sue
lodi {me iani
qiiacso lauda modice)
poiché gli è
stato riferito dal
fratello Anton Maria
che Ermolao, lo
portava a cielo
dinanzi a lui,
agli altri e
« allo stesso
Pontefice » :
per altro lo prega di
amarlo senza ritegno
{diun iamen anies
immodice) e termina
la lettera: «Ti
saluta il Poliziano
amandoti e lo«
dandoti sempre un
immodico (immodicus) ".
Ed Ermolao rispondendogli a sua volta
da Roma il
13 agosto, dopo
aver detto che
a ciò è
mosso da un
prepotente bisogno di
essergli vicino col
pensiero, con la
voce, con lo
scritto, perchè trova
più giocondo il
dire che l'udire
essere l'amico suo
pieno di candore,
di bontà, di
umanità, termina lo
scritto: 'Vale cum
Politiano «meo^>. appunto perchè
sa che così
si rende più
accetto all' amico
. Anche nell'
epistolario del Poliziano abbiamo
la testimonianza di
lei. 369.359-360. 391.
162 questo attaccamento reciproco
dei due letterati.
Degna di nota
è la lettera
che il poeta
scrive alla «fedele
Cassandra», dotta fanciulla
di Venezia, la quale,
desiderosa di mettersi
in corrispondenza col più
celebre poeta del
tempo, gì' invia alcuni suoi
lavori letterari (orazioni,
epistole, versi, scritti
di argomento filosofico
ecc.); ed il
Poliziano trovandoli scritti
con eleganza, con
gravità, e con una
certa virginea semplicità,
non priva di
dolcezza, così la
saluta: « Decus
Italiae virgo», nuova
Aspasia, Saffo, Corinna,
degna di stare
accanto alle donne
più celebri dell'antichità. Ma
non si appaga
dell'ammirazione; egli vorrebbe
contemplare il volto
castissimo della vergine,
vedere il portamento e
le movenze della
sua persona, bevere, quasi,
con orecchi assetati,
le parole ispirate
delle muse, poiché
allora trasumanato (consuinatissimus) dall'aflato
suo, non temerebbe
nel canto il
Tracio Orfeo e
la di lui
madre Calliope. « Certamente
finora, soggiunge, soleva
am« mirare Giovanni
Pico della Mirandola,
come il «
più bello e
il più dotto
dei mortali. Ed
ecco « che
ora. Cassandra, io
presi ad amare
te ancora «subito
dopo di lui,
anzi insieme con
lui». Come si
vede, c'era una
differenza tra l'affetto
del Pico e
l'amore del Poliziano
: in realtà
quello POLITIANI Episf.
ed. cit, 103-05.
163 del primo
era un'amicizia che
derivava da quell'ascendente che non
può non esercitare
un temperamento poetico, quand'anche
l'esteriorità della persona
non abbia alcuna
attrattiva e del Poliziano si
dice che fosse
alquanto deforme — ;
quello dell'altro, invece,
era quasi un
amore ispirato dalla contemplazione estetica
di un giovane
dalle forme squisite,
tanto più ammirate
in quel tempo
in cui rinascevano,
fra tante altre,
le preferenze classiche per
la bellezza androgina.
Un fatto che
in questo tempo
tornò di sommo
gradimento al Pico
e a' suoi
amici, fu la
notizia dell'elezione a
patriarca di Aquilea
di Ermolao Barbaro.
A lui, che
da Milano, dove
aveva rappresentato in qualità
di oratore la
Republica di Venezia
presso Ludovico Sforza,
era passato a
coprire lo stesso
ufficio a Roma,
presso Innocenzo Vili, rivolge
il Pico la
seguente lettera: «
Mi congratulo con te della
nomina a Patriarca
« di Aquilea
dove potrai dimostrare
il tuo valore.
«Vi sono tre
generi di vita:
il civile, il
contem Una nota
simpatica di questo
circolo di dotti
fiorentini, al quale apparteneva
il Pico, è
l'assenza sia dalla
loro vita come
dai loro scritti
di quell'immoralità che
imbratta come viscido fango
i nomi dei
più celebri umaninisti
delle altre Accademie.
Per Pomponio Leto,
che fu imputato
di Sodomia, vedi
la monografia dello
Zabughin, Grottaferrata, voi.
I, 1909, pp.,
33-35, 37, 56-'J7.
164 « piativo
e il religioso.
Esigiamo dal primo
la « prudenza,
dal secondo la
dottrina, dal terzo
la «santità. E
tu per l' innanzi
nel trattare gli
affari « dello
stato, ti sei
dimostrato prudentissimo, e
« gli studiosi,
amandoti e ammirandoti,
ti tengono «per
loro maestro nelle
buone discipline: e
non « abbiamo
dubbi di sorta
che saprai del
pari «svolgere le tue
mirabili doti nella
Chiesa». Ermolao risponde
con espressioni di
rimpianto per il
bel tempo speso
negli studi pei
quali teme ora
di non esser
più libero di
dedicarsi come nella
vita secolare, e
sopratutto perchè teme
che l'alto ufficio
che ora deve
coprire, induca il
Pico a tenere
un contegno piii
riservato verso di
lui. E questo
non vuole che
avvenga per nessuna
ragione. « Ti
scongiuro, esclama, per
quella be« nevolenza
che mi hai
sempre dimostrato di
vo« lere far
sì che anche
sacerdote io sia
tenuto da «te,
se è possibile,
per quell'Ermolao che
hai « amato
nel secolo e
che ora, fatto
soldato di «
Cristo, desidero esserti
ancor più caro.
Sappi che «
Aquilone mi ha
trasportato oltre la
verità, che «
Favonio mi ha
rapito oltre l'amore
» . Chi
avrebbe detto che
il suo desiderio
di poter attendere
alla filosofia lontano
dalle occupazioni, Opera,
359.392. 165 si sarebbe
cosi presto realizzato,
ciie anzi, mentre egli
diceva : Si
hoc cveniut, ne
avesse il presentimenio
? Difatti il
Senato veneziano che
si arrogava il
diritto di nominare
il Patriarca di
Aquiiea, si sentì
offeso dall'atto di
Ermolao Barbaro, il quale
aveva accettato la
nomina da Innocenzo Vili, senza
prima chiedere al
governo il permesso
voluto dalla legge;
e per questo
condannò il Patriarca all'esilio.
Questa sciagura che
privava Ermolao della
speranza di rivedere la
cara patria che
tanto amava, fu
però sopportata con
stoica fermezza e
ricompensata dal piacere di
poter riprendere i
dolci studi. 1
suoi sentimenti in
proposito, che manifesta in
una lettera al
concittadino Antonio Calvo
(22 luglio 1491)
sono la fedele
espressione del suo animo
puro ed elevato,
uno di «Nulla
vi ha di
più preclaro, nulla
di più elevato
della fortezza dell'animo.
Essa brilla al
disopra di ogni
• altra virtù;
essa è la
migliore fattrice di
voluttà e di
pace, e mentre
tutte le altre
s'inchinano all'impero della
• fortuna, la
sola fortezza l'affronta
e la pone
in ceppi. «
Ma fingi pure
che io abbia
ricevuto una ferita
più pro« fonda
ancora di quella
che al presente
mi grava; quanto
« presidio, quanto
sollievo non credi
tu che a me rima«
nesse da queste
tenui lettere che
sin da fanciullo
ho coltivato? Godendo
io sanità di
mente e di
corpo, quale •
calamità poteva sopravvenirmi
che m'involasse il con
• torto
degli studi ?
Essendo questi sani
e intatti la
mia 166 quei nobili
caratteri del secolo
XV non abbastanza studiati. Frattanto
il Pico, per
meglio attendere a'
suoi studi, fece
dono, nell'aprile del
1491, di tutti
i beni che
teneva nel Mirandolese,
e della terza
parte del Principato
per la somma
di trentamila ducati
d'oro, al nipote
Gianfrancesco, il quale
con tanto amore
doveva in seguito
curare l'edizione delle opere
dello zio e
scriverne la vita.
In quel medesimo
anno il Pico,
in compagnia del
Poliziano e del
Crinito, fece un
viaggio nell'Alta Italia
per visitare le
biblioteche delle principali
città, Bologna, Ferrara,
Padova, Vicenza, e
i particolari di questo
viaggio sono riferiti
dal Crinito(l). Senza
dubbio il motivo
di questo viaggio
doveva esser quello
di procacciarsi i
libri che riteneva
necessari per condurre
innanzi il suo
lavoro intorno alla concordanza
di Platone e
di Aristotile. Nella
vita del nostro
si alternano con
una certa frequenza
periodi di vivacità
espansiva, con altri di
calma e riposata
solitudine. Così ora,
mentre è tutto immerso
nello studio dei
due sommi «
vita non può
essere se non
tranquilla, gioconda, ono«
revole. Oh felice
calamità che mi
hai restituito alle
let« tere e
le lettere a
me, anzi a
me stesso ! » Dalle
Epìst. del Poliziano,
ed. cit. 514-18,
la traduzione è
del CoRNiANi, /
secoli della Letferat.
Italiana, 279. Rassegna
Bibl. della Leti.
Italiana. filosofi della Grecia,
si sentiva di
ritornare alla pietà
e al bisogno
di quiete. Con
minore assiduità prese a
frequentare i convegni
e le feste,
cui Lorenzo per
le sue mire
politiche dava largo
incremento; cominciò ad
essere notata la
sua assenza nei conviti
in cui era
solito accompagnarlo il
Poliziano. Questi prova
rincrescimento e per
lusingarlo gli descrive
ora lo spettacolo
di una giostra
{cquitum ccrtamcn hastis
concurrcntium), al quale
partecipa il fiore
della gioventù fiorentina e
in cui Piero
de' Medici, ch'è
divenuto il beniamino
della moltitudine e
la gloria della
sua famiglia, ottiene
la palma della
vittoria. Ora invece
gli descrive un
banchetto offertogli da
un certo Paolo
Ursino, il cui
figlio, bimbo di
undici anni, si
rivelò un prodigio
(un enfant prodigi
diremmo noij sia
nel suono e
nel canto, sia
nella recitazione di
prova oratoria, sia
nel cavalcare un
focoso destriero in
singoiar tenzone con
Piero de' Medici.
« 11 fanciullo,
soggiunge il Poliziano.
« aveva dei
capelli d'oro che
gli scendevano mol
POLITIANI Epist., «
I Medici con«
cepiscono una vera
passione per la
giostra... Già ancor
« sotto Cosimo
(1459), e poi
sotto Piero il
vecchio ebbero «
luogo in Firenze
giostre celebratissime; Piero
il giovane «
poi per tali
esercizi, trascurò perfino
il governo e
non « voleva
essere dipinto se
non rivestito dalla
sua splen. dida
armatura». Burckhardt, op.
cit., II. 108-109.
168 « lemente sulle
spalle, gli occhi
vivaci, lo sguardo
« intelligente, il
portamento elegante e nel tempo
« stesso marziale.
E quando in
mezzo al convito
« prese a
cantare accompagnato dagli
strumenti « musicali,
sentivo penetrarmi la
sua voce soa«
vissima nel cuore,
e inondarmi di una voluttà
«quasi divina». Questo
brano ci dice
quale ammiratore fosse
il Poliziano della
bellezza androgina; anzi quale
affinità di sentimenti
avesse con gli
esteti dell'antica Grecia
e sopratutto di
Roma imperiale di
cui abbiamo uno
specchio nel Satyricon
di Petronio. Ma
il Pico era
un mistico e
non un sentimentale; non amava
i festini e la vita
gaudente che per
un poeta come
il Poliziano erano
fonte di sempre
nuove impressioni. Ormai
il contatto delle
cose esteriori cominciava
a nauseare il
nostro assetato di
quella bellezza che
trascende ogni forma sensibile. Ai
primi del 1492
pubblicò il libro
De Ente et
Uno che volle
dedicare ad Angelo
Poliziano il quale,
appunto in quegli
anni 1490-1492, soleva
intramezzare le sue lezioni
di letteratura greca
e latina con
la lettura dell'etica
di Aristotile o di qualche
brano filosofico di
altri autori .
A tali lezioni
inter POLIT. Epist.
lib. XII, 447-50.
.2) Isidoro del
Lungo, Florcntia, Firenze,
Barbera, 1897, 176-180.
169 veniva talvolta anche
il Pico e
la presenza del
dotto principe tornava
molto lusinghiera al
poeta di Montepulciano
che all'amicizia univa
una grande ammirazione
per le qualità
dell'ingegno del Alirandolano. Nella
dedica il Pico
ci fa sapere
come l'argomento gli sia
stato suggerito da
una disputa sorta
tra Lorenzo e
il Poliziano sul
modo di considerare Vesscrc e
V unità. Il
Poliziano stava con
Aristotile che ne aveva
sostenuta l'identità e il Magnifico coi
Platonici che si
erano pronunziati per
la disparità. Il
Pico si schiera
decisamente coi primi
e viene a
dimostrare che anche
Platone identifica l'essere
con l'uno. Dove
egli trova la
più rassicurante risposta
alla sua tesi,
che nella mente
d i Platone l'essere
e l'uno si
convertono, è nel
dialogo del Parmenide, ove Platone
dimostra non già
la superiorità dell'uno
sull'essere, ma la
loro identità. Perciò
Aristotile, che parte
dal cuore della
filosofia platonica e vi
scorge questa identità
dei due principi, non
dissente aflatto dal
suo maestro. Tuttavia
il Pico che
non era un
superficiale conoscitore della
filosofia aristotelica, non poteva nascondersi
che il pensiero
dello Stagirita è
stato sempre su
questo argomento ondeggiante,
sia quando disse
che « l'essere
non è assolutamente
170 uno», sia quando,
parlando dello stesso
essere, l'ha definito
ora in un
senso ora in
un altro. Lasciando stare l'equivoco
di linguaggio a
proposito della parola essere,
che è impiegata
in numerosi sensi, e che quella
di sostanza è
impiegata almeno in
quattro, sta di
fatto che la
contraddizione è flagrante e
ogni tentativo per
eliminarla riuscirebbe vano.
Ma il Pico,
tendendo alla conciliazione ad ogni
costo, concepisce quella
superessenza che in
sé comprende l'essere
e l'uno, sorvolando sopra a
tale contraddizione con
un ragionamento che non
è privo di
acume. L'essere, egli
dice nel quarto,
si deve considerare
come concreto e
come astratto; nel
primo caso l'essere,
come partecipazione di
qualcosa, è inferiore all'uno;
ma nel secondo,
cioè l'essere per
sé, é un
essere uno, superiore
ad ogni ente
(adeo est ut
sit ipsum esse,
quod a se
est et sit
ipsum esse, quod
a se et
ex se est
et cuius partecipazione omnia
sunt). È evidente
che in questo
caso l'essere è
Dio, il quale,
come l'unità, é
principio di tutte
le cose (Tale
autem est Deus
qui est totius
plenitudo, qui solus
a se est,
et a quo
solo nullo intercedente
medio ad esse
omnia processerunt). Così
il Pico si
spiega non solo
la convertibilità
dell'essere nell'uno, ma anche come
l'essere e l'uno
siano in Dio,
il quale é un superessere
e un 171 superuno,
e, come dice
Dionigi, quia unice
est omnia. V
indirizzo mistico dei
suo pensiero porta
il Pico ad
operare la conciliazione
di Piatone e
di Aristotile mediante
Dionigi e a
convertire l'ontologia in
una concezione teologica.
Cosi l'assertore della
dignità dell'uomo diviene
il paladino dell'infinita
potenza di Dio,
al quale l'unica
lode checonvenga è
il silenzio. Il
Poliziano fu molto
commosso della dedica
del libro e
l'accolse con espressioni
tali che parrebbero
esagerate, o per
lo meno dettate
da un senso
di adulazione, se non avessimo
avuto agio fin
qui di notare
la sincerità della
sua ammirazione per il
Pico. « Arsi
sempre, dice il
Poeta, arsi forse
un po' troppo,
te lo confesso,
dal desiderio di una
perpetua fama, a!
punto da ritenere
per un niente
le ricchezze, la
dignità, la potenza
e i piaceri
in paragone di una gloria
duratura. Ma poichò
ciò che ho
scritto non mi
è valso molto
a perpetuare il
mio nome tu,
Pico, sei apparso
a prestarmi ciò
che non avevo
potuto da me,
dedicandomi il tuo
commentario De Ente
et Uno, nel
quale richiami le
accademie alla vera
sorgente e congiungi
in una due
filosofie e la
nostra teologia. Che altro
dovrei cercare per
poter vivere nei
campi Elisi, se
vivrò per mezzo
tuo e insieme
con te ?
La posterità narrerà
un giorno esservi
stato una volta
un certo Poliziano,
il quale fu
tanto stimato da
meritare che il
Pico, luce di
172 ogni sapere, parlasse
di lui nel
bellissimo libro che
tratta di cose
sublimi. Ti rendo,
dunque per l'immortalità, grazie
immortali». Questi segni
di affetto dei
due letterati dovevano
senza dubbio tornare graditi
al sofferente Lorenzo
che, ammalato da alcuni
mesi, era assistito
dal Poliziano, dal
quale si faceva
leggere ora alcuni
passi del De
Ente et Uno,
ora s'intratteneva a
parlare delle virtìj
e dell'ingegno del
suo diletto Pico.
« Quanto desidererei,
disse una sera
l'infermo, passare quest'altro
po' di tempo
che Dio si
degnerà concedermi, negli
studi filosofici con
te, col Ficino
e con Pico
della Mirandola. E
quando fu presso
a morire in
Careggi (scriveva il
Poliziano a Jacopo Antiquario)
guardandomi dolcemente,
come sempre soleva, Oh
Angiolo, mi disse,
sei tu qui
? — e
insieme levando a
stento le languide
braccia, mi afferrò
strettamente ambo le mani.
Io non poteva
trattenere i singhiozzi
e le lagrime,
cui nondimeno sforzavami
nascondere, volgendo altrove
la faccia. Ma
egli, senza punto
commuoversi proseguiva a
stringere le mie fra
le sue mani.
Quando si avvide
che il pianto m'impediva di
parlargli, a poco
a poco, quasi
naturalmente, mi lasciò
libero. Corsi allora subito
nel vicino gabinetto
ed ivi diedi
POLITIANI Epist. ed.
cit. 452. 173 «
sfogo al mio
dolore e alle
lagrime. Poscia asciu«
gatomi gli occhi
e tornato dentro,
appena egli «
mi vide e mi vide
tosto, mi chiama
di nuovo «
a se e
mi chiede che
faccia Pico della
Miran« dola, gli
rispondo ch'era rimasto
in città, per« che temeva
d'essergli molesto colla
sua pre« senza.
Se io, disse
Lorenzo, non temessi
che « questo
viaggio gli fosse
di noia, bramerei
pure « di
vederlo e di
parlargli per l'ultima
volta, prima «
di abbandonarvi. Debbo
io dunque, gli
dissi, « farlo
chiamare ? Sì,
certo, rispose, e
il piij «presto
possibile; così feci,
e già era
venuto « il
Pico e si
era posto a
sedere presso il
letto. « E
io ancora mi
ero appoggiato presso
le sue «
ginocchia per udir
meglio per l'ultima
volta la «
già languida voce
del mio Signore.
Con quale «
bontà, Dio buono,
con quale cortesia,
dirò an« Cora,
con quali carezze
lo accolse Lorenzo
! « Gli
chiese prima perdono
di avergli arrecato
« un tale
incommodo, lo pregò
a riceverlo come
«contrassegno dell'amicizia e
dell'amore che «
aveva per lui,
e gli disse
che moriva piiì
volen« fieri dopo
aver veduto un
sì caro amico».
Il volto gentile
del Pico era
valso a calmare
l'agitazione convulsa di
quell'uomo in preda
agli PoLiTiAN! Epist.,
ed. cit. 124-37.
Vedi Berti, 1.
e. 44-45. 174 ultimi
strazi dell'agonia, resa
più triste forse
dal ricordo dei
falli commessi durante
la vita di
principe; e gli occhi
vitrei, prossimi a
spegnersi per sempre,
parvero rischiararsi alla
luce calma e
celeste che riverberavano gli
occhi azzurri del
Mirandolano. Il male
di cui soffriva il
Magnifico era di
quelli che non
perdonano, e il
grande mecenate, r astuto
politico, uno dei
primi poeti del
Rinascimento, moriva l'otto
aprile all'età di
quarantaquattro anni. Si
discuterà sull'opera sua
di governo, sulla
sincerità o meno
della sua liberalità
e del suo
mecenatismo, quel ch'è
certo si è
che Firenze e
l'Italia godettero sotto
di lui di
una prosperità come
poche volte fu
dato nella storia
della nostra patria; che
tanti uomini d'ingegno
lo amarono e lo
riverirono non sempre
per adulazione (e
la lettera del
Poliziano è una
prova della più
sincera devozione) ma
perchè riconoscevano in
lui oltre che
un reggitore politico,
un uomo dì
cuore e d'ingegno.
Valga la considerazione di
ciò che accadde
all'Italia dopo la
morte di lui
per dover ammettere
che Lorenzo fu una delle
personalità più spiccate
e complesse del
Rinascimento, un uomo che,
come pochi, ha
rappresen TiRABOSCHi, Storia
della Letteratura Italiana,
t, VI, part.
I, lib. 1,
cap. XV. 175 tato
le sorti di
una nazione. E
il Pico fu
di quelli che
esperimentarono la generosità
disinteressata di Lorenzo
le cui lettere
e documenti fanno
fede dello spontaneo
disinteressamento che sempre animarono ogni
suo atto verso
il giovane filosofo,
al quale si
sentiva legato da
un affetto sereno
e sincero. E
se il Pico
era sfuggito alle
persecuzioni dei propri
nemici, se aveva
potuto trovare in
Firenze un asilo
comodo e sicuro,
se era riuscito
ad esplicare liberamente
la sua attività di
studioso, lo doveva
a Lorenzo che
per lui fu
non solo un
amico ma un
carissimo padre. IX.
Il Pico a
Ferrara nel 14i>2.
Crisi Uelii^iosa. L'Orazione
Domenicale. Invitato dal
duca Ercole I,
si recò il
Pico a Ferrara
per assistere alla
disputa che doveva
aver luogo in
occasione del Capitolo
generale dei Frati
Predicatori. Alcuni anni
addietro aveva partecipato
a un altro
Capitolo, a quello
di Reggio, dove era
stato fatto segno
all'aminirazione generale pel
suo ingegno precoce.
Né anche ora
dovettero mancargli i
segni di deferenza
e di ammirazione da parte
dei convenuti; ma
mentre un tempo
si sentiva accendere
ai sogni della
gloria e «all'uso
di Gorgia da
Leontini cercava fama,
sostenendo qualsiasi cosa
» ; ora
molte foglie vedeva cadere
avvizzite dalla sua
corona, dopo che
ne aveva sperimentata
la vacuità piena
d'ama — 178 ritudine.
Anzi adesso provava
un sentimento d'inferiorità davanti a
quei frati il
cui nome non
sorpassava la cerchia
ristretta delle conoscenze
personali, ma la
cui vita al
compimento della quale
mettevano in uso
tutte le loro
energie riteneva alla sua
superiore. Questi sentimenti
del Pico li
leggiamo in una
lunga lettera, in
data 15 maggio
1492, ch'egli scrive
al nipote Gianfrancesco. Ivi
lo consiglia di
non dolersi delle
difficoltà che dovrà
incontrare nella via del
bene, giacché sarebbe
oggetto di meraviglia
se a lui
solo fra i
mortali fosse dato
di andare in
cielo senza fatica
(sine sudore). E dopo
avergli ricordata la
massima di S.
Giacomo: Gaudete fratrcs
cum in tentaiiones
varias incideritis nec
immerito quidem, gli
spiega come ogni
stato sia irto
di difficoltà e pericoli :
così quello del
marinaio, del mercante,
del principe. Per questo
egli ha scelto
la quiete del
suo studio, e
nulla a mbisce in
questo mondo i
cui seguaci gridano
unanimi: laxati sumus
in vias iniquitatis,
perchè le innumerevoli
cure della vita
li agita come
un mare fervens
quod quiescere non
potestSiccome tutte le
cose terrene sono
caduche, incerte e
vili, lo invita
a rompere i
lacci delle passioni,
a rendersi piacevole
più a Dio
che agli uomini,
a scegliersi la
via stretta della
virtìi che mena
al cielo. Per
fare questo, 179 gli
consiglia due cose:
a pregare, e
pregare non solo
con molte parole
(multiloquio) si bene
nel segreto della
propria mente e
di ascoltare nei
penetrali della coscienza
la voce divina
che rischiara le tenebre
ed unisce a
sé coi modi
più ineffabili: e
infine che la
preghiera non sia
lunga, ma ardente
e interrotta spesso
dai sospiri. L'altro consiglio è
di lasciare le
favole dei poeti
per aver sempre
nelle mani le
sacre scritture (nocturna
versare manu, versare diurna nelle
quali è nascosta una tal forza sovrumana, così viva ed efficace, che trasfonde,
in chi vi s’accosti umilmente, un'ammirabile amore divino. Termina la lettera ricordandogli
quanto gli ha detto altre volte, che cioè per quanto lunga possa essere la vita,
si deve pur morire e che il cavallo che ciascuno di noi cavalca non ha da percorrere
che un breve stadio. Quale passo ha fatto
Pico di questa lettera, da Pico dell'epistola
critica a Lorenzo cosi piena d'entusiasmo e di baldanza o dell'Apologia in cui scoppiettavano
a volte un virulento sarcasmo, a volte espressioni così ardite e per quel tempo
insolite! Questa lettera sembra scritta d’un padre religioso tanto è compenetrata
di pensieri e di massime divote: il distacco dal mondo, gl’orrori dell'inferno, l'e
Opera, . 180 sortazione alla preghiera, trovano un accento cosi fervente,
che ci sembra d'avere innanzi un vecchio stanco della vita e anelante al riposo
del sepolcro. Pico era ancor giovane, eppure il suo spirito era invecchiato, 0 meglio,
poiché lo spirito non invecchia, era cambiato il contenuto della sua vita. Ciò che
ora lo attraeva non era più la poesia e le sue lettere e i suoi sonetti ci attestano quanto egli avesse amato la poesia
(omissis j'am fabulis nugisque poetarum cosi
consiglia al nipote neppure forse piiì la filosofia e questa era stata la sua grande
passione, quella per cui aveva rinunciato alla vita di principe, per cui aveva sofferto persecuzioni e prigionia
ciò che ora Io attraeva era una vita più degna d'essere vissuta, per la quale voleva
dare non solo una parte della sua attività,
l'intellettuale, ma quella affettiva, quella pratica, insomma tutta l'anima. E dessa,
è ormai evidente, era la vita religiosa. Ma gli era d'uopo conciliarsi con la Chiesa,
dare al Pontefice un attestato persuasivo della sua nuova disposizione. Era quello
l'anno nel quale avvenne l'espulsione degl’ebrei da tutta la Sicilia e molti si
sparsero in ogni parte d'Italia. Uno di
questi Opera (siculus quidam hebraeus)
si era spinto sino a Ferrara, portando seco gran copia di libri ebraici. Pico si
senti stimolato dall'antica curiosità ed attrattiva pel misterioso; per lui un libro
nuovo era un tesoro, e Io legge colla convinzione di trovare in esso ciò che la
sua anima vagheggiava e che tutti i libri precedenti non avevano saputo accordare.
Ricorda, non senza tristezza, quali orizzonti
aveva intravveduto nello studio della Cabala e quante notti aveva vegliato per decifrare
gl’arcani dell'antica sapienza. Chi sa che anche ora non potesse scoprire qualche
verità riposta nei libri di quel giudeo, il quale gli acuiva il desiderio di leggerli
coll'annunciargli la sua partenza da Ferrara entro venti giorni? Al nipote che lo
richiedeva di consigli, risponde che non si
aspettasse per qualche tempo da lui nessuno scritto essendo occupato notte
e giorno, sino quasi a perdere gl’occhi, su quei libri dell'ebreo, che conta di
finirli prima della di lui partenza. Addio, conclude, temi il Signore e pensa ogni
giorno che devi morire. Non Opera Alcuni giorni prima aveva scritto a Malvezzi
ringraziandolo dell'invio fattogli del suo libro De Sortibus che aveva trovato diligente in quanto alla lingua, acuto
nelle osservazioni e gli promette
d'inviargli alcune 182 pare
che da tali
letture ne traesse
il frutto che
si era ripromesso
e nemmeno la
benché minima soddisfazione
dello studio per
sé stesso. Ormai
era inclinato per
quella via in
cui si sentiva
irresistibilmente trascinato.
Si ritrasse da
quei libri con
una specie di
disgusto, e come
da ciò che
si frapponeva alla
sua vera méta.
Riandando alle cause
che determinarono il
suo attrito con
la Chiesa e
il suo capo,
il Pontefice, s'avvide
che «buona parte
della colpa era
sua, « che
aveva troppo amato
la gloria del
mondo e «trascurato
quella che sola
proviene da Dio*,
e sopratutto perché
all'odio e alla
nequizia degli uomini,
aveva reagito coli' impeto
della passione, che
é figlia di
Satana. Non aveva
ascoltato il precetto
di Gesù quando
disse: «Si vos
hodio mundus habet,
scitote quia priorem
me vobis habuit»,e
quindi aveva agito
ciecamente per la
violenza della propria
consuetudine, come coloro che
sono trasportati dall'impeto della corrente
di un fiume.
Non aveva riflettuto sulla sentenza
socratica che se i nemici
uccidono il corpo,
non possono nuocere
all'anima, e però
non si era
astenuto dalla vendetta
che im sue
quisquiglie (forse alcuni
di quegli inni
che in questo
tempo andava componendo
per ricreare lo
spirito col suono
della lirai. 19
maggio 1492, Opera,
366. 183 pedisce
all'anima di udir
risuonare la voce
soavissima di Dio, unica
guida alla verità
e alla vita.
Oh ! come
gli tornava spontaneo
sulle labbra il
gemito del profeta:
«Delieta iuventutis meac
«et ignorantias meas
ne memineris: sed
secun« dum misericordiam
tuam memento mei
propter « bonitatem
tuam Domine »
ora che, trovandosi
a Ferrara, si
risovveniva del tempo
della sua prima
gioventù non scevra
di quei trascorsi
che imbrattano la coscienza.
" Pensa, figlio
carissimo soggiunge
rivolgendosi al nipote
che la vita
ò un punto,
un istante; che
i piaceri, le
ricchezze avvelenano l'anima e la sottraggono
al regno del
cielo; che tutto
ciò che forma
la nostra gioia
di quaggiù è incerto,
umbratile, falso; pensa
che una grande
ricompensa sta preparata
per colui che,
disprezzando queste cose,
sospira alla vera
patria, di cui Dio
è il re,
la carità la
legge, l'eternità il modo.
Occupa l'animo in
questi pensieri, che
lo stimolano quando
dorme, lo accendono
quando e tiepido,
lo rafforzano quando
vacilla, e gli
apprestano le ali
quando tende al
divino amore; di
maniera che, quando
verrai da me,
che ti attendo
con grande desiderio,
ti possa vedere
non solo quale
sei, ma come
voglio che sia».
Opera, 344-346. Questa
lettera porta la
data del 2
luglio, Ferrara. 184 In
questa lettera, improntata
a una maggiore
unzione delle altre scritte
al nipote, il
Pico ci si
mostra ormai preso
dal sacro fervore
de! mistico. Ed
è degno di
nota il fatto
che il nostro,
le cui lettere
agli amici sono
di sapore, diremo
così, profano, abbia
scelto nel suo
nipote il confidente
delle proprie aspirazioni.
Forse lo confortava
a questo, oltre
il legame di
parentela che lo
univa al figlio
del proprio fratello,
a cui non
era del resto
molto distante per
l'età, la serietà
di questo giovane principe
che si era
rivolto a lui
con un abbandono
e una devozione
che non si
smentì mai. Ad
ogni modo il
Pico, che pur
tanti amici annoverava,
non si aprì
mai con alcuno
come co! nipote,
non fece mai
nessuno partecipe delle
sue ansie, dei
suoi ardori delle
note piìi intime
che gli vibravano
nell'animo; né mai
nessuno ebbe a chiamare
metà della propria
vita (animae dimidium
mcae) , perchè
nessuno per r
innanzi l'aveva compreso
come il nipote
Gianfrancesco. È senza
dubbio di questo
tempo il commento
all'orazione domenicale che
va sotto il
nome: In orationem
dominicam expositio. Il
Pico fa rientrare
l'orazione domenicale, che
per i cristiani
è la preghiera
per eccellenza, nel
n ; Il
nipote si era
già sposato. (2ì
Questa espressione si
trova nella lettera
datata da Firenze
il 27 novembre
1492, Opera, 347.
185 quadro generale di
una teoria della
preghiera; quindi prima
di tutto la
definisce, poi determina lo
scopo per cui
si deve pregare
, infine dà
la norma che
deve seguire colui
che prega .
La preghiera, dice
il Pico, è
sempre un desiderio, e
ciò che si
desidera è sempre
un bene, e
le cose le
amiamo in quanto
esprimono un bene.
Siccome poi, al
dire degli stessi
teologi e filosofi,
il bene sommo
è Dio, dobbiamo
perciò amare e
desiderare prima, e
al disopra di
ogni cosa, Dio,
e insieme con
lui le creature
che più a
lui ci congiungono.
Come dobbiamo regolarci
rispetto a tante
cose che pur
ci dilettano (come
i beni della
fortuna, la bellezza,
la forza del
corpo ed altri
obbietti sensibili) e
nondimeno non ci
uniscono a Dio?
Col fuggirli, risponde
il Pico; perchè
non può essere
buono ciò che
ci allontana da
Dio e ci
fa peccare. E
quando ci sono
concessi tali beni
da Dio? Allora,
incalza il nostro,
dob [\) «Orare non
est aliud quam
per elevationem men •
tiset affectus excitationem
sua desidcria Deo
notificare -. i2i
« Si ergo
debcmus scire, quoniodo
sit orandum, •
oportet prius scire
quid sit desiderandum... •.
i3 Scimus autem
illud esse sumnie
desiderandum • quod
est summum bonum
•. L' Esposizione di
cui stiamo facendo
l'esame è inserita
in principio delle
Opere del F*ico,
edizione Basilea già
citata. Mancando la
numerazione delle pagine,
citeremo per ordine
numerico degli a
che contraddistinguono i
fogli. 13 186 biamo
ricordare il detto
di S. Paolo
che ci consiglia di
far uso delle
cose di questo
mondo, tenendo da
esse distaccato il
nostro cuore. Chi
vuole distaccarsi da
ciò che è
caduco deve far
uso della meditazione,
della compassione, della
imitazione. Poiché solo
meditando la passione
di Cristo, noi
sentiremo il nostro
cuore punto di
compassione per le infinite sofferenze
di Gesù ; ma a
nulla gioverebbero le
nostre lagrime se
non cercassimo di
imitarlo nella sua
vita, nelle sue
parole, nella sua
inalterabile pazienza a
sopportare i più grandi
dolori. E non
solo dobbiamo sopportare
le afflizioni della
vita, ma anche
coloro che ci fanno
del male. Se
vogliamo che Dio
rimetta i nostri
peccati e ci
preservi dalle tentazioni, accordandoci la
sua misericordia, la
quale è come
la medicina per il corpo,
perchè dovremmo negare
al prossimo ciò
che noi chiediamo
a Dio, vale
a dire la
misericordia ? Se
è vero che
è per essa
che noi siamo
salvati e non già
per i meriti
nostri, a maggior
titolo dobbiamo usare verso
gli altri questa
grande benevolenza che
distingue gli animi
eletti. Quando infine
Cristo c'insegna adire
al Padre, «liberaci
dal male», non
possiamo fare a
meno dal non
raffigurarci, nella rappresentazione del
Demonio, l'insieme di
tutti i mali,
l'ipostasi di tutto
quanto è triste
e peccaminoso; ecco
perchè noi dobbiamo
187 fuggire dal
male, come da una bestia
orrenda e rifugiarci
nel seno del
Padre nostro in
cui riposeremo sempre che
lo serviamo con
santità e con
giustizia. Il 28
luglio giunse a
Ferrara la nuova
della morte di
Innocenzo Vili, e
pochi giorni dopo,
quella dell'elezione alla
cattedra di S.
Pietro del cardinale
Borgia col nome
di Alessandro VI.
L'avvento di questo
nuovo Papa che,
per la larghezza
delle sue idee
e i suoi
gusti estetici, era ben
noto nel mondo
letterario ed artistico,
produsse nel nostro
un senso di
sollievo poiché, essendosi rivelato
di un carattere
del tutto diverso
da quello del
defunto Pontefice, sperava
di trovarlo meno
restio a concedergli
la sospirata assoluzione.
Un'altra circostanza si
presentava intanto a lui
favorevole: l'elezione del
Rettore dello studio
di Padova, il
cipriota Podocataro, a
segretario pontificio. Il
Pico scrisse da
Ferrara il 16
agosto una lettera di
congratulazione al suo
vecchio professore, rimettendogli
una supplica per
il Papa, colla
preghiera d'intercedere per la
sua causa .
[\ I Opera,
foL, a, 4.
(2^ DoREZ, Giornal.
Star. d. ietterai.
Italiana, voi. 25,
1895, 355. 188 Egli
intanto si mosse
alla volta di
Firenze, per potere
poi proseguire per
Roma ove non
gli mancavano amici
e ammiratori, tra
i quali il
suo affezionato Ermolao,
patriarca di Aquilea.
A Firenze, essendosi
imbaltuto in un
fascio di libri
greci (ex his
graecorum librorum fascibus
extricavero) s'intrattenne per
poterli consultare. In
questa città desiderava
raggiungerlo il nipote
che ormai non
sapeva più vivere
da lui lontano.
Ma lo zio
l'ammonisce di rimanere
per due motivi: primo
perchè potrebbe arrivare
a Firenze nel
contrattempo ch'egli sarebbe
in viaggio per
Roma (ut illuc
mihi eudum sit,
causam nosti) oppure per
Mirandola ; l'altro
che avrebbe dovuto
lasciare per lui
la moglie, verso
la quale l'obbligavano dei doveri
inerenti al matrimonio,
cui egli non
potrebbe sottrarsi senza
venir meno al
comando divino in cui
è detto essere
gli sposi un'anima
sola. « Infatti,
soggiunge, 'non puoi
es« sere più
tutto tuo dal
momento che hai
voluto « assoggettarti
alle leggi nuziali,
nondimeno puoi «
essere tutto di Dio,
al quale sei
meritevole nello «
stesso tempo che
lo sei a
te stesso ».
Lo esorta infine
a starsene in
casa per attendere
alle proprie occupazioni e
alla meditazione delle
sacre scritture e
in special modo
del Vangelo. A
vederlo non istarà molto
tempo, avendo in
animo 189 di
ritornare a Ferrara
al cominciare della
primavera . Siccome non
arrivava nessuna risposta
alle pratiche che
aveva inoltrate a
Roma, nò credeva
riuscisse per niente
proficua la sua
andata in quella
città, decise di
trattenersi ancora a
Firenze ove poteva almeno
attendere agli studi.
In questo periodo
attraversava egli un
momento di grande
sconforto; aveva molto
bisogno di affetto
e di parole
buone e in
questo senso è
improntata la lettera che
scrive ad Ermolao
nella quale gli
chiede anche il
volume di Tolomeo
sulla musica .
Arriva un momento
nella vita in
cui la mente
nostra fa un cammino a
ritroso e invece
di guardare avanti e
di sognare si
volge indietro e
ricorda. Fra le persone
che conoscemmo ed
amammo ve n'è
sempre una che
rimane nella nostra
memoria coi caratteri indelebili
di una bontà
semplice e gioviale. Felici
noi se, mentre
la contempliamo in immagine,
tale persona vive
ancora e può
accoglierci nel suo
seno e ridirci
la parola che
consola. Il Pico
era cosi giovane
quando questo periodo
era per lui
arrivato che, si
può dire, tutti
coloro che aveva
conosciuto nell'in Opera,
346-47 la data
di questa lettera
è del 27
novembre 1492. (2
Opera, 374. 190 fanzia,
erano ancor vivi
e tra questi
la persona che
Io aveva palleggiato
bambino tra le
braccia, e che
ora ricorda con
tenero affetto nella
sua lettera che
gì' indirizza senza rivelarci
il nome. «
Nulla mi tornò
più dolce e
piij gradito, gli « scrive,
della memoria della
tua antica famiglia«rità
e soavità di
costumi. Se la
sede dell'ami« cizia
sta nell'animo, in
noi allora essa
è vera« mente,
vale a dire,
non c'è motivo,
come scrivono «
Platone ed Aristotile,
perchè in noi
possa for« mare
un dissidio la
distanza di luogo
e di tempo.
« Pensavo or
ora in che
modo poterti essere
« vicino, né
altro mi venne
in mente che il farti
H pervenire la
mia elucubrazione de
septiformi « in sex dies
geneseos. Se noi partoriamo dei
li« bri quasi
come dei figliuoli,
e il padre
è in gran
* parte nel
figlio, vengo io
ancora con esso
lui « che
ho generato. Ricevi
dunque il mio
figliuo« letto che
viene a te
com' io soleva
ilare e fe *
stante bambinello. Ti
piacerà, lo so,
perchè mi «
ami, e ti
dispiacerà anche perchè
mi ami. Nam * eiusmodi
pietatis est et
eorum errata qtios
ama«mus signanter introspicere
ut emendemus et
in*trospectis leviter undulgere
ne vexemus*. Da ciò
si vede che
il Pico considerava
V Ettaplo come
il suo lavoro
prediletto; e invero
esso Opera, 375.
191 e proprio
figlio del suo
spirito: tutto ciò
che aveva studiato,
sognato e amato,
egli lo aveva
trasfuso là dentro
e se in
qualcosa sperava ripromettersi perpetuità al
suo nome, era
appunto in esso,
che rimane del
resto anche per
noi l'espressione più notevole
del suo ingegno.
Frattanto non tardò a
venire la lettera
di risposta del
suo Ermolao, ch'egli
trovava quale si
era ripromesso, e cioè
piena di sentimento
e di parole
buone, vera immagine
di quell'anima semplice
e mite, che,
pur cosi erudito
passava allora per
uno dei più
eletti stilisti latini
— rifuggiva il
plauso esteriore, pago
unicamente della stima
degli amici. In
verità questi gli
corrisposero e più
di ogni altro
il nostro che,
esaltando i suoi
meriti letterari, esclamava: «Voglio,
o dottissimo Ermolao,
« che tu
sappia che ti
sono amicissimo e
che le • tue virtù
mi accendono alla
stima e venerazione
• per te,
così che a
nessuno, anche se
ti fosse •
consanguineo, permetterei di
amarti come ti • amo
io». Ai primi
del 1493 giunse
a Firenze la notizia
che Ermolao era
stato colto dalla
pestilenza che serpeggiava
allora nel Lazio;
il Pico e
il Poliziano n'ebbero
il cuore trafitto.
Il Pico volle
tentare di soccorrere
l'amico invian do Opera,
374-375. 192 dogli per
mezzo di un
corriere uno specifico
da lui stesso
comprato e che
credeva atto a
domare il morbo
pestilenziale. Ma quando
l'espresso arrivò a Roma,
Ermolao Barbaro era
già spirato. Contava
trentanove anni; con
lui spariva una
delle figure più
amabili del suo
tempo e più
che per le
sue opere letterarie
fra cui le
Castigationes plinianae erano
meritamente celebrate, egli
emergeva fra i
contemporanei per le
squisite doti del
suo cuore, doti
che solo in
parte possono trasfondersi
negli scritti e che la
morte porta inesorabilmente seco.
Per far meglio
intendere l'indole di
questo umanista, vogliamo
riferire in parte
la lettera che
scrisse alcuni mesi
prima di morire
ad Antonio Calvo,
il quale gli
annunziava la morte
del padre suo
Zaccaria avvenuta in
Venezia. Dopo d'aver
detto il rammarico
provato per non aver potuto
dalla terra d'esilio
andare a porgere
l'estremo saluto all'autore
dei suoi giorni,
soggiungeva: «Forse egli
andando sicuro incon«
tro alla morte,
era solo sollecito
del mio dolore;
« sono certo
eh' egli non
sapeva con che
animo « sopportassi
la mia sventura,
perchè se mi
avesse « veduto,
oh allora, senza
dolore sarebbe passato
« da questa
vita. Del resto
mi conforta il
pen« siero ch'egli
abbia lasciato il
mondo con la
co« scienza d'avere
fatto il proprio
dovere e di
avere 193 «
speso la sua
vita per il
bene della patria
e delia «famiglia.
A te raccomando
i miei fratelli,
sii loro «
consolatore in vece
mia e che
continuino ad «amare
il padre loro
oltre la tomba».
La perdita di
un sì caro
amico gettò un
velo di tristezza
sull'animo del Pico;
il pensiero di
rendersi utile alla Chiesa
divenne ora il
dominante fra ogni
altro. A farlo
persistere in esso contribuiva notevolmente l'influsso
che su di
lui esercitava la vita
austera di Girolamo
Savonarola. Dopo la
morte del Magnifico,
colui che in
Firenze aveva acquistato maggiore
autorità era il
frate predicatore, la cui eloquenza
dall'intonazione profetica, la cui vita
rigida e intemerata,
cominciavano a guadagnargli le
anime stanche della
vita 0 desiderose
di purificazione. Il
Pico, che già
da tempo conosceva
il frate , ora che
sentiva più urgente
il bisogno d'una
persona la quale
piij che amica
gli fosse guida
nel nuovo cammino, si
rivolse al frate
di San Marco
come all'albero maestro.
Riprese con fervore
le pratiche di pietà,
passava le ore
nella Biblioteca di
S. Marco a
conversare col Savonarola
di cose religiose,
riceveva con piacere
nella sua abita
li j Roma, 13
dicembre, 14^2. Dalle
Epistole del Poliziano ed.
cit. 518-20. (2;
Cfr. la Vita
del nipote. 194 zione
le visite di
coloro che desiderassero
intrattenersi in dotti e
cristiani argomenti. In
questo tempo, si
legge nella vita
scritta dal nipote,
il portamento del
Pico aveva assunto
un fare più
timido e contegnoso,
il suo volto,
di solito ilare
e calmo (vulio
hilari semper erat
et placido) ,
sembrava ora trasfigurato
dagli ardori mistici
cui si abbandonava.
Più volte fu
veduto col flagello
in mano (meisque
oculis saepius [cuncta
in Dei gloriam
redeant] flagellum vidi)
(4) macerare le
proprie carni per
espiare i falli
commessi e in
memoria della morte
in croce di
Cristo. Più nulla
poteva ormai commuoverlo
dal suo proposito.
Solo una cosa
lo avrebbe irritato,
se cioè vedesse
andar perduti certi
scrigni {nisi scrinia
quaedam deperirent) ripieni
delle sue elucubrazioni, frutto
di lunghe veglie
e che credeva
tornassero di grande
utilità alla Chiesa
di Dio. Se
il paragone non
fosse irriverente, diremmo
che uguale si
presenta in intensità l'attaccamento per
il denaro dell'avaro
che tiene sul cuore
le chiavi dello
scrigno ove sta
il suo tesoro,
e dell'umanista per
i libri e
gli scritti che
tiene nel suo
studio : l'uno
e l'altro ne
morrebbero di dolore se
vedessero andare distrutto
ciò che considerano
metà della loro
anima, come. Cfr.
la Vita del
nipote. (21195 secondo Pontico
Virunio, incanutì dal
cordoglio quell'umanista che
perdette in un
naufragio la cassa
contenente i libri
che portava dall'Oriente. Maffei.
Verona illustrata, Il,
134. Cosa tenesse
il Pico nei
suoi scrigni ce
lo dice il
nipote: una farragine di
lavori incompiuti, scritti
con carattere malagevole a
leggersi «di modo
che, come d'in •
gegno, cosi fu
si celere di
mano che, essendo
stato da «
giovane ottimo calligrafo,
finì quasi col
non intendere •
più egli stesso
ciò che aveva
scritto. Soleva anche
scri« vere or
qua or là
scrivendo cose nuove
sopra le vec •
chie, molte opere
interrompeva dopo d'averle
incomin«ciate». Egli allora
attendeva con più
di proposito a
un'opera in cui
si prometteva di
combattere i sette
nemici della Chiesa: gl'increduli,
i pagani, gli
ebrei, i maomettani, i
cattolici non osservanti
a quello cui
credono, gli astrologi
e gli eretici.
Di quest'opera solo
la parte in
cui prendeva a combattere gli
astrologi « egli
aveva, come •
dice il nipote,
compiuto e limato
in parte, e
noi con •
grande fatica potemmo
ricavare da un
esemplare tutto •
cancellato e stracciato
» (Vita). Poiché
il lavoro contro
gli astrologi, che
si compone di
dodici libri è
vastissimo, tenteremo di
esaminarlo brevemente più
oltre nel nostro
studio. X. L'assoluzione del
Pico. Risolazioue della
crisi nel misticismo.
Le « Disputationes
» . Sua morte.
Il 18 giugno
1493 giunse al
Pico, quasi improvvisamente, il sospirato
Breve di Alessandro VI
che lo assolveva
in seguito alla
relazione di una
Commissione, composta di
un vescovo, di
due cardinali e
del domenicano Paolo
da Genova, professore di
teologia e maestro
del palazzo apostolico da
ogni censura o
nota di eresia- Il
Breve, dopo aver
fatto la storia
della esamina delle
900 conclusioni, di cui alcune
erano state condannate
sotto Innocenzo Vili,
perchè erronee e contrarie
alla fede, viene
alla considerazione
dell'Apologia. « Inteso
poi il detto
pre« decesssore che
tu avevi pubblicato
un altro libro
« apologetico, dove
le medesime proposizioni
in« terpretavi in
un senso migliore
e cattolico, e
ne chiarivi l'intendimento giusta
la vera fede,
lo « stesso
predecessore volendo impedire
che le «
premesse proposizioni corrompessero
in qualun« que
modo i cuori
dei fedeli, vietò
la lettura del
« libro delle
predette novecento proposizioni,
però « dichiarando
che tu non
eri incorso per
tutto « questo
in alcuna censura,
siccome più ampia«
mente si contiene
nelle stesse lettere,
il te« nore
delle quali vogliamo
che qui si
abbia per «
espresso * . Qui
potrebbe affacciarsi la
questione se il
Breve di Alessandro
VI veniva a
contraddire la Bolla
di Innocenzo Vili,
ma noi non
crediamo necessario
indugiarci in essa
che ha dato
campo a vivaci
polemiche fra alcuni
pubblicisti rosminiani e
gesuiti della Civiltà Cattolica. Ci basti dire che vera e propria contraddizione
nei decreti dei due Documento citato da Berti nella Rivista Contemporanea Leone spedì a Pico un Breve col
quale permette al nipote di pubblicare le opere proprie e quelle dello zio. Per
questo Breve vedi Civiltà Cattolica. E per la Polemica vedi Rassegna Nazionale;
Civiltà Cattolica.Vedi anche Malavasi, Pico
della M. davanti al Tribunale della santa sede. Mirandola; Pagani, Rosmini (an.
Ili,, e Rassegna Nazionale pontefici non esiste; ciò che appai e invece e spiega tutto
è la diversità di temperamento nei due capi delia Chiesa. Il primo, invero, non
ha mai emesso un atto esplicito di scomunica contro Pico, ma soltanto tenne sospesa
questa minaccia come una spada di Damocle sul capo del Mirandolano, la quale vale a paralizzare la
sua attività e a tenere in angustia lo spirito di lui credente; Alessandro, d'indole
mono puntigliosa e meno proclive a cedere alle pressioni degl'invidiosi di Pico,
i quali sono per altro diradati, e che in fondo non aveva nessun risentimento
personale col nostro (si ricordi la frase
dei Pico a riguardo d'Innocenzo nell'Apologia), era portato ad interpretare nel modo più indulgente l'operato
del medesimo, il quale, del resto, era venuto sempre più accostandosi ai dettami
di S. Chiesa con una vita veramente pia, e ad indulgere tanto più verso quelli che,
per nobiltà di sangue, per sapere, per integrità di vita e religione ortodossa si
raccomandano la cui quiete e reputazione ci sta a cuore quando con Dio è lecito.
Questo Breve colmò di giubilo il cuore del
Mirandolano e valse a togliere quella specie di op Multa itidem vasa argentea prcciosasque
supellec« tilis partes in pauperum usus distribuit. Vita ecc. pressione che gli
si faceva sempre più penosa di mano in mano che si accostava al centro della vita
religiosa. Questa era ormai l'unica sua aspirazione, l'ideale verso cui tende il
suo pensiero e con cui spera di dare
inizio a una nuova vita. Riduce quindi al puro necessario le sue bisogna;
la mensa rese parca e frugale, vendendo parte del vasellame d'oro e d'argento per
distribuire il ricavato ai poveri verso i quali comincia a largheggiare in elemosine.
Volle essere riconoscente coi fedeli famigliari, lasciandoli usufruire liberamente
dei suoi poderi. Lascia all'amico Benivieni un fondo cospicuo onde all'occorrenza alleviasse le persone piìi indigenti
di Firenze, sopratutto dotasse le fanciulle bisognose, acciocché potessero maritarsi.
Considerando poi chiusa la sua vita nel mondo decide di fare il proprio testamento
che redatta e rifece il primo settembre dello
stesso anno e a cui fecero da testi Poliziano e Savonarola. Ivi dispone che l'Ospedale
di S. Maria Novella fosse erede universale de'suoi beni immobili, mentre di quelli mobili
elegge a erede il fratello Antonio verso il quale non voleva riuscire imparziale,
avendo già soddisfatto largamente al figlio del fratello Galeotto. Sciolto La vendita era stata fatta con strumento. Ceretti,
Sonetti inediti del C. G. P. Mirandola così
da ogni legame d'ordine finanziario, si trovò libero di dedicarsi a ciò che piìi
gli sta a cuore. Due erano le tendenze che
si contrastavano dentro di lui e l'imbarazzavano nella scelta: l'ordine religioso
dei frati predicatori cui appartene Savonarola, e la vita del pellegrino più aspra
di sacrifici e più libera nell'amore. Come luogo di ritiro pelle sue meditazioni,
si era scelto la villa della Fratta dove pochi ammette, per non essere distratto
dal suo raccoglimento: tra quei pochi era
Gianfrancesco. Un giorno, narra questi, mentre ci trovavamo a ragionare
del divino amore in un giardino dal quale l'occhio spazia lontano le prospettive
verdeggianti, mio zio proruppe in queste parole: Te lo confido in segreto, appena
avrò terminato certe mie elucubrazioni, darò il rimanente de'miei averi ai poveri,
e, giunito d’un crocefisso, scalzo, a piedi nudi, me n'andrò pellegrinando pel mondo a predicare Cristo alle città e alle
castella. Sembra che in questa missione egli trova la vera via alla sua anima irrequieta
e bramosa di agire in conformità delle sue libere aspirazioni. Non altro che per
questo egli si era Spigolature in Giorn.
stor. di L. I. Vita in negato una compagna, non altro che per esser libero egli
visse sempre errabondo senza una stabile dimora, benché abitasse più spesso a Firenze e talvolta a Ferrara.
E quando gli ardori mistici s’acquetavano e l'anima sua si ricompone in quell'equilibrio
normale di cui la sua fisonomia esteriore era la più soave espressione, pensa al
bianco saio di fra Girolamo, alla maestosa gravità che traspariva dalla magra figura
del predicatore, quando di sul pergamo del duomo colla mano che sembra scagliasse folgori, colla voce annunciante l'ira di Dio,
cogl’occhi accesi da quel furore profetico, suscita brividi di terrore sulla folla
degl’astanti; allora sentivasi trascinato nelle braccia di quell'ordine che pare
istituito per convertire a Dio colla predicazione
e la scienza teologica, gl’eretici e gì'increduli. A tale scopo cerca Pico di cimentarsi
con quelle discipline che suggerisce l'ascetica, per mettere a prova la sua capacità e l’attitudini
richieste ad un apostolato. È forse in questo periodo ch'egli compose le dodici
regole per eccitare e dirigere l'uomo nel combattimento spirituale. L'idea Vita,
\n Regulae XII partim excitantes, partim dirigentes hominem in pugna spirituali,
in Opera centrale di queste regole è la seguente: Non si deve rifuggire dalla via
della virtù perchè il cammino è aspro e difficile,
poiché anche la via dei piaceri ò seminata di spine e d’avversità; se si deve sostenere
in questo mondo una battaglia perenne, dato che la vita dell'uomo è una milizia
– volontaria H. P. Grice --, tanto vale combattere per una causa giusta e santa
qual'è quella che ci fa simili a Gesù Cristo il quale non ascese al cielo se non
per il martirio. Perciò Pico viene a
riconoscere che fra tutte le tentazioni dell'uomo quella che si deve combattere
e vincere è la superbia, radice di tutti i mali, contro la quale vi è solo un rimedio,
il pensare che Dio stesso s’umilia per noi sino alla morte di croce. A\entre da
una parte Pico per suo proprio uso scrive queste regole e cerca di metterle in pratica, SI homiiii vidctiir dura via \ irtuiis, quia continue oportet nos pugnare advcrsus carncm. et diabolum, et mundum
recordetur, quod quamcunque elegcrit vitam, etiam sccundum mundum, multa illi adversa,
tristia, incommoda, laboriosa paticnda sunt. Rcf. I. Sicut et caput nostrum Christus, non ascendit
in coclum, nisi per crucem. Rcg.
Ili. Quare super omnes tentationes,
homo debet maxime se munire, contra tentationem superbiac, quia radix omnium malorum superbia est, contra quod unicum
remedium est, cogitare semper, quod Deus se humiliavit prò nobis usque ad crucem
et mors. Rcg. XII. non trascura dall'altra
i suoi studi, massime in quanto potessero giovare in qualche misura alla Chiesa.
Si propone, come abbiamo detto, di combattere i nemici della religione e in particoiar
modo gl’astrologi, le cui elucubrazioni
piene di sofismi gli parevano incompatibili col dogma e colla fede. Poliziano,
venuto a sapere che Pico s’era accinto a questo lavoro contro l'astrologia, s’adopera
in qualche modo per contribuire alle fatiche dell'amico. In quel tempo legge nello
studio agl’uditori il suo poema Rusticus in cui, fra le altre cose, fa menzione
degl'influssi della luna sui vari lavori dei campi, conforme ai dettami d’Esiodo. Ora, egli scrive a Pico, io
cominciai fra me a dubitare se cotali osservazioni non avessero qualche fondamento
nella legge della natura o piuttosto non fossero derivate dalla superstizione del
volgo. Siccome tu stai scrivendo un libro pieno di dottrina contro gl’astrologi,
dove tratti appunto argomenti che hanno affinità con quelli da me svolti ad imifazione dell'antico poeta, così mi è sembrato d\ fare cosa a te giovevole
riassumere in una Quare quoniam tu nunc librum cum MAXIME – regole – H. P.
Grice -- componis adversus astrologos multiplici doctrina, magnisque argumentis
instructum. lettera ciò che si contiene nel mio poema e insieme anche le ragioni
che dei fenomeni ivi descritti sono date da Proclo, da altri e da me stesso. Poliziano,
che dopo la morte di Lorenzo aveva rivolto
tutta la sua devozione e il suo affetto al principe della Mirandola poiché egli
era del numero di quelli che, avendo servito per tutta la vita, e si serve in tante
maniere una persona, non possono rassegnarsi a vivere senza un protettore
scrivendo all'Antiquario, gli dipinge così al vivo l'amabilità del Mirandolano,
d’invogliarlo a sua volta a conoscere
l'uomo celebrato. Infatti l'Antiquario in una lettera a Riccio, dopo aver
accennato all’orazioni e all’opere filosofiche di Pico, nelle quali si rivela un
ingegno singolare, dice di sentirsi pieno d’ammirazione per uno che pello studio
abdica alle dovizie del suo ricco casato. E Poliziano, rispondendogli subito
dopo, gli dice d’aver fatto leggere la sua lettera allo stesso Pico, come a quegli
che era il vero oggetto delle sue lodi, e
che riceve dal Mirandolano quanto prima una lettera doctani. Politiani et aliorum
virorum illustrium, Epistolarum libri duodccim,
Basilea, POLIT., Epist., aciitam, cordatam, plenamqiie humanitatis. Il
nostro infatti gli scrive da Ferrara,
ringraziandolo delle benevoli espressioni a proprio riguardo, sicuro che Poliziano
sa interpretare il suo pensiero, poiché alle
muse non s’addice lo strepito d’un picchio anzi l'aspra voce d’un'anitra, com'è
la sua, di fronte al canto di due cigni, quali sono loro due. Il contenuto di questa
lettera di Pico, tradisce uno stato d'animo completamente estraneo a quello cui
sono intonate le lettere di Poliziano e dell'Antiquario; qui si sente dell'artificiosità,
fors'anche dell'ironia, prova che l'animo del nostro si è ormai ritratto d’ogni attaccamento mondano
e non vibra più a quell'entusiasmo che era si frequente nelle lettere anteriori.
Questo risalto deriva dalla comparazione della lettera di risposta
dell'Antiquario, in cui traspare quell'intima soddisfazione che nasce ogni volta
s’ottenga un attestato di deferenza da parte di qualche personalità eminente. Egli
dichiara che non ci tiene d'essere
paragonato a Poliziano, desiderando solo essere amato da Pico, per il quale
nutre POLIT., Opera. un affetto e un'ammirazione più antica di quel che non creda,
e il suo nome d’Antiquario ne è una prova. Ad ogni modo non nasconde questi sentimenti
per non venir meno a ciò che l'animo sente, e la lingua esprime, e, d'altra parte,
la di lui gloria 6 sì solida, che non ha bisogno di adulazione, egli ch’ha conseguito tra i nati degl’uomini
il nome di Fenice. Questo fascino ch’esercita la persona di Pico, invece di scemare,
sembra andasse crescendo cogl’anni. Ad altri letterati si chiede un giudizio, un'espressione
di simpatia, un apprezzamento qualsiasi; a Pico si chiede un sentimento d'amore;
non s’ambiscono le sue lodi o la sua ammirazione, si desidera essere da lui amati. E che veramente fosse felice l'Antiquario
d'essere stato onorato d’una lettera di Pico quoniam me nuper tuis littcris exornasti,
Io vediamo nelle parole scritte a Poliziano subito dopo. Dichiarandosi suo debitore
per averlo messo in corrispondenza col Pico, soggiunge: sapevo ch'egli è un amabile
compagno, ma non potevo supporre che divenisse così presto famigliare. Ho proprio notato come le sue lettere rivelino, oltre
ch’il sapere, l'innata bontà del suo animo. Quando lo vedi, digli che riguardi nelle
PoLiT., Episf., , questa lettera e datata da Milano mie lettere non ciò che vi è d'incolto,
ma la mia devozione per lui, e m’abbia come antiquario fra i suoi amici, poiché
la legge dell'affetto non può mai divenire antiquata. Il movimento decisamente mistico che aveva per centro Savonarola, alle cui prediche
traevano in folla sempre piiì frequenti gl’uditori,
aveva poco per volta attirato nella sua orbita tutti gl’uomini piìi in vista di
Firenze. Benivieni, che diverrà in seguito il poeta, per così dire, ufficiale delle
pie solennità colle quali il priore di S. Marco si studia di riformare i costumi,
rimase così vinto dal fascino di Savonarola che poco manca non desse alle fiamme le sue poesie d'amore,
che esprimevano un passato di vita leggera. Anche Ficino si sente scuotere
dall'eloquenza del predicatore, ch'egli chiama novello profeta, e rimane suo seguace
finché la fortuna fu favorevole al riformatore; mentre quando si tratta di confessarlo
nel momento della sventura, egli l’abbandona
vilmente con parole indegne d’un filosofo.
Pico piiì d’ogni altro subì l'influsso di Savonarola, al quale si sente legato
da vincoli d’ammirazione di lunga data, e per richiamare il quale da Reggio a Firenze
aveva speso i suoi buoni uffici POLIT., porta la stessa data, Rossi,
Il Quattrocento, Milano presso Lorenzo.
Il frate aveva acquistato tale impero sull'animo del nostro, da permettersi aspri
rimproveri al suo divoto che indugia ad entrare
nella vita religiosa, e gli presagiva gravi punizioni se non rispondesse al più presto alla voce che veniva
dall'alto. E Pico promette di vestire l'abito, appena avesse dato termine ai suoi
lavori in corso, che in fondo, dice, sarebbero tornati assai utili alla Chiesa.
Quasi tutti ormai sapevano dell'imminente pubblicazione dell'opera polemica del
Pico contro gl’astrologi di cui se ne
faceva ovunque un gran parlare; e
Ficino che, come sappiamo oltre essere filosofo era anche medico, e la sua
medicina aveva per fondamento molti postulati astrologici, comincia a pensare che
l'amico suo non avrebbe certo risparmiato alcune di quelle teorie che gl’erano care e che aveva sostenuto
negli scritti. Senza por tempo in mezzo, scrive a Poliziano, che condivideva l’opinioni del Conte e collabora alle sue ricerche
bibliografiche, una lettera, nella quale, facendo le viste di convenire con loro,
cerca di difendere quanto gl’era possibile salvare. Riferiamo parte della
lettera singolare: Contro molti astrologi, che come già i Giganti a Giove il cielo
torre tanto invano quanto empiamente si sforzano meritamente, Pico, figliuolo di
Pallade e VlLLARI, voi figliuolo
d'Ercole, spesso felicemente combattete. E io, come in tutta la mia vita
sempre sono stato del medesimo animo che voi, in questo studio ancora con voi m’unisco.
Gli platonici le celesti imagini degl’astronomi descritte, non riprovano, né si
studiano approvare. Ma Plotino di tali cose al tutto si ride, e io ne'miei commentari
sopra di lui, come suo interprete ugualmente
me ne fo beffe, parte nella sua autorità confidato, parte perchè nessuna certa
ragione ho di tal cosa. Ma nel mio libro della vita, com'io posso d'ogni luogo diligentemente
ricerco; non disprezzo al tutto quelle imagini, né tutte quelle regole refuto e
quivi narro le disposizioni dei segni e delle imagini non come appresso gli Platonici,
ma come appresso gl’astrologi ho osservato oltra di questo nel libro del Sole non tanto cose astronoonarola: il morto
suo conhdente; egli che aveva reso acuto colle sue recriminazioni quel dissidio
interiore che aveva fatto penare per tutta la vita il povero Mirandolano; egli che
avevi esacerbato coi suoi V, ultimi giorni ed alteralo colla sua .^ta dall’astinenze lo sguardo dolce e mansueto
del biondo. Ciò non basUva: ei dove perseguitare anche nel regn».
del riposo l'ombra di Pico e molestarla colle sue tetre predizioni. Ma coloro
che l'avevano amato sinceramente, ne sentirono tutta l'amarezza del vuoto lasciato;
e la sua morte immatura fa nascere più d'un sospetto. Si narra che (ierolamo ! pel dolore
della pi-rdila dell’amico, fosse sui .^i
darsi la morte. La frase di Savonarola non avrei mai creduto questo, la descrizione della malattia fatta dal nipote, in cui si parla del
gonharsi delle viscere e d’una febbre
insidiosissima, inhne la e tfatta alcuni anni dopo da e. ;;o di Casalmaggiore d’avere avvelenato (. lo tosegoc . dice il SA>arr() nei
Diari.) Pico di cui era segretario,
sono argomenti tutti che inducono a credere che la morte del Mirandolano non sia
stata naturale. Dorez che ha studiato sui vari
documenti la questione, emette due ipotesi: runa di carattere privato il
cui movente era esclusivamente uno scopo pecuniario; l'altra di natura politica,
e connessa coi Utrbidi giorni del 94 in cui
a Firenze si contrastavano partiti e tendenze diverse che mettevano capo, alcune
al papa, altre a Pietro De' Medici o a Carlo Vili. Fra le molte vittime non è escluso
che anche Pico, un tempo amico di Lorenzo
ed ora seguace del Frate, sia stato preso di mira come uno che aveva tradito la
causa dei Medici, Giorn. Stor. ecc. Un documento
del vivo rimpianto che lascia dietro di sé il Mirandolano, l’abbiamo in una lettera di Ficino, proprio dell'uomo
che, pel suo carattere incostante, ci parrebbe il meno degno di fede. Se il medico-filosofo
prova mai il nostalgico affetto per una persona amata, partita per sempre dalla vita,
fu senza dubbio nei giorni che seguirono la morte di Pico. Questa lettera ci mette
a nudo pell'unica volta forse, l'anima di Ficino, non spoglia però d’ogni finzione
allegorica, parlante nel suo linguaggio tronfio eppure accorato. Oh! Germano, scrive al Presidente della
Sorbona, desideri aver la conferma della morte di Pico,
vuoi accrescere il tuo dolore, poiché ora che non sei ben certo
se sia morto, ti duoli amaramente, credo che ti dorrai ancor di più quando te ne
sarai accertato. Ah, perchè, mio Germano, mi preghi di una tal cosa! Come vorrei
essere ancora in dubbio, né posso compiere questo pietoso ufficio senza piangere.
Il nostro Mirandolano ci ha lasciato il giorno stesso in «' cui
re Carlo entrava in Firenze, e
compensava i gemiti dei letterati coll'esultanza del popolo ch'egli liberava. Se non fosse stata la luce
apportata dal re di Francia, forse Firenze
non avrebbe mai veduto giorno più oscuro di quello in cui si è spento il luminare
di Mirandola. Con ilare fermezza passa Pico dall'ombra di questa vita come se passasse
dall'esiglio alla patria celeste. Qualche rara volta i sacerdoti concedono per un poco, agl’occhi dei profani, i misteri
più riposti e tosto li nascondono, così
Dio concede ai mortali questo divino filosofo, Pico della Mirandola, e lo
tolge. La morte di Pico tronca molte speranze e lascia in sospeso molti lavori di
cui s’attende il compimento. L'erede spirituale di Pico, quegli che pell'ingegno
e la non poca coltura, sembra più indicato a continuare l'opera del filosofo, era il nipote Gianfrancesco; a lui s’appuntarono
gli sguardi di tutti coloro cui sta a cuore vedere publicate l’opere inedite. Infatti
il libro contro gl’astrologi, di cui il manoscritto era in caratteri cosi indecifrabili
che lo stesso autore stenta a leggerli, Gian« francesco, al dire di Ficino, così pio, come intelligente, si sforza tuttora, quotidie, di
trarlo dalle tenebre, e il medesimo scrive la
vita e le opere dello zio. Da
te, poi, Gianfrancesco, gli
scrive fra Battista Mantovano, che
erediti le virtù dello zio, quasi che il suo spirito si sia trasfuso nel tuo come
quello di Elia in Eliseo, ci aspettiamo questo: che raccolga gl’opuscoli suoi i
quali, benché lasciati imperfetti, causa l'immatura morte, non possono non essere
dalla posterità degnamente letti, amati, adorati. Mantova. Il medesimo in una lettera
del 3 gennaio dell'anno seguente, narrandogli un sogno avuto in una notte giocondissima,
in cui il filosofo gli apparve, discutendo di cose arcane del cielo e della terra,
lo esorta a scrivere la vita dello zio della quale nessuno è meglio informato di
lui e più adatto a farlo, per essersi proposto d'imitarlo come un esemplare di sapienza e di religiosità. Essa, conclude, riuscirà di
grande conforto a tutti coloro che, come
me, hanno amato il filosofo e sofferto per la sua perdita un dolore più grande che
per quella di qualunque altro. Mi sono doluto si della morte di Merula, mio condiscepolo
e precettore e di quella d'Ermolao e del Poliziano, due uomini illustri; ma di gran
lunga superiore fu il cordoglio per quella del nostro Pico. Piangono la sua morte
l'eloquenza, l'arte, la filosofia e ogni speculazione, che trovarono in lui un degno cultore; ma tuttavia
egli non è morto invano, noi stimolati dal suo esempio ci sforzeremo di pervenire
là dov'egli gode già di essere pervenuto. Tale era il rimpianto che lasciava dietro
di sé il personaggio scomparso, tale la somma di pensieri, d’affetti, di care simpatie
che, a guisa di scia luminosa, traccia nel percorso della sua breve vita. Egli scompariva dagl’occhi di tutti in quel mezzo in cui s'incrocia
col fascino della giovinezza non ancor sfiorita tutto ciò che vi è di bello e di
profondo nella vita dell'uomo; e non è a stupirsi se nell'immaginazione dei contemporanei
tanto alto assurgesse colui che, per la bellezza della persona, pell'ingegno favorito
da una memoria prodigiosa, pell cuore sensibile a ogni impressione e per tutte quelle prerogative che non si possono tramandare cogli
scritti, dovette certo figurare uno di quegli uomini che sono il vanto e la meraviglia
di un secolo Fu osservato che il Rinascimento è l'epoca delle forti individualità
che spiccano con caratteri originali sull'amorfa moltitudine. Quelle individualità
che, come Farinata degli Liberti, il Conte Ugolino, Pier delle Vigne, Francesca
da Rimini, emergono nel mondo delle ombre
per opera del pensiero di Dante (e il pensiero precorre sempre l'azione) si realizzano
in carne ed ossa nei condottieri, nei commercianti, negli artisti, negli uomini
di Stato, nelle donne celebri del Rinascimento. Non pochi di questi personaggi giunsero
sino a noi e sono ancor vivi nella storia, non tanto per quello che hanno lasciato,
quanto per quello che hanno fatto; non tanto
per quello che hanno fatto quanto per quello che hanno suggerito ad altri di fare.
Borgia non ha lasciato nulla che giustifichi la fama che rende celebre il suo nome,
ma le sue gesta, il suo carattere, hanno gettato il loro forte riverbero nella mente
del Macchiavelli, il quale fu tratto a scrivere il Principe. E cosi dicasi di
tanti altri uomini di quel periodo glorioso
la fama dei quali giunge sino a noi per opera di scrittori e di biografi.
Altrettanto può dirsi di Pico della Mirandola, ir quale, se lasciò non pochi scritti,
non è già per questi che è ricordato, ma per le lodi di cui è stato insignito dai
contemporanei. Siamo qui dinanzi a un problema che non sempre è stato valutato adeguatamente.
È proprio vero che la grandezza di un uomo si debba misurare da ciò che ha lasciato,
da ciò che anche per i posteri può essere materia di esame? Se si dovesse risolvere
il problema in modo affermativo, allora molte figure storiche dovrebbero relegarsi
nell'oblio, fuori del quale esse rimangono tuttavìa chiare e sempre splendide. Ben
disse il Balbo che Cesare appare piìi grande di Pompeo per quello che ha lasciato,
ma non per quello che ha compiuto; certo
in questa assegnazione del compito non sempre la storia si rivela giusta e imparziale.
E non ci sembra privo di significato il detto del Leopardi quando afferma che la
gloria di un uomo dipende più dal caso che dal merito. Ma noi crediamo che la vera
soluzione del problema si abbia quando si tenga conto, oltre di ciò che può da noi
essere giudicato, anche dell'elemento di
quell'unanimità che è possibile riscontrare nei giudizi dei contemporanei
su di un dato personaggio. Perchè, torniamo a ripetere, non tutto ciò che vi è di
bello e di profondo nella vita può sempre tramandarsi cogli scritti, nei quali molte
particolarità che rientrano nella componente di una personalità storica, possono
essere trascurate o, comunque, taciute. E nel caso del Pico non tutto ciò che vi era di nobile e di affascinante in lui,
che lo rendeva così singolare in vita, si può vedere negli scritti suoi. Quindi
il nostro giudizio finale sul Pico oltre che da un esame della sua dottrina doveva
essere integrato da quanto scrissero e giudicarono i contemporanei. Ecco perchè
nello svolgere la sua vita e le sue opere, non potemmo trascurare anche le lettere
e i giudizi di alcuni uomini del suo tempo,
massime di quelli che vissero con lui nei pii!i intimi rapporti. Inoltre per meglio
ritrarre la figura del Mirandolano, abbiamo voluto seguire un metodo che, contrariamente
a quanto avviene negli studi d'indole storico-filosofica, seguisse lo svolgimento
del suo pensiero procedente di pari passo con lo sviluppo storico della sua vita.
Forse non saremo riusciti nel nostro intento,
e la monografia-profilo tra gli altri difetti presenterà quello di essere inordinata,
sconnessa, e poco chiara. Ma non dovremmo sperare indulgenza se in cambio potremo
dare la sensazione di essere rimasti sempre fedeli allo spirito del nostro autore?
Noi ci siamo adoperati a mettere in rilievo sopratutto ciò che nell'opera del Mirandolano
rispecchia fedelmente gli stati del suo
spirito, travagliato da una crisi interiore che si rivela piij intensa che negli
altri contemporanei. Il Ficino visse più del doppio del Pico e pure, benché si parJi
della sua conversione nel tempo in cui prese gli ordini sacri, non offre esempio
di quel doloroso dissidio che fece soffrir tanto il nostro autore. Il Poliziano
trasse sino alla tomba l'inalterabile serenità della sua anima ellenica. Il Pico che si era spinto col pensiero nei vari campi
del sapere, perseguendo un ideale che gli sfuggiva sempre, la concordia di tutti
i filosofi e di tutte le scuole, cominciò a provare quella specie di disillusione
che subentra con la coscienza dell'inanità dei propri sforzi. Dall'aere rarefatto
in cui l'avevano portato certe sue elucubrazioni, senti il bisogno di abbassarsi
un poco più vicino alla solida terra dell'esperienza
e di restringere i suoi studi a quegli argomenti che si fondano sulle incrollabili
basi dei pochi ma sicuri scrittori, le cui opere hanno sfidato i secoli. E infine,
non trovando più neFlo studio che aveva coltivato con tanta passione, la pienezza
cui anelava la sua anima irrequieta, pensò di darsi alla vita attiva del religioso
e di confondersi umile e negletto tra i
semplici del volgo dai quali aveva cercato di distaccarsi colle sue aristocratiche
teorie. Non v'è figura forse nella storia che, come quella di Pico della Mirandola,
si contrapponga con tanta evidenza al dottor Faust. Mentre questi, nauseato dei
libri e degli alambicchi della sua stanza solitaria in cui era invecchiato precocemente,
abbandona lo studio al quale invano aveva chiesto la soluzione degli enigmi piij affannosi, e si slancia
nella vita festante dove sorride il volto soave di Margherita; Pico invece lascia
giovane e bello la corte principesca con le sue caduche frivolezze, per il fascino
di ciò che vi è d'imperituro e non declina come la luce del giorno, per le idee
che illuminano i nascosi sentieri della verità a coloro che sanno formare in se
stessi gli organi atti a contemplarle. Ciò
che infine piace nel Pico, è di vedere in lui compendiati molti caratteri singolari
della stirpe italiana, che più di ogni altra sente il fascino della bellezza, della
gloria e sa per esse immolarsi. Questa nostra stirpe ha sempre dimostrato, fin da
quando nel Pantheon dei Cesari accoglieva tutte le divinità, di saper comprendere
ed apprezzare le manifestazioni religiose degli
altri popoli; e anche quando unificò gli spiriti nella religione
cattolica romana, diede prova della sua tolleranza in quella stessa Roma, in cui
all'ombra del Vaticano, potevano vivere indisturbati gli ebrei, che altrove erano
perseguitati e vilipesi. Ogni volta poi che questa stirpe fu colta da quelle profonde
crisi che non risparmiano alcun popolo, essa ha saputo riformarsi senza cadere
in quegli eccessi che fanno rompere ogni
rapporto col passato 0 che, abbandonandoci al caos rivoluzionario, ritardano, invece
di far avanzare, la civiltà. E noi assistiamo sovente a questo fenomeno che come
nella massa della nostra gente, si avvera nei singoli, e cioè, che quanto più il
volo della fantasia o lo slancio dell'ingegno li porta a varcare i confini della
tradizione e delle leggi civili e religiose, proprio allora succede un ritorno o,
meglio, un più forte sentimento di amore e di venerazione per la religione e le
usanze dei padri. Se è vero che nell'individuo sono compendiati tutti i caratteri
della specie, possiamo ritenere che, come pochi, riesce il Pico a compendiare queste
caratteristiche della razza italiana. Onde, nel modo istesso che egli soleva dire
che, se fosse vera la teoria pitagorica della trasmigrazione delle anime, avrebbe creduto che in Marsilio fosse redivivo
Platone; cosi noi potremmo dire, in senso metaforico, che in ciascuno di noi rivive
un poco dell'anima entusiasta e pugnace di Pico (iella Mirandola. Concludendo, il nostro j^iudizio sarà
diverso la quello pieno di rimpianto che di lui
e delle ne opere formularono i suoi contemporanei, se)ndo I quali la morte precoce impedì al suo
ingegno di raggiungere la pienezza degli anni maturi. La monografia -profilo che
abbiamo tentato di fare del Pico, ci induce a scartare, come assolutamente infondata,
questa opinione che potrebbe anche apparire a un esame superficiale ilella vita
del Mirandolano. Noi siamo del parere che il Pico non mori quando la sua carriera
letteraria era a mezzo, ma piuttosto quando
era compiuta. Se la morte lo sorprese, fu soltanto tlla svolta della sua vita, quando
già egli era per intraprendere un nuovo cammino. Il Pico se fosse ancora vissuto,
si sarebbe dato alla predicazione, a una vita di apostolato in servìgio della religione
cristiana: egli insomma non avrebbe più lavorato per la gloria del mondo e quindi
per la scienza, ma unicamente per la gloria
celeste e cioò per la sua anima. Già gli ultimi frammenti della sua produzione letteraria,
accusano i sentimenti di un morituro alla vita del mondo, di un nascituro a quel
genere di vita che, rinnegando il mondo e le sue comuni soddisfazioni, è una preparazione a una buona
morte. Il Pico poeta. Come abbiamo detto, tra la farragine di scritti che teneva
ne' suoi scrigni, egli aveva le Disputationes
e i versi raccolti in più libri i presumibilmente cinque); a quelle egli diede pubblicità,
e questi volle consegnare alle fiamme. Tuttavia qualche cosa sfuggi all'incendio:
una trentina di sonetti in volgare che, scoperti contemporaneamente dal Dorez e
dal Ceretti, furono publicati sulla fine del secolo scorso; e in latino alcuni distici
ad esaltazione della Bucolica di Benivieni i2j;un
breve epigramma laudativo a Poliziano
i3), e un carme elegiaco.
Dorez li pubblica in una rivista romana la
Nuova Rassegna e il Ceretti a Mirandola. Sono stampati. ^Ac.
74b delle opere del Benivieni stampate a Venezia per Nicola Zoppino e Vincentio Conipapagno) e in Opera. Poliziano espresse il
suo dolore in un epiragmma slg
"còv tcìxov perchè il
Pico diede alle fiamme le sue poesie. In ed. Del LUNGO, pagina 217, num.
LUI. Opera, 339, Dei quattro carmi
latini due: De expellendis Venere et cupidine e
In martyrem Laurentium Hymnus publicati nei Carmina III. Poet. appartengono al nipote. L'elegia In
Inudem Dei et prò oratione ad Deum facienda. Siccome poco o nulla possiamo dire
del Pico come poeta latino,
soffermiamoci alquanto sui suoi meriti come poeta italiano, attendendoci
all'edizione dei sonetti curata dal Ceretti. Il nostro scopo in questo breve esame
non è quello di risolvere una questione estetica e molto meno di offrire un testo
critico delle rime in volgare del Mirandolano; esso mira unicamente, in coerenza
all'indirizzo che abbiamo seguito nel corso del nostro studio, a indagare se anche nei componimenti poetici si rivela
qualche nuovo "lato della personalità del nostro autore. I sonetti del Pico
appaiono più esercitazioni scolastìche che espressione di stati d'animo; essi trattano
per lo più argomenti d'indole filosofica e morale. L'intonazione petrarchesca si
rivela sin da principio: Ed io sono esemplo al popol tutto il qual verso richiama
il noto sonetto del Petrarca che incomincia:
al popol tutto Favola fui gran tempo. Cosi dicasi del primo verso di quell'altro
sonetto: Spirto che reggi nel terrestre bosco che ricorda il petrarchesco: Spirto
gentil che quelle membra reggi. Tuttavia anche in alcuni di questi sonetti come
nel quarto della raccolta citata, non è difficile notare qualche sprazzo di luce,
un afflato poetico che dimostrano come Pico sapesse talvolta elevarsi colle proprie penne e l'ode
Ad Pctrum Medicem => (che insieme all'epigramma per il Poliziano
si trova nel cod. Laur. XC, sup. 37) sono d'argomento religioso, moraleggiante.
G. Bottiglioni, La Lirica Latina neUa 2.
metà del secolo XV in Annali della R. Scuola Normale di Pisa, nel cielo della poesia
5 . Un indice che il Mirandolano era anche
uno studioso di Dante lo abbiamo nel sonetto V, in cui tenta di esprimersi
con lo stile forte e solenne del Poeta, come nella quartina: Quinci colei, da cui mai non iscampa Scese nel
mondo e in alto precipizio Guida chi del gran primo benefìzio Grata memoria non
riscalda e avvampa. Nel sonetto VI c'è un'eco delle sue ansie di mistico, del suo
sospirare alla patria lontana che forse il presentimento della morte vicina rendeva tanto bella al pensoso giovane:
Non m'accorgeva, dico, ahimè infelice! Esser
qui in viaggio, esser qui posto in bando; Altrove esser la patria e la mia stanza.
C'è qui anche una visione tetra della vita che oscura le cose più leggiadre, come
i fiori che intristiscono sul loro stelo, le balde esistenze discoloro che avanzano
frementi di speranza e finiscono tòsto per cadere: E che quando l'uom crede ch'egli avanzi Spesso al
suol cade ed e'gran sonno dorme, E che seccarsi e diventar può informe Subito un
fior che verdeggiava dianzi. Ma se il suo pessimismo se così può denominarsi) è
appena momentaneo, egli non poteva ancora essere assalito dal dubbio assillante
dell'autore di Amleto, ne da tutto il travaglio del pensiero critico che troverà
la sua espressione nelle poesie del Leopardi.
11 Pico era ancora in quell'età in cui l'uomo appena s'inoltrava nelle vie del (5. Ci atteniamo airedizione del CERETTI, Sonetti
Inediti del Conte F G Mirandola, 189». Non hanno notevole interesse la canzone e
.1 sonetto che si trovano nella raccolta Delle Rime Scelte di GABRIEL G.OLITO, Vinesia, dubbio, sì ritraeva tosto inorridito
e abbracciava la croce come un'ancora di
salvezza. E mentre al mio passato erro pensando
Tengo fermo nel cor l'alta radice Di carità, di fede, e di speranza. E ci descrive
anche quando egli si distilla il cervello per decifrare gli antichi codici cui spera
di carpire qualche segreto; e come al chiaror della lampada, nell'alta quiete della
notte, fisso in quei punti oscuri che arrestano ogni slancio del pensiero, egli provasse l'ansia, il dolore fino alle lagrime
per ciò che invano sospirava di poter chiarire: Versan lagrime sempre le mie luci E pur quand' altri posa, il sol si parte, Non
men quando al ritorno scuote l'ombra Mentre il sudor distilla in qualche libro Pel
caldo a cui non trovo aura né ombra. Abbiamo accennato altrove come il Pico non
fosse di forti passioni, se si esclude quella per la gloria; non ebbe una forte passione per la donna, e anche
quando ne parla, non esprime nulla di suo e cade nella rettorica. Tale ci appare
il sonetto che incomincia: Era la donna mia pensosa e mesta nel quale il Pico fa
apparire il suo cuore nudo a guisa d'un messaggio a Madonna che, mossa alfine a
pietà, nell'umido suo seno allori'accolse. Né riesce più efficace quando per colorire
meglio dei sentimenti che non provava, ricorre alla mitologia. Così nel sonetto fX) Per
quel velo che porti agli occhi avvinto, pieno d' invocazioni a Venere, a Psiche
e a Cupido. Notevole nella sua forma esteriore è il sonetto che incomincia:
"Io mi sento da quello ch'era in pria Mutato da una piaga alta e soave,
che, anche tecnicamente, è uno dei meglio riusciti del nostro autore. Non privo d'interesse è il sonetto a forma di dialogo tra
Pa e Po, il quale appare anche nella Raccolta di Poesie italiane inedite di duecento
autori di Trucchi. Nel sonetto XII
sembra abbia coscienza della sua incapacità a trattare di amore, perchè mettendosi
a celebrare un grande personaggio del
tempo forse un Papa o Lorenzo il Magnifico immagina che Apollo Io consigli
a lasciare Amore e a cantare d'un chiaro splendore che alluma l'universo; e
riconosce che quando vuole emulare altri Petrarca riesce meno abile: e fatto emulo
altrui Spesso ad altrui mi fa parer men chiaro. Non privo di grazia appare il sonetto
nel quale Pico, che si ora innamorato di una donna da altri amata, la paragona a
una cerva inseguita da due cacciatori e incerta se fuggire o gustare il dolce miele. A\a il
poeta, commosso della sua sorte, poiché era In pericolo di cadere vittima del traditore,
esclama: Ed io di ciò me ne affanna molto Che m'accortala
del ricoperto fele, E mentre me ne doglio ella disparve. Forme e modi, come si vede,
convenzionali, come convenzionale è pure il sentimento della natura, non diverso
da quello che ci forniscono i modelli classici. Ecco come II Pico dipinge nel sonetto la campagna che si ridesta
al soffio primaverile: Chiara gemma più assai che chiaro Sole Quando apre l'anno
verde, e rivi e colli Orna di fresche e pallide viole! Ed ecco come parla dell'estate
nel sonetto XV: Era nella stagion quando il Sol rende A' due figli di Leda il bell'uffizio.
Quando ch'io giunsi all'ombra d'un ospizio
Ove natura le sue forze estende. L'amore
ei lo fa nascere: Quando la terra Si riveste di un verde e bel colore; 242 e questo amore è il dio platonico che non
muore mai: Ojfendeti la morte o la vecchiezza? No, che rinasco mille volte al giorno.
Ma quando il suo pensiero da soggetti frivoli o comuni, passa ad argomenti più elevati,
per esempio a quello di patria, allora pare che si ridestino in lui i nobili sensi
della sua stirpe guerriera, e la sua penna
sa foggiare parole taglienti come lama acuminata. Dopo avere notato come il prestigio
che un tempo aveva l'Italia stia per passare oltr'Alpe, e specialmente in quella
Gallia che doveva, proprio nel giorno della sua morte, mettere il piede ferrato
sull'Itali^ egli allora guarda la patria
italiana come a un'ombra dell'Inferno dantesco: Allora mi parca come del ceco Regno di Dite stanno i spirti bui; Che si conosce
un ben quando é perduto. Ed è pieno di reminiscenze dantesche la chiusa del sonetto:
E quando il danno tuo fìa conosciuto Intenderai, se avrem da pianger teco. Dicendo:
non sai più quella eh' io fui. Anche le competizioni di parte, le lotte intestine,
le guerre fratricide tra città e città, tra regione e regione, trovano un'eco nel
sensibile suo cuore. Egli, che aveva studiato
e agito per trovare una conciliazione fra le idee, per perseguire il suo ideale
di pace fra gli uomini, deve constatare che questi non cessano di combattersi fra
loro in forma violenta e sanguinaria. II
sonetto XVII è l'espressione del suo cuore
angustiato di figlio di questa misera Italia, e sebbene si senta l'ispirazione di
Dante, pure il Pico sa rendere abbastanza
la sincerità del suo sentimento. Misera Italia, e tutta Europa intorno Che
il tuo gran padre Papa giace e vende. Marzocho a palla gioca e lunge stende. La
Biscia è pregna ed ha in sul capo un corno. Fernando infuria e vendica il gran scorno, San Marco bada, pesca e poco prende, La
vincta Biscia ora S. Giorfiio offende, La Lupa a scampo veglia notte e giorno. Nulla
di notevole preserftano i cinque sonetti
che compaiono nella seconda parte della raccolta; prevale in essi l'intonazione
filosofica. Ciò che si rileva è l'aspirazione del poeta ad elevarsi dagli amori
frivoli e passeggeri di questo mondo a quell'unico amore che arde sempre nella inalterata
beatitudine. Egli che aveva provato le pene, le gelosie, i languori degli amanti:
Uno star divoto più che divino Basi, sussurri,
risi: in un momento Mi han fatto servo: e
dir non so di cui. ebbe però anche la forza di dominarsi e di drizzare l'occhio
alla contemplazione del sempiterno bene: e degno obietto Nel guai ogni sua forza
ha posto il Cielo E veramente pur me stesso
lodo Che a tanta electionc hebbi intelletto Levando totalmente a gli occhi il velo.
Dopo questo sommario esame dei sonetti,
la figura del Mirandolano ci rivela un altro lato della sua caratteristica
personalità. E se alle opere filosofiche egli deve maggiormente la sua celebrità
presso i contemporanei, e se per esse lo riteniamo degno di studio noi moderni,
non dobbiamo misconoscere anche i suoi meriti letterari. Noi riteniamo che non sia
lecito tacere del suo contributo, modesto quanto si voglia, alla letteratura italiana, le cui manifestazioni se furono cosi
splendide nel cinquecento, ciò si deve al solerte lavoro di preparazione, di prove,
di conati che caratterizzano il quattrocento, del quale il Pico se fu l'ultimo in ordine di tempo, non fu l'ultimo per merito e importanza.
Sul contenuto e sul valore delle poesie del Pico esiste un lavoro di Testa, Pico
della Mirandola e i suoi contributi in rima alla lirica del Quattrocento, Aquila, che noi non riuscimmo, per quante ricerche fatte, a trovare.
In Rassegna Bibliografica d.
L. Italiana, an. Vedi la
recensione del Flamini alla publicazione dei sonetti fatta da Dorez e da
Ceretti. Cfr. pure Giornale stor. di
Leti. Italiana, e la Rivista Abruzzese. Vedi infine Giorn. stor. di Letteratura Italiana. Giovanni
Semprini. Semprini. Keywords: il deuteuro-esperanto di Grice, PICO (vedasi). Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Semprini.” Semprini.
Luigi Speranza -- Grice e Senea: la ragione conversazionale della scuola
di Caulonia – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Caulonia). Filosofo italiano. Caulonia,
Reggio Calabria, Calabria. A Pythagorian cited by Giamblico.
Luigi Speranza -- Grice e Senocrate: la ragione conversazionale della
scuola di Metaponto – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Metaponto). Filosofo
italiano. Metaponto, Calabria. Pythagorean. Giamblico.
Luigi Speranza -- Grice e Senofante: la ragione conversazionale della
scuola di Metaponto – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Metaponto). Filosofo
italiano. Metaponto, Calabria. Pythagorean – Giamblico.
Luigi Speranza -- Grice e Serbati: la ragione
conversazionale del divino nella filosofia italiana – la scuola di Rovereto -- filosofia
trentina -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Rovereto). Filosofo italiano. Rovereto, Trento,
Trentino-Alto Adge. Important Italian philosopher. Frequenta l’imperial regio ginnasio. Studia a Padova. A
questo proposito i famigliari raccontavano come, fin dalla più tenera età,
legge alla luce della sua aureola. E in occasione della venuta a Rovereto
del vescovo di Chioggia per consacrare le chiese di S. Maria del Carmine e di S.
Croce, appartenente all'omonimo monastero, che, prendendo parte alla cerimonia,
ottenne il diaconato. Mostra una profonda inclinazione per la FILOSOFIA,
incoraggiato in tal senso da Pio VII. Si trasfere a Milano dove strinse
un profondo rapporto d'amicizia con Manzoni che di lui ebbe a dire -- è una
delle sei o sette intelligenze che più onorano l'umanità. Manzoni assistette S.
sul letto di morte, da cui trasse il testamento spirituale "Adorare,
Tacere, Gioire". La sua filosofia destarono l'ammirazione, tra gli altri,
anche di Stefani, Tommaseo e Gioberti dei quali pure divenne amico. Dopo
aver dovuto lasciare il Trentino, per motivi di forte ostilità per le sue
posizioni incontrati da parte del vescovo di Trento fonda al Sacro Monte
Calvario di Domodossola la congregazione religiosa dell'Istituto della Carità,
detta dei "S.ani". Le Costituzioni della nuova famiglia religiosa,
contenute in un libro che cura per tutta la vita, sono approvate da Gregorio
XVI. A Borgomanero svolge la sua attività di insegnamento e di guida spirituale
in un collegio S.ano, il "Collegio S.", regolato dalla Congregazione
della Provvidenza S.ane. Svolge una missione diplomatica per conto del Re
di Sardegna Carlo Alberto presso la Santa Sede. E presidente
dell'Accademia Roveretana degl’Agiati ed il suo posto, anni dopo la sua morte fu
assunto da Paoli, suo segretario ed esecutore delle volontà, già direttore di
Casa S.. Tra le sue volontà del vi e anche quella di donare a Rovereto un
terreno nell'attuale zona di S. Maria per costruirvi l'ospedale cittadino, e
Paoli onora tale decisione. Porta avanti tesi filosofiche tese a
contrastare sia l'illuminismo che il sensismo. Sottolineando l'inalienabilità
dei diritti naturali della persona, fra i quali quello della proprietà privata,
entrò in polemica con il socialismo e il comunismo, postulando uno Stato il cui
intervento fosse ridotto ai minimi termini. Nelle sue teorie il filosofo seguì
le concezioni di Agostino e AQUINO, rifacendosi anche a Platone. I suoi esordi
filosofici si ricollegano a GALLUPPI, sia pure polemicamente, in quanto S. avverte
con ogni chiarezza come risulti insostenibile una posizione di integrale
sensismo gnoseologico. La necessità di concepire una funzione ordinatrice
dell'esperienza, e a questa precedente, porta S. a guardare con interesse la
filosofia di Kant. Tuttavia non è soddisfatto di ciò che lui chiama l'innatismo
kantiano, legato ad una pluralità imbarazzante e precaria di categorie. Le
quali, d'altra parte, gli sembrano fallire lo scopo di far conoscere il reale
quale esso è, per la necessaria introduzione di modifiche soggettive nell'atto
stesso del conoscere. Il problema filosofico di S. si configurava perciò
come quello di garantire oggettività alla conoscenza. La soluzione non potrà
essere trovata, stante il rifiuto della trascendentalità kantiana e dei
connessi sviluppi, se non in una ricerca ontologica, in un principio oggettivo
di verità, che riesca ad illuminare l'intelligenza in quanto le si proponga con
immediata evidenza, universalità e immutabilità. Questo principio è per S.
l'idea dell'essere possibile, che da indeterminato contenuto dell'intelligenza,
quale originariamente è, si fa determinato allorché viene applicato ai dati
forniti dal senso. Essa precede e informa di sé tutti i giudizi con cui
affermiamo che qualche cosa particolare esiste. L'idea dell'essere, dunque,
costituisce l'unico contenuto della mente che non abbia origine dai sensi, ed è
perciò innata (“Saggio sull'origine delle idee”). Ma qui i problemi del
kantismo, che sembrano superati o almeno messi da parte, si riaffacciano con
urgenza: di fronte al mero ricevere dati, di cui parlava il sensismo, ha
chiarito che la mente umana nel suo uso conoscitivo formula giudizi, in cui
l'idea dell'essere ha funzione di predicato, cioè di categoria, e la sensazione
è il soggetto, di cui si predica qualche cosa. Nel giudizio, inoltre, il
predicato si determina e la sensazione si certifica: se questa è la funzione
propria del giudicare, ogni concetto non può sussistere che come predicato di
un giudizio; né a questa necessità sembra potersi sottrarre il concetto di
essere, che è dato solo nell'attività giudicante, come forma del
giudizio. Tuttavia non accetta tale riduzione, ed esclude proprio il
predicato di esistenza della funzione del giudizio, continuando ad attribuirgli
una natura oggettiva e trascendente. È l'essere trascendente che si rivela
all'uomo, lo illumina e gli permette di pensare. Chi lo nega come il nichilismo
cade in una vuota posizione nullista. Accanto a questa ontologia la sua etica
si sviluppa come etica caritativa (Principio della scienza morale). Dedica alla
politica una breve ma intensa fase della sua vita. Seguì Pio IX riparato a
Gaeta dopo la proclamazione della Repubblica Romana, ma la sua formazione
attestatasi su ferme posizioni di cattolicesimo liberale e tale per cui e
costretto a ritirarsi sul Lago Maggiore, a Stresa. Tuttavia, quando Pio IX vuole
istituire una commissione incaricata della preparazione del testo per la
definizione del dogma dell'immacolata concezione, nonostante ben due suoi saggi
(Le cinque piaghe della Chiesa e La costituzione secondo la giustizia sociale) sono
all'Indice. Chiamato a prendere parte a tale commissione, e favorevole allo stato
liberale (vagheggiando la monarchia costituzionale), al costituzionalismo e
anche alla separazione tra stato e chiesa, sebbene non assoluta. Critica lo
Statuto Albertino proprio per il suo porre ancora il cattolicesimo come
religione di stato, elogiandone comunque il tentativo distensivo nei confronti
della Santa Sede. Critica la legge laicista ed anti-clericale. Si convince della
sostanziale bontà della maggior parte delle conquiste dell'età moderna,
criticandone solo le modalità: in tale ottica, critica sia la rivoluzione
francese che l'Ancient Regime, riconoscendo invece la sostanziale bontà dei
princìpi sanciti, distinguendoli dalle successive de-generazioni rivoluzionarie,
in polemica con chi, da una parte e dall'altra, sostene una società perfettista.
Continua a vivere a Stresa, fecondo nel perseguire il perfezionamento del suo
sistema di pensiero con saggi come “Logica” e “Psicologia”. Ratzinger, quando
la questione S.ana era ancora ben accesa, nell'ambito di una serata organizzata
a Lugano, dice. Nel confronto con le parole classiche della fede che sembrano
così lontane da noi, anche il presente diventa più ricco di quanto sarebbe se
rimanesse chiuso solo in se stesso. Vi sono naturalmente anche tra i teologi
ortodossi molti spiriti poco illuminati e molti ripetitori di ciò che è già
stato detto. Ma ciò succede ovunque; del resto la letteratura dozzinale è
cresciuta in modo particolarmente rapido proprio là dove si è inneggiato più
forte alla cosiddetta creatività. Io stesso per lungo tempo avevo l'impressione
che i cosiddetti eretici fossero per una lettura più interessante dei teologi
della chiesa, almeno nell'epoca moderna. Ma se io ora guardo i grandi e
fedeli maestri, da Mohler a Newman a Scheeben, da S. a Guardini, o nel nostro
tempo de Lubac, Congar, Balthasar quanto più attuale è la loro parola rispetto
a quella di coloro in cui è scomparso il soggetto comunitario della
Chiesa. In loro diventa chiaro anche qualcos'altro: il pluralismo non
nasce dal fatto che uno lo cerca, ma proprio dal fatto che uno, con le sue
forze e nel suo tempo, non vuole nient'altro che la verità. Per volerla
davvero, si esige tuttavia anche che uno non faccia di se stesso il criterio,
ma accetti il giudizio più grande, che è dato nella fede della Chiesa, come
voce e via della verità. Del resto io penso che vale la stessa regola
anche per le nuove grandi correnti della teologia, che oggi sono ricercate:
teologa africana, latinoamericana, asiatica, ecc. La grande teologia francese
non è nata per il fatto che si voleva fare qualcosa di francese, ma perché non
si presumeva di cercare nient'altro che la verità e di esprimerla più
adeguatamente possibile. E così questa teologia è diventata anche tanto
francese quanto universale. La stessa cosa vale per la grande teologia
italiana, tedesca, spagnola. Ciò vale sempre. Solo l'assenza di questa
intenzione esplicita è fruttuosa. E di fatto non abbiamo davvero raggiunto la
cosa più importante se noi ci siamo convalidati da soli, ci siamo accreditati
da soli e ci siamo costruiti un monumento per noi stessi. Abbiamo
veramente raggiunto la meta più importante se siamo giunti più vicino alla
verità. Essa non è mai noiosa, mai uniforme, perché il nostro spirito non la
contempla che in rifrazioni parziali; tuttavia essa è nello stesso tempo la
forza che ci unisce. E solo il pluralismo, che è rivolto all'unità, è veramente
grande. Pio VIII dice a S., in udienza. È volontà di Dio che voi vi occupiate
nella filosofia. Tale è la vostra vocazione. Ella maneggia assai bene la
logica, e la Chiesa al presente ha gran bisogno di filosofi. Dico, di filosofi
solidi, di cui abbiamo somma scarsezza. Per influire utilmente sugl’uomini, non
rimane oggidì altro mezzo che quello di prenderli colla ragione, e per mezzo di
questa condurli alla religione. Tenetevi certo, che voi potrete recare un
vantaggio assai maggiore al prossimo occupandovi nello scrivere, che non
esercitando qualunque altra opera del Sacro Ministero. Gregorio XVI, successore
di Pio VIII, in risposta alla lettera che S. gli aveva indirizzato. Diletto
Figlio, a te il nostro saluto e la nostra Apostolica Benedizione. Abbiamo
volentieri e con animo lieto ricevuto la tua lettera con i sensi della tua
devota sommissione a Noi e alla Sede Apostolica in cui ci parli della pia
Società, chiamata Istituto della Carità e che con le tue fatiche è stata
fondata nel territorio della diocesi di Novara con l'approvazione del Vescovo.
E soprattutto ci hai anche informato che il medesimo Istituto è stato da poco
chiamato anche dal Vescovo di Trento nella sua diocesi e che qui molti
ecclesiastici, di provate virtù, vi hanno aderito. Per questi fatti davvero
rendiamo il nostro umile grazie a Dio autore di ogni bene. E quantunque questo
Istituto non sia stato ancora confermato dall'autorità di questa Santa Sede,
tuttavia speriamo in bene di esso e ci allietiamo che lo stesso si dilati con
il consenso dei nostri Venerabili Fratelli nell'Episcopato. Quindi, per quanto
riguarda le Sante Indulgenze connesse a questo istituto, che domandi siano
concesse, ricevi diletto figlio il nostro Rescritto unito a questa lettera, da
cui sicuramente comprenderai che rispondiamo positivamente alla tua richiesta.
Ti assicuriamo anche che ci è pervenuto il libro sopra i Principi della
Dottrina Morale da te edito e mandatoci in omaggio e ti dichiariamo il grazie
del nostro animo per il dono. Tuttavia per la tensione nelle gravissime fatiche
del Governo Apostolico non abbiamo ancora letto lo stesso libro, ma siamo
certamente persuasi che esso sia in tutto conforme alla più sana dottrina e
utilissimo alla sua difesa. Continua dunque, diletto figlio, lo studio e
prosegui a spendere le tue fatiche ad onore di Dio per l'utilità della Chiesa;
in Cielo sarà copiosa la ricompensa per la tua opera. Frattanto la paterna
carità con cui ti abbracciamo nell'umanità di Cristo sia pegno dell'apostolica
benedizione, che sgorgante dall'intimo del cuore ti impartiamo.» (Da
Breve pontificio di Gregorio P.P.XVI,) Pio IX rivolgendosi al Vescovo di
Cremona dopo il decreto Dimittantur opera omnia parlando di S. disse:
«Non solo è un buon cattolico, ma santo: Iddio si serve dei santi per far
trionfare la verità. Leone XIII, al tempo delle aspre e dolorose lotte che si
svolgevano intorno al pensiero S.ano sul finire del diciannovesimo secolo, in
una lettera indirizzata agli arcivescovi di Milano, Torino e Vercelli, fra
l'altro scrisse: «Ma non vogliamo che con questo abbia a patir detrimento
il religioso Sodalizio della Carità; il quale come per lo innanzi spese
utilmente le sue fatiche a beneficio del prossimo, secondo lo spirito
dell'Istituto, così è desiderabile che fiorisca in avvenire e prosegua a
rendere ognora più abbondanti frutti. Col decreto del Sant'Uffizio "Post
Obitum" firmato da Leone XIII,
vennero condannate, in quanto "non conformi alla verità cattolica", XL
proposizioni contenute nelle opere del S., le quali la Sacra Congregazione
romana "giudicò doversi riprovare, condannare e proscrivere, nel proprio
senso dell’autore", chiarendo inoltre che non era lecito "a
chicchessia di inferire, che le altre dottrine del medesimo Autore, che non
vengono condannate per questo decreto, siano per veruna guisa
approvate". Giovanni XXIII, negli ultimi anni della sua vita, meditò
in ritiro spirituale le S.ane "Massime di Perfezione Cristiana",
assumendole come propria regola di condotta. Anche Paolo VI prestò interesse
nel S.: in occasione dell’anniversario di fondazione dell'Istituto della Carità
inviò un messaggio all'allora padre generale, in cui elogiava l'intuizione del S.
nel dare un grande peso alla missione caritativa già nel nome del nativo
istituto religioso, appunto l'Istituto della Carità. Pubblicamente Paolo VI lo cita
durante il discorso tenuto alla Federazione Universitaria Cattolica
Italiana riguardante la cultura
cattolica e l'Europa. Inoltre sotto il suo pontificato venne tolto il divieto
di pubblicazione dell'opera Dalle Cinque Piaghe della Santa Chiesa. Alla
morte di Paolo VI venne eletto Giovanni Paolo I, laureato in sacra teologia
alla Gregoriana con il saggio, “L'origine dell'anima umana”. È bene precisare
che Luciani e fortemente critico nei riguardi del pensiero S.ano, solo
successivamente cambiò opinione, rivolgendo nei riguardi di S. parole di
ammirazione e stima. Tuttavia fu con il pontificato di Giovanni Paolo II
che il pensiero S.ano ha potuto liberarsi delle aspre critiche e delle condanne
che accompagnavano l'Istituto della Carità fin dai tempi della sua fondazione.
Nella Lettera Enciclica Fides et ratio, Giovanni Paolo II l’annoverato tra i
pensatori più recenti nei quali si realizza un fecondo incontro tra sapere
filosofico e Parola di Dio». Ne ha inoltre concesso l'introduzione della causa
di beatificazione, conclusasi nella sua fase diocesana novarese. Ratzinger da prefetto della Congregazione per
la Dottrina della Fede emana il famoso documento Nota ai Decreti dottrinali sul
Rev.do sac. S.. La nota si concludeva confermando la validità del decreto Post
obitum sulle quaranta proposizioni, e allo stesso tempo con la riabilitazione
di S.: «Il Decreto dottrinale Post obitum non si riferisce al giudizio
sulla negazione formale di verità di fede da parte dell'Autore, ma piuttosto al
fatto che il sistema filosofico-teologico del S. era ritenuto insufficiente e
inadeguato a custodire ed esporre alcune verità della dottrina cattolica, pur
riconosciute e confessate dall'Autore stesso. Si possono attualmente
considerare ormai superati i motivi di preoccupazione e di difficoltà
dottrinali e prudenziali, che hanno determinato la promulgazione del Decreto
Post obitum di condanna di quaranta proposizioni. E ciò a motivo del fatto che
il senso delle proposizioni, così inteso e condannato dal medesimo decreto, non
appartiene in realtà alla sua autentica posizione, ma a possibili implicanze.
Resta tuttavia affidata al dibattito teoretico la questione della plausibilità
o meno del sistema S.ano stesso, della sua consistenza speculativa e delle
teorie o ipotesi filosofiche e teologiche in esso espresse. Nello stesso tempo
rimane la validità oggettiva del Decreto Post obitum in rapporto al dettato
delle proposizioni condannate, per chi le legge, al di fuori del contesto di
pensiero S.ano, in un'ottica idealista, ontologista e con un significato
contrario alla fede e alla dottrina Cattolica. Il documento ribadisce la
diversità di linguaggio e apparato concettuale del sistema S.ano rispetto al
tomismo, l'assenza di apparato critico nelle opere postume e la permanente
"difficoltà oggettiva di interpretarne le categorie, soprattutto se lette
nella prospettiva neotomista". Benedetto XVI autorizza la
Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto sul miracolo della
guarigione di Ludovica Noè, attribuito alla sua intercessione. Tra quelli
portati dalla postulazione dei padri S.ani, si è scelto di dare maggiore
impulso a quello della guarigione della suora sopracitata, poiché il medico che
la curò si convertì in seguito all'accaduto. Il cardinale Angelo
Bagnasco, presidente della CEI, a margine del Convegno sulla sfida educativa
tenuto a Milano, ha tenuto un intervento intitolato "Istanze educative e
questione antropologica" in cui riconosce le sue istanze pedagogiche. A.
Bagnasco ha presieduto a Stresa la celebrazione eucaristica per il suo Dies
Natalis. Nel corso dell'Angelus domenicale e ricordato per la sola carità
intellettuale e perché testimonia la virtù della carità in tutte le sue
dimensioni e ad alto livello. Avversario del sensismo e dell'illuminismo e mentore
e maestro intellettuale di quattro pontefici eletti consecutivamente: Giovanni
XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I e II. Nulla osta della Congregazione
per la dottrina della fede che consente l'inizio della causa di beatificazione.
Apertura del processo informativo diocesano dopo la nomina dei censori teologi
e delle commissioni storiche in Novara. C. Papa diventa postulatore della causa
succedendo a Belti, storico dell'Istituto e già Direttore del Centro di Studi S.ani
di Stresa. Chiusura del Processo informativo Diocesano. Consegna del Trasunto
alla Congregazione per le cause dei Santi. Apertura del Trasunto. Decreto di
Validità del processo diocesano. Schema per la stesura della Positio. Consegna
del lavoro sul Post obitum curato dal Postulatore. Il Relatore generale approva
il lavoro sul Post obitum e il lumen oculorum tuorum Consegna del lavoro sul
Post obitum alla Congregazione per la Dottrina della Fede.Il giorno
dell'anniversario della morte di S. viene pubblicata sull'Osservatore Romano la
Nota della Congregazione per la dottrina della fede sul valore dei decreti
dottrinali concernenti il pensiero e le opere del Rev.do sacerdote S., a firma
del cardinal Ratzinger e di mons. Bertone.
Rilascio del Nihil obstare per la Causa di Beatificazione. Il Relatore approva e firma la Positio. Conclusione della stampa e consegna alla
Congregazione per le cause dei santi della Positio. Consegna del Trasunto super
miro alla Congregazione per le cause dei santi. Validità dell'inquisizione
diocesana sul processo super miro. Presentazione fattispecie super miro. Revisa
della fattispecie con firma del sotto-segretario. Relatio et vota del Congresso
Storico (con esito positivo). Relatio et vota del Congresso teologico super
virtutibus (con esito positivo). Ordinaria della Congregazione per le cause dei
santi: esito affermativo. Ponente della Causa
Fisichella. Benedetto XVI
autorizza la Congregazione per le Cause dei Santi a promulgare il decreto di
esercizio eroico delle virtù. La Consulta medica della Congregazione per le
Cause dai Santi, si esprime con esito affermativo (all'unanimità 5 su 5) circa
l'inspiegabilità scientifica dell'evento di guarigione avvenuto a Noè. Il
presunto evento miracoloso è avvenuto. Al termine del dibattito, i Consultori
si sono unanimemente espressi con voto affermativo (7 su 7), ravvisando nella
guarigione in esame un miracolo operato da Dio per intercessione Benedetto XVI
autorizza la pubblicazione da parte della Congregazione per le Cause dei Santi
del riconoscimento della virtù eroica di S.. A Novara si celebra la beatificazione
dando lettura del decreto di Benedetto XVI che l’iscrive tra i beati. La
beatificazione è avvenuta a Novara: appositamente è stato fatto allestire il
Palasport della città, unico luogo capace di raccogliere un numero di fedeli
così significativo. Con il pontificato di Benedetto XVI le beatificazioni
vengono preferibilmente celebrate dai cardinali, per rendere ancora più piena
la comunione tra loro e il successore di Pietro, e viene privilegiato il luogo
in cui il candidato agli onori degli altari ha vissuto. Così, in qualità di
delegato pontificio, la celebrazione è stata officiata da J. Martins, allora prefetto della
congregazione per le Cause dei Santi. A fianco dell'altare erano disposti gli
spalti da cui hanno concelebrato circa 400 sacerdoti, non soltanto S.ani.
A prendere parte alla processione e celebrare sull'altare, insieme al preposito
generale Flynn c'era il segretario generale dell'Istituto Domenico Mariani con
gli allora componenti della Curia Generalizia dell'Istituto della Carità, il
Vicario per la Carità SpiritualeCrish Fuse, il Vicario per la Carità
Intellettuale Taverna Patron, il Vicario per la Carità TemporaleDavid Tobin,
l'allora preposito della Provincia Italiana don U. Muratore (profondo
conoscitore di S.) e il postulatore della Causa di Beatificazione, Papa.
Hanno partecipato alla celebrazione anche il cardinale ex prefetto della Sacra
Congregazione per i vescovi Re, il cardinale arcivescovo di Torino S. Poletto,
il vescovo di Novara, mons. R. Corti, l'arcivescovo di Trento, mons. Bressan,
il vescovo S.ano mons. Antonio Riboldi e fra gli altri anche G. Zaccheo (che
sarebbe improvvisamente scomparso due giorni dopo), vescovo della Diocesi di
Casale Monferrato, mons. Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea (che durante
la III sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II fece per primo il nome di S.),
l'allora segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana G. Betori, G.
Lajolo, presidente del Governatorato della Città del Vaticano, l'allora rettore
della Pontificia Università Lateranense, mons. Rino Fisichella, il Vicario
Episcopale per la Vita Consacrata dell'arcidiocesi di Milano monsignor Ambrogio
Piantanida e il preposito generale dei barnabiti, padre Villa. Tra i
numerosissimi fedeli (più di diecimila) accorsi da diverse parti del mondo per
presenziare alla celebrazione, hanno preso parte anche personalità
politiche. Tra queste il senatore a vita Scalfaro, l'allora presidente
del Senato, Marini, e Parisi, al tempo Ministro della Difesa. S. è il primo
beato della Provincia del Verbano Cusio Ossola. In occasione della
beatificazione sono stati moltissimi i quotidiani e periodici italiani e esteri
che hanno dedicato articoli, pagine e interi numeri alla figura di S.. Sono
numerosissimi i suoi saggi. Certamente il più importante a livello ascetico e
spirituale e le “Sei massime di perfezione”, su cui anche Giovanni XXIII fa
delle riflessioni prima di morire. Gli costarono la messa all'Indice dei libri
proibiti le opere "Delle cinque piaghe della santa chiesa" e
"Dalla costituzione secondo la giustizia sociale". In filosofiia
meritano di essere ricordato il “Saggio sull'origine delle idee”. Altri saggi:
“Principii della scienza morale”; “Filosofia della morale”; “Antropologia in
servigio della scienza morale”; “Filosofia della politica”; “Trattato della
coscienza morale”; “Filosofia del diritto”; “Teodicea”; “Sull'unità d'Italia”;
“Il comunismo e il socialismo”. Le sei massime di perfezione sono formulate per
definire il fondamento spirituale sul quale ogno uomo puo avere un cammino
nella perfezione. Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste (Matteo
5,48). Desiderare unicamente ed infinitamente di piacere a Dio, cioè di essere
giusto. Orientare tutti i propri pensieri e le azioni all'incremento e alla
gloria della Chiesa di Cristo. Rimanere in perfetta tranquillità circa
tutto ciò che avviene per disposizione di Dio riguardo alla Chiesa di Cristo,
lavorando per essa secondo la chiamata di Dio. Abbandonare se stesso
nella provvidenza di Dio. Riconoscere intimamente il proprio nulla.
Disporre tutte le occupazioni della propria vita con uno spirito di
intelligenza. Di particolare interesse e “Le cinque piaghe della santa
Chiesa". Mostra odi discostarsi dall'ortodossia dell'epoca. Per tale
ragione il saggio fu messo all'Indice e ne scaturì una polemica nota col nome
di "questione S.ana". L'opera eriscoperta al Concilio Vaticano II. Il
primo a parlare al Concilio di S. e Bettazzi. Mi sia consentito ricordare S.,
molto legato ad Aquino. Ma anche studioso e amante del suo tempo, e che
certamente guadagna a Cristo non pochi uomini. Tutto questo mi sembra si
accordi con le cose che sono state già dette da non pochi padri su questo
schema in generale, che cioè gl’uomini non si aspettano dalla Chiesa soluzioni
particolari, ma piuttosto la presentazione di valori che li aiutino a
trascorrere questa vita umana più nobilmente e con maggiore sicurezza. Parlando
della libertà, esaltare i valori dell'umiltà. Parlando del matrimonio, il ruolo
della fortezza. Parlando dei problemi economici e di molti altri problemi,
l'efficacia di un certo disprezzo delle cose. Occorre dunque mettere in luce la
necessità dell'ubbidienza, della castità, della povertà, non solo nella vita e
nell'esempio (e nella Bozza di Documento!) dei religiosi, aiuto agl’uomini di
questo tempo, perché possano vivere la loro vita umana nel modo migliore e più
efficace. Il primo e principale compito dunque per gl’uomoni che coltivano la
sapienza dev'essere, alla luce del Magistero, l'amore delle Scritture e l'amore
di questo mondo in un colloquio franco e aperto. Paolo VI dice. I suoi saggi
sono pieni di pensiero, una filosofia profondo, originale che spazia in tutti i
campi: quello filosofico, morale, politico, sociale, sopra-naturale, religioso,
ascetic -- filosofia degna di essere conosciuta e divulgata. È stato anche un
profeta. Le Cinque piaghe della Chiesa (una volta la chiesa non aveva piacere
che si mettessero in luce le sue mancanze, le sue debolezze). Previde
partecipazione liturgica del popolo. La sua filosofia indica uno spirito degno
di essere conosciuto, imitato e forse invocato anche come protettore dal Cielo.
Ve lo auguriamo di cuore. “Delle cinque piaghe della santa chiesa” è suddiviso
in cinque capitoli corrispondenti ciascuna ad una piaga, paragonata alle piaghe
di Cristo. In ogni capitolo la struttura è la medesima: un quadro
ottimistico della Chiesa antica segue un fatto nuovo che cambia la situazione
generale (invasioni barbariche, nascita di una società cristiana, ingresso dei
vescovi nella politica) la piaga i rimedi. La prima piaga e la divisione del
popolo dal clero nel culto pubblico. Nell'antichità romana, il culto era un
mezzo di catechesi e formazione e il popolo partecipava al culto. Poi, le
invasioni barbariche, la scomparsa della lingua dei romana, la scarsa
istruzione del popolo, la tendenza del clero a formare una casta hanno eretto
un muro di divisione tra il popolo e i ministri di Dio. Rimedi proposti:
insegnamento della lingua romana, spiegazione delle cerimonie liturgiche, uso
di messalini in italiano. La seconda piaga e l’nsufficiente educazione del
clero. Se un tempo i preti erano educati dai vescovi, ora ci sono i seminari
con piccoli libri e piccoli maestri: dura critica alla scolastica, ma
soprattutto ai catechismi. Rimedio: necessità di unire scienza e pietà. La
terza piaga e la disunione tra i vescovi. Critica serrata ai vescovi
dell'ancien régime: occupazioni politiche estranee al ministero sacerdotale,
ambizione, servilismo verso il governo, preoccupazione di difendere ad ogni
costo i beni ecclesiastici, schiavi di uomini mollemente vestiti anziché
apostoli liberi di un Cristo ignudo. Rimedi: riserve sulla difesa del
patrimonio ecclesiastico, accenni espliciti di consenso alle tesi dell'Avenir
sulla rinunzia alle ricchezze e allo stipendio statale per riavere la
libertà. La quarta piaga e la nomina dei vescovi lasciata al potere
temporale. Compie un'approfondita analisi storica sull'evoluzione del problema
e critica i concordati moderni con cui la S. Sede ha ceduto la nomina al potere
statale (e, accenna prudentemente, per avere compensi economici). Rimedi:
propone un ritorno all'elezione dei vescovi da parte dei fedeli. La quinta
piaga e la servitù dei beni ecclesiastici. Sostiene la necessità di offerte
libere, non imposte d'autorità con l'appoggio dello Stato, rileva i danni del
sistema beneficiale, propone la rinuncia ai privilegi e la pubblicazione dei
bilanci. A Rovereto gli ha dedicato il liceo che frequentò quando ancora
si chiamava Imperiale e Regio Ginnasio. Borgomanero ospita l'Istituto S..
Domodossola ospita il liceo delle Scienze Umane "S. (istituto parificato).
Roma ospita la sede dell'Istituto Comprensivo. Torino ospita la biblioteca
Antonio S. del polo biomedico universitario che in passato fu un istituto
scolastico attivo fino alla fine del XX secolo. Trento, dove si trova il liceo
"S.". Farina, Prosser Prosser
Bonazza, L'Accademia Roveretana degli Agiati, su agiati, Accademia Roveretana
degli Agiati, «Paoli artefice della
rinascita dell'Accademia e suo president. Ragionamento sul comunismo e
socialismo, Grondona, Genova, Questa tesi fu messa in discussione da Abbà a cui
S. controbatté nel Diario filosofico di Adolfo, Riv. S.ana, Pagani Rossi. Nota
sul valore dei Decreti dottrinali concernenti il pensiero e le opere). Angelus: S., esempio per la Chiesa, su
agensir, Biografia di S. su vatican. Istituto S., su S. borgomanero. Liceo delle
Scienze Umane su cercalatuascuola.istruzione. Istituto Comprensivo S., su ic-S.
Biblioteca S., su biomedico campusnet.unito. su vivoscuola. M. Farina, Gl’Agiati, Brescia,
Morcelliana Edizioni, Italo Prosser, El
pra' de le Móneghe: cronistoria del monastero di S. Croce nell'antico comune di
Lizzana, Rovereto (Trento), Stella, Approfondimenti Sciacca, La filosofia
morale di S., Torino, Bocca, Pusineri, S. (Edizione riveduta e aggiornata da Belti), Stresa, Edizioni S.ane Sodalitas,
Dossi, Profilo filosofico di S., Brescia, Morcelliana, Valle, S. Il carisma del
fondatore, Rovereto, Longo Editore, Marangon, Il Risorgimento della Chiesa.
Genesi e ricezione delle "Cinque piaghe" di S., collana Italia Sacra,
Roma, Herder, S., Frammenti di una storia della empietà, a c. di Cattabiani con
una nota filologica di Albertazzi, Trento, La Finestra, Giorgi, S. e il suo
tempo. L'educazione dell'uomo moderno tra riforma della filosofia e
rinnovamento della Chiesa Brescia, Morcelliana, Dossi, Il Santo Probito, La
vita e il pensiero di S., Trento, Il Margine, Gomarasca, La forma morale
dell'essere. La poiesi del bene come destino della metafisica, Milano, Angeli,
Paoli, S., Virtù quotidiane, Verona, Edizioni Fede e Cultura, Paoli, Maestro e profeta, Milano, Edizioni San
Paolo, Sapienza, Eclissi Dell'educazione? La sfida educativa nel pensiero di S.,
Roma, Libreria Editrice Vaticana, Giuseppe Goisis, Il pensiero politico di S. e
altri saggi fra critica ed Evangelo, S. Pietro in Cariano, Gabrielli, Comunità
di San Leolino, Una profezia per la Chiesa. Verso il Vaticano II, Panzano in
Chianti, Feeria-Comunità di San Leolino Muratore, S. per il Risorgimento. Tra
unità e federalismo, Stresa, S.nane Sodalitas, Bergamaschi, S. La perfezione
della vita cristiana, Stresa, S.ane Sodalitas, Malusa, S. per l'unità d'Italia.
Tra aspirazione nazionale e fede cristiana, Milano, FrancoAngeli,. Domenico
Fisichella, Il caso S. Cattolicesimo, nazione, federalismo, (Roma, Carocci); Muratore,
Apologia della fedeltà. In difesa dei valori etici e spirituali, Stresa, S.ane
Sodalitas, Malusa, Stefania Zanardi, Le lettere di S., un "cantiere"
per lo studioso. Introduzione all'epistolario S.ano, Venezia, Marsilio, Zanardi,
La filosofia di S. di fronte alla Congregazione dell'Indice Milano, Franco Angeli.
Treccani Dizionario di storia, Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Crusca. In S.
l'attenzione ai fatti di lingua e la speculazione sul fenomeno del linguaggio
furono non meno vive di quelle di Manzoni, esercitate però con sensibilità,
impostazioni e modalità differenti26. L'origine del linguaggio, in particolare,
seppur poco appariscente, è un tema delicato e importante del suo sistema
filosofico e ricorre a varie riprese lungo tutta la sua opera, talvolta con
brevi cenni indiretti talaltra in forme più estese. Una trattazione piuttosto ampia si trova già
nel saggio Sui confini dell'umana ragione ne' giudizi intorno alla divina Provvidenza
che costitusce il primo libro della Teodicea, ai capitoli 17-21, sotto la
rubrica della 'quarta limitazione dell'umana ragione', la quale recita: «La mente umana non può produrre a sé
medesima veruna scienza, senza che gliene venga dastraniera cagione proposta la
materia»27. Questo implica che prima della azione degli esseri sussistenti' la
mente umana è una tabula rasa, incapace come tale di astrarre senza lo stimolo
di segni che in qualche modo rendano sussistenti gli astratti (88-89). In altre
parole, «l'uomo conosce solamente quello
che a Dio piace di manifestargli
naturalmente soprannaturalmente»
(94), ossia il mondo fisico (96) e i contenuti della rivelazione (97). Dono di Dio non può che essere anche il mezzo
per passare dall'uno agli altri, ossia il lin-guaggio, perché la rivelazione -
principio paolino - si fonda sull'udito e inoltre presuppone già esistente la
facoltà di astrazione: pertanto «l'uomo non potea dare a se stesso il
linguaggio: onde egli ripete dal Creatore anche questo mezzo di conoscere»
(99). La funzione semiotica è condizione
necessaria della conoscenza, in quanto l'uomo «senza i segni non potea né pure
concepire gli astratti; e qui, diversamente che altrove, segni vuol dire
senz'altro parole, e precisamente i nomi di qualità. È questo il punto cruciale
della questione: non c'è astrazione senza segni-parole, ma i segni-parole
presuppongono le astrazioni. Evidentemente, dunque, l'uomo riceve dall'esterno,
cioè da Dio, il primo nucleo motore, già formato, di segni-parole. La tesi
dell'origine divina, già nettamente delineata,
trova così la sua enunciazione esplicita: Erano necessarj all'uomo segni esterni a'
quali la mente associasse e legasse le astrazioni: né egli poteva dargli a se
stesso, mentre per inventarli sarebbono state necessarie quelle astrazioni
medesime, che, senza i vocaboli, egli non può, come dicevamo, possedere. Dunque
Iddio donò all'uomo una lingua, quel Maestro supremo gli insegnò l'uso d'alcune
voci, nelle quali apparissero quasi sussistenti all'esterno le astrazioni
insieme con esse contemplate; queste voci poterono chiamare a sé l'attenzione
dell'umana mente (102)28. Tali 'voci', prosegue S., poterono essere i
nomi che, conforme al racconto biblico, Dio attribuì a ciascuna delle opere
della creazione al fine di renderle conoscibili (106), e costituirono le prime
astrazioni, in grado di mediare tra il visibile e l'invisibile. Non dovette trattarsi insomma di un
insegnamento esplicito del linguaggio, bensì della sua trasmissione indiretta
unitamente alle verità della salvezza: «Quindi le eterne verità furono, io mi
credo, al linguaggio incorporate e con esso insieme insegnate» (108), e con
esso altresì, «nella forma materiale della lingua quasi in arca ben chiusa»,
custodite e tramandate di padre in figlio pur nel variare storico dei sistemi
linguistici (114). La sapienza e il linguaggio,dunque, «furono dati all'uomo
congiunti nella stessa guisa, sarem per dire, come furon creati congiunti alla
materia i suoi accidenti» (112). Non per nulla la Bibbia attribuisce allo
Spirito santo il dono delle lingue: Pare adunque che l'ispirato scrittore
voglia farci intendere con tali parole, come l'invenzione del favellare non
poteva esser opera proporzionata alle brevi forze dell'uomo, giacché richiedeva
nell'inventore universale sapienza. Di vero, egli è tutt'altra cosa usare della
favella dopo averla apparata, ed inventarla senza che alcuno insegnata ce
l'abbia. Chi avesse dovuto inventare l'umana favella, non avrebbe forse
incontrato insuperabile difficoltà nella nominazione delle cose sensibili e
sussistenti; ma un passo insuperabile, come dicevamo, avrebbe dovuto trovare
nel dare le voci agli astratti, giacché gli astratti non li percepiva, non li
sentiva né in se stessi, né in qualche loro segno che a lui li mostrasse. Nel
Nuovo saggio, com'è ovvio, quello delle funzioni del linguaggio e della sua
origine, nel senso gnoseologicamente ed epistemologicamente più pregnante, è un
tema cruciale che sarebbe interessante seguire analiticamente lungo le quattro
edizioni dell'opera curate dall'autore stesso. Non potendo farlo in questa
sede, e riconoscendo che «S. non è tutto nel
Nuovo saggio»30, mi limiterò a qualche annotazione utile nel prosieguo
del discorso. Intanto, occorre rilevare
che la critica alla teoria sensista dell'origine del linguaggio non è
sviluppata nel capitolo espressamente dedicato a Condillac (del quale lì viene
discusso unicamente il Traité des sensations) bensì di fatto nel capitolo su
Dugald Stewart, dove S. avverte che il discorso svolto contro di lui, ovvero
contro Smith, vale né più né meno per tutti i sostenitori del romanzetto di
questo selvaggio» inventore e segnatamente per Condillac, al quale peraltro
riconosce il merito di «aver chiamata l'attenzione de' filosofi sulla mutua
relazione della favella e del pensiero. E notiamo per inciso che alcune delle
contestazioni al «misterio metafisico del lockismo, e il tono ironico con cui
sono avanzate, torneranno molto simili nelle pagine di Manzoni. Per mostrare come nel 1830, data della prima
edizione, l'impostazione S.ana siaancora sostanzialmente quella del saggio poi
confluito nella Teodicea, riporterò soltanto due brani. Il primo è la
conclusione di una nota facente parte della lunga critica alla teoria della
precedenza dei nomi propri sui nomi comuni, sostenuta da Stewart sulla scorta
delle Considerations concerning the first formation of languages di Smith; il
punto, osserva S., è sapere come la
mente possa pervenire alle prime astrazioni, e conclude: Ora la mia opinione sopra di ciò la espressi
già nel Saggio sui confini della ragione umana. Io dimostrai in quel luogo, che
l'uomo avea bisogno d'essere ajutato e mosso a ciò da qualche segno esterno
(lingua), che segnasse la cosa astratta da se sola; e tale che fosse atto a
eccitare e tirare la sua attenzione e nella sola qualità astratta concentrarla.
E fu di qui che io dedussi l'impossibilità che avea l'uomo d'inventare da se
stesso un linguaggio completo e accomodato a' suoi bisogni. Il secondo brano, anch'esso in nota, rientra
nella dimostrazione del linguaggio quale ragion sufficiente per l'astrazione, e
accanto alla presa di distanza da Bonald, presenta una distinzione molto
importante. Avvertasi - scrive S. - che qui non è mio intendimento
d'investigare, se il linguaggio sia d'origine divina od umana; avvegnaché da
quanto fin qui ho ragionato la cosa manifestamente apparisca»; ed ecco la
nota: È impossibile inventare il
linguaggio da una mente umana che non possegga idee astratte; perciocché
nessuno può mai dare un segno ad idee che non ha. Quindi è vera e bella la
sentenza di Rousseau, «che non si poteva inventare il linguaggio, senza il
linguaggio»; se non che conveniva restringerla entro i confini di quella parte
di linguaggio, che le idee astratte riguarda, la quale è la più nobile, e
formale parte delle lingue. Non essendo stata fatta questa divisione, Rousseau
potè intravedere una verità rilevantissima, ma non dimostrarla; né a me è noto
che alcuno n'abbia, dopo di lui (né pure il sig. Bonald), data una rigorosa dimostrazione. Ma
restringendo la proposizione di Rousseau alle idee, e vocaboli astratti, io
credo che mi sia riuscito di dare quella dimostrazione rigorosa che può tor via
ogni dubbio dalla questione; ed il lettore può ben da sé ravvisarla e
comprenderla ne' principi che espongo in questo articolo sul linguaggio, e da
ciò che ho scritto nel Saggio sui confini dell'umana ragione. La distinzione in realtà apre nel tessuto
teorico della tesi una smagliatura le cui conseguenze vedremo poco oltre; e
Manzoni avrebbe potuto ripetere che nelle 'condizioni necessarie per essere una
lingua' non si danno gradi, nemmeno di astrazione: si è o non si è una
lingua».apparire fra le pieghe del discorso nell'Antropologia soprannaturale,
dove l'autore sta al gioco condillacchiano di immaginare la condizione umana
primordiale, e scrive: Supponiamo
adunque l'uomo nelle pure condizioni naturali, non privo però degli stimoli
esterni, senza i quali le sue potenze inerti e quasi raggomitolate in sé non
avrebbero potuto avere nessuno sviluppamento; e fra questi stimoli esteriori
uopo è che gli supponiamo data altresì la favella colla qual solo vien tratta
all'azione la sua potenza di riflettere e d'astrarre, e quindi esce in atto la
sua libertà ligata senza di ciò e nulla operante; la qual favella tale che gli
bastasse, non potrebbe mai trovarla egli medesimo. La fictio speculativa si prolunga - poco
manzonianamente, in verità! - in una minuta discettazione intorno alla lingua
primitiva dell'umanità, «argomento bellissimo. Basato sull'ipotesi «che Iddio
abbia il primo parlato all'uomo primitivo insegnando in tal modo agli uomini ad
astrarre, il gioco ha termine con la conclusione secondo la quale «la lingua
primitiva è parte divina, e parte umana. Una conclusione conciliatoria e però
rischiosa, ma che permette a S. di non entrare in contraddizione con se stesso,
perché se è vero che la parte umana è, come aveva scritto nel Nuovo saggio, la
più nobile e formale', la parte divina è quella primaria e fondamentale. Pur con qualche sfumatura, dunque, la
posizione iniziale del saggio è mantenuta lungo tutti gli anni Trenta, e la si
ritrova immutata ancora al momento della riedizione come primo libro della
Teodicea. Senonché di lì a poco tale posizione risulterà modificata in un modo
assai significativo, se non capovolta. Possiamo fare un primo tentativo di
ricostruzione, se non di spiegazione. Se
torniamo ai due brani già citati della Teodicea e li rileggiamo con le
correzioni apportate a mano dall'autore (praticamente le sole modifiche di
contenuto in tutto il libro) su un'esemplare dell'edizione Pogliani, troviamo
un ragionamento più articolato e in definitiva una tesi differente. Primo brano
della Teodicea (le modifiche sono evidenziate in corsivo): Erano necessarj all'uomo segni esterni a'
quali la mente associasse e legasse le astrazioni: né egli poteva dargli a se
stesso fin ch'era solo, ché per inventarli sarebbono state necessarie quelle
astrazioni medesime, che, senza i vocaboli, egli non può, come dicevamo,
possedere. E dato ancora che, aggiunta la sua compagna per le necessità del
convivere, avessero i due coniugi trovati, con un solo attocomplesso, i segni e
gli astratti; qual lungo tempo ci sarebbe bisognato ad arricchirsene in qualche
copia? e con quella scelta che era necessaria pel progresso morale, e per elevare
le loro menti alle cose invisibili? Dunque Iddio donò all'uomo una lingua, quel
Maestro supremo gli insegnò l'uso d'alcune voci, nelle quali apparissero quasi
sussistenti all'esterno le astrazioni insieme con esse contemplate; queste voci poterono chiamare a sé
l'attenzione dell'umana mente. Secondo
brano della Teodicea: Pare adunque che
l'ispirato scrittore voglia farci intendere con tali parole, come l'invenzione
del favellare non poteva esser opera proporzionata alle brevi forze dell'uomo,
giacché richiedeva nell'inventore universale sapienza. Di vero, egli è
tutt'altra cosa usare della favella dopo averla apparata, ed inventarla senza
che alcuno insegnata ce l'abbia. Chi avesse dovuto inventare l'umana favella,
non avrebbe forse incontrato insuperabile difficoltà nella nominazione delle
cose sensibili e sussistenti; ma un passo difficilissimo, come dicevamo,
avrebbe dovuto trovare nel dare le voci agli astratti, ché gli astratti non li
percepiva, non li sentiva né in se stessi, né in qualche loro segno che a lui
si mostrasse. Come si vede, la conferma dell'origine divina si accompagna
all'ammissione di una pos-sibile, seppur poco probabile, formazione umana.
Resta fermo che ai segni-parole l'uomo non può pervenire con le sole proprie
risorse né da solo (entrambe le condizioni sono importanti); ma ai fini
dell'innesco della conoscenza, oltre all'intervento esterno da parte di Dio
mediante il dono dei primi segni-parole, in linea di principio è sostenibile
l'ipotesi che l'uomo acquisisca i segni-parole in società coi suoi simili mediante
degli atti unitari complessi semiotico-astrattivi. I due brani tratti dal Nuovo saggio, rimasti
inalterati lungo le prime tre edizioni, subiscono nell'edizione definitiva un
adattamento analogo, e anzi più marcato, per apprezzare il quale il solo
corsivo non è sufficiente ma bisogna leggere insieme le due versioni. Primo
brano del Nuovo saggio: Ora l'uomo ha
bisogno di essere aiutato a ciò da qualche segno esterno (lingua) che segni la
cosa astratta da se sola; e tale che sia atto a fissare la sua attenzione, e
nella sola qualità astratta concentrarla. Di qui l'impossibilità che l'uomo
solitario inventi da se stesso col suo puro pensiero un linguaggio, che a ciò
gli serva. Nel secondo brano del Nuovo
saggio cambia anche il testo a cui la nota è apposta: Avvertasi, che qui non è
mio intendimento d'entrare nella questione del fatto, se il linguaggio sia
d'origine divina od umana; e né pure nella questione filosofica della
possibilità»; ed ecco la nuova nota: È
impossibile inventare il linguaggio ad una mente umana prima che posseda delle
idee astratte; ché nes-suno può dare un segno a idee che non ha. Quindi la
sentenza di Rousseau, «che non si poteva inventare il linguaggio senza il
linguaggio» si deve restringere entro i confini di quella parte di linguaggio,
che le idee astratte riguarda. Non essendo stata fatta questa distinzione, il
Rousseau potè intravedere una verità, ma non dimostrarla; né a me è noto che
alcuno n'abbia, dopo di lui (né pure il sig. Bonald), data una rigorosa
dimostrazione. Restringendo dunque la proposizione del Rousseau alle idee, e
vocaboli astratti, ell'ha un fondo di verità. In primo luogo non si può
inventare il linguaggio da alcun uomo segregato dalla società de suoi simili,
nel quale stato né egli ha l'occasione di comunicare i suoi bisogni e pensieri
agli altri, né gli altri possono comunicar i loro. Ponendo poi un individuo
umano coesistente con altri uomini privi di linguaggio, due questioni si
possono fare. La prima, se quegli uomini potrebbero inventare un linguaggio prima
d'aver formate alcune astrazioni, o potrebbero formare queste astrazioni prima
d'avere inventato qualche linguaggio o de' segni, e rispondiamo negativamente.
La seconda, se potrebbero fare queste due cose contemporaneamente, cioè trovare
de' segni e coll'atto stesso formare delle astrazioni», e questo non lo
crediamo impossibile. Una considerazione
più attenta della natura costitutivamente sociale e altresì sistematica del
linguaggio ha condotto S. a modificare il proprio convincimento iniziale: non
si tratta più di singoli individui alle prese con singoli segni-parole, bensì
di comunità che danno forma a un sistema linguistico. Scrive infatti
nell'Antropologia soprannaturale: Se prendiamo una parola isolatamente
dall'altra non mostra veruna similitudine coll'idea, che per essa si esprime.
Ma all'incontro pigliando l'intiero discorso, cioè una serie di parole
avvedutamente ordinate, trovasi tosto una corrispondenza colla serie de'
pensieri. Egli è per questo, che le lingue sono sistemi di segni così
eccellenti che possono esprimere tutte le cose.
Può aver contribuito al ripensamento in questa direzione lo studio
attento delle prime produzioni linguistiche della nipotina Marietta, consegnato
nelle analisi e riflessioni - semplicemente straordinarie - del paragrafo del
Rinnovamento della filosofia. Ma non escluderei un'eco teorica dell'insistenza
manzoniana sul concetto di 'interezza' delle lingue; la si sente risuonare
ancora, per esempio, nella definizione di lingua data nella tarda Logica: un
sistema di segni vocali o vocaboli stabiliti da una società umana, adeguato a
significare i pensieri che i membri di quella società si vogliono comunicare
reciprocamente»36.6. Con il brano dall'edizione definitiva del Nuovo saggio
siamo già alla posizione assunta e sostenuta nella Psicologia, che del resto la
precede. Sappiamo già che la funzione dei segni è quella di «offerire dinanzi
allo spirito uno stimolo e termine che lo muova a concentrare e fissare
l'attenzione», permettendo in tal modo la formazione delle idee astratte. Ora S.
è interessato a scoprire come questo avvenga, a vedere cioè «con qual progresso
e fin dove l'uomo, o piuttosto gli uomini conviventi insieme, possano andare
nella formazione del linguaggio. Il
momento iniziale è dato dall'istinto, che spinge l'uomo ad esercitare le
proprie facoltà vocali naturali e, mediante esse, a produrre dei suoni
indipendentemente dalla loro capacità significativa, la cui scoperta avviene in
un secondo momento; «questo - osserva S. - è già un passo grande al suo
sviluppo intellettivo, ma l'astrazione propriamente detta non c'entra ancora.
Che tipo di parole sono queste prime emissioni verbali umane? Riprendendo la tesi lungamente sostenuta nel
Nuovo saggio, S. ripete che la loro natura è di nomi comuni, salvo a precisare
però che vengono u s a ti come nomi propri: una concessione di non poco conto
all'opinione che Stewart aveva tratto da Smith, precedentemente avversata. Da
qui la ricostruzione, al tempo stesso filogenetica e ontogenetica, di come «un
po' alla volta verrà a stabilirsi un suono, che sarà il nome comune di tutti
gli oggetti » di una stessa classe, un tipo di nomi che andrebbero definiti
sostantivi qualificati anziché aggettivi sostantivati. L'attribuzione dei nomi comuni però non
comporta ancora l'attività eminentemente intellettuale dell'astrazione, che è
successiva e richiede altre condizioni. Per illustrare le quali, S. esplicita e
spiega il proprio ripensamento sull'origine del linguaggio: Noi abbiamo altrove espressa l'opinione che
gli uomini non potessero venire a pensare e a denominare le pure astrazioni,
per non avere in natura alcuno stimolo che a ciò li muova; di che deducevamo la
divina origine di questa parte della lingua. Di poi abbiamo fatto più maturi
riflessi, ed ora non ci sembra quella dimostrazione irrepugnabile. Distinguiamo
adunque la questione del fatto da quella della semplice possibilità. È
indubitato, quanto al fatto, che il primo uomo ricevette l'avviamento a parlare
da Dio stesso, il quale, parlandogli il primo, gli comunicò una porzione della
lingua. Ma trattandosi d'una semplice possibilità metafisica, se l'umana
famiglia (non l'uomo isolato) potesse col tempo giungere a pensare almeno
alcuni astratti, contrassegnandoli nello stesso tempo e con una stessa
operazione complessa, colla voce o con altra maniera di segni, ci pare oggimai
di poter rispondere affermativamente di aver trovato quello stimolo che indarno
avevamo prima cercato, dal quale fosse mosso l'umanointendimento. I pochissimi astratti (forse di divina
origine) rinvenibili nelle lingue antiche non esimono insomma dal domandarsi
come «l'umana famiglia potesse giungere da se stessa agli astratti puri, almeno
ad alcuni di essi. La risposta di S. consiste sostanzialmente nel fare appello
al meccanismo cognitivo elementare della metafora a base metonimica: avendo già
gli uomini coniato un nome per il braccio in quanto arto anatomico, per
nominare la proprietà della forza che distingue quell'arto dagli altri, invece
di inventare appositamente un nuovo nome, adoperano la designazione primitiva
estendendone il significato. Un'illustrazione nobile di questo meccanismo
semiotico la si trova nel commento al prologo del vangelo di Giovanni: Pare, che primieramente gli uomini abbiano
nominata la parola esterna e sonante come quella che cade sotto i sensi. Più
tardi si sono fermati a considerare che la parola esterna non era che un segno
che esprimeva una cosa interna, un oggetto pronunciato dalla mente. Volendo
dunque nominare questa cosa interna significata in vece di imporle un nome
proprio, vi adattarono lo stesso vocabolo che significava la parola esterna,
lasciando, che il contesto del discorso chiarisse quando a quel vocabolo
convenisse dare il significato antico di parola, suono proferito cogli organi
della voce a significare; e quando gli si convenisse dare il significato nuovo
della cosa interna nello spirito colla parola significata. Questa maniera di
estendere alle parole vecchie il significato di mano in mano che gli uomini
estendono le loro cognizioni, è più comoda che inventare vocaboli nuovi, perché
esigge uno sforzo di mente minore e adattato a tutta la comunità degli uomini, oltrediché
le idee o cognizioni nuove ritengono in tal modo la relazione con le idee o
cognizioni precedenti onde furono derivate, e così meglio si conoscono, e più
agevolmente si prestano al ragionamento; giacché i nessi fra esse e le notizie
più antiche e più famigliari sono pronti. Solamente più tardi, quando la mente
è già sviluppata, e non ha più bisogno di tali dandine, ella inventa parole
nuove e proprie per quelle cognizioni che non le sono più nuove; ovvero le
parole vecchie da comuni diventano proprie perdendo il primitivo significato, e
ritenendo solo il nuovo 38. Ma restiamo
sul testo della Psicologia, che nel procedimento descritto vede la chiave
naturale per poter accedere alle astrazioni: Ed ecco già trovato il segno, a
cui la mente può legare veramente un concetto astratto; e via più apparisce che
quel nome già significa un astratto, quando quel nome vada perdendo, come
talora avviene, il suo primitivo significato, e rimanga unicamente significativo
dell'astratto. Giunge così a termine l'indagine sul modo in cui «comincia a
formarsi naturalmente una lingua. Ora, pervenuta la mente a fissare alcuni
astratti coll'aiuto di tali segni sensibili somministrati dalla natura,quindi
denominati, applicando ad essi il nome imposto da principio a cotali segni, già
il cammino della mente non trova più impedimenti insuperabili, e però tutto il
suo svolgimento rimane n a tu - ral ment
e spiegato. Nessun ostacolo logico
dunque impedisce di ritenere la lingua un prodotto umano, inventato al doppio
fine, cognitivo e comunicativo, di dare slancio al pensiero individuale e di
socializzarne le acquisizioni: Nel che - conclude S. - è da ammirare la
sapienza del Creatore, il quale non ha abbandonato questa invenzione della
lingua al solo operare libero e calcolato del pensiero umano; ma ne ha messo
nell'uomo l'istinto, e di più gliene ha egli stesso comunicati i primi
elementi. La conseguenza del nuovo atteggiamento di S. è che il linguaggio
sparisce progressivamente dal suo orizzonte speculativo. Anche a non volersi
spingere così oltre nella spiegazione del fatto, il fatto resta: non c'è
paragone tra la ricchezza e l'importanza delle riflessioni
semiotico-linguistiche disseminate nelle sue opere fino alla Psicologia, e — se
ho visto bene - la scarsità di spunti, pur interessanti, presenti al riguardo
nell'immensa Teosofia, che lo impegnò negli ultimi anni. Torniamo ora per
finire allo scambio epistolare da cui siamo partiti. La mia convinzione è che,
dopo il silenzio seguito, non sia stato Manzoni a convertirsi all'idea
dell'essere, della quale poteva già essere ben persuaso, salvo ad esitare
davanti alla 'question di cominciamento'; è stato piuttosto S. - messo in
allarme, grazie ai dubbi di Manzoni, circa il possibile esito pansemiotico
della propria posizione gnoseologica (evitato in maniera del tutto estrinseca
mediante il ricorso all'origine divina del linguaggio), che in sostanza avrebbe
identificato pensiero e linguaggio compromettendo la ricerca sulle idee la cui
origine, risolvendosi linguisticamente, non avrebbe più costituito un problema
- a ridurre la portata cognitiva del linguaggio esteriorizzandolo e tenendolo
sotto il controllo della ragione in modo da poterne postulare l'origine umana,
sia pure in uno con la capacità di astrazione.
Non per niente il ruolo del linguaggio ai fini della formazione delle
idee astratte passa dalla necessità nel Nuovo saggio («necessità del linguaggio
per muovere la nostra intelligenza a formare gli astratti) alla utilità nella
Psicologia («fu da noi provata l'utilità del linguaggio, o per dir meglio, di
segni per la formazione degli astratti), per di più con la restrizione:
«utilità che in altro non consiste se non. E pur considerando che questo
paragrafo della Psicologia iniziadistinguendo il problema della pensabilità di
un'idea dal problema della sua formazione, la sua conclusione sull'errore dei
nominalisti consistente nel ritenere che le idee astratte non siano «né
possibili a formarsi, né pensabili senza i segni del linguaggio» è in palese
contrasto con l'enunciazione netta di Teodicea 100 secondo la quale «senza i
segni non potea neppure con c e pir e [che qui equivale a formare] gli
astratti»; un contrasto non sanato e forse nemmeno rilevato, che del resto si
mantiene nella stessa Psicologia: «gli astratti sono pensabili per se stessi
senza bisogno dei segni, e contra: «le astrazioni hanno bisogno di segni per
pensarsi. S. passa così in qualche modo dalla coimplicazione di pensiero e
linguaggio, o quanto meno da una loro stretta correlazione, alla strumentalità
del secondo rispetto al primo, chiaramente attestata dalla Logica dove chiama i
segni, o meglio i sistemi di segni, le gambe e anzi le stampelle o i trampoli
del pensiero. Per quanto riguarda
specificamente il nostro tema, riprendendo i termini degli studi recenti di
storia del pensiero linguistico moderno, possiamo dire che, dietro la spinta di
Manzoni, S. parrebbe convertirsi dal 'genetismo' alla 'storicità'40; ne
potrebbe essere un indizio la progressiva presenza nelle sue pagine di diverse
sfumature: l'insistenza sulla socialità quale fattore costitutivo dell'essere
umano, l'accento sulla totalità strutturata del linguaggio, l'attenzione verso
il funzionamento del linguaggio in atto.
Si tratta però di una conversione non perfettamente articolata. Il suo
esito paradossale è infatti che nella Psicologia S. finisce col pervenire, come
s'è visto, a una tesi di sapore condillacchiano: il linguaggio nasce su base
istintuale dai segni (vocali) naturali, che solo in un secondo momento si
istituzionalizzano nella loro funzione semiotica, con applicazione
all'ontogenesi); e Manzoni avrebbe poturo ripetergli la stessa postilla apposta
a un passo di Condillac: «Si tratta proprio di sapere come le grida possono
diventare segni» (Postille) 41. Ciò facendo S. capovolge anche, di fatto -
malgrado la distinzione fra 'natura' e
'uso' di essi -, la successione dai nomi comuni ai nomi propri originariamente
sostenuta nel Nuovo saggio. Pur mantenendo l'opinione che i «pochissimi
astratti» delle lingue antiche siano «forse di divina origine, spiega
l'astrazione come un processo di metaforizzazione di metonimie dal referente
fisico: ecco «n a tu ralm ent e spiegato» il «cammino della mente. Questa
attitudine appare palese nella conclusione già citata di Psicologia 1532, dove
cerca di salvare l'unione di entrambe le tesi genetiche asserendo che l'origine
del linguaggio è umana e che Dio ha assistito l'invenzi on e immettendone
l'istinto e fornendone «i primi elementi».
In conclusione, mentre la propensione storica orientata sui 'fatti'
linguistici, al fondo,faceva negare a Manzoni non tanto e non solo l'origine
umana del linguaggio ma in primo luogo la legittimità stessa di una questione
di origine a proposito del linguaggio, l'impulso alla confezione di un
'sistema' filosofico complessivo fece passare S. da una tesi ad un'altra ma
sempre all'interno di un'ottica di ricostruzione genetica originaria delle 'proprietà' del linguaggio. Ma è la prima
prospettiva quella che nella svolta dal genetismo del Settecento alla storicità dell'Ottocento si è
rivelata vincente e ha dato nuovo impulso allo sviluppo delle scienze del
linguaggio.Antonio Francesco Davide Ambrogio Rosmini Serbati. Antonio Rosmini.
Rosmini. Serbati. Keywords: gl’agiati, Agostino, Aquino, la tradizione Latina
italiana. Refs.: Luigi Speranza, “Rosmini e Grice,” per il Club Anglo-Italiano,
The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria,
Italia. Serbati.
Luigi Speranza --
Grice e Sereniano: la ragione conversazionale del cinargo romano – Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo
italiano. Sereniano was a philosopher who visits the emperor Giuliano. He
followed the doctrine of the Cinargo.
Luigi Speranza --
Grice e Sereno: la ragione conversazionale dell’ondella tranquilità dell’animo –
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He belongs to IL PORTICO and is a
friend of Seneca. Seneca dedicates some of his works to him. In the dialogue
“On the tranquility of mind,” Seneca depicts them discussing the problems S.
has with maintaining his firmness of resolve. Anneo Sereno.
Luigi Speranza -- Grice e Serra: la ragione
conversazionale dell’economia filosofica – storia dell’economia romana –
massoneria – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Dipignano). Filosofo italiano. Dipignano, Cosenza,
Calabria. Mercantilista. Considerato il primo filosofo dell’economia politica
in Italia, e uno dei primi in Europa. A lui va il merito di avere composto per
primo un trattato scientifico, seppure non sistematico, sui principi e sulla
politica economica. Poco si conosce della sua vita: laureato probabilmente in
utroque, imprigionato nelle carceri della vicarìa di Napoli forse a causa della
sua partecipazione al complotto architettato da CAMPANELLA per liberare la
Calabria ma più probabilmente dietro accusa di falso monetario. Mentre e
in carcere compose “Breve trattato delle cause che possono far abbondare li
regni d'oro e d'argento dove non sono miniere” e lo dedica al vice-ré di cui
spera l'aiuto. Riusce a farsi ricevere dal nuovo viceré, III duca d’Osuna, per
proporgli un programma di riforme utili al Regno. L’incontro fu infruttuoso e e
ri-mandato nelle carceri della vicarìa, dove probabilmente muore. Essendo molto
gravi le condizioni finanziarie del Regno di Napoli -- esausto il tesoro
pubblico e l'onere del fisco già così gravoso da indurre molti a lasciare la
città per sottrarvisi -- Santis propone di limitare l'esportazione della moneta
e di abbassare i tassi di cambio con le piazze estere. La polemica con Santis è
alla base della proposta di S. Dimostra con esempi tratti dalla antica storia romana
l'inutilità e anzi il danno di questi
presunti rimedi. Da ciò trae occasione per spiegare la vera causa della
prosperità della nazione italiana. Analizza la causa della scarsità di
moneta nel Regno di Napoli e il fattore che puo invertire questa tendenza
economica. Il primo ad analizzare e comprendere appieno il concetto di bilancia
commerciale incluso il bene di servizio e il bene del movimento di capitale. Spiega
come la scarsità di moneta nel Regno di Napoli e causata dal deficit della
bilancia dei pagamenti. Utilizzando le sue scoperte e in grado di respingere
l'idea per cui la scarsità di denaro e dovuta al tasso di cambio. La soluzione
prospettata al problema e indicata nella promozione attiva delle esportazioni. S.
segna il distacco dalla concezione moralistiche scolastica per passare ad una spiegazione
laica ed è assolutamente innovativa per l'epoca tanto che Croce la define
lampada di vita. Galiani a scoprirlo, tessendone un elogio in una nota del suo
celebre trattato Della Moneta. Chiunque legge questo trattato, scrive, resta
sicuramente sorpreso ed ammirato in vedere quanto in un secolo di totale
ignoranza dell’economia filosofica ha S. chiare e giuste le idee della materia
di cui scrisse e quanto sanamente giudicasse delle cause de nostri mali e de
soli rimedi efficaci. Galiani paragona S. a Melon e a Locke, considerandolo
superiore per avere vissuto molti anni prima in un'epoca di ignoranza dell’economia
filosofica. Egli, che in vita era stato del tutto trascurato e per
secoli, tranne appunto quell'elogio di Galiani, completamente dimenticato, dopo
molto tempo è stato finalmente riscoperto. Addante, Cosenza e i cosentini: un
volo lungo tre millenni, Rubbettino, Martelloni, Regno di Napoli e Terra
d'Otranto, Aspetti economici e sociali di una crisi, in Perrotta, La scienza è
una curiosità. Scritti in onore di Cerroni, Manni, Benini, Croce, Storia del
Regno di Napoli, Laterza. Avendo ottenuto di parlare al vice-ré duca d’Ossuna
per comunicargli cose utili allo stato, e udito, presenti i consiglieri, ma,
giudicandosi che avesse detto ciarle e chiacchiere senz'altro concludere, e ri-mandato
al suo carcere. Parise, Vita e pensiero del primo economista moderno, Ecra, Destefanis, Illuministi Italiani, Galiani,
Milano-Napoli, Galiani, Della moneta, Napoli, Salfi, Elogio, primo filosofo di
economia civile, in Addante, Patriottismo e libertà. L'Elogio di Salfi,
Cosenza, Custodi. Scrittori classici italiani di economia politica, Milano, Pecchio,
Storia della economia pubblica in Italia, Lugano, Narrazioni tratte dai
giornali del governo di Girone duca d'Ossuna vice-ré di Napoli scritti da Zazzera,
Archivio storico italiano, Savarese, Trattato di economia politica, Napoli, Ferrara,
Prefazione, in Trattati italiani, Torino, L. Bianchini, Della scienza del ben
vivere sociale e della economia pubblica e degli Stati, Napoli, Andreotti,
Storia dei cosentini, Napoli, Accattatis,
Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie, Cosenza; Fornari, Studii (Pavia);
Amabile, Campanella. La sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia” (Napoli);
Marco, Teorie economiche, Memorie del R. Istituto lombardo di scienze e
lettere, classe di lettere e scienze storiche e morali, Benini, Sulle dottrine
economiche, Appunti critici, in Giornale degli economisti, Economisti, Graziani, Bari, Arias, Il
pensiero economico di S., in Politica, Croce, “Storia del Regno di Napoli” (Bari);
Economisti napoletani, Tagliacozzo, Bologna, Einaudi, Saggi bibliografici e storici intorno
alle dottrine economiche, Roma, Schumpeter, Storia dell'analisi economica,
Torino, Rosa, I critici, Atti del Congresso storico calabrese, Napoli, Galasso,
Economia e società nella Calabria” (Guida); Nuccio, Rivista storica del Mezzogiorno,
Colapietra, Introduzione, in Problemi monetari negli economisti filosofici napoletani,
Colapietra, Roma, Aquino, L’approccio monetario all'analisi della bilancia dei
pagamenti, in Studi economici, Colapietra, Genovesi in Calabria, Rivista
storica calabrese, Manoscritti napoletani di P. Doria, Galatina, Toscano, La disputa sui cambi esteri del Regno
di Napoli, Rivista di politica economica, Rije, ed. anast., Napoli, Ricossa,
Cento trame di classici dell’economia, Milano, O. Nuccio, Il pensiero economico
italiano, Sassari, Il Mezzogiorno agli inizi del Seicento, Rosa, Roma-Bari, Alle
origini del pensiero economico in Italia, I, Moneta e sviluppo negli economisti
napoletani, Roncaglia, Bologna, Zagari, Moneta e sviluppo, Rosselli, La teoria
dei cambi, Landolfi, Valentia, A.
Placanica, Storia della Calabria (Roma); Roncaglia, Rivista italiana degli economisti,
Addante, Repubblicanesimo e mito di Venezia, Istituzioni e sviluppo economico,
Roncaglia, La ricchezza delle idee: storia del pensiero
economico, Roma-Bari, Grilli, Visto da Grilli, Roma, Villari, Politica
barocca. Inquietudini, mutamento e prudenza, Roma); Roncaglia, S., in Il
contributo italiano alla storia del pensiero. Economia, Roma, Villari, Un sogno di libertà. Napoli nel declino
di un impero, Milano; Parise, Vita e pensiero del primo economista moderno,
Roma; L. Addante, La politica del Breve trattato (Soveria Mannelli). Mercantilismo
Storia del pensiero economico. Treccani Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Il contributo italiano alla storia del
Pensiero: Economia. Antonio Serra. Serra. Keywords: massoneria, circolazione
degl’idee massoniche, mito di Venezia, economia romana, l’economia del liceo,
roma antica, antica roma, Machiaveli, mercantilismo. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Serra” – The Swimming-Pool Library. Serra.
Luigi Speranza -- Grice e Sertorio: il deutero-esperanto nella filosofia
ligure – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library
(Genova). Filosofo genovese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. S. partecipa
al dibattito pubblicando dapprima il saggio
“Elementi di grammatica analitica universale,” poi “Un esame filosofico
della grammatica universale,” e, infine, “Il problema della lingua universale.”
In quest'ultimo saggio, a proposito dei diversi sistemi inventati – incluso il
deutero-esperanto di H. P. Grice, S. individua tre fondamentali tipologie di
lingue ausiliarie. Il primo tipo comprende quella categoria di linguaggi che
definiamo a posteriori che riprendono alcuni, o tutti gli, elementi, non di
rado modificandoli, da lingue storico- naturali, come può essere l'italiano, il
francese, il cinese, ecc.. Il secondo tipo è costituito da quelle lingue che
definiamo a priori con le quali è possibile comunicare sia in via scritta che
in via orale, ovvero che presentano una forma ideografico-fonetica tale da
permettere non solo la semplificazione della scrittura, ma anche una sua
agevole e veloce riproduzione tramite foni. L’ultima tipologia è costituita da
quelle lingue che adottano delle scritture tipografiche, crittografiche,
numeriche, nelle quali gl’elementi fondamentali della lingua sono utilizzati
per trasferire solo l'idea della cosa che si vuole comunicare, ma che non
presentano un reale metodo di comunicazione orale. Della seconda categoria
discute ampiamente nel primo saggio dedicato al problema della lingua
universale, che intende come lingua adatta alla comunicazione tra persone
adulte, che hanno già delle idee proprie sviluppate attraverso l'uso della loro
LINGUA MADRE – l’inglese oxoniano di H. P. Gice. Qui S. s’occupa innanzitutto
della definizione del sistema numerico della lingua ideale, e ne propone di due
tipi differenti, sia a base decimale che sessagesimale, e, poi, del suo sistema
GRAMMATICALE – cioe, morfologia, sintassi, morfo-sintassi – (“Pirots karulise
elatically”) e lessicale (“pirot, karulise, elatic”. Le informazioni seguenti
sono tratte da S., Elementi di grammatica analitica universale, Porto Maurizio, Tipografia Prov, di
Demaurizi. Il sistema decimale romano –
I II III IV V VI VII VIII IX X -- S. associa ad ogni numero da 0 a 9 una
consonante, secondo le seguenti corrispondenze: 1 = b, 2 = g, 3 = d, 4 = c, 5 = 1, 6 = m, 7 =
n, 8 = p, 9 = 1, 0 = z. A partire dalla
virgola che separa i numeri interi dai decimali si pongono in ordine da destra
a sinistra le 5 vocali (a, e, i, o, u) e questo ordine è invariabile. Le vocali
vanno scritte al di sotto delle consonanti precedenti e, durante la lettura,
questi nessi di c+v (che possiamo allora intendere come SILLABA – ma, pa, da)
sono da pronunciarsi assieme (del tipo “be” e non “b – e” (prima
articolazione). Le cifre devono sempre essere raggruppate a gruppi di tre, secondo
l'ordine decine, centinaia, migliaia, milioni, ecc.) e laddove non vi sia
alcuna cifra a coprire le sedi di queste terne si inserisce lo zero. Si avrà
allora qualcosa di simile all'esempio successivo: 372,215,8976,340 -- 4 d n
g .cgb.1pr. n m d Z e
a ・i a u i e a. Il numero così composto in italiano si dicee
"trecento-settanta-due miliardi, quattro-centovent-uno milioni, cinque-centottanta-nove
mila, sette-cento-sedici virgola trecento-quaranta.” Nella lingua di S.
solamente "denagu, cogibe, lapuro, nibema, ducozi.” I vantaggi sono
molteplici, come dice Frege – nella trauduzione di Austin per Blackwell,
favorita di Grice -- se si riconosce oltre all’evidente brevità – cf. Grice,
“Be brief (avoid unnecessary prolixity (sic))” -- anche il fatto che in un
sistema numerico-alfabetico di questo tipo le vocali che occupano un posto
fisso permettono d’individuare perfettamente l'ordine di grandezza di ciascuna
cifra senza dover ricorrere ad altre parole per indicarlo. Cosi si sa che la
combinazione c+e+c+a+u corrisponde sempre all'ordine dei miliardi, c+a+c+u+c+o
a quello delle centinaia, ecc. Il secondo sistema proposto è quello a base
sessagesimale in cui ad ogni cifra da 0 a 60 S, associa una sillaba cv, del
tipo 1 = ba, 2 = ge, 3 = di. Nonostante anche questo metodo assicuri una brevita
d’espressione considerevole (centoventitré › bagedi), risulta meno convincente
del precedente per il semplice fatto che quello prevede uno schema di
composizione RICORSIVO basato su POCHE semplici regole – la composizionalita
com’essenza d’una lingua come il suo oxoniano nativo, mentre questo aumenta
notevolmente il grado di difficoltà mnemonica associato ad ogni numero a causa
del maggior numero di combinazioni esistenti e
dell'arbitrarietà delle stesse.
Per quanto riguarda invece la parte della SINTASSI, LA MORFOLOGIA, e la
MORFO-SINTASSI – la grammatica ragionata -- e lessicale della sua lingua
ideale, S. indica delle caratteristiche fondamentali che questa deve possedere
per essere di semplice comprensione. La separazione d’un MORFEMA LESSICALE (‘be’)
d’un MORFEMA SINTATTICO – “Fido *is* shaggy; Fido e Rex *ARE* shaggy”; ‘Rex is
SHAGGiER than Fido’ (One pirot karulises elatically; therefore, pirots karylise
elatically – in an elatic way. L’esistenza di particelle SINTATTICHE nuove, più
semplici, meno *ambigue* -- cf. Grice, “Do not multiply the senses of ‘if’
beyond necessity, Strawson!” -- di quelle
esistenti. L’invariabilità delle parole – cf. Grice on word meaning –
shaggy’. A questi aspetti deve aggiungersi anche l'esistenza d’un vocabolario o
lessico in cui ogni elemento possede UNO E UN SOLO SIGNIFICATO (O STRETTAMENTE,
SENSO) – “Senses are not to be multipled beyond necessity”: Grice’s modified
Occam’srazor --. La sintassi verte intorno al verbo o PREDICATO (“... is
shaggy”, “kaurlise”), che da solo e opportunamente coniugato (Fido is shaggy,
Fido and Rex are shaggy; a pirot karulises, but pirot karulise -- è in grado di
descrivere non solo l'azione, ma anche il SOGGETO (cf. Grice on ‘the’ –
discussione con Sluga --) della stessa, il suo NUMERO – cf. Grice on Peano,
(Ex), “some, at least one”; il genere, e le circostanze di modo (modo
indicativo, ecc.) e di tempo (cf. Grice, “Actions and events,” basato su von
Wright). A questo, se necessario, si possono associare ulteriori complementi di
pro-posizione, anch’essi declinati, per descrivere l'azione in MODO più particolareggiato (non
volitivo, ma ottativo). L'alfabeto
utilizzato è composto di diciassette lettere, le stesse che sono state
utilizzate per il sistema numerico decimale visto in precedenza. Ogni
particella sintattica o parte del discorso presenta un ordine vcvcv ed esse
sono riconoscibili a seconda delle lettere che vengono poste in ciascuna sede. I verbi sono
riconoscibili dal fatto che presentano nella sede della prima consonante una
«b» o una «g» e questa, assieme alla seconda vocale, forma il modo verbale -- diviso
in: «ba» INFINITO (‘to be shaggy’), «be» PARTICIPIO, «bi» GERUNDIO (‘being
shaggy’), «bo» INDICATIVO (‘is shaggy’), «bu» IMPERATIVO (please be shaggy, o
‘is shaggy, please’, «ga» SOGGIUNTIVO (‘that Fido be shaggy’), «ge» CONDIZIONALE,
i. e. con-dictum (‘si Fido e shaggy, Fido e amato’), «gi» MORALE (“Jones is
between Richards and Smith”, «go» FISICO (“Jones is between Richards and
Smith”), «gu» MATEMATICO O ORDINALE). La vocale iniziale indica la forma del
verbo («a» = verbo IN-transitivivo (“Fido IZZ shaggy”, «e» = ri-flessiva, «i» =
attiva (Paride ama Elena), «o» = passiva (Elena e amata da Paride), «u» =
neutra»). Le ultime due lettere, consonante e vocale, indicano il tempo, il
numero e la PERSONA (Grice, “Someone, i. e. I, is hearing a noise”) a cui il
verbo stesso si riferisce, secondo ua tabella:129tem 0. Particelle
numero d del e personal 1R28 22 มา
สิ
1.ª TO 3."
Singolare IP838a 아비아비비이 2
Plurale 130 3.
Specificazione del Tempo = Più
che perfetto = Passato anteriore =
Passato indefinito Passato
definito Imperfetto Presente
Futuro Futuro anteriore = •
Dipendente = Indipendente = Persona
Numero. Così ad esempio il verbo 'mangia!' (Grice, hobble) può divenire
«ibupe», dove «i» indica la forma transitiva (eat a nut – Grice, as ordered to
his pet squirrel, squarrel, Toby), «bu» il modo imperativo – cf. Hare, “The
window is closed, please -- e «pe» la seconda PERSONA persona singolare (you,
not ye) del tempo presente. Allo stesso modo si compongono i nomi. La prima
lettera - vocale - indica il genere (del tipo «a» comune – man --, «e» sessuale
– flower --, «i» maschile (aquila macchio), «o» femminile (“ship”), «u» neutro»
(‘ship’), la seconda - consonante indica la declinazione e il numero, ed esistono
cinque declinazioni. La terza e la quarta lettera - vocale e consonante -
delimitano l'idea in ordine alla quale si riferiscono le preaccennate qualità
di genere e numero, cioè costituiscono la parte che potremmo in qualche modo
chiamare morfema lessicale, RADICE (v this little piggy went to market)
lessicale SIGNIFICANTE (‘the shag of shaggy) della parola (cf. Grice, word
meaning); l'ultima vocale indica il caso di appartenenza. In questo modo poi si
formano anche tutte le altre parti del discorso. Il problema d’un sistema di
questo tipo è che la riuscita di una buona conversazione dipende in maniera non
trascurabile dalle capacità mnemoniche e combinatorie degl’individui
interessati – Grice: “That’s why I say: who cares?”. Oltre alla notevole mole
di nessi consonantici e vocalici esistenti, oltre al fatto che questi cambino
significato se non SENSO in base alla posizione, oltre all'enorme numero di
combinazioni possibili, un aspetto penalizzante e soprattutto la struttura
stessa delle parole che, indipendentemente dalla parte del discorso
interessata, deve necessariamente essere di cinque lettere o di sei lettere, in
ordine VCVCV o CVCVCV. Per quanto
riguarda invece la terza categoria delle lingue inventate ad uso internazionale
individuate da S., si riporta un esempio di lingua puramente ideografica,
numerica. Esempio: Ne Il problema della
lingua universale, S. propone la frase italiana. Il grammatico intelligente
interpreta facilmente questa scrittura; perchè il significato o SENSO unico di
ciaschedun segno è reperibile istantaneamente
nella trascrizione numerica seguente del terzo metodo: - 12. 111. 15. 2101. 1245 - 27. 33. 72. 2152.
1151 - 14. 114. 18. 0454. 3293 - 3 - 364 - 14. 111. 15. 1564. 4252 - 14. 112. 16. 0435.1555 -15. 33.72 - 1533. 1265 -
1. Ad ogni cifra associa una funzione grammaticale, sintattica o di senso (ad
esempio il numero «1» finale esprime il punto fermo, la fine della sentenza. Il
numero «3» corrisponde al punto e virgola. Il «111» significa 'soggetto della
proposizione. Il «15» il caso nominativo nella sua forma singolare. Il «364»
significa 'perché; ecc.. I trattini indicano l'inizio di ciascun termine e i
punti dopo le cifre separano i fattori che fanno parte di ciascun termine. Esempio
tratto da S., Il problema della lingua universale, Porto Maurizio, Berio. La volontà è quella di limitare (ma non del
tutto) la fusione dei morfemi e piuttosto apporre nuove cifre che siano ognuna
portatrice di un determinato significato (del tipo 'leone-femmina' e non 'leonessa', o ‘aquila macchio’ e non ‘aquilo’).
S. è perciò convinto che, tra quelli individuati, il più esatto dei metodi e
il terzo, visto che: La ragione
dell'evidenza, che ammirasi nel linguaggio algebrico e che spesso riguardasi
come un privilegio di questa scienza dell’arimmetica, si è che nei ragionamenti
algebrici o arimmetici non entra mai un segno il di cui valore assoluto e di
posizione non sia esattamente definito. Cf. Grice sul formalismo di Peano e
l’informalismo di suo alievo Strawson. La sintassi, che attualmente più
soddisfaccia alle esigenze filosofiche è la sintassi algebrica o arimmetica –
Frege, il concetto di numero, traslato da Austin, read by Grice -- ed i
precetti di questa dovrebbero essere
comuni ad una lingua universale. Di nuovo quindi, l'interlingua in grado di
descrivere in maniera conforme la natura delle cose è di tipo numerico e
algebrico o arimettico e per essere utilizzata necessita di tanti vocabolari
quante sono le lingue storico naturali esistenti. Giacomo Francesco Sertorio. Sertorio.
Keywords: Il deutero-esperanto di Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Sertorio”. Sertorio.
Luigi Speranza -- Grice e Servio: la ragione conversazionale VIRGILIANA –
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Nei "Saturnali" di Macrobio,
rivolti alla glorificazione di VIRGILIO, S. appare uno degli interlocutori. La
sua attività filosofica ha per sede Roma. Predilesse Virgilio, che esalta
come il maestro di ogni sapere e che commenta in un’opera di cui rimangono due
redazioni. La più breve sembra tramandare lo scritto autentico di S.,
mentre la più ampia ("Servius auctus o plenior o Scholia Danielis",
dal Daniel, che la pubblica) pare derivata dalla prima e da una riduzione del
commento d’Elio Donato. Si discute se gl’appartengano l’Explanatio
dell'Arte Grammaticale dello stesso Donato e tre saggi di metrica. Il commento
include non poche dottrine di carattere filosofico, che però provengono dalle
fonti usate da S.. Si è voluto fare di S. un seguace dell’accademia. Ma,
da una parte, non è lecito attribuirgli una teoria filosofica organica, e,
dall’altra, le proposizioni che dovrebbero provenire da quella scuola non sono
proprie di essa, perchè appartengono all’accademia in generale, a Posidonio, o
anche alle credenze mistico-religiose di quell’età: natura divina dell'anima,
immortalità di essa quale principio di movimento, sue trasmigrazioni, suoi
destini dopo la morte, teoria delle sfere. Quando, oltre alle tre parti
dell'anima, l'anima vegetativa, l'anima sensitiva e l'anima razionale, ne
ammette anche una quarta anima, l'anima vitale, principio di movimento, si
allontana dalle teorie tradizionali inclusa l’accademica. Quando S.
afferma che nulla esiste salvo i quattro elementi (acqua, aria, fuoco, terra) e
il divino, che è uno spirito (o una mente, o un'anima) il quale, infuso in
essa, genera ogni cosa, sicchè uguale è la natura di tutte, accetta in
complesso la cosmologia del PORTICO esposta da VIRGILIO, che però cerca di
liberare dal suo materialismo originario. Del resto, esplicitamente S.
loda i filosofi del portico -- et nimiae virtutis sunt, et cultores deorum -- che
contrappone ai filosofi dell’Orto, che critica spesso. In S. mancano
un coerente e un indirizzo preciso, sebbene si affermino in lui le tendenze
mistiche dell’età sua. Un'edizione del XVI secolo di Virgilio con il
commento di S. stampato sulla sinistra del testo. S. Mauro Onorato. Grammatico
e commentatore romano. L'appellativo Deutero-S. o S. Danielino si
riferisce alla pubblicazione da parte di Daniel di un'edizione del commentario
di S. all’Eneide contenente alcune aggiunte rispetto all'originale serviano.
Tuttora è discussa l'autenticità del cosiddetto S. Danielino. S. ompare come
uno degl’interlocutori nella “Saturnalia” di Macrobio. Alcune allusioni
presenti nei saggi ed una lettera di Quinto Aurelio Simmaco indirizzata a S..
Saggi: “Commentarii in Vergilii Aeneidos libros, Commentarii in Vergilii
Bucolica, Commentarii in Vergilii Georgica. Del commento alle opere di Virgilio
esistono due tradizioni manoscritte. Il primo è un commento relativamente breve
e conciso, attribuito di per certo a S., ed è chiamato “S. Minore". A una
seconda classe di manoscritti appartiene un altro commento, molto più esteso,
infatti le aggiunte sono abbondanti e in contrasto con lo stile di S.. L’autore
è ignoto. Questo secondo è chiamato "S. Auctus" o "S.
Danielinus" da Daniel, che lo pubblica. Esiste una terza classe di
manoscritti, composti in Italia, derivati dai primi due, a significare la
diffusione di questi commenti. Per quanto riguarda il "S. Minore"
è in effetti l'unica edizione completa esistente di un romano scritta prima del
crollo del principato in Occidente. È una vasta critica al testo di VIRGILIO,
con critiche anche ai commentatori prima di lui -- in un certo qual modo ci
fornisce il modo di pensare dei secoli precedenti. S. non usa un linguaggio
particolarmente elevato, ma è colorito e fantasioso qualora si tratti di
etimologie. Oltre all'aspetto grammaticale, i commentari di S. contengono
abbondante materiale filosofico, la maggior parte del quale probabilmente è
derivata da fonti di filosofi anteriori, con cui la poesia di Virgilio viene
interpretata nel suo aspetto filosofico.. Commentarius in artem Donati, Raccolta
di note grammaticali d’Elio Donato. De centum metris ad Albinum - Un trattato
di diverse figure metriche, dedicato a Cecina Decio Albino. De finalibus ad
Aquilinum - Un trattato di metrica sui finali. De metris Horatii ad
Fortunatianum - Un trattato di metrica di Orazio, forse dedicato ad Atilio
Fortunaziano. Vita Vergilii. Enciclopedia italiana. Funaioli, S., in
Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Pellizzari, S..
Storia, cultura e istituzioni nell'opera di un grammatico (Firenze, Olschki); Ramires,
S., Commento al libro IX dell'Eneide di Virgilio; con le aggiunte del
cosiddetto S. Danielino, Bologna, Patron, su Treccani Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. S., su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. S. su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. S. su
digilibLT, Università degli Studi del Piemonte Orientale Avogadro. S. Open
Library, Internet Archive. Opere complete di S., su forum romanum.org. V · D ·
M Grammatici romani -- Portale Biografie Portale Letteratura
Categorie: Grammatici romani Romani. The second version was named the Egyptian, which is a
puzzling name since the first reference to this particular descent/ascent
concept seems to come from a commentary on Book IV of the Aeneid of Publius
Vergilius Maro, or Virgil, by the commentator S. In S.’s version, each
planetary sphere is associated with one of the seven major vices. The list is
as follows: I avarice avarizia from Saturno; II desire for dominance and
gluttony from Giove; III violent passions or anger from Marte; IV pride from
the Sole; V lust from Venere; VI envy from Mercurio; and VII sluggishness from
the Luna. Some philosophers differ as to *which* vice to assign to which *planet*,
e. g., sluggishness is often assigned to Saturn instead of the Moon. It should
be noted that each of these seven vices, are all psychological characteristics
as is befitting of a soul. Roman philosopher and grammarian, commentator on
Donato and Virgilio There is some doubt as to his name. The commentator on
Donato in the Parisinus Latinus codex (GrL) is called _Sergio_, as is the
commentator on Virgilio in the Bernensis codex. In other manuscripts, the
commentator on Virgil is called S. but no mention is made of the rest of his
name (Marinone). In the Saturnalia, MACROBIO (si veda) gives a portrait of as him
an adulescens; and Daniel asserts, in a
note to the Bernensis codex that he is one of Donato’s students. If these
indications hold true, it would appear that he lives in Rome, where, according
to MACROBIO, he belonged to the intelligentsia of the ACCADEMIA. Of
considerable importance are his commentaries on Virgil's Aeneis, Eclogae and
Georgica, surviving in two ms. codices of varying length. The shorter is published
by Daniel, who adds several scholia -- the Scholia Danielis -- to it. It is
commonly known as the S. Danielinus. Critics disagree as to the contents. Thilo
holds that the additions are probably a fusion of an original text with parts
of Donato’s lost commentary on Virgil. His commentaries, based for the most
part on his predecessors (Donato in particular), enlarge on and enhance that
tradition by virtue of the quality of the grammatical observations and the
comparisons of Virgil with other philosophers. Various grammatical treatises
bear his name but modern criticism unhesitatingly ascribes to him only the
Commentarius in artem Donati (GrL). Prisciano mentions S. as the author in
Institutio de arte grammatica (GrL). Other attributions are uncertain. The two
books of the Explanationes in artem Donati (GrL) are apparently posterior to S.
(Schanz-Hosius). The tract De littera de syllaba de pedibus de accentibus de distinction
(GrL) gives "Sergius" as the author but seems to be an extract from
the Commentarius and thus not a work intended by S. to stand alone. Criticism
is divided over attributing to S. De centum metris (GrL), a treatise on
metrics: Müller excludes S. as the author while Marinone defends the opposite
view. The treatises De finalibus (GrL) and De metris Horatii (GrL) are
similarly controversial; see Müller. In his Commentarius in artem Donati, S.
brings home two points which characterize Roman grammatical thought, as seen in
the artes. First, grammar is intimately connected with all the disciplines
dealing with language – philosophy – GRAMMATICA FILOSOFICA – SEMANTICA
FILOSOFICA -- dialectics, and esp. rhetoric (GrL). Second, grammar has a
distinguishing subject matter which consists, according to S., of the analysis
of the VIII parts of speech – Latin does not have an article, but it has
interjection. S.’s admiration for Donato derives, in fact, from the latter's
unswerving conviction that a grammatical treatise ought to begin by defining
the partes orationis -- other grammarians were hesitant and inconsistent).‘That
is why Donato is wiser, who starts out with VIII parts of speech that concern
the grammarians – including the philosophical grammarians – specifically – UNDE
PROPRIUS DONATUS EST DOCTIUS, QUI AD OCTO PARTES INCHOAVIT, QUÆ SPECIALITER AD
GRAMMATICOS PERTINENT – Commentarius. S. holds, together with Donato, that the
study of grammar, taken to be the study of the partes orationis, is a
prerequisite for literary analysis, i. e., for commenting on poetic texts, such
as Virgil’s. Although S. contributes to enriching the discussions of the
grammatical distinctions formulated by Donato, by citing and criticising the
work of other philosophical grammarians, S. leaves unsolved the many problems
inherent in the categories handed down by tradition. For example, some
grammarians considered the 'future' tense to be a separate MODVS and not a
tense of the 'indicative' mode, given that, properly, one can 'INDICATE' only
what one knows and not the future, by definition an un-known. “And remember I’m
a philosophical grammarian!” Grice: “In Rome, grammarians simpliciter were
usually slaves!”. S. expounds the question clearly (GrL), but does not venture
an answer. "Martii Servii
Honorati Commentarius in Artem Donati" (GrL). "Commentarius in Artem Donati"; "De
finalibus"; "De metris Horatii"; repr. Hildesheim. S. Grammatici
qui feruntur in Vergilii carmina commentarii, Thilo e Hagen eds., Lipsiae. Editio Harvardiana, Rand et al.
eds., Lancastriae, Ad Aeneam; Stoker/Travis eds., Oxonii (Ad Aeneam). Commento ai libri 9 e 7 dell'Eneide di
Virgilio, with introd., biblio. and critical ed. by Ramires, Bologna. BARATIN, La naissance de
la syntaxe à Rome, Paris. Id., CRGTL, BARWICK, "Zur S.-Frage",
Philologus; BRUGNOLI, "S.", Enciclopedia Virgiliana, Roma. KASTER, "Macrobio and S., Verecundia and
the grammarian's function", HSCP; MARINONE, "Per la cronologia di S.",
AAT; MÜLLER, L. "Sammelsurien", Jbb. für Klass.Philologie; SCHANZ, M.
e HosIus, Geschichte der römischen Literatur, München, TIMPANARO, "Note
serviane, con contributi ad altri autori e a questioni di lessicografia
latina", Studi urbinati di storia, filosofia e letteratura; WESSNER,
"S.", RE. Keywords: Virgilio, Donato. Servio Mario Onorato. Servio.
Luigi Speranza -- Grice e Sestio: la ragione conversazionale del fallito
morale – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He founds his own school in Rome
that draws heavily on La Setta di CROTONE and IL PORTICO. S. preaches an
ascetic way of life, which includes vegetarianism, and exhorts his followers –
whom he called ‘Sestiani’ – to reflect at the end of each day on their moral
failings – “if any.” Upon his death, his son, also called Quinto S., inherits
the school, but it does not long survive him. One of the Sestiani is SOTIONE, who
becomes Seneca’s tutor – Seneca himself is influenced by the school’s teachings
for some time. Quinto Sestio.
Luigi Speranza -- Grice e Sesto: la ragione conversazionale delle sentenze
trasformative – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. S. is a compiler – The “Sentences
of Sesto” are mainly of an ethical nature and show signs of a variety of
influences including traditional wisdom literature, and IL PORTICO. They
proclaim that wisdom is attained through the conquest of the passions. –
Chadwick, “The sentences of Sextus,” Cambridge. Grice: “Chomsky thought that
the sentences of Sextus were ‘transformational’!”
Luigi Speranza -- Grice e Sesto: la ragione conversazionale del’accademico
d’Antonino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Tutor to Antonino. Antonino regards
him as something of a role model and greatly admires the morality and humanity
of both his life and his teachings. Accademia. Suda thinks that S. is of the
scesi only because he confuses him with Sesto Empirico!
Luigi Speranza -- Grice e Severo: la ragione conversazionale del principe
filosofo -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He studies philosophy with Stilio
(si veda). He becomes the principe di Roma when his cousin Elagabalo is
assassinated. His principate is not however a success and he is himself
assassinated not long after. So
much for the line of succession. Severo Alessandro.
Luigi Speranza -- Grice e Severo: la ragione conversazionale del’amico
lizio d’Antonino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A lizio, friend of
Antonino. Claudio Severo.
Luigi Speranza --Grice e Severo: la ragione conversazionale del principe
filosofo -- Roma—filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano. Severo rules the Roman empire
and it is said that he is well-versed in philosophy. Severo Settimio.
Luigi Speranza -- Grice e Settala: la ragione
conversazionale dei problemi sessuali d’Aristotele -- desiderio e piacere – la
scuola di Milano – filosofia milanese -- filosofia lombarda -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Milano).
Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Profisico. Studia a Brera
e Pavia. Insegna a Milano. Si prodiga in occasione della famosa peste dei “I
promessi sposi”. Manzoni lo nomina una prima volta quando parla del figlio, Senatore S., medico,
membro, insieme a Tadino del tribunale della sanità ai tempi della vicenda di
Renzo e Lucia. È tra i primi ad accorgersi che la strana malattia che si
diffonde nella zona lecchese, e la peste. Saggi: “In librum Hippocratis Coi de
aeribus, aquis, [et] locis, commentarii V. Appositus est Graecus Hippocratis
contextus ope antiquorum exemplarium, restitutus et emendatus cum indice rerum
et verborum locupletissimo una cum nova eiusdem in Latinum versione” (Colonia: Ciotti);
“Problemata di Aristotele” (“Commentariorum in Aristotelis problemata” -- VII
primas sectiones – secundam heptadem -- continens, ab eodem Latine facta”) (Francoforte
sul Meno: Wecheli, Marnio, Aubri); “Animadversionum
et cautionum medicarum libri VII quorum materiam sequens pagina indicabit” (Milano,
Bidell); “De peste et pestiferis affectibus libri V (Milano, Bidell); “De
ratione instituendae et gubernandae familiae libri quinque” (Milano, Bidell); “Della
ragion di stato” (Milano: Bidelli); “Cura locale de' tumori pestilentiali, che
sono il bubone, l'antrace, o carboncolo, ed i furoncoli contenente tutto quello
che si ha da fare esteriormente nellquesti mali tolta dal libro della cura
della peste” (Milano, Bidelli); “Preseruatione dalla peste” (Brescia: Fontana);
“Anti-rotario romano con l'aggionta dell'elettione de semplice e prattica delle
compositioni e di due trattati, vno della teriaca romana, l'altro della teriaca
egittia aggiontoui in questa vltima impressione auertenze e osseruationi
appartenenti alla compositione de medicamenti” (Milano: Bidelli); “Avertenze,
et osservationi appartenenti al curar le ferrite” (Milano: Cardi); “Compendio
per curare ogni sorte de tumori esterni et cutanee turpitudini, raccolto da osseruationi
fisice, e chirurgice” (Milano: Monza); Statistica medica di Milano Milano, Guglielmini
e Redaelli, Belloni, Borromeo e la Storia della Medicina, in San Carlo e il suo
tempo: convegno, Milano. Edizioni di Storia e Letteratura, Bartolomeo Corte, Notizie istoriche intorno a
medici scrittori milanesi, Milano, Argelati, Bibliotheca scriptorum
mediolanensium seu acta, et elogia virorum omnigena eruditione illustrium, qui
in metropoli Insubriae, oppidisque circumjacentibus orti sunt, Mediolani, Sangiorgio,
Cenni storici sulle due Pavia e di Milano e notizie intorno ai più celebri
medici, chirurghi e speziali di Milano dal ritorno delle scienze sino all’anno.
Opera postuma, Longhena, Milano, Renzi, Storia della medicina italiana, Napoli,
Ferrario, Intorno alla vita ed alle opere mediche Cenni, Milano, Capparoni,
Profili biobibliografici di medici e naturalisti celebri italiani, Roma, Cava,
La peste di S. Carlo. Note storico mediche sulla peste, Milano, Ricerche Firenze
Ferro, La peste nella cultura lombarda, Milano, Cosmacini, Il medico e il cardinale,
Milano. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Firenze, Molini, Facchin, S.: un intellettuale barocco fra
scienza e arte Treccani Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Mellerio,S., in Dizionario
biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Patricio Milanese. ys id À L904.7. V WM C th "s
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Leve. (ue » meéen ah -, 2 COMMBRO/ VEM s
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gite tty li OC V DOVICI
bob I ASI WEDIOLANENSIS. MEDICI CLARISSIMI,; P £nimadverfionum, er Cautionum 74edicarum »
3 LIBRI SEPTEM, "T nuo 3b Aotore recogniti, et hac
pofiremaz, ^. editio: ;,C,€X xpurg catis
3q! IET np! urimis mene à 1 dis novo
nitori rellitut ONE CH EN f. d A.
e » Am" 3m d Cx diiery,,» iycans d seis
Y y ». RCCÓNS DOS SEPTALIVS iau Py
PW pu ATAVII, ff: ypogi rrr dit
Ihuilii. [628., LE Projlant apud
Paulum Frambottum s. PER ILLVSTRLE et Excellentiffimo
Viro IOANNI PREVOTIO MEDICINÆ DOCTORE et Professori Primario.Paulus Frambottus
Bibliopola Patavinus. BAM A cít virtütis pulchritudo;ut dd cxtemisctiam fenfibusfubtracta,ex
veftigiis in precla« ro pectore
impreffis cluceJenscm/ r3 (cat, mirabiles fui exci» Ice leramor es. i Mas abibo longius, Te te,
Prevoti Perilluftris et Excellentiff. exemplum
ftatuo, in quo rarz virtutis,& folidz doMirinz grata quadam
confpirat harm 9e inia, ut commiuni
do&torum calculo, et falima: publice teftimonio apex eruditionis limeritó audiaris. Nec enim fola
Philofoliphia et Medicina, quam cum fumma lauide doces et cxerces, tead unguem
expoli vit fed ctiam alie difciplinz
tibi, affiduo i 2 Dre 9
2 £ 94
fuo culto; (ingularia orriamentá fe debe-[U ic fatentur. udi res cm notior fit,
quaàmu] üt ego tenui ftylo et filoprodam
et pro-Jij bemitum omnesin tui amorem
tacita qua]; dani illecebra pertrahit;.
Ego vero; ut obi] fervaniriam, qua te
colo et veneror ; pübli-4) ] ce teftaret
; diu rnultumq; cogitavi : feci hufquam
mihi cómodior fefe obtulit oc: cafio,
quàm cüm novam,eamq; lorige e;
iiendatiorem editionem Cautiorium me:]
dicaium celeberrimi viri Ludovici Se
ptalii pararé: quam proinde fub felicis tui] nominis celebritate emitti cüravi,
planis perfuaías,opufculum hoc,mole
quidem xiguum, pondere maximum,
genüimump foetnm fummi viri;qui fibi
totícriptis moy numentis pofteritatem
devirixit ; tibi virqi"
do&iffimo, et de Medicina preclaré meg. renti, gratiffimum fore. Quare
fiferem]i; fronte hoc quidquid cft
libelli, argumeng tum niez in
teobfervátia.fufceperis, mee] folita
beneuolétia amplexus fueris, candiifi...diore hoítia me litaffe exiftimabo, V
AL E AS VIE uM «Iq ena o e942* 164937
C6 dle: XA FT : NIST be ees; AS ears; ESSE ev E£3£ t 223 2,
$9 "2; €2, -. s[EReps: iis t 5 c»
T3TU P SV: Iq s] Qe os cota cs Aj bnc
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a à4d T axi à : ^cr Via hein lo: fote,ut biclabot meus iri:
h vatios (ctmones eorüm; qui itüt!
tatioSeimm averent cognofce hs s res
vel ccgbitam improbatent; gp üt o hominum geneti pfe tibfire era primm lom nium It anitno háb beo. Cüm ab juv
enillbus an jnisa d hofce jam e3 cXaCLz
etatistertnibos, ita tneddicam ! lianc f2ctitavilfem artemsut fimul alias
lio fiiine libero dienasartesaff BieXpoitulavete mecum amici fiotüni Iiéteratüm e2enere pius alic quantó
Viderer Mponete labo tis;ac itudii, quim
1n hac ipfa faculIlKite; dade nominis,ac virz z leaüdor nobis peti qxur uai verfus. Q iipp ) €; 1] *baut,moftros
in Hippo Ja ^ Cratem, et in cione P MA
ccn Corbin C. (cr v "m
- et colertem homines, quód
in t3» tATlIos.
D» tários,itemque de Ne vorum
varietate Commer tarium » quaimyis ad
ipfos Medicina fontes haudij'"
dubié pertinerent ; non tamen attingere confueesj o" tudjnem,& ufum artis,& equum etfe; ut
quadra:4i^ ginta annorum,quotfermé
contrivimus in how medico negotio,
fructus aliquis ad publicam utiifi"
litatem exí(taret. luíta omnino,« piena fenfu .humaniffimi vifa eft querela,fecimá ufq;
libenté: ind uraninium,&
cogitationem à noftri: oble Games tisad
commune beneficium avocaretmus. V erümpiuz
enimveró cum attenta meditatione mecum ipfi confiderafem, ecquis in tanta librorum
varietatufil vacuus locusinduftriz mea
celictus foret, 1ta regu periebam,
otània, quecumque vel (cientiaé petu
veítigatione, vcl differendi tubtilitare trademdigji effent, exp icaffe inagnos viros, quorum
nec virgi [1 gere, necequaregioriam
poffem: ltznova cutdibis
folicitabatanimum meum; et haud fané medicis criterangebar. Nam neque placebat actum
agegpiir do tempus conterere,neque
certandocum eXceepiü lentibus ingeniis
mereri reprehenfionem ; et capi
villos;& recté monentibus ; atque cohortantib»] atoicis animuserat fatisfacere. In bac
fluctuanij apim1 folicitüdine di
multumque volutátussari madverti tandem
»locis'aliis omnibusoccupat:) eum vacare,qui
veluti moresartis» et quotidilj nam
diíciplinam contineret. Nam etfi partez
hancipfam attigere permu'tl» veriüs tamen at gere, quà ad plenum funt exíecut; : Et
plerum que ità variantopinionibus »
atque fenrentilss haud fermé vera
ratio poffit extricari .Quamed geni [i
sh ilperfa, vel contraria concilíando;vel omnia com tem vel ínchoata perficiendo ; vel colligendo
di» wiMPlectendo via quadam, et ratione;
videbar aliiu] id conferre poffe viciffim arti, que nobis et vi ujee die nitatem,& commoda rei
familiaris, et gra iliam ;& amicos,
et vitam denique ipfam confett, drelut
zmula Fortunz, certé diving opis ad mint
wlkra . Cæterüm fcianr, quorum in manus hzc no ilEra cura pervenerit, fummam e(Te voti,ut
vergzen: 2 ihe jam ztate; patri&
profimus extremo conattis iatera
concupi(cere ; vel fequi defitum mihi effe. «sciant item, quamvis certifima hzc
fit; et (impli«hiffima experimentorum difciplina ; quam táàm AMiu tractando calamitates humani
corporis,int ldpfo pta (ertim
Valetudinario Mediolanenfi,thea ro
morborum omnium; haufimus, haud tamen
dupuenaciter nos defendere quidquam, et affirma idre.Sententiam mcam expono; inde fædum
nce» dpcusfædum exitu quod vitet,
fumat juventus,que alprodit nunc primüm
ad publice valetudinis cu jram. Primus
Liber zfeimad'verftomes et: Cautiones continet, qua ad Medi cum pertinet quatenus AMedicusi e$t ; et proamait loco effe poterit . Secundus, eas,quain reda vidus) vone,poti[simuin acutisocctmrat:) Tertiuseas, qua ad pbarmaceutt-) cum negotium pertinent. UATtHs, £45, quatn
fanguints mif s: 7ene ob'ventunt, n Quintus;easquain curandis febr'vh bus obf erwari delent . Sextus 2245s verfatur.qua ad mor9 bos partic nlares Acapite ad meti. bra naturalia pertinent . Se eptimus eA$ conmpre! hendit, qui ka reliquis morbis ob[e META Y i" REA
T e y9 TITLE Bnimaduerfionum, et Cautionum Me. dicarum, Continens eas, Que ad Medicum pertinent, quatenus
Medicus ejV : quz proeezz loco e [Je
poterit - EDICVYVS pietatis, et relioionis .,M*4/* TÉ e. TAN c pietatis cul "4 maxume fit cultor, arque ad ean-
«n 4721/4. dem x2ros ccnetur
revocare. É 2. Habitu corporis in
omnibtis. 5, ;,, rp, fanitatem
praíeferat,, quantunx prafeferat
peculiaris ejus natura concefferit : putant enim. plerique horminum,;fiqui minüs feliciter cc
rp us difpofitum habeant; eos neque
aliis confülere poffe. Flipp. Zb. de Ædico.
namajunt : Cauet primum fesct tunc me
illi daba. RÆ IR 3« Caveant igitur
Medici, ne fe valetudina- ],;,,];:..
tios prædicent ;, et fi quando periodicis morbis. tentantur, cur illos
eyirare nequeant» often» dant ; quomodo
autein fácilé illos evincant ; etiam
doceant. . Sit ftudiofus externz
mundideismanibus Stadiofus ^ x : . Veg
PE ?/^* sotiffimüm, unguibus » capillis,
et barba. Ex sonnditiet ) qum Hipp. //b. de AMedico: oie Caveat tamen exceffum, ne in ttnolli-,
/ ; nsa datine,, ticmncadat,neve
excrementorum alvi, lotii, et excretorum "per- tüffim. confpectum
averfar1 credatur . nin ; 6. Veftitu utatur decoro . Hipp. l;b. de 7M
eVeilitade-. 1; 9. Caveat, ne in fufpicionem ampullofi artifi£0Yf45 e A. pow
ccn cis cadat,& Sophiftz, quem
depingit fuis coic ribus Hippocrates Jb. de deceztzornatu, bis ver bis : Jem
conventu faétosambitiosa queffuosa fna profeffione decipientessia urbium
circulis ver- fantur .- Quos ex vefhitu
(&* catevis ornamentas quis
cognofceye poterit « Quin etiam, quà [umptuofiusornari fuerit, eo majore odio
ave r[andi, ab RSS o oc eisquieos circum
[pexerint, fusiendi. Ex u[n au- iu tem
fuerit, contrarium in bis fpettare ; quibus 102
zne[t exquifttus, neque curiofus ornatus» ui [eje c cultus venuftate e frugalitate, non tam ad
fuperflum curiofitatems quam ad optimam ex fliimationem » prudentiam ; C
animizaoderationem compavarunt . Càm enimilli dodtrinà fibi au&torita- rem comparare nequeant, fplendore au
n,veftium cultu medico ; ac fervorum grege, eam
A comparare ftudent ; quos ridens Anftophanes p ram *- ip INebul. joco vocat cOpatyldoyv e
pyo Xo TES. ar adimi ' quód digitos ad ungues
ufque annulis erpent. y? Odoratis utatur; cavcat
tamen, ne morbi r, o45,;7. inde
concitentur : fepe enim mofchui, et fimi- qualis. lia. redolentes, hyftc 'TIcas mulieres
enecant . Sintigitur temperata omnia
. 9. Qualis effe debeat Medicus in
omnibus y,,4;77; i ftans, non aliis
verbis, quim Hippocratis, o5 ibus
defcribendus videtur, Jib. de deceztz orgatu . ti pra]is reliquo vitz cultu muni mé fint diffluentes,
auf quati ac fuperfiu1 ; id eft .
honefti in omnibus;f ftudentes, dicto,
nec facto fuas actiones u]trà quàm decet
jactantes,; fed cum candore,veritate,& inteeri- tate, fepofità omni fimulatione, finceré
omnia reprefentantes; 1n hominum
concurfibus oraves; ad refp da dum, et docendum faciles,& appofiti ; ad
altercantes graves, et pro
veritate conftantes ; in fimilium amicitiis con- trahendis s prof b 1C jentes ; cum omnibus
huma- n1, familiares, et affabiles ; in
feditiofis contentionibus taciturni, eofque audiant patientet, et us in refpondendo, fi effucere non poffint,
mode- A fti et quafi cogitabundi
prudenter refpódeant; errores aliorum
ita corricant,ut non reprehen-- fionem,
fed veritatem ob oculo sfib1 pra fixiff e
oftendant. In occafione prudenter capta indà, et coenofcendàoculati. In victu fru cales,
e paucis contenti; liberales fint, non
fordidi ; aut petaces .. Patientes fint
in occafione exfpectan- dà, neque
finantfe, aut deri, aut.affiftentium
precibus; aut importunis verbis vinci, ant'ad e entum ante tempt Tene ores cibos ; vinümque concedendum .. Non à c
/ (4 m de À a fint i2 Qs
fint taciturni, neque loquaces ; f-d in eàzemo- derationem fervenr ;; promptitudinem
tamen; datà occafione, ad ratiocinandum
oftendant ; | nihil fine demcnftratione
proferentes;non bàr- ^ baré,aut
populariter?oquantur, fed cum affi- M
ftentibus; et zero eleganter; et pure, cum Me-- dicis Lariné . R ectefaaàt perfüadere ; nam
Pfa AA ve m9 Qo pde Legibus,vodr, ut primum doceat, et , Æ - perfuadeat Medicus quid
fitxgrofaciendum, | i 4cnon priüs imperer, ita promptiüs
parebit..i Quare dicebat Ariftoteles:
Parebo lubens; fi vera58 bacsqua dacts «
effe.demion[lraveris. Xlonores per. fe
contemnant, ambitione ca£entes ; fed ob vir-
tutem cujus comeseft edoria ;. pro1pfo.etiam et vtabtm - honore certenz, virtutem tamen
certà ratione "Non :nani gloria n 77.
fmi amore gentetur . ftabilitam
Hibenier admittant ;ine opinionis fuæ
nimiim ftudiofi videantur. Caveantmaximó, ne inani elorià, aut ni- mio fui amore rententur 5 1llà enim ; quod
ne- fciuntdifcere prz pudore
renuunt;neinfcitiam cum rübore-prodant
per ;dium vero có pervce- niffe fe
rerfuadent fibi, quó perzendum erat. 10.
'Ne fe alicujusfectz, tamquam 1nanci MIT À ; "i E ^ pu fi pium, addicant; necjurent inalicujus
auctoris feta. fententiam, fed nudam
rnaim fectenrur wer p «i Suvalis
£z &walis £n e» rreffibas. tatem, ilíquefchi fübfcribant . 11. "Medicorum cóngszeffus, et confultatio-
: nes libenter admittant; iltud cbfervantes s ut in| jis fuperflua omnia devatent, nibil ad pompam
i| proponant:contradicendi ftudio non
ducantuz; fed ciun f. ]um fibi finem
prafigant;ut mc rbumy £vin- f.
evincant, ac priftinam reftituant fanitatem. Congretfus hi, et plurium
Medicorum confültationes feclufis
arbitris fiant, neque affi- nes, et dometfticradmittantur:
liberis enim fic proferuntur
fentent&e, atq; facta à primo Medico » fi quando correcte ne indieent,
corriot liberé potfünt, fine rtot$
ienorantiz; qu v fi fir- mis rationibus
erunt firmata, facilc à Medico
admittentur; quz fi palàm, et domefticis au- dientibus proponantur ; ab eodem
mordicus defendentur, etiam fi falfum
defendere fe cos gnoverit, ne fi mors
fubfequatur,iMlTius caufa in eunr
referatur. Vnde perpetva diffidia inter
Medicosoriuntur, quod antiqui Patres noftri ir hac noftri urbe, et noftro €cleeio
obfervans tes, lege caverunt, ne
confültationes medic pu ibIice
haberentur ; unde etiam tanta conccr-
diainter Medicos magna Rujus urbis fempet perfeveravit, ut in£er tam mu[tos vix unum
re« perias, qui altum ad medicas
conífültatiores. non admittat 13« SyInam medicamentorum: praffantiffiTorum
ad morborum eenus quodcumq; prom ptamad
manus habeant ; ne ina2rverte morbo; ac
inducias non faciente, veluti in fàlo harere
videantur. 14. Vtfelectiora
quedam, et experta, fi- piifque ex
perientià confirmata habere eos có«
venit ; 1ta 1l[a in arcanis ita habere non decet, ut etiama iliis communia ncn faciant. 1j.Sit re ; et opere Medicus, non famá,
avt A 3 noml- $ Confalta-o
Loz 65 fang feciufis are bitris »
Sy'uam mo 4.€^826€5nf10e rumed ma
2/M5 habeot Secrefa Tr dia
noz ) b sbeat, fedi CQÓaAunittf. Qu enis de
et exciledus- nomine tantüm.; quod ut
affequatur,his omníbus przditum effeoportet;de quibus Hipp. /b. Y: de Lege. Nam excoli optime debent hominum ingenia, fi ad perfectionem in hac.
facultate ;ervenire debeant. Qualis
enim in terris nafceuum eft culturastalis euam Medicine cognitio. Indigemus igitur IVatura » Dotlrina s
Moribus genero[is, Loco ad di[cendum
accommodata, In[ltutione Apuero, Induflria s et Tempore. Natura no[ftva
veluti ager efl doemata vero docentium veluti femina funt . Infliturio à puero
refpondet opportuno tempori » quo [emina terra committi debent » Locus flIudiis aptus eft veluti ambiens æv,
à quo € terrana[centibus nutvimentum
accedit . Induflvia, € flndium cultura
e[t . "Tempus tandem bac omma
eonfirmat, ut perfecte nutriantur . Exercitationem medicam fub docto ;
et ds perito viro facere non dedignetur,
neque erud ha d befcat difficilia queque perfcrutari, atque de icd "^
obfcuris interrogare : fic peraliquod temporis intervallum in magnis urbibus fefe exerceat
; exa codea. non ftatim in vilibus
oppidis, ftipendio conftiA iwel. Lf. tuto, quod plerique faciunt ; ad medicinam
fa- E T ciendam fefe accingat. Modeftià.
quàdam accinctus zerotan- pus ingre
titm. domos ingrediatur; quilibet enim horà
distar. Virgines, matronz, occurrunt, ut
continentiam ómnibus in rebus et habere,
et reprzíentare teneatur. Cg gl. 18. Cumimpernts,& mulierculis de
mor- culis, chi» bor:m caufis, aut
prefidiis adhibendis non2 agat; E xerceat fe / 253
Mod» Íe ao Avw, GCL C [LE € Bat ; fed neceffaria folüm proponat : folent
peritis de; énim imperiti Medici, ut
gratiam apud multos rebus. snee
aucupentut ;, hoc medio mulieres et imp 'Cr1tos feducere; quafi illas multi facientes, ut fi
quan- do morbis tententur ; eos ad
curationem accer- fà nt. 19. Gratisaliquando medendum tum pau- peribus, tum veris amicis;ne aut fordidi
animi, aut minus grati notam fübire
coeantur . o. Neque tamen velim Medicos
mercedem aut datam no recipere, aut
oblatam quafi aver- fari, aut exhibitam
quafi cum rubore, aut velu- t furtim
excipere : fi enim prompté mercedem
recipere viderit ; fibieger perfuadebit, Medicüm illius curationem
libenter fufcepturum., neque quippiam
eorum omiífurum, quz pro anitate
introducendà fuerint peragenda. Mer-
cede autem non receptà,aut dubitabit, inre ani- mo curationem non füfcepiffe,aut certé
dignum illum eà non fe cognofcere ; unde
contemptus ; et exiftimationis non levis
jdn ra. Sunt enim, qui hac raüone
multorum curationes aucupen tur, quibus cum cxpeélationi pramium ncn. oftmodüm correfpondeat aut moleftiam, et I f],,
onus illud fine fructu fuftinere coguntur ; aut muffitantes, et in angiportu deinerati
animi vitio conquerentes, quafi ridiculi,
amiffis la- boribus, et laborum pramiis,
deferuntur, aut euam exploduntur, alis
in illorum locum. poets . Impium eft ; magno morbo urcente A ;
de A nie ditis non
[ferat » Gratis ali quando Cii.
rand 26 ^ Mercedem. Bromptée ac.
CibiAo De mirede non pa-
mercede pacifci:ut enim in nobih hacarte feres
eifcatur. per hocindignuin
videtüt, ita urgente tDorbos impium :
occafio enim mederidi fepeavolat ;
dumdemercede z$er dehberat : hujus enim
opportunitatis momenta redire nequeunt, et cà elapsà, inclinatio fitad mortem, autad
de terius . Atneetiam, fi quem ingratum
futurum Ingeetos 1 arbitretur;in
periculis deferat; fatis enim fern-
seceffitati- per fait, ingratos etiam fututos humanitate.» us non de (crvare ; quàm inhumaniter
obingratitudinis ferat inetum deferere:
et nielius multó eft; à morbo
evalefcentibus exptobrare, quàm calamitose affe&tos deferere . Hipp. zz
Praceptionbus. M Neimmoderaté, aut
immodetfté nimià Non fit i4. cy, ya
tantià ninrim polliceatur : nimia enim
ét bund'h. tc cnrationem pollicitatio;exculationem poft e» nm! cutam requirit. : pollicitator. N A dis idein z4. Nec rationein curandis morbis folüm; Docheina, sitatar; nec ufu, aut nüdà
experienuà : claudi- C "[4p9l- cat
enim Medicus alterutro horum crure defti-
sini tutus, Ratioigitur ab experienuà incipiat ; et in eam etiam definat : Experientia autem
du- cem habeat rationem, et 1n eam
dentque termi- hetur 5 utra enim per fe
indigzens;altera alterius
auxilio'ecet. 2$. Non inhumaná
feverirate ubíq; utatur s Nox fii fe.
led fecundum conditionem hominum fe guber- .
veru; net; nonnumquam eratis
curet, vel ob eratitu- dinis memoriam,
vel pre(entem exiftimatione, né
avaridü » notam incurrat ; Quod fi occafig
exclexercende liberalitatis fefe obtulerit, vel pere- erino, vel eeeno omnino füccurrat: Si enim
ad- fuerit benignitas, aderitetiam
artificio cóm pa- ratus artiamor. Adeó
ut quidam eeri, etiam fi fentiant morbum
fuum calamitofum éffe, ta- men propter
Medici benignitatem, fibi perfua- deant,
fe ad fanitatemredire poffe. Hipp.sz
Preceprtozibus . Prolaborantiumvariá naturá, et condi- tione, in congrefTibus, et fermonibus
conferen- disorationeminftituat ; et materiam
fibi deli- gat : alio enim modo cum viro
philofopho eft differendum,&
aliocumaulico;diverfa eft ratio
alloquendi puellam vireinem, et matro-
nam gravem : cum bibacealiquid de
vino loquetur, de frieide, et limpidz aqua deliciis cum abftemio ;. et fic in fineulis., In fermori
bus varius pro agreráá VATRCÍATE o
PEDI b MEDIOLANENSIS, Animaduerfionum, et Cautionum Me- -. dicarum,
Continens eas, Quein
vetlavitlus ratione » potiffggum. 1n acutis
occurrunt. Vstlus 1n acatis te-
20H55 CHI» c Vamvis acuta
febre. laboranti- E busvictus tenuis
conveniat, pro Xarietgte acutiel
immutandus, ; E] Gut materie
coricoquenda na- ; turamæis poffit
vacare, atque morbo et fymptomatibus
conflictata, cibo etiam et craffiori, et
plurioppreffa, non fuc- cumbat. Virtute
tamen debili per fe1pfam exi- ftente, et
ncn vimorbi, aut forma vià üs per unum
graduri aut faltem quantitas erit augé-
da.Si veró vi morbi debilis reddatur, ut aliquo Vidus'vtr-
ule o fe dei b; d^ 4i-- ge duse:
foi Y723* ; ff vt bow folà modo
quantiras.augeri poteft; Itánumquai
quátitate . forma viclás crit immutanda. In virium imbecillitate, alia
fit ratio vi1- éüsin qua intitate, fi 1
per refolutionem fiat et alia.fi 1 per
acefava tic nem : in hacenr np árüm, et raró;inillà
parüm,& fepé cibus offeredus eft. ji
V ictüs forma, et quantitas, licecab Hip-
pocrate et Medicis prafcribatur definita; pro conditione morbi mpg cautio tamen ma- xima adh iben da eft, pectu naturalis
tempe- ramenti, cüm alios « di inedi. im
minüsidoneos M idea imus, alios Jejunio
ne tantillum quidem debilitart: :
Quareaugendam 1n illis quantita- em
dicimus; quin et formzx eradumaliquando
immu tandum, ut in calidis, et calidis et ficcis obfervamus;, in quibus nifiid fiat, et acuüntur ce bres, adgratirti humores, et exliau- untur fpiritus ; unde in animi
deliquia,fynconi et maraífmum denique terminantur cori. 4. Cautio etiam adhibenda eftin victu
infii- ti iendo, qualis fit corporis
habitudo, an mollis, laxa;poris pervia;
an folidior, torcfa;& durior: -
: I 'U:rYidufo YAYO » [4 per aggrauatie
(EP; J/! be tal rcf p»? (0x
e p? TY HZ, C 45€ € 6 Z4 7713 Viéiusiun-
JTHARAMS rattome 16é- peramone
tora it i E Vicdlus ime
mutandus rattonc ba- in i]l|à enim quantitas erit cibiaugenda,
inhac £was co;- potius minu crida L
poris. $. Habenda etiam maximé eft
ratio ventri- V/«s imculi : $1 enim veegetus fit calore, et multo fenfu przditus;aliquanto plus HH: erit
concedendum: fiad coctionem iners; et calore
deftitutus ; füb- uahendum de qi
lantitate erit. 6. Viris, quàm
mulieribus;iracundis, et ro- buftis,
quàm poni animi ho muncionibus;pl Us
femper eft concedendum. 7. In&tatbus ; ut pueris; et adolefcentibus plura
mut TT Yattone diftofitionis ventrictlt e PS do
( ;bi. quan IHto$ 2114 da vefteéin
f Xs . M Ó / Puæris Co
gm tesa e RE :£z.
adolefcensi plura funt concedenda,tum ob difflaüonem ni] gri &us pluse - miam;Scob caloris robur, et ob
teneram, mol-'1::: bicateden- lémque
fübffantiz compagem, tum quód per-.] i
dum quà cnni quodamcorporis motu agitati, facile ex-- eii fenibus-. hauriuntut:ita fenibus liberius
etiam jejunium) i52 poteft imperari.
Cave tamer, ne inter fenes de- (ou:
Decrepitis : áo abs e pe" i Ai :
parum, c. CEepltos collocaveris ; hrenim;cum virium ime jr fp. becillitate tententur; ac fpirituum
paucitate;utr| ui pauco: cibo fünt
reficiendi, ne paucus calor ài yiii
multo füffocetur ; ita fepé cibandi, ne coníu--| iii mantur.r. Z4pbor.14- griff ra. |. 9« Inquantitateveró, qualitate;
numero ex-4 oi tiopyo va- hibitiorum,ac
forma victüs, et confuüetudini 5 1
vietate con et regioni multum tribuendum cenfebat Dicta-4 («« fuetudinis, tor nofter 1.4pbor. 17.quia
quorum ventriculuss| cj €» regionis
(emel, aut bis humefcere intumefcere, et con-J c; eit mutan- coquere con(üevit, fr defraudetur
; muratà con-4 ;j; di. füetudine,temperamentum;habitum;, et actio-4 nem immutat . Et fi mufta et ingerere, et con-4
i. coquere folito aut potionem
fimplicem;aut for-4 ».; bitiunculam
exhibeas, in marcorentcitó indu-4 Ces,
ac vires vitales quàm primüm deftrues . 9. Cavendum etiam in quantitate cibr
prz-4. fcribendà in febribus, nefemper,
et omnibus$),., gonceden-- » jade d n
"T. Dun 4i;, fed r4. ARI temporibus
eandem definiamus,cum hye-4;. vius;
4ifta 86)& vere, quód ventres tunc naturali calore. fe minus, làaximé abundent, vnica exhibitione
plus fii! ftd fapius . exhibend um :' hoc enim eff; quod
docebatur alli s. Hippocrate, 1.
Zfphbor. 15. Æftateautem, S, autumno,
cüm calor langueat, minor quantita:4?
fingulis vicibus erit concedenda ; fed fzepius re«4? p
Hyeme pi? TA Mur 3 petenda, ut calor, qui.diffolvitur,
poffit inftau- rari : quódnfinuavit 1.
Z4phbor. 18. IO. Cautio tamenfit, ut
zftate, fi partitas "A
cfilate exhibitiones, et quantitatem
totam, autnius 44modo dici ;aut integri
quatridui metirus eris major PI eonce-
fit quantitas, minar atizem hyeme: nam hyeme 4*24»m i» minor adeftneceffitas quód tunc minüs refo]-
partitis vicibus conceffo,& imbecillirati caloris fatisfaciemus, minus fineulà vice exhibentes
; et miim refotutioni, fzepiirs
Gibiuexhibentes: quod Galenus infinuavit
1.4e rat. wit az acut. 44. ubrenumerans,
quzad:cibi in zeris fiibera- €tonem
faciunt,unumid.effe inter aliascribit,
quód hycme quis laboret;minus.enim tunccibi erit offerendum : recenfens autem quz ad
cibi adjectionem faciunt, unum effe
dixit, fi atate laboret, quod Avic.
1.4.7 a£. 2.cap.8. de ciba- tione
febricitantium in generali æens confir-
mavit. 11. Obfervandum autem,
predicta non per- petuam habereveritatem,
neque ratione cor- porum, neque ratione
temporum anni : vatur corpus; etate
autem coplofiori cibo, fed men "M^
* V7T^ ^V dt $ d o Hyeme
uandomi aliqua. 54; puryig enim dantur corpora, quorum natuiraliscalor
dug. adeo eft imbecillis;ut à
frieiditate hyemis faci- lé cvincatur,
calore veró zftatis quafi fcveatur: alia
etiam, five occultà quàdam, et nobis inco-
gnità proprietate, in aliquibus dictorum tem- porum annt; in robcre virium, aut
imbecillita- te; proportione non
refpondent difpofitionibus £X ann]
temporibus profluentibus; aliquos enim í
rci n Victus: for- a 12 4€H
is variarda pro vavietate véeft,
nc tinuà.; vftate robuftiores reddi » quàm Ca lioe fortlotes autumno, quàm vere. In his is ratione victüs inftituendà refpectu quantitatis, 1d; quod proximé
dictum n erit fervan düm; tum in
quantitate con- tà. Echyeme pauciora,
fed fiepiüs ;eftate plura;fed rariàs
erunt conceden- «la ; et anni tempora,
fi fi naturalem non fervave- rint
naturam, victum inftituendum oftendent
cujus naturam induerüt. enim
Récid hvet Inc pro
ratione tem poris; tum in difcre potiffimu m 12. Forma etiam vids pro-regionum va rietate, et locorum confuetu dine; aliquo
modo eftimmutanda, et quidem càdem ferv
atà propor done per oradus rati
inetempol 1 le laud andi IS. ÁÀ ver.
7 s,utip quantitate variandà um obfervan dum dixin « Colieét.cap. 10. cim .Vnin fuà.regiope. ;nemp ein Hifpaniz parte
cali- dior, |, tenuilmam ditam effe aut
cremoremip hord a€1 l« s àl aut: dux mmum melice 3 X és fórma folà im] it angu autincifu m; aut friatum ex: ; cüniantiquis, et Galeno potiffi- omnimoda quatriduana ine dia ; fictamen, ut vi--Jiz : eradum unum i1mmute--Jffi rautem ied fiat non à eradu ad era 1
dum, fed à.tenüi ad medium; &.aliavando eti ip» ut pid aim n pof 280.48 ad E lenuü
In, Qua fi Pea cpLEIdJJMDUS Dac
VICI jo^te Péceaph,quod in mu duis
I Hp
Hi " * Y e k AJpTpX CI ILE
R4 iliz nobilif-, et Gallos eEa dà veró
s ium; etiam legendus eft
pul]-J Ccher x ha
eatur ratio, WEINE Copfi
chetrimusejus liber-De zere.. aquis, G' locis, qui luftratus.
13. Ex vite inflituto, ex arte etiam, quam. exercent, defumenda erit à Medic et formas quandoque victüs; et quantitas,càque
utraque mutanda, prout magis, minüfve
et laborib folidiores partes colliquantur, et huimcres, fj finifve exhauriuntur. r4« In quantitate ettam fu [us benda À
ante- actz vitz rationem habere ;nonTj
'arvi Y0noJr.enpt ti eft : fi enim
laute altus fit, fi plura ingeffefit) anres
:: btrahenda erit quantitas : fi veró jejenaverit, et pauca,c:
aquec nCO ctu facillima afivimg pfit pr
aliquod temporis intervallum quantitas érit
augenda, aut forma erad us. 1 $.
Cuin à morbi lc ineitudipe, aut brevitate
diftantiaque flatus nx rb limaxime ác IDattr a EN rma victis, et alic uie parte qu
ántitas,tüt miris 1 d quam cinis victus
rátio ; CUN TRC fultum Medias, et Paris cenfemus, quod àb Avac. conftitutum
eft: Cum jenoras egritudm di » fubtilia
recen. id enim in morbisà materi
pendcnüibus cmnino intelligendum eft:
Bie eniti) lo tempcris in- tervallo
materia ncn auccturinec virtus-diflra-
hiturà proprio furgendo murere agendi in. materiam: interim enim fuis fc fio eple
miciBus, et materia faciens morbum.
facilét ficnect. 16. Vtveriffimum eft
Medicórüillvd pra- Céptum ; et commune
tani ditturpis mcrbis . Bo95d- |! eiiam luculentis Comm entariJs à nobis eft
il- dab. vs y 9, €L
; is,9ui $e ali-, utm banda e
$ p Aser - EX! SÉ, ! e
ien Acuttstn fóribus te
nutus ciba dum quá 1 elus acutis
Tenutfs. vi dla medz sn flatu se
frg. Abb. 8S. veriffi-- 9 de ffa1u benes f»mptoma-
?4. quàm acutis ; JI flatuytenuiori vicluutendum e[- .| v. e, quam in principio; quoniam tamen fx
penume- ro evenit;ob ingluviem in
aliquibus civitatibus; ventriculos
primis ftatim diebus, qui principio ||
debétur, crudis humoribus effe refertos,in lifde: etiam tenuiori victu, quàm per principium
li--| ;... ceret, uti, et aliquando
etiàm tenuiori, quàm ini| ftatu, cüm et inedia
aliquando omnimoda con--| veniat,
oportere cenfendum eft. Celfus /rb. 2..|
cap. 16.dicebat: Jzgiria morborum primum [amem.»,| fitimque de[iderant . 17. Laudanda illorum eft. diftinctio, inte-1
: nui,aut craffo victu inftituédo 1n
acutis, et d1u-! turnis morbis ; quód in
febribus acutis tenuior) efTc debet,
datà càdem brevitate, quàm in aliiss]
acutis morbis ; quodin illis magis coctioni 1a-4 cumbendum fit; quàm virtuti;ac majora
fubfinttj fymptomata : in diuturnis
autem. febribus mi-j fius tenuiter
alenduni eft ; quàm in aliis diutur--j
nis morbis, quodin illismajor;quàm in his fiatt virium exfolutio, et proptereà etiam magis
im febribus virtuti eft
profpjciendum.. m 13. Cüm Hippocraus aphoriftice fententia]? quàm máximé univerfales etfe foleant; ea
itidé;J que lib.r. propofita eft numero
8. quà afferitur:j Cum morbus in [uo
vicore con[Iteyit., teutlfimon ^ vitlu
utendum e[l. ut univerfalis fityomnibüfqued,
morbis conveniat;de ftatu intelligenda erit,quiil| " ex magnitudine fvmpromatü fumitur : fic
enim) tam vera erit.1n morbis non
fervantibus mate--«! riamad unam criucam
expulfionem, quàm in, ícr- L4
fervantibus, fecüs quàm communiter Medici crediderint ; qui Aphorifmum illum folüm
ve- tum effe ce .nfüer int in morbis
fervantibus ma- teriamad unam criticam
expulfionem, de ftatu. ^ arbitrantes Hippocratem
loqui, quià coctione céisndnit P fu
mitur : in quc D bfervàrunt, Hippocratem Et.
de vitiu acuit. 22. 1n morbo non fervante mate- riam ad unam criticam expulfi ionem,ut in
plev- ride, 1n ftatu sn ies coctionem
plenius nu- ciendum ftatuiffe. Quod fi
ftatum penes ma- anitudinem fymp tomatum
eti umin iis morbis fumamus, utin
plevritide, etiam tenuiffimo v1 tu
utitur eogezs lib.tex.a21. Cümos amarefcit, et ficcus morbus eft, tenuius ericalendum;
tunc enim,.etiamfi fit principium, aut
augmentum. penes coctionem,in flatu tamen
penes fympto- mata confütutus efti
morbus. Quamvis veriffima Hippocra tis fenten-
A bu "x Tenuisi- tia I. Zfp5or. 7. tenuiffimá. dira. utendum
effe, 1530 "viélta ]t ubi morbus per purse cít,ó TU EE soul bores; cxim end tamen ab his omnino erunt
donsdas 458 fcbres peftilentes, in qi ET
quamvis fummo raris, pe- fint
fymptomata, et ciaflime ad ftatum perve- gilestes ta niatur, quód vires in cis flatim quafi
collaba- se» feres Ícunt, lautiüs et uberiüs
eft nutriendum, ipfo fut excie- etiam
v190ris tempore ; ut abundé demon(ftra- 2:c74«.
vimus in noftro] ibro 4e Peffe. t4
20. Ad formam victüsinfüituendam, puta, "(257 an Ver coena tenul,anmediocri,anomni-
"^ 'TST da li nedi ?1 ;al (o k
)po yu all fo rbition! bi IS,an c 64 £ercu lis, pU La ; UC Xtà pt lan à, pane
coricifo, aut LA COR - Ü * den ^.
4634€44, C" po 4 770A" contritoex jure;quamvis virtus
primum locum fibi vendicet; Galeno
refte, 9. AMeth.smed.cap.11« (P 13. 1.
de.vat. vitl. 1n cut. 44. quod cüm.
morbus fui ablationem folum indicet,virtus verofui cuftodiam ; hac
potiífimüm victüs formam oftendet, morbi ramen difpofitio etiam ad hoc concurrit: nam ZApbor.7.dicebat,//b:
smorbus peracutus eft, C fLatim
extremos habet labores,extreme tem[[imo vitlu utendum e|! . pex labores, acceffiones ; et fymptomata intelligens,
que morbi difpofitionem conftituunt, ut
et colligi poteft ex 24phor. feq.
C" 1. acut. 42. 43« 44- (2. esic-
dut, 36. ubi ad formam victüsinveftigandam.»,
bud qu^ xewndicit neceffariam effe cognitionem et roboris E
virium,& difpofitionis morbi; et 3. acut. 61. Et jure quidem merito: quis enimncefciat, ex
lon- cis, gravibüfque acceffionibus, gra
ibüfque íymptomatis formam victüs
tenuiorem indica- ti, nenatura tuncin
refiftendo caufz morbificze, et (ymptomatibus
detenta, ad concoquendum cibum
diftrahatur ? Verüm nec virtus fola fufti-
cit, neque illi conjuncta morbi difpofitio, nifi iis diftantie ftatüs pracognidonem
adjunga- mus; nam,etfi ex conftitutione
morbi, et viadü robore folam potionem in
prfenti convenien- tem effe
cognoverimus;perfedlé ramen hocífci-
renon licebit, citra ftatüs przecognitionem, an ciboillo in pofterum fufficere valeat ; Citra
vir- rutisincommodum .: Obid
Hippocrates, poft- quàm morborum
difpofitionem recenfuiffet,. fi
fubintnlit : Coz];cere atttem oportet » &gvotamtem, fi feficiet, ANIM A4DFERS. LIB. II. i9 fi
[fficiat, cum vitlu perdurare, doge snorbus con- f ftat . Fi tcb 1d. Hippocrates in cc
onfidcratione virtutis, ftotüsn.eminit.
A morbi igitur difpO« sev» "Ad
fincne victüs fcrmam ei iemus ; deindea Oro- ew. tantis virtutem infpiciemus ; deinde ftatüs
di» antiam conjlciemus ;
demümzaftimabimus; an eo victu, qvem
mcrbi conftitutio indicat; virtus
zgrctantis ad ftatum, citramagnum vi
rium incommodt :, durare queat; in quá fen- rentiam veniffc G: ehum videmus r. "hor.
12. 21. Cümin vi&
üsinflitutioneillud maximé fita pud et antique
esp atrcs noftros, et recentio- tes
contr: verfum, cum d ces admodum ne- presaléte S ectio et fermo vic iis ; et qvantitas
determina- dicatióne ta prafcribi r« f:
t; ad quam partem przftet de- 555,
Errores 45 tenunatiu, clinare, vt minüs Izxdamus, an ad:
iumpliorem, fas. ders. in ad tenuicrem ;
cb locos Hippocratis co ntfO- riores, f im
Verícs, 1. 7 por. C07 2.derar.vict4z acut. acfecia. al:0s .1n €à cif cultate has adhibeat cau e
nes Medicvs, Cümà virtute primó illa
dicatur infütvi, et per fe, ; peradjectionem ; fecunda fio, ! peraccidens à morbo, per fü btrad 1onem., fi Medico 1n victüs ratione inftituendà, tum
i fcrmá,tum in quantitate, viribus non
ma validis, nec morbo multin n co intrà
Indicante, contineataliqvantifpera recta
victüsratione» defiectere Paucis Ito
eft, pauló pleni r vt) victu, et ad
latus ( ut ajunt) plenioris accedete,
quàm ad t:nvicrem, prevalente indicaticne s virtitis . quàm rc A lav ctiam exemp lo cc
nfir- iEaVIt Gal.1.4cnt.a2 .Quc madmodum
écontfà, Preoalegte Bv a consoc LED.
SEPT.4ALII M EDIOL. anorbe funt
contraindicatione morbi fübtrahendi przva-
deteriores lente, et viribus validis, ceteris enam morbum fei exctffd- adjuvantibus, preftabitomnino
ad tenuioremi deflectere, acfi quando
errando à recto illotra- mire recedat,
minüs peccabit, fiad latus tenuio
risaccedet; fic enim ratio dictat, prevalente;có quód fübtrahendum effe indicat;morbo,
quod ibidem Galenus affirmavit. Ires ino 22. Obfervandumautem fi pat fit
indicatio forma vi-- à virtute, «
contraindicatioà morbo, in victüs dius
pari i- formà inftituendà equale omnino effe pecca1 5c 545a
gutant, qua fortiora [untynocerent s qua debiltora, prode[Jent.facilis [ant ves erat : Multum emm
de fecuro detrahere oportebat, ut ad d
ebiliffimum de- duceretur . INunc autem
uon minus delutum, nec oninus ladit
hominem; ft pauciora, defectuaftora,
euàm [atis eft, affumantur : fames emm magnam potentiam in naturam bhomims babet Ci
famandisce dlbilitaudi, € occidendi :
multaautema etiam alia wala
diver[aquimedlen ab ii:,qua ox veplettone fanty "mom
quit : $; quidem igitur [inapliciter, velut. aliqui ANIM.ADVERS. LIB. II. 2n gan minus autem gravia, inanirionis [unt 5
quamee obremmulto variegatior eff, et majorem
diligen- tiam requirit s oportet enipa
modum aliquem cone qePlare . Modum autem,
neque pondus, ueque ne Ier aliquem; ad
quem referas,cogno[ces ; Cer- titudinem
enim exattam non veperies aliam, quati
corporis fe fenfim... Quayropter valde operofum eff, za exatte condi[cer e, ut parum 1n alterutram
pay- tem del ling "AS $ quamquam
ego eam eum AM edi- cum vehementer
laudarem, qui parum delinquat ;
Certitudinem enim exatiam varo viderc contineit. Mox comparat malos
Medicos malis na- ARA vium
eubernatoribus ; qui dum tranquillum. Je
na mare, etiam fi aberrent;ncn fiunt mani» 7^9 . eft eorum errores : atv bi tc mp inoru erit;
»iHa eorum det tceit vriencrantia : Ita et Me- dicorum errcres, dum falvbres my db OS
CUFahts etiam 1fi n hirixime
celinavant, ncn fiunt manifefti :atubio raves m« rbifefei1llis cfferunt
curan- di,tunc manifefte d leprel
enduntvr. Moxexem- plo (Litieiim docet,
non mincra 1nccmmoda,s provenireà
repletione, quàmab inanitione ; et loquitur non de quantitate, - de formà
vie étüs, ut patet ex pr imis, cum dk
151 que fortto- ya [unt, "0cezt .
quod ad fü nct ciborum pertinere
conftat. 23. At veró paribus, et ex
virtute. et ex mor- bo vigentibusindica
tionibus, fi quisin metlen- ^
"m $ Z Krrores i5
JENNSMAM e dà quantitate à
rectà ratione recefferit, 1ita ut fip les
plusin quantitate, quàm o pot teát, exhibest, 4445" quá aut et *a debità meníurza à aliquid ca
letraha p^ P uta, (1 e foy? P3 fex PT) LVD. SEPT ALII MEDIOL. fex uncias fucci ptiffanz exhibere debeat,
et aue . octo,aut quatucr prebeat,maj us
commtttet er- ratum, fi octo concedat,
quàm fi quatuor folas propinet: hoc enim
eft;quod Hipp.zex. 57 lb. 2.4CHf.
docebat: adjecticni autem cibcrü multó
minüs attendendum. Et rationem reddit,jnam quod plus eft;noxas affert inemendabil 65;
quod veró minus, facilé emendatur, nempe
fi virtus labafcere videatur, cibi
exiguum poffum: is mi- niftrare; verüm
fi in ventré cibus fit abforptus ; quod
füperfluit ; fialiàs, multó magis in acutis
morbis, tollere eft difficile. Vbi et Hip pecra-
tis, et Galeni verba non de formà victüs, "s d de quantitate effe, manifeftum eft. M [cüm
veró id refert, quot niam viciüs f
rme«&eradu, et fpecie diverfz
funt;cognofcique,& e iei, difcer-
nique Medico, in Hippocraus, et Galeni ope- ribus excrcitato poteri ^ SIQve in ea errores committantt: ir, neceffe eft, freciem mutare»
; sícque mæ2na erit muta ee etiamfi per
upum folum eradu m,aut fpeciem
tranfieris,ut à meli- crato ad
inediam,vel fic um pütfanz ; unde et parerrorcommittitur. Átin quantitate;cum» eonjecturà folà uti poffimus, an macis, an mi- nus fit exhibendum, non eft rar ra tio; ;
quia ; fil tantam quantitatem exhibe
eris primá cibatio- lt « nc, ut commode
conficere poffit; nullo morbi autin veh
emen tià, aut In acceffionibus facto:|
augmento,& eam quantitatem facile ferat, Vi- dcatürq; majorem etizm quantitatem citra
in- commodum ferre poffe ; quia inde
conjicis, te: minus, quàm oportet,
exbibuiffe, in fequena oblatione parüm
adjicies, ita ; quod minus eft, facilé
emendatur ; quód fi plus exhiberemus ;
quàm zerotantis natura ferre poffet, noxasma emendare ita facile non effet : Nam hunc
erro- rem hec fequuntur
incommoda,gravitas hypo- chondriorum,
frequentia anhelitus, febriles in-
cenfiones, fitis, capitis dolores, et hujufmodi, quz omnia difficile tolli poffunt; nam
repletio- nem hanc dedi camento o
tollere non 1 licet, eum. nem. In
formà veró fecüs ied; nam fi à debiri
forma,vel fup rà, vel 1nfrà ctiam, per unum eræ dum tantum deflexeris, egrum præcipitem. æes in mortem, ut longa oratione
docuerunt Wppdersteo! et Galenus 1.
ACHT. 30.40. (P 44 Co" 2. ACHf. 19.
e ?* 49. Locus veró ^ "Apbor. $. qui
» determinationi € directo adverfari videtur, ull odi reptienat ; neque enim loquitur
de tenulori victu,quàm par fit, fed de
erroribus,& Izefronibus 1n tenui
victis ratione evenientibus, dicens,
efle majores læfiones, quz accidunt ex
rroribus in tenui victu accidétib js, quàm qua 5 x erroribus commiffisin pauló pleniori.
Vel m dici poteft, inillo $.
Aphorifmoloqui de totà victis rationis
formà in toto morbo, quse multó
periculofior eft, quia errores commifli
maois lædüt:at 2.4€41.237.loquitur de unicá;aut alterà cibi exhibitione in quatitate, quz fi
plus fuerit quàm oportet, plüs
lzdit,quàm fi minus. D 4 24.4 Ne LVD. SEPT ALII AfEDIOL. Giuspem 24: Ne quis errorem cenfeat,fi
Medicus ali- lb deterier quando ex
pluribus cibis non malis, minus bo- sod)
f44- num feligat, et per totum morbi decurfüum ino vtor conce fam ducat, fi
multó magis palato zorotanus v iia e arrideat five ex confüetu
linefiveexnaturàpes |! Fielligédi -
culiari, fiveex appetitu in morbo : Docebat 2d enim Hippocratés id omnino
preftandum 2. "Apbor.58. Sed
diligenter attendat,ne luxu, et
intemperantià ægri in Crrores ducantur, quod [itu paffim ab adulantibus Medicis fieri video ;
qui ut principum virorum cule tamquam
manci- pia inferviant, abutentes
utiliffimà Hippocra- tis fententil;aut
zgrotantes pracipites agunt in mortém,
intemperantiz, et dominandi cujuídabo prorogato libidinis poenas dantes ; aut mor arumenas fuas omnino 1mplentes ; cüm
fciants Hippocratem dixiffe non abfoluté,
fed pauló deteriorem prxftantiori, modo
fuavior fit; effe preferendum. ibit 25. Gratificandum preterea quandoq;
cgris ibis grati docebat Hipp.6. Epid.
fett. 4-tex.S. At id aliquid ! amplius
eft, unam enim, aut alteram cibatione:j
24 cdit &gris ce dis Had
Col eo eri contra. ÉCLpYCIC 1n quà
deje&toappetitu aut V1 morbt »
reglas. aut longitudine ; aut utobfequentem magis 3 reliquis habeamus; aliquid concedendutrb s4t
jj; quod extra limites inftituti victüs
etiam fit po-4 i; (itum, modó modicum
fit : interim plura pol- liceantur, ut
importunitatem cohibeant. Adoersstj». 26. Aliquando tamen eó ufque dejecta
eftin omaino vi- €grisappetentia,ut cibi
eenus omne refugiant: Ái aliquan. ac
averfentur; quin etiam,ratione fuadete» cun
v1m e Vini fibi ipfis inferant cibos affumentes ;
ftaum illos evomunt, et tunc Medicus
deterrima que- que concedere femel aut
iterum debet, ut vires cuftodiat, ne in
certiffimam mortem cadant : fepé enim
evenit;ut ex malo illo cibo affum pto
expetito natura inftauretur,& morbus omnino quafi conclamatus fuperetur. 27. Caveantin averíantibus cibum,
neali- menta przparentur ipfis
przfentibus ; aut enum major ex diuturnà
vifione fübfequetur verfio ;
autreculàaliquà minüs illis arridente vis à, in» majorem cadent abominationem .,8. Cüm
Hipp.t.-dphor. 16. tebricigngum victum
omnem puer n effe d debere fcribat cave,
ne cerfeas de humido folüm p iotentik ie
qui ; quamvis enim et illud requiratur, humi- dum tamen actu,five liquidum;effe debere
ma- nifeíté intellisit:nam alibi,ut 1.7e
D£etz,cibum humidum effe debere, id
eft, potentià imbecil- lum;fits
expertem, coctu facilem, et liquidum
omnino teftatur, qualem ibi ptiffanam confti- tuit: humidumveró potentia etiam
liquidum cí(e debere, docet et Cornel. C
ii 5. 3. CAp.6. CU EI etiam rei ratione
m re ddit Gal. Jib. de gpr. Seta ad T
brafib. 4.càm ait: Quoniam qua conco-
quuntur » effumduntur, ideo C mox diftvibu untur, 49 &grotantes nonvuulto labore in cibis
cor ncanes d /$ indieent. Et ab his
praceptum ua[citur, Iquidos ci- bos
omnes f'ebrici qon comvezire . Quod con-
firmavit t. acut. 38.69 1. 4d Glauc. cap.13.de UHTA febr. cont. fine euctie ; ubi cibos omnes
fe^ bri. * a)
do etia pep fima conte denda.
Cibos 4- vexfant tss
ne cibos praparare videant «
Vasiius Le tmidas fe- bricitantie
bus ofai- àus Cconvute£e nit acínu e£
"T 2115 talis
bricitantium debere effe liquidos teftatür;quiz humida actu, et facilis in chyli formam
redu- cuntur, et ceteris paribus,
facilius multó con- coquuntur : cüm enim
ex febrecalor naturalis imbecillior
reddatur, ea erunt exhibenda; que facile
conficiuntur. V iderint ieitur, quàm bene
victum in febricitantibus inftituant, qui Pe- P2 AÀ tronam imitantes folidiora concedunt,
et non us folum clixatas carnes
exhibent, fed affatas etiá, Y in quibus
vix humiditas in potentiá reperitur.
Sed de hoc pofteà. ANS 29.
Vtveriffimum eft, in acceffionibus, id ?
agi "s eft, principio, au gmento, et ftatu, abfünendü d», d de, declinatnionémque in continuis, et potius quando cj 1ntervallum in incermittentibus
commodum banda, tempus effe nutriendi,
ut colliei poteft ex 1. A phor.t1. C?
za fige 1. de ratione vill. in acut. ita.
declinante febre acutà, fi viresurgeant;forma., aliquo modo erit mutanda, ut fi ptiffana
hor- deacea fit forma, in fine ftatüs,
aut inchoante.; dechnatione;primó
potionem dabimus;ut cre- morem hordei,
vel jufculumrefrigerans, vel füllatum
carnium cum aliquá aquá refrige- rante,
mox interpofitis tribus, aut quatuor ho-
ris, cibum jam inftitutum concedemus, ut in- nuit Hipp. 1.acur. zz fige. jo30. In Synochis veró, quz uniformes
fint, In $550- . Camdémque à principio
morbi ad finem nfaue AS 242,- fetvant
formam, unicàqu e acceílione perficiun
72 cibsg--. tUt ; quandonam fit eger cibadus, docuit-Gal. dam . Yr. eth. fed. cap. j.nempe quando xger
faciJiüstolerare morbum videtvr, et quando;dum
fanitate frueretvr, cibum fimere confueverat: fiigitur et facilior tolerantia cum folità
horà ccincidat, hac erit eligenda : fin
minüs;femper pravalebit facilis
tolerantia, quz fi immanife- fta modó
fuerit, à folà confuetudine tunc tem-
pus nutriendi erit defumendum.
31. Quod fi contingar, in intermittentibus om intervallum nullum effe, et declinante» jorbo novam exfpectari acceffionem, ita
üt tantum temporis à fine ftatüsad novam
inva- fionem non intercedat, u t cibus
ingeftus coqui poffit, puta ; (p: LC Jp
trim horaru m tantüm» ia ut ne R^ m fit aut 1n fum mmo v19o renu- E, vel fequenti accefficnioccurrere cibo
in- co&o, et repleto ventricrlo,
quod fzpé in pra- xicxercend àoccurrit,
quid in eo ca Mh £a |Cjen- dumerit? Anne fatius erit vieenteacceffione - cibv m pro pin: I6, 2n potius viecreevitato,
fa- tius erit ; Cibo in ventriculo
exiftente, febri oc- currere ? Con mp
hiter ?b cmnibrs refponde- trr, deterius
effe mu Itó In principio cibum.
exhibere, quàm in ftatu; quód nocumenta,
principi! cim aliis temporibus ccemmunican- tur, ncn fc: artem nocumenta ftatüás.
Verümmvltó fecüs Gal. 11. A erb. sued. ult. rem banc M eerivir ; ubi, cafu p ropofit eodem,
confide- randum effeid docet, o uo d mæis
ureet,quod- que ma g1s noCituI 'um
judicaverimus, fuoien- dum : dox cétque,
eííe ccnfideranda locumaffe- (tum;
affectionem, princi pli et ftatüs naturam,
tum Cibare bre f2af12 fine
ffa1?, qu prote tnos ffonem ; c»
ouando. (4 / ul "424 h^.
ya. tum et morem morbi . Locus
quidem, et affe- éctio;ut fi ventriculus,
vel hepar afficeretur in- flammatione,
fi pauló ante acceffionem cibare- mus,omnino
effet perniciofüm : hepate enim affe
&o alvi dejectiones unà cum acceffionibus
folentinvadere : ore autem ventriculi vexatos fyncopes fuperveniunt. Vbi veró abeft
in- flammatio, et vires debiles fuerint;
ftatu om- nino evitato, propius
principio cibum iie cx pedit, potillimüm
fi mos mor bi; princi pii et ftatüs mori
refpondeat ; hic veró confideratur in
vigore, et principio, fiannotaverimus im.
fümmo vigore, an citramagnitudinem febr T. caloris ficeus t. [fu dens, an citra
[qualorem nurenss Priorem namque h
bumetlante vitlumade- facere quamprimum
oportet : In [ecundo.dum plu- vinum
calovis remittat » e. vfpettare . In principio
vero acce [ponis morem &[imabis, at corporis ex- trema perfrigeret, magna [anguimis
revocatto- zen ad interiora corporis
faciat, an omutimo corpus zn premat :
quippe [ecuedum bocscen faciles man-
fietumve contesanes y 1m priore diflinguas oportet. Nam [i ab[que vi[ceris pblegmone, aut
[uccorum. vedundantia, motus ad
interiora tin acce[[iontbus pollet»
zibil offendes paulo ante cibans ; fin vel
phleemone, vel redundantia [ubfit, cavenda eff ante acce[Jfwnem cibatio, ceu vesss AXIE
nóxia . Cüm tamen multó major fit quantitas morbo- rum,& habitudinum corporis quæ
expofcüt, ut potius in fine ftatíis
nutriamus, quàm prope principium nov
acceflionis, mæis laudarem, Cal || eam propofiuonem medicam, quà
aflereretur; urgente hac neceffhitate,
praftare e 1n fine ftatüs nutrire, quàm
etiam per duas horas ante prin- cipium,
quód major quantitas febrium fit ex genere iride ex obítructione ob abun- ;] dantiam crafíorum humoru m, et ex interni,
vel externa phleeg: mone; in quibus, Galeno tc-
I fte, prai (tat in fi ine fta tüs nutrire, quam p roximc :| ante principium. EL . Commendandus tamen aliquando cibus X 1n 1 principlo, et inauemento, et ftatu,
et Booxined ante principium, ubi habitus
COrpo- iisaridusadmodum, à tque fc qual
lens fuerit; et 9 in febre admodum ardente ; biliofo
humore, rante, atque ad ventriculi os
trans- lit inedia, vigilias |i
d^ qp ] ee o6. di 4 M - (* ]
"m, c ws bu et ..
ininoadecratasltrititia, c folliatudo, auibus et exiiccatuim elit pius nilniO, c
excaicractutin p - Tp ^ 4^7 Ox "£X Ld "E" "e
-. COI1 pus » ir ILICQtiC CODn9 C111
a3cr« y s EX HII jdaaces A et 1 ME e£ a. dai 141 N t^ i E qu E o inunmores: proquarebpence inte iii£g ence
Mii Àet aus cit. L3a1C€hlis noitcti,I x. IM eti :2CG.
eC |» 1»211í0« ve dob: e N- í f. inqgi 1lDuUus caàlibDiis pI. (tabit a nt ein: y: 'nei L :
a d "111 ! j &in l DEYi IC11 LG
ASM-Æ Lu an |t Lt Verum cum hoc rarius
contingat, in caf pi /" ! » f1,,
Z " Xf». (17 ^ 44A Bm 1 $7175 *4
13^ 47 p 1 *Yy Poe polito, ub1 à itatu à
DI1nci Ji nOV. invalid nlsS nuum
temporis Jntercedit, ut comqiTnock CIDLi
n i1w vis 1illiitlooe«.iLA&LALCICCIC 3 Ai! liüs effe n n atüsnuütrlre, quàm pr ;Galen./z Com. multó plura referant
incommo- da, fi quis in principio cibum
offerat ; quàm fi in ftatu. Et hoc eft,
quod innuit 1. Zdphbor. 11. cüm dicit,»
acceffiomibus ab[Hinere oportetd eft; et ptoxime ante, X inchoante invafione .
Mugmotà 33. Quoniamautemaut incomplicatione»
acc ejfinis duarum febrium, aut in unà ediamyin qvàtem- minus in- pora adeo extenduntur, ut anteqv àm
fup erve- commod? Sat declinatio, nova
acceffio fuperveniat, sic- ibat que
neque intervallum, neque declinatio repe-
quá flatus: v rariin quibus cibum offerre ex ratione pc ffi- mus,1n ambiguo Medicorum animus hzret ; r* quandonam cibum offerre expediat.
Auemen- ti tempus prusotes et minores
fecum invehe- re lzfiones cenferem ;
quód nec ea immineant damna, quz fequi
docvit Gal. € 11. AMetb. 1.acut.penult.
CÓ" 4.atnt. 39. neque eó ufque ca-
lor, et fymptcmata pervenerint ad fummum, utin vieore. Non negandum, noxas etiam
ex oblato ciboin augmento non parvas
excitari 5 atindicatione à virtute
ur2ente,ccm modo teni pore. morbi
importunitate füblatà, illud elit
cendum cenfemus, quod mincra fecum inves- prium hiti incommoda . Plorg tres
D um CR acuoatione 34. Cav eant,ne rempus trium horarum
cen--|ii eant fufficere à cibi oblatione
ad novam inva-4ii: ad acc:fio fionem,
quod pleriqve cenfrerunt, Galeni au-Juj
nem » 20 faf cord durer. 8. AMe: b. 4. lH bi: d f(Terit/fatis effe, fiia.
fities horas aqu inoctiales, quatuorve, inter] balneum, acceffionffque tempus interpc
»natntzj ibalneo enim cibum exhibere
folebant ; cümm alioqui Gal. 11. 2etb.1 s. docuerit; maxime in omni febre coctioni 1ncumbendum efle :
quia fi adveniente acceffione, cibu s in
eric ) non fit confectus, ex retractione
caloris ad in- terna febris omnino
butsiiesü,; pefimma illas fvmptomata
producentur, de quibus Hipp.&
Gal.4.4cut.59. Et Avic. 1. 4. T racf.2. cap. 6. 1tà in febribus cibandum praci pit, ut vacuo
ven- triculo occurrant : hzc veró
concociio ne in fanisq juidem trium
horarum fpatio confici po teft, cumin
xeris natura ex morbo d« cbilis red-
dita feeniter coctioni vacet. S1 igitur fuerit "
forbitio, ut ptiflana, aut contrltus pan ida tus ex jure,aut idem concifus,aut hujus 5qi isi
WT i ., ; 211-3 4 1^ VEN NS I quinque;iox,al tetiam feptem ati onc
eden- A [| daxíunt, plus minus, prorcbcre ventriculi,«& :] A
22-594 I " - p! «conditione
Tebris int num [1$ pecccantlsS .
fantiCcriun, aut niicuium aiteératum, tres aGul1 ! EB É im MN 3 dem hor xquinoctiales fufncient; de qva
re "4Q "EM locu us eit 45» €ID.4. GC XCCCOCCO €nif1n 1 L|
raaicum apiiioquitur,non dCIcIDIUCRhC, aut ferculo, quz non exhibuifle ccpttat cb
angu ftiam temporis ad fequentem
acccftionem;füb- dit enim : $7 vero
ctrca ve[peram, aut duabus bo- yis
cttius acceffto iervadar um laville mane licea?, tum ciba[[e; ux evitecillaincommoda,;qua
fequi docet Hipp. 4.aczu£. 39. ubi cibis
incocts in, * ventriculo accefito fi
ervenerit: Pezter emm; inquic cær,
faflidit cibum, 1mtenditur bypochbonr
J^4244912 6Y1477 ; drium,
1atlatur corpus propter saterzam tuyba-
tionem, quens fixamon eft, dolet. ager, lancimaturs -pellicatur, vomere affeélat, c fi mala
evomnuerit, dolet ipo me[- 3$. Excipienda tamen ab hac tegulà,
et ho- c»weaad- Yarum cibandi ante
acceffionem, et non ofte- do offre rendi
alimentiautin principio;aut ante princi-
eibi er" piumacceífionis, ea corpora, qux et calidas 162,00 10. et ficca funt temperamento, et habitu
eracilt; jeibus^ quibus fpiritus facilé
diffolvuntur, quz ore» ventriculi
admodum fentente, et in quibus acris
humor, et mordax ad ventriculum trans
fufus ita egrum infeftat, ut inipfius etiam in- vafionisinitio fvncope indudià, vcl
etiamins fimplicibus tertianis
intermittentibus fzpenus4 4A- meró
mortem inducat; in llis enim ante inva-
fionem,velin illius principio cibandum cenfuit Gal.1o. 7Metb.cap.2.3.4.€9 f. CibusgnA- 36. Adhibenda tamen ea eft cautio,
quód;,| do offerédus fi animi deliquia
in febrium initio fupervencejn principio tint, affluente acri humoread
ventriculum, &y acceffion,. os
iius mordicante, cibus vel immediaté ante
c quand? acceíffionem, velin ipfo principio erit exhiben-4 pauloante* dus, utadmixta cibo bilis minüs
mordicare. valeat. Si veró ex fpirituum
fübtilitate exfolu-4i V tio fequatur
in principio febrium ; nutriendi
erüntzeri per duas, tréfve horas cibis hujuf. modi, qui citó inflaurare
poffint fpiritus ; faciww rPa9vatm (couccommutarL, ut funt ova forbilia,
jufcula qux inftaurativa dicuntur ; et
fimilia, quibu: 4 adítringents fi
&onnihil addiderimus, ut fucc] era
eranatorum, aurantiorum, aut fimiliu m,opti-
me illis confultum fore exiftimamus.
;7. Inacidis tamen iis in ufum du cendis ;il- 4ciderZ s lud maximé cavendum exiftimo, ne nimio plus
fs iz febr: limonum fuccus, aut acidorum
aurantioruma 45 acatis addátur, quod
paflim etiam à doctiffimis viris stilis fed
fieri video; qui in acutis, et malignis febribus, shOÆTAT- in omnibus ferculis, et jufculis fucci
limonum Enn quàm plurimum adjungunt,
non animadver- voii tentes, tantá illi
ineffe acerbitatem, ut, fi modü excedat,
aut coctione non temp eretur, quod in
fvrupo de limonibus, et de fucco citri fit, aut facchari mixtione non moderetur,
obftructio- nes in venis pariat
inemendabiles, ideó mode- atéillo
utendum ; in quà menfura fi in ufum.
veniat,refrieerabit, et incidet;altiüfque medi- catas potiones exferere faciet.
Aurantiorum., fuccus aliquanto minorem
habet aufteritatem; c proptereài non
tantà liquoris miftione in- fier 38. Vidum omnem aut craffum, aut tenué, aut tenuiffimum antiquos conftituiffe,
docuit Hipp. lib.de prifca Medicina,
nempe cünrcraf-|. etu (à comedimus,cim
forbemus, et cüm bibimus: nw Quarttim
Galenus victüs genus addidit, om- ^ e
nimodam cibi, et potüs abftinentiam, 4- Com. ui vecipi? I oleum ent [mum 2 ppellavit; 2u5, c qui quód fi quz forbentur;bifariam partiamur,n£-.
exclades- e in tenuem, et craffam
forbitionem, omnes 45. victüs habebimus
ditfere ntias.Verim quatuor fünt, quz
acute febricitantibus conveniunt : E
Craffa Vicdlus tt- nauis (n 4-- s di à
"e b y ma e ACERO, REDE 1
forbitio,de quà r. cut. 26. eftinteera ptiffana; alica,panis lotus, five contritus, five
conciíüs ; et conta carnium. Tenuis
forbitio eft, ut tiffana colata, aut
fercula eàdem tenuiora. . buen funt
autoxymel antiquo more para- tum, mulfa,
ftillatitius liquor ex carne, jufcula
cujuifquegeneris. Aquz veró frieide potus, ju aut omnimoda abflinentia, fümmé illum
te-.i nuffimum victum confütuunt. Quz
omnes |i victüs rationes, ultimá exceptà,
vires augent, atque inftaurant, quamvis
aliquando imbecil- las vires reddere
dici foleant, habito refpectu ad corpora
fanorum,qui fi illis victibus uteren-
tur; ad marcorem ducerentur . Noftris tamen vidus ext e-temporibus victus i1leextremé
tenuiffimus, et me tenuit - quatriduana
1lla 1nedia,aut ob confictudinem, we nee
autobregionem, exterminari omnino debet ;
$ ww. Utpote periculi omnino plena, ex quà et mors E: zensinducitur, et Medicis infamiz nota
inu- ritur, fed loco illius potiones
induci debent, fyrupus acetofüus, vel de
ficco citri, cum ftilla- ütio àliquo
liquore, aut jufcu]a alterara, vel
cremor hordei . Viclus 39..
Cavendum tamen, netranfitvs fiat ad
eraffns i victumillum, qui extra limites victüs febrici- 4CHII5 "^ tantium continetur, ne
fcilicet que comedun- hi tine». ear,
sáintquefolidiora, non liquida, concedan- 1
»! OS P eur gr panis, carnes, et quod deterius eft, ho- Orb ded [7- viri fruétus, quod paffim extra hanc
provin- t CUT gam fierividimus. Herdesm40. Cüm nihil fit, quod
inzerotantibuscibandis,; et apud anuquos ;.& apud recentio Ies, antiquo more febricitantibus maximé recte
yi- Ccumaünsftituentes, magis inu fu m
ducaturipsà putt. lana ho rdeaceà, o
pame confultun |. Medicis in hisameis
Cautionibus pradicis cenfii ; fi ali-
gna OC loco mterp ofüero de rectà conficiendg puffanz ratione, de qna etiam Gal. 1. de
al. facul.cap.9.ab dep nf[anascapA. O
mde Colicit. I. 11. et Dàul. /zb. 1.
cap. 78. podffimüim cum adeo varlare jn
cà fcriptores dang 10s videam ; recentiorum
autem aliquos. doctiffimos etiam longé
aberrare.In cà igitu1 Lprma fit in clectio-
ne hordei cautio, qt ód cüm Bardqum fit du- plex, alterum quod fpopte nudu n nafcitur,
1. dc M æne cap. 13.2" lib. EC RN:
yicin, cap.6. quod in Cappadccià naía
fcribit ; ut ali- cubi euam apud nos
Infi; bres ; alterum vefti- tum, quod mæis
commune eft ; ; poftremum hoc eligi
debet, deglubitum ta men, et à corti- ce
exutum; quamvis enim ulti primo illo po-
tius utendum cenfeant, €à forté ducti ratione, quod cüm Galenus arte corticem
adimat;fatiüs videatur fponte tali nato
uti ; fed non bono arpro ptiffaAna quale
eligend& » Hordeum «lind fine
cortice eraffo na- feitir, a-
lttd veffs UG. eumento: ro ieenim illu dicium
noverltl.4e alim. facul. 13.e0 tamen
non vtitur ; quin fpecie ab alio
differre afferit, f;rtéque etiam faculta-
te : Vnde Herodctus. Galenoontüquior apud Oribafium r1. Col/e£. dicebat ; illud
plurimum Ruttre ; multum fuccum. habere,
et proxime 1tritici naturam accedere ;
quibus rationibus minimé in acutis
convenit : quz enim nimis E 4 multum
inultum nutriunt, queve craffum, et eglutino-
firm füccum generant, ut triticum;inaácutisfe. bribus minimé convenire
poffunt. 1. dealipzfaa |i
cult.cap.4. 4I. Sed quáarte preparandum
fit; ut cum ^ fru&u, fine damno in
ufum duc poffi t; noh5 levem requirit
diligentiam, multáque cautio- ne
indiget. Farinàaliqui utunturaquz,;aut ju-
ri mifcentes, et pultem efformantes ; quam. tamquam flatulentam, et excrementa multa
producentem omnino rejicit Gal. /jb. de atre-
emuante vitfus vationescap. 6. Cf 1. de raf. vid. is acut.cap. 18.Freffo alii, et fracto utuntur ;
at re- felluntur 11 ab eodem Gal. /zb.
1. de al TCI. cap. 9. ^ lib. de
attezuante vithucap.6. 9 1. de 2 VAI.
Vitl. 12 acutis, cap. 18. quód tormina faciat
hy pochondria diftendat, non levis fit ; non Tu- brica, quód denique craffos fuccos producat
. Leviter torrefaciunt alri, ut faciliüs
exter nà tu- nicà fpoliati poffit, et flatus
exuere: At fic ptif- íanam minüs
humectantem reddunt, iminüfveuu aptat
alvum folvere; collieitur id ex Herodo- to, referente Galeno; 1. de alim.
facult.cap.13.. fi pritenam ex ze torrefactà alvum cohibere,af-
di ferente : Vnde Oribafius, 4. Collet].
cap. 7. ex. Dievche, hordevumin polentà rorrefa&um al- vum cohibere atfferit5 quod confirmavit Gal.
) 1.de alizz.9. qninimó cap.2 2.
ejufdlen : frixa em- t n4 flatum quidem
deponunt, fed di "fficile coquum- iln
uv, Co adftringunt, craffun yque fuccurm, cenerant. quód obfervans
Trallianus /&. 8. cap. 8. voluit
in HKordeum quomodo
jaradum fro puffana. in
dyfenterià hordeum torreri,ne fi fine frixio- piam ne uteremur, alvum fübduceret ; non
cohibee etum. ret. Braffavolus hordeum aqvà
fz piüs mace- rat, mox ficcat;& in
mortario ligneo illud Con- rundens
decórticat. Atfi pro primo cortice»
expurgando id facit, non eft, quód aquàail Illud prius maceret ; fi pro fecunda briliori,
malé facit, cüm coctione fol ^
eximatutr. Galenus igi- vto vn ai cur
capit hordeum Integrum» levi manu contu-
fum, et hoc modo decorticatum, atque mox
panno afpcro pe erfricatum, ut reliquum corti- ^ cis fi quid reliquum eft ; anod verifimile
eft ; air levem ictum, to lli poffi
t. . Cautio autem 1n quantitate hordei
ad zmerdei Pee m, &aquz ad etin m In pl ra paratione
quantita püffanz, maxima eft adhibenda ;
cüm variafit ad. aqua de his apud
grauiffimos euam fcriptores fen- pre ptis
tentia, aliis pro fingulà hordei heminà decem. ^4paran" aqua adn
ut Dievches apud Ori- bafium, 4.
Collect. 7. cenfuit, quam me fecutus eft
Conftantinus Cafar,lib.de Re ruf. 9
Antvllus veró, eodem Oribafio teferente» ; 4. Colle&£l. 11. pro fingulà hordei
heminà quin- decim aquz adhibet;quam
fententiam fecutus e(t Paulus,
/ib.1.c2p.73. Braffavolus autem r.de rat
vill. in acutis 18. pro fingula hordei heminá
trieinta, et triginta quinque aqua mifcebat . Galenus autem 1. de aliz. facult.9. € 10. c Lb. de Priffana; nullius quantitatis aqua» aut
ejufd& proportio nis ad hordeum meminit.
Neque yero id prater rationem, fed
jure merito,quód G4 obfer4uanésíÍnu/ ex
obfervatfet hordeum pro varietate foli aliud
- facilius coqui, aliud difficiliàs,et docebat ípfez iet /ib. de cibis bomiCP mmals [nci, cap. $.
tum etiánt pro varietate nature illins
erani ; ut paf- fimi1n ciceribus
excoquendisobfervamis; Sed et aqua non
levis habenda eít ratio, cüm aliam grana,
et Cerealia omnia facillimé conficere »
obfervaverimus ; aliam difficillimé, ut docui- mus 72 Com. 17 lib. de ære, aquis i loc. EH
ipp: Sitamen ejus eeheris affüumamus,
quod intu- [ Ra .ICcat, et coquatur
facilé, apiid nos Infübres mE pro
fingula hbeminàillius, quindecim, aut vi-
ginti aqua affumere poterimus; que quantita- tis aquz varietas erit pro várià conditione
hor- dei, et aqua. Propifa 45. Sed'in ptiffane præparatione quid
ob- na cóuie? fervandum ? et in
condiendà quid cavendum ? da . 2^ Sané
Galenus oleum, et acetum addidit, et addenda, falem; illa quidem 1. de al». facul.
9. 4. tuenda va T9 valer, 4. Cf $,
equ]dem. 8. lib. de M arcove, ult. 7. :
Methb.med.6. S.eju[dem 2. 10.Mfetb.Y1.Orib.
4- Collect. 1. et Paulus rb. 1.cap.88. Salem etiam indendum conftat ex 1. 2//9.9.&
Orib.& Paulo loc.ctt. Sed quo
tempore hec addenda ?. Gal. r. de alim.
9. acetum indendum cenfuit, cüm ad
füimmum intiimuerit hordeum, deinde etiam permittendum, utTento igne in füccum
diffol- vatur ; tumaddendum : falem
autem addi vo- luit pauló ante tempus
diffolvendz ptiffans : olevmaddebat pro
condimento ; nos, quibus placuerit;
concedemus.. Placet tamen potiüs; ut cx
jure oprimo carnium patetur,five integra
paretur;five colata, addità aut levi portione » falis ; autfacchari pauxillum plus;
pavxillum enim mellis addebat ptiffanz,
5. rende valet.S. cujus loco przftabit
faccharum indere: aliqua- to plus illtüs
etiamaddentes admifceatur ; prohibemus
enim admixtione» ilius nefaccharum 1n
bilem vertatur .. Quod fi quisaceti
ufurn refugiat, licebit [oco illius aut
fuccum aurantiorum, aut citri, aut etiam.
» fi aceti nonnihil . L limonum indere, modo fuccus is aliquandiu
guetud AC plus cum rcliquis ebulliat,
fecus quàm paffim. «^ v» fiat; cim indi foleat füccus immediate
tempore ?e/&- e Æ.
affumptionis,qui ob cruditatem ; et acerbitaté folet nonnihil obeffe; quamvis mixtio fine
co- étione nonnihil terreftreitatis
illius, ac adftri- étionis foleat
retundere». 44. In pane concifo, aut
contrito, pro fercu- lo parando
hecadhibeatur cautio ; fi febrem.
curemus acutam, aut ardentem, panem omni. Op rius effe lav andum,. "us. n tatà
frpiüs aquà aut füperinfpersà fepiüs
aquà ; fic enim et fer- menti vis
retunditur,« cibüs paratur m inus
nutriens;potiffimüm fi paretur ex jure fimplici pu Il: gallinacei; fiiccóque aurantiorum
con- fpersatur, fic enim parata
panatella minüs etiam nutriet, quàm
ptiffana. Cavendum veró, ne panis igne
pris cremetur, mox abluatur, quod
factum ab Oribafio videmus ; fic enim, ienex partes concipiuntur in pane,
sícque et ficcius alimentum paratur, et
calidius, quod E 4 per Panatella
1n ACHtis quomodo paranda «
C9 Cor fn 4«o per lotionem
minimé corrigi poteft; poterit tamen fic
paratum convenire, fialvi profluvio cum
febre eri tententur, addito aut ficco li-
monum, aut granatorum. In reliquis febribus ex pane conciío, aut contrito ferculum
conve- (niet; etiam non loto pane, et ex
jurecarnium aliquanto validiore. Confum- 45: In confumptis juribus ex carnibus
pa- yu Mu randis hzc obfervetur cautio
;. maximéà me; ex cargo lA dariea, que
ex carne vituli macrà conficiü- vittling,
üt » quód vix in eis elutinofum illud reperia-
tur, quod paffim in juribus obfervamus, que » ex pullis conficiuntur ; cutis enim
circumve- ftiens; et nervofz multe
partes alarum, et cru- rum, gluten illud
generare folent;quz vix pof- funt
auferri : in vituli autem carne, licet et fi-
brarum,& nervorum ratione, et capitum mu- fculorum glutinofa aliqua adfint, mrltó
tamen pauciora fünt;atque ex parte etiam
auferri pof- j funt. Quód fi quifpiam
gallinarum, ant ca po- num jus expetar ; cautionem hancadhibeat, ut alarum duz extreme juncture auferantur, et coxarum ultima pars ; quód fi cute etiam
pul- lum fpoliare poterimus, (alubriorem
cibum et potum procul d:bio
parabimus. 46. Sedentes in lecto
alantur;fi enim jacen- tes cibum capiant,
vix ad ventriculi fundum. cibum
effundent ; deindeà cibo fümpto fe mi-
horà fedeant, vel (altem erecti aliquantulum. femiJaceant.
47. Ante cibum memores fint expurgationis euem j-
tum tenc- re debeat, dá ciban-
tur. IL- os alluen lhis oris: nam à febre plurimi vapores, et fuli- ipines furfum feruntur, quz limum
quemdam lin linguà efformant., .qui cüm
guftum pertur- Ibet, cibos etiam malà
qualitate imbuit: quare li: et lingua;
et os colluendum, et osfophagus;qui TENIS. N
lfzepe per febres areícit, madore aliquef1gan-. ex acels e£ Jac idus, cui maxime infervit aqua etiam cruda €x
- aw . aceto, et faccharo. EA 49. De potu aquz in febribus pro potu quo- .
P^vs 4c Itidiano, non pro medicamento ;
hec fitobíeg- ;"^ qua- ratio: fi in
xerum inciderimus,qui in fanitate it
affuetus fit aquz potul, etiamcitra noxam pof- Ife nos utiqu e Hone nop tmam,aut fcntanam;
BD obe aut pluvialem cifternin: mc
ncedere, aut CCr--,,5 f po té decoctam
fimplicem : fin minus affuetus poditn 2212
Qua cibus JL ma- AY »
49Ha no 7u$1nacmAd tuaque zeer fuerit, ne 1n ea 1ncommoda 1nci-
zi. dat, dc quibuHipp. 4. de rat. viel.
in acur. ali- qu id addi licebit ; quó
facilis ex hypochon- driis meet,
cruditas reprimatur, atque etiam. «cea "M eevias morbo, fi fieri poffit; A Hldd eios ve wis
adver- 9e, : canedio femur; ut fi add
faccharum.cinnamomum, E . anifum,femen
coriandrorum;authordeumin-- -.
Ccoxerimus. 49. Deaquà hordei,
quem ) potu Imantiquis 444a bar len Ar m
pleri quec enfent, quód nullibi Gale- deris æs
nus ; Oribafius, Paulus, A?tius; &aliiillius *5pro po- men tionem fec vei ; ita cenfeo, Hipp. 3. de
2 4 epiinide va) uiél.im acut. 13. (f a.
de ratione vilius, 71. po- "limum
autem librà à . de Morbis, ubi laboran-
tibus tor pore c: 1pitis propin andamcenfet aqua hordeaceam, de cà mentionem feciffe ; ubi
eti 1n"aua bor Kein Of.
nibus amar 615 n0 Con venit.
v qua ber dei Que pa 1Anda .
gue intelligere non poteft (accum hordei, quia illis! có fübjungit ; Maze. pro alimento. [uccum.
bor--|vck dez exhibeo, utnec in aliis
duobus locis, cütmi en potum aquam
hordeaceam appellet, füccumaj autem
hordei paffim non potum,. fed (orbitio] ji
nem appellet .. Neque veró rejicienda eft, po] jj tiffimüm in febribus exurentibus ; quod
flatu] ili lenta fit ; fi enim recte
excoquatur, flatulenti&il "T
exuit; neque fi diutius excoquatur, falfedinemi] «1 contrahit, quod ab aliis objicitur ; fi enim
ins] s putfanà, quz longiori tempore
elixatur, id nom] «s veriti funt
Hippocrates, et Galenus; nec expe-4 ui:
rientia id oftendit, in quà mæis hoc feqiiilo deberet,ob hordei majorem ad aquam
propor--| tionem, et quantitatem, quà ob
craffitiem faT- fedo in elixatione loneà
contrahi deberet, cufil idinaquà hordei
omninoaquosà, et potu ve--| tebimur ?
Cautio tamen eft adhibenda, ne eail In
omnibus morbis, aur inomnibus febribus ini
ufi m ducatur, ut aliàs fieri foleba 5 fed in iis! folüm, in quibus magnus eftus fuerit, ut
ubiil. abfterfioneopus et. At veró in eà
conficiendail ». magna adhibenda eft
cautio. Accipito hordei vcri, non fpeltz,
feu zez, ut plerique faciunt, libram
unàm duodecim unciarüm, máceretür
tantillumin aquà, mox panno admodum afpe--] IO Oprimé confricetur,donec omnis arifta
deci- derit, et quippiam etiam ipfius
corticis craffi fit deter(íiim;deinde
optiméabluatur,& omniforditie expureata, addantur aque libre quadra- Hi.
^ ginta, et tàmdiu claro ine
decoquatur, donec optime hordeum
intumuetit, mox depofito de aMesua P ám
lever. 1ene decocto, permittatur
perfrigerari, deinde transfundatur,
quod perfpicuum eft, ac valde clarum
decocti;in vas vitreum, in quofi quippiamiterum refederit, denuó In altertim
vas transfundatur ; quod perfpicuum eft,
et relin- quendum donec refideat ; quod pro potu in» paramus pro medicamento, aut faltem cibo
medicato, aut pro potu. Pro medicamento;aut cibo medicato, vel cruda erit, vel
cocta; Gal. cocha.Qinimó etiam coctarum
alieinteoré co- (**^* étz fünt;alie imperfecte ; quz eciam magls ; &&
4A. vavwe Fat ufiim duci poterit. d 1 : Mulfa di jo. In mulfe melicrative compofitione ma: s A
; 77 (7; xima adhibenda eft cautio: Vel
enim mulfàm vj ^É pt an
''Ali0 » 3.de alim.f acult. 39.
€? 12. Afeth. cap. 3. Cruda.o -Á cds !
E, * . -Á eL. magis alvum [ubducit,
munus uutrtt ; contrá aute TLMN E . ec
* minus et nutriunt, et dejiciupt,
prout magis aut minus coctionem
füfceperint. Vtramque euam hanc aut
meraciorem conftituit, aut di- jutiorem
Hipp. 3.4e rat.vit]. in acut.t.33immÓ 7...
Gal.$. A etb.zzed. 4. 1n meraciffimam, medio. n 4»*« we S. 2
" " " . 1 $44 crem,& dilutam dividit. Sed quanam eft mel- 77*^* lis ad aquam, quibus duobus folis conftát
mul- jin fa; omnino proportio ? Cenfentaliqui, mera- ell;
1) A ciffimam efle ex una mellis, et duabus
aqua, LE fic cenfiut. Avic. /ib. «. et Diofcor. Mediocrem pum idi ex una mellis, et quatmoraquz, ex 4. de
tuend. aud vál.cap.6.Dilutam autem ex un
mellis, et octo aquz, factà ebullitione
; et defpumatis excre- mentis ;
donecfupernatent, ex Paulo £/b.1.cap. 46.Sic vn b. ^£ ptu ex 06 Jh. cC
s ^f yr t ou *
Et .Sic Mefue, et Rafis 9. ad
"dIman[orem ; led: ante hos omnes
Oribaf.4. Synop[eos; Cap.39. Hac 1T
communior eft recentiorumopinio. Eso verós ut veriffimam hanc effe opinionem cenfeo.
in» melicrato pro cibo fimplici . feu
medicato : ita]; falfam exiftimo, fi
mulfíam fumamus pro potu: 'ad
diftributionem cibi parando. Quin. ceníeos
dilutam illam, de quà 3. de ratzeze vitius ; 13] mentionem facit; eam effe poffe, de quà
Gal. 3. de vat. vicl.12 acut. 15. ubi dicit,
mulfam dilu- tam fieri;ubi pauxi illum
mellis multz aquz ad- miícetur, ut aqua
permeare queatad diftribu- tionem, ne
diutius in hypochondriis commo- retur;
hoc enim munus eft potüs;utpotus, non üt
cibus ; ; quam fortaffe di iveríam à dilutà, de
quà 8. Metl-meminit;credere poterimus;quód diluta illa tamquam cibus effe poterit ; ex
unà mellis,& octo aqua: at quz
diluta eft pro potu ad diftributionem
cibi,diluta magis effe debet, quàmutuna
fit mellis ad octo aque, neque» enim
pauxillum mellis una eft uncia ad octo.
Eritieitur mulfa pro potu, fi pro uncià unamel lis viginti uncieaquæ fümant ur,pauló
plus;aut. minus ; neque enim
determinataaque quanti- tas certó
przícribi potett, ut etiam Galenum.
videmus feciffe 3 .acut. 13. 3. de alim. facul. 29.8. AMetb.cap.a.qui nullibi quantitatis mellis ad
a- quam meminit ; quód mellis videmus
effe ma- enam differentiam,càm fciamus,
aliud effe bo- numsaliud m: idum.
3-40nt. 2.3. C7 4. de tuend.val. 6.
Bonum celerrimé coquitur, et celerrimé definit fi pumam facere, inde minus aque
abfimi- Contrà evenit in malo; et prc- I fum effet;plusaqua a 'Inus;fimedium,medio modo. vandum eft,fi aqua forte crafficr fucrit;ut
apud lturin coctione. '[prereà in eo coquendo major indenda erit
aque ']| copia, qua ab fümi poffit; quà
in bonc;quód ex 'l|Philagrio colligitur,qui
referete Oribzf. s. Co/- letf.cap.17.in
cofectione 2 poivelitis.fi mel craf- ddi
voluit; fi tenuius, mi- tiam obferVbie nos Infübres putealis efle folet;quz in
melicra- ti confectione fumitur, et optimum
melindatUur,cüm ea aqua, ut attepuetu r,lc nglori egeat elixatione, m el vero
illud pau m antequàm illi aliquantifper
effe clixa ida um ttenuabitur,&in Sf
mellis ft Gitan- im recipiet, facil
iüsqu e hy| mel indarur, 'leniméa
tiam meabit. gr
Sed cüm f: ; fic cchondría peramfaccharum, ant iqu Is inCo1.
dre CM fd enitu m, faltem perfectum, noftrum in i
ufüitn od Aj$* medicü, et inter delicias
ouftüs fittradvcium, ancx co mu] Iía
parari poterit ? Vuq;,& Opti- ed part-
1na, ci m non tantà poll ! immo
in biliofisu ulior erit et fuavior.C extépc
eat acrimonia, ut m el, ilf
aliqui;non nifi crudam mulfam ex facch laro pazari poffe colliquatione, quod
jam faccharv m.. attenuata aqu: i permeab i hiinisarobo bus attenuatis.
rur ea adhibeatur cautio, ut prius aqua
clixeti Ó, coctum fit. Ego veró et crudam
colliqua i^f parari pofle crediderin.,
fed p rzftantiorem éffe fue cocfa . V
€octam ; quia Am cocüonem aqua permifcetnr atione,&melius per dXpcenond
rm quàm obtim.; 1
(UY 9 Cu cda ; quàm illiindatur
faccharum,& i in minori quam junii
py . pitate; ita ut fepé prouncià
facchari libra aquai T fufficiat,
potiffimum fi affectus non admodumaliii
a ftvans fuerit; 1n quo cafu fucci limonum non--joit nihilin coctione addi poterit. ^^) )];
A2 5 $2. Oxymel, et Syrupus
acetofus ad pen-Jn.: paraci ra. m
veniant;qui et pro pori ad fedádam fitimsdau
310 » et pro cib: cibo in peracutis febribus, et pro
medi-1u catà potione in ufüm medicum fe
penumero ve-4r«i piunt. Hiintriplici
funt differentià pro varic]y) q^ de
ufu:vel enim funt valde acidi, vel mediocriter;? vel minimüm.De primo Hipp.3.4041.26. dc fe-4
m cundo 3 .4cut.30. de tertio 3.4€4.57.
locutus eta De tribus iis omnibus
Gal.4.de tuzd.val.6.d O38. cens illorum
mixtionem ex aceto, melle, et a quà ;aut faccharo loco mellis in fyr. aceto
f| emm ec Minimé acidum fieri afferens
ex unà parte ace? EN ti, duabus mellis,
aut facchari, et octo aqua eDænl, De
Mecium ex un ià aceti, duabus mellis,.& qua: tuoraqua : Valde acidum ex duabus aceti. d ecu mellis, et quatuoraque. Galenum fecutus
etj, Oribaf. ;.Coll. 24. Paulus folius
acris meminiifl..... lib.7. c. 11. Mefue
folius mediocris meminitij.. compofitic
némq; tradidit. Sed animadverterg,, dum,multüm i in cocturà à Grecis differre .
Gad. ]enus enim ad quartam, aut tertiam
exccqtp.. debere dict. Plerig; i ita intellieendum cenfen]... donec remaneat tertia, aut quarta pars, qv
ibub. fübfcribere videtur Mefue, qui
feré hoc modi excoquit, ut pertotum
forté annum confervtd tur, quod etiam
omnes Seplafiarii faciun cV rüm A rüm illud veriffimum eft ; cenfüiffe
Grzcos, fo- ""tilamtertiam,
aut quartam partem effe abfiimen
"dam:docuit enim Galenus; o xymcel efle tempc- jrandum,ut vi inumibidem ; cüm autem
vinum, inumquam meracum biberetur, fed
tempera- tum ; ut colligitur ex Plinio
14. AVaruralis Hiff. Wicap. ult.
Ib.2.3.cap.1.& hocipfum vario modo
"temperaretur, aut pari aqu cum vino quanti- "Rtate affump A t plusaqua addétibus
:& hoc itriplici modo i£ duabus vini
tres aqua;aut u- mi vini vtm ruei
;autdeniqueuni vinl tresa- uæ
addentibus; ut docuit Plutarch. 2 3- Sympof.
Meuse[?.9. Athenzus Zzb. 1o. cap.S. C" 9. Siigitur o- Ixymel ut vinum temperari dc ibba atjnumquam jad duas tertias,aut ad tres ex quatuor
excoqui Jporeft "- lioqüin non modo
du pla, aut n Ja ad lim cleri, fed tripl
io;aut quadruplo à melle füpe- Jirabitur
: quoniam mellis R minus a- dqua ob
craffitiem, et vifciditatem abfimitur .
Exemplo fint;una aceti, due mellis, quatuor a- quz unciz in qu: irtam redigantur, erunt
una illincia cm dimidià, sícquetota, aut
penetota "eric mel ; fi ad tertiam
;€runt reliqvz duzun- "rim,quarumuna
cum dimidià erit mel, media &ijincia
erit a acetum; ncn gum ges duri imilec erit vino; quód fi unica ex
qvatuor, aut una ex tribusabfümatuor ;
optimétempera- Jfmento vini
correfpondebit ; quód fi ! War decoctio cumaquá,vis aceti et in fa flu odore cum melle " hnqvetur didiu coqueretur, mu po re,
lía fieret mexæifima . te .K » b
e VM^ Aon! UA - MK, ; quód fi tam- mee "v, yy in cra ^ . 46
evita m AAA ]- 9 quét note pode pod.
Ps V. v evæe"", e in extrinfecis erat in uft,non per interna.
|! Ac Ox nei wen m tg Animadvertendum pratereà,
Pharma--| rbi 4; Copolas,ut diutiüs
oxymel ; aut fyr. « cetofüm-.| Is rela
4 confervare poffint;ex decreto Mefüz, pris a--
Galizico, quam et mel ufque adeo ex coquere;donec totajj quomod, aqua,aut pene univerfa abfümpta
fuerit ; mox i perttr,| acetum addere;
et iterü coquere, omnino quoc: aquz
reliquum efta abfümentes; sícqueoxyme:
non fieri ex aceto mulsá. Vbiobfervandum. |1ii oxymel hoc ita paratum pro potu nutrien te
Lin ub ufim duci non poffe : eft enim
potiüs forbitio,t: quàm potis. oxysel
$4. Cavendum prztereà,ne Medica coma] xi
rix muni noftro oxymelite u tantur ad humectani] Z0 btt dum ; cim exficcanti potiüs facultate
conftet: a dd cümaquáà carcat;in ufum
tameneetiam hoc nof x p fs leote is
ducitur, quod di uluatur;liquidümque, et «a.
PF i fluxile reddatur quadruplà fere parte
aqua: E. aut ftillatitia,aut decocti al
licujus addità. Quar! $$. Obfervàndum
praterei,in plevritide» T "fot bi
cra(fifcnt, et vifcidi humores, oxymel noo]
zanbectlle " : ri ; fn m
imbecilltus effe;quàm fit illud mediocreqi
inaididad cut m in €o cafu valde acri utendvr m docuerij ht »p.3 2.4C€HT.2. á $6. Obfervaridum pretereà,fi per
totum) nofirum morbi decurfum utédum fit
oxvmelite; aut fyri] 3) acutis.
acetofo,neqs acricrineque mediocri effe utem]
zit ac-, dum in acutis febribus, quód non humectet comfnoda potiffimum noftrum ita paratum ; fed
doce ad era[ia "- Hipp. 3. 4CUt. 37.0tendum effc eo; in quo
minii T y de Y - : J4À V^ vt vi 6 mum CLI'A9M .
cA MER w^ €
h 3 zx - &* mum aceti fitadmixtum, ucmultüm poffit
hunectare.nec inteftinis noxam inferre.
57. Cavendum pratereà, ne in oxymcelitis 5. autfyr.acetofi compofitione acetum illud
acer- rimum fümatur.;aut ex vino
Cretico; vel alio potenti confectum : nam
in acutis febribus jin quibus, preter
facultatem obftruc&iiones tollen
di;abftergendi,& incidendi;requirimus et lhu- mectationem,& refrigerationem, po tiüs
ficca- refolet;& excalefacere;quàm
humectare: aut fi taleacetum in ufvm
ducatur,aquz cuantitas erit augenda
;tunc fortaffe sentebaslenia des "
'erbis Galeni tolli pcffet;cóüm a.ze val.tuend.6. voluerit; ex unà aceti, et duabus mellis
fieri oxy mel mediocre ; acerrimi m vcró
ex zqualibus aceti, et mellis
partibus:cüm in cófilio pro pue- ro
epilepticoacidiffimvm oxvmel ex una ace-
)& quatuor mellis velit co nfici ; miniméaci- di m ex unaceti,& octo mellis. Nificum
doaceti pro oxysmnelie nó ftt acer
YImi,n6» que ex vis n0 pottne
tffiano, echa ifa CM.
&iffimo C iealino dixerimus, libellum illuzi (pen t effe quidem Galeni ; fed multis in locis
depra- vatum : potiffimum cümoxymel ex
favis confi- ci ibi tradiderit d. 9
oppofitum docuit (2 4.de val.tuend.6. €
2.de Fratt. 29. Qvod fi ex favis QUIS
dixerit doc ffe conficiendi m Gal. lib. dt med T her. ad Pa mbil. oxymel,1s fciat,librum
illum Galeni non effe, quod vel inde
collieitur,quód diverfo modo compofverit
ibi Theriacam, ac lib.de T her. ad
Pi[onemyac lib. de Aztid. Deinde conf
tat, confilium 11lud pro puero epileptico
efle depravatum,quoód dies Canicilarcs confti-, quat c E
jo. tuat quadraginta, viginti ante exortum Cani- cule, et viginti poft; quod Galeno repugnat,
et Grzcis fimul,ac Latinis omnibus
fcriptoribus, Caniculares dies ab exortu
hujus fideris in- choantibus, ut longi
oratione ; &" 72 Cons. lib.
Hipp. de æve, aquis, (f locis, in Com.in Probl. "Ariftorelis, docrimus . Colligitur
ternó,men- dofibm effe libellum illum ex
eo, quód pueris epilepticis apium
cócedendum, petrofelinutms -abdicandum
cenfet, quód petroíelinum lzdat
epilepfià correptos ; cüm oppofitum reperia- - mus apud omnes fcriptores ; apium
epilepnicis obeffe,nullà fa&à
petrofelini métione : fic Plin. lib.
10.cap.r1.fic Alex. Trall.Izb.1.cap.1 $.(ic Avic. lib. 3. T raft. 2. cap. $$. fic Serapio
/ib.Sigupl. cap. 190.& Mefvezn fua
Praxi,cap.16.de Dolore capi- tis.
Nifidixerimus, corrigendum effe locums
illum in confilio epileptico; ut loco, seii: par- res o£fo, lecamus, aqua partes oclo;fic enim
ccn- veniec cum loco 4.4e tuezd.
val-cap.6. $8. Cümin vino concedendo in
febribus, et Vin f? sotiffimüm
acutis,tottantzg; controverfiz ex-
&ricitant! entur,ob varios Hippocratis et Galeni locos bus acut? ; v ips zoterd. intet fe contrarios, de quorum
conciliatione s; emdi per 755 : : fe libi à nobis conftitutum eft, nempe,
numquam "V ipuw in ratione morbi
effe concedendum, aliquando arqtiscur
vero ratione caufz, et fymptomatum, tum eta
aliquando ceorum,que fecundum natutam dicuntur,& vi- concedz-. rium . Quoniam autem alicubi
concedi paffim Lar. intelligo; ut in
agro Neapolitano, et fortafle; frequen^
s, cádémque controverfià quid
fentiendumffit, a s frequentiüs,quàm debeat, atque non apparens Æneis
parue tibus fignis cocticnis eftuantéq; zgrotantes 5. 9udA-vvemes ve quàm
felici facceffusi pfi viderint; nos Infübres. 42447,/& »d laborantibus febre acutà, € malignà
cmnino vinum interdicimus ; quod adeo
felici fucceffü fit; ut ex viginti
laboratibus maligná febre cum maculis
vix unus intereat, nifi forté, quod rarif-
fimé evenit; ratione virium aliquando conce- datur.
$9. Cavendum tamen,quantum maximé pof vis »- |! fumus, nein noftris his regionibus vinum
con-. 4az ; ne cedamus;etiamfi coctionis
figna appareant ; vi-. 9Pparéti- demus
enim plerofque ex quávis vini conceflio- 9! 4wi42 ne,quantumvis minimà, in deterius labi, atque
en eH ^ . Y et éh9n15, a- denuó materiam recrudefcere : quod cüm fx pé
ni Teis- acfepiüs
confideráffem,viderémq; antiquos ad- dian
eó frequenter vinum in febribus conceffiffe,, dido, |! non folüm ratione virium vitalium,aut
ÍymptO-. e; cur. matum, fed enamad
adjuvandam cocionem, vabcaomee Vi fud;
materie morbifice ; atque ad promovendamil- - lius per lotium evacvuationem, ut videre eft
11. 7 Meth. med. 9.5 1.2d Glauc. 1m curanda
tertiamay 73 C quartana febre;tumad fputum facilitandum, Ut I. AC4/. 22. 3.Aut. 1.C7 4. 4CHf. 37. non
aliam horumaptud nos infelicium eventuum
ex vini exhibitione canfam
effeconjcectavi; quàm vino-. «vsum, rum
noftratium conditionem, Rubra;& nigra vufAr«w foy - optima multa fint,quamvis primis menfibus et q
. auftera,& craffa,fed mfnüsaptaad
febres,quód nec urinas promoveant,
necíputum facilitent. Qua alba funt;
aut fiava, aut fünt potentia, aut * e
i imbeLN Vas ^ ^
ó1 €^ eot ue exéiu pa? n quet
^ D qua dijuatur; pel ne
itmbecilla: Potentia, quoniam maxime alba. ex- petuntur à noftris in aperto vafe, ubi
compreffis uvis reponuntursut fimul
ebulliant,non permit- rüntür tamdiu
fitmari ; quamdiu oporteret ; uE debitam
coctionem in fe conciperent ; et id, ut
álbo colore oculis ; auftero fapore, quem pican- tem vocant, palato gratficentur hinc et aufte- titate coctioniofficiunt, obftructiones
excitant, neque urinas promovent, neque
fputum adju- vant; pratereà veró caput
petunt quàm maxiime ; ieneis partibus validéin ipfo contentis, ob terreftres partes admixtas : Vnde etiam
primis»j menfibus eratiffima palato
effefolent;,fi dulce-: dinis aliquid
cetinuerint,fübaufteris partibus cit:
guftui abblandientibus..
dulcibus duplicifapore Imbecilla
veró et tenuia alba hujufmodi funt» ut
numquam máturefcant, nifi maximo zftatis
calore füperveriente, et ne tunc quidem aufterz: partes omnino co&tione evincuntur ;
sicque m1nüsapta erunt et viresinftaurare ; et lotia. pro- movere:quod etiam incommodum alterum ex- cipit, quód, ubi quafi. maturuerint ;
aufterita- témque depofuetint, aut
ftatim ferà acefcát, aut evanida
redda . hant,vnde ad ufüm inepta
redduntur . "dusigitur quàm
maxime pueridis,maxime in acutis,
potiffimum enis, et etiam mæis in
internis inflammationi- bus,utin pl "debet, potentius potius eligaui, n malia
ET. Cau60. ntür;.aut corruptionem contrær Evitan-- B^
pud nos in febribus:
evritide;viniufus; et fiin ufum ducti
1 "ENS quod multa a-Cautio
prztereà in bibendo adhibenda. Bibende-
eft, in febribus potiffimüm aftvantibus, quam. fap, en docuit Ariftcteles 1; Problezz. $6. ut
fzpe,& pau- paulatim latim aquam, et
alios potus frigidos ; ad fedan- "bdl. T
dam fitim illam ex calore febrili excitatam eon- M iria ceffos;affumant: potio enim mvlta;&
conferum 5, e, affumpta, nec exficcatas
partes humedtat ; qui-. 5, c ca
buseftus, et ficcitas ineft,cü ftatim praterfluat; fori. nec fitim fedatzat fi (epis data fuerit; et paula- tim pitiffando hauriatvr; os ventriculi;
cefopha- eum, lineuam; et palatuni, dum
fenfim per eas tranfit,refrigerat, et humectatialiquà
ex párte» parictibus ; et turicisadhzrens:
quin et paula- um fefe infinuansin carne
confcendit,'& venu- las exficcatas
imadéfaciendo,& trrorando hume 7
&at;.. Quodaptiffimo exemplo docet :fi enim» c ri A. multa aqua.& confertim aut decidat;maximé
ft »/fe^ . ficca fit,in terram; aut
aliunde per cavum eorri- vetur.,
fuperficiem terra non permeat, fed prz-
terfluit,nullam noxam ducés ; at fi paulatimaut decidat, aut deducatvr, füuperficiem
paulatimo madefaciens,& ócclufos
poros aperiens ; viatfiz fubfequenti ad
penetratiorem parat.]Id veró zepiba
intellieendum eft deaquá in potim affumptà gt ad fitim fedandam;non veró de eà,quz in
multà quantitate affumpta ad
exauneuendam febremo
ardentemaffutnitur,quz et multa,& affatim eft affumenda;fed de hac rezz Cozz. noflris im
Probl. 4 wel illud, quidauid
dicatadverfus Ariftctelem Hie- Mie S ua remias Triverius zz lrb. Hipp. de vitu
idtotarum.. ved. 61. Quamvis fomnus in
acceífionum febriü ES v1 omnium E utens p 7
E Suc P AI á S»m»»us Omnium
principiis, confenfii omnium Medico--|
aliquando tüm, et mulus rationibus id perfuadentibus, fic] ^" in prizci-- fueiendus, animadvertendum tamen,
aliquosi| ^ pio 4t'«[i? teperiri,quiadeó
fenfu exquifito in mufculis, &] /!
nf "C esrpofis partibus fünt, ur faperveniente effifio-| Pind ne materierum acrium ad illas partes,
unde ri-| i Tm" --gofem illüm
concuffivum fieri Medici omnes:
profitentur, tantis, támque magnis doloribusi| 4! conficiantur, ut vitales vires profternantur,
&&| |! mots fepenumeró
fubfequatur; iniis non folümz] UU in
principio fomnus, eft avertendus, fed potiàss
omniingenio procurandus, ut fenfus ille exqui-- fitus retundatur,aut fopiatur,rigorque;&
doloij 5i mitior reddatur. Somnus 62. Somnus in febribus potiffimum
acutis, ff; immodt- -yyodum
cxcefferít,licet majori ex parte malo &«)
74/1? ^ erotantibus cedat, et proptereà fit evincendus ;) i "aq : quoniam tamen,ut omnes alias à
naturà factat! € " 2 : ida €vacuationes cohibet, ita eam;quz
perfüdorem] i fit, omnino promovet, fi
in fine ftatüs univerfa.]. i lis
febris,ant in declinatione fapervenerit, eciafí
temporc modur excefferit, ita ut decem, aut e) tiam plures horas perduret, non eft
impedien«] ju . dus, potiffimüm fi
indicatorià die imminere crisd i fim
perfudores commonftrarum fit:fit enim fæ] or
penumeró, ut promotis per longum illom fo;] mnum füdoribus ex univerfo corpore, et ex
illeéd! ti /ode)e ves lomno inftanratà
naturà,& morbus fo]vatur, 8& nes
eger convalefcat : coenofcemus autem ex fienisdi i) * prafentibus bono ceffurum
hujufmodi fomnum] vornvwté $4. :, 4n
T /^ -. longum.fifine tertore fit, fi
lenis, fi denique il]: t lum / Ó
oil . y jum non imitetur, qui in lethargo,
comatosisve affedibus paffim confpicitur
: Videmus enim, aliquando excitatos
zerotantes hujufmodi,e- tiam Medicorum
confilio, impeditos in hujuf- -4r modi
evacuatione recidivam feciffe . Proptereà
cauti maximé in hac re Medici effe debent. 63. Inaére frigido admittendo in acutis, et 4er
frigi- zftuantibus febribus,hec
adhibeatur cautio: Vt 4us acu? pro
viribus frigidus quidem ær ambiens in cu- febricitan biculum admittatur, et procuretur, utomnino
tibus quo et infpirari poffit, et interna
vifcera xftuantia, "ede ce»
refrigerare, et faciei oblectamentum boc affer- eedendus re ; reliquo autem corpori ne nudo
obveniat, omnino cavendum ; quin ne
etiam nimis tenui ftragulà;ac pervià
operto: circumverfante enim acre
ambiente frigido aut flatu, et calidus va-
por, exhalatiove,quz foras perfenfumeffugien . N tem evacuationem promovebatur, ad interiora
^4? " repelletur, et pori cutis
pervii fcrtaffeadftrin- gentur, et internus
fervor adangebitur : immi- nuenda quidem in augmento, et mæis inftatu zn
v^ erunt cooperimenta, ut zftus ille
imminuaturz ewe per univerfim, et natura
inftavreturàtantola- ^ bore; at fenfim
id fiat,neque eó ufque, ut illa in-
commoda feqvi poffint. 64. Non
placet tamen eorum confüetudo, Nà zii:
qui quafi eeris vim inferentes, plàüs nimio coo- cooperien- pertos,& ftragalis obvolutos tenentfic et
tran- 4; fregu- fpirabile mæis corpus
reddere cenfentes poffe, ^ 4c? et füdores
prómovere : cüm alioqüi illud ni- f'^rieiran
mium effluxum fpirituum efficiat, et fübinde, '^*,, D 4 V)IeS
eH) Viresimbecilles reddat ; hoc
autem violentiam naturz inferat, et aut
ctuidum humorem extra- hat; aut qui per
alias partes exitum fibi quate- bat ad
cutim vi quádam ; naturá re pugnante s
attrahatur, xc ELA LVDOVICI
4 PPTATITII.-. Baimaduerfi ionum, et Cautionum Me- dicarum,
diui Eas comprehendens ; vorige
A2 Qua ad Pbarmaceviscum negotium
pertinent . e Ep Vamvistáquam veriffima
fit Hip- Medica pocratis fentéuia, 2.24pbor. $2.O7- materia "ia [fecundum rationem facienti. [i nom mutáda s
[nccedat fecundum vatioriem,non e[f
^ tranfeundum ad aliud fiante eo, quod
e principi o vifum ef? . Cavendum tamen, ne diu- tius in eàdem materià medicá infiftamis,
potif- fimum fi in alterantibus
verfemuür ; fit enim fz- penumeró,ut,
dum longo temp« re eodem remé : gue Pm
dio utimur,natura illi affueta ita illud in alimen/Æxsa Área. tum vertat,ut morbificam caufam evincerenon 7
valeat;potiffimum fi alexipharmacum fit; pecu- harique qualitateagat. Immwutanda ieitur crit materia prafidii, et quantitas etiam ; quz
adeó Certa przfcribi non poteft : hac
enim ratione et '| vii cxiftimationi
noftrz confülemus,& eegros obfe-qj
quentes magis habebimus;ne tamen id frequen || ii tds fiat,ne ignorantiz notam per
inconftantiam || i fubeamus. Puean- 2. In
purgandis humoribus per medicamen- |.
dunagrg tum five [entens, fivefolvens ;ut multa funt à irte. Medico et animadvertenda;& przcavenda ; ita exptd't," huic
noftro Cautionum libro minimé inferen« q«o»do da,quód regule, et canonesilli
non nifi cautio- *45f? nesomnesfünt, quibus Medicum jam bene
in- £derit« fitutumfü pponimus : hé igítur in
immeníum (ec e A erctef. cat liber,
folüm cum Hippocrate ;z fræmen "
eile 4. t0 Ib.de medic-pareantibus,ilud admonebo,;4ebe- TT re AM edicum pre[cripturum phaymacum quod
far- frm» vel deorfira purgat, prits £m
'€YTOGAY€ y HHTA alias phavmacum
pureans bau[erit ; Cj num alvus ex pur
eatoris deor[im f actle fe fol'vat, ac cst oberug Parsvelporius dura fits hæc
enim erit cautio pur- € l "T : 4
AFEA CIAM 1 gatorla 1n metu hvpercatha 1COS, ut naturam /!| WU eoo, e. on epa 1 tí peculiarem cognofcat
eerotantis,cümnullisno- tis
idiofyncrafia cognofd poffit; quam fi cogno-7.
Ícere potuiffet Galenus, fe zqualem ZEfculapio cenfüiffer : adeó enim
aliqni faciles ad folutio- nem funt;ut
vel primo pharmacorum odore tre- .oa,, Pident, atque in fluxum folvantur ;
aliiita duri: alvo fünt, ut vix ullisremediis alvus refpódeat;^ fic enim ant mollioribus, et levioribus ;autvæ
lentioribus uti poterit. Purtame 3.
Atfinüquám pharmacorum alvtm fübs |. dum
inter ducentium ufumfe inüffe affirmet, rum demum exquiANIM.ADVERS. LIB. III.
f9exquirendum, num, dum fanus effet,officii me- 7?s4re o mor alvus füerit, pro conditione rerum affum-
ertet; 2» ptarum, et numà pleniore
cibofe in fluxum ef- !riea fit fundere
alvus foleat ; fic enim tutius zgrotanti pr
confüleré poterit Medicus. 4. In
lenientium medicamentorum ufü, cüm LexientiZ
videam Medicos adeó diffentientes,& in quan- «f ati- titate; et in hora exhibitionis,&
inintervalloab !5s:?ri» exhibitione ad
cibum,concedentibusaliquibus, 4?7mer-
puta, fucci caffiz ad minus unciam, tum et fe(- *91^?^ quiunciam, vel electuarii lenitivi, vel dia
pruni, per horamante cibum, et hunc
potiüs matuti- num, quàm vefpertünum, ut
fomnum fugiant, quem poft medicinas
imbecillas fngiendum;au- &oritate
magnorum virorum omnino probant, Je esce
vc] eà ratione, quód perfomnum et evaciatio-e Certo .| nes perfeceffum impediantur, et medicamen-
- tum naturz adeó familiare alimenti
naturam. fübeat;quod in Italis Medicis
Francifcus Valle- riola;2.Ezarrat. c.$.
maximé reprehendit: Nc- cantibus aliis;
aut hzc in principio morborum. effe
concedenda;aut fané admodum raró;in quo ;
numero Mercurialem noftrum effe video JEgo ww ^^ de hacreita cenfeo: Infebriumemnium,
&a- liorum quoque morborum
curatione,majori eX ;», (5,45 parte ab
initio lenientium ufüm convenire; et UA wav
excrementa;in ventriculo contenta, et in vicinis |.,. A 7... partibus, evacuentur, et ut commodiüs, fecu-.
riüsque incidentia, tenuantia ; et abflergentia,, auxilia in ufum duci poffint, fine periculo ;
nez crudi fucci ad intimiores partes
ducantur. Quà NOS oe) : gras * mo lHh e urhe Kata VeTO quantitate ; diftantià à
cibo; et dt tempore ?. Sané nifi cautio
adhibeatur et diftindo, in errore
verfabimur : Aut erífmin» T bs. princpio
morbi ad. prefcriptum ufum exhiben-
dz,diffg. tU; ut progreffu morbi;ut alvus aliqua dejiciat éio. Andies,cum enemata, » quód aut renuuntur,
aut . leduntautnihil fübducunt;a aut
alia causa; in u- füni venire negueupr d
1$1 ob primm occafio- nem, et ad unciam,
et ad id fefquiunciam concedi zx. ;
debent, et a aliquanto tempore ante cibum ; et potiüsmatutinum, quàm vefpertinum tempus eligi debet, nifi aliter acceffio febrilis
perfua- deat. Colligiturid ex Gal.2. Ze
em facul. cap. 31. de moris, mox etiam
de prunis agente, ubi alt : dl vups
pruna movent,, Sinai f f prandium gon
ftatim. fed aliquamto poft in* ervallo inchoetur, capo t[ola comedantur ; hæc enim
communia, omnium laxantiumm przcepta
meminiffe opor- Lax Iet ; ut enim
perfeinexiftentia excrementa fub- vunt
edi qucant »fine cibo per fe concedi debent;ne veró, tmc)en
E ' cum naturz ea famil liari ia fint, 1n aPRSCHÉ Ver- E d «t tantur, non multo poft cibus eft 4llis
concedén- d Dx 4t - dus;ne veró
fomnuminterrumpant,dum alvum (s das p ád
excretjionem movent.;c rd poft quatuor;aut
fex horas fieri folet - po tis ante prarídium erit Deb; . exhibendum. 1Q: [Quod fiad ex
xcrementa,que in. rsen jnteftinisa lagregaptur ex quotidiano cibo,füb- ducenda ex thibe atur, cüm ld fepius fit
oriítatt- we dum, multó min or copia
Mloru m erit conceden- da, puta, f (cmtu
[uncias antea deachnges dein facile
folubili, &e2 quidem. jim-
mediate (WW dd 4 121]
/Á, )1l eAVO (6: mediate ante
cibum;vel cum ciboipfo;& porius; cum
cana,. quàm cum prandio: ficenim cibüs :
emolliens;& lubricansredditur,& ferculum one Jtvculn lud hquidum;aut ju fculum medicánmientofa m.
UPC OBPINT induit qualitatem lubricantem
; et felectaà nüs- turà parte
nutriente, reliquum, quod adanteftis: na
transfunditur, et fxces contentas emollit; et ^
tunicasinteftinorum lu bricat neque .cruduma: fübducit; quoniam ; cüm naturz ea
familianas fint; illa non averfatur, aut
cum crudis expellit; fec d co ncoctione
faétà, quod familiar '€ ma91s at
aahit,reliquum.cum ex 'crementitià parte ádin- teftina pellit; quod cum non fiat ; nifi
celebratà : coctione ; poft fo mnum
folet fiéri : et vut millies p Jy OMA
e2o ex pertus fum, et nof ftrates Mc dici meoe exg« "2 Ja 1o cognoverunt ; hoc modo au t famiuncià ;
aut ctia un duabus dr achmis
fierenumeró 1pajor ex- dg tetas
crementorum copia educitur, quàm cüm uncias ' &e etiam fcfquiuncia per horam;ut moris
eft5ane te prandium exhibetur : fomnus
potius adjuvat: coctionem illam ; et lubricitatem
; quàm impe» diat. Neqtie interrumpitur, quia
quantitate» à tardius agit,& non
nifi poft cocticnem . Auctos - A ritas illius fententiz-& VaHeriolà
adducz ; aut. 2^* de primo modo
exhibendi ea intellivitur ; vel v m
potius deveré purgantibus debilibus; de PME alis. G. :Ab affumpto autem medicamento: veré
1 viec d * purgante;an fomnus co ncedendusamrerandüf-
ZU AN z 91272 '4 vefit ala eft ratio ; neque unà refponfic né
po«^ 4072 b] e? eftíausfien ; aliterepim eft agenduniin
medime quands. CoIento ; utenchitt «améto lévi;aliter in valido:alia
eft ratio, fi me« dicamentum fimplex fitmedicamentum,
alia ft venenofi infe quippiam contineat,
ut hellebo- rus, Colocynthis videntur :
neq; idem imperan- dum.fi liquida
exhibeantur;autin boli formam mollioris,
àutfclida concedantur, quales funt :
pilulesfiex ex blandioribus fuerint, et 1n formá li- quidà, vix eft füperdormiendum, nifi
ventricu- lusadmodum imbecillis
fuerit;fi bolt molliores fuerint, et medicina
fatis potens ; aliquádiu fu- - él mela
perdormire licet, potiffimum fi naufeabundus
emi 9 fit eær,aut debili ftomacho;fic enim faciliüs ad potnded actum ducuntur, et non evomuntur. |A
pilulis " £^ * optimum eft dormire,
et longiori tempore, ut PIS etus
colliquatz, ad adtámque deduciz, facilé
sol i - D PUS fuum exferere poffint . A valentiffimis au-
E tem medicamentis affumptisjin « quibus virulen- ti: nonnihil ineft nullo modo
dormiendum. ceníeo, nevirusad principes
partes, et potiffi- mümad cor per fomnum
means, qut ad cerebrü vapores transfufi
nóxas pariant in&mendabiles . yin m
Malé iis confülitur, quibus ab affumpto
-aMfumpto, pharmaco,;ne vomitus fuperveniat,calidi panni 2e / 07A 7v M
reet n - p 34A / 7" zeli cs hoc autem et calorem naturalem à loco
avocat, lida sop G fa penumeró flatus
excitando ex materià inis fentappli
ventriculo contentá naufeam promover. Gulz
canda. igitur, et ecfophago
potiüs frigida fatim sdmovcri debent;ventriculo autem non r.ifi cüm dif- ficulterad actum deduci peteft, aut dolor à
fia- ^ £u congula y ant àut gule,aut
regioni ventriculi applicantur ; il-.
y.gioni yg 10d enim potius vomitum trahendo conciliat. Concitatur,
calida applicenuir. Cavendum autem
femper;ne calor excedat,revocatur enim
-.| potiàs fic natura ab opere.
8$. Cüm Hippocratem viderint aliqui ab ex! J| hibito helleboro, aliove
medicamento validio- rl,cremorem horde! exhibuiffe, E reliquie,fi ul quc adh xererent medicamenti eefophago,
fupe- ricribusq; ventriculi partibus,fü bh erentur,aftüsq; ex medicamenti vi in
ventre productus 'reprimerentur ; poft
quodcumque medicamen- !tumaffumptum poft
tres horas, fiveevaciare, jam
ceeperit;five nullus adhuc motus fiat;jufcu-
lum pulli propinant; adjuvari fic cenfentes opus medicamenti. Quod omnino cavendum
ceníeo: ficenim medicamenti vis
hebetatur, aut preter rationem actio
medicamenti confunditur. Ino ^2e44- aod un
fine fané evacuaticnis fiquis id pr rxftiterit, opa- me illi confulttim cenfeo;nam et fiti
ccnfülitut, 5, -. et reliquie medicamenti, aut
humorum fübdu- cuntur, ehuitur
ventriculus ; atque vires aliquo modo
inftaurantur. 9. Purgante medicaméto
dato, fi fpatio qua- tuor,aut quinque
horarum non dejecerint egri, nec
bene;nec tutó clyfima 1njici poteft; quod paf-
fim à Practicis fieri video; nam diftentis intefti- nis pharmaco, ac ruentibus füccis ;aditu
prohi- betur remedium; ;fepéque deorfum
pellente na turà, et furfum propellente
clyfinate, pugnà ex- ortà,dolores
concitantur maximi, et aliquando
volvulus.promovetur. Glandem ieitur prafü- terit ex melle impofüiffe cum fcmidrachmá
fà- lis, Pbhartna-
€0 nj pto . son femper in-
fco p tres Loret exbsbéda.
HH eth . Mu 8U.A. oí " €
tædia. PLarz;-- co no €?
CHante s, chos 20 " dé sm,
Jw Qo df. Cun m o $2 C^fA64 lis, fellis bubuli ; et fucci
cyclaminis ; aut cum pülvere trochif&orunvalhandal,
fed cum filo . Quód
fi clyfma indatur;fit acre quidem; fed fex«. |... folüm unciarum. Praftattemen id promovere.
|; cum hauftu octo;aut decem unciarum
juris pul-: |.., Ii;addito faccharorubro
ad:dvas uncias; aut un^ |i. ciàaddità
mannz; aut fefquiuncià . : Vomitus ^.
10. EO ufque mollicies noftra pervenit; ut: quet-NOmitivorum ufus feré
exoleverit,ut vel eam ef^ 1 plex, q'ii-
fe caufam etiam credam ; ut raro rebelles morbi j.. £4; » C A nobis evincantur;ne tamen id
fineanimadver- . |. 4775? fione
relinquam ; animadvertendum ; cümdu- j.
V^ uley fit vomitus, arte procuratus,
Vniverfalis u-, sese Dus; quototius corporis conipages, fi quid malt" concepetit;evacuatur pervomitum :
Particula- ex eactrisalter;quo
ventriculus autà collectis per fe» .
excrémentis infe,autab affufis aliunde ;inani-
tur... In primoillo exercendo;cavendám ómni- no effc hyemem dicebat Hipp. 4.
Z4pbor.6.quod. «c cim czaffi humcres tunc exuberent ; et viz non. fintaperte ; corporisque compages denfior fit
; juàm ut locum humoribus attractis
concedat, difficillimanireddunteam
actionem;fecüs eft,fa. J. vacuare humores per fein
ventriculo ratos ten--. taveris : frequentius enim id przftare debemus |.
^ . hyeme; auctore Hipp. /ib. de [alubr?
Dietas quo- p). " mani inquitjboc
tempus ad pituitam f ecundins eft; V7 et
quamviseo tempore ventres ftatuantur cali. |.
dicres;r.2fpbor. 15. quoniam taroen pituite me-.| tropolis ecerebrem, ob aéris frigiditatem
1naXi- || iné pituita abundat; unde
defluxus illius ad pe- || ER Kus» bs étuss et ventriculum ; ideó vomitus hyeme
ma- 21s conveniunt blandis iis
avxiliisqua naufeam promovendo partem
illam folam poffunt eva- cuare;ut docet
Ga ld. $. denfupart. cap.a.Atfi he- pate
fe exonerante, bilis recipi turin ventricu-
loquod ex amarore lineuz, et aliis confpicitur, quovisid anni tempore ex eniat, evomi
poteft; licet frequentius id eveniat
xftate . 11. Numquam tabidi;,aut in
tabem propenfi Vemitz: cvomant,fi fieri
p offit, fed per infer DONC cag tabidis i-
tur, ob graviorum fvmptomatum metum. nimtcus. 12. Cavendus itidem eft« vomitus,quibus ca-
; 11 E re eren m put c tolet; nifi ex recrementis in ventre
collectis quibus no id fiat;a ut quos
interna ph leo: 'neobfi idet;aut COWUeIT .
qui laborant moleftà aliqu à ham )ptoii 1, aut O- culorum morbis ; lipothy miz,aututerinz
affeCüoni expofitis etam 1ncommoda eft vomitio,; ut et 1is,qui fracto;nau ife tiri ndoque funt
ftoma cho, et denique cob ptis, et morboexhau- füus. Eoufque progreffa eft hominum tnolli-
P2area- ties,rt etiam in medicir is
pureantibus affumen : ca vefrige
disvoluptatem qu£&rant, dum illas frigidas a- '4t4» vet ctu; quin etiam.fi Deo p ;lacet;glacie
refrigeratas tlaciata n expetant,.X fzpé
ab adulantibus Medicis con- "Je c?
cedantur, non animadvertentibus, et multum NS L de naturá proprià per: glaciem corrumpi
i,igne: as partes, in quibus maximé
purcandi vis ine extingui, difficillime
ad actum deduci, dolos res fa epe
excitari, tum ex frieiditate; cum diminu
actione medicamenti;& fe penumceró adl j: L h uinc- humores in ventre cexiftentes,.dum
adhuc denfat magis,contumaces etiam
nimium reddit,unde.» repugnamus actioni
medicamenti ; indéq; tor-: mina,&
inteftinorum dolores . Phawnz- 14: Cüm noftris his temporibus,quibus Chy eor vali. micis, et Hermeticez Medicine locus
fepé datus dorum p eftillud inoleverit,
ut extracta virtutum medi- vinum,
camentorum perinfufionem in vino;aut in aqua
aut. AqHÀ. Nitze fere fiant nifi diligens cautio adhibeatur, U/'4 eX" errores fequentur
inemendabiles: ut enim con- MK cedi
hocutique poteft in medicamentis blandis,
lofa- et placidis;ut Senà,Ágarico,& fimilibus;ut etià in fimpliciter alterantibus ad calidum:ita 1n
venenofis,& fortibus non femper eft tutum,;ut it Colocvnthide, Turpetho; Cataputià, et fimili--] »" L L] . M bus;vis enim virulenta altius permeat,;&
cordis] palpitationes producit;aut fi
virulentia non in- fit; fed
mediantibusieneis partibus vehementiam habeat, adeó medio harum mæpnus
vi-] gor illisadditur, ut
füperpurgationcs, aut fané dyfenterias efficiant ; fitísque tanta exci-4 tetur ; ut difficillimum fit huic fymptomati
oc-4 currére. nLabarha 2000s Quinimó,
vel ob hancipfam caufam aliá info qua funt etiam blanda medicamenrta,qua
quód » vino ex igneis maximé partibus conftent;ut
R habarba- Eris k Y^ 2 llc i - bibita fe-. Yum, fiinfufione facta 1n vino
concedantur, fe. ; : »WE- "
bres exci- bres fepenumeró inducunt non parüm a ftuán t4t tes: irrorari udque antequàm Infundatur
R hat... barbarum debet,ut ignez partes terreftribu] multis admixtz quodammodo ad
füperticien trahana ie Re i P QA í
trahantur ; atinfufioin vino facta nullo modo
laudari à me poreft . In. componendis formulis medicamen- Pjarma- torum diligenter animadvertat Medicus, ne ea
«4 d mi« miíceat,quz multüm tempore
differant in ope- frétur, fint ratione
ede *ndà, i ta ut unum ex iis fit, quz non, (* 75 2"4 nifi longo pófttempore et humores peculiares
42^" fé OCC WIOSS: Pp re agite et attrahunt,& fübducu nt; ahud ex uis;
quie ve- locifiimé eadem praftant,ut fi
quis electuarium ex ficco rofarum cü
pilulis maftichinis mifceat: quoc d enim
citó vires fuas exferit,i jinteerum füb--
ducet medicamenti im tardius ad æendum, aut dum vix 1d humo res peculiares ag 'creffum
erit at bali iere,sicqi ic imperfecte
rem idrieb Unt actic- nes
medicamentorum, et tormina in inteftinis 5
ac dolores exorientur., 17. In
pilulis concedendis, et fecundum ma- Pilula
Inem,aut parvitatem efforn andis, ma- quando " da eft cautio : fi enim à capite, aut
»magza,et longinq s partibus attrahere
deb ent,craffiores qwando mao páttyd ine
formari debent, ut diutiüs in ven- ^orve con
triculo firmatz;& valentiüs $, et mæis à lo nein- ortén Otis attrahere poffint : atfi ad excrementa
fo- /!!If« pre lüm, qua füntin
ventriculo, e XC utienda voten. CAPMems
7 7s din Lorej, pro tur,ur
folemus de pil.alt ph anginis,«& aloe face- sdiadeula rc, minutulz femper effe debent ; utnon
diuibi. hare ant, fed qui àm primüm
abftereant ; fic ad iium cicermm
magnitud Inem eas pilulas exh ?221720Y
€ $a bemus; quamvis ex aloe lotà
cenfeéke pilla a- liquanto craffiuftule
concedi poflint, qu3m 1c ex non
iota:cim erumrcbvr vosti2 Ra ; i p. lil
Pilula va ld:fima f 7/774 WO
fmit. ma£4 Ciyfieves p £7 29 211
Js no f '£ [24 HY»
HH Í indaut 5 yfeeres
? pragna ^ 2207 excedant «
Clyfteres, por . laborant bus
ventb. [;2t parva 8
ille foleant;aliqua mdiu etiá plàs reuneri debét. In validis veró
pilulis concedendis,nimis magnz fünt
vità ande: cüm enim non nifi longo
tempore evincit à calore noftro poffint, atque» colli iquari; diutiüsibifirma tur; unde
nimis macna fzpé fitat tractio humorum, unde et fuper- purgatio.
19. Dealoes frequ entiori afu, deillius affu- inendi cenfuetu dineà con 3»de ejufdem
quan- titate maximé varià, ac de ejufdem
i in (cbtibus ufu,cautiones pluresaut
hic,autin aptiorem lo- cum erunt ad
dendz,defcribende eodem ordine quo fu
perius (criptz funt. :o. Declyfteribus
hz fint cautione s Ima, in eravidis non
mu Itàm frequens fit clyfterum ufüs:
fi Veana ge e e fint, progref fi teitifo:
ris per communicationem partes uteri, et adja- entes nimiüm la bande hinezid'in ferna
reple- tus uterus prol abitur; fi
acriores veró fuerint. et fetu noXxas
afferant magni momenti,& ex pref-
(ii, quem in ducunt, prolapfum excitabt partis, et fxpenumeró 1 cmorrhoidas maximé mole- ftas producunt " 21. Ingravidis ?randiori feetu
clyfterisnon multa fit quantitas,
preterquàm enim quód có- primit foetum,
flatim quafi etiam comprimente feetu
repellitur. Renibus calculo ; vel
infífammatio nela$55 PD LI, borantib
us, parve itidem fint quantitatis,ne repletis nimiàmiinteft inis compt imendo
dolorem adausgeant, In prepingvibus non multüm calentes r, pay pesada folent enim inteftina habere fenfi ma-
guibns, e ximé prædita ;ita ut ab
injectione quafi fübitó ;zzefhinis
expellantur fine utilitate : hoc veró 1n omnibus subi fea obfervetur, qui exquifiti fensüs habét
inteftina. fusselyite- . In quibus
flatibus maximé inteftinatur- 7*5 7enim
ent,qui enema injicit, blandé admodumidfa- ^4"'w m neque cum impetu propellat ; inangvfta e-
quens ' calentes e nim loca pro pulfi venti niln n mdiftendunt
par Initcflinis 2 eS, atque einde dolores Ízpenu meró v ehem
Cn- turgetib? tiflimi et excitantur.
flatib. cly 25$. lantumdem damni iis
evenit; qui et plus 62; LZ n1mio duratas
feces in inteftinis habent,quíaue 42 inácié
inteftipna iis nimium repleta habent; pavlatisns di. enim em ollise illas dcbent;atque mibdsacti
qua- Clyfferes titatc indita, et blandé
admodum. violenter. 216 Ch 3 res,quos
ex malvà, alrhzà,mercue 79? s: riali,
violarià, betà, et fimilibus decoctis parant ciédi que Dhn: I TN DS OUS ffinis fece patiim Ll'harmacopcla quos Ccmmunes appel$
al. ai. vcpletis « lant, vel- hac telis
ne femper fü n ectos habui, "prs,
Bey iz. quod decoctum 1llud p: v-
tum diu tius Confer- (25,55 ven i Gc
quamvis cleo diutiüis fervare incorru- incommq- hujufmodi decocta
rrofiteantur,fi tameno da. affim« cl
ervaveris,putridas& malé olentia ef-
fc coencfces : quo nidore fxpenumeró uterus in mu heribus commoveri flet, in aliis dolor
capi- tis excitatur. Qvare pra ftarct
mulsà bene mel- lita; et cleoid pra
ftare ; aut ex urinà cum melle
defpvmato.& o leo e dem praparare, aut fané recens fcmper decoctum 1l lud parare. 27.. Magis veró iidem cavendi erunt, fi addle
4Jisd go Ea tà un 70 LVD. SEPT ALII MEDIOL. eumdem, tà uncià caffiz fiftulz, quam
vocant, aut diacaí- incomto- (iz; pro
clyfteribus parentur : eam enim paffim»
dum. |." parari fcio ex recrementis caffiz abiutis face a- liorum medicamentorum exoóletorum, et fyru- pis jam corruptis loco mellis, aut
facchari;ut fe- é et magnos dolores
inteftinorum inducant; inalvo folvendà
nihil proficiant . Clyferes. 28. Quantitas
enematum major fit in mulie- pro mlit-
yibus. Oribaf.8.Colle&f.cap.24.funt
enim ventri- ti^45 44À. cof v meis,&
ventre capaciori;ut cüm uterum. Htate T^
ferrentminüs premerentur . af 19.
Salemrecentiores femperadjungunt, et $al
clyffe- a a [ .O v ribu: 45; f quis
11lum omiferit, tamquam fi piaculum»
indédum . Conuififfet; derident,fed prater ufum antiquo- yum,& rationem: quoniam illo addito non
d1u- tiüs detinetur; cüm etiam per
noctem integram. aliquando probé
detineri fcribat Ætius 7 er. 2. fer-1.cap. 129..., Clyfferi-30 In puerorum clyfinatibus olei
ufüs intet- bus puérá- dicatur, et ejus
loco butyrum füccedat ; ne ver- "i
ole nó mes;fi qui funt;(urfum ferantur:sícque Sebeften indatur. juri,autferoincocti maximé erunt ex
ufü ; ex Paulo //b. 4. cap. 53- Clyftere ;1. Vt ante vene fe&ionem
optimum aliqua- in indéd^ do eftalvum
clyftere evacuare, neinanitz vene
jid /*- crudamillam, et feculentam
materiam ad fe» P072 V 7 vci bant : ita
non placet ftatim fere ab injecto iln4) QU& 6b f: er VAMA . lo venam fecare: praterquàm enim quod et fri- gore tentantur aliqui ex furrectione; et aliis
de- liquia animi füperveniunt ; fit
etiam fzepiüs, ut naturá adminiculante,
noa femel tantum, fed bis, ter,& quater,& fiepiüs dejicerefoleant:
un- de aut in ipfo: fedtionis actu alvus
perturbatur ; aut edam artifex in ipfo
dejectionis actu, ne» tempus conterat,
ob lucrum vena fecticnem. exercet. 32. Cüm morbus caufe implicetur ; cave; ne
Morbs morbo evincendo infiftas causá
poftpofità ; fi e- caw/e com nim illud
primó tentaveris,quamvis interdum. ?!tato,
mitior reddatur morbus;manente tainen caus, ^^^ vm aut non evincetur integre, aut fané
renafcetur fe T proximé majori cum
periculo. biens 33. Incaufisremovendis,
externa priüstol- Cawfi; latur, fecundó
antecedens; tertió continens : fi- "mitis bra quidem cüm alia ex alià nafcatur.nifi in iis
evin- tibus, cendisis ordo fervetur,
fruftra quod primó ex- € ie petitur, fed
poftremó intendimus, nempe mor- ^ ' itd
bum füperare;obtinere tentabimvs . aL dai- eon In comnliran diete endis ;4/
ferv&dnis 34. in compiiceus morbis
removendis,fiita ^, difiideant, ut
variæfedes occupent, nec unius,,,;. 5.
curatio alterius curarioni officiat, fimul curari, plicatis et eodem tempore poterunt, atit etiam diverfo,
morbis y neque multum refert,ab utro
curationem exor- quomodo diaris.
procedens 3$. Siveró unius curatio
alteri incommodü 4v. afleratrmaximé erit
cavendum, ne dum vni ftu demus affecti,
alterum exacerbemus ; SOUUNU. "rt merece
att e15qui mæis ureet,miaximé infiftemus;alte- ?"!r25 - CDM AF $i " quomodo ro nén neglecto; autfàné (quod potiffimum ob-
ELE fervabitur,ubi zqué vrecant) otique
mediocri-,,, tate quàdam, et contratiorum
permixtione erit fuccurrendum. A E 4 36.
In rra 2&. : ; 31^ Rd Y "osi 3» multis. 36. In decernendá remediorum copià
he fint ji remediis animadverfiones ..
Prima 1n levictribusmmorbis jiu gio
proct- par fit remedium, ac (emel, universimque mor- :| é^ dendum - lumfübmovens; cüm enini leve üt ;
nullam na 115 ture viminferet. 2 nu Extrebis |. 37, Atincxtremis,&
periculofis morbis lineal morbis [^
eunte morbo przftat valentiffimum aádhiberea 55i 2 7, remedium ; quia cim mortis immineat
pericu-i: yep lum;nifi univerfim remedio
evincatur, præt pesi? rendum. CC in
mortem agemus . Hinc extremis morbis: ni
extrema remedia adhibenda ; confülebat Ferdi Mobi Ppocrates. auediotri- 39 Quod fi tnediocres
fuerint.fenfim,& blà-4ic bus las» dé
melius depellentur; niillam enim fic contxa- ga
d? occuy- rie qualitas noxam corporiinurent. INec ta-4 rendum.
ynenádeó lentz eorum remediorum vires effe nte debent; ut illas morbus non fentiat;
exafperatulfo ixi enim fiepé morbus ; et
acerbior fit; cüm morbüs €4lid; fo-
talia remedia facile füperet . ius nólon 0:39. Tn fovendis externé partibus, üt
incaleej n go tépore lcant; prudenter fe
cerat Medicus, ne diucius 1r i» ufum
utatur;fcripfit enim Hippocrates: Calidüsfi quii ducendi. diu,multimq; eo utatur,zgris damnum
auget carnis effoeminationem
invehit,laxatis. carnium] fibris,
diffipatoque proprio carnium pabulo; 54
indu&to humore excrementitio;unde etiam nerun voróm fequitur infirmitas ; nà eorum robur
in.Ji mediocri confiftit ficcitate .
Cerebri quoque affi, fert ftuporem,nam
fensás,motüs,cmpiümque- Jio; cerebri
a&Hionum quafi refolutioné pari et hæ
morrhagias concitat,laxatis venis;& fanguine Jh. | fufos wj ma
itf fufo; et lipothymias; diffipatis Ro paient) &reil folutis
membranis, qua mots 1pfa excipit. At veró nec multim f rigidis diu utatur
; i| nam frigidum;ide manquit E
Hippocrates, fi quis incófideraté €o utitur,
fpaífmos et r19i res affert; nam exitu
omnia corporis inquinamenta prohi- 1l
ven et ofhibus;ac cerebro bellum indicit.
Ad prohibendum faneuinis flixum ubi-
i] que osos frigida; nifiin pectore fue-
sl zit malum: fümmé enim frigida pectori fünt inimica; etenim fanguinis, et fpirituum vias
in- tercipiuntjlp fiüfque thoracis
naturan n,que carulaginea eft, labefad ant ; quod multo calore atad v Ita m fo
)venca lam ^ 42 In yehem 1enti sok ^: vel ex multà
copià t C aig CCurrat;cavet dotspnerni
ident O- ij rusutamvur;fed noni mihl.
eorum,que diícutiünt, eritadmifcendum :
quz enim adf'rinsendo re- 4 pellunt, cum
tunicas ficcando exafperent,majo- d rem
inferunt dolorem, hinc potius influxum.
j| augentsquz v« TO ÍO là refrigeratio ine id przeftat, 4d. ut: aqua f r1i?1da,nix,2lacies,narcotica,cüm
ma- ] teriam nimis craffefacia nt ; Mb
conden- M. fent;etfi dolorem minuant,
curati. tamen diffi- ] ciema fec i Im
reddunt 43« INarcouica qua í J| ne temere in ufum ducantur s fed non s in
ve- I hementiffimis doloribus,vbivires
concidunt;ut 4i cetfantibus doloribus
robur recollieant. Adi la Eori$ vero
Medici erit auc auram momo 1 ^ /15 tu
poret Coma En CERT T) cn diia MN NEQUE
T m Exterois f igid; $
di nom utendum. AÀ (angus
eb ios ns fiuxf frigidi.
0b1124 praterqua i2
thorace. Solis rgpel leztibus
in printr- pio quado A a, 7
0n fii£fie€ Je £144]73 9
Narcoti- ca nntm- quam sp-
plicanda fiétuvis ca ptis -
IN arcot: cea mnum- quam in-
1Ya Are. Narcott- ea num-
quam in pueris Natura
quo ver- git, 0 du- cere
opor- i5 quo- apado :inzellicedzt. &»
;4 . captántis ; ca in levibus doloribus in ufum du- cere.
44 Numquam commiffurz cot 'onali, utin
cxteris fit; ap plicentur in vehementibus capitis affectibus.fed temporibus; et fronu. Numquam in aurium doloribus intra auris meatum;furditatem enim fepe concitant
; quidquid R hafis contrà fentiat. 46. In pueris narcoticorum ufus omnis
füfpe étus:fi enim intüs fümantur, cüm
aneuftis venis Bi 4 adhuc conftent;
quafi ftrangulantur; extrinfecüs: lits
.autemad fomnum conciliandum fi admovean--lj een reliquam vitam me morie multam
Jactu--bo: im faciunt. 747. In quácumque evacuatione moliendà à Medicojfive non Operante naturafiv e
imperfe--p« &e agente, qu :amvis et quó
maximé natura tüil s» partis,tum humoris
verei it, có ducere oporteat, per loca
c »nvenientia, id eft poffunt;& à
naturà etiamyf tentione fünt inftituta,
q aut inflammatione;aut alio morbo. Vnde Gal.
1. 4d Glauc. cap. 11. dicit
teftina laborent vel vulnere,vel infiamma non effe evacuandum per illa Joca. Tum
etiam; fi vicinus locus ille perfe conveniens
parti ali- cui laboranti fuerit ; per
: fi ventriculus, velin-p tione;
»per quz evacuartiflor tem
fecundarià inc-e oni eft ventriculus
;,d0/ vefica, inteftina : Cautio tamen
adhibenda eft dii quia fepe evenit; qua
per fe fnnt convententia 5, ex accidenti
talia non effe; ut fi hecloca laborét:
eciJe. accidens non erit con--P
veniens;ut quamvis thorax, et pulmones ad ex-4i cipie cnP € c ww
3 EE " WA. M reu im. iC s Pv lll Kipiendam materiamà cerebro transfufam
apti! Ifimi fint, aborante cerebro non
eft per eam viam "JEvacuandum;quia
tracheg arteria, quz pulmo- '^ Ini
juncta ef; cerebro maxímo eft proxima; et fic
Ipericulum effet, ne ad pulmones irruéret, ut te- "^ Mtatur Gal. 2.27 6. Epid. 52. .
Quamvis, que ab Hippocrate Medicin? cj»;
jparente r.24phor. 22.propofita eftfentétia:Coz- -edicari "I:rotfa medicarz oportet, C" cruda
non savere, nifi. opatercs, Ipsateria
rurgeat.qua alioqui raro turget;hujufmo- c eruda iii fit, ut maxima curandorum morborum fatio
79» move "i lieà nitatur,ut
felicitatem, quà in curandis eeris Vogt?
'"Jper quadraginta feré annos fruot;in obfervatio- siu A inem hujüfce canonis maximé referre foleam.;
dnd. [quoniam tamen unicam hanc
exceptionem ad- (æe "I Mgecit, mft
materia turgeat. tunc enim cruda funt eorlatieii- i ipurganda;cum alioqui et in plevritide
HIpp.2. troverft "acu. 11. 6c in
anginasa. acut. 30. et cüm lotiutmo conciliati
"Wicraflum eft, et nebulofüm, 4. zcwr. 43. quod im- perfectæ
coCtionis fignum conftituit Galen. t.de
» [iC rif. 17.& in quintá die, fi venter murmuraveJitit; Hipp. 4-
4€Hf. 64. et in quartà in plevritide,
(quz eft principium, 4. 2c.
76. medicamento yiflufus fit pureante:
ut et Gal. 1. Ze differenti: feb.
"i ja-in febribus peftilentibus ; ($* 1. de compof. td. lier loca cap. 2. S.curans alopeciam; c 2.
eju[- wilden, cap. de curatione doloris
capitzs, (9 4. Metb. omlemed. c. 4.1n
ulcere;fuperveniente eryfipelate; c qh1.
Meth. 9. quod ita puttidum eft, ut Corriei
«Ainequeat;ab initio evacuandum;(£ c. 22. in óph- Wkhalmiàa; et linguz inflammatione, ftatimi
nitio 41 c firm t4
ÀA1ULA lo 6 LFKD. SEPT ALII MEDIOL. fluxüs medicamentis purgantibus ab 1niti0
s. quod eft; ac dicere; crudà
exiftente materia, ufn funt;in quibus
certum eft,non turgere materia 3;
E bo ;
] 33 et forté
eà ratione, quód praftet aliquid. cum.
periculo experiri ; quàm a grum defütutum re-4 mediis fineremori. Vndetamquam in falo
ha-4., rent Medici,cüm confirmari fententiam
111a mo «4... 232. 1. Sel. videant, 1.
Zdpbor. 24. 4- zpbor.Con; 1o. 4.
ACutt. 22. 2. Prorrbet. $8. 3. de diebus decret o. Iib. Quos, C quando purgare oportet stum
fine, pen), longum proceffumm. quomodo
in hoc negouo om: nium, quazad faciendam
medianam faciunt maximi momenti, fe
gerere debeant ; dubii hæ: rent ;.&
quid pro conciliandis contrariis iis fen
tentiis dicendum fit,dubitant. Ánigitur cum. antiquis Patribus evacuatione diftinctà1n
era epe dicativam, quam in crudà materia
numquamy convenire;&
minorativam,quam convenire afí&
ferunt, fatisfaciendum erit? minime; quód unn ecríalis fit reaula cum unà f0là
exceptione; e 4 ACHE. 22. dicit
univerfaliter,non convenire, qui cruda
non cedunt ; at minüs cedent minoratiyl
debilioribus. Nec raró in acutis in principl uteremur medicamentis purgantibus.Et
ratio Gal.in Com. 22. tradita ; quód.
non fit in crudi tate feparatum bonum à
malo, in minorantibu locum hàbet.. An
potiüs canonem intelligemt lo
ewvacnatione 13145 fat C112 41 ert'à ET x "ep «c 28 de evacuatione,qua fit curandi eratià? et præf vationis eratià cruda ab 1nitlo evacuare
poter mus? AtHipp. 4. acut. 22. reprehendenti
Meq dicos cruda ab initio. evacuare
tentantes ob u fiamba f !
Euh 77 lamma itione;refponderemus;excufàti p Te
eos, Iiceremufq l1e;1d ili )s ME IP d pra cautionis erati preftitiffe non € à. At nec placétiiqui cüm ivacuationem aliam conftituant
evacuativam 3 1^ tationis,
Iblum;aliam revulfivam:1 PEE IV ànumquam
Iruda in 1! » rincipio etit evacuanda ;in evacuati- à fimplic ialiqi ando pofk dif erunt
;cumin Mevritide;in anegirà, et aliis
inflammaticnibu [$5 Llamus eo tempore revvlfionis eratiàfieri
eas 4 IVacuat iones. Pratereà,incommoda, quz
fe- qu fcribit Galenusad crudorum
evacuationem, "I^ Ts iRAdlfi æm In
evacuation ;VvCta fünt; lotiffimuüm
cumabfolute, et fimpliciter reeula
'to, nifi t urgeat, BI LL ciim
dus A bobo £02 3 bDiubppocrare ponatur.
Minus r« ecipi endi,qui ki À A Vacuatione cruaa materla ]
Ippecratemire]cere centent ». 2Z2pbor. 23. alibi IT M camdem concedere,frà parte folum áliquà ia TT . " 213^ * f5 /5(« I T o: f C PN ' d'a Mat: Quoniam rationes Galeni non folüm 1n to-,
; TET UT j^w* I PP LEN. X. X mer Ik IT
conv eniunt,;fed et in partiali1. LUA.2CHT. 2.2, . leat m5
u'atione ioquit L5 KCuUa c AITCG fit,
i t11, ? f 4 Lf 1 Cieccw n * 1 CIICCLLI CIutcoo1 Cal 5 I. non ad totum evacvuandüum; fed ad n27teva
ef non ad ictl1 L- uandtiun;iéeaa«d
partem ei- 1LP DS ] iuin eit.( jDCCctandaarm cvoraumm. vec dicenc Y;
DCctlonem ordinata C Lal üuratione ; coacta veT OW WM a 7
€ )primatur zeer,cruda poffe
evacuari,ut E. - "* PTWORTAWN P7
2888 C5 on nid I1quibus vifum eft . Nam coactam effe tureen Scruda matel Lr paries pd ivo ; d
s] A" là 4Hh^ lam in 22.
Zdpbor. excepit, ni mini on d A Pm c E
Jeperaddic. Minus etiam dic potefi
n liis numquam licere cruda
evacuare, ififerte tureeat materia ; 1n morbis autem fine febre ss f cruda poffe evacuari;quod aliis vifum eft .
Con--fni vincit enim eos Hippocratis
auctoritas, 2. zcst« pi 11.qui in
plevritide morbo cum febre, five cur-- putt
centiàà principio purgat. Vt igitur jam tandemnafam. in difficillimà hac controverfià;quid
aciendunmfan fit,eruamus,non pigebit
longiori uti oratione nsn &k preter
inftitutum cautionum píacticarumnpui t
tradendarum;cüm res hzc bafis feré fit curatio-4oni num omnium, in quà tamen omnes feré
aberrà-4ul runt. In primis igitur memoria repetendum efti cruda, et co&a in duplici effe differenti
; aliat enim cruda dicuntur; qua
coctione mutatà in. 4liti fubftantiam
verti poffunt;alia veró non ves ré
cruda, aut veré coqui dicimus, fed per fimilupi
idinem;nam licet nutrire cocta nequeant ; tod melicrem tamen conditionem ducuntur . De.
Bd duplici hac co&ione, et cruditate
etiam prime locutus eft Ariftoteles 4.
/eteor. ubi non folürig cibum, chylum,
et fanguinem, cruda,& cocta;
aprellavit fed et lotium, et excrementa ; vt T Hipp. 2. 4cut. 44. ubi bilem crudam appellat
hio et Gal. lib. Quos ' quando rc. C lib.de conjMy art. med. 16. Diftinguuntur autem hzc,
quefhi, qua concoquuntur propric ut
nutrianteamde-fi, qualitatem, et fübftantiam
nutritze partis fufcdfug., piunt;quaz
veró improprie, et per fimilitudinenps.
cruda. cencoqui dicuntur, non. fufcipiunt ais qualitatem, aut fubftantiam, fed fufci piunt
tail cüm quádam fimilitudinem caloris
concoqueqe, tis:znam chvlus albus fit in
bepate ruber, et faclo. culs feuis ruber albas partes nutriens fit albus.
Tn. iM brudo veró cocto, cüm putridum
effet, non fit 4muratio fecundum
fibftandiam, fed in qualità- "Jte;
ut faneuis putridus cru dus dicitur, pér co-
j ctio nem albefcit in prs. Hinc Galenus varié
illvariis modis coclionem d efinivit. 2. enim de 5 aparurel. facul. cep. 4. Concotlio; inquit ;
eff alre- patio, C mutatio epus; quod
putvit 2 [rli dier egus quod zutriir :
Quom ctiam recepit Hs. de fTrzpt. caufis
y Cap. 3. Aiverfam tamen ab Ihac p fiiit
aliam 2.77 1. £ pid. cap. 46. cüm di-
jJlcit ; C ocf10 eff viltoria inbsds leden: 25$. Et 2225 uuedrte zzed. 89. inquit,Cozcoé lio eft -qua
finit purre- edulzzesz, manente [. «bf
antia.Ter primam enim il- dam ver a
coctio definitur ; du: n Us 11 isalia ; qua
uper fim:t; tudiné dicicur,quec; putridi htimoris ir S. de coz zpo[.
sed. 72 uridup 1 loc.ca 4p.7 dicit: li C
oz coc? 70 eft, Al! era 40 fec: AH0Gb57277. kr 741 Fattoncem » iud /rriztudrmezz.ut vtramcue cc
n.prchenderer, Jiquód in utráq; fiat
mutatio ad fimilitudinem; afed 1n p rimà
fecundum fimilitudirem aualita- itis. et
fubftantiz; in fecundà veró tantüm fecun:
pidum qualitates. Secundó füppcnendim eft; aAMiquód inflammationes ex Gal.2. Ætb.zed. c.
3. diiduobus modis fiunt: vclà
tranfiviffo fà neuine» (ikb aliis
partibus ad partem 1nflammandam: vel dnb
attracto (a ing: ine: à part eipflammatà. $1 in: ilflammationes primo modo fiant, ut faneuis
ab anliis parti busa vo - artcm In if:
immandam tranf- qlimattatur,dupliciter
etiam fieri poffUnt;vel quia qpartes
afficianturà multo fanguine : ve] quias
T)!)]!10 n. r
eIAAZUCAÀA" puncantur ab acr
rifanguine. Cüm enim multus KG partes
infurgunt ad illum expellendum, atjue ita expellunt ad partem inflammandam
; n iuten a fangu 1$; SOM taræn dici
nó déteste aptus eft, di iguotiiteto x
xced citt neque improprià cruditate, we
P utre dini eft.qu ia fiin toto
abundaret, Íync hum ger nerarét; cüm tamen nulla præcedat f zepe febris.
51 vcróin parte mittente 'compnutru ifi
;jat min eà parte inflammationem produxi
iffet; fanguis igi- cur ille transfüfiis
crudus non exat . Idem dicen- dum eft de
fanguine ex pulfoà parte 9m punctio
nem;ex acrimonià bilis fanguini adimixtze;cru da enim nullo modo dici p oteft bi lis 11la:
neque» enim cruditate alimétali cruda
dici poteft quia et ; f21
bili « nó nutrit:neq; putredinaliquia antequàmi k
fluat,facerct fcbrem ardentem, vel eryfipelata 5;] non igitur crudus fanguis ille dici poteft.
Vbi vero fangi iis ifte'influxerit in
partem inflam- mandam, cüm extra venas
eft tcranfiniffus; incipit caleficri, et putrefcere, tüncquecri udus ffi citur cruditate putredinali fenfim veró à
calore: natu rali cum €o,qui prater
naturam eft, pugnate incipit Conco qui,& ex rubro fit albus; u nde
dl... oritur pus. Hancautem d li(tinéctionem elicimus cx fonte Medicinz Gal.1. Proezoff. Cor. ult.
ub reddensr ationem,quomoc do fiantin
flammatio nes,dicit,fansuinem,vel
humorem non nutr 1e1 tem fanguim
mixtum, priufquàm influ xerit 1
cridumappellar non pofle :nam tum p rimün tántum incipit alterat1, et à fia natvrà in
al leni peumut AT1,c üminfluxer It; nam fa nouis
excidés propriis vafis, in priftinam
naturam revertere non poteft. fed
putrefcit;& mox in pus vertitur, et proprer
obftructionem ili calor prarernatu- ram
accedit; et immutat;càdem de cansa a. de
pat " part.c. Fexvfipelata !
LS preter nituram ex 1 turam fieri dicebar,quód ad retentionem
obftrn |éto fequatur;híncque cal
rfequatur przter na- turam, qui ulibsieni orfutmp It ; ex quibus hi- jyuftmodi affectiones producuntür ; ut I
calidà ^ )| propte er dictas caufas,
M" vtr lereddità 1 cryfi- pelata
generantur; et qui priis male ol nsnon
jberat; factida tandem redditur : de ACHT. 44. Quà p (npp fitione etn CItur,t itin quib
icumque infià- i: 1 A i
mationibus à biliofo ve hiceatàbinitio pur ] 1 é » ^ 1* ^ yedi2 sgare,quia humor non eft crudüs ; et proptereà non comprehenditur fib Ar Sh rifmo 1llo 25.
t. DIOIIl " Section: b 077C( oCcta
"eaicarz ó)CYUda verà nan i 9/70
vere oporter, quia bilis in prin cipit ipflan nmatio«nis non eft Mone Ab
initio ver« ) pure $. -cj E.
Telle in ervfinelare «| hovenos " nto 1 winteiii9go 1n Ccrynrpceiate, nerpete', et ca
teris InI flammationibus,& fimilibus;ubi minimum eft, f E - xit; plurimum veró;auod
influxutum apett; ut influxuri humoris
pars mat r repcllendo Biitic titt fi
multura inttuxiffet; p lus peri-, pue ex "à bhai armaco pbtean eretur;ob influ- nateriam, quàm commodi propter fluxt- td r
Lili dgrams;utdocuirl [tp] ).
4. AUCH. 2:2 i 1.€111 convenit materiam defluxam detrahere ; quód pro materià noxià bona evacuetur,;vires
debili- tentur,& in morbumadducatur.
Quibus pofi- tis,facillimum erit
intelligere, cur in plevriride abinitio
purget, 2. 2C. 11. et cur in angina 4.
ac4t. 30. quia bilisin principio fluxionis non eft cruda. Át44.4- 4cut.in lotio craffo, et nebulo- fo puzgat,quia jam«rat cocta materia. 1, vero
de Crif. 17.càm craffum louum cruditaus
fignum dicir;intelligit de craffo,&
turbido . Qnód ve- IO 4. 4CHf. 64.
quintà die purgarit, crudo mor-
bo.optimé fecit, quod ex hiftorià conftat, fuiffe turgentem. Galeni etiam loci illi reeulz
non. refragantur: nam quod de
peftilenuali dicit 1. de differentiis
feb.4-nihil eft; preterquàm enim; quód
in peftemajori ex parte materia turget
undequaque mota,;nullum przfigens fibi locum determinatum;dico etiam,vere crudam non
cf- fe,ut aliàs docebimus: cruditas enim
coctionem (üpponit ; atin pefte majoriex
parte eó corru- ptionis materia devenit,
ut corrigi, concoqu ive 1 ^ nequeat;de quà putredine locutus eft 2.
Z4pbor..].i 17. lib. adver[us Iulia.
cap.6.Galenus,quamesy. nonnifi
evacuauone tolli pofle docuit. Aucto-]..
à . X " IR - » ritatesali:
feré omnes funraut de biliofo fan-
euine, in principlo inflammaticnum, aut ervíipelatis affluente,quem ab
initio purgari poffe», jam docuimus,
quód adhuc crudus non fit aut à * ^A A
l4 ' de materià alià, que nullo modo
cruda dici po- reft,quód non
computruerit . in w/o 49. Cave ctiam, ne inter lenientia,
potiffimtj rs inbiliofis naturis, et febribus, tum veró
maxi- mein acutis veris mc js IS,fV FI
im rcf. folitivi- zer Je2i6n recenfcas,
qnodà rlcrifque Medicis factum viz:ria n3 ca-
dec; cum enun obfervasx
IutivMus $vcrim fe penumeró, aut. z,"era- fimplicem, aut ex fer idis ]: he mi
tumtantam. 45/4 :m - » y fo 1 z bumcrüm copiam evacu: 'abtam vix inte-
"t" f ves i ! ( 5 1 j." ftina;m CIaralCz vene «X ventrici luscap ere
£i-. 4o! [f L N ow 2419212 d
mul pofic nt.femper fum arbitratus ; ab nniver- CHO
fo corpore ; et venis majoribus humores attra- . 4 hcre.
59894 evi et $0. INc 'n negaverm
tamen,in aliis febribus, $4 AN * [T1 ul
»inteítinls, é p rimis VC- ?A€ 287 niscrud. fun hi mcrum cop1a fubfit, quód al-
quando ia t1.:5 vires fuas exícrere
nequeat.ta mquàm abfter PA liS.. í«11..m
za f Léntum,anel rcf.foclutivum in. Lai
lí CULICIH 1 (fc. da . NS .*
$1. In fcri lacüs ufu: i uz eP rM plis
modo feparetur aquofa hzc lactis fubftantia à bunt es reliquis. Modus enim, quo paff: m no firi
utun-^ Jndkan QM Oo ET,Ut CC cl I3 f Da
l'éntur,.ut facili icr eft, ita mi. Bo. weit
nus falibrr :; rzftat enimfeparare ut Diofc.do-. "7 * CCt; Ib.
2. Cp. 276. quod fit ducbns modis : Pri-
mo, fi dec qu: tur lac donec effervefcat, dimo vcatürq; ramis ficuli iium
S,& Ubi bis,aut ter defer e
bcerit;confpereati r oxymelite, pro fingulà he mina,quz eftoctovuncarum;cyathum illius im- «
aH^u/ esL mifcend: id eft, fefquiuir
ciam . Secundo modo, r4 a1t; ferum feparari,
fi ei cffervefcentiimm erga- tur vas
argenteum aqua frigidà »lenum. Idem.
docet Gal.4.zcut. 7.& Orlbaf.1. E ypor:[toz, cap. 9. Sed multó diligéuus Accius 4b. 1.
Quat.Serg. - e RÀ
^ m S4. 2: €. 96. qui tef it efférvefcat, et ter
defervefcat vafculo aquz frieidz pleno
voluit;mox oxyme lite, vel mulsà
afpereendum,& percolandum effe,quod
etiam docuit Paulus lib. I.CAp. 99. 52.
In ejufdem feri affumendi quantitate»
B seriladis cautio maxima
efto,aut enim fv mitur ad univer
Wni^;; ritas Perbiriasquo fum
corpus exp ru E et tunc maxima il- me
lius quantitas hauriend: xeft,fic fecit Hipp. 48y.770de con EL act. 29. dbi cotylas isad minus duodecim
propinandas voluit, que tunt centum 2: cé&o uncim ; "* quód fi valide fif on 'es,etiam ad
fexdecim pet - venire pofle;id eft,
cétum quadraginta quatuot
iasyfcribit;fic enim interpretabatur Gal. lib. iovorvas ex. dlc [adubri Díata, » Ap 28.
ubi Copeium. poticnis e Tiles am)
fimilis propináffi t fcribit ; id eft, centum et octo a pec uncias M ÆEEA 1 ad ventr pue «m,&
inteftinao 44 velim abftereenda ;
evacuanda bibatvr fe erum, ea» £Mroevex
Viii is fue quz tradita eft A Diotc.z5. I.
ct eh CA]. 276. nempe qu inque heming. Heminam Pvgon enim prius hauriendam fcribit, iens
deam- bulandum,rvrsus aliam bibendam ;
iterum de- N eLambulandum;ufque ad
quinque. -Hánt (equi- Mace ace gnaviow
tur Oribaf. r. Evpori[foz ; cap. 9. addens, hanc ef o jen quantitatem T pos deratam. tam Ætius
1r. Quat. Ser. 2. cap. 96. Paulus lib. 1. Cap. 43* tradit (xa quantitatem dide em tenden remad Ihuc
parcio- 4C Tem, tresaut quatuor henunas
trà .dens; ps Ic ex- -- plicans cap.
89.etate vieentibus,triginta fex un-
cias;junioribus folum decem et c&to, id cf,Ca- v/evam pyo
tylas quat ER: t duasconcedens. Aliquando nafta ww :atite m fero lactis utimur, tamquam
materia i in£e ^ fufio ini5 $;
fufionis, aut maceraàtionis, tunc multó minot jl. lius « pla f fufhiciet: et fic Mefüe lib. 2 :
Cap. 9.à fex unciis ad duodecim
concedit. Neque objiciat else fn à
quifpiam Gal. a. act. 7. aflerentrem,ferum inte- 777 ftina a folum fübire, illàque evacvare;qvod
repu- enare 1]! videtur, quo ;d primo
dicebamus, ad unck is Cent!m et octo
dariab Hip P. 4- 4€ut. 29. "T ad
univerfum corpus expureandum. Cum ew -
menipfe tantam quantitatem non pr obaret ; 1, conftat ex locis propofitis,cüm folüm
inteftinao evacuare fcribit, de moderatà
alià intelligenLedicus, n declinatione febrium Purgap- puturidarnm femper medicamento purgante» 45
55 natcria2,qua me se m facie bat,Cvacuationcin
femper 17. acere ; quamvis enim fzpe
hocneceffarium fit, febris nequerelin
quuntur irs Mi ir 2. "Apbor. declinatio
12.Ía pc tamen in * udiciis naturz nihil relinqui-: 7e: tur: iun À dotar indo, eciamfi nulla crifis
fa- : 5 iir: (A12. . cta fit,aut recta victüs ratione; et debità
abftinen /| tà aut infenfibili per
habitum corporis factà evacuatione, aut
paulatim er c]yfteres cadem. martcrià
evacuata, ^ evacuare1n fine medicamen per (]
to tentaremus, colliquatis humoribus bonis; et / carnibus, et fpiritibus cxagitatis, ac
excálefa- CLis; nribuqu c deftruciüs ;
agrum præcipitem. aceremusin
mortem. fai JA 2. ndoigit r cognofcem
lus, pureandü pz, (fe corpus in ü e 1
fcb ris? Docuitid Pip poc. 2. quado i ad
pbor.8.ci cit u8z quis a morbo cibum « Jj" Wes declinatio non corrobor, ng ^ ium g [locorpus pleaoriuti
ili: ge feria : "L2 / 24 EP
putridge mento. Quod fi nec capienti id cóptingat,vacuá- sm.
tionetumopuseffe procerto habendvm. Vbi
^ sdàome Gal.dicitintelliecre;fi i:bum multum afiumat, é&cumappetenta;que fiadfit;non poteft
abun- dare pravis humoribus
relictis:sicque non indigebit evacuatione;fi mültum cibum,& cumap- ;
petentià affumpfcrit; et corrobcretur: fi veró nó n ge- multum cibutn fumens
non córroboretur, indi- raarua i eec
evacuatione. Animádvérténdum tamen. !
2tela . corporis hanc confirmationem non ftátim coenofci, fed trium, aut
quatuof dicrem fpatio poft quos dies,
nifi fequatur et apperentia, et Co£toboratio,evacuationé per
medicamentum. . purgari utendum
eft. Purgate $$. Animadvertendum
tamen,pureaticnem diinibfa iam et ftatum
morbi intermedio illo tempore»
delin* (ypponere,& apparcre
fiena cocticnis perfecte t9 ^ Yn
ufina:fit enim quandoq; ur ceffante febre pér
2 diemwunum,autalterum, febris ante quartz m» . fedeat; nion quód non défierit ex ratione
conco- &à materià, quod quandoque
fit étiam per ccto fe cde, . 165 ;
neqve tamencrmunatus m. rbus dici po-
4. eb . teft; quia adhuc cruda eft materia : et 1n eo caftü FI ficn eft in éofpatio pureandum, qnia nec
cocta eft materia;néc feparata mala ab
uüili;tenc enim et totmmina,& vertieinés produceret
evacuatios colliquatis carnibus, et fpiriiibus
evacuatis. 2. "Apbor. 3 $.«&
36. Vnde n intermiffione hac fal- (flo
fn. - sà putantes aliqui Medicieffe verám declinatio T bem, poftcoctionem materi factam
evacuan- tes, corum interimunt. $6. In
In iis, qui durà admodum fint alvo, aut
crafsifque multüm füccispotiffimüm in
Ventricu ulo, et inteftinis ies ne medicamentum veré purgans concedatur, quin priüs clyfma
ve- Ípere injectum fit;ut facil liüs
fübducat ; et dclo- res non
pariaG;,exitumque per inferna ncn inve:
nientes humores, et medicamentum, ad ventris cclum regrrgitent ; quod docuit Ruffus
apud Oribaf. 6.Colle£t. 26. Criucis diebus;qvarto, feptimo, vndeci- mo, decimoquarto, vieefimo, fi nihil anté
judi- catum fuerit ; re di bitet
Medicvsavt purgare, f6. viícid lis
avtíonevinem mittere:critici enim tunc ii dicen dl ncn fi nt
Tj LM : ind1Caterio die menftratum fit,
naturam cl |facturamsnectair en faciat.levi- bus remedii, QqUæctian In mant noí ftrà eft f
:b- trahere, manusadqutrices porrigere
eàdem die euam poterimus. $9. Cavetamen, nein deficiénte natvrl
in, materie motu per alvum id facias, ne
major qvam fitfiatevac uatio;fi
auxilium medicamen- ti tencadjoneas, cüm
femel hauftum pharma- cum revocari
nequeat;nec illud amovere liceat: natur& enim 1$ eft mos, ut aliquando
cunctetur aggredi evacuationem,&
aliquando cunétanter moveat,mox ren
validéalvum excludat. Quare poftridie potiüs erit pbarmaco utendu m,quo manv sqnaf adjutrices fatifcenti naturz
porri- garus ut quod reftibile eft à crifi
imperfectà exclu iens k . Quid 3-; [
T 4;
y Clyeseps indédum
fp? in al- "Uo daro» ante pnr-
gationem. de Crincás
d b. qua do purgan nU . Crifi defe
Ciente S 240m edo proceden-
dum. Cif die Critica di-
ficiéteyea- dé die zii- [il fnovesn
dum . $8 LED. SEPT ALII
MEDIOL. 8ymptema |. 60 Quid fi natura
ate codionem fy mpto- sic zatu- MOS LIGE
evacuauonem molitur? Die ud k intut ya obtran.
hic Medici docáffimi. Ego fic fenuc:fi fiat pet
quid loca naturz diffentientia; omnino co hib endams Medo cum Gal. 1. "Aphor. 21. At fi per
co nfentanea. fe- Pref adé* eatur,
cohiberi non debere:nam.fallit interauni
e *« : quz mala videri poterat» bene : iiquando ce- ge dit.4. zdpbor.47. utin Metone cótigit, r.
Epraczz- Sect. 3 X unde fi cohiberetur,
pravi humores co- pi, vcl qualitate
ftimulantes, qui evacuantUr » ad partem
aliquam. princip em calamitcsé rapi
poffent. Et licet et cruditatis,& multitudinis ; et pravitatis hec e vacuatio fit argumentum.,
et fienum malum;rauocne tamen cavufe
bonum eft, vel minus malum: nam minüs
malim cft,humo res educi.quàm p
principem partem ferri, S1in otio
quicfcerenti 1i fu cci, przfta ret eos ncn ex-
cerni,fed cum pra viadeó fint, ut partes irritents praftat eos exclud i. Symptoma &1. Cautio tamen adhibenda, quód
licet ta- lici natu- Æm evacuationem non
convenia t cohi ibere, mi- va operan-
nimé tamenà Medico eft valde juvanda, cin,
16, cant? fiatà naturà non omnino bene agente, etiamfi agetdum. fucrit diminuta. Imó ubi diutius
perfeverave- rirtalis evacvatio, et vires
profternat, omnino erit cohibendas. giu
AM. wf Ll p C 4
Animadverfionum, et Cautionum Me-
dicarum, S, Continens eas, Ova in [angunis miffione obventunt : faneuinis evacuatione per fe. can
quinis tam venam, licet illi d fit
obfer- miffioni andum, ut ventriculo, et
venis ao» séber mefcnteri] crrdis
humoribus, premitten excrementis IC|
letis ; DOhnL 4a alvi le pni I hr t;
quàm ea abftereentealiquo,aut le- 7t? niente fLbducantur: cavendum tamei
ne.fimor Ibusita ureeat, ut mortis
periculum immineat, Mid faciamus : ehe
enim miffione fanguinis 1]li
Joccurrendum eft;ut in anginà,& vehementi ali- quà inflammatione, et febre : meliüs enim
eft, 5 mmunenrem mortem pravertere cum
aliquo i damno, quàm czerotantem à
morbo op pprimi fi- nere; pouftimum cum
Jevioribus iis noxis non, ditfioo
difficili negotio occurrere poffinus,
Sovguime 2. In faneuine
detrahendo cavendum maxi- ilo mi- mé,ne
quanto putrior em,& deterioris condi-
er ditas tionis fanguinem é vena p rofluere viderimus, "uanti'4s tanto majorem quanttatein
effluere finamus ; e»4c422- quod plurimos
facere obíetvanuis : tali enim. jo$ exiftente fà inguine,
et pauci tores 1 fubetfe fpiritus VM i£,
et vires facilltme folent collabafcere.
Coloris $n .. Coloris in fanguine, qui evacuatur, mutaf ^. gnune dios
qua in evacuatione revult fivà; potiffimum in
muttio ? internis Inflammationibus fp ectatur,,non fit ter- [1^
minus,& menfura quantitatis. detrahendz;nam
[22027755 in febribus fepe primus fanguis;qui detrahitur, ruber eft,mox niger;atit [acidus;cujus
mutauo- nem fi quis exfpectare voluerit,
pracipitemr- Cols, &grumagetin
mortem. TY Puworb Quin nec in 1inflammationibus internis fanmuine iuidén perpetuo ilfa col oris
mutatio exfpectan ia inflam da eft vaut
enim vix à parte, et circumfufis ob
pittionib. craffitiem quandoque extrahitur ; aut fané tan- on etiam tà. illius eft copia, ut, fi cole
ris mütationemo exfpectan exfpectare
voluerimus, vires o mnino fimus de- da.
jecturi. Colois i^^ «, Mfutatio
hieccoloris ab Hipp. 2. aca. to. ioi
tradita intellieatur; fi prinium albidicrilleflu- aii ite xerit, mox purpurafcat ; vel cuim
primüm pur- lirenda, PUfeus exierit poft
livefcens fundatur ; tunc Colori; ji;
€nim fupprimendus eft, modo dicto.
fanguine 6. Hocautém fervandum
erit; vbi vena pro- aziutatioi xima eft
affecto loco ; alioqui fi in alns cafibvs
reviilfrone Aaflamminationum 1dem quisæcre vellet, ni- inia séper
f, AP ex[becian da 4
ac Bed Lyc tios æt RN. ..... gr Ræ eros
J| mia foret evacuatio,antequàm fanguisà phlee- /gizqua, I moneabduceretur. - "am cxfpe 7. Inanginà tamen, et hepatis inflammatio-
474a. ne, copiof fiü: s fanguinem
extrahere potetimus, I» agma quàm 1n
plevri tide, et pulmonià ; Guód 1n 11li
maxime et evacuate, et revellereopus fit; in hi le I vcro preterc A od reliquum eft,vbi
füppuratü "bos Mfuerit,excreti^ne
UTI ERIE E ones olt Jetfi onvs fit anim
dlis pie UT lbeallà exiftenre,
cenftareillanon p teft ; quàm im S. ni
pueris fecto venaz, qua evacvandi offi- alis, c cium folum adimplet,utrariüs In ufi fumes
de- eur. Ibect;ob eas,quas
Galenus,& fequaces c is C
bepatis /j lamta- ATIS Quis CUAien 1m- Ccuart! fàt, usaddu- P»er's et xerunt caufas;non tamen adeo perpetua hzcre-
!*væuauo Mv J : T J " ora eula ette debet; quin alicus rdi ante
decimum- 7^ r4 "t1T11153 313244 E
LI ^ (n ome e ^ At^ an-- quarium annum
hoc remedium prafcribi pof- q dosis D.
2 2um atuar fit ; et debeat: tum quód pu
bertas fepé tern Inü j ; 4 s (2223:
C12 all: m pra veniat;potiffimüm in
mulieribi s;tum P dd : à : : 2472 fca quod multos folidicris habitüs, et VIgOFISantÉ,,
porofi : e dM deci blu. 1 t "m pus c« nfpiciamus ; tum quód
a aliquos tanta fai nguinls COpJà
rcfertos np "T L]
cbfervemus in. acutiffimos morbos
incid Cre, quorum plenitu- bdinem, n1fi
fectà venà ftatim (olvanmius certum
Jimortis impendere peria Tt cimus. Vnde»
lI tPpenumeró natura 1 przveniens (quam omnino Jibene operantem imitari debet M edicus) copio- ("
ia pcr nares Mon Rao pun (ubitó m Wbos-Ruz jufm odif5lvit. Et euai nvis huic fententiz
re- fracari vic ide atur Galenus,cum
tamen Cornelius ICclf fus, Mauritani
féré omnes, Hifpani.& Galli
"Melerique, et ex Italis quàm ; lürimi in hanc., de1*9 o
VvAlilils ei Lvenerint
fententiam;his affentiri potius plævia
atque experi entis pftopemodum in finitis; fpa- no quadraginta annorum,quo in nuign àhac
vr- be,& in magno hoc UG. Va igi 'udinario medi- Fund excrcui, firmare p lum. 9. Quód fi de fanguinis mitlione per
fectam.; Patris P? «cnam loquamur,qua
revulforia. eft,qualis ett ure qua
adminiftr: atur pro internis UE umatoni-
femi om bus curandis ab initio,quales fü nt2 incina,phre- nitis,plevrits, peripnevmo )nlà; hepatis
inflam- matio,omnino in pueris ante
quart Hunac cimum evacuari angnis
pacctam venam j rit,.cüm X ftatim, nifi
xetr i atur f: antes ju verde cümimp dry dee eire in tT: dixe vcríq; nequeat; neq; ex tra ifpiratione per
mol- lem, tranfpirabilémq; habitum
fperari pofbig materiam retrahi pofle
e,etiamfi concedatur, per meabilem illum
habitum evacuatonis vices füpplere pofle
; revulfivum n tamen numquam. confütui ;
otcrit veré reme di uim. ro.
Preftattamen in pueris a d fextum annu
festen- hirudinibus vena: perta fu guinem extrahere; à o
3 à x E 2 " 1 f sdi aan
VAL zum pre cuin enin uíc q; ad
ieptimmnim annum ob excei- &at bira-
fun humiditaus,vena;arteri |DCrvus ferc fimul
dizib4sconglobata png »ericulum fübeft;neloco vena, fanguine aut fi: nul cum € À nervus aut
arteria pertunda- goacaitar e, " 1
"o 2 Rudd s rud PUcPT tuf. Qu Ó d
fi eagam manie Íte 1€ exfera sl 1inCccoe9 CAY AU d. Ee ud : : "i là pertundatur quidet nfed amplum
potius,qua profundum vulnus fiat. i Dm næ vore oer eve Tempore Ir. feb ribu S, fi tc tipo mittendi
langute-4 anittezdi l jOI puce cnni, IFhoides fluant, quamvis doctiffimi aliqui
viri IFenfeant.non priüs quippiam à M
edico effe mo- E ddun: quàm evacuationcs
illz defierint, etiam I fint im erfeéi 4
qi "Y nefciamus quantum. o IWelit natura evacuare, et cüm imperfeáé
ali- Inuando 1n principio: igat, verfus
finem autem. [uüppleat ; unde fi
evacuaremus; periculum im- minerét, neex
exceffu vires deficerent : cenfen- Irium
tamen,melhis effe; cum verfus rid vide-
mus naturam deficere ; manus adjutrices porri- Ibere,ut ex conjunctis natura, « Mcdici.
actioni|bus, facilius evacnemus quantum opus eft ; fic Nf ] AY. 31351 14 363 9913343533, Enim Méetoni aimiftivte fanevinem narium
eva- I. 1t] l tX v"3 H1 Loel-4 4 (
e« Ct 3. CAD. 24. F5 ( ] €C4K ] er11111 EX acu1 2 0, i ( O. 1)77 Sect. 2
vC. : ^
3 3 " 1 n " exeuntem
humorem unà,dicebat.debere Me- r I l £21 ptt n ei CIC3quod etiam « .In Coma, x pitCcabat, Id eft, dum imperfecte natura
ope ] i "v^ d / "t 1 " l'atur:;non autem dicit.pefft. Sc quod
omnetmo Fall l4 ("n.f ! L FOI11C difiiculit: tcn, Asa . js. ! Ci LZ D €
Ubi nac - ! 2 1 A IDIOD ecu e Ct, quod 1n eo ca BE Lo ecorncids4 f: todminic fecta Bit
mus ilu imt! CLLIS 11 uen 1S aneulinl
Ípect Dnoaus cit.Qqtm? I fatis fore v
rideb ütur,totum neectium permit-
llrendum erit natura;fin minüs,tantum Medicus IHetrahe tquantum fatis videbitur, ut ex c
njun ttis ambo bis tanta flat evacu
atio, quanta pro Tbvincendo " it
neceft ria. Vbi duo funt, bx quibus
facili : coll Ieitui rnc life esf ectare.»
incm motüs n2 ture,edamfi nperféctus fit.Pri- Inum.quoniam dict /; rir Fal vide "Dh
quod hon ceflatum motum oftendit, fed
dum in motu eít; DE
( o I! aunnf,
f! men, fnere r
" gtrit;j pt I C€UACitiaat an i a
adeft A£ 001H$ o Grecibt.
f Zdo Í ed ie cce Id E £hr 4A ( át ZT« TT
€t c RUP ÆRE mulium yum
(lac e iu, 1f, 2901/8
d M P^ £ 9)4 LFD. SEPT ALII
-MEDIOL. eft, conjectándum effe ex
impetu, an fv fficiens futura fitilla
evacuatio: Secundum, qucpnic m» fruftra
"x impetu 1d con jectari doceret, fufhice-
rct nien ceffato motu videre, an adhuc et mcr- s magnus effet, f. ngrin
isfubeffecabundan tia; MÁDS n: valétes:
cüm autem imp eium fiuen tis fanguinis
sfpcétandum Jufl trit; id non alià de
causa à faciédum volvit, qu àmut ex impetu con- jectari poffimus;an fi ffeQ ura fit hujuf
modi na turalis evacuatio;ut, fi
fuffectura fit; pi yen pater ono
cemimpetu effluat, totum negotium nàtu-
ra relinquam us;fi veró lenté& guttatim, ante- quàm-c 'cfinat manus ad jutrices porrigete
va- leamus; ü rutrifque con)
junctis»ofhi mus tantum evacvare,
aranrtumopus fit; ai à diligentià ad-
hibità,ea e" cjemus p rericulayqu eadcó vercban IUur;q" ] contfa fent dunt. r2. In finevinis metiendà quantitate ex
babitu corporis eracili, cartio mæna adhibencai eft,atque diligenter confideran dvn
|,ànànatt- à eracilitztem nac ttus
fit,an à confi Danis: l- u. me
rbove.2.de Temper Tibe im avt obo.
vichüs parfimoniam, ap iml curas, au it fimiliass4l quia verifimile eft parum fanguinis ip
venis CCn-» tineri, minor extrah1 d
teb jet euantitas. In 11s ve-4 rÓ Qui
ales ft ntnaturà, quia fieri pcteft, vt et liberaliori victu ufi fuerint; et pf ptercà
fa neut ne abundent, plus detrahi
poterit. 1.42 6 luc eft à do^ i fincHbs
. Idemin craffis animadvertendum:Difan]
Oi ridi culi erunt carnofi à pinguibus ; in car: nofis;
«à G lau 14. cu iix inftituto
video multos Medicos rra: exrare, plus
fanguinis in iis detrahentes, qui la- Msi s:
boriofas artes exercenr, utin fcfloribus,& fimi- i libus,quàm in iis; qui in artibus fedentariis
tcti bes da fun ntque iin illis
plusinfit fanguinis; viribüfc jue ^^
'aleant;n llispi iritus, et fanguinem
exhauriri:róbur ve- in folidiori fu prà
repofitum effe, et ex quoudianoalimento
fuppeditari, cim alioqui VCDa n n multo
faneu Inc rei erta fi lO px Ot1u« CAM
períectan 1 I
aiiquan l CUla C1 Cuerit (x;
M X6.fi terti i nCccei (li 3 int L
ftabit bis facere duo bus diebu:
1 Áni /*
«u€;,inrev 1 NJ IM Al an repetitam fanguinis ternos cgi M f
f lV cna In Oeadem d 11^? T5 th:
A&IkLIOLLhD tasm ittci
P^ madvertendum, pra MEMRUSol P. ue
- de curaa. vat. per [aug. sail]
.cap-21.fi repetitio fiat ulfk OnlsS,
] «ütterendam. fe 1
d Quód f acta fit,interpoínto
d1ein DNEERS. XAB.JXr. of nofis,quia plüs fanguineabu: ndantp lus
fangui7 nis deu ihi pe 'terit;contrà in
pinguibus. Gal ' 13 "i
nt Lt1lO «ile, noir Lh Iib. .dátc £14 YaHnád VaL. i £1 T» iq.
nmt]. Cap. io mplex fuerit, Urgeat
veró ían« termiffionis fieri poterit feprem horarnm.
fpati )( Peine, in terrium differri pc
teft.In quart I6. [^ evac aticnis gratidorer etenda n potiüs
cadcm. ; B » h.n n ER Is DA d 3/2
) : ^ I*t* bins [27, CH» (d
Qf41 1 te$ Lac
^ ani ) làdv ertrentes, etiam in
itridis febribus Curadis » £471
Saliqu indo Icquenzi, ahüs pet
terpofito, faciendam do- "à
o Ulnls, biscadem die inpatio
uentecm à hem etla Im
'CIcr- i 1 du- joris invafionis, Iürtana veró pra- intermiflionis, ^47" 7 MED Po)
rl auralterum efle, 2a. E I7.
Cave Miffwnis fangumss vevulfrua
sepetttio quádo £a- denm die
Pace uud jácienaa . In cruris
dextri in- ; f. amma pone qua
pena fece da pro »&- sulfione
qai y ETNUNA A "HET jan 9€AUTIS t
ks É 2A04 tt[que dei: Cave
tamen;ne in pracipiti morbo revul fionem
ex pofcente id ferves; cüm enim affiuxus
fiat vehemens, utin effufione fanguinis per na- res,aut uterom;,aut hemorrhoides;autin
inflam. matione gutturis, hepatis ;
pilmonum, nifi eà- dem die fiat; fruftra
fequenti die id tentabimus ; quód cum
fanguine anima fit effufa;aut füffoca-
tio có pervenerit;ut nulla amplius fübfit fpes fa lutis.
13. Cümin revul(ione perfectam venam fa-
Gà, et rectitudo obfervetur,& venarum confen- fus,unde laborante inflammatione crvre
dextro nunc fecandam jecorariam dextri
brachii ; nune faphenam internam cruris
finiftr1 pracipiebat Galenus . Hac
diftinctione in harü alterutrà feE ^ ; L
lisendà ego utendum cenfeo ; fi ex interna catt» o6
à, calido fanguine affluente, fiatinflammatio 5 feccanda omnino erit vena jecoraria dextri
bra chii; ficenim verfus originem, et fontem
retra hemus fanguinem.fervatà
rectitudine, et à cor- pore extrahemus.
At fi externa aliqua caufas
puta;vulnus;contufio,aut quid fmule inflamma tionem pepcrerit, przftabitex crure fanguin mittere, ut fanguis, qui ex vicinis ad partem
laLi borantem affivit,faciliüs per
venarum commue- p, nicationem et revellatur,
et evacuettur. Cüm fanguinis miffionem ad anim ufq; deliquium concedat Gal.2 5. 1. Z4pbor. in
arden- riflimis febribus,;maximis
inflammationibus;& Inorbi a
sadimittédum efle hoc zenusau nifefte
vehementiffimis doólotibus, nonnifi in extremiss| xilii,ma-4
em. pi JNTM. ADVERS. . nifefté oftendit. Verüm cümad illud
exfequen- ro ja sa dum tot requirantur etiam conditiones,nem- ducendz, pe ut adfit.atas juvenilis ; temperamentum.
«$4 qtsi- calidum et humidum; regio temperata, cor- às» et pus faniguinis
miffiom affuetum, anni tempus. &^r*
temperatum; quas vix in unoxX eodem corpore reperiri poffe
conftat;cavebit juvenis Medicus ; fanguinis miffionem ad animi ufque deliquium
aceredi, fed eam perias Medicis; et plurimüns inarte verfatis relinquat;quia,
cüm vix tot con- ditiones in uno concurránt;& fiin. uno repérian- tur ; vix cognofci poflint, potiffimum à
juniori ; necdum multüm inarte
exercitato, przftabit il- ]am omittere,
et maturiori judicio relinquere . 20.
Non femperante fectionem venz lenien- $474
Vena om da eft alvus; vel
leniente medicamento, vélcly- 5 «Sn
ftere; fed ubi crudorum humorum colluviem in i aput |! ventriculo, et venis mefenterij adeffe
coznove- rimüs;aut ex praterità victüs
ratione, velex co- lore linguz, vel ex &ravitate partium illarum. jp juxta ea; qua tradita funt à Gal. 4. de
?wzd.fa- aut. c. $.ócanté ab
Hipp.4.zenr. r16.ubi dicit; $i Wfecanda
eff venas C al'vus fluat, prius effe adferin-
E oim. At ft ad [tr il/esihiol serere gal a fol- || vendam ;,nefczlicet inanitz venz crudos
humo- Morzo £y 165, aut etiam corruptos
ab illis locis fugant; ac præcipiti
attrahant. fanguis 2r. Infebribus putridis,in quibus diturindu mici
de tcn, ptzmitti, ubiadfi int crudi illi
humores; aut bep ante p putridi in
primis veni s, clvfteres debét;aut lenié 4!vi e*t daalvum:atin przcipitimorbosà fluxionefan- !/* G culnis beat
facit inAnitto e "mas
J*enis bua €bit in fe- viendis,
qua cau- iones ad- Libenda.
Catutiones £2 mitten do faugut
2e alia,à quibus pe tenda euinis facto,vená prius fecato;nó alvü
emollíase 22. Caterüm; omnibusin
pertundendisina brachio venis hzc adfit
cautio, utbafilica feria-
tur,poftquàmfe;junxerit cephalicz infrà eundo per digiti latitudinem ; cephalica: contrà
fuprà per diciti latitudinem ;'nam
corporum fectio id doce: nam maximis
nervus qui ex cervice in- ter primam
coftam;& claviculam permeans;toto brachio fertur, bafilicz? fübeft eo loco,'quo ferit digiti latitudo furtim eundo ; fi
confocia- tioni bafilicz ;&
cephalice imponatur :? tunc fi
digitkálterà latitudtinead axillas abieris,eo loco fuperd áreditur bafilica eum nervum,
dumnem- pe curfu fim ad cephalicá fl
etit; ibi pericu- ium. Quod/fi infrà
pergas;in altum fe abditnervus. INecetia tutó in ipfa cójunctione vtriufque |.vene
fit (ectioscui plerumg; validiffimi tendines
fabfunt; cephalica auté fuperius, ut dictum eft; erit ferienda; nam ibiab. arterià, qus ei
vicitia eft; longus abeft ; nec quidquá
periculi habet. QE» Plures fi quis in
fanguinis miffione,& ve-^1 nà
fecandà expofcat cantiones, et animadverfio-
nes; Avic.legat 1.4. cap. 20. fed potiffimum .Nicolum Florentini »
Sermone 2.T vati. v. Summa 2.Capi 1.17.0
tn ' 18. et recentiores, qui
defangui-à nis miffione per íectam venam
ex: profetfo fcri- [e píerunr. Dum
enimregulas quafdam ad hane:[^
materiam pertinétes tradunt, cautiones pleras--|*& que attingunt, quas,neactumagamus;in prz.
nm fentià pratermittendas cenfemus,
potiffimum, p cüminanimadverfionibus
circa febres, et raor-- pa bos particulares. quàm. plurimasad-hoe. nego- tum fpectantes infrà fimus propofituksi. 24. Incucurbitularum ufu, frlocus fcarifican
Cucurbi- dus fit, nop adeó multo
igneopuseft; nam prz- r4; pA 77 terquam
quód fepenumeró vefice. in cuuculà fzarifca-
elevantur aqnà plenasqua fcatificationem cutis tiene,sffi- intcgrz impediüt;attractum ét fanguinem adeó
gaztnr ez condenfant, ut mirum non fit,
fi incisà cute fàn- £44ce d guis non
effluat, potiffimü fi diutiis adhxreant. £7*» et 25. Infcarificandà füb-cucurbitulis cute ad
Scarifica- evacuandum fanguinem,.non
eodem modo fem- " quado per
incidenda eft cutis: nam in cute fuübtili et al- profunda, bà,intenul fanguine et bilicfo non profundis
;; quan de incifuris eft utédum, fed
fiper&cie tenus eft fca- 17v; f-
rificandum : vbi veró in craffitm corium incide- ciezda. rimus et nierum;crafstisque fanguis, et feculen- tus erit evacuádus,profundiüs crit
cütis,& fülz jacens caro incidenda,
ne evacuationis fine fru-
ftremur;cümalicqui artifices quá plures videa- mus,qui in quovis corpore vix cuticulá
tráfetit, folümque ichorofum,tenuem, et in
extrem fu- perfice confiftentem
fanevinem. extrahunt, ut Inanus 391115,
et vix ferientis.nomé adipifcantur. Caveant
quàm maximé,ne diutiüs cucur Cuenré;-
bitulam;carnofe potiffimum: et molli part, ad- f4/a moa hære fipant : càm enim. vehemens fiat attra-
diutitis vf ctio, et multa carnofa
fübftantia cucurbitulam., /*4 Pare
ingreffa fit, adeó coarctatur, ut fpiritbibus ncn, ^mi permeantibus pars emcriatur, et eanorzna m,
"^ quin etiam fphacclum fibeat;
unde maxima vi- tx pericula
fequuntur. e z L VLl arm d" je?ri- bus interznittentiZ a DAS f^ d üTHU) provo Y2yHiai$.
Qontinais febribus top 2dior
evAaCttalto La
Lam per lot: et à P,
, Animadverfionum, et Cautionum
Me. dicarum, Eas complectens ; Que in F ebribus curandis ob[evvari debent
. f. T vcrumeltin febribus putridis
fiu- doris,& urinz provocationem
uti- lem effe ; ita in intermittentibus
; maximé autem tertiànis, fudoris $99 ctülioremcenfemus quàm urine. [uu Nam cüm fineulis harum acceffionibus
videa- mus feréad ambitum corporis
portionem ma- terim transfundi à naturà
per fudorem, motum| 4i illius imitari
debemus. Oppofitumin continuis fiat:
quód in inti-0 miioribus venisineis
humor putrefcat, ex qui-- Jui ., N .
- bus perlotium aptiffime ex
pureatur;nifi forfani«f ferofi nimium,
et tenues humores praváleant »» Bs: et zftas
cum madórefit ; tünc enim etiam fudo--E ur
fibus evacuatur . I c Alec
REED F. IOr Intertianà febre verà,& ardente, hecins
Teriasis J| clyfteribus adhibeatur
cautio;ut ficut molles,& €$rden^1!
refrigerantes potentià effe debent ; ita actu vix. tib»s. elj- teporem habeant. feres ioc 4. Vtintertianà refpe&tu fui; aut
materieil- J"*e"tes lam
facienus, numquam aab initio ante coctio- ^as
nem eft medicamento purgante evacuandum.; ita cüm quandoque ad ventriculum bilis acris
jh. icit transfundatur et mordens;
eraviffima invehens ionem pericula,& fzpe mor tem; po otiffimüm fi
eger ad quádoque,vomendum i Ineptus natura fuerit:ut illa preve- sargadz ; niamus,licebit purgatione uti refpectu
fympto-- e quado. matis, ut
fyr.rof.folutivo ex fero vai odit "
vel cui incocti fint thamarindi ; aut et valentio- ribus, ut electuario rofato Meu, aut de
fucco rofarum ; quin inacceffione ipsà
fymptorate» urgente, ant liydkelz osten;
velut vomitum adjuvemus;vel ut decrfi im
ducamus;aut fané ut acerrimam illam
qualitatem à .ttemperemus . $- Vfusrh abarbari ut omnino Inter principia V fus
rba- harum febrium eft interdicendus,
quód e eleétivé ^ar? (Stt purget ; quod
non licet crudà materià ; et quód cun calidum fit, «& ficcum, qualia omnia
evitaridaz, mod E ante concoctionem
docebat Gal. 1. 2d Glauc. ita ad
deturbandos biliofos illos hum ores, et fyn-
copen cx morfu cris ventricult;& vehement n ma alia accidentia;in p rimis tribus, aut
quatu«c acceffionibus ante cocticnem
cmnino fug len- dus : humores enim illos
ferventes ma?is exa- cuit; partem
phlogofi quádam afficit; cbftrucio nes
in venulis mefaraicis poti&sadaucet, fit?cuE (GG ? (C^ et f TN s^ uci ix
losofque denique eeros redditi
Inh 6. In purgatione 18 biliofis febribus molien- febrions dà,caveat Medicuss;ne
deciptatut.fiypoftafim ih pro pire».
urinà albam,;levem, et az: qualem exfpectis: cürn tione [aff epim im biliofis affectibusfola
nubes illas habes eit a".
conditiones ad concoctionem oftendendam füf-
tubem es ficiat»fi exquifi aora illa figna exfpectaverit, re- pea E e facilé occafionem prebebit, quitem^. . Inbilein eftuofiffimis iis
febribus evacos- Ya deeli- "Y licet
rhabarbarum primasapud omnes Mc-
4atops;
CYcosteneat;animadvertendutn tamen omnino küuA»HE CIIt, fl caloradhuc vehemens in
declinatione fibriz rba - v elin
ventriculo, ve] in hepate, vel in univerfo
barbarum, Corpore, et folidis partibus relictus fit, et fitis ez pro j3neens,quodin vehemenriffimis
terrianis ali- bile. pur--
quandosfiepius in continuis, et cavfbnecontin-
ganda fu eit, preftareillonon uti ; undein illius locom. fpium (übfirere poterimus decoctuim
thamatindorü CH, . cum fyr.ref.folütivo,& portione
mannz,& fimi dibus. Rhabarbarum enim
caliditate fnà, et ficcitate;ac ieneis
partibus, ut calorem peracci- deris
minuit, evacuatà calida materià ; 1ta per fe
in hujufmodi corpetum condidone "calorem, exacuit;ficcitacem adauget;ac fitim
inducit:un- deaccenfis denuó fpirinbus,
denuó febies exci- tantur ; aut
folidioribus magis ficcatis, hecticte
introducuntnt£, quod multi non animadverten- tes,non levem 1enominie notam fübeunt,
quod go vel declina ata; vel ceffata
febris nova corüm Lione excitetut'; GV uonedo Nujvandoautem etiam inis cafibus
rhà bulbs. P wi EIS y
Würer iride case MEET c AS
a0; barbaro uti placuerit,
autintertianisipfisadeÓ ;j454724 || non
ardentibus, ant in corporis temperie,aut e stipof-,J| conftitutione fic catidà,
et ficcà, quód praftan- //mus pro J|
tiffimum cholagoeum fit, ac maximé in biliofis purganda ;affectibusab omnibus, et à me commendatum,
^» etis pe ts uA 1 torto ve xA $n «ff
uofis potius dilutum, factà in aquis refrigerantibus, bribus aut fero
infufione,commendo,ut caliditas illius, fei, et ficcitas retundatur. et ignez
partes repriman tur ; aut ex facchoro in fyrupum paratum cum cichoraceis,ut eft
fvru pus de cichoreà cum rha- barb.defcript. Gulielmi. Qvódfi potiones
quit- piam averfetur, in. ufüm in
pulverem quic cm ducetur, fed ad mixtà caffià, ejüsve fuccoad un- ciam, facilé
enim fic ficcitas ejus retundetur,&
lenez partes compefcentur. 9.
Scammonil ufüm ut in biliofis omnibus Scammo- febribus fifpe&tum habere
convenit, et non nifi ? &/vs à
refracàillius caliditate mixtione aliorum me- 4 fe Idicamentorum refrieerantium;, ut in
electuario ion jr .Frofato Mefüz,&
de ficco rofaxum,& admodum po » raro ; ita in ardente febre omhino
fugiendum MM ieriet tcenfeo:hazc enim
febris magls, quà quævis alia,
hrefrigeranua expofcit. Quapropter per caffiam, imannam,.fyr.rof.folutivum ex fero, violas,
tha- imarindos,fubducere hv mores
peccantes conve- Imiet, vel etiam Actio
Z'errab. 2. Ser.1. cap. 78. lid
perfuadente. 10. Poft blanda hac medicamenta ;Optimé. s/74; "T, Ifaadet Avic. dormirealiquantulum ; cm enlm.
furis. lletiam alimentofam habeant
facultatem;etiamfi medica- iportio
aliqua in alimentum vertatur, refrigcra- mentis, pa G 4 bit,
t f -
v/ B AA. Caufone laborante
T Psrgato » J&€ € :
(asi ardentierum la- ePi
opti- 222473 « Sacchart
vofati ti- f5 » post pegato-
zem in Qogadl 915 » ion qrebádus.
Ju fbre 9» gerttana eti mter
e» [onis eie,vtilus à Gal. c^
alüs infi 11445, «- bud noftra
zes pericu- lofuts " xo4 bit; neque tamen evacuatio impedietur ;
natura ;| 1^ per fomnum
refocillatà... 11. À purgato in caufone
humore ; fi.quis la--| 0^ ctis ferum ad
frigidum alteratü per duosstrésve:| i
dies fümpferit;vel lacafinz;illi maxime confül--| iu tum cenferem:humedctat enim, et refrigerat
corr] d pus; fitim extinguit, atque fi
forté hectica ince10 perit;omnino eam
reprimit. NI 12. Vndeetiam non adeó
probanda eft pra] ui &icantium
confuetudo, altero à purgatione diez]
fem per faccharum rof. ex aliquà aqua refrige uiti rante concedentium, ut calor, ficcitásque v1
ex-- tu purgantis medicamenti facta, et ex
febre reli-4 it &a et fitiscompefcatur ; càm experientiffimuss
ux Rhafis, 3. T rat. contin. 27. eos,
qui calorem, &q qu ardorem in
ventriculo patiuntur;illud comede-4 it
renullo modo debere teftetur,& maximé fi eftass, ii fuerit;calefacit enim;inquit, et fitim
inducit;idls jc quod-etiam in multis
experientia docet . Quareq a.
praftabitautfero ; ut dixi, uti, aut aquà horde] iu cum füccoaurantiorum, aut julepo rofato ;
autij gui violato. 13. Lauté etiam nimis, etiam intermiffionis]
un .tempore;cibari mihi videntur
tertianà laborans]. .tesab omnibus feré;& à Galeno ipfo:qui cibarg ni; .di modus fi apud. nos 1n ufum duceretur ; omne:
qi ex tertianà fimplici in duplicem,
aut etam com] iy; tinuam duceremus.
Atque hoc fépé; ac fepiu: un; juniores
Medici;&üm ex fcriptorum inftitutà vid oj
Ctüs ratione victum prafcriberent egrotantibus:| ex perti funt; cium egrotantium periculo,
unde ld uj; mutare WE. 3 A s
P». "e *. E n TO ix A
S (1À5. mutare fententiam coacti
funt . I4. Quinimo, fi vinum pro potu
incipiente» co&tione curh
Galeno,& antiquis cócefferimus,
onines in deteriorem condit0nem ducemus ; ut ^ vixin ipsà declinatione concedere illud
poffi- mus ; five hoc corporum noftrorum
conftitutio- nitribuatur;five vinorum
noftranum conditio- ni; five utrique; hoc
unum fcimus ; fecurius per totum morbi
decurfüumabdicari vinum. 15. In
quotidianis curandis febribus anim-
advertendum eft; quód, licet in febribus aliis in principio uberius fic nutriendum, paulatim
ver- fiis ftatum progredientibus
imminuendo; ;inilhs camen primo feptenario
tenuiüs funt alendi z- ori, ut et crudz
in ventriculo contentz materiz
attenuatz;excalefactz,& exficcatz;aut in bonü fuccum vertantur, aut faltem abfumantur,
aut per fe,aut ope Media, le
'nientibus,& abítereen- bus
fübducantur;in quà re Rhafis, Avic.& re-
liqui omnes Mauritani conveniunt, ut nempe» primis feptem diebus tenuiori viu
utamur; quàm etiam in ftatu5qui omnes à
Tralliano mu- tuari videntur. 16, Siramenà falsà pituità fiat; potiàs
vomi- tu in principio expulfa, aut
dejectorio abíter- gente per inferna
educta, cum nutricatui inepta
fitevacuabitur ; neque dixta adeó ab initio erit attenuanda, ne incalefcat magis,
ficcetürque minüfque eductioni apta
reddatur. Quamvis vomitum in hac febre Galenus
Jaudátfe vifus fit;apparentibus fignis ccétionis, quod
Vino i€r- tianarti apad nes
per totum morbum interdicé-
lw quoti- diamis i5 principia
fnniAus A- lesdum e- tamqua
in ffatu. Pituita falfa ab
danteyvte u$ ab ife 2it0 nom
adeb attee nunndas » fid evæ
cuanda « Iz fcre enuctidis«
2A "vem [^ X e
tus utilis ab tnittio, eo quomo
do« Siwotilia na in
bre, prater qUmiupn ab initio,
valenttor evenit i Satu,e€x
Gal. . Mel.vof.fo dutivii,l-
- «et £n bi- liofo ab i- 3211:0 non
€OQventat, 22 pituito Js optima
eff veme- dium, c eur.
"Aloe 15 quotidia- $5, C a-
liis febri- £ns locis, optimum
remediis. e/ P d
ZI) Í ^ y^vs
/9 €. :06 quod in ftatu evenit ; id tamen decà
per vomi tum evacuatione intelligit, quà
univetfüm cor- puscvacuatur radiculà,
cui veratrum album 1n-. fixum fit:
cümenim majori cx parte primis die- bus
ventriculus pituità fit refertus; fi ad vomen-
dumneptus non fit; aut natora, aut. ftructurà corporis;optimium erit,blando facili
vomito- xio tentare illius
evacuationemsaut fi fit naufea- bundus;à
cibo . 18: Quamvis mel, et fyrupum rof.foluuvum
in biliofis febribus,abinitio,cradà exiftente ma- terià,in ufüm duci non poffe ad fubducenda
ex- crementa communia,jam docuerimus;in
quoti- dianà tamen, ad abftereendos
vifcidos à ventri- culo humores.
przcipué mel preftantiffimum remedium
cenfendum eft: attrahens enim facul
tas.frigiditate,& vifciditate humoris primo oc- currentis evancfcit;& quafi emoritur;
valés au- tem maxime facultas
abftergentibus relinqui- tur. jars 19. Ne quis inamphimerinis füfpectum ha- beataloes ufum,ad.deturbanda communia
ex- crementa, et pituitam in ventriculo,
et primis venis exiftentem fübducendam,
vel ob eam ra- tionem,quód bilem
potiffimüm illam fubduce- re fcribat
Gal. 7. Æt b. med.
a4-& S.de compof. med. [ecundum loca,
cap.2.. C lib.de T ber. ad Pz- Jonem,4.
et Paul. £b. 7. cap. 4.vel fané,quia eam-
dem calidam in primo;& fecundum eradum at- tngentem,& in tertioficcam;idem
Galenus.có- füituerit;quod quàm fit
febribus inimicum,qui- libet; aloe efle facultatem: alter NIMADFERS.
libet, qui febris naturam examinaverit, facile poterit intelligere:
Animadvertat,dup P. 107 licem ih . 41e, dy 4 am à
totà fübftantià jx faci ductam;quá
bilem potiffimüm,tum etiatn pitui ;as.
tam,fi non à toto corpore, faltem à venis etaim " ^, Circa hepar attrahere, et é corpore
pellere con- fievit ; de quà locis
propofitis etiam Galenus z alteram
deterforiam,& attenuantem,quá et exe
crementa, qua funt in ventre, et inteftinis, cue jufcumque fint generis,
per inferna fi bducit ; cümqe
potiffimum inter feces evacuantià»,
ÉxxbebeTiXxo d dicta,principem
feré locum.occu- pet facilé propofitas
omnes difficultates fü peras re
poterit. Cum enim tamquam bilis pureatós
rium medicamentü affimitur aloé ad drachmas i'edüam duas, et non nifi raró, utalia
medicamefta longé à cibo fummo mané,quin
4n febribus biliofis concedi poteft : fi etiam raró
veró aloén Hu letjectori
medicam 1 üÜte Humamus, ut dejectorium
medicamentum, üt "" ^ . - ique deterfione quádam ac attenuatione, quid quid per viam invenit, fibducit, et frequentiüs llafiumi, cum cibo permifccri, 1n mini ri quantiateaffumi, et febribus loneis;
tertianis hothis, »& quotidiánis,
quàm maxime auxilio effe pote- Iit;
pouffimüm fi lota fuerit; nam quamvis jy. e£
IG. de ruend. val.Galenus 31
Oocf neque ficcam, ne' l|Ique melleexceptam fenibus concedendam
fta- ftuerit, nifi maona aliqua
neceffitas ureeat, c^ 8. Ie compof.
med. fecundu loc. cap. 2. bili
fis,& ficIE15 corporibus alo€s ufüm non mediocriter infe- Ium docucerit;In aliis (anc corporibus,five
moctbo tenLorgis fe» byibHs a loes ufus
cópmodus . i^ MERIT æn gant ei
(ix iQ1o8bo tentátis,five
fanis, ub! vitlofis füuccls utcumqs bent
infeítentur, aloé non fine magno commodoin. ufim ducitur, potiffimum ubi
ventriculi villisii adhzreant:fic enim Oribaf.7.Col/e£l.cap. 27.abfinthio alo£n
cóferens,ftomacho placidiffimam juu effe contendit et fumi quotidie poffe à
ceenà ; depu. aT ME aie quod.
Ewporiffon cap.9.übi de evacuanübus; eju
in fanis corporibus conveniunt, agit; quan-
titatem enimiis przfcribit,qui quotidie eam afAAloes va- Pia quanti
345 [umen 8A s [7 pro $urgato-
o, C f $ro dei- éforiosat-
dicatméete. fébducit euim.»
Yaquit c ciborum vis nou bebetat, Mi
erattvea fitim uon inducit, C" bominem ad cibos fu-. à anendos facit promptiorem ... Ex quoniam
proximé f ante hzc verba dixerat;aloén
ad duas drachmas. furi fümptaio,
pituitam,.& bilem fubducere: cüma jen
addit; [omi e riam quotidie poteff cama.non intel- i: licit de càdem quáütate;fed alium ufum fumits
Ki fümunt;trium cicerum mænitudine.Idem
eti3; et longiori oratione explicuit Aét. 7'etrab. 1. Serm. 3-c4p.24.cüm enim
ad trium drachmarumiJi;, etiam
quantitatem ad multos demoliendos mot;
' bosoptimam effe ftatuiffet, commodam etia malos. effe (cribit fanitati confervandaz;fi
quotidie antep... coenam fümatur,utante
prandium mane: id au--]i... tem effe
non poteft in càdem quantitate, fed adi
fcrupulum, aut femidrachmam. Sic ex Mauri-1,. eàdem, ut medicamento purgante; agit, ut et
apud Mefuen viderelicet. 511g1tur
tamquam... deterforium medicamentum, €
ventriculum. i expurtanis Avic./ib. 2.
cap. 45.de iis.qui fecundà vale-4t.
tudine conftituti alvum movere poffunt ; de de-4.. terforià hac facultate loquitur; C Jib. 7.
cap. a. ded. n h i
ad LI " » E- AA LM,
Ixpurgans fümatur,& in minori 1llà quantitate, li ftatim à cibo, vel etiam ante cibum ftatim
fu-. fimatur, febricitantibus iis fepé
concedi poterit, "lin quibusaut
crudi multi humores febres: pro-
fluxerint;aut certe ex diuzurnà febre debili red- flito calore ventriculi;multa pituita
congeratur, Int in longis febribus veni
ire docet Gal. 1. ad IBlauc- Sic 8. de
compof. med.fecundum loca, bens 'JlBc
Oribaf.Joco czt. in febribus hujufmodi, potit-
dMimuüm fi lota fucrit; aloén quàm maxime com- 'Ilmendàrunt, non lotam tamen in iifdem, fi
edu- 'Jcendi indicatio pravaleat; etiam
concedunt. '«KCócedacur igitur intrepide
in iis febribus; cüm; Iguz ex febrili
calore defümitur ; indicatio nona
'Iprevalet ; fed qua ex craffis humoribus in ven- lrriculo coneeftis o b diminutum partis
calorem, Irum ubi roborandi ventriculi
viget indicatio, [quod in longis
febribus;& ex pituità cenitis, et lWtertianis fpuriis fepiffimé evenire dicebat
Ga-- b en.1. 4d Glawc. Vnde v ^, cmus;
Maurit; anos, à Weam fcholam fectantes;
et pilulas ex hierà Gale- ni comendare,& alephanginas bis in hebdoma- ddàin paucà quanutatc à 'canà fümptas . 20. Ínufü attenuantium, et diureticorum..,
hzc efto cautio, ne tiene eorum ufi nimium
jl fint calida attenuantia, fcd moderate aperiant; 4 neaut materia nimis liquata;& fufa
majori.mo 3 le tureeícat, et dolorem per
univerfum pariat ; :raut exhauftis
tenuibus partibus,quz relinquun- ur
fontiiob esremancant;& quodammodo lapi-
Wi defcant;& ininvictum fere malü gri decidant, Als ill ud : (4€ I bÓA. Atenas tia m p 2m
ter calefa- Citntia s, Purgátia
valeterra non multüm in febribus ufum medicameétorum. Illud certiffimum
eft, 1n Galeni doécteinà 14.4 *5i» Àri
pareantium commendari;cüium $.44erb. 1. abío»
bus in 45 lutam putridarum febrium curationem trades, VON .
Purgatia Iivia repe
nta sque ti dianis Covent .
ne verbum quidem de purgatione habuerit. Et Il. AMeth. inrefolutorià illà :methodo
curativà. earum, cüm putridum humorem
evacuationeo effe propulfandum
doceat;ftatim fübdat, eligeix dà cffe
medicamenta, qua fine calore educant ut
funt mulía ; ptiffana;clvfter.| Et
1. 22. G/ane. etiam in continuarum
curatione purgantium., medicamentorum non
meminerit. In tertianà vero praftare
ait medicamenta alterantia,quàm. ||
quomodolibet evacuare: id veró, quód fe penu- meró per urinarum copiam;aut per füdores,
in- fenfibilémque tranfpirationem
morbifica caufa fit evacuata ; ; quód,
fi qua füperfünt, craffiores potiüs
alique portiones erunt, non multz, 111a
medicamenus noftris blandioribus non. calidis tolli poffunt;cüm in eà quantitate effe
conjecta- bimurquzad alios in putredinis
communionem attrahendos apta fit; cüm veró non fepe id in tertianis, continuis, et acutis
contingat, raró etiamin fine earum
purgationem exercendam. cenfüit Hipp. 1.
Zdphor. 23. 2.2dpbor. 29. € lili. dé
diua pura. . In febribusautemà pituità
venitis, qua : |." intermittunt,
levia quafi medicamenta purgan- tia
tantum, eáque per iptervalla admittit Gale-.
nus, quem fecutus eft Alex. Trallianus; magna:^ vii aüctoritatis,/» I2«£ap. 7. d€ hacre
differ €n$5, cüm dicitzVerz oportet
auteso ipfos tmiverfrm pur- ) [reete
vices, C ftmplicioribus medicament is.
1! €'c. Vnde fortaffe recentioresfuorum mmoran- 9 tiumufüm defumpferunt. quod 1n aliquo cafü,
et aliquibus febribus; et poft coctionem
conce- dituf ex arte, ad omnes febres,
et quocumque, "f tempore, et in
principio malé traducentes J^ z3. Levius
etiam;cautiüfque in febribüs om- '|
fibus purgandum efle conftat, quàm in alns
vifcerum,cordis nempe, et hepatis fervor, calor ex hiimorum motu contractus, et deleteria.,
vel faltem fatis calens medicamentorum
qualitas in causa fünt, ut cü timore in febribus pureemus, in: morbo autem non febrilr audacter
evacue- mus;id quod Hipp. Jib. de
rticuliss in fige, cla- rifhimis verbis
o ftendit. 24. Verüm purgare corpcra in
febribus cüm opus eft, inclinante morbo,
vel poft illum, quo "| tempore vires
majcr1 ex parte fü ntimbecillz, et E
fpiritus multiüm exhaufti ; cavendum maximc
il Medico eft;ne ex affureendi frequenti; aut ex humorum evacuationein fyncopen incidant fui M ueri quod vel in pureandis iis, qui à
tertianà |fünt évacuandi; niaximé timuit
Averrocs. Qua- ] propter jubeat
excrementa 1n lecto exonerare », vafe
aliquo huic ufti 1 accommodato füppofito,
aut findone plicatà, quod innuiffe vifus eft Gal, : 3.de Cri. cap.9. r s:
et ( ÀÀ - E-
HÁ ÓMà Pureadg Mone 2
morbis à febre fejunctis : calidiffimorum enim. fZre 444 2:3 alus
"orbis e? 471 Debiles
dum pur- gantur, e leto 207
furgant. In quartanc febris rectà victüs ratiorie »,
Quartana d&in quantitate;1lla fit
animadvcrfio; utin prin- rin prin CX
plo £iplo va- yu; Ui-
es, ch quemodo sariadus.
&alfatné- 42a quartz Jod: 2
944 LADOr a znuàbuscon- zcdenda,
"n parece ; emer. Quaia(cipio non in omnibus fit eadem;neque
enim fefe per à craffiori eft incipiédum,
quod ex commu ni regulà 1. Z4pbor.
colligunt aliqui, in ftatu at-
tenuantes. INeque etiam femper per primas tres hebdomadas abftinendum erit à carnibus, et pullis gallinaceis, ut ctudi humores
poflintat- tenuari;& abfümi,quod
magni alioqui nominis viris placuit; fed
diftin&ione opus eft. Saneui- nci,&
carnofi, quique lautiàs vitam per multos
dies traduxerunt, et qui crudis multis fcatent fuccis, et qui ex fanguinein melancholiam
ver- fo febricitant, primis
quatuordecim, aut viginti diebus,tenuiüs
alendi erunt,atque ctiam.fi fierl poffit
; ab ufu carnium funt 1interdicendi,ut et crudi humores in vétriculo,& primis venis
exi- ftentes concoquanturattenuati, et in
fanguinem mutari queant, névealtius
permeantes obfttu- €tionesadáugeant. Qui
veró in primà regione cruda non
acervàrunt;& biliofi funt;macri.faci-
]é refolubiles;tum et pueri; aliter funt in princi- pioalendi,atque concedendze erunt carnes,
ut diuturno morboobfiftere poffint ;
atque ad fta- tumufque cum viribus
valentibus pervenire. 26. Quód
falfamenta iin quartanis laudentir à
Galerio,cavédum eft,ne multo eorum ufu mes
Jancholicus ficcus in corpore adaugeatur ; con- cedendá igitur erunt parcà manu,ut medicamen tofa alimenta attenuante vi predita, et utappe-
tentiam, quz primis menfibus omnino folet effe
dejecta.excitemiüs . 27.
Sànguinem quidem in quartaná miffufia pa per fectam venam, fi opportuné hoc auxilium
xis vez adminiftretur, Galenus cenfuit
optimum reme- /eclio 2u& dium ;
opportuné autem fiet, fi multus in venis 4ecozve« fanguis fuerit; et craffus, et fceculentus,niger
et "^ craffus. 29. Vnde jure merito Medic prafentia ne-
Quarta- ccflaria eft,dum talis actio à
venifecà exercetur, »3labora qui
qualitatem fanguinis confideret,ut eo infpe- bus di Cto, fi niger, et craffus fit, liberaliorem
permit- /?guis tat evacuationem,habità
femper virium,atatis, *"4^44-
plenitudinis, temporis ratione . Quód fi potius //^» Mess tenuis,& clarus fit, et potis ad flavum
vergat, gere fupprimendus erit.
shi. . .Adhibenda tamen hzc eft cautio,
ne fta- Sanguis 2 tm ac perrubentem
faneuinem,& bonum exire "miffione
viderimus ; illum füpprimamus fieillatà ven; fenguini fepius enim vidi primas illas duas uncias
effluc- z: quarta tes bonz conditionis,
quód non ex penitioribus »i» zé fta
educantur,fed ex venis brachicrum, quorum //7 fuf- fanguis ob affiduum eorum motum,quandoque
PW, purior redditur ; progrediente veró
evacuatio- '- ne,nigrum, et craffum
cffluxiffe. Quapropter ó Pes, faltem due,
aut tres unciz vt effluant, finendz funt
; antequàm certum de hac re feratur judi- Sauguts 7 e»
guis optimus é venà fluat, permitti debeat effc /^ 24? ;1
1 "v 3 A i -
* ^ 22 54071 xe;neque fif oporteat.fi forté ex antéactà vità, ^^^ et fignis
plenitudinis ad vafa cognoverirous, ^ - d
tantam fanguinis copiam conoeftam in venis cf- dm Íe;ut nifi folvatur, periculumaimmineat, ne
avt. 7/ Á HOovVvuS LFD. SEPT ALII MEDIOL. novus aliquis morbus
magni momenti adjun- gatur,aut Certe ex
multà illà fanguinis congeftà copià
obftructione genità aduratur fanguis, et inatrum fanguinem mutetur, addatürque in, caufam quartana . Ságuitin ..31. Etlicet Galenus deloco, unde
in quarta- quartana p fanguis eft
evacuandus, agens, cenfüerit ex quád? ex
Axillari,five internà brachii finiftri venà effe edu 4t? cendum, illud fumés, quod majori ex parte
eveFM. nit,originem quartanarum ex fplene pendere; du,
praftattamen hacin re Actium fequi, cenfen- tem, confiderandum effe priüs,an potius
vitio hepatis,multum melancholicum
fuccum eignen ris,vel affato
fanguine;vel aliquà alià occafione»
fiat:tunc enim potiüs ex dextro bracbio,; quàm é finiftro;fanguis effet mittendus. dnpefefa .32- In peftilentibus febribus,fic
didis; quód j» mini pefüferas emulentur;ut
verum eft,ma]ori ex par potest fan te
mittendum effe fanguinem fectà venà,confen[ élam vt- dictis,rariüs id auxilium
in ufum duci debet:nequa ex acris putredine, nifi magna fabfit
pleniperpenfis i gqnisper fe tientibus
viribus:ita in pefte;peftiferífq; fic vere fr. ), C queenim umquam, fi à pravis
cibis in annonz '| : e " Md ^ quando, penurià fiat, fanguinem mittemus ;
neque in cà tudo,& humorumzftus;
miffo enim fanguine »» |. et füperfluum
fanguinem evacuabimus, et eftüij.
frenantes ; ceris occafionem fübtrahemus multi, 7 æris trahendi ; neque periculum imminet
tanti). " collapsüs virium, Át cum
peftis contagioaliun--j. ^ »
de delato alicubi ferpit ; qualecumque fit primüij ^ nrincipiem, miu intrepide poteft ; 11s
omnibus "tM perpenfis et obfervatis,
quz in reliquis febribus 5 8 putridis
confiderari folentquód ezdem vieeant
"Rindicationes. Confentit
Gal. 3.7 1. Epid. 26. in Critone.& 3g 3.cap.76.in Calvo Lariffe, in
qui- I bus voluit miffionem fanguinis
convenire ; cüm * E pefte laborarent,
2.77 3. Eprd. iz proezz. Quin et ERuffus;referente Oribaf. 6.5yzopf. 2 5.in
pefte», Abi fanguis abundaverit ; vel
ubi alii humores ']Rdmixu
fintfanguini.fiátque genus aliquod ple-
Inicudinis,jubet effefecandam venam.Idem Æt. der. f. cap. 95. et Paulus, b. 2. cap. 36. ex Ruffi )ffententià. Ex Arabibus Aver. Jib. 3.7 bezf-
T rad. dB- cap. 7. Rhafis 3.cont. T
ratf. 13. cap. 2. c? libro / Me
Pefle;cap.6.8c Avic.lib.a.Fen.1.1 rat. 4«CAp«A.
jit ii fatiseffe poffint adverfus Fracaftorium, et Inovitios aliquos,etfi magni nominis. Neque
ve- Jró faceffit negotium, quód haufto
veneno fàn- 1IIBuis ex venà non
detrahatur,ne bono faneuine ; "Ur
IPX venis evacuato, in venas trahatur, et perfan- "fBuinem difpergatur, non fecüs, quàm de
feclá "lrenà crudis in venis
exiftétibus humoribus: Dif- ü)ffPar enim
omnino eft ratio ; nam hauftum vene-
i'ifiuum quamprimum eft vacuandum,;dum in ven- eliriculo;& primis venis continetur, quod
vel vo- it /llnitu, vel pureatione fit,
venz fectione fieri non Uifboteft, quia
fanguis bonus In venis exiftens, de-
ullra heretur,venz veró inanitz fugerent, et attra- ""ilrerent ad fe venenum in
ventriculo, et mcefcnte- i! RÓo
confiftens, quo nihil perniciofius cffe poteft.
silDuare Diofc. b. 7.de curationeab haufto ver.e- jillloæens, non meminit venz fectionis; quem
fe- 5 H £ cutus Mri. -ec
ln Pt le s 33 J : ; : gnisad a- nem, et aliorum Mauritanorum
fententiam ea-4t. nimi deli ynus,qui
in aliquà pefte ad animi ufq; deliquiunogiui
quid no». fanguinem detrahunt;cüm in pefte potius quanagui enittédus: tas minor effe debeat fanguinis
detracu, quàmgu : &utus eft Act.
Ser.13.cap. 45.X Paul.//b. cap. 28. Ai
Atin febre peftiferà venenum, five materia pe-/7 - ftilens,non confiftit in ventriculo;aut
primis ve-4t nis,fed jam ineft in venis
cum fanguine commix-Jur ta ;
proptereáque detracto fanguine, pars illiussiui
materie peftilentis fimul cum fan guine inanitureduii Hinc Paul. Jb. $.capit. 2. dixit, veneno in
venissfii exiftente,(angmnem effe
detrahendum . Difpattjnu, jcitur eft
ratio curandi haufti veneni, et febrissp)
peftiferz evincendz .: fu ;:.
Cavendum tamen,nein Rhafis opinio«jtt:
inaliis febribus putridis,quód vitales vires in edm: magis. faciliüs concidant . i| In poffe fo. ..2 4, QuinimO,ne detrahendus.eft
fanguis pest in 9? H7 fe tam venamdn
brachio,fi morbus jam invaluufi; MM rit
; quód vires qua f in princi pio miffus e(fedin, 2 jeg x fanguis,vegetiores factz
effent;,exonerata ab ona, re natur,
jam ex virulentià fradte fint, et propteyri;
reà refiftentibusmagne putredini;& alexiphar TM macis potilis eritagendum. ! 3$. Quid veró,erumpentibus,aut eru ptis maur, culisillis;aut puftulis? an mittédus erit fan
guisslius. 'an potius ex fpe&tandus
exitus nature? an jamais, eruptis ?
Egofane, dumoperatur natura,à primfs..
-cipio fum fpectator ; mox ; fi feeniter id agit ; 6. plenitudo magna adfit; et fervor
humorum;eve., cuo fanguinem fe&tà
venà; et fe pe miteftit mor, bus ANIMADVERS. .: try jus, æftus imminuitur, validiüfq; reliquum
ad gutim expelli fepé animadverto .
Neque enim Wiericulum illud impendet,
qucd vulgus etiatn» nigj-iedicorum umet,
et adeó exhorrefcit,neífcili- get
humores ad cutim impetentes; aut delati re-
ulrahantur à circümferentiá ad centrum ; quod Wnifflione fanguinis fieri tamquam
certiffimum. Juffumunt;& tamquam
affertü à Galeno 4. zuezd; Ital. 1o.
Miffio enim fanevinis per fe potis fane
fjuznem à centro ad circumferentiam revocat,ut "ixperientia docet, et Galenus apertis
verbis tta dudit a. de ruezda val.4.quód
fi oppofitum c. 10. aMuu[æm libri
atferit ; id de multà fanguinis eva-
quauone per accidens intelligendum eft. Cüm Jinim per fanguinis mediocrem
evacuationem.; ginguis;qui in venis
internis reperitur,ad exter- J| » €
extra corpus revocetur, utin intetpisin-
qiammetionibus manifeftum eft ; fi ulteriüs pro- Jirediatur evacuatio;cüm interne ille magnæ
ves («hz exinaniantur.natura provida; ne
partes majo Jis momenti deftitutz
remaneant fanguine, ex gccidend, et fecüdarió
à carnibus et venulis am- ditüs
fanguinem iterum contrà ad interna retra-
liit. At i mediocris fiat evacuatio,tantum abeft; Nit mifhio fanguinis per fectam venam kedat ;
aut levocetut doceerit Gal.6.Fpid. Sec.
2. Com. 30. in latis illis puftulis
Simonis cujufdam;fanguinis dniffionem
maximé futuram proficuam.Neque :
Niicant; Oribaf:7. Synopíeos 7. €) 3.ad Evnap. 21. jum hac verba ad verbum recenfet, omififfe
feAMtionem vene; ut proinde ceníeant additum effe "M .3 in Antbra
eibus, t^ bubenib. apparent:
&us f«can da vena, € 4o
do.LFD. SEPT-ALII MEDIOL. r1 in
textu Galeni, cüm in omnibus Galeni codici- || ci bus illa pe reperiatur, ut potius ab Oriba4
dti fii colle&ore omiffam per oblivioné
dicere poffi- «| 11) mus ; aut aliunde
defümpta verba illa effe, càümug m! cadé difficultasin purgatione
etiá fubfit . Quam] tuii opinionem
confirmavit Æt. z. Quar.Serm.1 .cap-- Vit
126. puftulas, five vibicesin principio peftiferæimo febris apparentes, fanguinis miffione curans
. 7 36. Inanthrace;furunculo, et bubone;
potif- rs fimüm fi in emunctoriis
cordis;aut cerebri fiants, lunt nullum
effe præftantius cognovi remedium ; fiilüni
vires conftent, &cin principio verfemur,maximé3 ji fi plenitudo; et fanguinis copia adfit ;
fanguiniss[ yn: evacuatione, tum ratione
febris peftifera, tum) ratione morbi
particularis:càm enim fiant à fan- we;
guine craffo adufto, bili flava admixto; quidli equé fanguinem evacuabit peccantem 1n
totaxXir corpore, tum et dolorem illum
intenfiffimuma d mitigabit, qui fiepé
vires dejicit, maximé cümzdliny partem
nobilem obunuerit ; tum et materiam;
evacuativà revulfione à parte retrahet? Scio;hædin inre, ut et in füperioribus experimentis
certari sj; et contrariis quidem. Ego
veró in pefteillà in-4n. figni 1475. et 1576.
noftrz hujus magnz civita-4fti, tis,
profiteri poffum;ex octo illis Medicis;quibuss,
pefteinfectorum cura erat demádata; inter quossii, et eco unus erá, càm unus;aut alter vene
fectio-Juj. nemin fuis zeris aver
(aretur,Fracaftorii, et alio-4.. rum
doematibus infiftens, nec ex fententià cura-J».
tiones füccederent, mutatà fententià ; aliorumz p, exemplis, et felicioribus fücceífibus utique
ex-J citati ^w Dd
citati,quàm przftaret fineuinem evacuare, tan- demcognovére. Vndeetiam comimuni
confen.- fü in pefte hujufmodi nobile
remedium nullo 4 modo pretermittendum
effe,decreverunt,modó
ftaumadminiftraretur, et parciori manu, cíáque adeffent, quz in co remedioadminiftrando
pet- i$ pendendaíünt. Eratautemnon ex
acris COrfil- ' 4 ptioneuniverfáli
peftis ea.fed contæione,& có- d
municata ; et ferpens,falubrialioqui et cælo, &e anni conftitutione faluberrimà ; et rerum
om- nium, quz ad vicum faciunt, maxima
adetat abundantia ; corpora autem
noftratia veré fucci 4 plena conftitui
poffunt. 37. Caveant tamen, nefemper ex
ehdem aut. 4,5, ven, aut parte fanguinem
hauriant;fi enim poft cius, eh d aures
parotides exoriantur,aut füb axillis buboe. 2u£ez;- nes, aut anthraces, furunculíve in trunco
füpes bus aptæ riori eruperint,ex
brachio ejufdem partisftatim *enióus
tundetur vena. Quódfiininguinibus bubones ^ £4fe; gU erumpant, et inflammatorium dolorem proei-
p^» Pd d gnant,;intalo ejufdem pedis fe&à
vená faneuis - Wevacuabitur. Si veró
anthrax, aut forunculus 5^ (fapparuerit,
ex oppofito evacuabitur ; illà enim
Mectione venz et naturam onere levabimus, et qananus adjutrices natnrz porri&emus,ut ad
emü détorium illnd humores detrudat ;
cüóm enim à dcorde plurimüm recedat,
vidimus plurimos ex jf f bubone in
inguinibus curatos ; pauciffimos au-
gJKem.fi poft aures per parotides; ut fere nullos, fi JMfüb axillis materia detrudebatur. Atfi
anthrax dnaícebatur in dextro; puta ;
crure, evacnandua H 4 erat - i Xe
X rj - 1
E E PLN 4 ULEIXBE
2e ZLPD. erat fanguis ex
finiftto, ne majorem molem ma- teriead
locum affectum traheremus,unde et in« :
flammatio major fieret; et dolor inrenfiffimus ; unde vires collabafcerent ; praftatigitur in
con- trarium revellere, evacuando,fimülq;à
princie fi pibus partibus virulentiam retrahendo. Do&rn- :
nam hanc licet colligere ex 6. Epid. e£. 7. tex. tun
ubi dicit;in anginà peftilenti fe venam fecuiffe in 1 cubito.
Scarifez- 38. Sed cm in pefteomnia fint inprecipiti. fut tis cur occafione pofita, et aliquando
Medicus ftatim . (ite in pefle [^ non
accerfetur ; aliquando etiam vene fedio ab
[ui Iuberri-. 4]iquibus non
admittatur, cuperem ad manus j|: T4*
artificem habete qui fcarificationem malleolo-
rumfciret adminiftrare : commodum enim effe remedium cenfüit Apollonius apud Oribaf.7«
|: Colle&l. c. 19. C 20. quo etiam, cüm
aliquando jur pefte effet correptus, afferuit effefanatum;
quod. |ui remedium pro plenitudine curandà, quafi venz.
. pnr» fe&tioni zquiparaturà Gal.4.
val. tuend.4«O 20«. fii Qua actio omnino
diverfa eftà noftrifcarifica- tione inloco cucurbitularum, ut conftatex Oris
pat baf:7. Collet?. 18.ex Anvylli
fententià;fiquis ca- fun put illud, et modum
exercendz illius operatio- Bu; nis
confideraverit, et quz à doctiffimo Profpero Ju
Alpino de hac re fcripta funt ; ib. de Medicina Wu.
"Ægyptiorum, quidquid contrà f enferint Avic.I. fü
lib. Fen 4. cap. 22. et ceteri Arabes Media. 1 Cueubi-39. Verümfi jam aliquátó progreffusfit
mor-. fan tula feri büsis peftilens aut
nefciamus, an vitales vires fav. ficata
ali- fixing fatis fint; quod aut vereamur,ne pertenta- - P K1S alSfi: apr! ANIMADVERS. LIB. FL. 124 tis arteriis peftemin nobis contrahamus aut
le- quiido vi- pe cautum fit ; ne primis
quatuor diebus Medic zs fe-
Ipulfüsarteriarum tangant,ut apud nos confütu- Zioz;s ve tum eft : certé folebam egoin noftrà pefte
.aquà. z«. -icalidà ablutis füris;in
internà parte cu curbitulas linjungere
cum profu ndlori fcarificatione ; iom
Ikca evacuare fangvinem ad fex, aut octo uncias ; pro fienisaut plen tudinis, aut robore
Yinubis Iquamvis enim immediaté f;
nguinem ex v cnis i fIhon detrahant, fed
ex carnibns, neceffe tamen, Ie ft;ut
carnibus inanitis, ex venis fübeat alimenA4
; fum, et confecuenter eiiam totum 1nanlatut . 40. Quinimó et frequétius,& tutiuseft
prz-. c,;,,5;. Ifid: ium hoi 'Cc,cum et evacuet
fanguinem. Citra» re cum imultam
fpirituum exfolutionem, ab he pateau- f'arifica- ftem, et corde, ad longinquam partem vi
irulen- tione in fia j;ftiam avertat ;
nec verum cft, quód non fint pro- 75 ? peffe
Futurz,quianimis diftent à corde ubie: na mina- f/equen- AN ft-
Inità plenitudine totius corporis ; ipfas quoque» p "i A72 €- [cordi vicinas partes necefle eft
inaniti., 1:21 0 4I. Quid fi inanito cor pore urgeant fy
DABIO: ou eniin [mata,& exanthemata
lenté prori IDpant;COr V€-,,j, $ doy
ro aneuftiis prematur in pe efte, et animi eps fo qua ida Itieliquia, autin fie nis do lor capis UIgeat,
QUC zpJicam- Inmil lefvmp tO ma» quod fa
penumeroó in " efte» da, d
jronungere videmus; erità nobis przftandum ? quádo ni. An « cucurbitule dorfo erunt admovendz
Quod ].deó con troverfum inter M edicos video,
aliisil- las omnino exhorrefcen
übus;aliis paffim, et in, ljuocu mque
cafu illas in ufum ducentibus? Cen-
jico;fi nihil aliud urgeat;non effe temere, et fine. diíftnVeficitia i5 pesteo
aliquado gn ufum duci pof-
funt, fed ?AaYD.5 quande*
Veficátin $m fobrie bus peiti-
lentibus fone. tefle $n ufum
duci non debent . p f/" wt F.heitta
pavtibus f'spevnts y comatofrs
eff cliens - ia $2 LES 5 diftinctione admovendas, fed negotium
natur: effe permittendum. In illisautem
cafibus, turri (carificatis, tum fine
fcarificatione uti nos poffe, et debere
judico; neq; periculum (übeft, ne ver-
fus corattrahantur humores; propter totius cor- oris premiffam jam evacuationem, potius
enim é corde in füperficiem hümores
evocarent,cutm» manifeftà internarum
partium utilitate . 42. Veficantia,
utin huncufum antiquis ino pefte non
funt ufitata, ita, fi extremis partibus ;
potiffimum füris,poft univerfalem corporis eva- cuationé applicentur,non fpernerem,modó
eftus illein corpore non adfit,
peccétque potius fero- fus humor, et pituitofüs;fic
enimad inferna Viftle lenti humores
principibus partibus retrahétur. 43- In
peftilentibus veró febribus, quz cum»
efte non fünt, fed fic dicuntur, quód infignem quidem habeant putredinem in humoribus, fed non hujufimodi,ut veneni naturam jam
fübietit; cüm putredo corriei poffit, et
per codtionem emendari, veficantia non
in ufum ducerem ; fed non fécüs, quàm
aliz febres putride curande
erunt;excellentis tamen putredinis habitá ratio- ne,ex exficcantibus aliquo addito, et corde
non mediocriter roborato. 44. Animadvertendum tamen tam iniis fe- bribus improprié peftilétibus, quàm in veré
pe- ftiferis, ratione fymptomatum,
potiffi muüm ]le- tharei,&
comatoforum affectuum,nullum effe»
przítantius remedium veficantibus ipfis ; aut parti brachiorum verfus humerum, aut
etiam íca pu- fcapulis applicitis: ferofos enim humores »
et usse le- frieidos cerebrum
opprimentes citó, et facil- thargo cà
limé et attrahunt;& extra corpus evacuant:Con veziuzt. ftat hoc ex Antyllo,referente Oribaf.zb. ro. .1n
peftilentibus affectibus maximam fzpenu-
meró effein fomnum propenfionem,in quà fina- pifmos convenire (cribitymaximé in
lethargo;& magná fané ratione : nam
in lethargo confiuxus fit materiz ad
caput, unde opus eft revulfione »;
cümque perpetuo dormiant,expereefacere fimi li ?ravamine medicamentorum eos oportet.
Ide defendit Æt.-4rchbicene
Ser.15.cap.181.& Paul; ain,
/[7b.7.c.18. Hinc Aretzus Medicus, his et GalenoantiquiorJibro 1. de curandis morbis
acu- 115, c. 2. curatutus lethareum,
dixit, tibias urticis effe verberandas,
aut etiam valentioribus medi- camentis
effe utendum, denique etiam finapi. Cum
veró ii omnia priüs tétari voluerint, quàm
ad veficantia veniretur,oftendunt, quanto 1n er- rore recentiores verfentur, qui protinus in
mor- biinitio veéficantia effe
admini(tranda cenfüuerüt. 4f. Aliuseft
cafüs, in quo tutóin peftilenti- Veffcdtia
bus veficantibus uti poffumus : cüm univerfum ue corpus exterius aleet ; et egre calefieri
poteft, ^ bases non quidem fi
refrigeratio fiatob virium extin- Pura venies
ctionem; tunc enim inftaurantibus Opis eft: fed: ^70 rore. Kain - . (07
p; PP fi ob alias caufas, tunc
adminiftrari poffe docuit V efic attin
Antyllus apud Oribaf. b. 10. Colleé£]. CAp.13. et in beffilen Archigenes, Aétio tefte, Sy»zma a.c. IS$1.
tüncq: tibus, abi et tibiis, et brachiis funt adntovenda »
Oribafio corbus alV referente;Zoco
addut£o, et Paulo 4E cin. lib.7.cap. getuiliaSce nT : ; ESO NST ME, Le ;.9 PNE ni EE bor be diii Me n4 Quibus locis con fat duobus folis iis
cafibus s in acutis, et pefte,
veficanubus nos uti poffe ; et hoc eft,
quod Oribaf.ex Ruffo //b.6.5 ynopf.- 2$»
ocebat ; in pefte calorificis quandoq; effe uten- dum,ad evocandum calorem ex profundioribus corporis partibus ad fuperficiem; ut et Æt.
5er. $.c.95.& Paul. lib.2. cap.36.
Vndeneque inom- nibus peftilentibus ;
neque femperin pefte vet cantibus
utendum cenfüerunt magni ii Medid; fed
aut in foporofis affectibus; vel cüm externa
Veficztia a|oent,& interna zítuant;cüm novatores ii fem- in peflilen Ser, Gcin omni pefte;
peftilentíque febre, quin dipsihar et fi
Deo placet, in principio veficantia adhi-
Lui 3d beant. Sed non eft mihi in bacre tempus con- m pajfm terendum, cüm à doctiffimis viris res
hac abfo- ufurpata . lute, et ex
profeffo fit pertractata » et à nobis 1n»
libro 4e Peffe; annis juvenilibus, dum totusin cà curandá in patrie mez calamitate
verfarer,com- pofito difputata;quem
librum Amanuefis meus, ; homo exterus,
cüm emendatum meo juffu tran-
fcripfiffetad editionem;fuffuratus eft; nefcio quo confilio,cüm ftiret;apud mein fchedis ca
omnia T remanere,licet multis in locis
defcedata . parenhe- «|. 46* Evacuatio
pravorum humorum, caco- me utendi Ch
ymises per medicamentum purgans affumptü
in pefle, t On minüs,quàm fanguinis evacuatio,in pefteo [wj
cur convenit, et fortaffe frpiüsinufrm ducitur:ut [tn
enim venz fectionumquamin pefte;que ex pra» qu vi
fücci cibis fit. convenit ; et non ita fepéineàs [|i qua ex corrupto ære, fepiffiméineà,quecon-
tagio ferpit: ita in lisomnibus purgatioinufüm [i vcnire
. 2j venire poteft, licet multó
rariüs in eà, quz per contagium
vagatur;quód f penumeró virulen- ta
communicetur hominibus fnis,& optimis
humoribus præditis ; quibus fi medicamenta, purgantia exhibuerimus, et carnes
colliquabi- mus, et bonos humores
evacuabimus, fpiritus exhauriemus, et denique
vires vitales deftruc- inus. Quod
firefertum pravis humoribus effe corpus
conjectabimur, purgatione omnino opus
effe dicemus. In cà veró, que cx ingeftis malis cibis fit; purgatione omnino opus eft; licet
etiam ratione virium maxima adhibenda
fit cautio. In hancopinionem Medici
omnes Graci, Arabes, et Laüuni venerunt
; locis adductis ; ad demon- ftrandum
venz fectionem convenire; inter quos
Gal.1.de diff. feb. 4. Vnus ex antiqvis Celfus I;b. 3- c4p.7.& ex recentioribus pauculi
medicamen- t15 uti purgantibus in pefte
judicárunt inutile, quód non
putredinem, fed venencfam qualita- tem
fimplicem in pefte fübeffe putàrint ; quód
veneni naturam medicameta propemodum om-
nia, et igneam naturam participare cenfeant ; quód alvi fluor iis concilietur, quo
plerofque in pefte illàinteriffe
teftatus fit Gal.. Epid. J. cüim nequeCelfi auctoritas przponderareo poffit tot
magnorum virorum auctoritatibus, neque
recentiorum illorum rationes convincat ;
quód atate noftrà tot medicamenta inventa» fint; que nequevenena fint,
avt venenatam na- turam participant,neque exceffi caloris ieneum febris x(tum
adaugere ; neque etiam alvi fluo-
rem effe im z10 i
4) DinvOniüit f Hnveca D
ue rem concitare folent; cm non in otrini pefte» fymptoma hoc füpervenire fcribat Galenus;
fed in cà,quz fuo tempore vagabatur. In quam
pe- ftis conftitutionem fi quis
inciderit ; cauté fe ge- ret, et iis uti
poterit; in quibus vis aliqua ineft et adftringendi,&
roborandi. 47. Invento auxilio in
morbis, illius exhi- bendioccafio eft
inquirenda, quod maximé in pefte eft
obfervandum : cüm enim 2. Z4phbor.do-
cuerint Hippocrates et Galenus ; vel ftatim ab initio, vel poftquàm matu rpnerint
humores;co- fint; in declinatione
humores effe purgi- dos ; difficultas in
hoc cafu maxima efle folet etiam inter
dociiffimos. Ego, quid prz- fiterim in
hac noftrà peftilentià, liberé dicam, et
quibus ductus fu ndamentis; cui etiam even-
cuim felicem fücceffiffe, fàn&? poffum profi teri, quantum peftis effrenis rabies cócedere
poteft. Evacuandum igiturin principio
ftaum aut (e- &5 veni cenfto, faltem
fecundaà die ; fi putrido- rum,
autimalorum humorum copiam füb effe
coenoverimus . Neqve "Apbor. 22. 1. Sect. quo afferitur, Concotiæ ffe ved: canda, €t cruda
non movenda, nifi materia turgeatsraro
autem tuveet ; nobis repugnare cenfendum
eft. Quod ut in- tellieatur,
confiderandum folüm erit, an fub evida,
contineri poffint humores ilh 1 "mE ES:
Ciique b ^41 0
CLAÀM 1(VV YT/^111 2
Cil il Tii t tia Nol d dcó putrefadii in principio febrium
peftifera- rim. Egofané non video;
quomodo materia, qva nullam patitur
concoctionem, neque 4li- mentilem; neque
impropriam quee pttride materix gmateriz convenit; cruda dici poffit. Crudum., enim, et coctum correlativa fünt
;itautcrudum Ifit, quod coqui poteft,
fed nondum hanc perfe- I ctionem per
coctionem eft affecutum . Atqui fi
gBradum eum putredinis affecutus eft humor is, jut peftem gignat, quo major vix dari poteft,
ut jam veneninaturam inducerit, et ad
benignum fgmplius reduci non poffit,
certé eum numquam Iveré crudum dicere
poterimus; aut coctionem [ejus pro
purgatione effeexfpectandam. Eóque
[iagis, quód majori ex parte materiam hanc, [turgentem effe obíervatum
fit: quare càm tur- gentem materiam
excipit ; utique peftiferam., E materiam
exceptam effe cenfendum eft, Iquód
fepenumeró primá dietureeat, aut pro-
Ikimà die, aut alterà turgés fit fütura;hancenim IFuam perturgentem intellexiffe Hippocratem Iconftat 4. Z4pZor. 1o. ft turgeat in acutis, eadem fue effe purgandum, atierentem . At
acutiffimum Imorbum efle peftem, in quà
materia plerumq; Iturgeat, quód acris
fepé fit, ardens, virulenta, IQueque
undequaque mota principes partes im-
Ipetat, quilibet, qui morbos peftiferos viderit, jac diligenter obfervaverit, facilé cócedet.
Nos lin noftrà hac peftilentià
fepenumeró vidimus in jtodem grotte,
eodem tempore à naturá mul- Jas.ac
varias tentatas effe excretiones, per alvü, per vomitum,per füdores, per urinas,
per cutis Wefflore(centias, et per
carbunculos quoque, et »ubones. Docuit
hoc Ruffus apud Oribaf. €.
]Wynop[eoscap-2.5. et Æt. Ser. $- cap. 95. SON Q9
Peftis tnn feria turgens
fapeDnuta2eràó. Jib.2. cap.36. qui adeó varia, et vehemétiafyms- ptomata in
pefte dum referunt ; nihil aliud re-.5
vrafentare videntur,quàm tureétem materiam hinc inde latam; nec certam
(edeníhabenteimn: j Quz fi, dum venenata
eft, purganda ftatim eft.(iu abinitio,
ne repat ad princepsaliquod mem- [0
brum; multó magis tunc evacuandærit,cuümo |t veneni natriram habet;cujus proprietas eft
prin ful cipes partes petere. Oftendunt
1d 1pfum pefti-| ti lentes cafüs, quorum
libris de orbis vulgar. meminit
Hippocrates ; colligimus enim mate- jm
zias in eis fuiffe virulentas,& veneni participes; [itm væasitem, et certam fedem nó habentes : cám]
aun enim varias fedes peterent, varia
etiam fymco-| var promata induxiffe
fcribit; in multis papule ap--j t;
parebant, qua mox retrocedente materià adl t; internas partes delitefcebant, quz pofteà
alias» iti inducebant feva fvmptomata.
Neque quif-4 ui ! piam Hippocratem
obiiciat dicentem.zz9 zz4-4 tui; Turg?5
-geyjag rursere,nos autem afferere,in pefte fzepe-4 ui mæt, DUDmero tUTgere; fi namq;
confideraverimus; p e«t quomoto - A n
raro evenire,utiq; materiam raró turgerezdt
peftz [epos &n peftefiepe türgere, non effe contraria, autif
ois. JE Contradictoria juidicabimus:
tureget enim mate, ria,cüm natura à
multà, aut pravà qualitate afíjti
c&ta.materià concitatà, tentatJnter initia eamuaJi: v. xpellere ; qua mvis importu né:
fcimusautemujlu, peftém femper
àpravà,& veneni naturam faxis, 'piente
materià fieri: Non tamen credat aliquissphuii.
nos putare, ubi nonturgeat materia evacuanedly, à . .
h dum non.effe : nam cum virulenta fit
materiai morbum y4r0,0ov 1n ra
i c d d. ^" C-
morbum faciens, et timendum fit, ne ultetiüé procedat, reliquos omnes humorésin
fidendo; venenique participes eofdem
reddendo éx cori- tactu portionis illius
prim: ex contæltone ac- quifitz,
pureandum ftatim erit;ne ad terminum eum
ducantur humores omnes, de quo locutus
eft Galen. /ibró adver [us Iulianum,cap. » Quod ubi totus fanevis putrefcit,vel alioqui
vitiatur; morbi; quiinde oriuntur,
curari nequaquam; poffunt. Inquit enim:
ZVoz pollictztur M edici 3 Je omues
morbos ex vitiato bumore, 0Hmmeizque pu-
tredinem curaturos, [ed eos tantum, quibus corpus t"dhbuc validum eft . C2 vires robu[le ; non
aute, quamdo [aneuis penitus corruptus,
G" fachus arugi- nofnssut affumptum
alimentum in corruptelam tya- bat ; et quz
feq. Cüm prétereà morbus is acn-
atffimus fit; fi declinationem exfpectare volueri- imus, inanis omnis noftra opera erit, non
folüm. quód fruftra exfpectetur coctio,
quam nullate- nus humor poteft admittere
; fed quoniam cüm J| declinatio tunc
fübfequatur ; càm aut à natur j| extra
corpus pulfus fuerit humor,quácumque.; tandem v1à 1d fecerit, aut ope Medici,
aut mit- 1! fione faneuinis,aut
alexipharmacis,& fudorife- I
ris,fruftra tunc Medicus tentabit in fine propel- lere. Non negeaverim
quidem,;aliquando ex pui- a eandum
eftfe1n fine corpusà reduviis, ut renu.
di1riri poffit, atque à recidivis fefe vindicare qu 4 przfervatio hzc potiüs erit,quàm vera
curatio . Ij Purgandi igitur potius
erunt ab initio humore: J qnod cüm
emendari nequeant; quamprimum. : !
exrclli Wes ctr tuta raa nns rs crie
RCM EE ette Matteo NE $5
ATDAIAC: S expelli debent : namapuffimo
vini exemplo ex* plicuit Gal. 2. d pbor.
17. quod ubi acefcere cce- peri5adhuc
vinum eft acidum;& tunc emenda- r1
poteít,& ad priftinam natnram reduci:fi verà corrumpatur, et naturam propriam amittat,
nó amplius vinum eft, fed acetum;
tuncinon am- pliusad prittinu m ftatum
reduci poteft: Ita fan- guis,caterique.
humores,cüm pautrefcunt;ad be- nignum
ircrum,autíaltem ad conditionem,quz non
multüm noceat.coctione.deduci poffunt; at
cüm. compurrucrunt, jam naturam mutarunt s ncque corrigi amplius den dy fed tamqua
om- nino deletetia ftatim.expelli à
corpoze debent . Eít infuper prater morbi
cauíam conninentem ; quzeftaut in venis
prope COE, aut 1D partibus cordi
communicantibus, alia quædam vitiofa.,
in ventriculo,inteftinis;&.circa præcordia adhe- rens,dolore,colore,aftu;naufcà;amarore,
aliísv e fignis manifefta, quz.
neceffarió quamprimum. purgationem.
SREPI cH aMiquie declinationem po- teft
exfpectare. Qua fane.eriam efficit, ut alià
rationein principio euam expurgari debeat: nà fiin hoc morbo per totum ejus. decutfi fum
alexi- »harmacis., .& medicamentg à
totà fubftantià utendumeft, ut etiam i1,.qui
fecus fentiunt de hac purgatione,
concedunt nonne nccéffarió MES qe
concedent,in impuro corpore pracedere debere
ps, gud purgationem ? Hxc namq; vel 1pío Gal. tefte ; fit expui-. lib. $.de Janit. tucnd.cap.6.ante
non fnt affumen- qa? cr. da,quàm totum
corpus inanitum fuerit : cüm po impuro
torpore nó Ju enim.€a vel
itaanuüpharmaca;vel antidora dican [uL
., ANTAIADFERS. -tur, quód totius(ut ajunt) fübítantiz diffidio 1mmutent yenenatam illam naturam,
frangant, obtundàntque, atque prorfüs
cxftineuát;&. €Vàec cuenrtà corpore
per fudores, atque cutaneas ex- creüones
; nemini dubium effe poteft; in corpus
noftrum hzc minime praftari pofle, nifi prius Inanitum.fuerit corpus ;: non enim ad cor
vires fuas emittere poterunt, nifi
meatus fint SEPhn eati; neque à corpore
per- cutaneas excretio venenum expellere
poterunt, nifi pariter be fit evacuatum
.. Quin neq; e atcuationem
per cuum ullam effe diu in eg i totum
corpus inanitum fucrit,ex Gal, 8. IM eth. 4. CQ" 11. M4
e- th.1o,at nec rarefaciendum prius,
quàm fit eva- cuatum, 11. 74eth. 9.
colligitur. Atinquiunbid fieri fanguinis
miffione . Verüm quomodo vim argumenu
effugiunt;qui illam refpuunt? at om- nes
faltem fatentur,in multis non convenire, ut
in pefte ex pravis cibis, et in cacochymis cor- poribus; in quibus ex fpecta r1non poteft
conco- €io ; faciendum igitur quod jubet
Gal. 4. dé 2 tuerrd. val. 4. Quod alienum
à natura efl.nt ad pri- flinam bonitatem vediei non poffit protmus evacue- |fwr. Huiusfententiz fuifle Galenum,
colligere, poffumus ex Ib. 1. de differentiis feb.4. ubi dicit, impura corpora in principio ftatim effe
purgan- da; et ad fanitatem deducenda .
quod manifeftis verbis confirmavit 2.77
$i de morb. vulg.in Si- monc;in quo late
puftulz efflorefcebant;idq; in libris
Methodi medendi TInonftratum efle a
f- firmat;quod vel $.Ætb. sed. c.12.
conftat, vbi * habet : habetzCarerum,iiinpe[le
facile [omari funt, pro- pterea quod præx[iccatn
vis» prepuratumdq; corpus otum
fuerit;quizppe quod evomuerint ex Tis tonmul-
li; onmibus venter profiuxeritsatüs cum ita eva- euati effent qui evafuri evant siis pu[Inle
quas exan- phbemata vocant, mpra
foto.corpore confertim mul- te
apparuerunt, ulcerofe à quidega plurimis, ommibus certe ficca. Cuibus ver bis vel cecis
mamfeftum eft ; pureanda etfe corpora ab
initio in pefte». Quid.énim per pureanda
effe corpora fignificat, nift in
principio effe-evacuanda füedicainenm
purgante? Nonne pratercà conftat ; excretio- nes has peftilentes nuHas fere effe criticas,
fed fymiptoníaticas; qua in
principio;vel augmento 3ccidunt?
Atnihilominus prepurgatum effe »
déberefcribitcorpus, antequàm apparerent; nó icitur exfpectavit coctionem. Secutus eft
hanc fententiam Avic./ib. 4 4. Fen
1-Tr.4.capit.4.cum inquit: Summa
curatioms hurus febris eff exficca- tio,
C 1llaftat cum purgatione, à qua tocipere de-
bens -& Kver. 3T bet1fit. T ratl. 3. cap.1.qui in, principio pilulas ex fimocolumbino, aloe, et agarico commendatin pefte. Et R hafis tum
5. Continentis, cum lib. de Pefle ; quos
pofteàfecu- tus eft Aver.2.Collett. 56. Éx recentioribus
etiam plerique feré meliorisnotz, inter
quos Manar- dus Ferrarienfis, 5. Epi. 3.
et 13. Eprff. 1. et Vi- &or
Trincavellius zz l/bro de febre pe[ilentialin
hane venerunt fententiam. Quod experientia etiam confirmar e poffum: Mihi enim.
&fociis in 1nænà hac peftilentià
magne hujus urbis fehet- CCY ; dag ter ceffiffe, (ciunt et præfecti fanitatis,
et cives noftri, publicéque etiam nos
laudárunt pro bo- nà,& fedulà
preftità operá,cüm purgante medi-
camento ab iniuo feré curationis ufi fuerimus. Quod et Gentilis ille Fuleinas fibi
experimento conugifle teftatur 1.4.
ubiinquit: Ego vidi focios zoftrossviros
expertosqui 1n prava pefhilentiaspri- pa
» vel [ecunda die,"velin quarta ad [nummum s » quam citius poterant, dabant pharmaca
evacuan- L4, exfolueudo materias, ficuti
Rbabarbarum, vel "A garicum,
aliquando dabant auedicinas Y1g0- ratas
cum pauca Scammonea ... Et vidimus plures
evafilje per manus 1ftorum, quàm per manus illo- VU, qui gon purgabaut, mfi cum levibus
cly[fe- v115, C quandoque [ola
caffia.Neq; rationes, quas contrà
adducunt, multüm urgent; quód enim A
phorifmü 22.objiciunt;jam docuimus;aut füb
turgente comprehendi, aut fané veré materiam 1llam crudam dic non poffe, quód nullam
co- Cüonem admittat. Neq; caliditas
medicamen- torum vcrenda eft quz non
avocavit Galenum ab corum ufu;ob majorem
utilitatem in turgen- te materia ; minus
autem nos Impediet in pefti- lenti;in
quà fx pé minor eftus fübeft; potiffimum
cum mitiora quàm plurima medicamenta, mi- nus calida ; vel vix caliditatem attingentia,
et fimplicia, et compofita ncftris his
temporibus fintinventa. Neque vercnda
funt mala, et in- commoda, quz fequi
docet Gal. 1.24pbor. 2 24. € 2.
pber.9.ubi quis crudam materiam in prin
€iplo,& non przparatis viis edu3 crit;cb majora E. :3 enin
"$a enim mala fugienda in
tiizgente materià ; noti» veritus eft
ftatim evacuate, ;Ob eandem etiamo
caufam nos in pefteidem preftabimus. Néque alvi profluvia;quaz in pefte Hippocratis
tempo- re ubi fipervenirent, mortem
inferre folebant, debentnosab
cxhibitione niedicamen torum in
principio deterrere: namietfiin ea conftitutione |^
id.eveniebat; in aliis non femper eft cum pefte» cotijunctum . Sed veró etiam nulfa vis
eftargu- menti; nam fluxu illo siulti
interierunt, quod nimis oppt effa;
acirritata natura fluxüsZ exone- taré
tentabat ; fed et füccumbebat; et materias
quafieffrenis facta plis jufto fluens vires deji- ciebat,undem ors fubfequebatur; at ftatim
pur- gatis himoribus. periculum hoc
evitabimiis . Sedatgumentantur preteteà
auctoritate Gale- n19. de fimpl. medic.
facult. cap. de terra Letmnias
tibiinquit, illos; qui tetre Lemniz;ant Bohli Ar- inehi affumptione cnrari non
potuefunt;plerof- queinternffe . Ovafi
Veróy five manifeftis agant
qualitatibus, five cccultis;in ufum hac tutó du-
ci poffint, non praimifsà purgatione ; cüm jam. ji Galeniauctcfitate c onftitutum
fitjanupharma- €á ; et antidotos tutó
exhiber! non pofle impuro corpore..
Peftiferz avtém, ac virulentze mate-
rie cum venero coim parátio,quà probare nitun- [ wir;in principio non effe purgandum, nclla
eft ; 1 neque convincit: Affumpto enim
vencno, cim.» matcria.ea in ventriculo contineatur,vomitorils quamprimüm ex xpelleretentamus; aut fi id
ob- üncrinon poffit;emollientibus,
lenientibus, vel lubri* T Ex DRM LS od
UBL. mts tte S sni eii e s in otn c
lu bricantibus per inferna ( fr bducere conamur. Ita 1n peftecüm primüm corafficiatur,omni
in- genio Gmnino tentandvm eft, 3
nobiliffimà parte 1llam revocare, ac quamprimüm ex corpore» pellere.
13j 49. Caveat autem
Medicus.ne; quod iri pefte Peffilétes
conftitutum eft, in iis feb ribus; qu et,quódinfi- z/,, 5. gniorém habeant putredinem, ;quàm vulgares ze
peffe » febres putridz, quóodqvein aliqu
ibus fyrnpto- cockienens matibus
peftiferas veras aiu léritig Peftlentes expe fttt s dicuntür; quales font;qua maculas, qua les
puli-. vecz prin- cum morfis »aliáfq;
etiam cutis efflorefcentias cdd junctas
habét;idem obfervandum cenféat : cm £244 -
en1m eó nfque non fit in eis progreffa putredo, ut ad priftinam bo "nitatem revocari non
poffint humores,;ait fané cü m per
co&tionenrad quam- dam temperiem et mediocritatem
reduci pof- fint, ut mitéfcente eorum
ferocia, autà naturá, autarte a Iv Medic
pelli poflint, exfpectanda om- nino crit
eorum ccncocto, sícque non in princi-
pio » fed in declinatione érunt vacuandi . 49. Qi 'dunvi Is autem eorum Opinlonern
recee Purvatia perimus, quiin peftein princ pio humores effe
v4//2a ;» purgandos cenfüerunt veré
cathartico medicà- peffe sem mento,
inter quos diximus fuiffe Ar abes; et in- c?veziit. ter hos Zoarem,;&
Avertocm: ; 'ecipi tamen ho- rum duc rum op nio non debet, qui validiffiinis
utendum, et calidiffimis medicamentis cenfie-
runt. Nam Avenzoar 3. 7 be; "JIr.cap.4. commen- dat medicamentum ex
ev phorbio, et aliud ex fimo colunibino,::Aver.veró
2.Colleél. Cochias ]4 exhibet .
Mediocria enim,necimpense calida, potius
in ufum duci debent, tum fimplicia; tum
compofita ; in quibus etiamfi ícammonn nonni- hil excipiatur ;adeó tamen aiiis
ingredientibus orrigitur,ut ad mediocritatem
reducatur. Stibii vi- $0. Vitrum ftüibii
; quod tà »ntopere : probatur mm in
aliquibus, nullo modo admitti debet ; quód ve-
p«fte P*[f nenatà fuà qualitate majorem in humoribus in- 0471 . ducat malignit atem,& ferociam;
tum quod ex- perientià compertum fit ;
infcliciffimo eventu omnes in bac noftrà
idi e: qui confilio Em- a ne um eo ufi
funt; ad unum interiüiffe. . Neq;
tamens ego fum, qui multotutr. goeerroe
crrorem fequar ;utrumque hoc vui magnum
auxiliumin pefte, ut &i in reliquis fe-
purgatio, bribus putridis,cxe 'rcenüum; cüm Hippocrates e fangui altero folüm- utendum fuadeat
aliquando ; ali- nii mif. quando autem
utroque; aliquandoauté neutro . Suderum
$2; Sudorümjn verá pefte, peftilentibüfque
provota- etiam aliis feb ribus promo tio, frnaturà duce fu tio i» j*- (cepta fuerit ut tuta eft, et perplacet;
ita difpli- fte: M cecomnino cüm natvra
prorfus defes, inérfq ue» ^/P2P4/7
wullatenus munere (uo fungitur, videtürque»
ii malo prope fu iccu mbere. Intempeftiva enim» et audax
nimiüm efteorum curatio, qui miferos
zorotantes fruítra fatigant, alias excitatis toto corpore fudo ribus; aliasadhibitis
cucurbitulis ; aliove quovis ezeeza e
:x9y auxiliorum genere; quód aliud nihil
facia int, quam inaniter egrotan tium
corpora vexare;incertámq; pro certà cura-
tionem füfcipere:; que omnia ocioforum funt homiPefe jte
vantib. femper co tem
i]lum gradum putredinis;ac ad exftineuen1 ! E
ma m "Y. hominum,atque vires, valetudinem,vitámque alienam pro nihilo habentium. Quantumvis 191turro buftz fuerinta erotantium vires,
num- quam admittenda füdorifera hacab
initio cre- diderim, nec Medicus
Galenicus sumquamJma- Smudores $
turabit exp xilfionem per cutimtentare,exfpecta 7efzequa bit potius,dum aliquid ipfa perfe natura
molia- 4o promo- tür,animadvertétque
curiosé;quorfüm ipfa ver- vendi gat,
quàve parte infenfz mareriz quarat exitü,
alioqu 1 naturz motus antevertere, incerta pro certis ageredi;contraria moliri, et ab
incepto re- vocare,non fine vite
difcrimine poffet: quinimó, ne ftatim
quidem per eas partes cevacuare debet,
féd folum ubi imperfecté operetur natura. ] heriaca, et Mithridatica ma ignacom-
TLeriaca pofitio, ut femper,
nifiautaftusineens autin i» peffe. cem
pore;aut in corpore fuerit;ad p refe rvandas quado uté corpora à pel íteà me commendantur; ita
procà- 47 et quo den Pn dà nonita
frequens earum ufus effe modo, ien
poteft: quamvis enim ad cohibendum excellen- reis Triend&. dam^4 virulentiam convenirent ; fi tamen
ardens éebris (iib fit;a ftüfq; maxim
"E humoribus, et Ccorpore,non ita
tutó concedi poffunt, ne, dum.
venenoobfiftimus, ita febrilem calorem aucea- mus, ut vel ex eo folo mors ipfa AQOISAGRIP
S À
Iquacumque vcró de causà mors fübfequatur;idé cít. Obfervandui n Igitur erit, "PN
valeat bilis kin COI orgia eique putre
do illi virulenta fit Iiconcitata,
przftare femper, poftpofità Thcria-
lica. et Mesià ficcifa; antidotis iUis, C&fclls ut), used DRE c Ft ah ma P str rre i iy i om aue
T Mace Lapillorz jrecioforz
uus 6d s 0mmmino ve gtciendas,
nrc paf- Mim yu* fit, Yecipiendus. Pulvtfen
loru» CAaY d acoyz117») ^ f. aJ p
8$[us ocu eibis y fed 14210 YLo
224€ bo re e CipleAus .
quz refrigerandi ; et fiecandi facultate, preter alexiphar macam, prædita f unt, ut acido
citri, la- pide Bezahar,margaritissX
fimilibus. $1ve cro, quod in plurimis
obfervaviscalor £ebrilis fit nu-
tis.nulloq; mmodoaftuans peccétque aut pitui- tajaut melancholia,in iífq; cóceptà
potiffimum fit putredo,vir üfque inde en
aftatur;tutó et The riacà, et Mithridatica
compofitione, et fimili- bus antidotis
uti licebit ; quibus etfi calor febri-
Iis nonnihil adaugeatur, major tamen erit ex i]- lorum ufü utilitas, tum in evincendà vi
veneni illius, tum in attenuandaà
materià;, &cad cuum, temi ; $4. Vt lapillis preciofis,& gemimis non
om- nino fidem detraho,
Sapphiro,Smaragdo,Hya- cintho, &c.
quód multis, et magni quidem no- minis
viris eorum ufus receptus fit, &in multis; et magnis antidotis receptas.ilfas íciam,ut
in. electuario de zemmis dicto, et alioà
Concilia- tore nomen fortito;ita nec
eifdem mudltü tribuo; ob eas rationes,
quz à doctiffimo lo. Bapt iftà Svluatico,
primo Medicine Profeffore in Aca- demià
Tícine enfi,amico fingulari ; inlibro huic
rei dicato propofitz funt . fos
Si quandotatnen in ufüm Medicum dv-
cendi funt, communis error erit fugiendus ne ante cibum immediaté ejufmodi pulvifculi
ex- hibeantur, ut nec marearitarum: ex
illis enum» cibo commixtis cementum
quoddam obftructio nibus e1enendis
aptiffimu m 1n ftemacho eene- ratur.
Preftabit igitur ; fi modo iis uti volue ri-
mus, € et - m mMENEEEE TALL 2 P GÀ
mnÜáPmÜP pe mus, 1mmediaté ante
dulcoratas potiones ; aut fullatitios
liquores, fummo manéfolitos propi-
hari;illos concedere. 56. Auri
ufus et ad ADIHERTOCROTOM et adatra- Aaturi ufus pllarios affectus antiquis et recentioribus
com- Pres lai mendatur,quoód, citm
fpiritus recteet;cot, nobi- 447dns.
uffimum vifcus,robora ire poteft: neq; enim Det- [enil opinionem recipio, qui non nifi in
aureà IM lexandrinà rec: ntiorum Græcorum
ant!do to, D. n fecipi, aut pro »poni
afferit ; cum alioqui I Nicandet;an
tiquiffin nus et Poet a,& Medi- rus,
auro peros affum pto in alexiphartnacis vta
tur; et Diofc. [;b. $.c. 69. de ateento vivo;auri li- atam fcobem mirabili effe aüxilio fcribat.
Mo- T lis Veró, quo uti oportet, eft,
vel eo i tenuiffi- 4^" E fii -
"d es affumé niim pollinem redacto)
et comminuüto; hoc p4- j ni tto: Defæcatifffmum,&
puriffimum autum eli- mal : featur, et coptufüm
tn foliorum form3, aquà ro- jaccà
afpersa, fub Porphyrire, aut matmore, ad
pinimenti inftar redieatur. Sunt etiam,qui Pan- Phonicos ducatos;u itpote ex purior e anro;
fub la- Pide piclorum [xvieatos quàm
tenuiffimé acci- pant. Alnafperolinteo
condnué affricant, et E s ;in quà
defcéndat. Quód fi I. hymicà indufttià
in liquorem fólvatur, modó Wimis 1eneas
in (d non habeat partes, fortaffe ts 3
commehdari poffet : $7. Stultum veró, meà fententia, eft, aureas T UE -Bionera s,annulos JAUT ca .tenas Intra
capones, ju- Wrula;aut ftillatiti s
liquores;aliofve quofvis co- eà teræ;
J[uere ; cum in his nihil aliud abfumatvr,; quàm. món: multa$, ^ net aí $,
Ex avfent co placéta pro corde
in pefle de tefland«. incequere, multarum manuum fudor
adharens;nihil enim abfardi. ponderi
penitüs detrahitur poft illorum elixa-
tionem : necetiam quidquam aurum aqua im- primat, nec etiam faporem, odorem,
aliüdveo adjiciat.TE 58. Placentas Iacobi Carpenfis ex
arfenici cryftallini partibus duabus; unà autem
parte» rubri, ex albumine ovi,&
tragacanthz mucagi- ne exceptis, quas
facculo fericeo, aut ex aliqua
tenuiffimz texturz materia obvolutas,& cordis rceioni appofitas, anosà contagii labe
immu- nes, omninogq; illzfíos fervare ;
«eris vcro ad fa- ]utem magnum momentum
attuliffe;creditu m. eft; neq; recipio,
et longa experientià in noftra, hac
peftilentià doctus omnino rejiciendas con-
fulo: neq; enim experientia ; cuiii tantopere in- nitebantur, pollicitis refpondit ; quinimo
gra- viffima aliquibus fymptomata
induxerunt,ut in aliquibus etiam mortem
preci piti quodam im- petu concicarint.
Vidimus fervos ; quiin magno illo D.
Gregorii Valetudinario ægris; et infectis
hoc morbo operam navabant, et Chirurgos hac placentáalioqui munitos;brevi fatis
conceffifíes, quinimó multos vi hujus
remedii 1n graviaad- có fymptomata,
animi deliquia, fyncopales fe- bres,
tremores cordis incidiffe obfervatum eft »
utfe per illud vim peftis effugiffe fomniarent in vehementiora fortaffe accidentia, et mortem ex remedio incidiffe certó cognoverint.
Multáq; exempla in hac noftrà peftilentià afferrezs] poffem,nifi et ratio ipfa 1d perfuaderet:nó
enimesp qucd M ! S
Ami Joiha CJ PP, 1 $t. Huod aliqui
afferunt, conferre poterunt ; quód
arfenicum occultiore vi venenis tamquam vene- num obfiftat, cüm arfenicum non occultiore vi, fed corrofione conftet effe lethiferum. Ex
quo etiam colligitur ; nullam eorum
efferationem, Qui cà ratione afferunt
conferre, quód cor in pe- ite primo
affici folitum, veneno fenfim affuefa-
rlat, undenec tam repente, nec fine negotio po- teft ceca, violentáq; pernicie corripi; cüm
ratio nzcnulla fit; quód et experientiam
habeatad- yerfantem, nec arfenicum
hocmodo inter venc- 14 connu merari
poffit. $9. In variolis,. et morbiilis
curandis, cüm Jecoctum lentium,
paffimapud Medicos AraLentiz de €ockur
t2 »esmaximé commendatum, etiam apud
mul- see, ge os in ufum veniat; cum
abuftm potiüs illum €^ ia vaenfeam,
hocloco nonab re effe credidi, etiam *ielis, ip;- iujus erroris inrer medicas 1ftas Cautiones
me- prebad . Ipiniffe. Arabesiegitut
omnes fcriptores, inter [uos precipui R
hafis 18. Coztinentis, € 10. ad
IMlman[orem cap.18. et Avic.4.
Cant. cap. de cu- Wizndis variolis. ad
materiam ad ctim ex pellen- 'Mam,&
ad evocandas variolas;ex lentibus folis, I ex rifdem, lacchà, caricis,
tragacátho,& hu- qiifimodi, decoctum
parabát.ídque cetera omnia irefidia ad hoc munus obeundü parata
füpera- PÍcripferunt; quo etiam multi ex
recentioribus à peftiferis, et pefülentibus
febribus ad mate- iam ad cutim
propulfandam;acad fuüdores per- novendos
paffim uti folent : Verüm non fatis et Wpo conjicere poffum ; quà ratione lenres
aut I
fudcres Lentium qu ilita-
Ie5. fudores promovere poffint;aut invariolis; pefte, peftilentibüfye febribus concedi ; nam fi
earum naturam recté confideremus;eas
mali effe fucci ; atque melancholicum
fanguinem generare dice mus;inactivis
qualitatibus mediam, in paffivis ficcam
temperiem in fecundo. gradu foruri ; 1n»
fecundis veró qualitatibus varias ; imo contra- rias habere facultates: nam primà earum
adhuc integrarum, et non deglubitarum
elixatione cie ri alvus folet;quód in
extimá füperficie virtus fit:
irritandi;& deturbandialvum;cüm é contrà ite- rata decoctio, aut tota comefta alyum
adftrin- gat;unáq; opera collectos in
ventriculo, et inte ftinisfuccos ficcet,ur que vires corticis internass et integram lentium fubftantiam reciptat ;
que vim habent
adftringentem;vehemenuus tamen lensin
cibo fumpta fimul cum cortice adftrin-
citminus veró decorticata, Hzc funt, quz de» lentium naturà ex Galeno, Gracis, et Maurita- nis fcriptoribus colligere potui . Galenus
quide 3 frmpl. cap-1 5,9. eju]dæm
cap.de..Lente.1.de com- pof
omedic-local.cap.8.1.de alim.cap-1.C7 1 8.2.e]u[- dem cap. X8. 44. $. 1n 6. Epid. 33» 1. de
vitu tit acut. Com. . 4. eju[dem y cap.
4: C lib. de [alub. Diata.cap.de
Leute... Oribaf, 2. Synopf.cap. 1-7 1.
Collell. cap.17. et A€t.lib. 1.cap.de Lente.Pau- Yus; /ib. 2." lib. 7.cap.de Lente, et Actuat, lib. de [pivit. animal. nutrit. cap.5.Hos
fecuti funt: f. in omnibus. Arabes,
praterquàm in tempera»: mento, quod
frigidum, et ficcum ftatuunt » for». taíffe Hippocratis fententiam
fecuti,6..Epid. Sets. f j: LX TTA
[- tex. 33. ubiléntem frieidiffimum cibum fta- iuit; quà inte étiám à -Galeno eo loco
arguitur Hippocrates; quód in àctivis
qualitatibus mce- lium tenereindé
collisendum fir, quód et et ad-
tringenre,& (olvente facuftatefit pr&dita;cüm llioqui duplici ratione frigidum cibum
confti- 'uere potuerit Hippocrates: Primó,
quód cim. tdftringens fit facultas in
pluribus partibus, et n majori mole
fiibftanue,mæis frie1du m ci- pum poteft
conftituere : quód fi poucnes é.con- rà
ex lente factàs confideremus, quz folvunt,
primam nempe jill: im càctionem validiüs cale- acere dicemus,quà àm fecunda refrigeret;
quód Qualirates calidæ facilius in aquá
exciplantur, juàám que
terrenefürit;& frieide:Sect e for- C
frigk dit ffimam ftatuit lenteim Hipp. non ratio- e qualitatum primarum fed quód, cum hu
imo- em, et fanguinem proeignant
relancholicum, dam.qt latenuscibi funt,
frieidiffimzx dici po- I. erunt,squod
fuccum produc: ant 1n noftro cor- pore
friaidii (umum. Qus .cümita fint de puru-
imis, e fecundis lentium qua htatibus ftatuta,, lon video.quomodo Mauriranorum
fententia, lhacin re admitti poffit. Nam
fi primumeorum Wilecoctum, non
delibratis iis; pra beamus;.cüm. iklvum
moveat, potiüs à peripherià ad centrum.
numores trahemus.,. Quód fi decorticatas, ut JA vic.jubet.imponamus;cüm tale decoctum
va- jenter alvum füpprimat, atque
fanouinem me- lancholicum reddat
valentérque adftringat, at- Ijue
obftruat;maximé tragacantho X caricis admixtis, quando ad cutim perfudores, vel
aliquo.| alio modo humotes virulentos expellere queat4 non fatis intelligo, cüm auftera qualitas, quæ
im. lente perfentitur, etiam Galeno tefte 1.4/77. 18. interreà maximé parte
Confiftat,ex Gal. $.de |.,
fimapl.medic.facul.cap.26.V nde adftringen tüiqua- |." litate et obítructiones augebit; et craffitiem
hu- morum, qui ex eà generantur,
magisimpinget. jj Pratereà, fi crafsum,
et melancholicum fuccum cenerat, fi flatulenta eft, et eà ratione fzpenu- meró morbos comitiales excitat ; ad quid 1n
pe- fte convenire ullus umquam affirmare
audebit ? Quá ratione etiam ex tragacantho,&
lacchà de- coctum, aut fvrupus ab Avic.
paratus ad materias ad cutim propellendas,
1n., variolisrejici debet, quód hu- mores noxios potiüs intüs obfepiat, quàm foras expellat, et cor- poris po-
ros obftruat, non. laxet . gud,
3E d , «ll Animadverfionum, et Cautionum Me. dicarum,
9S 1 X d. V. C ontinerts eas, Qua; 4d 200r bos part: culares E capite ad
membra. naturalia pertinent . e A UG PR LG
vOSQT E: ld lt Ne d De dolore Capitis. actu frivida efle de bent L Oxyrbods
natn capi N capitis dolore, ab
zftu,.Sole, tis dolere iene, et fimilibus,
curando, cüm prosit ima oxyrhodina in
ufüm veniant, et £'»J^ **
frontalia;illa femper magis laudan ^
' tur,quz ex alto dela pfa füper fütu-
ram corona lem decidunt, maximé fi ad intern cerebrum intem peries pervenerit; quz
zft alto deci- Ant»
Oxyrbedt 4» pis appli- AlC cata ze frc Ce Iu 47 ec 2. In u(dem ftupis;vel duplicatis linteolis
ap- «x cif K ynaterta
mpplicen- $4r» Oxyrbod:
sis narco fica vix admi[cen
dla » NartoticA 8 Capitis
dolore vo- ? 2;€ doloris 20 adbibe
dla. fed ali quado vo- ne vigilia
THU. INarcoricA 3m dolere
capitisper fe per os zon a[fa-
geuda. Infigaiter vefrigerau
da44C4 puta non fear. plicandis,caveant.ne craffiores
applicentur, aut exficcarz parri-nimis
adhareants conttariuimL enimeffectum
pariunt excalefaciendo;& infen-
fibilemevaporationem prohibendo.
3. Oxyrhodinis narcotica non mifceantur ; vel leviora : frontalibus autem etiam
valentiora miíceri poffunt;ad cerebrum
enim vix,& refra- &à vi per
hanc. partem perveniunt ; per illam
veró, futurà viam prabente ; integrisviribusad cerebrum pervadunt . Quinimó in
oxyrhodinis,& fimilibus,num- quam
narcotica admifcenda effe cenfeo ratione»
dolorum.fed cim vigiliz inde fuccedant;undes maxime vires collabafcunt ;in ufum
aliquando venire poffunt ; íed tamen
futuris autznulla, aut debilia applicari
debent, fed fronti potius, et temporibus.
$. Multoque minüs fomnifera hzc per os
erunt fümenda,in intemperie calidà fine mate- rià,ratione doloris,càm inde nullum vite
impen deat periculum. nec ullus fibi ob
capitis dolore manus intulerit, téfte
Galeno, ut ex aurium, et oculorum dolore
;'ob diuturnas tamen vigilias fumi
poterunt. 6. Animadvertendum
autem;aliqua effe cor- pora ;'quorum
cerebrum ferre non poteft ufum
infieniter refrigeratium;Pueri, ob exceffum huet miditatis,ne
congeletur;autincraffetur;indéque in
morbos comitiales;& fimiles incidant, tum et ob fübtile nimium craniü: fenes, ob
imminutum calorem, et excrementorum
copiam: mu liczes molles; ANIM
ADVERS. molles; et candidze:& qui
cararrhis fzpé tentan- tur,& qui
laxas nimiü habétfuturas,ex us funt. 7.
Aceti pars in doloribus mitigandis cx in-
temperie calidà fine materià.non major fit quar acerrimum continebit ., Oleumitidem rofatum
in eo dolore cali- do;ex olivis maturis
fitne fi ex acerbis fit, cutim et,ac
difflatnionem impediat, potiffimum cüm
revulfione non egeamus, nullà affiuente»
materià; in tali enim cafu omphacino uti licet . Sitoleumrofatum eoanno paratum oleum fit ejufdem anni :illud. quidem, ne
rofa- rum vis refrigerans
exfolvatur;hocautem,ne ex vetuftate
calorem contrahat r1. In dolore capitis
à frigidà materià, qua ad mitiorem
reddendum dolorem applicantur ; non fint
foetentia;2ravíve odore przdita; reple-
re enim craffis vaporibus cerebrum folent, et dolores augere . 2. Indoloribus capiüs ex morbo Gallico, errhinorum ufus nullus fit: five enim ex bile
fit ; five ex pituità putri,ulcerain
penitioribus nafi partibus ex iis
excitantur, et fubinde offium nafi
COIrru pt lOoncs. . Inacutis
febribus; LIB. FT. n tà;cüm nullus hic fit ufus. repulfionis
;fed ad re- frigerandum addatur, et ad
penetrauonem, jus levis portio
fufficiet, cum «& calida in eo
partes reperiantur. $.
Obidacetum ne potentiffimo vino,igneas
enim multas partes fic Anh ah, op
SERES LO, ando vehementiítK a fimi fit, neg; ex Dolete £x
fite ex t5 téberie ca lida, acete
porto im exyrhbodi- 2i$ fat par
va. AAcetd 19
oxyrbodi- no quale CO veni.
Dolore ta- pits ex in téberte Ca^
ltda, olesi ofatum ft £X 0lí-
Vl 5 VIAL Yi$. Ole us vo fatum
fnt Yeceo 5 » NO foeten
ua fint, quá capit applican-
Iu. Errbina
perniciofa 17; dolorib. capins ex
"iorbo Gsllica. I )i ii . A44 gapitis; et
xebemetif fimis,im- 9ninente
erif, fu- sieda ve- pellentia .
Grifi im- tnpinente, quando à
capite re- peliendá e pilsle ca-
" ^ puta: es 4 i 4:24 r4 ]
GBA e M aflzeato yia q4AD-
dono con codenda. Errbina,
€ feauia8torta snala lakun Soo
rx por A. 10113 FILAS
L2 ; fimi dolores capitis
füperyenetint pulfaüles, cü rubore
faciei, non ftatim oxyrhodinis repellen-
tibus utédum, potiffimüm fi fie his coctionis prz- fentibus: fepe enim füperveniunt inftante
crifi» et faneuinis é naribus profluvio proficuo ;
quo in cafifi
infrigidátibusrepellatur,optimo ope- re
naturzinm € aut augefcit morbus, aut 1n
cerebro firmatur materia, et cerebri mofbos 1n- vincibiles Spe 14. Quód fi enam crifis i eat dolore» magno füperveniente, fed non ges
fanguinem nariun fed per vomitum, ems
quomodo di Íícer natur, ex lib. de Cf.
colliei p tei ; tancrepel- lentibus,quin
et adt Lringent abus uti licebic ne» per
vomitum cerebro repleto; dolor per idiopa-
thiam reddatur. 15. Non
recipienda eft communis multorum
confüetudo, piluJas ad humores à capite t: rahen- dos inftitutas exhibentium ftatim à coenà :
aut enim cibos corrumpunt, aut illorum
vis retun- ditur,aut fimul cum cibo é
ventriculo eft fuo fruftrantur. Praftat
igitur aut incen cedere, aut fummo ma
iné exhibere, fo autalterà horá
concetfo. . Si dolor capitis fit à bile, vel àferofo hu- more calido, et falfo; tenuíque, mafticatoria
fu- ROT erunt ; pcr 1culum enim umminet
;ina pulmones v ica influxa;aut phthifes
p Adel cat, aut pu Imonum alia vitia. 17. Siitem oculi imbecilles fint,'&
fluxióotüi- bus obnoxii. errhina ; et fternutatoria
fugienda in ie ? j11 fine latis C con-
mno una e** h AAA
ym TO 11
bmi vv et : DEÆ
NUM. ANLM.ADVERS.. Incontumacibus,& diuturnis doloribus; y«frcztie tbi non cederent aliis& potentibus quidem
re- optima; e£ mediis,antiqul et Greci&
Arabesad puftulan- capit ap
tia,rubificantia,& dropaces,fi inapifmofve attra- p'icatasm : 1 hentes confugicbant, ut ab internis evocarent
vthemer dir. "vt tiffimis do ta(íam materiam, atq; attenuatam
perinfenfiloribus £5» bilem ev
aporationcm evacuarent:fed cim cutis ubt
capitis craffior fit,c quàm ut liberum humori adi- am tum concedat, ncque ulla fenfü patens fiat
eva- cuatio himorum,.eco fzepiffimé
expertus fr m., pra ft: ure derafis cap
illis vefican itiamponereaut pa rü«
lolenti,auttcti etiam Capiti ; fic enimat-
Lracta ad exterpa materia evacu res f maxime ea,quz tenuior eft, et calida, et acris; vix
enims, etiamfi ciuturnus dclor à craísà
materià fiat, fie- i potefl DUEV
chementa dolorisadfit;nifi portio aliqua
illius humoris fitadmixta . De
Phrenitide. I; Dhbreneti- I9 Ixin pbrerindelenienti perosaffumen ^.
i à MCL$ flattors TOP T ! * cL » p " V RE L y. do;ad detu rban« 2 €3 (crementa, in. en
imr tr1Culo, et primis venis
exiftentia, primà die lo- dæ cus datur,
fed mclli clvfinate injecto, fi ejus eniá
commoditas deti r,m ittendus eft (anevis, fedà in brachio venà : cüm enim influxus jam
defie- Faut majori ex E factus fit,
fruítra hocau- Vosa lum tentamiüs Dbrenett^
20. Caveautem,ne in Trollani et alicrvm. cis fribra errorem Incida iS,
Qui cüm ob maniacos motus «ebio sez
fàncuin iem e brachio detrabere pDequeunt,ve- feri 54 I
Y» 4 na itte em qam RENE IDSU,. dotdncap
M ei poteit,
noh fecam 8a eft ea, quainfio
18. Pbhrenett- €i5 SAgHIS
non mitte dus ad a- ntmi ufa5
gdoliquil In frontis vena fec
da blandé gula aá- f Y27 41v s
Aut brevt z82p0Y€ . Pbrenetiz
€is, CHCHY bitulis ap 4 E -
politis, qud fa&iendum . In
bbrep huy T1 si run Ho
LVD. SEPT ALII MEDIOL. ram
frontis fecánt; fi enim copia adfit fanguinis
in láborante ; ut in hujufmodi morbo majoriex parte cóntitigit;tantumabeft,ut laboranti
opem feras, ut potius ; atttacto ad
partem laborantem fanguinesmorbum
ádaugeas: revellendus jeitur potiüis,
atr fcarificatis cucurbitulis ;aüt ; quód
melius effet,venis fedis apertis.
ii. Néqué etiam iri Hioc cafü ad animi ufque deliquium mittendus eft fanguis, quod
pleriíq; placuiffe video; quód; cüm
repellentibus friei- dis ab initio
etiam ufi fimus, refrieerato toto;
ac à capite rettactoadeó multofanguine
calido;fe- penuimeró aut phrenitis
hectica inducatur cura- tu impoffibilis,
aut lerhareus fübfequatur . 23; In venà
frontis fecanda adftrictio illa gu-
[z?*, quz fit, ut vena intumefcat, aut non multum fit violenta, aut quim breviffimo tempore
per- fidiatur ; ne quodammodo ad füperna
repulfo fanguine, ubiad' cerebrum et meninges
perve- nerit, morbum adauceat, aut fané,
eodem in- cratffato,eunderm mætis
contumacem efficiat . 25. Cucurbitula,
qti breemati,fronti,& re- liquis
capitis partibus ; poft evacuatum corpus
afficuntiir,ad extrà trahendam matetiam, aren- tes non fint et cum flammà, fed ex aquá
calida; nec loneiori tempore hereant ;
et fi fübjacens parsin rüborem abierit,
leviter eamfcarificabi- mus ; fin minüs,
fpongiis exaquà tepente fub- ftratum, et
elevatum locum fovebrmus. 24.
Cavendumin hoc morbo, ne in eorum.
errorem incidamus; quiab initio non effe purgandum cenfent, fed ex
(pectand am effe coctio- nem,maturatio
enim putredinem jam factam.
fupponit,quam corrigat; quo in tempore ; facto dum ab
£2ttio, C q440t23080» jam apoftemate, morbus evinci vix poteft:
eo- dem igitur,vela idtero die pu
irgandá, vel ex Hip- pocratis przcepto;
4. Z4pbor.10.
imminet enimu periculum,ne tota 1lla
effrenis materia fein par- tem
laborantem effundat t,apoftema perficiat
t; et vires profternat. Neque tamen crudam
evacua- bii fade cei us preceptum
Hippocratis. 1. 4- 22. ve] enim turgens
erit, vel nondum putefadta; fic nec cruda fanguini admixta bibsin- tra propria conceptacula adhuc confiftens,
ut fecidle Hippocratem videmus 2. acur.
16. cm fluentem humorem ad plevram
ftatim ab initio medicameto purée
fubduxit;tamquam non- aut crudum, fed
coctum. In iis, du 1alv o duzioti funt;
R habarbaro non ita facilé utendum: fi
enim fimul cum biles effervefcentem m:
1e1s bilem red- eredi ay rnis
partibus;ob igneas pat- t:& ob hanc
unam caufam dum ) putridun non edu CItUr, tes,communicari Avic. ?ranaà cato aut fex fcammonii
medi- 1ndidifle in ph: quidauid dicant Grz- culi quidam, acriores Mauritanorum
Íctipto- rum reprehenf. res. camentis ex R habarbar: carandaà cenféndum eft, 26. Quamwvis in hoc omnes feré
conveniànt, fimpliciter refrio
erantil bus primá tantüm dic Eur ipifaébeiiepus a fime et par bus,f. PIRE repellenti- 1n utrepella-
ris, et influétium
Rbabarbs rii tn phre auide ia
ii54H dis riorz funt ALUO 422003
maltum im ufum ducendd o
Solis repeb lentibus Aliqua do
Sotds 775 eSI pt iit "NE
-U humorum temperetur; dolor
fedetur;& affiictee arti robur
addatur, fequentibus veró diebus
mifcenda effe aliqua refolventia ; fepiffimée ta- men aliter faciendum effe,quód urgeant in
aug- mentoadceó fymptomata, etus,
dolor;vigilia- et mania, ut frieidiffima
etiam progreffu tem- poris in ufum duci
debean t, Aretzus admonuit . In phrene
.. Cavendum tamen, ne nimis affidue iis
fiis nón. utamur frigidiffimis;aut narcoticis:tiam dicebat dintis fri Aver.3. Colle£l.3. caput tutó
calefit ; at non citra gi [imis pericula
refrigeratur ; periculum enim impen-
utendum. det,ne quem dormire volumus, poftea excitare non poflimus, ut ait Celfus:fepé enimain
lethar- eum calamitofimabire folet;ex
folà mala cura- tione phrenitidis. ultraprin epum $
Q PE 3 . » Á Eu * 28. Intop icis, etfi acetum 1n aliqua perucne get admifcere expediat,ut et refrigeret
repellat, et md penetrationcm adjuvet ;
neque tamen multum plicaydi «
admifcendum eft,ne ficcauone vigilias ccncitcts
neque acrius, quod calide partes,& ficca ni- mium pravaleant . Acetiloco ;:.29: Nequetamen placet, quod à
plerifque» in oxyrbo ICCi pitur,ut aceti
loco, acido citri; aut limonum dinis
aci- Atamursnimiüm enim adftringit; et ob acerbas, d& citri, terreftréfq; partes neq;
pervadio neq; admifto- vel l.mo- rum
penetrationem adjuvat : quinimó externos
nem uo» wiestüs conftringendo,refolutionem humoris 1n indendli ^ Jis temporibus omnino
impediet. F 22i DNI",
E ibd » 4 TN "c De. Lethargo. v M
MA . lfiinlethargo.fi perfe, et cum febrefu-
ropa gi- pervenerit, fanguinis evacuatio
per fe-. eis quado PEétam 1n brachio
venam, viribus cenfenuenti- fecanda f
bus cmnino conveniat ; fi tamen, quod fxpius vez2 e: l'evenit ; vel ad conunuamn febrem
fübfequatur ; qu ádo n llvel ad
phrenitim firpé etiam male curatam,
lomittendam ceníco, neq; fclum dejcétarum vi- Irium ratione, fed ob materiam potiflimum
à put. e fejunétam . . S1 hecexerceri nequ cato bal ]UamcCaU-
(uen Ma: n ". apn it tamen repletu
mfi t et nonnihilfían- ;4là in le-
lleuinis a« Im ixtum cognoveris, cucurb iru ]leino ££ me ufum venire poterurt,nontamen dcrío, et hu-
quado » Irmeris, aut fie bis, ut Md ain
vifum eft,fed licanda, li lateribus
potiüs pone aures; prope venas
applicitz: illa enim fübtilem, m: iie ; fluxilem lian: guinem trahentes, rebellem maois, et frioi- bdam, difficiliüfq; diffolubilem red lent in
cere- bro contentam materiam . Quód f €
proximic ribus eo auxilio eamdeim talos
ARCEM Jumpactz etiam frigide materie
aliquam à cerc- -Biorevelferni IS
portionem. Eir32 C avendum maximé, ne ab
initio h iujus ilimorbi ad excitandum à
fomno fternutatoriis Iiramur;ex intempeftivo enim hujufmodi remc- d1o mæis funditu Ir materia, m. igifque
fubinde ;, 5ri»c;- limpingitur ; unde et
ccntv max mcrbus fit ma- pio 10 » [Ei nn .pople xlv fequuntur. Errbine-
fs . Errhina in veternooptima funt; in iis ta-
pw» Afni» men Stermuta-
fortis 20: utendum A IM ee os oir M : gum Tm
m Er E i LetLavgi- cis vepelle
3i barc applican- d&; et [ane «d[trin-
gentibus. Vefrcatia 25 letbar-
g^ opti- 722,0 qui bus parti-
bus appli€22da»s Memoria deperdita
vemedia 3200» seper calida, fed
varianda, P YOvart - tate Catifa
Y 4777. 6 r$4. men, qui
longocollofünt, et angufto pectore ; uno
verbo dicamsqui proni funt ad phrhifim, et qui fepé morbis oculorum tentantur, in ufum
traduci non debent . Inrepellentibus
applicandis ; quz non nifi ab initio, et
etiam non fumme frigida admi- niftranda
fünt, adftringentium ufas omnino 1n-
terdicatur, ne et craffior pars huraoris 1nfluxa-» reddatur, et ejufdem evacuatio,quz per
infenfi- biles meatus fit;
impediatur. 3$. Dropaces,X finapifini,
utin ufüm venire debentad attenuandam
materiam,eámq; à cen- tto ad
circumferentiam attrahendam : ita vefi-
cantia mæis coràmendari debent,tum fcapulis, et humeris appofita, ad extrahendamà
cerebro pituitam,& aqueum humorem
irrigantern;tum derafo capite
vertici,& fuper füturanrcoronale.
De Cautionibus in la[a, aut deperdztasmemoria curanda. "T. Icet abolita;aut imminuta memoria A, folamfrigidam intemperiem referri vie
B deatur à Gal. 2. de fyzapt. caufis, .
(e 3.dc.2 loc. affeél. 4. $* s.cüm tamen
frigiditas hec non- jum numquá vera fit
cerebri intemperies frigida fim-. I plex
fine materià;aliquando veró cum materià [1
potiffimüm pituita ; aliquando veró ex defectu ||. caloris parti infixi,aut fpirituum à corde
immif. . f forum,& hoc caufas quàm
plurimas omnino in- Bii ter fe
diftinctas,quin et fpe contrarias habeat :
utà fümmo externo frigore ambientis, fric iditatem
pofitivaminducente;autab externo calo-
re,innatüm caloreém,& fpiritus;unde pars vivés calefcit;abfumente: in hoc morbo curando
pro- catarticas, et mediatas caufas
Medici animad vertere debebunt ; nec
femper medicamentis. niant,
càmoblivionem producit frigida mate- ra
fimilem in cerebro inte emperiem introduces
Vbi veró fimplex fuerit intempeties frieidà, et internis, et externis validé calefacientibus j
et ficcantibus erit agendum. Quod fi non
pofiti- và frieiditatetentantur, fed
défectu caloris in- nati, aut fpirituum
parte frieidà redditi oblivio fequatnr
Loses: intibus fpi iritus uti oportebit :
In remedii ; vero habenda erit ratio caufze ante- cedentis;cüm enim hac aliquando calida
fuerit, bt 1][o, cujus meminit Galenis, qui cüm ve colendis vitibus diutiüs füb Sole
conttitiffet, inedia ufus effet, in hunc
affectum incidet: at; in conflatore
vaforum vitreorum, qüi ex fi ith 1- cis immenfo caloré memoriá amife 'fat;qui,
cüm !in eo Medici calidisutereritur, et imo
rbus in de- Ecerius rueret,embrochis fr
igidis ; Capiti à mme ap phatis, ed
Irt1o 3t!ol )e ex dec IS ju o frigido fadi à.
D. cibis
optimé fanevinem,& fpiritus inftauran-
s,ad fanitatem eft reftitutus. In aiidBiéer n, I 1 O pA) Jeruinin mé? norie deperdi tione m
nC] - Iderat.folüm cenfirmatoantmo, 3€
fpiritibus vi- o « ais Optimi fici
inftaur 4tl$ ; CUFAC1O perfecte Ia
memo"1A deper- purgantib us
curationem uitio, aut caput- dita curd
purgis, fternutatc riis, errhinis, mafticatoriis 4a rar? utentur,cüm hiec folüm in ufum commodé ve-.
*vænat;o eff.
Opus in COTHA:0 fis, primis
diebus ma lé oleum cbamame
linum cx aceto Ab- plicatur.
Comato[is fométa cx oleis nen
£sto adbtQe D» f a6 eftadimpleta. Non igitur íemper purgan- tibus, non femper cáput purgantibus, non
iem- per excalefacienubus utendum erit
in curanda . Hors memorià aut abolità;aut diminutà . In Comates
C fopovo[ts affcétibus « m N.
iisaffectibus,ubi aliunde ad cerebrum
delatisaut craffis vaporibus, aut ferofis humoribus affectiones ez excitentur;non
veren- dus eftufus oxyrhodini ; neq;
ftatim ad calefa- cientia et interna, et
externa crit deveniendum; quinimó aceti
quantitas eft augenda, vel dupli-
candaadoleumrofatum completum,vel ex Avi- cenne et R bafis fententià,ad diem ufq;
tertiam: quin et acriori in iis 2Ceto
utendum eft,ut citra tefrigerationem
validius repellere poffit. Neq; placet
Poffidonii fententia ab Actio relata, qui
primisillis diebus chamemelino ex aceto uteba- tur;cüm ab initio repelléda fola fint
adhibenda, non autem diaphorcticis fit
utendum, fed poft- quàm affluxerit
materia ; quo etiam tempore 4 la addi
debent valentiora,difcutienti,& ficcan
LECCE e M u facultate prædita, ut caftoreum, abrotanu
mos;
lavendula;ferpillum;verbenaca;& fimilia . LI . . In.topicis 1n hoc morbo applicandis,
non Med. ^an
[Tu $5 « 1Cacodlis,quia humectatio fiepé actualis ex
ole mbrochis quandoque vincit virtutem
med n
eó tutus eft ufus fomentorum ex oleis; aut de-... E Eu
imentorum incoctorum, nifi validà facultate £:c24 cante predita fint;qualibus etiamfi utamur,
peu- qe ló poft 4 D57 I[ó poft lineo;aut cannabino panno caput erit
ab- (tereendum. dn Pervigilio y[tve vieiliayuz ex 'ce[fa
. Y N narcoticorum exhibendorum hcrá eli cenda
E- S0nminui fa cüm diflideant
inter fe ferip tOres, "a qua bo
aliis poft cbum é ventriculolapfum, &anteex- ra exhiIhibiuonem
alterius per "bus; alus cum cær ;
aliis veró poft coenam per 'lhoram.
Egofic cenfeo ; fi ex fomniferis fucrit
'Iwehementioribus, quale eft Philonium utrum- Ique;& recens T heriaca, pizftabit
priorem fen- Ireciam fequi;ne coctio
turbetur, et cibis admix- dra pom Apes
at ' Cüm omnino medica- menti da fi in
iss nullam nütriendi facultatem.
habeant. Sitamen maxime necceflitas üreeat., Etiam à coena per horam concedi po (unt, v
ipo- Aribu: s cibi fa cilius ded
ucentibus vi m íomniferam üd cerebrum:
fic horà fomni P ilulàs ex.cynoglof-
Ilo aliquando propinamus. Si veró fomnifera. Kuerint leviora, aut etiam alimenti aliquid
con- Mineant;aut cum:cibo:exbiberi potfu
unt, ut emul- IMBiones feminum papaveris
albi ex aquà lactuca,
Iiolarum,nenufaris, et fimili m,.thvrfi latucze ffaccharo conditi; autfanc à ceená per horam,ut |lyru pus de papavere,.de nymp Pha ex aqua
la- jd tucz:fic enim blanda illa cf
fftumatio ex cibo Foi Wata nidiori illi, et aliquo modo fr ig1dz
ad- à fiepenumet 'ó fomnum con o «mm: ^deratas 1llas vigilias ex fumidà, et t CX h d
tres horas concedenti- 2ez4a. exhalatione productas; aut
ex calidà et ficcà ce rebri intemperie
factas demulcet, et íomnuma convenientem
introducit . 40. Quotidianus tamen, et frequentior
illo- rü nfüs,nifi nimius partis Caior
id perfuadeat;fuSomifz- rortt Af45 frequéenor. eendus eft ; ne, dum cerebro
fuccurrere tenta- efft i02 4€ ius; et illius
fymptomati;aut contrarium. introedis ducamus affectum;aut ventriculi coctionem
im- PR minuamus. 6- . b f^ f
T n 41. Pueris parce admodum formnifera hec per os funt concedenda; rariüs fortaffe
valentio- a;folent enim quam» ra extrinfecus applicand maximé memoriam labefactare. 42. Non priüs inanito corpore;aut repleto
ni- mium capite;nó funtinufimm ducéda:
contuma- vationem Ineptos » ya parcins
$n pueris 2n ufu "m ducenda.
Somnuife- ya repeeto corporeo, cesenim humores; et ad evac aut copi" peros fiexhibeantur, omnino
reddunt ; fi veró: ,00» ^^
capitiapponantur. in comatofos affectus &gros minjir9 deducunt. somnife-
VA d et - - f Mee) blanda evaporatione
cibi meliüs officium iuum la * : ^ »
E 43. Átenul admodum cænà exhobeantur; ut! complere quean parcat
mole obtruatur. Narcotica o
non Hàáda jn princi-
turalis;atq; impeditur, ne calor fecbrilis quam- pio pire- primümex pandatur. xy[mi í
"ode t:ita tamen ne aut coctio ci-j
poff c0 A. que Pepe : Y bi
impediatur à frigiditate, aut vis remedii ài
44. Cave; nein principio paroxyfmi narcoti-JsT! oss " «^v . A 0^ E ; ca exhibeas;ex iis enim fæpe fuffocatur calor
na-4 In Coneelatione . . T IN
catalepfi; five congelatione, cüm vi- r» carale- AA. deam Praécticos omnes ftatim abinitio ca-
;// coz- lefacientibus et ficcantibus uti;in errore«eos cmc- zs. cal;- :[ nes verfari exiftimo : cm enim in iis
peccetma- Za ipea teria melancholica, ab eàque morbus is produ- 5?furen- '| catur;fi in principio; et auemento morbi
calidis ^* |iis impense,« ficcis utemur,craffior
reddetur ;'| materia, ficcior, et ad
diffolutionem InCptior ; 'J pre ftabit
igitur calidis temperate uti ; ac hume- Cctantibus, ut materia attenuetur,
fluxilis redda- tur, ad evacuationem magis apta, quin ut per -J fenfum effugientem evaporationem difcuti ;
et TJ evacuari queat; progrefTu quidem
tempcris cali- diora adhiberi poterunt ; ad rcliquias materiz abfumendas,& intemperiem à parte
auferendá. [99 quet 4: In catale. 46. In topicisitidem remediisinchoclocoace
5,7 7^ i; eÍ ns. : bft aceti tumnullibi 1n ufum veniat; tumne pauciquifü- : cet : j ]4g1e7»da., 'J| perfunt ; fpiritusexfunguantur ; tum
.ctiam, ne ifatri humoris ficcitas, et acoradaugeatur. In Vertigiæ . i47. T Llud folum in hoc
morbo curando obfer- Veytigino A vandum,
cavendum cenfeo;cüm ex hu- 55,7,
immoribus in cerebro contentis elevati va pores,& tatorias cin jexhalationes inotdinato motu, et in eyrum
cied- capurpur ftur;fternutatoria non
effe in ufim ducenda, ne- gia fagiz- que
valenda illa per nares attracta caputpurgiaz da. quamvis enim aliqua materig pars
educatur, xr1*3^ iIVII
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fymptoma tamen fepe jJ E aceto;aut finapi;aut fucco ruta perfric: augetur, concitatur ma- .x motu fübito materie morbus isine
piutatur. In Epilepfia . acet,quod [, "Ntempore paroxyfmi non pl tif
Pu paffim à plurimis fieri video, qui fta 4
VU. corpus concutiunt,quin
etiam ipfum caput : fe- u ad
numreróenim magis recurrit ex eo mot
pe lus perdurat 1nobftruendum
materia, et di vafio. 49. Fugiant etiam, et omnino caveant, ne
; dum.turpitudinem faciei, et diftorfionem,
ac fpumaumjoccultare tentant, capite, et
facie pan- no cooperta, refpiratione liberà impedità, zeros füffocent.
$o. Cave nein paroxyfmo vomitum provo-
ces ; vidienim aliquos in invafione hocrentan- tes,ftriptorum quorumdam auctoritate
ductos; przcipitem in mortem :egros
duxiffe:ex violen- |, to enim illo motu,
magis repleto capite, ac con--| citatà
materià in cerebro exiftéte, ad perfectam
cbftructionem faciendam deducunt, unde apo--,.i plexia fequi folet . «1. Vt mirificé placet in principlo
patoxy--], finiori aliquid, et mediis
dentibus indere ; ttj: hiansos effe
poffit, ne lingua intercidatur; fpu--].
ma educi poffit, et palatum realiquà attenuan-], te, puta, Mithridaticá compofitione, caftoreo
exu, " iti poffit; ita
1f ut Fw
"RT iE E us Je VÍA ita lignum folidius 1mmittere nonita
tutum eft, Í» penumeró enim inde excifos
dentes vidi. Pte- ftatigitur facculum ex
corio,vel ex craffioti telá, repletum.
atrenuantibus multis, et validioribus
quidem, finapi, evphorbio, caftoreo, rutà, aut ejus femine, et fimilibus, ita parare, ut
illius vi- ces.poffit fupplere : fic
enim et voti noftri com- potes reddemur
fine illo periculo, et morbo ad-
verfabimur. In brafei- $2. In prefervatione ab hoc morbo;hzc fitin-
vatieze. fecandà venà cauti
j»fiinftentacceffiones,nifiex 4^ epile-
fu pprefíis menftruis ;aut hzmorrhoidibusori- P qu o)nem morbus fumat m uttendus erit faneuis ex
gum bra- venis brachii (fs veró femel
aut iterum, vere, vel. ^^"? » e
iutumfo fipervenire foleant ; aut. hax motrhoides,aut menfes fint
fuppretfi, fecanda erit veria ; in
talo. aud s
lud. quádo cx talo f^x-
gai ?21Íf- tendus. $i ex aurà virulentà aliunde elevatà-ad.
rpilepti- mel morbus fiat; nifi infignis
plethoraid «iex an-
perfuadeat,mittifanguisnon d debebir. ra tieva- $4. Cüm plerofq; videam; Aretzo,& Ttvieen
fa » o0 nà duce,in-przcavend æpilepfià
validiffimisuri "7742s medicamentis
purgantibus, tum per vomitum, / "£5
tum per feceffüm ; ; egó longa experientà doctus Lys profiteorme numquam morbum hunc, in quo- quam per proprium cerebri affectum producti
HAPE validiorib jus vomitoriis curáàtum
vidiffe fed ex... :o 11s omnes ad
deteriórem ftatum deductos:valc: üora
autem per feceffi e cducentia aliqua:
proi "u flec bfíerv AVl, nod ónon lta B EE uium ducta fuerint; à frequentiori epim
eorum A CLLA L ufu,
. L/D. SEPT ALII MEDIOL.
ufiexhauftis fpiritibus animalibus,a poplexiz facpé concirantur . n yeéicia $5. 1n
confirmata epilepfià per proprium ce- in
capire rebriaffectum, fi quis derafis capillis, veficanti- eptimum. bus peruniverfumcaput utatuf, atque
ad peri- epilepfie pheriam humores virulentos trahat, diutius
ul- setsedié - cufculis cuam capitis
infeftantibus relictis, ut perlongum
tempus ferofiilli humores per ulcu-
Ícula emanent, optime curationem irftituet ; contumaciffimos enim capitis morbos
hujuífmo- diratione ctiam curatos
vidimus. In poplexia. Ataplecii 56- Vamvis excrementis
alvorefertà, non eis flatim fit
evacuandus fanguis. perfectam ve-
voittédus nam, ne ad venas crudi humores trafanguis. hantur;in apoplexià
tamen, cum ex niorà confir- metüur
morbus, quamprimüm fecare venam ex-
pedit, fi abundetfanguis, aut rnixtus fit fan cuini humormorbum faciens. Apopleti
$7. Quin fiindicatiofecandz venzadfit;pre- cis repeti- (abit repetitóid agere: fic enim
neque refrige- £o [215 cA bitur
corpus;aut vires imbecilles reddentur,&
mitius. id obtinebimus» quod maximé exoptat Actius; nempe,materiam morbificam commovebimus. ;8. Concudiatur/ blandé corpus,
perfricetur ^osdun Calidis, et potiffimumbrachium,
unde educen- 25 pof; dus eft fanguis, ut
et revellatur, et áttenuetur, emdum quicraffior perfe eft,& factusex
refrigeratnione zu. adhuccraffior, facilius effluere poflit
. |. $9. Neq; Ap oplecii
£s COnCL- Neq; vulnus anguítum fiat quod aliqui- bus placet, uit motus diuriüs perduret, fed
latum fieri dcbet; nam craffior cüm fit
(anguis, ftatim, quafi reftagnat. 60. Venamifrontis aut pone aures ftatim
ab Initio fecare quod aliquibus placet,
ut quampri- mum prafto fimus, non eft
conveniens, nifi pra- cetTerio
univerfalis evàcuatiosfaltem per quatuor
horas;admitti ramen aliquando poteritfi pletho rà non adfit, et aliqua fübfit fanguinis
copia in, capire. que tamen duas non
admittat fanguinis cyacuationes;. 61. In cucurbitulis in hoc morbo affigendis cauto fit, ne parti pofteriori thoracis
applicen- tur, ne rcfpiratio umpediatur
fed lumbis, bra- chiis,&
fcapulis,quin et occipitio,& jugularibus
quandoque venis. fed poíftalias ;& tuncomnino Ícarificare cutem fübjectam expedit. 62. Inligaturis-dolorificis non diutiüs
perfi- endum,ne pars gangrznam
incurrat; fed partes modo ftringantur,
modo laxentur,;precepto Ávi- cene,ut et major
fiat revulfio, et motus humoris. 63.
Cauterium in commitfurà coronali, quod
laudat Actus, et alii, nó anvltüm probatur,quód przfentaneum pon fit remedium, multáque
alia - ^ E, Á € iam invehat incommoda,
de quibus aliàs . 64. Praítat,
evacuatione factàsneque nimiüm in
exrimis rübefcente parte,cucurbitulam in ver-
tice ponere, et repetere, abrafo capite, vel validum medicamentum
veficas excitans capiti ap-, poncre, L
"A bopledts ct$ dn fec da. vena
vuln? fat ataplum . "A popleckt Cci$ "vena frotis qua
do fecanda . Apoplectz €t CHCHY-
éitula quande,et quomodo
Abplican- da. Apot lecis
Cis lgattt- r& QUALESo Apopleciz
C$ CO MIC Ya? 1 Có mif[ura
coromals nate. Cucurlt-
'ula rs/0 '"titeyvel mie
adpoplect; €i qua quantitas
€byfteriz. In apople-
fitis vo- enitus fu- giendus.
Antiimi- "minuta fa- £UODHHID.
Purgátia frat ex va lentiorib.
Gterzauta- toria qua do adinim
Sranda. Ilo inuduo oibus ab
ipabecillio v btts m "EE
i4 Inclyfmateinjiciendo hzc fit animadver- fio; fiinjiciatur primó ut revellamis, et peralvü fübducamus, ea quantitas erit infundenda,
quie id praftare poffit; et hociis
obfervatis, quz aliás docuimus : fi
veróutinteftina mordicanübus, et valenter excalefacientibus vellicemus, et dolorem
incutiamus in dimidiatà quantitate 1nfundendum erit, ut diutiüs retineatur :
quod fi diu- tius retentum tormina, et inflatimationes
in in-« teftinisexcitet;balano
elicietur. 66. Vonitus fugiendus;tum
quód egerin hoc motu feipfum adjuv are
nefciat ; tum quód, cüm fe erigere
nequeat; potius fuffocar etür;tum quód
in repleto corpore vomitus caput replere folea t. . Sribii igitur ufus 1n hoc morbo,
potiíTi- mümin paroxyftx 10, eft
fugiendus. 69. Sed valentiora tamen
deje dtoriá d: xhiben- da erunt, ut
paucà quantitate affümipta etiam à
longinquis attrahere, et educere poffint. 69. Sternutamenta ut maximé ex ufü
füntin., hoc morbo, et quidem
valenuffima ; ira-non fta-
timadhibenda;nifi priàs corpus fitinanitum .. $i caput. derafum oleis calidis
inungen- dum fit; cautio fit ut à levi
oribus priüs 1ncipia- mus, ad valentiora
progrec lentes . 71. Vt veró diutius hæreant;ceré
aliquid fem- per indendum crit. 72. In merin Chymicà arte in üfam:
duücendis hec fit animadverfio: non
iis folis t tendum efle », fed ipis me
edicatis effe admifcenda : cim enim. ieneà
fubftanua conftent ; 1n fuperficie pofita ftatini "9c on. dc RE d RU
ANIMADEERS:. im diffipantur,& in halitusabeunt;nifi
aéreis,&& 5/7; fj; oleaginofis
quafi lieentur; ac coérceantur . In
Paralyft . Pf. fed. oleis zneédicatis
VAIXTA e ] 73 ]Ifi monet Avicennas, quem omnes fe-
7^fare^quuntur recentiores, in paralyfi in prin- ^ efle
purgandi um, n ifi tranfactà quartà.;
aut feptima. et netunc qu cos. validioribus me- dicamentis, quod etiam cipionon c habet verit cítn )ateria rs (lefacta,
Iancas;cgt. 4- M VE TENUIT
L] dicis in ads 4 promoventibu d fudcres movent, de e $9.85 -
ha P X l 111 uberiorem bum bhuncvrinis rerentén 11 »^,
ki 7 ; rt ptrs- exío) naptibusin deterius rvei é ficra-qucouc edi tím. mon vePe* A PEE tCnll lléXiolUutaà à Pa
iltis, fudoribus autem : Queda
m ! *noc et i €1l í Q4 d res ;craíffior mæis C1
"Iles. 5 cum UID lo obfervatum vi1- demus; jdtai nen,mée A (ententià; perpetuam
non, : fv enim primà ipsà die
accerfi- tus Medicus fv ici m nondum
nervis impacta adhucin motu eft;dum
nondum ;] otf Litmateriam
quamprimum. e medicamento fatis va ve
ai IC. Atu b )LJà m firmata f alvum fubduce- It; perfectéque obítru- ctionem 1 (€CETA; priüsattenuanda erit, et prapa- àm evacbetur.
us comm ittiti r error paffimà Me-
urandà,c um cmuffis urinam. lea
rromptiüs accedüno; quz coctum
Guatiati 'etia1n .Sarza pari- p nea artificia» alioqui
eS 27 Nace wer doit InOr-,& ebundé pro- cónfcrtim. ma- A » a
crat- autem parte callefcat, cxaf fiot
f quando ab initio purga o
Paralyti- €i$ fndors fera inu-
ülta. roe LAYGUfI-
jv, C5 dl ren i Paralyti-
eis oleav$ fyeri ex oleis nimiümrcalidisj& ficcis,faltem folis; ?i$ Cali-
dn mala. Olea ff:i- sata
fola éputilia. Paralti-
g1$ vera 115 utilia. Paralyti- :
€i vubif- €atia qu do conve-
PIAB? . Rubifican Ha guo ufque cuis
adbarere debeant . Paralyti-
eis cuctur- àiule u:r56 D. fior
reddatur;magisobftruat;atq; difficilior red-
datur ad motum;& ad'evacuatióoriem .
7$. Quà etiam ratione inunctioncs non debent periculum enim impendet;ne materia nervis
ad- hietens nimis exficcetur,& la
pidéfcat: quarellis femper pinguia
mifceri debent; unde edat vis ignea
illorum coercebitur;re exhalet, et diutius
adhzrefcent, neque titium exficcando contu- maciorem morbum reddent . 76. Vtin paralyfi curandà aliquando
vefican- tia; poftuniverfum corpüs'
evacuatum, fca apuhs, aut
brachusapplicat? debent, ut materia à cere-
bro,& principio fpinalis ad extetna attracta eva- cuetur;ita rubificantia folüm poft illa&
t progxef- fü temporis ( Avicennas
trieinta poft dies iis uti- tür ) fpinz
dorfi applicare convenit, tim ut reli-
quias materia extrà vocemus
fpiritus 1terum in partem revocerütus, ut ea revifaneuinémque dod 7. Cavendum tamen tenc, re rvbificantia
e e adhareant, vt veficas, aut puftulas
1n cure indc cant;fic enim fpirittisa d
partém non revoca- rentur;fed
diffolverentur: có vfque foitur finapi-
fint, dropacéfvectti adhærere
quamdiu rubida pars prefía d1eito not
fcd robida perfeverát. 78.
Cucurbitularutmufaüm quàm maximé com
mendat Avicennas' poft ex purgatum corpus, ca- pitibus mufculorum partis
labcrantisápplicitaé permittendi fint, n
albefat, &,qui,- rum
finefcarificatione;nen quidem ad extrahendam
."E 4 LOT oe Jnireda, o eas aa SER: intus eos f nnm ANIMADFERS.]. :3€7 ; dam materiam
morbificam, ut cénfuit Geritilis, dot: qus
fcd ad evocandos fpiritusad pártem fere demor- texas ap- tuam:quod ut obtinere poffimus,
animadverten-P/ieanda - dum, cucurbitulas
angufti oris effe debere, cima multo
igne effe applicandas, ac divtiüs non effe,,
permittendum ut adhzreant;ne diffolvatur quod ab iis eft attractum. De C onvulftone ..
. Y N fpaífmo; motu irruentis materize ceffan- Wie : v . es CHC
tc, ut cucurbitulze mediis mufculis affixze, ^4 rhitie p ome "- la quado, et fcarificatz extra ufi m funt ; ita cavendum
eft, ubi af 3e f£nibhns mufz Wr "n
! -- 5 bnious muículorum ubi tendines
funt, affi plicabdá. gantur. $c. Addit Aretzus, in illarum applicatione.»
e 15], Cucurbi parce ttammam excitari debere;nam que à
lab cucurbitz fit
compreffio.dcloris,conv auctcr efTe
folet:molliüsi adhareant. FIS (ule i
ulfionifque jj; fms gitur
trahant; et diutiüs qZo zppl;-
canda. 81. Cavendumetiam, ne pars
fübjecta; detra- Ceci Cus
cucurbitulissfrigore tentetur; pars enim rare- '/!!s faé- facta facile frigido a£re admiffo riecret.
latiss p^ $2. Cuftodiendzautem quàm
maximé ab am- ^um biente frigido partes,
que calidis balneis pro- visis xime
1mmcrfe fucrint ; qug perfricatz, quaii
gatz,que deniq; dropacibus,fina pifmis;aliífve » ingeniis ad ruborem deductz, au nes calr-
t quovis modo 4j, foe rarefacta;
quód nervis frioidit aS fit 1nimica,
ma- zz. £eriamq; convulfionem facientem
craflefaciat. $3. Quapropter etiam
fupervenierte füdore» ossis L. 4 cb
dofe fador.fu pervene- rit, quid
agendum. LVD. SEPT.ALII
7MEDIOL. ob doloris vehementiam ;
maxime obfervandum erit ; ne mador ille
adhæreat ; néve frigefcat, fed omnino
abftergendus erit ; fed ne rneatus 2 aperü
frigiditatem admittat ; Béve effluens fudor virtutem exfolvat ; calente
aliquooleo partes erunt MelZcho- licis :pur-
gantia li- quida ma gis conve
9UADE S Cuando "altéAus
fangnis 5, et qua do fappri-
auendmus, f(E9A JE54, ttnhá .
delinienda blandé. In AM
elanchelia . Vamvisnon negandum fit,in hoc mor-
bomedicamenta, qux exhiberi debent
ad evacuandum humorem, füb quà-
cumque forma concedi pofle ; veriffimum tamen 94.
-eft;fi liquida gunntegekuss multó magis utilia effe;necin omhibus ufum
pilularum admitti poffe, Ob ficcitatem
melancholie; quamvis contumacia materiz
ad eas nos revocet : nam robuftius agunt
combinatà vi,diutiüfque in ventriculo hzrent; et vehementiüsà capite prolectant . 8:. In miffione fanguinis per fcétam
venam, quamvis fciam, plerofque Galeni
au&toritate in- nixos hac uti
diftinctione, üt viribus confentien-
tibus, et morbo masno facto, fecetur vena, « fi ater fanguis effiüat;educatiür ad debitam
quanti- tatem ; fin fübtilis, et rubens
; ubiad tres uncias effuxerit; fu
pprimatur: petpetuo tamen ho cfer-
vandum non eft; aliquando enim aliquà datà oc- cafione, cüm ca perit morbus 1: sin cerebro ;
opti- mo fanguine exficcato, fiin
univerfo ab undave- rit fanguis, et torofz
fuerint venz, (aneuífque in iis nüllam
conceperit labem,;fed copi fc làm pec-
cet MÓ M -ANIM.ADFERS. FT. T cet, fecanda quidem ierit vena, et fanguis,ctiamfi fübtilis, et rubens effluat,omnino in
debità quai titate erit evacuándus, ut
revellat à ca Dite, 1m- pediatur, quó
minüsin nleram bilem vertatur, aut
melancholefcat. Galeniieiturfentengia ve- « "P € ra erit ; ubi non adfint fiena verz plethorz
;tunc D Y, enim pro revulfione expedit
fecare venam, et f1* n iorum cundi
videris nus,Cümin venis mænis í abundare nierum fanguinen n viderimus,cfflu
cre finemus; fir veró fübulem, et rubrum,
fiflemus : quod p« otiüs: i ptus fit
imclancholicum fanguinem in fupernis
exiftentem attemperare, et ad benionain naturam revocare, QCoffa 7 r
D Ss $474 U y Leute ru ED D e 2 Y eR ET iunt 56. Foramen tàmen femper amn»lurm fit, ut, fi, i i CIS
nA210»T2c* In craffum faneuiném
incidamu: s,prompte efflue L3rbabess
mw». cH i Ab. re pofht;neque
tumor circa fciffuram excitetur. Jit ampla.
M e OW *K»TS P T714 ^ y ad. 3 m
957. Admonendus etiam eft venifeca, ut difle- Fzz4547 A5 ven: TP 1113313 7? 3 ^ * lc la f 1^1
T Veto v wap Y incutu 111 mi iquai [a im
ud AVL ;Lh€ Crai- vintuli $ fioris fanguinis
effufio impediatur. incifa ve- 24,0
me hne f ÆS 2L antLeli- In Epipboi A "IZ C6 p10J0 ad oculos bur
u22101- lancholi "hn . * 4/4 ATtflt1 4 C$ e Li ^ 3
Au LJ PUER MMPEAMCTOCNGI TEMOR b
epibbo- $8. Vamvis, cumocculi fluxibus
humorum. p? f fle : " cenfherir
Cial D 2 4 fA0Culort -4, tententur,
cenfherit Galenus nmm 6.2d- qni,
"we Db0or. 21. Efi 13« AM eb. tilt. ob ad- t "mn " X ) X FIDUS tete) bd d^ 2d dd d í AAA VA-LL4t wr LER,
NEIDRU- ftrinzenuum ufo effe abfipendum
; 1n epiphoráa gz As uet y ". : I E
ED tamen multoófecus faciendum docet;
poufimu "1 -- ^ TR we ^A^31 E
" Mood 441 EU in Lema
Oo:cumenimailiuxus nuimorls iit €exC» uy).
P Re 014115, Ct" In fluxio et materia in Intimioribus
recipiatur,& ab exter--| sibus alii;
nà tunica quodammodo repellatur.aut faltem abi]
ad oculos cà nonadmittatur, cui aqua ex rubi fümmitati- abitinen- bus, ex foliis teneris quercüs, ex
fragis, et (imili--| dum 45 ' bus, vel
compofitis, aut ferrata convenit :at ad--|
«dri»? ftringens ficcitas numquam admitti debet, ubi]. QÓAS. C
conmimaciorem et folutu difficiliorem efficiunt affectum, et fiepé etiam actioni visüs non
leve af- ferunt detrimentum. 99. Notant recentiores viri doctiffimi, et poft multiplici experientiàà me comprobatum eft,
in i Via 9laucis ocu l1s,ubi etiam vene
ampla confpiciun- agbla i, ; 'ü f
mitioribus remediis agendum effe, quod forG'anmcis 1 "Herila, affe magis fint pervii. agendum.90. Mafticatotiis,&a
pophleegmatifmis uten- In epiplo dum.eft
potius, quàm errhinis ; quæ tamen pro-
va errbi- grediente morbo, et frieidà affluente materià, ?5 ra^ modo validiora non fuerint, in ufim
aliquando venire poterunt: fic enim
averfio materie fietà æatibus canthorim
oculi ad nafüm. 91. À fternutatoriis
cujufcumque eeneris o- mninoabftinédum:
impetu enim propulfa mate- cul»us LTiàà
Cerebro per nares, et pereofdem meatusa
poii; f, 9010s promovetur,& ab internis, et meatus ma- gis aperiuntur, *,
247 t2au» SK FA dita- dPor:a $9 v
gten ida» - humiditas ad
internas tunicas, et intra corpus; p^"
T A In Opbtbalmia. . Y N. muliebris lactis ex uberibus
recenter emuléti;aut ftillaa ufüad
demvlcendum. vehementiffimum oculi
dolorem, ut principem, ; locum inter hujufinodi prefidia femper
obtinuit; ita cautio adhibenda;ne eadem
lactis portio diu- tius parti àdlizreat:
fepé enimab zftucc rromp- tur, et à
vehementi calore oculi acrimoniam ccn-
Cipit;abítercenda Icitur blandé eric, aut novo la- Cte afperfo fn bluenda. 93. Opiinfusin inflammatis ocvlis neque
fre- quens fiGneque multus:quamvis enim
ip eo prz- valeat refrieerand! vis,cüm
tamen amarotis non- nihil habeat, fepé
mordet, et dolorem adauget. Qiód fi ex
longiori morà prevalente frieiditate fenfus torpefcit ; et fübinde dolor
imnünaüitur, tum et per frigiditatem temperatur zítus,craffe- facto tamen affluxo humore contumacior
reddi- tir morbus, curatüque difficilior
; tim et visüs actio hebetior fit, vt
etiam Galenus cbfervavit, 3- Meth. med.
c. 2. GO" 2. de compo[. med. fecundum
Mocz; c.1. 94. Obquasetiam caufss rejicieb IAM etb.med. ult. ea,quæ vehementer Jeuamfirefrigerent, et re Imibus oculorum,utaca t'Gat. J
rineunt, ellantin
inflammatioad [0 I ciam,
et hvpocyf ^ tin; n6.»
fiuxit,exituü p EN "T (31*5
ITOnlmateria morbifica ; qux eó in
lbeatur. 9$. Et quemadmodum
remedia in hoc morbo ILeni: Ha effe debent;ita ullum lentcrem ha- bere
Laéle ent liebri qua cauttone
utenda us obhtbal- UMA e
(N n TWIA 06H tbalmia Obt! nfus
2e9u fi 4 Lj guens, 25€
Qt mult» $ Is,
Adífrtn- gentia va lid 1 op L thalmia IL. gie da.
Leztortn LabentiA bereoportet, ne pertinaciüsadhzreant, néve,
fiij epbtbal- 2 xulvifculum aliquem ex pompholyge ; Cadmià,
3C IH- esindda plumbo;adjungamus,arefcant,
acrimoniammye.»] vel ex admixtione
acris humoris, et calidi adíci- pun
Allami- fcant: Quare licet albumii naovorum diutiüs cone--jati Poi. quaffata cum aquà rofarum, vel my illnm
Mis fondi va- velfimiliunr, .acípuma
yes atq; iterum detra--] i4 :io, € cZ.
Ca, maxime omnibus pro "bentur, acin ufum du-Joniic qu2 c4- Cantur, cum tamen tenacins, adhereant
;ut huic "pene * . incommodo
occurramus, foleo ego ovum recenssit: ad
duritiem quamdam c3 «coquere, et detractáil
Andes - flavà parte, per expr effionemex albo aquam ex-4» 1 - 4 À trahere et i illà uti cumaliis; aut
fané in loco cavonlile mA UE EV Ta cc
iari albi, tutiz, et aqua rofarum por rtione
P impofità, in modum cementi ; per duplicem pe-tam expref tione fact,
aquam, fuccümve extra-y DESEE o BB li
TRE tisocults fine moleftià, &9
maximo cum. fructu utLfolco . ! pios Cod æreis cum Gal. 1j: ELS ) Emplafi jb onmbd.22. emplaftica um
vimchabentia, et refri- fut eis in eph
cerantia in lHippit udine conyc 'nire., ut diu itzusad- d.) tbalmia Y ereant, loi |gtoríque te porc
refrieerando re-Jio pellant;ubi
potifimim: iit ophthalmia fit ficca «Jio.
aut humor effiuens tenuis;necadharens; ubi vedi rÓ vi dior fit, et mordens, füpcriorem
cautio- nem adl übe bin BIEN FH: a9 Obf: Van zu pratercà, Galenum e
MEM eb nti»dü - AMeib. xit Ad de coni
of. med. lecundum loc... 2 em itpitu
interlenientia do lorem in oculorum infian ^E 3n dine, nog tione, cumalbumineovi,& lacte collocaffe
deco feine. Cur. de xnu iugraci;id veró
plerique Medici paranij ex fek i1 1T S 1
Gianao utendum. 2 x
femine; cüm dn mm id mæis fit ca idv mi,
nuam conveniat in oculo rum inflammatione »; [um calidum in fecundo gradu, et ficcum in
pri- jJmo pofüerit Galenus femen 8. de
fmpl. »td. fa- ^ s.d ind. affumi
ieitur pro parando hoc decocto ad fc7147 YA
Jrendos oculos debebit herba pía, et ejus folia, AS Mond A
ilioqui augebitiir inflammatio.
v 98. Quinimo in illius ufu
hecfit cautio ex Ga- Fzzugrz- enoibiderü,
nein ufüm ducatur, nifi priüs ab- cz a&/sen
uatur diligenter-; ne pulverem admixtum ha- dum ante |beat; femináque etiam erunt excutienda :
sícque 244 Zeco- Iromimunem
errcrem - E^; to 99. Infinita propemodum remedià, aquas; |ptilveres ;&alia; cum videa im&
paflim pro )jpe- 1l 5 et fcrib! ) placet
iili ud h MC pro CaUutloneadnc- i 4ÀAC ; quod 1 Goctrliitno Mercato lib. Iu Jepii: Aii
orb. curasi. c. 30. fcribitur . In oculorem curat M vilia ad- ie animadvertendum, quamvis pluri rima pra
dpieiited lcripra fint remedia
nono '5, àut plurimis j aut femper effe utendum 'Serim boni promut- Jtunt; quàm praftenr, ut a1 G ;alenus . Scio
profe- I5, pl ures inom 'dam cocecit
atem ded " Ctos piles "vo
Í^ p(le copia mdalium um potiüs, quàm
defect tu 3 ex Attn Jnequeunt enim ocoli
; quz. proficua fant, citra: Jdamnum
perferre; ide Le quz inordinate; et ci-
Jtra rationem adhibentur rco.
Iníüuffufione perfectà; quam Cataractam I» eatara barbariappellant; curandà;4 aci removendà,
4a oculi
drautio hzc adfit, ut niinauam tali cutationl ma- 464 rere inum admoveamus,fi tuffi xoer laboret. Si e- ve742 &o. Ph
l1: Planen sleid SZICLA dina stes deed TE PTP RENS. FEET inim acu introducia Íiupervenerit ; perf
rationis $ LESE DCIlCll-
jexicu ide E Go CE "P A E,
x T" ZU cdet ubl CENT AN e
E -m w4Ot-periculum impendet: fi veró tunicula depreffas ju: Bre Ciesa, ex.concuffione veheméa dimota
recurrit »ut WA. - Sternuta-
gneuto 1m pediente ; 90 1705?-
dirtpoji. Catara- éfa, ante-
quam aca cp 1- "TP quid
cavenda. Auribus. fS x
si fim - 2106 labo vYaOAIlibus 'Ui Cone
nin! . ror. Si veró jam
deprefsà fternutamentuma,u( immincre
zger perfenferit; unde aut recursüs pe--$io
riculum immineat, aut inflammatonis in oculo s; «ri fummitate dieit dextré majore oculi angulo
có-- oui preffo, et perfricato,
periculum hoc evitabit im- do pedito
fternutamento.. Quoniamante curationem hanc per acüs fuii Medici fe pius ut periculum faciant, an fatis
in--] i0 craffata fit, ut actioni per
acum factz cedere pa- jeu rata fit fine
ruptura ; digito pupillam compri- Jii
munt;cauté id facere debentne fi valentiüus id fa-. fis: ciant, nimis tuniculam attenuent, facilémq;
red b; dant ad difruptionem. Cautiones ip " MAurium morbis curandis
. N. aurium internà
curandàinflammatio- |». ne, à
repellentibus,& oxyrhodino abfti--
nendum omnino cenfeo ; cüm eniminternarumb. |... cerebri parcum repletarum foboles effe
foleattk c. materia eó detrufa, fi
repellatur ; ad prinapemos.c partem
remeabit,& debrium quandoque pariet, kr...
aliquando
veró alios cerebri affectus... Quód fij...
Galenus,
3. de compo[. med.[ecundum loc.xepellene-... tia, et oxyrliodinum in doloribus
aurium ; et 1n». |. inflammationibus earbimdem
cócedere vifus eft j,5.. id intellizendum potiüs
eft de phlogofi,quàm de:j verà
inflammatione. Si tamen non magna
fuenit;;| atque non multam in
particulà,& cerebro fübeffe:| materiam cognoverimus, repelient ia aliqua
in ifum venire poterunt . 104. Qualiacumque tamen hac fuerint; qu.
5,5475 "lid leniendum dolcrem, et refrigeranduminfun-
44,245 "entur,edamfi xíftus maximus
in parte fue nt, applicita iumquam
frigida appli licari d lebebunt ; nam cuüm a4 æm 'Janguiais fint expertes aures;facile ad fibi
co 'gna- fsat frigi-. " am intemperiem frigidam
flecti poffunt : tepen- 44 3a 1gitur
fenpercum Galeno adhibebusm. "y
tof. Quód fi dolores contigerint à frigidà ma- /?, «urs 'erià partem extendente, qua actu calida
funt, et 4^'»r/óws "potentia omnino
inftillabuntur : fic enim et fri- pu ridam intemp »eriem evincemus, craffam
mate- ume iam magis difcudemus, «
penetrationem adju- lvabimus. Loth
ind 106. Intinnituaurium à lue Venere,
alioqui 4ucezds. paturá fuà rebelli, et vix
fanabili, cauti fint Me- Tionieui lici;
neque vehementioribus remediis utantur : asm
one& enim experientià obfervavi 1ma]jori ex par- f« morbo re;dum tinnitum hujufmodi nimis cbftinaté
evin. G?^"t? rere tentàffent,
omnimodam fürditatem induxif- ""
ie. Siquod autem remedium illi auxilio eft;uri- 1a afini,jn quà per noctem maducrit
lienum. porem X pont] caftorci, et mentaftri
fafci-,,,;,, Ifrulus, diftillata; et auribus
inftil lata,aut per eva- ex »ior£o
"dboratorium excepta ; maxime 1d praftat ; aut Gallico e Apleum Gvajacinum eoffy pio exceptum ;4X
auri- modium. pus bon nó . !
calefaci éra nó ap-
plicanda. It221t43 Canter
CO0YORA li fatuva 1 catarrlEo
Pun. ., j De Catarrhbo. 107 Vamwvis optime fciam ;.ab
aliquibus etiam praftantiffimis in arte
1 medicá viris in catarrho curando
cantera proponi inurc ndaad fituram
coronalem,quo lo» co illi committitur
faoi Ftajits ut et caput expur- ectur ab
excrementis,& ab infernis ad fupernas, et extra corpus cadem revellantur : quoniam
ta- men vix greg poteft, craffiora illa
excrementa» aícendere poffe, afcenfa
vero per futuras permea- rc;
vcrifimilius autem eft, externe producta per
cas deícendere pof dn omnino re ejicienda,& 7 ab ufu inedico repellenda effe videntur ; quod enim
ali- qui (ibi fingunt
tfufpendiyintercipique materiam, ne ad
pectus fiuat, tidia ufum eftzquo modo enim
fufpendi queat ; quod graveeft, nullo retinente ; ne mente quidem concipi poteft: cüm veró
hic neque occlufio adfit vafis sali
icujus $, neque delica- tio, aut CO Vii
lle nc iba mor intercipi dici poteft. At
veró nequetxev d eft,cüm nul- 1a fere
fit diftantia latera í zuleiteg E enim denudato cranto periculum nof : neque derivatio, cum hac adl]. i&t- qiaminniius t cjuseritufus.
Atabufuss]. cognofcat ? ? quis adufto
pericranio fecuritatem.s]
pollicebitur? quis 1nflamm:
interna periculum non vereb! ibi
men ibas T externa cum inter "nis per nervos, "2
D 1 T^ "£/51^*vrnmt c 1^5 (^17
dba venas, perat "V
Ci pericula viíà 2^ doc ntanum.Coz[ilio 36. pro atio nls et externa, Itür;aduíta parteis. eria: sjunguntur ? Atl :2end: met.
io; ob multa» pro Nobili Veronen[e 143.
C" 170. Hieronymum Mércütia lem zz
T omo 3. Con[iliorum; [aptus, 8c poft
omnes Fabium Pacium,z eruait:Jf[imis Com
mentaris in lib. Adetb. med. lib. $. cap. 13. 9 "Appendice ad lib-7.omnino genus hoc
auxilii de- teftatos fuiffe. Ego veró
libere affirmare poí- fum, me
quadraginta horum annorum fpacio s quo
in magnà hac vrbe medicinam facio, nul-
lum ex iis quibus cauterium hoc inuftum eft,vi- diffe à tali remedio adjutum, fe d aliquos
etiam inflammatione in parte excitatà
effe periclita- tos : potiffimüm primis
annisjuventutis mez» quo tempore aliqui
adhuc ex iis vivebant ; qui barbaram
fectantes Medicinam, frequentiüs Catarvbo
senus hocauxilii in ufum ducebant ; fed fübfe- ad pulmo quenti tempore, Medicis fpe fuà feaitlitia
fa. "t5
et tho piüs,exoleícere tandem illud, et pofthaberi
me- 74/0 1r I1to CC pit. Vente s 108. Vbiad pulmones, et thoracem, quin.Mam et ad fauces irruit materia, five tenuis fit,
five lofr, craffa, eargarifmi numquam 1n
ufum veniant ; Gargari- ex motti enim
attracta materia fepe fuffocatio- fmata fa»
nis infert periculum, . Quin et ubi partes fpiritales jam reple- tx funt materià crafsà, à uad abftinen- dum ; cüm non leve inde fuffocationis (ubfit
pe- riculum. IIO. Quód f fi homo tabi; aut afthmati obno- xius fuerit ; idem genus auxilii fugiet. Iri. Solümtuncconvenient;cüm fluens ma- teria acris fuerit ; et autexulcerationisin
parti- bus M
gienda, ve pleto bo- YaCe .
Aft bmati aut tabi chbnoxis
gargorifmmaf fa 451 . Gar, ear
ft ^5 ; eatarrlo. bus gule,aut
aneinz periculum impenderit 5 quádo con
t&ncque et blandé id erit preftandum ; et addi- veniunt - tisrefrigerationi adftringentibus, Catari
Y12. Quoniamaliquos effe fcio, qui, ut con- non [ft^ timacem, et moleftum morbum brevi
tempore di narcc!i (e curate
poffeoftendant, ftatim nullà urgente» 5» ?7^. geceffitate, ad fiftentia.
catarrhum accedunt ; $OAgDA HT nA a 31.5
: TET. d CV. Juste ue Theriacam novam,
Philonium, pilulas ce cy ecffitate.
nogloffo, et fimilia exhibentes; animadverten-
dum erit, iis uti eosnon debere ante humorum expurgationem, et revulfionem;tunc neque
fa- ciléad hzc veniendum, neincratfata
materia, óc refricerata, fi diutiüsin
cerebro contineatur;ce- rebrales aliquos
magni momenti morbos pa- tiat. Ad
earamen erit veniendum, fi eravia ur-
ceantfymptomata, ut fiita effündatur humor in pulmones, ut graviffimam tuffim,
metum. fuffocationis, exulcerationis,
vel rupturz vena, acerrimà viafferat;
tunc enim miffo fanguine, fi opis fit,
vel enamillico, et ante purgationem
fiftere licet hünceffrenem motum. De Zdngina. PM Voniam in hocmmorbo miffionem quii, loboranti dem fanguinis per fectam venam
o--] bus que mnes neceffarium
auxiliumeefle fa--], vna [it tentur,
fed in loco deligendo variàffe video.aliiss],
ficanda. ex brachiis femper emittendum cenfenübus;.f aüctoritate Hipp. 4. de vif. acut. 30. et quodi] fecti$ in brachiis non folum univerfum
corpus:| prom- proniptiüs evacuatur, fed fimul.eiiam non
pa- rum fanguinis à faucibus
revellitur:alus ex par- tibus infernis,
faph hanà, vcl e.- venàtali, quód
fluentem fanguinem in fluxio nis initio non ÍC- lum ad contraria k ci laborantis, fed et fontis transfundentus, «x ad OM i regula à
Galeno tradita revellen dum eíle OQ
(tendant : cum.eitHr laborans pars fit
collum, fons'autem transíun- dens fit
jecur, pracipua íanguinis officina ; fi
fanguinem miíerimus (célis venis 1n brachio, tantum abefi ut ad contraria fanguinem
retra- hamus, ut po ;tiüs ad partem
laborantem av Oce- mus: vena fiquidem
cava indelata in duos ra- mos fcinditur,
levium, &.dexuum, qui in jugu- lares,
et axillares dividuntur: at à jugi axbus
externis lary n91s v afa ortum. ducunt . Sanguine joiturex vei nis brachii tracto, certum eft,
ad v e- ias juguli edam trahi ; sicque
potius morbum. augeri, attract o
fanguine ad laboratem partem, vicinià.,
et inflammatione fanguinem trahente In
hac controverfià ceníco ego,on nnino animad-
vertendum efle, an Corpus mk iximé affiuat fan- cuine,five natur " mies ibanteactam vita
mfive €x folità ali iquà evacti tione
(up p reísà ; tunc enim ce níeo; f
inguinem velex vena pop nus; vel
malleoli effe detrahendum, eàdem autem die, urgente morbo, vel fequenti, Jecoraria, vel
ce- phalica erit fecanda ; et fi non
cefferit morbus, rübor autemadfit
faciei, amp »liüs etiam venicn- dum erit
ad fectionem venarum fub lingua Á Quód
fitanta non premat fanguinis cop la, In-
M a Ltaci1s Mani om M tactis venis inferiorum partium, przftare
credi- derim, ftatim cubiti venas
fecare; moxq; ad fu- pernas incidendas
accedere. Inamgina Repetendaautem et ex brachiis
fangvi laboranti 31s miffio eft ; non
folüm quód mæis revellat; &us iteri-
minüfq; vires debilitet ; fed quód obfervatuum,
da fa? $*i 3t Ce pius ad partem laborantem affluxus novos zismf?- Geri. aut parte aliquà ; ut onere;
quo premitur, levetur, transfundente ;
autob dolorem, et ca- lorem laborante
parte attrahente. . Cümautem aliqui ex
moleftià medica- Wrlires mentorum, aut
quód naturà medicamenta ab- potias dà
horreant, facile medicamen ta evomunt; preftat
da, quà lemper potione uti, quàm bolis ; aut pilulis : fi in folida €nim- contigerit pilulas, aut'bolos
evomi, cm. foma. conferüm, et magno impetu ad anguftias
op- preffi ab inflammatione tranfitüs
propelantur, fuffocationis, et ftrangulationis
periculum non leveafferunt. "ngincfis116. Quiad difcutiendum
ininflammationi- fæculi ex bus. aliarum
partium ex arentibus pulvifculis
difcut:éi parantur facculi ; inanginà numquam in ufim., &ns mali- ducantur, quód denfando
externam cutim po- tiüs curationem
impediant ; humentibus igitur porius eft
agendum. r L) A notpof[rs
De Plevritide. qa slewi-.
Vamyvis in plevritide curandà fectà [ ^
. vide, dolo- venáà,majoriex parte exfpectanda
ve deften- fit coloris in fanguine mutatio, €x Hippocratis et Galeni
precepto; 2.404f.10.mO- dente, $5 .dó
eger ferze poflit ; ficenim et antecedentemo
fa»guizis inflammationis c: .ufam
avertemus, et conjun- miffone ctam
amovebimus; id tamen p erpetuó,autin, 79 e5 exe
qu l'àcumque plevritide obfervandum non eft: fiie aliàs enim docuimus, fervandumid effe;ubive-
"975 pa; quz fecatur, proxima eft
loco affecto : pro- "P! prereà
dolore defcendente, et infimam thoracis
partem cccupante, talis non exfpectatur muta- t10: nam tales partes, ait
Galenus,nutrimentum fuum bauriuntà venà
füb corde ; et cordis par- tes nimiüm
Inaniremus, antequàm fanguinem.
infiammauorem facientem evacuaremus . ! Quin necfemper quidem in
plevritide Neg. viri« partes fu€rnas
occu pante 1v itti eó ufquefan- bus debsli
guis debet, quó coloris in co fiat mutatio : fepe ws enim dum coloris exfpecta mus mutationem,
Vle tales vires concidunt ; nec zger
valebit ea € pe- ctore vacuare, quæ aut
refüd: int, aut diftupta Vomicà in pu
Imones defluxa collecta funt . ; . Etevenit etiam, ut, etiamfi vitales vires
Ne; ime confiftant, non exfpedtari
poffit ulla colorisin, P^per- fanguine
mutatio, fi infederit loco firmiter fan- "!/^"$4- guis, et in denfiorem membranam infederit .
dn . Licet plevritidis curationem primo
ten- tandam docuerit H1pp.2. zest.
fomentis, ut; an iis curari morbus
poffit, tentemus, et dolor miI» blevri- tide foti- |bus quan tefat;idtamen
neque femper, neq; in qui US doueer- plevriuüde, aut in quàlibet corporis
conftitutio- 44, ne,autquovis fctu praftai poteft ; fi enim Jam qwinus morbus auctus cft; aut v ehemens cft
inflamma- M 3 to, CZ
tio. &dolor; zftüfve magnus, aut corpusimul- to fanguine repletum, non alio hujufmodi
re- medio uti licet; quàm aquà repente ;
ne 1na- jor eftus ; dolor ;.aut affluxus
materie ad lo- cum fiat. 2r. Át magni etiam in iis fotibus; qui
ad nzo1 4emulcen dum dolorem in ufum
veniunt ;adhi- x a. bendis cautione opus
eft: fi epim ad fupernas t^, fons DATUES
pertingat ; et verfus claviculam ) dol lor,
ftntbug; €um et materia acrior, et maxime calida effe ; di. foleat; calidis; et humidis actu potius res
crit uanfigenda : fin ad inferna. vereat
dolor,qui Dolore 4; €tiara nonadeó
pungeriseffe folet; quiquencn, Jeendetey
]eveus flatuum copiam adjunétam habet; ficca,
f«ti- . ediaminufüm duci poterunt, et fané commo- dius ; attenuant enim máagis, exficcant, et di2e- runtzex humidis autém attentiatur quiden
)ma- teria, fed crafliores flatus ex
fimili materià exci- tad non 1ta commodé
difcüti folent. Sarculi fo ^ 122.
Sicciii fotus, üt ex i ii lici materia
vétes [jg parari folent; ita ea mæis prefertur, quz levis lv,
lit5 ficmilium ceteris prafert Hippocrates, pa- nicum, furfures, femina,
et flores diftutientes ; : falis autem
etiam portio aliqua ob exficcatio- nem
hcet admifceri aliquando poffit, minus ta-
menilhus addendum. quàm folet, tum ob gra- vitatem, tum ob àcrimoniam. Mirfeeg
123. Quod fi ex fotu etiam dolor mitefcat ; zé dolore, DO proinde tamé ftatim evictum
effe morbum ni flatipg, Cerifendum erit,
aut à eenerofis remediis ceffan-
&[iia- dum,puta.miffione finguinis;fepé enimad pri- mum
Ix plevrt ! M À
bum, paululum etiam tuffis
fuperfit, et corpo- ^7 mee |
risadfitaliqua caliditas quz aliquando magis jr
infcítet ; quamprimum dandam effe operati; ut.que reliqua eft; materia difcutiatur;aut
enim quz relinquuntur recidivas faciunt,
aut ad füup- pes ohem convertuntur.
EU 26. Non fünt hoc loco pretereunda
preftam.,,, [9 iff ma duo remedia, qux
doloribus iis laterali- bs SM UL busadco
uulia effe cognovi, ut multos, qui j jam p, "aflanti PN jam fuffocari videba ntur, ab hujufmodi
pericu- 5»; e lis exemerim, Primum
eft;fi poft miffü i hdariz gi hui A
: mum fotüs blandimentum mitefcit in
phlegmo- 4^» 4 ne dolor, quód pars tenía
laxetur, fed revivifcit veris re- mox
ardentiüs, novà affluxà materià : quare.» mediis. fi et febris, et fpirandi difficultas enam
perfeverent, non erit cunCtandum, fed: affluens ma- teria quamprimum crtit revellenda. I24.
In hoc morbo maxime pleriq; qui Me- Exrerzis
dicinam P rofitentur, arcana remedia promu nt 7o indifiz externa, interna : in externis nullum
committi &e æde. poffe errorem omnes
fibi perfiiadent, unguenta cx dialthaa
fubuli;/butyro veteri,& cumini pul-
vcre patant; alii ex calce, et alus cerata, &cata- plafmata ; alii ex pice, et rebusaliis quàm
plu- rimis calefacienübus, cum
zgrotanuum detri- mento: cavenda hec
maximé erunt, potiffim üm In prin C1p10
; calore enim fluxiones concitant atq;
humores trahunt; alia veró prætereà etiam
Iaxant. 25. Obférvandum prztereà,
quód optimé !»/Ievrisi annotavit
Aretzus, fi poft devictum hunc mor- ^5 relige
M» 4 guinem ouinem exhibuerimus
tres uncias mellis ro f. fo2 lutivi, et tantumdem
butyri recentis ; quód fi etiam
progreffus fuerit moibus ; .diffcile autem
füppuretur ; aut difiuptá vomica «gris pericu- ]umimmineat fuffocaticnis,maximé etiam
cone 2. feret .|In eumdemufi:m
feliciter utor quinque 1! unciis olei
aínvedalaru m recentis, cum uncià . Hil
unaàmannz. |In: eumdem ufüm duco infrà fcri- eu ptum : Recipeoleiolivarum optimi, et maturi unc. viii. aqua fo ntis lib. 11. excoquantur
fimul fine cooperculo.in vafe terreo
vitreato, ad con- fümptionem totius
aque, et póft olei illius unc. vii.
dentur, dolorem mitigat ; fuppuradonems
adjuvat, alvum blande mollit ;acnon ignetcit ; autin bilem vertitur. e Suppuratione . 127. Vn fuppurati ex difruptà vomicà
vix alià vià recté expurgentur, quàm
per gar matis tuffim fcreatu, non
multum fpei in evacua indà siad Mo. €8
materià peralvum reponere debet Medicus;
dice p al- quód ope Medici hoc vix fieri poffit ;. praftat vnm ex-- 1d quandoque natura, quz nobis
incompertas furgari, vlàsinvenit ; et ad
falutem zgri ftruit ; audacis tamen
potius eft officium,cüm non per alias vias
excerni péralvum poffit, quàm per cor, et jecur fibi tranfitum materia parante, quod
periculi plenumnezotiü femper cenfi; ;
fyncopen enim, dum per cor tranfit,
inducere poterit: cüm veró euam
heparattinget, et inteftina, et dyfente-
riam 1» emt" 252416 n0n
n M tiam mordaci vi concitabit ;
et fanguificatrice» hepatis facultate
lzsà hyvdropem faciet. Salu- briter id
quandoque à naturà tentatum fcimus ; id
Arctaus teftatur: et nos in purulento ex plev-
ritide jamjam cx füffocatione moribundo vidi- mus in Mane hoc Valetudinario, qui cüm phlegmone laboraret ; et propemc dum
ftrane eularetur, (isdores: jam frieldi
adeffent, 1ivefce- rent omnia extrema,
po tiffimüm fa cies, fubito alvi flucre
fu perveniente, maximà fanici copià
effusa, brevi rem ipore conval luit:raró jieitur cum id faciat natura, cüm eadem nobis
incoenitas vias fibi ftruat cum p
rxtereà non fit pet loca convenientia,
omnino ncn erit imitanda à Me- dico ;
poti iffimóum quia, fi leviori pureante ute-
mur, noxii nihil evacuabimus; fin validiori, vi- res imbecilles reddemus in qu ibus fclis
falutis fpes pofita eft,ut et ferendo
merbo fintidonez; et materia per tuffim
fcreatu cxpelli fatis poffit. 128.
Perurinam licet; quz 1n th hnic; pul-
monibus continetur materia,difficillimé,& mi- nis tutó educi poffit; promoventibus tamen
lo- tium tutó uti poffumus, ut Í alrem
materia, quz in vomicà adhuccontinetur,
et quz denuó col- z ligitur, per veficam
exccrni poffit :quód fciamus; vená
azygos interdum inferi ramulis arterie aor
tz, interdum ca |vzt vena -bi furcatz ad renes, 1n- terdum vena adipali, vcl em ileentibus,&
prc- ptercà frequentior etiam éft per v
eficam ejuf- modi materic evacuatio, et proinde
etlam 1mi- tanda, cum etiam fit per vias
conv - ntes. 1 Subburæ
tis dinreti cA COvens re foffunt,
e^ CH T» Inuftione; et fectione
faciendiin ems | pyticis hec fit
cautio;ne à ruptione vomice ftatim 1
fiat, fed cum Hipp. zz Coacis pradictionibhs, dif- ferenda erit in decimumquintum diem, ut et materia coctione ulteriori mitefcat magis,
quin ab effaüfione extra locum, ubi:
maturuerat, ite- |]., rum alteretur ; et
ulteriorrcoétione meliorred- | datur;
poft quem diem, fi inuftio facienda, om-
nino maturandum. Placet enrm Oribaf. 9. Sy- nop[eos, cap.3.celeriter evacuandam
effe;neque » multüm cunctandum, ne virescollabafcant;in. quo caf omnino à tali actione abftinendum
eft, ne in ilTud incommodum incidamus,
in quod cam certo mortis periculo
incurrunt, qui in afci te ad feéchionem
numquam veniunt, nifi ceteris remediis
omnibus primüm inüfüm ductis, et ja s
exhauftis,& morte pre foribus ftante.
Supture- jo. In fuppuratis vomitus plenus eft peri- "is vomi- E ;fi enim eodem tempore
vehemens tuffis, i As pericu et exfcre:
andi neceffitas fü perveniat, fimülque 5 |
le[15.. - evomantur impetti multo ex ventriculo cr affio« NT ra, vIX evitari poteft fuffocatio, cc onfpir.
ante ad fuffocationem et efophago, et arterià
af perii tum prztereà, quód conftrictis
mufculis abdo- minis in vomitu, puris
copia multa in pectore » repleto ;magisinteeione venofr ar- teri compulfa, fie pé cor ita füffocat ; ut
ftatim, I, Supfrya. MOYOES fubf fequ:
tuf. ns vsi- «131. Proderiteamen inanem
vomitum etiam. t5 9o 5, d1gito provocare,
non tamen promovere: fic. B vac £l; . €nim
à recs abdominis mufculis ab infernis
parEmpnyc attando nsrédiaut
f'eandi. partibus compreffo diaphragmate, matéria pa- ratior facilius propelletur. In A flimate . C. Vim majorr ex parte.difficultates ez
re- fpirationis à craf:à, et vifcidà
materià in fpirit A s partibus contentà
producantur, f pce 'tlam non leves
errores à Medicis commit- ti fol eant;
dum illam pr reparantes ad evacuatio-
nem attenuantibus valentioribus utontur, et impense calidis;exhaufta enim fi penu imero
pat te tenulori, craflefcunt nimium rel
1Qt ule; Imcr- bum reddunt incurabilem.
Cum ; quod qu: Magi iid arefa- ! €tione
pulmonum fit, coarctatis,8 frin elc- !
bum ductis pulmonum alis, maona d dilisnria
adhibenda erit, ne; dun rattenuare, abftereere, ' 8 et incidere materiam ; quevt plerimüm
ànhe- lationem producere f flet,
tentamus ; ficcitatein parte adducti, 5s
rum1in mortem przcipitem. ldcamus..
Vrinam promoventia tutó in hoc Ibi
senere! in ufum ducin on] li valida |
fucrint ; fiepé enim |[pa rübus, quz
füperfünt Bent Dliorem redd
CUratioi dunt " p UNT TR 2E. I3j Qu: mvis qua in C Imor-
otfunt, po aftimüm acuatis
tenuibus di S
thorace continetur ante
evacuari * XN $ o» arte aliunde,
Catonem atud a € [materia, vix medicamento Nie EH ASIERE U aU t | "^
[UTC poffit; botiffimà m à capite aftu AN
r - I »
!aoH 7^ 1n ff ]ima
te attt-- 214A7111A y e snbe-
se calidas Ala. Aft Lmna-
ticit ficca fa gtt zda, * A
P La. Hct$ diuve HCA724-
'ores reddite.difB. ! ecu
pus Aftbmati [44
is 'iraan 1n J
fum dar4 náA ^ cet, optimum
eritmedicamentis anteceden tem] tti
illam materiamstibi przeparata füerit;evacvare,.t At id in magno paroxyfimo preftare,
periculi: plenum eft negotium
;neautfupervenjente vO-4 mitu eger
fuffocetur, aut dejectis viribus vitali-J te:
bus, animalis, quz per tuffim excernit, fuc--iiur cumbat.
Aflbmatü 136. À vomitoriis, potiffimüm in vehementia eis vomi- fuffocatione, abftinendum erit,
quidquid dicattpu: tus ma. Rhafis
;3mminet enim periculum füffocationissgoi
abfolutz : mirum enim in modum nifus ille pe- Non é&us affligit, metüfq; adeft, ne
materia in cefo-- fimi phagum adducta
afperam arteriam opprimat.. ! . Ius galli veteris ex agarico, fenà, cnicos,
ux; A B bmati eis ius gal adiantho, marrubio, hyffopo,
paffulis, femini-li veri; Uus difcutientibus, duod paffim paratur, et ài malus,r Mauritanis primó inhoc morbo, et colicis
do--| Cur. loribus adeó commendatur,
quodque ab anti-.|. quis, et recentibus
Pragmaticis paffim ufürpa--[i; tur, quod
experientie non correfpondcat, et rain
tioni adver fetur, tamquam noxium re ici edumi eft : cüóm enim fepiüs in
magna hac vrbe à doe... Cu íflimis
Medicis in ufum du ctum cernereimmos, ji
244.5». potiffimum ex defcriptione Benec licti Faventi--fi, Wo niz7 Emptrica ; cüm et ego
aliquotiessirrito fuce-fi. ceffu,in
Tgiiroogs morbis cxhibuiffem.cur fru)
ftraremur noftro £be, indagare cepi ; atque obf multas raticnes cbeffe fzepiüs, prodeffe
vix vm-- p... quam, mihi perfuafi. Ex lonoá enim ebullitio--b.. ne nitroft illa partes, quibus maxime
prodeffe. jus illud. 2alli vetens
crediderunt ; tamquama terreftres fübfident, atque in percolatione reji- "14 cuntur; vifcidz autem, elutinofz,
craffz, tum. et perpingues, excute, pedibus,
alarum extre- rhis mufculofis denique;
-& nervofis partibus promanantes,
maxime remanent. Vnde non. folum non
adjuvabit materiz ex pectore excre-
tionem, fed craffiore, et vifcidiore materià,& antecedente, et conjunctà reddità,contumacio- rem, mæífq; rebellem ad exfcreandum
reddet. Quód fi non juris fübftantiam,
fed qua illi in- | Coquuntur
confideremus,ne fic quidem in hu-
jufmodi morbo cum mult pituitz copià conveÁ /f ", A 4- q n Amiet: qua enim pro folvendà alvoindu
ntur,aga- ES - t'A€71F124 f^ /bxicus, fena, femina carthami, omnino,cüm
pat- "reca iflrmam adnuttante
bullitio nem, vim omnem. ifolvendi
amittunt, ex longà ebullitione ienéis ix
partibus diffolutis ; d ge vero attenuantia etiam qadduntur, ut capillus Veneris,.& alia,
cüm in. gfoperficie vi ires fuas fortita
fint, ex eàdem illas amittunt; alia veró,
ut origanum,.b trys, far- | longà
ebullitione putrilaginofa reddun- (rur,
atque omnino exfolvuntur | 138.
Sudorifera in hocmorbi e enere,qualia ,
AMfunt deco&ta Guajaci, Chinz, Sarza parilie,Sat- S/derezs ?20ventis
Ma fras, ut concedi poffunt in adthzidid ad iine : 2 2 ajE 59a
amendam materiam antecedentem, quin et con- Wi pas junctam; ita maximé cavendum eft;ne1 IDSTUCD-
4,422). Cn dg44240 rc magna fuffocationeinu fum veniant: fu
iffocan EA Eur enim magis ceri, et auctà
neceffitate fpir adi, ec quide quandoq;
magna fequuntur jas ula,& venarü ze;.
lio pulmonibus difruptiones; quin et morsapfa.; p |
139. Cum ro TER ;:9. Cümtamen exficcanti facultate
infigni 4Tbmitt S lleant hec,numquam in
ufum venire debent, 2 je nifiadmixtis
iis quz dulcore et afpera arteriz fera
1n u- a : ij poffint abblandir, et humores
in pectore nit [me pulmonibus .contentos
ad excreuonem qmagis dulcibus.
paratosreddere. | Inparoxyf | 140. In
pazoxyfmo ne medicamento purean-
viopurgas te utantur Medici, ne irruens materia attracta.» zà eff pro vi medicamenti non ad ventriculum,
fed ad lo- pinand - cum 1mbecilliorem;
et folitum, fubitó egruma Inaf bi?
iterimat fuffocando . su nó ve-, ) lay
: 1 to bam I41. Sic quoque eodem tempore
non eft fic- | dion dum á à : ; candum; ne füffocetur zeer; blandiendum enim 4groimpa S asco remporestefte Galeno,quàm
curandü M /me. potiüseo tempore,tefte
Galeno,quam curandu.. Inparoxyf |. 142
Quin neclyftetibus quidem tunc locus m
afib-. eft: neque enim proftratis injici poteft citra fuf- stis ne focationis periculum « | elyfterib. 143. Vomitus etiam;ut diximus, eo
tempore3 quid u- evitandus ; neque enim
materia 1n fpiritalibus zndam. contenta
evacuabitur,fed quz in ventriculo;quq
Nec v?! cm per cefophagum
vi expellitur, ita arteriamg a £u uéd-
o (eram comprimit, ut füffocet .
Non[upi- . Eodemtempore füpinus vitetur decu. 2us ia- bitus; nam;utait
Aretzus;ftraneulatonis peri« €tat culum
affert . Nonfricà o X45 Fricatio etiam
pectoris codem tempore dé pecias, Omnino
fugien da. N««c fove- r46. Quinne
fovendum quidem pectus fponjtt, 4 P di pilas. elis cum laxantibus; calor enim
1lle fxpe flatij bus excitatis;
fymptoma auget, et quandoqu SR
fuffocat . Quam- | [ To
Bil ? 191i
« Quamvisin omnibus feré morbis illud
Ó "y » cratis veriffimum fit, non effe mutanda libene infüituta remedia, ftante.eo, quod ab
1 initio, I vifumeft;in hoc tamen,
commüni omnium fcri- | bentium opinione,
cate a ad eumdem fco- [funipesta intibus
eadem fervanda fit intentio ; A varianda
tamen erunt remedia . In afibrma te fap? mn
tanda me dicamen- tá.
De Sputo fanguinis. | EE Vm
infanguinis per tuffim rejectauo- 7, farto
ne foleant Medici ftatim optimo con- 55; c;uis Iilioad d lio nem fanguinis per fectam vena1
gue vena in brachio poufti müm dextro
ex jecora rià recur /ecanda- rere,
animadvertendum, fepenumero idin mu- 3anguinis
| licribus evenire ex fup preffis menftruis purga- ^ /putoex | mentis, autaliaceffante evacuatione, quz.
per^ dentis JJ hæmorrhoidas ; et in eo
cafu, fi fanguinem ex ^^ ifibns |
brachii venis extrahemus; peffimé noftro egro- 7,, J tanti erit confultum; po tius enim flinio
ni adde- ^^ | mus occafionem,ad f iu periQi
arationevacu rt | euinemattrahentes E
it1gltu r,fectà vena lin talo ; ad
inferna retr ahere fanguinem, mcx
|repeuus vicibus ex brachio etiam conveniet * ll'eumdem corrivare . 149. Sed ut in reliquis occafionibus 1n hoc,
" I morbo, dum ex venis brachii
fanguinem eva- 5 ;,; icuantes re petitis
vicibus, et 10 non mu |tà quan- affatun ef
fi ritate 1d à aft: umus ;ita dum ex talo fane ineqa/7; gu:- Blob eas cauf: as detrahimus, copiosé, et affatim
idaz derra- 'd praítabiaaus ; ut sera
fiat revulfio . b::dum Coqua
ven& r2 'sanguin?
Conanturaliquiin fanguinis peros re-
veieclant jectatione cucurbitulis aut illumad loca,unde 4|! bus cue-. effluit, revocare,aut in lifdem
retinere, feliiin- |^ eurbitula terdum
füccetfu; aliquando cum zegrorum cala-
patti «ff- mitate ; proptercà diftinctione opus eft: namfi |^ x4 quà? ab externaaliquà causa in his
partibus vas fue- eonvetit * yic
difraptum, indéque per os fanguis rejecte-
tur, fi cucurbitulà fluxum retinebimus, phleg- monem in parte fine dubio
concitabimus.Quod fi non rofo, aut difrupto
vafe; fed reclufo 1d fiat; tutó
cucurbitulz tuncadmoveti parti porerunt.
151. Cavendum maximóé, ne, quod plerique. |*^ kii Á faciunt, à rejecto fanguine per
difruptam ves | guinis fu PATI
glutinantibus ftatim utamur; ut enim hoc [Us
10 quando aliquando confert, fi etfufüs à venà fanguis 1m. coveniat. pülmones,aut thoracem per tuffim
fit totus eva cuatus : ita. fi illius
poruo adhuc conclufa, et |"
fluitans remaneat circa pulmones, tantum ab- | cft, ut elutinantia juvare poffint,ut pocius
zegrü precipitem ducant in
mortem:vifcidiorem enim [e reddunt
fanguinem, et craffiorem, sícque 1ne- [i
ptum magis reddunt ad excretionem; unde fuf- .| focationes, anhelitüs interceptiones, febres
ve- p» hementiffimz ; inflammationes
partis laboran--['u tis et fübinde mors.
Grumi igitur prius erunti]/a incidendi,
et excernendi, et tunc glutinantiumi'ui
ufus eritineundus. In fputo 152.
Quod deglutinantibus dictum eft, adi] ii|
fanguinis exficcantia, et adftringentia omnino etiam erit adfiringe deducendum . Videas enim plerofque
ftam ac tia qua5- infpuentem fanguinem
incidunt,non etiam be-3u;. "ET nepetr
i e perfpecto vcroloco laborante ; an thorax; et 4» utilia, 4 pulmones illum per fe evomant ;anà capite
ad && 422»- Il fpiritalia loca
fanguis feratur; neque 2rum1 ad- do won.
huc adhzreant, et an fanguis adhucibi fiuitet ; adí(tringentia, X qvidem valenticra 1nj
ingere et etiam lambendo propinare, unde
ne ales Tru nesoborivntur. | . Prafente febre vehemente, in adftrin- 4f
izgé id ous, et La Mig MD... temperati
cffe de- "/2 fafre- I bemus 5;
potiffimum fiaut ab inflammatione;aut Geciniiw
l| eiaminde a s fit: non minus enim ex cà im- eite S £5 CH foc
minet periculum, quàm ex fanguinis eruptione, j,, 154. Vb1ab ero fione vafis, vcl euam aper-, li2onc ex acriori fanguine, ac bile referto
fangui- 5; q4jp s | nis fiat rejectatio,
purgandus ab initio ftatim, ex atri tu A
erit biliofus ille humor, ne, dum att emperare» szore. ffa- illum prius tentaverimus, coplà fua, et acerrie
mm pu- [mà qualitate perfectum producat
fymptoma.; 2224s. ineque enim putrefactus eft, ut
coctione indi- Igeat, et cum tenuis
fit; medicamentorum attra- lictiont
facillime cedit. ^ buf In / 110
15$. Medicamenta tamen non fint valentic- In fputo fira, quod ica calida cum fint ; acrimoniam 1
n hu- hier hes moribus adaugeant X
valida motione » nus mctu1ic Mfluxicnem co ncitent : hinc qua
fcammmonium. licont un ent; fueienda
erunt ; non folum cb« Cam, í caufam, fed
euam quód venas aperiant. ^» 4 Quà
etiam ratione et aloé,& ex cà Bar. ue ftiv
AMrata medicamenta 1n ufum duci: ncn Adag PAUTAS jc c quód 'enarum ora aperiants et acriora
fiüt » cannbus ji anm par fit ^ n
4la; a N 1/7. QiiRbabar- barum mm
fputo f[an- guinis fufpecium
. 1n fpnto fanguiais
quado va lenter fic- cantibus
utendum "ceti fo- ufas
172 f/puto fa»eguin:s linis
falpeélus . Quinimó R habarbarum aliquando inz hoc fymptomate noxium eífe folet ;
cimenim igneis fuis partibus altius fefe
infinuet ;'& fan- guini mifceatur ;
quod vel ex lotioimpense fla- vo ab ejus
affumptione perípicué«colligitur; ubi
forcé non pro ratione bilis educatur, acutior, et calidior fanguis redditus morbummasgis acuet, et deteriorem reddet. rj$. Inífputofanguinis ex vafis, aut
pulmo- nui crofione, illud inaximé
animadvertédum, an plus fanguinis
exfpuatur ; an puris : fi enim.
plurimum fanguinis, ad ftringentibus maximé res érit agenda: fin veró multum puris,&
pa- rum fanguinis excerpatur, potenter
ficcanubus erit utendum; citra multam
adftriéctionem;alio- qui pus perdit
pulmones; fic Gal. $. AZetb.6.fo- lis
trochifcis Ándronis Polyidz, vel ex chartà
combuftà utebatur. Vnde et cüm pus merum. cxcérnitur, folis fimilibus trochifcis utemur
. 1 $9. Non placet eorum fentenua,.
qui. The- mifonis, et Thetfali
fententiam fequentes ina rupto,
velapezto vafefincerum acetum ad for-
bendum, et lambendum concedunt, uz aut ad- ftrineant, aut grumofam. fanguinem incidant
; certiffima enim utentibus illo fincezo
imniiet pernicies; partesctenim
certiffimé exafperat;ac ||; ubi per
afperamarteriam rranfit,tuffim excitat; |
nde nóvum fluoren? promover: dulcórandumi oat erit aut melle, aut faccharo ; atque fic
ina ufum ducendum. 16c. Intopicis adhibendis placet
Tralhliami] £275 uc Voli
confilium, ut emplaftra frequenter mutentuüf » 2565/5; ne incalefcarit ; 1d enim, inquit,
fanguinem eó vocat,
proptercàirrigationes potius placent.
t61. Frigidiffima ramen actu hzc effe non. debent: przxrerquám enim quód talia omia pes étoriinimica effe cenfui doctiffimvs Sener,
fi externe etiam partes rubrx et calentes
foerint, fangwnenr ad interna
propellendo fluorem. conctabunt. 162. Qwvàmvis quz valenter adftringunt, et exficcánt, urgente morbo, maxime commen- dentur ;cauté tamen étiam hacinre
agendum eft, et incraffanua erunt
adnufcenda, ut amy- ]um, far, et lac:
quód àmmoderatvs ficcantium ufüstuflim
excitet contvmacem, fed inanem ; undeant
nova fluxio fanouinis promovetur,aur
vena mæis lacerantur. De
Ph:hif. 165. Vm inter omnia prafidia ;
quz 1n. phthifi in ufum veniunt, Iac
primum. fibi locum vendicet,ut mu ta de
fpecie lactis,de quantitate, detempore,
de modo; ac mixtione, opum? à Gal. s. €
7. 7M'erb. szed. propofita,
recentioribus plerifq; recipienda ; et commen- danda judico ; ita illud ; qwod ab omnibus
fere recentioribusadditur, nufquam
tarnen à.Galc- no traditrm, non recipio,
ut à lacte affumpto non dormiant zeri :
cüm enim per qvinque hc- ras ante cibum
velint exhibeédum effe xeris lac, fi
fomnusinhibcatur, et preftanuffimo auxilio
mA tabidi t0piCA fa» piis tnu-
tanda. Acin fri- gidiffima
effe mon de bent, 944 tboraci 4p
pliczantur. SiCCAVtiA
valeter 15 fgate fan- £141n15 em
pla fits admi[cen da . l^ phbtbifs
à lséle ^f Su bto dora nmieaum
Tr Phtb 'h ; ÆN y qp anunæ al
);£$ ^ ^h "4$ 7220. EU £t. litatis fomnus ille confe: tabidi deftituentur fomno nempe
matutino, pociffimüm cüm exficcati fepé
noctes infomnes ducere foleant, autob
tuffim moleíftam fomnus impediatur; fi
etiam eo tempore à fomno arcea- mus, et ficcitatem
augebimus,« vires vitales imminuemus ;
per fomnum autem.&. vires 1n-
ftaurabimus., et cor pus ficcatum humectabi- mus, coctionem lactis in ventriculo
accelera- bimus. Neque cnim valet ratio
Mercurialis, quód fomno majores fiant
eva porationes; quód in tabe, five
hecticà febre, five catarr ho;& pul-
monis ulcere, blandailla evaporatioiactis ma- xime ad fomnum majori ex parte
deperditum onferar; in verà autem
phthifi cum diftillatio- ne acri, et falfuginosà,
et ulcere pulmonis, tem- perata hæc
evaporatio utilis erit ac. acriorum
exhalationum calorem temperabit;phitfque uti- et tuffim cohibendo : quàm damni evaporando ; maximé cüm
tuflis concuflt ione lactis «tondodbio
amediat E 164. Cüm phthifi confümptis;
fialuidluor fu. perveners lethale fit
maximà cautione uten. dum eft, fiin
115alvus non dejictatin ufu fubdu-
centium; blandé enim omnino agendum, neque caffram, prunorum dulcium decoctum, man- na,mel violatum aut ad fummum, mel rofa- tum foluuvum tranfcerdesze debemus. De Tuff.
d Vód fcriptum fit ab aliquibus, et do- ctis quidem VAS: E [n ^ E [uriats fitiat; vigilet, qui
vbevmata curat . vigilan- in curanda
tuffi quàm piures:zgrotantes vigi- e. C
liis macerant, ut fluxiones.impediatit ; peflimo 74474» fane confilio: ut enim fuperfluum fomnum
ce- rebrumnimis replere concedimus, ita
1mmode- ratas vigilias muito majora
incommoda afferre experimur; potiffimum
cüm per eas vitales.vi- res corruant,
quz in. hujufiriodi morbo maxime
neceffariz funt : vieilandum4ane eft cim: à ce- p a. rebro adeó affluit materia, ut fubitz
fuffocauo- fa dern nis peticn ilum
immineat; «& tamdiu vigiladum,
quamdiu tàle imminet periculum: fecus in muíh x 4 moderatà; dormiendum enim;ut concóquantur
ALES Nn humores,«& quiete pectus
firmetur ;fi enimo "v7 Galenus 1.
de /12m.cap:28.ut citat Rabbi Moy- fes
213-.Se£t. Aphor.ícribit, tuffim ; fternutatio-
nem, et fingultum cutaria diquando;cüm hcmo fuftinet ; atq; fefe abiis; quantum fieri
poteft, motibus cfficiendis abftinet, (
quoniam cum motus ifte fiat à voluntate,
fed 1rritatà ; poteft quis interdum
volés non.tu ffir) cur etiam fom- num
non commendabimus, in quo omnes fiftun
tur fluxiot nes, X tuflis quafi fufpenditur ? . Inufu pilulari im in tuffi,ad evacuan-
Pilula d dam materiam in capite
exiftentem, non placet tu[f mal?
aliquorum fententia;inter quos fuit doctiflimus ?^/ cendi Mercurialis, qui volüerunt; eas exhibendas
effe 44" - perquatuor,aut quinque
horas poft cenam, «quando ventriculus
nondum, ut ait Mercuria- E ai lis, ex
toto vacuus eft : quoniam tunc niagis fa- 7^ r pernatant, et facultatem mittuntin Pin Des, 4. I d et afpe et aíperam arteriam. Cüm contr
illudcer- Giflimum fit ; ex hoc modo
exhibitionis multa. -d..
fequiincommoda;nam aur cum cibo cititis fib-
ducentur ad inteftjna ; quàm oporteat ; aut fané femiconcocrum ciburs deducent ad
inferna;aut ommum fiet confufio | Quare
pra-ftat;autince- eM S natum illas
fümere, autíane fiummo mane jeju- peor
10; « vacuo ventriculo devorare, procurato
forno per ünam, aut a]jteram horam. De cordis Palpitatione . . T N
graviffimohoc morbocurandocaven dum
maxime, ne Gal.verbis $.4e loc. ai siiid
affect. 1. ubi afferit, omnes, qui paffi funt palpi- e 34,,,. 'aUonem cordis, à fectione venz
juvamentum »us fan. &CCeptfIes.quem
fecutus Avic. 1.5.7 ratd. c. Cap. guis
mi- 7:3n omni cordis morbo, fcribens,utilem effe» tndus, Íanguinis miffionem:quifpiam adductus
in om- ni cordis palpitatione fanguinem
per fectam ve- nam .evacuet; neq; eni:
omni, neque fempet Galenus fectione venz
utendum ibi cenfuit, fed omnes, quibus
fübitó, cm fàni effent, fine ullo alio
accidente cordis palpitatio füpervenit; fanguinis eductionem juvifle: hos
veró,quód inte: grà,& inculpatà
valetudine fruerentur, à fan- 2uinis
copià, forfan. et calidioris, in eum mot-
bum incidiffe, mihi fit vetifimile;quod quilibet etiam ex Gal.2. de caufrs pulf. cap.
2.collieere po- terit, càm dicit :
Z4ccidsr ettam pulfuum imaqualz- (45
Interim ex fanguinis Copia, qui aut in venas aut ertt.
In.cordis palpitatio
abteriastp[as fit vufu[us; atq; bac quidem [anguimis aniffone fedatur facillime. Hactenus
Galenus. Caufæft, quia copia illain
venis arteriasillis vicinas premit, et coarctat
; qua fi venz fectio- ne tollatur;
tumorem, extenfionémve venarum tollit
;Jocàmque fübinde-dat ad motum arte-
ris. Vnde veriffimum eft, cuicumque cordis palpitationi, ex humorum copià in venis
exi- ftennum,optimum effe prefidium
fanguinis pet venam detraétionem ; quod
confirmavit etiam Gal./;b. de veua fect.
ad verus Evafiflrataos, cap. 4. Quemadn
odum etiam fi aut eftuatio;fervor- ve
fanguinis, fiveervfipelas aut coripfum ten-
tare agoreffus fit, aut etiam venas;arteriáfque » vicinas invadens, et palpitationém inducens, ad hoc auxilium ag2rediendum nos
invitat. Precepit hoc Gal. 13. eth. cap. 11. € lib.
ad- verfus Erafiflrareos, cap. 8. Atut
hac veriffima,s funt ita aflerendum ett,
in veràillà cordis pal- pitatione, qua
illi cum aliis particulis commu- nis
eft, quz que morbificz folius caufz foboles
cft;non conferente facultate, quz majori ex par te ex flatu eft, drminuto calore ; tum etiam
nz non verà, quz cordis propria eft, fi
vel ex frigi- do humore; qualem
defcribit Hippocrates, vel f1 alio, /sb.
de facro zsorbo cim fcribit: 57 porro ad
cor proereffvm fecerit af fluxus » palpitatie appre- hendst, C anbelarsones, G7 corpora
corrumpuntur, «liqui etiam cux: fiunt
Cum enim dk dcenderit fi- tiita frigida
ad pulmonem aut ad cor, pevfrigerz- tur
feng:isy vena autem violentey perf icerate vd
N 4 pulmonem, C cor affiliunt, &£ cor palpitar . nullo modo fanguinis miffionem convenire,
:Quins ne tunc.quidem fanguinis per
fectam^venam evacuatione utendum eft,
cum cordis palpita- tioà virulentà
materià ccr imp etente fit; autà vapore;
fuliginéve venenosà. Quód:fi Avicen-
riasin omnibus cordis affectibus venz fectionem utilem effe dixit; non proptercà tamen in
omni- bus caufis evincendis morborum
cordis utilem cfle pronunciavit; $1c
etiam in palp ita tione» Conveniet, at
non Íempcr, nequein quàcumque
-patpitationis.causà commendanda ;
In paljita - 168. .Sedillud in evacuando fanguine per fe- tne cor- &tam venam maximé anima dvertendum; fi ma- dis,«bi in Ximam in corpore laborantis hoc
morbo fübetfe fanguinis fæguinis, et humorumabundantiam
cognove- abundan Sina qu 12 non tantüm
vires premat, fed et i- tia mitt Wa
quoq; vafa diftendat, tutó nosadillud auxi-
lium defcendere-non poffe nifi fanguinis mo- qu» 95 tum.cor verfus abendé proficifcétis
fimul com- X indo: peícamus, ac abipfo
corde revellamus : cüm., enim cubiti
vena.,.qua fecanda eft, ab axillari
axillaris autem non longe ab afcendentis venze cave ramo proficifcatur, unde 1n cor ramus
in- fienis coronarius divaricatur,
abundantiorem. faneulnis copiam ex
venacavà hauriri contin- get; ex quà
quidemre fiet ; ut plurimus fanguis Cor
verfus iterar ripiat, sícque cbn dis. viícus ma- 21s fuffocabit .. Ne igitur in hoc
incommodum incidamus, co ipfotempore,qno
in brachio ve- na tundetur,
utrifquehypochondriis optimum erit us [ut sá-
lerit cucurbitulas affieere,;dextro quidem. 5 «uod inde vena cava exoriatur ; finiftro
autem, quód illic plurime terminentur
arteriz, quz Mpirtuofum à corde
fanguinem revellere pos |rerunt : fic
enim fiet ; ut qua:jamiavafura erat
licor fanguinis copia, cucurbirulis admoüs re l'vellatur ; quz vero influxit ;venà fectà
exhau- P riatur. . Quód fi humoris; et fanguinis tantas linon adfuerit copia, aut fola fufficiet
fanguinis l| per fectam venam evacuatio,
aut fane poft illam llapplicari poterunt
cucurbitula .. Átubi infienis adfucrit fanguinis abun- Idantia ;in utriufque brachii cubito venam
ape- | rire, udliffimum erit tfi veró
non adeó magnas | fuerit; finiftri
tantüm füfficiet fecto . 171. Quod fi
ne (ic quidem affectus ceffave- |
ritarteriofum,;& fpiritibus plenü fübtiliffimum | in arteriis potius abundare
judicabimus;& tunc dis affects j|
cum Gal. Ze cur. rat. per fang. mni [[.11. íectiones arteriarum opus erit . 172. Sed in eo cafa non magnas, fed
exiles || potius elizemus fecandas ;
quales funt ee, qua | per digitos
excurrunt:licet enim parva fino ma- I
ximum.tamen juvamentum afferunt j atque fa
I ciliis inductà cicatrice, fine anevrifimatis peri- culo coaleícunt. 173. Cucurbitulas fcarificatas dorfo
affixas cordis palpitationem curare ;
fcribit R hafis 7. Continents v At Avic.
4. Fen y 1. Dotl.$. cap. de |
Cucurbitulis ; eafdem dorío applicátàs aliquas
| quidem Cczur bi- (Hla i pale
tttatione cordisqu& de appli-
£anda. In pa:pita tone
core di: a4 ve n3 fecan-
da. Arterioté- 731A 472 COF bus guade
C07) GEX1f » Arteria qua fecan
d4127 cor- dis palpi- tationt «
Cucurbi- ) ] ^ t'i'a dorje
ffxa& in x. m HII Cim rn.
P cordisqua 9o profsat.? fi !
atit. cordis £ro- vdedut
fistibus L^. tricals quidem
bona facere fcribit ; fed et vencericulum
ledere, et cordis tremorem inducerc: fi tamen cautio adhibeatur ; utrumque optime
obfervát- fe dicemus, quidquid dicat
Mercurialis nofter in fta Praxt,capsite
proprzo ; cüm fciamus ; peri- tum;
Medicum numquam. repleta corpore cus
curbitulas ante totius ex purgationem applica- turum .. Diftinctione igitur potiüs ali3opus
eft; nam fi ex humoribus palpitatio
cordis prove- niat » fi dorfo € regione
cordis, ur plerique fa- ciunt cucurbitulz applicentur,id in manife- ftam vgri pernicienrfiet; augetu r enim circa
cor faneuinis Copia ob calorem, et dolotem
: doce- bat enim Galenus rr. A4eth. 17.
übi 1n iis fit plethora, non magis ex
pulmone in pectus. ali- quam excrementi.
partem transferri ; quàm.» ex toto
corpore 1n utrumque. At ubi palpita-
tionis cordis flatus fuerit in causa » evacuatà materia, unde elevantur, cucurbitularum
ap-plicatio dorío é regionecordis. praftantiffimum erit remedium. Quinimmó applicari etiam. commodeé. poterunt, ubi cum flatu
frigidus quifpiam humor-conjunctus
fuerit: nam ven- tofus fpiritis admotà
cucurbitnlà digeretur; qui veró reliquus
eft humor; facilis evacuaaione »
detrudetur. . Flaubus etiam cordis
palpirationem. inducentibus ; femper
humorum et in ventri- culo, et inteftinis..&
flatuum ibidem collecto- rüm maxime
habenda eft ratio, atque ii inde.»
fubducendi ; quod. iis inanitis, fepiffimé folu- tos
ltos etiam eos obfervaverimus, qui circa cor ob^ Ivcrfabantur . . Fugiendum veró quàm maxime
illud, ;, jalpita ide quo nos Galenus
12. Math. ult. admonuit, fuis mum fi
adhuc in iis partibus fücci, ex quibus flatus 4; (s fia" Ielevantur, continebuntut,à nullàre m: ac1s
eí- tibus, sz- Ife metuendum, quàm à
calore, quod eos colli- ters zz Ijuet;
atque in flatum vertat, fed digerere ncn.o lids mon valeat: craffa et 1m, et ejutinofa dum
calcfiunt, effe. men- Iflariofum
fpiritum gienetre folent, Gal. tefte» AMI Pr dv
Inbidem . ftutr m ; tertia. 176. Vbi ad cor aut efferveícens fanguis
; laut bilis affluat; ut phlegmones, ucl
eryfipela- itis periculum adfit ;,
quibus in corde productis; 54.
Ideíperata omnino falus effe folet ; ftatim àfan- sellestia, Ipuine miffo, vel dum mitdtur, circa cordis
re- cordi Afm. Irionem repellentia
adhibete convenit : qua 9lsanda.
Iquamvis 1n morbis pectoris omnino fueiendas e(Íc conftitucum fit ; 1n hac tamen
afflictione js irum, ad quamcumque
partem materia fluens Irepellatur, ea
fitignobihor corde, necinde ad- Iro
fibitó mors immineat, nullà interpofità mo- Cere la- raapplicanda funt. bordite en 177. Vbi ex craffo fanguine cor hujufmo-
erafis hm Hi morbis laborat, à
diureticis, et füdorife- 7». Dum mit 71; fa*ii diMreticA "Is erit abftinendum ; nam hec
exhauriunt fe- ? | : $» 6 à! beso yg É C fudorie um faneuinis, et fanguinem craffiorem red- !
pela dun! Ld "^j 7 UEntHf,
178. Verüm, fi aquofus humor, et ferofus,,,, ;,, norbumillum producat, nibil eft, quód facifé
sobtitaa iius yuin hujus morbi poffit
evincere . PLI, 2Difeutien
dibus fia- in Cor-
dis palpi- faftone,
snifcenda fnbadfiri gentia o In flatulentà palpitatione
vehementer || rcfolventia damnanda fünt
: nam fpi- ritus vitales nimis
exhauriunt. Quód fiin ufüm ea
ducere .. neceffitas cogat, ad- ftringentia ali- qua erunt
admi- fcendaa . 20g LIBETIA
Comprehendens eas, JDe dolore
l'entrictii. eiendum erit, lAnimadverfionum, et Cautionum Me. dicarum,
4$ no 0908 Ousinvrelk qua. -
1/77 uUualium partium morbis fuat obfer Yauda. SUN inflammatorio dolore, inflam-
Dolente W| mationem partis, aut
eryfipelato- veztricu- fum affe&tum
infequente, genus /^ v6 iz- omne
medicamenti pureantis fu- f^amma- nifi
fimul affluxam '/?vé» par id ventriculum
bilem cognoverimus;in quo ca- i
pureantia omnia evitabimus, ob innatam ca- 4 pienda. Iditratem, et nenovz fluxioni ad partem
Ja1., fo! ore laborantem detur occafio ;
concedemus SIS, cantia fis ramen
Sus vcuna $3 ufune daucend2-
Rbabarba yum 1n do love vexit:
eui infla $9 X 0rto fsgiendz.
Qiata n dolore vé-
zriculitia- fl^mm TI, yio. quan-
do conc.- dcnda. Ventrieu-
lo dolente có mflam »lomé .
f icida po (as Co ex- irà appofi
n0,9Ha5- do cox vten.at. Ventricu-
li ia dolore «o6. tamen
lenieritia, abftergentia,cumrrefrigerauóe | : t m ne aliqvà: tamarindi, fetum, fyrupus
violatus, | et fimilia concedi
poterunt. ;. R habarbarum, multis in
hoe familiare»; omnino fueiendum: nam
et igneis qualitatibus nocet, et biliofi
humoris affluxum folet con- Citare. 3« Opium, et opiata, licet in omnibus vene
| triculi affectibus fugienda fint,
urgente tamen» dolore inflammatorio, cum
lenientibus ca ad- mifceriin paucà
quantitate poffunt ;fic enims neque
actionem impedient, dolori fuccurrent et
intemperiem imminuent : etenim fic Gal. Ze:
compof. med. fecundum loc. circa medium, exayni-- F7 nans medicamentum quoddam Afclepiadis
adij* ftomaticos,quod recipit plura
medicamenta, &:] ^" inter hzc
aloén,& opium; reddénfque utriufq;j 7
raticnem,inquit, alocn vitiatos humores ex pur-4^ care, et infcrné
peralvürn évacuare: opium ve«4 *ii 1o
fenfum obftupefaciendo, mitigare moleftiamgr'i
ortam ex acrimonià humorum; erat tamen opi ad reliqua medicamenta dofis unius ad
vigint quatuor; quam etiam non improbat
. 4. Im inflammatorio dolore ventricuh,
aum incipiente eryfipelate, aqua frigide
potum; au^ [) frieidiapplicatlonem ut
convenire aliquand 4; concedimus; ita id
faciendum ab initio maxim] cenfemus;
affluxà enim maseti, fi frigida exhiu'ic
beretur, morbus curàtu difficilior redderetur . | «. In doloribus autem ventriculi, et ineft]; zorumà frigidà materi,áutà flatn ex. eà
gem]i, tO5 fi | WIH.
io; | to, fi contumaces fuerint,
et multà fübfitmate- ex. frg: ria,
Hiera licet à Gal. commendetur, et à ple- 4a,«t crz/ ifque Medicis, quoniam tamen tardiffiméopes
/2 mate| ratur, aC fepe dum ob vifcidam materiam tuni- 1/2 Hrer« | auget,necéffarium effe cenfeo
medicaméntum jaliquód pureáns admifcere,
quod et materiem cis ventriculi
adlieret, attenuata, et in halitus 4/44 ^,
* » 1 " A ut converfa. materia
ventrem diftendit,& dolorem "^'^^
»n€n1147 Hryoans$ . n smifcendit. adjuvet fübducére,átque Hierz vim
intendat, ut diaphainicum;electuarium
Elefcoph,& fimi: !lia ;
nequémultàm dubitandum eft, ne ad. partem laborantem fiat multus materix
affluxus, cum enim támmulta
adfitcraffa, et vifcida materia, vim ombium medicámeéntorum hebetat, i| et impedit, ne à longinquis trahat,
materiam autem etiam 1n éo exiftentéem,
et attraéctam | quamprimüm fübducat,ita
ut minima ventriculo noxa inferatur ex affluxu materiz, utilitas '€ró maxima ex caufz morbifice evacuatione
s, j| potiffimum fedato dolore. De: Ventyiculi irsbecillitate ex frigida ite npevié . 6. [ N $uellibonz cornftitucionis ; ave
catelli pu; 72 perpinguisapplicatióne
reeióni ventris riculo.ap . E - x £^ ;
PM A culi, prima lizc fitanimadverfio ;
quód cüm in »:4; ze J| tardà: coótione
ex friaidà intemperie; nihil fit fomnum
quod niagis coctionem adjuvet ; quàm IoBieus, (errim et riori interru ptus forinus, ánimadvertant.
pá« P^" - sicrites,Jieexanquietis
fit pücr, qui ex affiduo motu motu fomnum patientis. interrumpat-:
majus eniminde damnum.ex impedito fomno
feque- retur, quàm utilitasex blandoillo
calore; quod etiam ex catellis magis
verendum ; potiffimum fi patientes ex
lis (int, qui et facile ex pergiícan-
tur, et difficillimé in fomnumrelabantur. puliin 7. Secundo illud etiam
animadvertendum applicatio. ft,
Cepenumero ex hoc complexu t udcrem ex-
gecaven- citari, quinifi affidué detergatur, noxam affert dus fador. magni momenti : quare vel ab eo
defiftendum etit ; vcl- intermedio
fübtüliffimo linteolo 1n eo
períeverandum. Inm,b- $8,
Suntetiamaliqui adeó in Venerem pro-
iiio? pi,utexcoamplexu in fomno polluantur aut 45174- 3d Venereos congreffus conciteptur ;1n
quibus omnino ab hujufmodi remedio eft
abfüncdum, De. INas[ca. € Fomitu. Vomitus 9. E Tfi quàm plurima ad vomitum
attinen- fugiendus, tiafuperius
propofita fint ; hoc tamen, fieauez-.
loco aliquá non fünt omittenda imagbl momcn-
tioryfed er tj, qug in vomitu exercendo pro naufez, et vo- gente ^ *- qytüs curatione maxime funt et animadverten- far tne da,& cavenda . Brirnàm igitut fir
quód Iicet jio; fc. ir adiquibus,
qoibusautob ventriculi imbecil- ^.
litatámsatitob afflexum aliunde humorum col-.]
lieitur. materia in ventriculo »concedendus fiti] vomimis.frequentius tamen 1d non erit
praftane:] dum fed femel; aut bisin
menfe, ne et in ma--], lam
confuetudinem deducamus;naturam » patrz]
tem ww À rem imbecilliorem reddamus; et membrum
co- éHoni ciborüm, et nutridionirinferviens,
fentina excrementorum efficiatur. : Cüm vomitu materia: expellitur, five» p,
pis fponte; five levivomitorio (numquam
enim for | 4 4,4755 ti in hoc cafu
utendum eft) non erit longiori tem.
i4fjfgedz . pore in eo infiftendum ; cüm
alioqui cupiditas cvomendi fepe
perfeveret; ne. ex nixu, feu vo- mendi
impetu, aut vena aliqua in pectore, aut
in eulà difrumpatur . aut affluxus.novus mate- riz potiflimum biliofie concitetur, infrà
igitur potius fub fi fttendun jT ' TRUM * x i. ?. (Orr Repe ità ctiam potiüs evacuatione,:&
petendis, 1nterrx iat | 1C fiat, quàm
unica d. nua didi 12. Quinimó prior
magis protrahi poteft ;. ;,, ;; ;»/;-
pofteriores autem breviores fint; licet cum ali- gadauz r1; 11lud auidebi. ut multa Vezitus is hoc autem,ut craffior repeti fex in fundo ventri- qnales efVonmitus €N
pot 45$ TE^ ; m i
fubfidens educ qu e po Xflitsfed nullàalie- /e4e27, ni materie ad partem attractione; 13. Si qi is on ex naufca neceffitatem vo-
situs, mendi commonftrante ad vomendum
promo- 44: fé» yu veatur, fed quod feid
effnsere non pofle expe- /» se»fe
rimento cognovetit ; ftatutum »» menfe diem., ft, non aut terminum non prafigat ; p. nunc plures,
habeant nunc pauciores dies
interponantur;ne 1n pra- diem $fa- vam,
&inevitabilem confi etude lta dedu- I
catur sut fi fl pats, et quaframur | latutum
terminum aliqua datà occa- fione
tranfcendat, in morbos aliquos incidat.
4, Quam 'ls autem; data hacoccafione; VO- VFontt* OQ mitu
qui apftj- itu evacuandi fint, fi tamé ad vomendum ine- mei,
ptfuerint, aut fi perpingues fuerint, aut angu- fto nimiüm pectore, aut fi atiàs fputo
fanguinis tentati fuerint, aut fi
cerebro admodum imbe- cillo, aut oculis
debilibus prediti fint ; potius
perinferna purgabimus. Womendà |
4$. Vtconcedendum, vomitotia, quz vehe-
quádoie- mentia funt, quibus humores ex pelluntur à to- $450 vt- to Corpore,aut faltem à
longinquisattrahuntur; tricalo C Tejuno
ftomachoeeffe exhibéda; ita in levioribus
quando 4 concedendis, quz contentos in ventriculo hu- «cds mores evacuant, ea diftinétio adhibenda
eft: quód fiquis ad vomendum non ita
facilis eft praftatà cibo vomitum
proritare, potiffimum. ficraffi fuerint
humores : fi veróad vomendum fuerit
facilisynec humores multüm rebelles fint;
pratftabicid jejuno ventriculo tentare ; aut levi- culo auxiliojuvare, Cras ba. 16... Quinimo, fi non folüm craffus
fuerit hu- soribus more ventriculo
evacuandus, fed in paucà quan $n wertri-
citate, licet malus ; poft cibum erit vomitu €ji- «ul2(xi-7 ciendus ; admixtus enim cibo
facilius expelle- fence ' tur,etiam qui
in fundo ventriculi confiftit,quod m ^1,
alioquinon ita facilé ventriculus in fefe contra- UU . hensillemelevare ; et propellere
poterit. . Cavenda tamen magna
ventriculi ex ci- borepletio e1, qui
cibum ad vomendum affu- mit ;
difficilior enim redditur vomitio, quód
ventriculus (ead expellendum, quod illi mole- ftem eft, vix tantà pofità repletione
contrahere pcteft. Y opitriri A09
21H $ replegtür. IS. At
í11 18. At. ne ftatim quidem ab
affrmpto cibo »,,, ;,. aut evom;endum
eft; aut vomitorium fümendüs,;, ; 7, fed
tantum tempcris intcrponendum, quantum sto, qua
fufficere pofle conjeceris, ut humor noxio ad- 4/4 vo- mifceri poffit, agitar.i, circumvclvi, et verfusos
mu» 25- ventriculi fiblevari ; id
veró-fit fpacium unius. Zendii hcrz, aut
ad fu rini m duarum : 1d autem fem- per
intelligendum eft de vomitu ad evacuadum
ciexcrementa, quz in ventriculo cconünentur ; et de levibus vcntcrlis ; quid enim in
vomitu vniverfüm corpus evacuante, et in
vehementi bis vomitcriis obfervandum
fit, et alias dictum c(t, et ab Avicenna
petendum. De Siti izymoderatA I9. T fitis.ex immoderatà caliditate;
.& 55; ;,,,, ficcitate ventriculi,
aüt eam COGI. 75; 2547 prafen da h
umorts calidi et ficci,eqva frielde 4c frigida
largo fa pé potu curatur, " aft m exfünguen- &ibezda, do, et bilemob multam aquz copi lam inecftam
C quado fr bducendo ; ita maxime
cbfervandum erit ; fi calida. fitis
hzcinexhaufta ex falfa pitvitz adhafu pa
rictibus ventriculi, vel ejufíem n fundo illius $ mo rà producat! r,frieida potum ncn fcre
uti- ]em; quód cont: macem mæ?is cavfi
m reddat ; et craffiorem ; eam vcró ctiam fa cile potus
pr rg terfluat : przfta ibit 1e1tur tu
aovà calidà ; qux maais penetrat,
attenuat, divtiüfque in ventte. commoratur,
pouffimtm fi quidpiam 1lli ad- mixtum
fit ; quod attenuanti facultate. pra di-
QD a tum 31»; tüm fit; fed et in
paucà quantitate, et non excedens. De
Cholera. Cholera | 20. Vamvis in
hocaffe&u, et per fuperna, Jaborates
et nim inferna humores excerri foleat,
quédo per &impetu tali;ut freno potiüs,quàm fupe ftimulo opus fit ; quoniam tamen
aliquando ir- C^ 24542 vea tiones quidem
adfünt;fed promultitudine» pe vba
máteria non complentur ; ideó adjutricem ma-
vag4,, Dum Medicus porrigere debet : at tunc ambigi- tur, an fuprà;an infrà. Primo ieitur
confidera- bimus, an naturà ad vomendum
zeri fint faci- les, et an confueta fit
aliquando talis evacuatio; tunccenim per
eam partem adjuv; ii am nt, hac
diftinétione adhibità : fi cibi corrupti talem
niorbura produxerint, ftatim vomitu excerni pofle; uteuam fibiliofi humoresab hepate,
aut univerfo corpore fucrint transfufi,
quód biliofa per fuperiora f. aciliüs
excetnantur »fin vero aut ad vomendum
naturà ineptus fuerit ; aut craf- fior
fuerit materia ; praftabit. abftereentibus
fubducerce. Von ^ 21. Sed fi
vomitoriis agendum, ea omnino ria in
cbo €evitentur, qua vel aliunde attrahendo vomitu lera fint attractam expellunt. ex. levib. . Sed cüm blanda illa mu! vicem
fint;aqua Fomiter te pida; hvdrelzeum,
mulfa, ox vmel,quæv aria ria in c)?
vatjoneid petant; quomtódo ea in ahi
F0424T7 s? Sibiliofa fit; et mordax ut ctiam fyncopen inducat, aquam
tepidam, vel jus pu Ili fim- riezate
plex, vel hydrelzum potiüs eligemus :Si craí- maierit fior fuerit materia, et picultz admixta, pt
rxeh- genda eritaut mulía, aut oxymel
cum aquá : S1 trefactus cibus, omnia
hec convenient . 23: Per inferna,
fiopus fit, id eft;fi moveatur
imperfecte, fi biliofa fuerit,à mannà cmnino abftinendum, et abftereenübus ex melle;
aut faccharo ; ftatim enim 1n CO
rruptelam trahun- tur,&b jilefcun t
:fedfcrum lactis omnium erit oreftantiffimum
remedium, aut caffre fucci por tio, quz
ardorem cohibet;mordicauonem com-
primit, * blandé fübducit : quód fi pituita pu- trefacta 1d excitabit, aut bilis craffa,
nihil pre- iius rit melle rofato, aut
folvente ex fero lactis ; aut facto cum
infufione rofarum rubea- rum. 24. Vtvomitoria in aliis morbis curandisin
Veste multà qu: inütate affumi debent,
ut etiam mole r:aiz cho natura ad vo
cé" m proritetur;itain hoc mor /e4 zen
bo mincr copia fufficiet, vel Aretzo tefte: quód frat, mul- Ur icmeiovss ventriculo, et difficilior
exitus /4 2/2tà humorum acrium reddatur,
et major vis,& do- '^//* lor
ftomacho inferatur. 15. In
repellentium, et roborantium ufi hec
adíit cautio ; numquam ftatim ab initio ea 1n. ufüm duci poffe : fi enim ex copià ciborum,
aut ;,,, quas humorum 1n ventriculo, et vicinis
pasbine Ü- qoid quo lis morbus
provenerit, non prius ea concedi pc- 5,4» i5
terunt ; quàm materia 1]la majori ex parte fit. wap d gvacuata : quod (i aliunde affluxerit, nifi
vires cez4a . i4 exfolManna, (5 faccha
1? barata s f"fecta $ cbolera*
Repellen - tia1n cho it4 exíolvantur, permittendum etiam erit,
tit. pars illius evacuetur, ne illius
impetu xepreffo ; aut febris exitialis concitetur;aut ad menibrum ali- quod princeps repat ; fed non: dierum.
numero hec movenda erunt, quód morbus
acutiffimus fit, et aliquando uno;aut
altero diezgrosinter- imat ; fed horarum
dumtaxat, ut unius quan- doque,.aut
duarum horarum fpacio viderim. tantam
humorum copiam evacuatam,.ur vires
conciderint,.& corpus quafi confumptum, et depreffum undequaque apparuerit . De Cardialeia. Cardial-. 36, Vamvis quz adftringunt,
aliquo modo gi lahe- etàm repellart, in
hoc tamen morbo rátibus in in principio
repellentia convenient, dri atn'dlo
modoadftringentia : illa enim affluen-
esvenii;, £5ad 0s ventriculi humores mordicantes, po- x2 41/1, ui ffimümin febrium principio
affluentesrepel- gea,
lunt,adftringentiaautem, licet id praftare pof-
fint, affluxos tamen quafi retinent, atque parti impingunt: fecüs tamen evenit, fi repellens
ali- quod per os affi matvr ;
repellitenim deorfum,
precipitatadvenienté;corrngat;adftringit.& in- durat, ut ficillimé;munità parte interná,vim
af- fluenus hum: risretüdere poffit,
atq; repellere. Cadia. | 27. In vomitu
promovendo in hoc morbo, gia labo- heec
adfit cautio ; fiflu&tuet materia, et proinde ga"tbu5 perinterval!la invadat, neqne nc
va affluat, S qnádo vo VOmitorlo,
licet.blando; uti poffumus;ut a: rd aO, . aij
120, aquà tepida, vel folà, vel cum fyrupoace- »sitoria,ee tofo, vel oxymelite : quód fi vel ab hepate,
vel 4444ode- alimmdeaffluat bilis,
potiüsrevocanda erit à fu- *^*foria.
perioribus, et perinferna fübducenda. 6s cin 28. In biliofis, et acribus fbducendisiis
hu« "4d | ^ Cédis acr& rioribus, licet Galenus, et Trallianus aloe;
five, dis Hieràutantur, ut fi qua
tuniciscris ventriculi jjj, matetia
adhafcrit,detergi poffit; alii autem 2,44;
Rhabarbato: placet tamen magis blandioribus ;a cardial uti, maximé cüm jam leniora commodiffimas
gia,lenio- noftrozvo inventa fint; fic
decoctum tamariri- néss utes dcorum,
fyrupus rofatus fol. caffia, vel ex prunis 4&7. paratum medicamentum, aut etiam addito
fero lactis, ræi1s convenient. 29. Placet tamen magis bolovti,quàm [liqui-
S424ucess do medicamento ; quod diutiüs
in ventre mo- f'^ &ilie- ram trahens,
non folüm commodiüs fübducet /^: ^»mo-
tales humores;fed fimul contemperabit illorum "777 cer" acrimonlam ; 1n quo genere et caffiam, et pul-
iss pam tamarindorum, fi premum [locum
obtine- 77^ 747 rc cenicrem . MT IDE E
niant, c 30. Qnodfft1à pitvità
fiatacidà, quod rariffi-,, qua for me
accidit, euamfi ufis Hiere à me commende- 52.
tir, quód humceres ilosattenuet., et fimul füb-: Here pre d'cat;cuoniam tamen et tardiffima eft in
aCtio- eardialgia ric,&frpéà materie
vifciditate evicta etiam. 7"'/cesdiz
imiæis retordatur, unde fiepé fymptoma adau- fter al getür, optimum effe cenfeo, illi aliquod
medi- 1*4 *»c- camen'rum admifcere, quod
vim illius acuar, et *'c4"»tr7
quamprimüm medicamentum cum infeftanti- * bus bumoribus deor(um ducat. O 4 Ds
$15 C0?7)U€i16. . De.
INaufeas. Innaufea 31- V1tos video in
naufeà orani ftatim aut quado bn
evacuantibus per vomitum ; aut per mores
vc- leceffum uti; felici aliquando fuccetlu ; aliquan- mt^; € doinfelii: quod ut evitemus ; obfervandum. 2:449 P** erit, an inanis omnino fit naufeay
an cum aliquo ftf" vomitu: fi
inanis; conjectandum,an aut infarcti Anu
tunicis fint humores, aut admodum adhate-
a wnbs Ícant; tunc enim omntiio preftabicillos attenua- praparas- 1€» abftergere, et incidere ; ut
preparau poflint A. educi facilius :
quod fi 1n capacitate ventriculi
contineantur, et fymptoma maxime urgeat,
ftatim aut vomitu educend? ; adjuto motu, fi ad vomitum faciles finc;aut per feceffum erunt
ab- fterzentibus evacuandi . De Hepatis intemperaturis . 32. Y IN calidà hepatis intemperie;neque
fem- per ab initio medicamento purgante
» jupe, Univerfum corpus, et jecur
expurgandum eft, quando Quod doctiffimi
quidam viri, ex Archigene, et purcadzg,
Galeno 8.de compof. med. [ecundum loc. ad finem, €^ quádo colligunt ; neque femper ab hac
abftinendum.;, nen. rictüs folà ratione,
&alterantibus ad frigidum contentis,
quod ex Tralliano; et Avicenna alii
cenfent ; fed diftinctione utendum : fi ex proca- tarticà aliquà causa fubito talis
intemperies in- troducta fit in corpore
alioqui fano,detracto fan guine vena
fedtà, et refrigerandi totius ; ache-
patis Hep tis £n cAlida
Il trahat, neve calor, e s patis causa, et revellendi ejufdem à parte
labo- rante,ftatim ad alterantia
veniendum erit:quod fi corpus bile prius
refertum fuerit, et paulaum intemperies
fit introducta, altiu(q; radices ege-
rit, et quafi habitum contr axerit, non. folum. fanguinis miffione erit utendum, fed
medica- mento aliquo blando calidi
humores jaminde» 'niti erunt | pus exp
urgandi, mox reírigeran- bu s erit æendn
m. . Neq; vero in ho c cafu fueie nd
lus eft ufus Ain ccun i fero, aut (vrupi
rofati Í olutivi; guod docti fimo Matt;
uie vifu m ef (tob eam ratione quod cüm
dulcia fint, periculum fitjne bilefcát:
valet enim argumentum in 1is, quz alte 'rando diugcüs in corpore moram turahu nt,non
autcm magis evincunt qu: àm ibdt icendo potiüs refri« 1n fubductoriis, qua c evincantur, et bilem fi gerant.
;4. R habarbarum potius m ihi fufpectum eft 1n hOoC Cà cium enim tardius o |peretu ir,19ne€as autem multas x artes habeat, quibus
penitiores partes í facilé adire potef s
et ] jecur 1 maois excale- facere
poterit; ut ex lotio, quod ftaimab: Tum /
pto me lican entof flavitiem affumit, e ru ffum. / confp ICItUF, quii bet cognofcere po Jte
ít. 3f. In externis ap] licandis ea adf
it cau tO refrigcrantia, et adítr in |gc
ntia fint modera tai tum actu, tum
potci hv m conha fu: 'tla,ne vifcus fcirrl 1 port CS,q 1inde cx halà ES I rerinceantur,ne etiam clau datur via
fangu inl,aut ^ LI
denique putredini detur occafio,
De 2L7 Hepatitis
i/i 2016277 perie £ali- ^a man-
na uon [wu fpectum . Hepati;
12 Intem- berie cali- da Rbhba-
baybari£ f (fpe 7471 L4,
Hepatis r1 E intéperie calida ve-
rigeratia ett adffris Renta tm
peu:? fnfecil. De frigida
Hepatis intemperie . In bepetis 36. |
IN calidis et ficcis externis applicándis |;
intempe- ea fitanimadverfio; ne nimitininiisex- | | "ie frigi- cedant: fitenim (lepenumeró,ut
humidioribus 1» da, calda pattibus
abfumptis;aut e&ficcátis;fcirrhi in pàr- jen C^ fà "té cohcitentur. f4/pacta .
De Hepatis obflruttioge .
Hepatis 37.| N topicisinufüm ducendis, piimó hzc jk sn obitru- adfit cautio; ne attenuántibus
umquam, éHone 4t- vitamur, nifi longo
intervallo poft cibum affum- tenuantia
ptum, ut non modó in ventriéulo cibis in chy-
eie Iummutatus fit, fed in hepate'etiam jam mitita- dgio donem in fangninem nactus fit.
Quapropter |; RA. cümà ceenáad prandium
multó majustempo- |i f rs 1ntervallum
intercurrat, quàm à prandioad
coenam,commodifTimium tempus judicamus c(& fe, fi fiat perhoramante prandium. Linimbiis .. 29 Animadvertemus pratereà,antequamo
|... f (us cali- linymenus,aut
inunctionibus niramur, femper [s di ai
fp;m V1ÍCus effe fovendum decoctis attenuantibus, et [i gia pra- difcutientibus cum fpongià, ut et inunctiones ittedi. altius penetrare poffint, et materia
ab actuali »l» et potentiali calore
attennatà, aut per fe diffipa- . |... xi
poffit; aut medicamentis c corpore duci.
RIIANII |.emone nó priàs
applicanda erunt, quàm fectio- | ne venz
evacuatum fit corpus, et pars materiz ^.
I revulía: fi enim fecus
fiat,vel fi ob abundantiam e E uo
WA e 4
s *. cf ^ 5s Me - - A0.
deu SCORE M. - o. ERE UUS De Hepatts inflammatione . 39.Y cet repercetientia extrinfecüs
appofita. Hepate iz medicamenta in
inflammationum prin //4mmmste cipio
adhiberifoleant,in hepatis tamen phle- repelletta "m prine p:o. ante fe
élioné ve- n4 non có ; "Y^ (o, EJ 3 *» F^ T* * e » ; ^ '
*p)o l 2, 1* | repellere non poterunt,
rebellis magis reddetur 1, . K ÁO Ó N
e | timor, et contumax, craffior
reddetvr materia, et duritie coptractà fcirrham excitabit, vel
re- pulía ad cor, et fpiritalia membra
impetu rues, mortem ftatiminducet. 40. Laborante concavà hepatis parte, licet
p,;;f'ag; faciliüs fit, medicamento
purgante materiamo ;arne evacuare ;id
tamen crudà exiítente materià, et bepauisip
in rrinciplo fieri non debet, fed ccncoQà, &in «ezva par- decUinaticne. Qvamvisautem 1n phrenitide, !*
megan aliquando ab initio, ad
revellendum, evacv2n- dum, [cd d: m fit
medicamento pureante ; ficut docet in, "* d.cina plevritide, defcendente ad hypochondraa dclo-
«oi re, Hiep. 2.4cut. quia, ut aliàs
docuimus, non-dum cruda eft materia, fanguis nempe bibofus ; in hepatis tamen inflammatione nullo modo 1d,,
infini pre ftandum eft : quód, cüm pars
1!la labotec;,, sone humores, auià venis
undequaque evomunt"r 55,5; i
adjecur,etiamfi aliquà ex parte evacuentur ; p«»cipio per partem tamen laborantem feruntur ad ven-
sos. 2a» triculum, sícaue et 1»
becilliorem reddunt, et 454a. reduviz craffiores remanent; magifque
impinguntur. 2 AI. | T e
Hefatts gibba in- fidsaata,
ante dta- retica le- - ninda al
UMS. In be 11:$ HZ fla ?2
2 311076 4 yebellentt Dus, itüprilcifi0 niteda .
Hepnte tn femato, aciü f !?i
da fic fd 7 d
4 la 9 Quz in gibbà hepatis
parte fit inflam- matio, et quz ad eam
partem affluxa eft mate- ria, licet per
lotium commodiüs expurgari,com
muniomnium doctorum fententià poffe confti- tutum fit, antequàm tamen diuretica hec in. ufüm ducamus, optimum cenfemtus,
leniente» aliquo medicamento, aut etiam
abftergente», materias in primis vHs
contentas evacuare, ne» ufi ducentium
per urinam, quz in primà illà corporis
regione continentur,ad penitiora de-
ducta, inflammationem adaugeant.
42. Licet autem in principio inflammatio- pum aliarum partium fimplicia repellentia
in ufum venire debeant, in hujus tamen
vifceris phlegemonealiqua etiam
attenuantia calidaad- miíceri poffunt,
et debent, non eam folüm ob 220 7» caufam, quód frigida, et adíftringentia
ad penitlOres partes facilis devehant;fed etiam;quód, cüm vifcus illud undequaque angufti iffimis
ve- nis fit refertum, et illius
fübftantia ex iilis: fere folis fit
comp ffitasut proinde parenchyma optimé dicatur, fi frigida fola, et adftringentia
aut exhiberentur, autapplicarentur,
facillime ad- ftrictis venulis, et craffatà
materià; fcirrhus in, parte concitaretur
; aut fane tumor per fe incu- rabilis
fieret. 43. Vt proinde etiam hzc eadem
hepati non valde frigida actu applicari
debeant, ob eafdem caufas; tum eti:
ime ne naturalis facultas noxam aliquam
contrahat ; nativo calore quafi exítincto. 44. 9i
j| I: aon:
44. Si tamen nulla adhuc affluxerit mate- zropatein Iia, fed affluxus certó impendceat ; ut in
cafü » fz mdi I étu, aut externa aliqu:
à Causa, pura repell entia, f1se ate
etiam cum aliquà adfirictione,concedi po terüt. riasvepellé 4 $- Quinimo, i in ervfipelate vero eadem
pu- !/2/ela c9 ilta conceci poffunt ;
cüm :& materia fit renuifhi- (€ 15
efipe aMnpa, calidiffima, ut periculum non fit ; ne ni-
eri 1 epa amis craflefcat, &-obftruat venulas .
tis, vegellé » Vnde etiam frieida actu
repellenua C3.» v fola ci Aapplicari
regioni hepatis poterunt j CUm cns eoninnt.
Irenfiffima fit ibi caliditas ; qua ctiam medica- /5 er yfipe- Amenti mntenfionem refringere facilé
poterit. In. /a:e zepa- IQuo edam cafu
pau» dllum aceti indendum crit, ris, frigi-
Jr frigidiffimi medicamenti penetratioadjuvas 44 2s Ar? px flit. abplican- 47. Et quemadmodum ratione partis ab jni-
B | bebati |, Ho dictum eft;non puis repel Hane. ieudu
B. t "T" PA E: infamma (Ie, fed attenuantia aliqua effeadmifcenda ;
1ta | à [102€ 5 17 lin declinauone non pu risrefolv im us utédv
I sch æcoiimatio docuit Galenus 15.4e:5. fed nonaihil adftrin-
ne puris re Ipentium admifcendumeerit ;
ne laxatà nimiümo | (juez j. parte,
tonus illius deftruatur. bus non utedum
. De Hyárope. 149. Varmwis illud et veriffimumfit;&
Gaost bydro- leni auctoritate
confirmatum, /:7b. " ferofr H0 $5
TUR que tao pur. CAYC oportet ic- Mast
lrofos humoresab1 initio p! Iro ari pc offe, quód. nul 44 ize ; illain eis exfpectari debeat coctio, quód
nullam purgarz cionem admittant ;
cavendum tamen erit ; 5o, validis
fed à levie ribus tn- ehogdum.
Poft bydra g^:^ vale 1:a ventri
ciilus vobo YADUÁLS . 1n Iydre-
picis «tte- nudis tenda s
nt butic- yes p wies mua du-
"T poffint . In
bydvopt DEG m ear1té xWAII2HÍ
dia no 1i- ff LCLPDP Iní y iret
ín düweti cis nà diu 57 fallenLVDb. SEPT.ALII MEDIOF. cOgIS ftatim ab initiojfed ]evao 222
validis uti hydræ rialiquo med
icamento erunt prima excremen- ' ta
educenda ; et fic vie ad-validiores evacuatio-
nes prxparabuntur. 49. In
valenticrum hydragogcrum ufü fem- per
maxima ventriculi: ábenda eft ratio : cm.,
cnim majori ex parte tonum illius I5befactent ; fi frequentiüs, u ità multis
foclet;jexhibeantvr;nisíque abillorim exhibitione ventriculi habea- türratio, imminvtà aqvá flates cilicrem, fi Averrci credimus, zerum noftri
m» inducemus. jo. Vt veriffimum eft, ferofos hos et aqueos humores nvllà coéticne effe preparandos ;
)ta» cüm pctiffimüm perl-tiumfint
evacüandi; via, per quas permeare
debeznt, infar&u funt hbe- randa: in
quem ufim et decocta, &fvrupia atte-
nuantes, et abfteroentes, et incidentes maximé converient,ut cráfficres,& limcfi humores
vias cbfttventes, et effluxumvrinz ad
renes, et ve- ficam impedientes pra
parentur, ac facile educi poffin
at, $r. Nectamenin horum ufu diutiüs
infiften dum eft, ne dum 1d tentamus,
morbificam cau- famadauecamus. $2. Hocautem maximé in vfu vrinam proe
[Hi mmcventium eft animadvertendvm, et
cavendü: vidimus enim quàm plurimos, dvm
obftinaté nimis per lotium humores hos
fercft s deducere: 1! ec obfervarent,an
co-- 1t potionibus 11$ tentatent; pia
augebitur, et in^ deteric
remfpeciem hydrcgi is, et curatu ciffi- la urinz augeretur, mortem a grc tis
fuis acce- Ica petu [entà il!à materi
in corpore reten- IEà, et in morbificam
caufam mutatà. $3. Praftat igitur per
tres, quatuorve dies, lipericulum facere, et potionibus rem hanc tam- iquam aptioribus aggredi : quód fi pro voto
hzc inon füccedant, aridis res erit
tranfigenda, fuccis Iconcreus,
pulvifculis louum premoventibus ; Itrochifcis, et fimilibus. $4. Rhabarbarum, quod in hydrope labo- Prantibus 2 à mune. commendari video ; ut
for- . [té aliis pro roborando hepate
acmixtum ccnce- lili poteft; ita fi
frequentiusin ufum ducatur,aut
licommanfum, aut in pulveris formam
affü m- | ptum, ad evacuandum
numquam probarià me pee quód talia a
aprum non fit evacuare, qua- lia opus
effet,quoc ique docuerit Gal.Zb.de purg.
I ozcd. f acul.eap. 2. quz flavam, vel nigram bilem purgant, Amportuna efTe, et inutilia
hydropicis. $5. NNon omittenda eft
Galeni animadverfio lex Afclepiade, 9.
de compo[. sed. Jeeundum loc. et ; M à
Tralliano repetita ; cavendum effe à frequen-
f uoribus, et iteratis vacu: auonibus;qu iod hydra- j.o02a hac per fenoceanrz he pati corpi
üfque uni- ver(um reddant debilius, et plus
phan quam. profint: itaque faris eft;
ceftante A lex./ib.9.cap. l| 2.
paulatim, et tutó vacuare, quam fe finando,
perturbandoque,unà cum morbo agrum de»
medio tollere : praftabit gitur, ev acuatà parte materie per feceffum, hepar per aliquot dies
ro- borare, moxque yacuationcem
repetere. 16. QuamM aum, £5
quando. Potulenta i» bydrope
Ex ep? fafüecin. Rbabarba
ri Lbydro- picis inuts TH
Hydropi- cis rebett- ta fapiss
bydrago-- gAnexia« vefeckHa ^
$6. Quamvis duos hydtope laborantes fana- pydlropicis à viderim ; quom in cruribus
perfe excitatis, eribus et difrupus;&
multà aquà ons eam partem eva-
ephlicat^," caatà, exhibitis pofteà multis hepar roboranti- pericula-. us; nullos tamen umquam fpacio h
oc quadra-- e cinta annorum,quo in magnà
hac urbe medici- ' 'nam facio ; curatos
vidi, quibusà Medico vefi- cantia
cruribus admota fuéte, fed fere femper
cangtznz fubfecutz funt cura itu impoffibiles; ;ut paümée etiam doctiffimus Maffaria longà
expe- rientlà obfervavit. e De
Lenis obftruélione s C darstie. $7.3 N
fplenisobftru&tione non ftatim refol-
Veleibis s,quin ne quidemattenuanabus
'alidis medicamentis cftasen dum :cüm enim anenuan Vicus hoc femper fesculenus, et craffis
fuccis sibusagé- refertum fit, gi ulum
impendet; ne fubtilio- dum . ribus,&
liquidioribus parabus abífumptis,craf-
fiores, quz remanent, per ea quafi lapidefcant; et verumfcirrhum inducant. Splene ob- (8. Prineipio tetar emollientia
adhibenda» Jffructo c (ui t; et fluxilem
materiam reddentia ; poft au- duroymil-
tem difcutientia tuto adhibere poterimus.
dendi Uu.
$9. Sed cautione hicopus eft, nó effe utrum-
220, post . vefolven- gum,
Splene ob- Firuclo,no validis
:ue hocofficium femel tantüm prxftandum;tedij repetitis vicibus;,punc emolliendum;nunc
quod emolliítum eft et fufim aifcuti
tiendum ; itertimi-J que quod jam
emollito fübeft;iteruin emolhen-4.
dum; mox ;élbtvendii S digas tota molers$ ditfipetur . . Nec z5j
6o. Nec placet, quod plerifque ufiratum fci- 17 l'en nus, m initio emollientibus attenuantia admi-
ticis 9 l| fcere, ut illa incommoda
evitemus : cüm eim lentius. eodem
tempore ducrum illorum operationes ^" "5^7 | perfici nequeant, fed attenuantium,&
difcu üen | rium ;ob caloris efficaciam,
actio multó citiüs ll abfolvatur
zinillud femper incommodum inci- | demus,
quód difcuflis fubtilioribus part ibus,
| qua fuperfunt ficciores evadent;ac difficilius fu- perari poterunt. 6&1. Nullo modo Hier. Mercurialis
fententia 5?/enicis in obftructionis
lienis curatione ; /b. 3. de cogn. '^Xàtións
| C c ramdigibuma n corporis aff eciibus, cap. 21. re- aliqua ad | E: ienda eft, càm in lienis affectibus
curandis, ^44 imu am neceffarium effe
cenfuit, ut medica- "^*^:
I"menus laxantibus commifceantur adítringen- | tia, ob eam rationem, quód, cüm viícus
illud admodum fit 12no bile ;fuà naturà
debet effe la- xum, et latum, ut facile
recipere pr fiit humo- I res
melancholicos ; cüm fententia hzcé directo
| repugnet 13. Z44eth. cap. 17. fed maximé 2. ad E ec. cap. $.& ratio id docet :cüm enim
vifcus | fit non parvi momenti,multum
refert,nimiüm- ne fit laxatum; fic enim
illius tono perfracto,fa- cultatibüfque-
naturalibus i edditis 1mbecilli- bus,
minüs recte fanguinem defecare po terit,&
| hiepa r, corpüfque univer(um expuroare: minus | tam en, quàm in hepate curando hac in re
eri- ] mus folliciti, et in minori copià
emollientibus ] Bicuingenna
admifcebimus. 62. Fruftraobíftructum,;aut
duritie tentatum Lies vix p lienem tuno O56
feenda « fe lot: poet PÜeyieióin € fr ncifio
TU gon Put- yofos Las 6 J
quB s et 4 ob J 11] g'4paran- 20 di r
orediuntur ; cium enim mdflns ab hoc vifcere adl vias urina fit tranfitus, Galeno etiam
tefte, 15.. Meth. 17.1d fruftra tentare cenfendum cft, in. quo Medicum fruftran fine contingit:per
fecef-. fumieitur ea materia ducenda
etu Quód fi quan: do aliqui per lotium
copiofum curati vifi funt, ut de Bicne
fcriptum eft j 2. Sec? 2. Epid. id vell; et per vias occultas factum]; recenfet Hippocrates ;velf ane aliis
adhibitis re--|, tamquam rarum; mediis emollie ntibüs X diffipantibus, et per alvum fübducentibus,cüm multa
feeculenta. per venas pbi. materia, qua
foveri;ant re- novari tumor ille poterat
; per urinas ei fubdu- ét, pra quod imitari Medicus poterit ; ubi
nigras craffas, foeculentáíve urinas
adetfe COgnOverit : P Jienem curare
conantur ii ; qui. diureticisidag-.
expurcay i in? rfervatio potius, quàm curatio facta
eft::| autt]. diureticis enim tutó tuncuti poterit,
adantece-.| &4cntem materiam per eam
partem vacuandam..] De lero. Icet Galenus nofter, Jib. OQ; 40$, C2 quando ; purgare eportet, doc uerit ; lenues, et feo
j* initio efle évact icteritia biliofi fucci funt ftatim evacuandi
; neiw que enim f: mper ten ucs funt
«neque ferofi dicii] poffunt: preparandi
igitur ante evacuationem jl et,fi
putrefacti, omnino concoquendi ; vel exd
K "I d. s
^ d - ! fh fent Ruffi fen
-- Ww "2 wi 6 A. Á t
:s humores,nullà exfpectatà ccctione, abii 'andos,non proptercà tamen nah Med
imperfecto, un lequaque bile difpet: ieve-
inert. &4. At veró cüm bilis
quàm minima copi: à» e. ida A clerici vA int nalliad inteftina crahifmifs ; ex
obítructio- ;, d n F II. 2257
1 [2 "P2: * S x Leltis ned
ntiori- Ine veficz fellee;torpida
remaneat expultrix fa-. ;, 4j. cultas int eftinort um, va
le ntioribus femper mnc- Cc£ADRERTS
ldicamentis erit utendum . ond.
6*. Cavenda tamen. valentrora hec medica- C) a5 dà limenta erunt, fi aut ex hepatis
inflammatione» wvalentiec1 Íymptorma
hoc fuperven« rit, aut motu c ririco, fa furgan De Colicis doloribus . ^ i :, 3
1 anodvnorum in hoc morbo: lud 1s ecolieis P
66 W ha i primóanimadvc denied
Bi iritio, fl dulorzbug in ufüm
ducantur,antequam evacuata lit mæ- initio
teria, non effeadimifcenda valentet difcutientia valere? flatus; ut rutaceum oleurb, autolea quibus
ru- [citieita » ta, baccz lauri, et fimilia
incoctafint,etiamex ^^: Galeni oracepto
12. 74M erb.8:cüm enim ob co- plam mate
riz affidué flatus eenerentur;non va-
lentia illos difcutere, fap édok res augent, G7. Erranzimultó magis ; qui 1180 leis
vinum E aut fapam (tatim ab REPRE
dmifcent; vfteribus infvpdunt:
cruciatus ab n fiepe aup» colicis
clyfteves ab initio cum vinos
eentur, excalefactis, attenuatis nimiüm rai 3 fabA3 T Ó ot. ZEE . á vUeyí j"pyp" fis et frieidis humoribus ; et in halitus
ele- 55i. vatis. d. I" ^^?" 1 diss A143 529 )' 6o. t quemaa modum catlidaiozà hact oten-
colicis €8 tia,frive itf 351 five
extra,!n prit pi lo non la uda- /ida va4l-
mus ;itaáctu etiam nimis calida concedendas 4» 44^ s cí C eocamiFt ; tpalá » Pa 69. Anime Chfte 69. Ánimadvertendum euam
; ne clyfteres colicis ge 4ndantur,
repleto adhuc yentriculo: fic enim ci-
indantay, Dus attraheretur apte ten pus,magi(que impin- repleto ve gerentur crudi humores in
intefünis, augeren- triculo. tur
dolores, et cvratio redderetvr difficilior .
Stubéía- 70. Stu pefacientia quamvis in omni dolore ttezt/27? colico convenire poffint ;
frequentiüs tamen in col'icis 9- nm duci
poffunt,ubi materia morbum faciens
Prom^.po- c lidior fit,& acris : non folüm enim fic fenfim pol O btundim us,fed etiam caufz morbum
facientis ris e,Lj. au onem habemus...
| dis. 71. S1quando tamen iis utendum
eft;eó ufq; Opiata i; ion funt differenda,donec
vires vitales jam col- eolicis, vi
labafcant ; egérque non longe abfitab interitu : rió4s va- folet enim fzeepenumeró fine dolore
dormiendo denriéus . yita terminari
. Colicis ip | 72. Incolico dolore ex
pituità, fi quis recen- dolor;5j; tàorum
dogmata fecutus lenientibus folis;aut ad
furgani- fummum ftercorariis admixtis aloe, aut. Hierá éus in ini Galeni ccntentus, à purcantibos
veris abftinuc- fio utez- rit tandem
honoris jacturà factà;aut eeros mo- dum.
ricum maximis cruciatibus finet,aut alterius
Medici acceffione, qui cum Grecis omnibus, et Mauritanis, validiori medicamento pureante, et abftergente propinato,materiam ab
inteftinis deturbabit, ac eà ratione dolores
aut imminuet, aut tollet, exiftimationis
non parvam jacturam faciet: non valente
enim leniente medicamento vifcidam, et craffam
pituitam deturbare, et Hieràob
tarditatem actionis diutiüs in intefti-
inis commorante, et fepiffimé non valente per- cranZ ^ ^
* ES wg. JERDL Q4 T: 2e C RE--- 0
0 M ANIM-ADVERS. LIB. FII. 229 canfire, fed materiz illi craffe adharente,
ele7 vatis flatibus, validiffimi dolores
excitantur ; et augentur. Qr'are
preftaret u rgenti dolori quam- primum r
eductà materià fuüccurrere ; et 118 uti;
qua cum attenuantibus mixta citó materiam» fubducere pcffent. Neg; impedit, utad
locum aftc 'ctum materiam deducanius:
nam neque ve- 1e locus affectus ita
lafos eft ; ut hunc Serien non
adizittat, cnód ad hoc à naturá fint inftitu-
ta inteítina ; et (i qua materia ad eas partes du- citur, fimi le tiam cum præxiftente
evacuaturj fi affecta cflet pars, fi
inf! ammatlorne ten Haste] tinc maximé
peecaremus, fi talem 1n eo caíu
evacuaticnem procuraremus. Neque cruda»
hac materia dicenda eft cà cruditate;que ab 1n1- tio, pracepto Hippocratis; evacuari non
debet; de cà enim ca fententia
intellieenda eft ; qua ex pt tredine
fadià, Coéctlo nem requirit; qua putri-
dis debetur hi moribus, quales fu nt humocresin febribus putrefcentes.. Hxc extra venas eft;
1n locisad evæuationcm inftitutis fine
eenereillo putiredinis, ita ut folis
attenuantibus aliquibus ; et abftergenübus, tam peros fumptis,quam
1n fufis, preparariad evacuationem
pofhit ; quin- imo infu fis per clvífmata
Pa U. atà vià,& attenuan übus
mediocribus difpofità materiá, fi ctia
pureantibusattenuantia admifcuerimus,; X
eft Hiera, intceré omnibus fatisfacere. poteri- mus ; fic enim fvbdv cà materià, et diícuffis, quin et expulfis flatibus; aut dolores
folventur ; 4 alt certe maitiores fient, Dp j 71, Olei i;0 V/ussli,- 73. Olei velexamyedalis,
velex femine lini ij: in colicis wis,
ubi multaadfuerit materia craffa ;inuulis;] i
205 €v4- C^penumceró effe folet,reünetur enimaliquan- | í Bus ss do; et vifcidiorem materia reddit : et
licet tam--| teria, i,, quàm anodynum
quandoque mitiores reddat] i: il.
olores, quoniam tamen materiam peccantem /] ii
fubducere non valet ; folent non curari dolores ; |ui Íed fepe denu ó infurgere. Oleum in. 74. Apertàig itur vià, et fübductà
parte mæ] ui cici; lerie,autenematibus ; aut medicamentis pure
«du ou^»do gantibus, fradhuc urgeant dolores ;
preftandf--[n optimum fimum effe folet
prafidium. préftdib. ^5. Sedíi vereamursautob craffitiem mate-.| rdg riz; aut ob ejufdem quantitatem, ne
poffit prz- ddodacs terfluere,
admifieadunilli etit nonnihilabíter-
abfise, 8 gentium,ut meliis rofati folutivi;aut etiam pur- | tibus, ay; gatum, ut diaphenici l;ve cl
electuarit Elefcoph,,| purganti-
diffolutoru mcum aqua aut glandium Perfico- | y; éus . rum;autaniforum; aut fimilium . Ín colis |. 76. Quod fia à flatibus.dolores
provenerint, à flatuyo- fine mulià copià
materiz, nihil eft quod magis ha data
exufit effe foleat eodem oleo;etiam ab ii nitioauc | etiam. ab per fe fumpto aut ; quod: melius
cííe facpius ex- Jue sr ^- pertus fum,
cum pradicus. | EI Seem 77. In ufu
vomitoriorum cauti fint maxime: [i A a
fi enim ventticulus, et fuperna parces inteftünoe | £olica. s. Tum replete nimium fuerint, ex ufü
maxime li fvs, c» 4. €rünt, ut
medicamentis ad dejiciendum ingefts: [i
éufus... locus detur pertranfeundi: quód fi totus dolor; eiüfquecaufa infernas partes obfideat, non
fo- lum fruftra tentatur vomitus, fed
aliquando fit. | cum ANILMADVERS. LIB. cum zerotantium certà pernicie;vo Ivulofi
enim fipe fiunt; ac cum certo mortis
periculo, etiam ftercora per eam partem
evomunt . 78. In cucurbitule magne
appofitione regio- ni umbilici ea
adhibenda cft cautio, ut ea ex illis
fit; quz funt in medio perforate: fit enim fzepe- numeró, ut cüm pars fub]ecta mollis fit ac
pan- eguis,multa illius rcoles inuró
trahatur, qna fub-
tractionem-cucurbitulz impedire folet : unde» vel diutiüs retenta 1n fp! acclum fübjectam
par- tem deducit, aut fi frangatur, ut
hocincommo- dum eviremus, aliquando ex
vitrorum fra- ementis cutis
vulneratur. 79. Cüm pluribus,
potiffimum mollibus, et perpinguibus,
hx: antes fere fintumbilici, et ex vi
füperpofitz cum igne cucurbitule pinguedi-
dosis a portio aliquando trahatur per eati partem, confalo;crifici o1lliut prius fü
perponàt parvüm ceratum, puta,ex cerufsà
coctà ut tale incommodum evitent - 8o. Vrincolicis doloribus ex flatu
anodyna ftatim et interna, et externa
concedenda funt; ut cruciatus illi
mitieentur ; matcria; unde elevantur,
fitevacuata; ita ea fu- gienda effe
cenfeo cum Gal. 12.7 eth. qua infi-
gniter calefaciendo difcut ere quàm maxime va- lent: attenuata enim fnateria. majorem
Jocum. occupans inteftina magis diftendit,
ac flaubus 1dauctis dolores auget. 81. Cucurbitula etiam in iis dolor'bus ex
flaVII 3t eadamfi nondutn : Cucurbi-
tale ma- £v4 inco lzcis appls
cand& cati £10 e V mlilic?
mnunter- dus in ap- plicatione
cucurbi(Ux 4. Colicis ex f'atu Ta-
lenter di- fcutienits An6XlA «
Celieis ex tibus, ubi urgeat
fyroptoma, uti poffumus ; fed. f/4tu /a£o
FP cctTante vàtes 441 Ce(lante dolore, vel mitiore reddito ;
materias; eucirbituunde elevantur,
fübducenda eft;alioqui redeüt, le ufam
ut optimé docuit Gal. 12. Adethb. cap.8.Si tamen P^44:- non adcó urgeat dolor, utomnem ad. fe
trahat indicationem curativam,
preíftabit evacuatio- nem
pramittere,prafertim fi multa fübíit mate-
ria; aut adhuc novaaffluat, ex 13. Z4eib. 19. 92. Contingit aliquando, ut colici
dolores adeó vehementes fint, ut omnem
Medicorum 444 qu, Operam eludant, 4C
quocumque auxilio adhi- doque tet bito
potitis augeantur, in quo cafu ad contraria
dum. €tittranfeundum:Cüm enim
colici dolores ma- jori ex parte à materià
frigidà fiant, aut à flati- bus
diftendentibus; fit aliquando, utaut ratione
dolorum, aut vi igiliarum, aut maroris, ob con- tamaciam aut incalefcant nimium inteftina, accedentibus
etiam calidis, et intrà,& forisappo-
fitis remediis aut phlogofi quadam tententur, autetiam verà inflammatione incipiant affici, aut multa præxiftens bilis ibidem
transfunda- tur; unde ad conrraria erit
cranfeundum ; et in- figniter
refrigerandum. Quod mihi anno prz-
teritoc ont191t, primo in nobili Hifpano, peci- uum duce egregio ; poft in N. à fecretis
Iluftrif- fimi, et Excellentiffimi
Marchionis Caravagil, qui cüm colicis
doloribus per aliquot d lies fuif- fent
acerrime conflictati, et jamjam mors efset
pre foribus;nulli Jp /^ eget arteriarum pul- fus; fudores adefsent refolutorii, nulla
denique ampliüs fuperefset fpes falutis,
ne quidem apud Medicos cua
prettantiffimos: accerfitus et ego,
cum Golicis im delorióny
frigida a«x - A "use c EET 1. cim fitim inexftinzuibilem,linguz fcabriciem, nierorem, ac.duriciem, pertactis autem
hypo- chondriis, et ventre inferiori,
calorem in parti- bus illis eftuantem
adetl c obfervàffem, Hifpano aquam
multam nive et: um refrigeratam biben-
dàm exhibui, cüm naturà abftemius efset, et multz aqua potator egregius ; in íomnum
pro- lapfus eft, et quatuor horan m
fpatio cüm dor- miviíset, dolore quodam.
inferioris véntris, à primo maximé, ut
ipfe referebat, diverfo exci- tatus à
fomno, miram bilis flav copiam evacua
vit, et à doloribus liber evafit. Vndejcollegi; Me dicos, qui illius curationem f fufce,
"erant $ 1n Causa nx rbi illius
longe deceptos bá e cum. calidis remedus
curationem inftituifsent, à fr1- gidà
materià factum morbum judicantes . Alte-
rumautem, cüm jam agentem animam invenif- fem, non alià ratione ftatim curavi, quàm
lineo i|ds plicis in quadrati formam
com- to, hine immetfío ; ac mirantibus
aftanti- bus quid facerem, ventri
füperpofito.cumque» ut dormiret
injunxifsem, dnt itiüíq; edam fom4
poopp refsus fine motu cum conquacte CICLU, VCrentes affines, et uxor,ne
jam fatis ceffifset,cum experge f ecif:
ent, indign: inuitus s, quód tànto bonoe
eum privà sen t, quafi € lecto exiliit; à do-
Lubin cmnino ibis : 85. Si1ex
Miiaienon inteftüni dolorem. fieri conueerit,
caveat Medicus, ne ullo qvan- tumvis
levi medicam nento fubdi jcente utatur,ne
attractisad parteminfiammatam ab illzefis par1 i9
ee si I2 celíci (x inflar
H ?97»at105H£ [^ purgatto
)* yv TEIZETTS tibus; calidis;aut pravis humoribus;aut
inflam-, matio augeatur;aut impedito tranfitu,in volvu- lum de(inat.
Caffia dn | 94. Caflie tamen folius ufum aliquando non eoiicis ex refpuerem in tali cafu;quód miti
illo,blando,& sfiam- humidocalore
lie pé i inflammationem fe det, do- 745"*
lorem ]eniat ; et fuppurationem tumoris ad-
1075. juvet ; Seu d 95$. Quamvis venz fectioex brachio in coli- Coco 9? 6o dolore x inflammatione, decreto
Gal. 12. dolore ft- da bina AMetbh. zzed. commendetur : sf tamen
eó ufque » 514],,. P'orbus pervenerit,
ut urinim fü pprimat, fecta liquagdo
Vena intalo maxime conferet; aut poft priorem
coofep:, Mlamy,fimultaadfuerit plenitudo, aut etiam fi talis non adfuerit, fi ex talo loto fanguis
primo mittatur,non erit preterrationem,
d expteri- menta. De lvi fluere [ N alvi profiuvioillud ma: ximé cavédum, epus ne,dum virium maxime habere ratio- gui L nem voluerimus, confi et jurt-
bis pinguibus laxitatem ventriculi, et intefti- norum nimiam neenon: ius ; alvique
fluorem jn Iecamus. I» SN 97. Sunt fepenumeró noftrates Medici
in., rf.io frigido potu concedendo
reftricti, ut rralint ^ gidaus cum
manifefto detrimento tepente aqu àfluxü,
potus [epe laxitate introductà, alvi augere, eo confilio, convent. quod frigidum nature inimicum
cenfeát, quàm Juíto jufto teri defiderio
faüsfacere, quod tamen na- tura eti. am
bene operant e fit; ut et adítrictioni
Bt fni dumm (atisfiat. $8. Inflammatione tamen
verá tentatis inte- ftu nis, frigide
potus vitandus eft. 69. C Cavendum in
diartheeà, quod plerifque video
confuetum, ne femp er aut in plerifque»
ftatim abft erforium aliquo d exhibeant; ut mel; aut fyrupum rofatum aut fimplicem, aut
folu- tivum cum fero lactis, aut
mannà;cüm enim ali- quando bene Opcrante
n. atura id. fiat,non erit aut irritanda,
aut promovenda, fed totum ne- 9otium
natutz erit relinquendum: fin veró ma-
là qualitate icritata etiamid natura przftiterit; non etiam erit adjuvanda, ne calcaribus
natuta current addius, pt Izecipites in
mortem agros igamus : 1peCctatores1g1tur
p« nus hu jus tnotüis nature aliquandiu
erimus, et morbi morbifice- quecaufe
potiílimum rationem ha bebimus, Quod fi
naturam hifCere, aut fuccumbete vide-
rimus,neque materiam poffe pfo rauone eva- cuare,irritari tamen pattes; fzprüfque ad
excre- üuoncm fere inaniter provocari ;
tentiginem Hn ano; et inane defiderium
egetendi fubcíle ; tunc manus adjutrices
petita 'ere coni eniet, atque.»
abítereentibus uti ; quin aliquando folventibus blandioribus; ut matind,& (yup o,aut
melle f£o- fato folutivo;ut quod pluribus
egeftionibus cum dolore, et natura
labore evacuati tentatut, bre- viori
t€empore,& mincri moleftià educi poflit .
De Frigida f'gien: dá
.AABngB fla 375 72411058 inteftino-
Yum OQuado ab fe '"geati- bus i diay
vL&a uten dumIz dyfen- geria qua
do purga- dum, c^ a [£4
Jed bono viclu C facili ad alia
236 LVD. SEPT.ALII
MEDIOEL. De Dyfenteria. 90. Vmin curandà dyfenteri3 adeó
diffidenr tes fint etiam doctiffimorum
virorum. fententiz, an reterto corpore
pravis, et acribus humoribus, laborante
dyfenterià verà, ulcera- tis, aut abra
fis inteftinis,conveniat medicamen- to
aliquo faltem blando, puta, Rhabarbaro,
myrobalanis ; tamarindis, manna, fyrupo rofa- to folutis vo, et fimilibus, humores evacuare
an potiüs omnino ab iis fit femper
abftinendum,; qt ie in mediciná faciendà
maximi momenti effe conftat. Ego
nonaliam hac in re fententiam in medium
proferre tentavi,quàm eam, quam no- bis
tradidit doctiffimus Vallefius 4. Epid. cap.96.
qui ab utráque fententià extremé diffidens, ali- quando pureandum cenfüit, aliquando
omnino abfüinendum y voluit. Verba eius
fünt : wt zn d'yfentertco ef! cusa
cacochbymiasmæna exulcera- FIO nondum
Wai TAG aut cum exulceratzone magna
cacocbymia EXIGHAS AUT ut raqs exiguas aut utraque magna: $z pyimium, expureari debet: S1
fecundum, miti o fe dad [i dores,ad
urinam ; ant vomitus »o0t "andum, e
infa umaum loce alib Z7A1 777 C i ius 3 cu £X-
tertius pro ulcere curando : Si tertium,ue tunc qu. dena localibus admoduss, "eq; purgatzone
opus eff, f €UdCcHuA 107€ 5 6 €Yi- vatione : Si quartum, "aic abilis eft,
facies aut Hi. bil, aut omia
tentandigvatia, velut 12 ve de[pera-
Tales enim etiam cui ationes aliquando pro- mihi femper difplicet illud Celfi : ó&pe
] 4A. C iUcrant; : neqs;i JAXNTIM.ADVERS.. Sape quos vatiozon juvit, remery i47 dia
peyut à 91. Debet i1giuir quan primum
hujufmodi 7» dyfen- humor pravus ;&
acris evacuari aliquo ex prz- teria, ubs
dictis medi1camentis, fi illius m: enam copiomo PA/*9Z4d, €X CIIS amalrcre, ventris ti his tione, avt
aliis qmm fignis fübeffe ccgnoverimus,
antequàm ex fre- " id qt enti, fed
paucà excreticne ulcera adaugear- Heo e:
[Ur,aut vires de ji ICIantu | 92.
Animadvcrterdvm tamen, fi fübeffe co-
piam arrabilarii humcris cognoverimus;,etiamfi exulcerauc adhuc magna 1n inteftrfüs facta
non fit, non ftatim purgeante
medicamento cffe edu- ; cendam,
cancerofa enim u Icera,& peffima ex-
citaret; fe dattemperar!, ejüfqu e ferocia delini- ;e, bris r1 prius debet.: quod ubi factum effe
cognoveri- feroia il- mus, cmnino
evacuari debebit, fed blandiffimo iss tezzp
medicamento ;, deccétione tamarindorum, vel 72454: jmyrobalarorum, cum fi rupo; vel melle
violato f"'g26z. folutivo, iifque
fimilibus. 3. Rhabarbarum in dyfenterià
ab Hs."qUi nLea BAS rt: orum
dogmata fectantur,qu1que pur- £227» ||
gandum fepein cà cenfüerunt quamquàm vl- 4yfzate- I deam paffi m ad hunc finem in ufum duci.
potif- ria f/'sfpr- l| fimüm ubibiliofi,«&
acres humores abundave- &- rnt;quod
tamen et tpa "Enos partes habeat,
|| quod in fübftantià affumptum, ut in hoc affectu || pleremque fit tunicis intefünorum, et ulceri- | bus adharefcens dolc res pariat
implacabiles; ut I fa pius obfervavi,
omn ino fuoi ndum cenfeo c; I quamvis
fvrupusde cichoreà Gulielml cum eo. ccu. cà
| paratus ad/triélione carere fatendum ft, cimo Zadar iamcn
y 4») 7
C-0 terta, bue 530Y€ atra
y' bilario e, aAa0€Y 217*toG Gulielmt. 4-4 $2
tact» admit FN TS /2
19: &ji Rbhbaba pe bav 4 1er
refackuim 2n dente eti at ei
£ 164 à am. Df fentert £15 yao 47.
s)0n1f fan gHints ys!jf20; (e €Hvr » ramenà cichoreaceis igne illius
partes reten- 'antur, fi cum decocto
ramarindorum, aut my- robalanorum
concedatur, non ita rejictendum.,
cenferem.. 94. Sed 1agis etiam
recentiores communi erróre decipi
iuntur, torrefactum R habarbarum in
dyft enterià vagis,adftricüonem, et ex-
ficcationem augere volentes ; ut utràque facul- tate, purgatork à. .& adftrictorià
adauctà, melius intentioni fatisfacere
poffint quodi innoc entitis fieri
torrendo putant ; cüm experientià conftet,
medioctiter tot xefatutn vehiementiüs,:à et mi- nori dofi purgare, quàm integrum ; 1eneas
ta- men partesadhuc magis vigere: et fi
majorem. sd eto adhibuerimus, purgatorià
faculta- te penitüs deftituitur. 95. De mittendo faneuine per fectani vena, cüm graviffimorum virorum fententiz é
diame- troomnino inter fe fint
contrarizsaliis majori ex parte
fanguinem mittentibus, aliis pumquatn..
Eco hujus fii n fententia, fi fimpliater dyfente- riam confideremus, aut ejus caufam, aut
multa cx adjunctis, dolores, febres,
1inflammauones ; omnino convenire
miffionem fanguinis, quà& |^
fluentes hun ores ad partem laborantem poffint retrahii,& plenitudo tolli, et jecur
refrieerari ? fed càüm fopiffimé à
diarrhæà proc ducatur, illiüf- que edam
perpetuo fit focia, in quà,eti iamfi non
fit pro mu ltitudine fufficiens, num quam mitten dum effe fanguinem cenfui i Fil »p.&
Gal.4 de 2 rat. yict, t5 acut. tie. (
I.4d Glauc, CAD. 14- aubdi aut pl
»1( it 11i
"no AGE PCI y dg ima a AND
aut vires vitales fint imbecille reddite, aut pe- riculum 1mmineat, ne profternantur ; ra ró
cen- fendum eft occafionem dari
fanguinis mittendi ; potiflimum cüm
majori ex parte in hujufinodi Caíu
íciamus peccare humores à fanguine diftin-
ctos, et tales gros cacochymiá laborare, facil- liméque tum o b evacuationem, tum ob
vehe- men tiffimos dolores, vieiliáfque
qu: afi perpetuas,in fummam vitalium virium debilitatem bicidenc..
96. Sitamen aliquando mittendus erit.fían- Dyferre: euis,alvifluore non magno przefente »1r
inflam- cis quan- matà parte, urgentibus
doloribus, hepate, 4»,c quo toto iua e b
febremzftuante ; aut o D Ca- fmodo[an
Icfactos 1 humores in venis, viribus prefentübus, fr confentrientibus, imminentis virium colla »
is dicioni: penculi habitat atione; r ec
multu m,neque c fertim, et femel, fed
parium per intérva illa.& fx pius
ev: 1CU: sÉ) ius, Aéti,& Alexandr etiam
fententià: Ídque non cà folàm rauicne, quód vi- res non 1ta dif : an ntur,, fed etiam quód
iteratà evacuatonce fangu inis meliüs
revulfio perficia- tur,qua maxi re in
hoc atfectu expetitur,ut Ga- |! lenus
auctor eft lib. de eur. vat.per [eciam venam,
cap. 12.fiquidc " | natura toties irritata majori cü 'J impetu et facil Itate: affuefcit materiam,
ad affc- 'J «tas partes confluentem .1n
« ntrarios locos de- pellere, et quafi
per alios rivos transferre . 2, $45.
ARTS TERR TES Lathis 4 | Delactis ufu in
dyfenterià cüm videam ; | Y p ied : Æ .
oir furin d ddociiffimos aliquos viros
adeo iraffe, ob ^ " L1;
4c Q- mcm pr I " 4 b " j Fev?n
| AAÀIPpOCI2US, C izalcni AUCLOILIAUT $ p 70r. X . et Celfi, Ib. 3.cap.25.ut rariffimé in tali
mor- boipfumin ufum ducant, quód
dejectiones fere femp er in cà fint
biliofæ,& fc ebres non leves ma-
jori ex parte conjungantur ; cüm alioqui fciam maxime laudari à Gal. P de fémapl.smed.facul.
c 3«de alim. facul. cap. 1$. ubi non
folüm dyfente- re,fed omnium ventris
fluxionum acrium opti- mum dixit effe
remedium ; cenferem nullo mo- do, febre
prafente, et acribus fluentibus humo-
fibus; lac convenire fimplex,& fine; praparatio- nc; at paratum, ut faciebantantiqui,& ut
docet Alex. Trallianus, lapidibus; ferto,
aut chalybe in co exftinctis frequenter
ut et ferofa abíuma- cuf fubftantia, et pinguis,
butyrosáque corriga- turlgneis
abfümpts.certum eft; non nifi maxi- mas
1n boc affectu afferre poffe utilitates ; quód
non accendi, et in bilem verti hoc modo para- tum certó fciamus ;alyum autem fiftere
poffe» certum fit, tum ob cafeofam
máteriam incraí- fantem, et frigidam ;
tum quód ex candentibus lapillis aut
chalybe adftrine entem nanciícatur facultatem.
in dies 98. Cümin principio difficultatis inteftinc- zerici; cjy F0 » fepenumeró. mucofitatibus
quibufdam fieri al apparentibus, p affim
Medici ad, Æ Eso a fférgentig €nemata
deveniant, neadhzrefcente diutiüis tu-
"fas cugy nis inteftinorum hujufimodi humore falfo, ut €autioge . Ypfi putant, exul Icerentur
inteftina; fa 'penumeró etiam maximo in
errore verfantur : mucofitas enim
hujufmodi non adventitia eft, neque præ
ter naturam, fed naturalis, quz à ipio inse nis indita eft; ut muniantür, ne à bile, qua
cun £icibus in dies evacuatur ; interna
inteftinorun pars abradatur ; quz cüm in
diarrhocà ab acri- bus humoribus commota,
et abraía exire inci- piat, fi
clyfimatibus magis abftergatur, denuda-
tà tunica eo, quo munitur; faciliüs exulcerari poterit : diligens igitur cura adhibenda eft
ut mucofi, et vitiofi humores ; aut à
capite, aut à ventriculo defluxi ad
inteftina; à naturali muco- fitate
inteftinorum difcernantur ; quod licet dif-
fcile fit ; hzc tamen frequentius cum pinguedi- ne junéta effe folet, et cem aliqvà rafürà
internæ tünicr, et tunc non folüm non
eft abítergenda, fcd potiüs incraffanda;
pingeicribus,& vifcidio-
ribrisinjectis tentanduim erit munire Ioca illa, et acrimoniam fluentium hemorum
reprimere, quod oleo rofato omphacino,
aut unguento ro- fato commodé praftari
poterit. 99. Atin eodem errore
verfanturii, qui fluo-. C/yeriz re
materiernm ceffante, dvfenterià tamen perfc- abifergem verante, et ulcere in
inteftinis,iifdemabftergen- */4 i2 fiæ
tibus clvfteriis utuntur, ex aqua hordei, vitellis dyséterie ovorum,& faccharo,impedicntes hoc modo
ag- an [Hs o eIntinationem, quód fic
penumeró natura vifci- damin fine materiam,
nutrireaptam, ut repo- natur, quz
naturalis erat jam abrafa, eomittat., e 1 et1a72D rco. Tanta eft doloris 1n hoc morbo vehe- in
riti mentia, ut nullo tentato alio
remedio narcoticis 5j, "ni fit
f'atim utendum, non folüm per os affumpts 5 4, cozve- fed etiam per inferna injectis. , Iniüstamen
diutiüs non eft perfeverane Nareoté Q,
gum, Narcott pies 9 dum, quoniam fiepé imponunt : cm enim
fo- enterta Pon mnü conciliàrint, proinde fluxiones
futerint, et zendap, icfrigerando, et incraffando.
humorum et acri- moniam,« tluxilitatem
imminuerint ;olore ) imminuto morbus
curatus videbitur, nifi tamen v
lutinantibus, et ficcantibus uicus fanemus, re-
crudefcet morbus, et novo dolore fupervenien- te; nova fluxio excitabitur, et ulcere non
curato difficultas inteftinorum denuó
fiet . Dyetei | 102. Pinguia cuam illa ;
et viícidà fübftanria eis pin- prædita ;
ut in acerrimi humoris fluxione necef-
guia im- farla funt, ad Internam inteftinorum tunicam ssittere | vefüiendam,ne magis abradatur, et ad
munien- q4and» das udceratas partes, ne
morbus augeatur, et stile, et dcloresexacerbentur
; ;itainilsnon multüm cft 277^ infiftendum, quód fordidum ulcus efficiant,
et itiniiss: progreffu temporis.curatu
difficilius;abfteræn- tia igitur funt
1nterferenda . | 103. Queadeo
exficcantia funt,ut arfenicum nimi; *X
(t ochifcos recipiant corrodentes, et carnem,
fceántes in ulceribus fübcrefcentem altmem poffint, ut in dyfia- paffim à Rhafe et .Mauritanis propcnuntur, teria om- numquam in ufum duci debere confülo
; tum. zino reij- quodadeo quandoque
valenter carnem nein cemdi,
mant,utreliquamanteftint füubftantiam confü-
mentes perforare foleant; ;quamwvisenim paftilli Pafionis, Andronis, ex minio, et quz ex
arfeni- Co etiam fepiüs loto parantur,
externis ulceri- bus; vrina et callofis
applicentuz; fi tamen fen- tienti mul
tüm particule, aut nudz,:& non for-
dida, nonve callofe ; aut fane applicenrur, no- Xas
Clyfferes * » dis
b. am. vt. IDdpe pm o | xas afferunt inemendabiles . Et erit;
qui 1n abra- ! fis, cruentis, nudis
inteftinis, etiam fi ulcere la- ! borent
fordido, audeat clvfmare infundere» |
acria hujufimodi, et corrodentia medicamenta ;
| quibus et acerrimi dolores excirantvr,& intéfü- ! na dilacerantur, et fepe perforaptur ? 104. Siqua tamen acria,& valentet
fccantia. Arrius infundenda font, ut
mvria olivarum ; aqua na- efus in
:urales Salmacidz, lixivium cum fapone, et fi- 4y/euteria | milia, ftatim fuperindendus erit alius
clyfter ex quid ffa- | oleo rofato aut
ptiffanà,aut decocto furfuris ^7 facié-
| cum fyrupo de portulacà et ovis; ut et dolor le- MT | niatur, et tunica veftiatur . 10$. Quoniamautem evenit, ut injectus cly-
Chyfer sut | fter ftatimaur exeat,aut
propellatur, ftatim at- retzzee- |
queinjectus eft, fovendus erit anuslineo panno /^" quid ! intin&o in decocto rerum adftringentium,
atq; 74/444 : etiam aliquo conatu manu
pars erit compri- menda. 106. Quamvis hepatitis fub morbis hepatis
ratis ! collocari deberet,qvia tamen à
Practicis fib dy- /imulare | fenterià
curatur, volui pra ftantiffimum reme- remediz »
' dium hoc loco docere, quo, fi alio uMo, hepati- ! cos curari poffe experientià multiplici
cognovi; ! coque libétiüs,quód ev
porifton eft medicamen- tum, et rationi
conveniens: Sumitur uva rubra, | quam
Pignolam noftri dicunt ; acinis eft ncn.
magnis, racemis adftriciis ; ut tardiàs mature- | fcat, et vinum nobile, rvbellum, et quod
P;caz- ! te vocant, facit ; colligi
debet dum media eft in- ter acerbitatem,
et maturitatem, quod folet Q 2
apud inermes e»ecAnti-
Pss exhi- bendis quid pr«-
Jlandurm. apud nos effevetfus dieim feftum Nativitatis S. Virginis
Marie;menfe Septembri; Soli perqua-
tuor dies primó exponitur, mox ia fvrno femi- calefacto exficcatur, et fervatur ad ufüm: et
ve- niente occafiope, quoniam emollefcit,
in vafe.» vitreato, aütad ienem, avtin
furno iterrm ex-: ficcatur, adeó ut n
pulverem reduci poffit. Hu- jus drach.
1j. per duodecim,aut quindecim dies, ex
vini rübri potentis unc. iiij. fineulo die ; per quatuor horas ante prandium exhibeo, et cum. hoc
folo pra'fidio non paucos ad ptiftinam fani-
tatem deduxi . Nec mirum.fi femper non fiicce- dat, cüm;ubi radices eeerit,difficillimé
curetur. Ex vino autem concedemus, fi
zeri careant fe-. bre ; qua fi conjuncta
fit, locovini fnmet deco- C donem rad.
cichorii craffarmm, lone ebrlli- tione
cum expreffione, in quà fi chalybs ignitus
fzpiüs exftingudtur, meliorem effectum pro- ducet.
De Vermibus. 107. Y N medicinis
et per osaffumendis,& per inferna
1nfundendis, fem per hzc adfit cautio,ut
antequàm ea ipn ufiim ducamus, dulcia
aliqua, aut pinguia concedamus, ut iis allecti vermes faciliüs ea comederc tentent, qui
pro- pric; et veré et necare, et expellere
€ COrpore eos poffunt. Melleieitur,
faccharo, lacte ; avt pin- guibus
przmiffis, füccedent que enecandi vera
mes facultatem habent. em | !
168. Quin . -sa4g . Quin ne hzc fola tunc danda erunt; ne
à dulcibus ad amara, aut acria
accedentes, factà tatione in contraria,
potiffimüm à gratis ad ingrata ; ab eis
abfítineant ; cum dulcibus joitur
admifícenda funt, aut pinguibus, utaliquá fimi- litudine ducti, ac 2rato (pore allecti, iis
etiam nutriartur, quz occidere eos
folent. rc9. Ob hancautem etiam caufam
obfervan- dum erit, ut cüm unguentis,
aut emplaftris ad cos occidendos utendum
erit, pxiüs Indansur clvfteres ex
dulcibus, aut pinguibus, ut iis alle- ét
ad inteftina inferiora alliciantur, ut. ventri
inferiori illis applicitis, et enecari, et expelli faciliàs poffint. 110. In iis autem externis applicandis,ut
quz ex farinà lupinorum,aloc, myrrhá, ex
fücco ru- tz,aurrutz caprariz five
galege, vel aceto pa- rantur, cavendum,
ne rcgioni ventriculi appli- centur, fed
circa regionem umbilici, et ventris
infcrioris:i!Ia enim fepe ventriculo infefta funt; et cavendum etiam, ne;fi ad ventriculum
afcen- diffent, in eo loco enecenturz,
folent enim ex tali occaficne qvàm
plurima, et graviffima lympto- mata
prodncl: przftabit 1gitur ventriculum.
fovereadfirinsentibus, et acidis, ut roborata parre, deorfum pulfis vermibus ;applicaus
ven- tri inferiori remediis, illos
cvincere ; et enecare poffimus ..
Iniis,qve per osaffumütur, illud omni-
no obfervadum eft;ut fi ex iis fuerint; que et ene- Care, et € corpore propellere poflunt, ut
eftaloe,; Uu coloVerimes enecanti-
bus. dul- Cia, vel pinguia
admtifcen dà . Ante en blafira e-
necantta, VEFIACS, ciyfd eres
dulces ip dendi. In vermi-
bus enece dis emplea flra nbt
applicanda. Vete e»tcanit^
óns ger 9 fumptis, qutd fa-
^ eendum. Hamor- tboidibus
feperf'a? evactany- HPHT, n
oàs occlti- denda,a? tna reli
'qu*nda, fententia A3sGoris. colocynthis,& fimilia,ea fatis
effe;fo]hüm q'ein- digere aut re
aliquiabftergente;áut etiam refri-
ectante ebibità: at fi ex iis fuerint; qus eriécan- te facultate f5là przdita funt, aliqua poft
fiper- bibenda funt; qu: abftersendo eos
jam enecatos expellere poffünt . De FHæsorrboidibu: . r12.] N hemorrhoidum curatione, quia ubi fuperflæ fanguinem emiferint, Medi- Cos iri contrarias fententias abire, cum
maxima. eétotantium calamitate, quotidie
obfervamus; aflerenübus plerifque cum
Hipp. 6. "Apbor. 12. non omnes
occludendas effe, fed unam faltem, effe
apertam relinquendam ; fic enim et immo-
deráti fluxüs fanguinis rationem habebimus;ca- fum virtiitis vitalis impediemus, et morbis
ex immodicà hzmorthagià imminentibus
contri ibimus ; neque camen morbis illis
occafionem. dabimis, qui ex foeculento,
et atro humore.» oriuntur, qui per illas
partes evacuari folet : Aliis é contrà
cuni Actio defendentibus, ubi fi-
perfluus fit fanguinis fluxus, omnes omninooc- cIudendas effe; et rectà victüs ratione
inftitutà, ftatífque temporibus et ex
purgandum effe cor- pus, et fánguinem
per fe&tam venam evacuanJ/ ^ étnh
dum . [E20 veró hujus fim fententiz,obi fanJuly... guis per
easvenasimmodicé effluat,ita ut et vi- :
res vitales dejiciantur ; pallor feqvatur magnus, fubtumida confpiciatur facies, ad malum
habitum tendat corpus, omnes omnino effe, fi fieri | poffit; occludendas ; quia virtutis füpra
omnia.» habenda eftratio, nequeullam
apertam relin- quendam ullo modo efie,
cium 1n ct rativis indi- cationibus ab
ec, quod magis urget, femper fi fit
inchoándum. Ne veró res hzc Hippocrati
adveríari, et communi feré omnium lv. edicorü fententia videatur, cbfervandum eft ;
fanguinis per has venas effuficnem
aliquando etle« onfue- tam;ut ftatis
quibufdam temporibus, puta; fin- | gulo
menfe, aut ctiam frequentiüs, vcl bis, vel
ter 1n anno, feri confüeverit; aut c crte vimorbi; p^ 3, In magna febre, cum fura; à
plenitudine femel, aut iterum acciderit
; aut denique quód cum ftatis temporibus
moderate effunderetur fanguis, v) morbi,
aut ali& occafione fuperfluas tunc
fverit. Secundó obfervandum ett, anti-
quos in immoderata cx veris fedis effuficne.ve- nas ilfasaut [ieaffe, aut fuiffe, aut,
uffiffe, ita ut numquam per ligatam
aflutam aut ufta m ve- I nam ius fanguis evacuari pc ffet, ut apud | Grccos, Arabes, et Latinos ; et antiquos;
et re- centes conftat ; quz tàmen
curandi ratio noftris E temporibus
exclevit, pulvifculis cemplafti- cs, et adftringentibus
contentis ; aut ad fum- Hmumu ftio ne.
His fic ftantibus, fi excetfus is hz-
orrhagiz mfoFitus fit; et vi morbi, et plenitu- |dinis fuperven erit, cenfeo mpino effe
fuppri-, mendum, nullà ap ertà vena
reliétaàme vena fan- guinemevoimente, in
propofita incommoda in- lcidamus. Quod fi ftatis temporibüs,
aut quan Q a ritate ne /
netu 72... "A79 y s feides et m7 (3n€794L
nqlla AAUC 0^ HE Cf A Cn »
n, j «A40 "07 P 4, Yt Tuntn
| bg titate excedens;aut
qualitate infeftans,aut utrà-]/ »
queratione moleftus; à naturà per eas venas ex| - purgari folitus aliquando modum excetfetit,
uti] et vitales vires profternantur, et alia
incommo- : daindücantur, aut etiam
fipngulisevacuationiss| / ; temporibus,
puta; per duos ;aut tresillos diess|
:folitz evacuationis füperfluat, aut fi frequentiuss| / exiens, quàm foleret; aut oporteret; illa
inducatt| incommoda, fi, ut
illiscbfiftamus, occludere»] venas illas
velimus, fi caufticis medicámentis,,]
licaturis; ab&iffione,ati ferro candenteid prz--j ftare quis tentaverit ; càm ex 1llà curandi
ratio--] nenon folum tranfitus prefenti
tempore fangui-] y ni interclufüus fit,
fed omnis via eriamimped 1a-]i turin
pofterum, per quam tranfire poffit ; ne ini
eaincommoda zeri póft incurrant, de « quibus: itp. G. Epid. et Gal.ibidem. c& 6. Mpbor.
va. c7] 3. 1/ 3.ltb. de Humor.
necetarium eft;edam aliiss] 5 uflis;
atfutis; abífciffis ligatis ; unam relinquere
apertam,ut per eam excrementitiusfanguis;quij incorpore in dies ageregatus; ftatis
temporibus:f ij, evacuari folet, expurgari ex more poffit ; ne af-- Jl fectus illos melancholicos,
maniam;melancho--] ii liam, ulcera;
cutis defeedationes, et alia produ--] ii
cere valeat. Sed fi folüm pulvifculis adftringen-.| übus; emplafticis; aut et urentibus
resagendas fit; et eumcurationis
modumfequamur, qui &: facilior eft
.& fecurior ; licet aliquando recidi-..|
vas admittat ; fi ad eum terminum evacuatio:] « fanguinis pervenerit, qui jam defcriptus
eft; omnino via omnis erit intercludenda,
ut praesentibus incommodis eccurramus ; cm per hác «curandi rationem non ita obfignentur venz,
ut humore denuó-éxuberante, iterum
natura fibi viam invenire, et ftruere
non poffi;aut ope Me- dici aut
perfricauone cum rebus afperis, aut
fcalpello, aut hirudinibus aperiri denuo vena nequeant.
De Renuum samflammatione, Lii
Vm in curandis renum affectibus evaLaborancuatione fanguinis perfectam venam t»
reni opus eit, à Quà parte mittendus
fit fangvis, non una eft connium
Medicorum fentenua ; quód Galenus tb. de
cur. rat. per [ettam venam, partie bus
fupra renes laborantibus, € parübus fupe-
ri: ribus, nempé brachiis, mittendum effe fan- guinem docuerit; infernis autem atfectis,
puta, utero, veficà, et coxis, é venà
vel fub poplite», velin talo; cüm renes
laborant, pene ambigat: libro autem 13.
Meth. med. in renum affectibus fecandam
venam effe doceat in poplite;aut talo;
aliis majori ex parte fu prà ; alus infrà, aliis fine diftinétione alterutram partem
eligenübus.Ego cum do&iffimo
Trincavellio, habità ratione»
communicationis venarum, majori ex parte ex infernis mittendum cenífcrem ; cüm et evacua- tionis eratia;nifi forté plenitudo ad vafa
prefens fuerit, et derivationis,
certiffimum fit, à parti- bus
laborantibus, et vicinis, fectis illis venls ;
fanguinem evacuari pofle . At cüm in inflam- matione
bus au4 vena fe- £cAnda
Tto xd Ee EC. 4: Luc aia oU MES 1j
-matrone renum, cüm revulfione opus fit, potif-- fimüm in principio, in contraria retrahi
fà debeat, et ex parteà fonte fanguinis
verf perna retrahendo, pouffimüm fi
(fanguinis mul- tà:Copta refertum fit
corpus,à jecorarit brachii dextri,aut
finiftri fanguinem extrahemus: quin--
imo, fi etiam in principio inflammationis nons verfemur, fed jam affluxerit (aneuis, fed
magna ;| tamen adíit plenitudo, ab iis
locis fanguinem. extrahemus, mne fi ab
infernis evacuetur, cüm ex motu
fanguinis in venis, quiin fonte eft, et in
fupernis confertis, verfus locum incifim affa aüam aftluens, per locum affectum, et vicinas
partes tranfiens, et dolores augcat., et
inflammatio- nem, Quod fiinflammationon
fücrit, fed ali- quis ex aliis
affectibus, aut renum; aut aliarmm.,
illarum partium, nec plenitudo magna adf t;in- dicátio tamen mittendi fanguinis concurrat,
ab 1n rez, internis,ob venarum
conjunctionem et rectiti- ipfam. dinem,mstendum
effe fanguinem judicamus., Home,bf? 114. Áb 1n renum inflammatione in princt- [«clam ve p15, potillimüm fi multa fübfit
plenitudo, licet, "a ^ ut
dictumeft, mitti debeat fanguis ex brachio;
^t? f &- prooreffü tamen temports ex talo mitti etiam, "9 Fin poterit, bt quiin vicinis aut in
parte confiftit, ». evacuart, et derivari
commode poffit. | Reb. cobPRpVX OI
clyfteres in di folent ad refrigeran-
lorarióu; C010, et emolliendas £rces, ex ptiffanà, violari chiftesg malva oleo rofàt dæra
ds to, aut violato, fyru po
violato, fft Ypau et fimilibus,
quantitate mediocres fint ca quan
-Xepletione fübjecti inteftini re
tfta. t,ne per nes comprimant. IIG. Quam-
" nguis: [iz i^fü--M
i we Quamvisin principio aliarum inflam-
J^renw 'lmaaonum mnateriam fli;entem
medicaméto pur aj nne- |Bante evacuari
poffe aliàs docuerimus, quód ad- (14:9
fac cruda non tit materia, et dum fluit, revul- nod ut- lione evacuau và à párte, quz ftatim eam
füfce- 5,, Jptura erat, recràhatur, ut
in plevritide docuit 7; Hid;
dIfaciendum, dolore de(cendente, Hippoc. 1.40€. Irzr. vicd 22 acit. et ain inflammadaone
lingue Ga- fenus t3. ME erb.med. in
renum inflammatione, Ki aliqua jam ad
partem fluxerit, omnino abfti- inendum,
ne perinteftina fluente matcrià cum
limedicamento, ma9is renes exardefcant ; quare principio
i iena: ^2 7 llcatfià fiitulari
contenti, au tfyrupo vi a to folu-
lI:kivo, aucf lis;aut mixtis, aut fero lactis ex mal- Iva, violai là, endivià, vel jujubis, fi evacuauone opus fit, ad alias comp lendas indicationes
de- Ifcendemu. ; eorum enim etiamfi
parsaliqua,in- lIreftina Ri Wes ad renes
pervenerit, utili- acem afferetnon
mediocrem . 117. Khabarbari ufus in hoc
morbo, ut et in. rsfzzza- Jurinz ardore,
femper mihi fuit inipectus s et fl n5 rent
quando ab aliquibus in ufüm ductus eft .fem- r^z^era Iper male ceffi ile vidixquamvis enim ap
uüffimum "t »/» /2 fit inedicamentum
adi bile m evacuancam, quiz Peasiduos hos affectus plerumq;
producit;quoniam- amen ob 1gneas
pattes,q! ibus pollet, per venas
kiffundi videmus, et (ubfeque nter ad renes, iIquód lotia crocea poft illiusaffumptionem
often Ilunt, merito fugiendus
videtur. 118. In m: ERI hoc inchoante,
licet ufüs re-. gs. pellentium externé
applicandorum conveniat; ;.F, L| :
'] Rb 115 tamen, Lx
nimiumimpensereirigerant, £55 tæ cem da.
cendum . : A í nme I) see, :
Adidautem preftandum, licet qua ex-venum v, fiCcante facultate przdita funt,
maximé inaliissii lid? ef; Conventant,
1n renum, et veficz ulceribus 0«4
€dnt;,*, Wnthno fugienda fünt, ob mordacitaté, cujus oc-. n[us ea». Cafione excitati dolores novam
fluxionem con- lus. citarent; quz
blandé igiturabftereunt, et dolo-.]
io, s$ refrige- abftinédum eft, Alexandri etiam monitu:quáme-. vantium vis enim, cüm ex parte repellatur
materia af-, w/45: eti» fluens,&
calor partis eftuans retundatur,videasd,
Princi vuraffe&tus mitefcere, et omnia fymptomatazsl,.. ""l5. imminui, quz tamen
jamaffluxit matería, autt] ... in
fcirrhum vertitur, vel craffefacta indolentenm! . quafi tumorem producit, qui proceffü
temporiss] fuppuratus ulcus in parte
producit, et morbum)... incurabilem
. De Renus ulceribus . Viens ve-
aum cito bus, precepto Galeni curandum eft. ut fit maximé foHicitus Medicus, rit ulcus
quim. citiffimé ad cicatricem deducatur. ad citatri ris mitigatoria funt, convenient, qualis
eft mul--Jt fa, et fyrupus de jujubis,
vel ex rofis ficcis, cum portione fyrupi
de portulacá . L:Be im I2I. In renum
ulceribus curandis, cüm &; ronctden-
ynl(à conveniat, et lac;nifi diligens adhibeatur] do in re-
num ulce vibtis qua CATEO »
cura, et in tempore exhibitionis, et in lacte feliz] gendo, et inillius quantitate, aut fruítra
ccnce- di, aut cum detrimento
coenofcemus. In prin- cipio enim, poft
dift ptam vomicam, aut ulcus: ab acribus
humoribus excitattim,cüm ulcus for;
didum 1I9. Biautem ulcus fit
excitatum in reni. : à ^? i didum fuerit, lac conveniet ferofum,
quodque» abftergzere magis valeat, quale
afininum :zillud vero ex lotio cognofci
poteft, fi in. eo pus fubfit
copiofiim, feetens, et fordidum . V bi veró ulcus! meliorem acquirit conditionem, ac à
fordibus repureatum fuerit, quod
cosnofcemus; fi pusin Urinaà contentum,
album à et zquale fuerit, lac
Conveniet, quód mipüs abftergat; et trægis car- hem producere valeat, quale eft caprinum.
Vb3 autem ulcera expureata rité fverint;
ut lotium. non ampliüs purulentum
appareat, tunc potius lacus eenus
conveniet craffius, mæis nutriens ;
carnémque gererans, quale eft: villv m,aut-bu- bulum; in primisillis pauxillum mellis,
autfacchari, aut julepi rofati,aur violati adjiciendum erit:in poftremo minimum facchar, aut
julepi rofati, cüm levi quantitate
tragacanthbz . r22. Quantitas lacis
neque vno inomnibus 55; modo metienda
eft. R atione loci laborantis, multa
conveniret, et potiffimüm fi ad abfterfio- |
nem exhibeatvr lac afininum, potiffimum fi la- Qi veeraffuetus fit nec ex ejus ufü
moleftiam fentiat, libram concedemus:
fin non affuetus fit; q tta titat t2 YCH UTD
tlceribtés LLL ab unciis quinque ve] fex incipientes,
Pine ad majorem quantitatem accedemus
. Caprilfi minorem femper qu antitatem
concedemus, nceqr euncias fex excedemus, quód diutiüs in ventriculo cüm
commoretur, fi mültum illius cen-
cédemus, aut acefcet; aut in grumos concrefcet ; ob quam rationem ovilli& bubuli etiam
mino- iem folemus quantitatem concedere,
x od De Calculerenum cum. dolore acerrime . Vamvis in calculo renum curando ; vbi dolores non adfint acerrimi, ea» curandi ratio convenlat, quz ab Avicennà, et Mauritanistradira eft; quámque.
[uu recentiores plerique fecuti funt ; »
repleto ven- . jriti triculo vomitus
provocetur, mollibus clyfteri-. pus bus
fceces fubducantur, aliis itidem emollieng- f:
bus laxatà parte leniantur dolores, et fi quas . fau, materia in intefünis confiftens., unde
eleventur: puto flatus diftendentes,
abítereatur,& evacuetur; juu mox
emollientibus, laxantibus, et anodynis, S& fui mitgetur dolor,dilatentvr vi ix à calculo
diften- . tt, quod f. mentis,
inuncüonibus,emplafuis,& pi id
genusaliis etiam tentar dcbet ; mox conte- |
renübus lapidem, et eundem propellentibus diureticis curatio prcfeqvi debet.: quinimo
fi Me: evacuarl ventriculus non pou
perfe- AT, peros etiam ad fimilia preftanda exhibent [ir iei fiftularis medullam aut per fe, aut ex
levi portione olei amvedalarum dulcium,
aut diafe- beften ron folutivum, aut
diaprunum; mox ab- ftergentibo s,
incidentibus, et atem bed
aptecedentem,& conjunctam materiam ad evas-- f.i. cuationem pra parant ; numquamautem ab
in1--4t«.. tio folvente, et veré
purgante medicamentoop,.. utendum
judicárunt, ne aut cruda materia aboli
initio hon ptzparata evacuetur, aut deorfum latalaborantem partem magis affügat.
Quo«m. niam inI3m tamen fepiffimé evenit
in noftris hi$ regio- nibus, et potiíffimumin
m æna h ac urbe,ut et nimium Genió
indulgeant, multàque affidué
ingerant,& multis tententurà capite diftillatio- nibus, ut ventriculu s,Inteftina;& venz
mefàrel urefertze fint niultis crudis
humoribus, à quibus per venas ad renes
delatis adeó frequentes fiunt «lolores
renales, et podagrz ; qui nifi cevacuen-
ur, nequetutó anodynis üti poterimus, neque Iconterentibus lapidem, neque eundem prop
cl- llenübus, quin nec diureticis. Cüm
pretercà fz- ipe adeó urgeat dol.
r,urlongam illam curatic- inem exfp
c&tare nec velint &erotantes, nec poffint, nec exp ediat ob collabentes
vires ; Menos Ifima vero illa lenrentia,
vel lubricant; fzpi ffi-. Ite
muneriilluevacuandi materiasanultas, cráf-
iS,& vifcidas fatisfacere non valeant,fed reten-- la et 1pfa,:& per fe mclem augendo,«€
com- iIprimendo dolcrem aueeant ; aut
elevatis& ex le, et ex commortàa;non
ex pul:à materià multis IHatibus, cenfeo
fep iffime exyedire,medicamen- out
folvente, pro varietate materia benedictà
lixativa, dia phanico elec gv ario Elefccph, ele- Ltuario de fucco rofarum, Indo,&
finiilibus, ad. .Ilità portione caffiz,
vel du com amc]le ro- [to fo lutivo; fic
enim et crudas illas materias in
JAyentriculo, et inteftinis confiftentes, et fi quc suntin primis viis tamquam caufe
antecedentes; Mrvacuabimus, eafdémque,
X& fizniles revelle- (fous, molem et
fecum, et htmotrum in intefti- dusrene s
comprimentem, et doloremaugentem
immiLenitniia fola ia cal culo non
fufficiant. imminuemus anodynis,
mollientibus, laxanti-]: bus, diureticis
; conterentibrs lapidem, et pro-] am
ftruemus . Quà curandi ratio-] te,cüm
fzcpiüis ad eos acci effemus;qvi nephri-4
pe lenribus v1 tico dolcre laborantes curabanter, priori illoo 1o, clvfteribu llibus videlicet, et bolis
exx InOciO,; C1 eribus mo hbbos
viIdCilCet,c« DO IS CXI3 caffix medullà,
avt lenitivo, avt fchs; aut cumul
portiunculà Hierz,medicamento folvente exhi-]: bito,mocx anodynis,
mollientibus,laxantibus,&j lapidem
propellentibrs adjunctis cito, et feli--
citer; cum mæná meà glorià ac invidià, curationem abfclvi. Cüm veró
curandi hac ratic rationibus lis
nitatur, quz proximé enarratax] funt,
Hippocratem, et Galenum,duo Medicined
vera Inmina, habet et doctores, et affertores; 654 Epid. Se&. 1. tex. 6. ubi poftquàm
tradidit Hip: pocrates figna, quibus
nephriticus affectus coo) enofci poffit;
breviffimis ettam verbis totam cuj
rationem abfolvit, et juvenes etiam helleborcej pureandos docet : et 27 Com. Galenus, dum.
unamquamque vocem varia praffidia medica. continentem fieillatim
explicat, dum de puri" cando
corpore agit, medicamento purgante-[
tamquam vecte effe propellendum.docet . Ned que veró cruda tunc evacuare, et pureare
dice mur, contra przceprum Hipp.r.
"Apbor. Conc Bá medicavi, C
c.coctio enim illa.de quà in Aphi] rimo,
illa eft, quz humori putrido convenit] in
potiffimum in febribus, cci coétio illa conventi quz fecundo loco defcribitur ab Atiftotele
44^ Jdeteor. quam putridis
humoribus mentig | | et exeredi
ug mentis convenire docebat, fecundum quam bi-
lem crudam dicimus, et lotium crudum, tam- quam fienum in febribus putridis: at cruda»
s qua alimentalem cocü 'nem
(ubterfugerunt ; aut P er inediam ad bo
nam frugem duci debet ; aut fi plura
fint, quàm fuperari | poffint ; atque.
àcalore ventric "uli evinci, aut conco qui; ;quam- - primum funt evacuanda aut t lenientibus;
&ab- ftergentibus, aut etiam,fi in
venulis mefaraicis; et altis infarcta
fint, purgantibus; qualia hac e(fe
cruda cenfemus, quz in neph isis exubcrant. Neque vero | per evacuationem per
infer- naad renes materiam trahimus, fed
ab illis re- vellimus, et per inteftina
ft ubdu cimus;quamvis enim in tranfitu
adfit vicIp1a.non adeft tamen. con]
ncl1o; neque periculum eftin tranfitu, nc
LA Í noxam renes fentiant,utin
rénum inflamma tiohe in tranfitu bilis,
quia neque hic inflari. mpatio in parte
c adeft, necne calidus eft humor ;
quimovetur,fed laboranti parti etiam füuccurri- mus, inanitis inteftinis que ob
repleanonemu. comprimebant renes à
lapillo undequaque» compretios. 124. Incalcrlorenum curando, ubi
acerbif- fimi fuerint dolores, et ex
fitu coznoverimus, jam lapillm ureteres
occu páffe, fi quis divre- ticis
tentaverit calculumà loco dimovere, 15.
mænum (ie pen umero periculum zerotantem., deducet.nefcilicetin urinz (uppreflionem
eum ] ] » »- r1, » ^4 p»,47, deducat ET oruente afk t!m ad Obfiru ctum 1
lo- Clu1n lot 10 5 e fcp c culi arenulis
" fz lus Cuts T5 R craí$à,
Diuretica ?roprafe - "aAtione calculi f«
pé "0XIA « crafsa,&
vifcidà materià . Quare prxftaret runc
emolhentibus, et laxantibus decoctis uti;cx ca- ricis, malvà, althase, et maálvze
feminibus,femi- nibus item frigidis
majoribus, liquiritià, juju- bis;
febeften paratis. Quód fiad pe netrationem
aliquid diuretici: addere voluerint in pauca quantitate; non repugnarem .. Ad. qvem
ufim., etiamoptimum^femper jidicavi olei
m amyg- dalinum dulce, ex levi vinialbi
tenuiffimi por- tone». 125. Commwuni feré hominum confenfu re- ceptiim eft, proavertendis, et pricavendis
do- loribus ex calculo, et impediendà
lapidis gene- ratione, ex Men bisaut
rer1n menfe diureti« cum aliquid
a(lumere, ant in fyru pl longl, aut
julepi, decocti, aquarum füillatitiarum;aut ele2598 étuariorum, aut pa dvifculorum formam,
quo materie, quz indiesin renibus
agercegartur paulatim expellantir, et abftereantut,
necaloreaccedente renum indu rentur,& ] lapidefcant : quod inftitutum. ut omnino non eft
imprcban- dum;fi cum rauone fiat;ita
quàm plurimis per- niciofum effe
folet;(i enim ab homine continen- te Ó
aticoopbiiil rimaffumptionem leniens, t
abítereens medicamentum fiimptum fit;
uti ditata afferre poteft. Atí1 cule 1s deditus fit; aut cruda mvlra in primis viisæerecare
foleat, vt folent majori ex parte Ape æ et cal-
culofi, tantum abeft; ut illorum a (fumpt t1O €os prefervetà calculo, ut potius frequc illi przbeat occafionem, et fepe 'nüorem.
etiam 1n füppreti- x ANIM ADFERS. | preffionem ur in: deducat, et graviffimos
alios | morbos, &f [ymptomata,
deductà materia, quie in ventriculo
erat, et in primis viis, ad vias
urinc. 126. Cüm quàm plurimi
pro lapillis exre- T/;:"; nibus
propellendi s aquis 'Thermalibus utan- les
tur, ut illarüm ufum aliquando laudamus,cüm. cur; impaócti nimiüm in renibus fuerint;necaliis
ce-. caleuL dant remediis;fic enim refrigerats
illis aliquà- /* do dehiícentes locum
cedunt Ja ipidic commoto, €&4*
quin et quantütate aqua pro] ulfüs aliquando deícendit; ita rarius eedem concedenda erunt, quod de deb ero batiteli ad locum lapilli
d fepe etiam morbus redditur contumacior,
et liquando ad füppreffionem urinz
omnimo' ? " lo " 7t* 111"
dam per illas egrotantes deducuntur.
Lsatid is E22 5 De lapide
Vefica.. 127. Q' Cioe2o, et antiquos,
et recentes fcri- iJ ptores infinita
propemodum, et fimveficà; at horum auctoritate etiam ício quàm 7/2 plurimos ærotantes in perniciem à Medicis '
ts nimiüm credulis deduc bos Æ grotantes
cüm ex /?* lapidis per incifionem ex
tractione quàm P ;luri- mos mori
obfervent, omnia malunt prius ex- periri,
quàm cenus illud carnificinz etiam pe
riculo "um Medici partim experientia deftitu- ti, promiffis fcriptorum adducti, et fpe
przmi ob avaàrit iartiall Cii,
curationem pro trahun AK 3? cmnia vlicia, et c mpofita medicamenta
tradidiffead czeztu: comminuendum, et frangendum
lapidem in fzz Lapidis in veftca a-
oatca cura 2/0,EXIYAde f
2 P ^ , LVD. SEPT ALII. MEDIOL. omnia experiuntui ur,.& denique aut fpe
defrau- dati,aut]am curationi
füccumbentes, ;tandem non aliam fe viam
invenire curandi, quàm pe fcctionem,
profitentur:fe fed interim zeer crume-
nl exhauftà, ob dolores ; et vieilias confumptis arnibus, viribus vitalibus etiam. ob v1 igil
as CO! ifi imptis, exará lefcentibus
renibus, vefica, et vrina ipsa, ta pcne
mirror hanc curationem confentit, et eam
etiam ob rem ma- jori ex parte moriuntur
diffeéu . Quare p ret ab initio. 115
Lca4 13 etia 1n in vp(ta4
Lc, dum vires vitales v iced COr-
pus adhuc car: Yofum, et fucci plenum eft,dum. veficaadhuc mucosà materlà veftita eft, non- dum aut perfric atione l: apidis;a
utvicalidorum dicamentorum, et acrium
abf ería, unde» Ó acerbi funt; dum
deni- dum ad magram molem ex- Crevit, Cul hanctentare, yop timo arti- fice electo; qua les hoc temporea aliquos
excel- lentes cogno fcimus ; cüm enim
prim 1s etatis mez annis plerique ex
hujufinodi curandi ra- ne per (ectionem
interirent, triginta abhinc nis eorum
major pars füpet ftes evadit, co- rum,
quià Ioanne Acorombo no à Nurcià paores non adeo Is non
itlO ne ln S Lo
&, 4 tre, jam hocannowità
functo, et Ioanne eA nto- nio filio
curati fuerunt. Quarum A rom tan- qua
minftaromnium hiftoria mp ul chis errimam
hoc ; » co réfatoe utiliffimum effe duxi. Comes "un roius Ir ite Senator, et Equ es,
bona- rum Td rarum patro nus, cum fl
rangu rià p à liquot rimnen (es 1: labo
xratfet Hs in canali urinz rio
Ccarneuim ert ANLM. ADVERS. carneum aliquod impedimentum
perfenfiflet ; inillud omn E moleftiz
caufam referebat;ut la- pidisin vefic:
à,quantum pofl et, fufpicio nem.
declinaretme femper reclamante,& maximam la pidisin veficà concreti fufpici ionem
fubefle » aflerente .. Cüm antem
aliquando ad ameniffi- mal m Sancti Flo
rani fuz ditionis villam fecef- fifl c
t.in eraviffimos, et acerbiffimos dolores
incidit; qvi cüm per quadraginta horarum fpa- tuum fine intermiflione p 'erfeveraffent,
citatis equis ego accitus fum, et cün :
omnes fübeflenc note, quibus pertu
iaderi poteramus, lapidem. icà, faltem
prob abiliter,cüm nullum;icnum path ognomon icum lapidis 1] fi seti ad vrbem remigraret, ut certam rei hvjus habere poffemus im miffo
cathetere coonitionem. Advenit,fed càm carun-
cula impedimento effet, ne catheter in veficam immitti poffer, priàs auferendum fuit
impedir ?| (1 i l e
qerwer m Qs d disas, e orsa sibisie att ndr cA ai X zi: mentum, « fttata catheteri via,cumque a
peri- Á
*( 2» Avr11l In M (leo Te
invoentnue : d L c 1i L1CC 111 n 1111 S
€elicts lapi ;ilVCHLuLuS5CcILt.
C)vrarect | nità, utaliauando fe ab acerbiflii n 13
i ^3 ui : le CO! ril us eximeret
vir clarifiimus, omn1a qttra- prit;um
paranda cenítuit, ut ad fectionem veniret, expurearemus nos corpus,dixit;ic
animum. ' /^1 "^ 1; : vIVPITOATMTDI:1».230C 1me011 I r11 113360
101m L1 C [1 A17 at Li C |i N hlliüan )
1C 11 Ine» C dienis firmaturum, et teftamento de rebus
fuis difpofiturum . Nos diem
felieeremus ad placi- E | -, fe1 10.c die ftatul c1 e (1 nibus
pa- ratis accederemus, fe fcmper
paratum fore». Oni IDUS I1(C paratis a
CCCOLIIEL $S,alacr1 aniino, f16Sq ^2 LFD. SEPT. ALII 7MMEDIOL. nos excipit, et nosadopus adhortatur, et fe
» omnia intrepidé paffurum profitetur:
fit fectio, nulla vox querula, nullus
ejulatus; adhortatio- nes folum ad
artificem, ut intrepidé negotium.
perficeret; unus primó forcipe extrahitur lapis magnitudinis magnz caftanez ; alium
adhuc füpereffe extrahendum artifex
profert : ne du- bitet, extrahat ;
iterum adhortatur : (ecundum extrahit,
tertium; quartum, quintum, et deni- que
fextum ejufdem magnitudinis, fpatio me-
die horz; nullaumquam querela, nullus eju- latus, celfi animi omnia indicia, (ola poft
actio- nem Deo gratiarum actio. In lecto
repofitus, refectus de more, omnia bene
cefferunt, nulla, febris
fupervenit;nulla inflammatio,nullus do-
lor ; fomnus poft tantas vigilias (uavis ; ulcus iermino quindecim dierum pro medià parte optime ad cicatricem deductum; ecce cà die
fu- pervenit febris vehementiffima
continua, nul- là occafioneà vulnere
habità, quz adeó ardens fuit, introductà
etiam hecticà febre, ut brevi temporead
tabem,& extremam ficcitatem cor- pus
deductum fit ; in quà adeó carnea fübftan-
t11 confümpta eft, ut etiam cutis exaruerit, ita it extrema cuticula 1n corpufcula
furfuraceas per omnem corporis ambitum
diffolveretur, et excideret; cutis autem
vera tamquam ftorea to- ta fiffuris
diftincta confpiceretur, et afpera, du-
r3, et ficca tangeretur;ulcus exaruerat, et labia in calli modum exficcata
confpiciebantur,nulla amplius fanies,
nullus ichor promanabat. Et cum res fere
cflet ccnclamata, refpectu ad has res
habito ; nulla fpes falutis fere fuperetle
videretur, cum ali qui vitales vires adhuc atis valiiz confifterent, ezoq; humceétantibus,
et retrigerantibus calori febrili
contrairem, et in- ftaurantabus
naturaleni calorem foverem, tum humidum
fuübftanuficumoptimis cibis repone-
Moueynlstiginn fe prcma Meine qa
tiin acerille tebrilis calor dafinbpiie ctio cta- quanto À lior reddita eft ; et quod
majorem, parere poteft admirationem,
majoremque ía- luusípem Vr mri onec
rece pore aridum, et quáfi callofum,
1terum recru- duit ; dolere aliqi
peuleumb itai micéptii- pem emittere,
mox ichorem; póftaliquam etia faniem,
deinde per te, nu] adhibito przfidio
exierno,1ta convaluit, ut ad | |
fanita- tcim fit reftititus, anno aatis
fu: xage Silio rertuo,cumadl:uc octvæena
RENE. vat,adeo litteris deditus hac
etiam atate, ut perpetuo fcré in
inftrucütlima fi à Bibliot theca
véerfetur, perpetuo etianz cum mortuis v1vens Ccolveéctari videatur. Admirabilem aliam
fortafle hiftoriam, n propofitum,
fi "0 amí, | l EL » T3 ou^
Ins^3 recenfeam. Nobilis Henricus
l'eccnius; Roeetsferidiodshenito viet ft
Aoid ribus ex lapide in vef'ca eflet
corfitctatus, nec umquam curati rem pcr
exiraéilonem admi- fiffet) cim
acerbi(Timis doleribusanoctretur, vr
fatius moricerferet, avàm huj: fime di tormen. rpetuoóaffiig1, cumqueextractum proxi Á 1n
mé lapidem trium unciarum feliciffimé ab Il- luftri viro Cefare Pagano fexagenario
obfervàaf- fet,à quo ad hancadmittendam
curandi ratio- nem proprio experimento
erat incitatus ; tan- dem me accivit ;
qui D. Pagani curationiadfti- teram,feomrninoexperiri
fortunam füam etia inillà atate velle ;
et fe autabacerbiffimis illis doloribus
eximere, aut ut fortem vitüm mori »
profeffus eft ; càóm uridiq; anguftias fübeffe cer- nerem, quód pauciffimis diebus cum tot ;
tan- tí(que cruciatibus, vigiliis,&
virium viralium» imbecillitate
füpervicturum obfervarem ; eaf- dem
tamen vires imbecillas, ztaté jam effetam, et mænitudinem lapidis tanto tempore auétà
; illi operationi repugnare,anceps, et animo
du- bius, quid confulerem, hzrebam
tamquam 1n» falo, et tandem fux
voluntati totum negotium commifi. Oui
tandem omnibus expenfis, de- -revitfe
huic curationi committere. Excifus ; et extractus
ab eodem artifice lapis feptem un-
ciarum, et drachmarum quinque ; et quamvis per loneum tempus vulneris curatio tum
ob mænitudinem, et dilacerationem ; et angul- nis multi in grumos concteti in veficam
colle- &ionem, tum ob «tatem,
protracta fit, conva- luit tamen poft
duos menfes, et per annum» etiam
fupervixit; felix eo tempore, quód dolo-
ribus careret, quibus per tot annos fuerat con» flictatus .
p '", 4*4 /3« . * e » Q 115
[ 10 fluxu et c st gin » e curando Medicos video à rectà vià aberrare,ut
necef129. À Deófepéin feminis
hocinvolunta 3 i farium fit, aliqua etiam hac in re
annotare». Cum autem morbus 1s ob varias
externas occa- fiones olivenire (Gents
et ex congreftu V enerec Íacpenume ró
communicetur, c Fi di iP eüsmaridum
erit, an ex lue G.; oricinem duxerit,
an potius ob exceffum 1n "c" Cta,an ex congrefiu cum muliere eo morbo laborantes; e Ci | I] ^ X1* 4 11 11 fine fufpic nc Gallici morbi: fol t enim
eti21n»o communicari 1$ morbis (ine
Iue Venerea: diffi bro artee 4
! l
» ? 12?
e bw de 9? C &fs
Gonoybaa G ] lica n8 fla
f«pbruneda . 7 Ganor-
rhoi mtt- fatur Dm f uxum
2! DI) e (5 2220Yy-£&a altauando
minalia, ut tempore debito femen contineant,
ex continuo enim affluxu partes ille ret rtz na- turà adeó laxantur; nt diutiüs duret fluxio
illa ob illam folam caufam. 129. Vndeetiam, cümex diuturno feminis effluxu acrimonia, et calor materiz
refrixerit ; [e penimacró decipiuntur
Medici, refrigeranti- busin eo cafu
utentes,cüm excalefaciendum fit aliqua
Vea femper autem adítringendum : in;
quem ufüm ut fiepé foleo decocto ex ligno len- üfcino, aut ex ligno cupretli, aut
decoctione maftiches, et aliorunrex aquà
chalvbeatà, aut mincr. ic 1s aquis ex
ferro . . De cipit v eró et fepe
peritos Medicos ; q: id. cümab initioab
externà aliquà causa ex- calefaciente,
et lixante 15 morbus inceperit, ex longà
auté fluxioa e fpiriibus multis inanis et malto femine evacuato, et corporis habitus í
It refrieeratus, et multus humoraquofüs,
et fri- e1dus genitus, mul Aq; pituita
pr« ducta, cum. in primis Illis remediis
infiftant; omma in dete- rius ruant, et aneeatur
fluxio. In quocafu teme perad contraria
erit tranfenndum,& iis n ten- dum
Lec en faciunt, et ficcant cmm aliquà
fubadfirictione ; 1n quem ufum co
coctum cx Giiajaco, cum pa rtione igsbenæe 1fcinlut 1n nlperi, aut cupreffi;aut
maí ftiches: nno verbo dicam.;ea omis
curatio etiam conventet,, qua
prafcribitur mul laborantibus. veniet
de- Bu ribus albis purgamentis:f i
De Menfium [uppre[[ione, -diminutzone . T infüppreffis menfibus, ubi
fan- guinis miflione per fectam
venam. | opus eft; (emper Galeni decreto
à venis crurum ' evacuandus eft, lib. de
cur. rat. per fang. m. cap. 11."
18. itaubi hzc c eadem fuppreflio cu-
randa eft, cum magnà fanguinisabundantià, in dubium verti video, an hzceadem curandi ra-
btts i tic ofequen da fit, afferente Ætio
; /;b. 16.cap.$7- | prius extrah«
andium efe fanguinem ex cubiti vena, mox
veró ex venà tali, neaffatim ad 1n-
|ferna ob copiam irruente fanguine, magis ac | magis venz uteri repleta bítrüerentur ;
;quam opinionem, tamquam etiam à Galeno
non dit- íentientem ; fequuntur
Altomarus, T rincavel- | lius, Mercatus,
&alii multi. Mercurialis au- al tve vitcho. Item, et Maffarias, etiam fümmà prafente
pleinitudine;in fuppreffis menfibus numquam cen- Lfuerunt à cubito mittendum effe
fanguinem;fed tfemperab infernis,quód
etiam per illam fectic- knem
plenitudinem tolli poffe cum Galeno cre-
iliderint; et fi qua fanguinis copla per venas ute Iri fertura fupernis artracta ; et am per
eandem viam ad inferna attracta
evacuetur per infernas lMllas venas. (
rediderim tamen ego przeftare, dum; Vene. -
.Atibi plenitudo ad vafa in corpore acervata füe- Iit; illius habità rationc, primó,antequàm
füp- IprefTi lonis curationem æerediamur
; fectà venà lin cubit ) 5 illam
folvere,In1OX VCIO interpofito | I
" | * vrbs debito tempore, fectis Aids tal firppreffioni menfium opitilari ; et cüm
prima illa non fit facta ad curationem
füppreffionis menfium, fed ad folvendám
plenitudinem, hac O ; conveniet "vao
Ga Í one operi inrenon repugnabimus Ga le no cenfenti,fem- c
.f47 He. 1 (La jw" £/7€ perin fappreffis menfibus curandis fecandas
ef- fe venas crurum. Æit tamen non
placet fenultio e tentia, quem alii recentiores (equuntur;cenfen2e21i2 Y€f N
tis,primó mittendum effe ex cubit nsnnen ls
"M / . ; mox ftatim ex pede,
ut per primam folvatur [ec Ir'one k 7?)
cr prir vera is plenitudo, per
fecundam, fi qua ab ute ro ad fii menfibus
perna facta fit pet primam evacuationem re-
fasrc[fis. tracto, iterum ad confuetam viam uteri retra ^hatur; fic enim et habenas equo retraheremu
et poft calcaribus ftimularemus, cüm
fieri Gof- fit,ut m M Mie fecta vena
füperiorad impe- diendum, quàm altera
inferior ad promoven- dum m. MA uas
pureationes. Ven: fe- y22 Si avis qua
traduntur à a Gal. Zi ). dc ..À Hoi bra-
cur. vat. per fola "m Yenam cap. y6.ubiin Biden fe- Pens Clodi M talo. pro curatione füppreffarum
pur- sationum menftruarum, tempus
folitum, eva- 4 €uatio nisilla rum effe
obfervandum docet, atq; HI J^
pertres,aut quattior anté dies effe evacu andum
s fimguinem, dilige enter confideraver hi facile in1b 1
I l n
Iecov- 2 elu æ, tellioet, 1 1bi plen tudo talis ad vaía ; n c«( X rpore
1 Coah doped 11, quo fuppreffi funt
[ibit ci i, non effe TTL TAM Yam
exfpecta midst) npus purga tionis folitum adl
'Vacuatione cubito faciendam : tunce
NEN 7 PY € cuati CImnocx to faciendam ; tunc enim ) Oo
CAL V. -À " T .
? ^ ( iupnprettiol adillyaremus « Ineaincomtnnw« Ubpreitioneadcj;uvyarcinus, ecin
vLincomÓos- VOSR 1M. à |] M CL i 1^5
«a 11 1 et avocaretur in contrarium fanouis, et potius
H. ANIMADVERS. . a da incideremus, qua d
Ma rcuriali, et Maffarià proponuntur;
fed iliud przftandum erit in medio menfe, poft decem, aut quindecim dies Z
termino : fic enim et plenitudo tolletur, edm confuetus motus, cüm eo tempore nullus
fit, avertetür. eia nj uu aulus ZEeineta
1ntelle- Ti juod tamen intellexiffe
vix fieri poteft, efie quid illiin mentem
venerit, hoc morbo cu rando dixit, non
efle fecan im venam ante prafnitum
menfium tempus; d per dicet. dies
poft. n promoven« is menfibus diminutis
; licet preceptum Gal. /zb. de cur.
vat- per [ang. 995i [[.cap. 19. maxime
mihi probetur, ut per tres; aut quatuor
diesante tempi fanouinem mittamus ; y
Penes tamen expertus fum, mæis proficere,
fiftatutum tempuz pur- eaticnis finamus
adventare, 32 ibi diminuté operari
vide povenuni defabiiair: of Pass
evacua- tonem, veríus finem motüs manus
adjutrices porrigemus naturz, et motum
illus promovc- bimus,ut fimul cumpaturà
defence totu1no opus perficiamus, juxta
Galeni decretum 9. po i" MEC ed. Ó
hac dere «eh fentiant ; quunt,aut
maxi1i1no timcre c íectione vene ten-
tant vi) moms tse endo pcríeccrtam venam
» 11 1^ " - ; t1f1 in talo;per er tres,.aut qu. |LULOT gi1es
ance ænnituig NEN "WO Kid a Je
Doo "ve p ^ "X4 £x Decio 7 MA ee fe yw Kt, 4uA 40 €^ € € . ^to.
[WP AT Vez IZOHS J
dimuirttis | )Y0?A0- i ^ *
f -,F£ " Len
Ü. 90 65 *v2t !j L],
;;0- illud tempus, cum Galeno ; fi enim fluente fan- cuine fanguis mittatur, non folàüm non
promo- vetur fà inguis menftruus; fed
ex animi deliquio, aut timore ita
fiftitur, ut amplius per illum ter-
"t minum effluere non foleat .
Meis 15$. In promovendis menfibus
(c&tà venà in pn qrom* exqu, femper
praftabit repetitis vicibus,bis;ter, Fu
- s aut etiam quater fanguinem evacuare, quàm.
vs os: unà cvacuatione fol totum negotium abfolve- [5 -
re:fic enim melius fanguis ad motum incitaus mi«- $27 tur, et fepius motus facili üs ad fluxum
invi Sechto ve- tatur. lossqézsexialo 136. Placet magis füb noctem ex pede fan- Lex inh. volue fot guinem detrahere, ut ex
affiduo motu ; aut fta- fab mo- tione et
humores facilis defcendant,& ex mo-
PREPSURCUUNQ QE attenuati faciliüs profiuant. fob ixi: : 137; Per duos tamen, aut tres dies
ante ab- W- rof luantur crura. ex
decoctis attenuantibus;& aro-
dfricla. 4. ant X. matibusafperfis, et mox longà fricatione deor- * | fectionem
- AV uon € cuini ; | Li onda I
5$. Faciliüs etiam fiet voti compos . fi ante
cx ialeti« hecomnia,aut diebus prepara tionis exercitiis 2 dere 4«- ytatur aut univerfi cor poris yat
inen par- éet CX?rC! tium infernarum,
maxime autem | ]jumborum.; f /
fione fan aut fanguinem ejufdem conditionis obftructio- nem inutero facere cognoverimus, priüs
fo: culis ex »]
; zai0 oven yuln
' |; regio Tnentis, X emp laftris reeioné uteri fovere; quo» fum trahendo invitetur fanguis ad
fluxí9nemi[: adinferna,44 artenuentur
humores mixti fans-B: DW 74 139.
Praftabit aurem etiam ante fanguini: 1
PoE/14- 221] : miflionem, fi
craffum, et v iícidum humoremo.Jnm
ANIA ADVERS. . l'rum materia, cüm
provectioribus hzc fcriba- | mus; tylva
autem prafidicrim apud fcriptores
reperiatur paffim, et fit extra noftrum pro po- fitum, apponere non opportunum effe
cenfui- mus. 140. In decoctis menfes promovertibus ex- hibendis hzc adfit animadverfio, ut 1llcru
m. jmagnam quantitarem concedamus, ut
integris viribus ad uterum pervenire
poffint; atq; n« n. tolum fanguineman
venis exiftentem craflio- Irem attenuaxe,fed
et eum, quiin utero 1mpa- ctus, et cbftrvens,
impedimento eft fluxui, fe- cernere, et fübtilemreddere.,
De lAI. Q Fluxu zeen[iruorum immodtco . Vemadmodum in
fü ppreffis menfi- bus, dum repetità
utimur fanguinis fep endn e emaul yn.
A leg evt 1x . Méfes pro
7200€2114 per os fint 2 mmulta
quanti 1216 [n f ^ n xà nie fium
mifflicne, dictum eft, praftare », PR
mon eadem die 1llá repetere, ut modico illo tem li peris fpatio imminutà materia, et o1iis
interpo- Mitis et attenvanribus, et attrahentibus,
natura JMmeliusaffuefcere potfet ad
materian n per illa jf partem de more
evacuandam : ita é contrà m, ! hr
evulfionehacab utero per fupcrras partes bis,
| et ter eadem die rep ctendum cerfercm ; qvód h& cevacuatio fanguinis vreeat ; et retractà
qvà- primum materiá, fluxio citius
fiflatur,neg; tcm pus Intermeditim
neceffarium fit conc dti,Uut lun Pp)
reffione, 2d parandam materian 2. ]n
hoc« medi 0 fangut
"i$ mio epe !iia 7 F att
a MP d E ACCQ AA ifectu video multos vereri i fum : medicamentoru E folventium, quód "-
fum digpé'ty latus humor biliofüus, ac
commotus, unde faépé gandum . is morbus
provenit, ad uterum etiam fet ratur 1
aut compreffion ne, quz in regerendo humore fit, venz dehifcant magis, atq; magis
profundatur faneuls: quoniam tarnen per
eam partem eva- cuatio aut revulfiua
eft. fi fluentis ab hepate; autàliene,
velà toto materia motutm confide-
yaverimus; aut derivativa,ubiautactri,& cali- do per admixtionem bilis fanguine fiat, aut
à illámqué revocare à .parte;ad quam
fluit.Quod ompreffione mufculorum
ventris inciderit, cüm breviffimum fit et humoris
irritantis evacuatione, Á egpen [mnt
REIN "entium aliquorum. fFriclimr. dici 1 ; quia,et fa dftringentes
aliquas partes hadatum, fcrofo, aut
psi jc )paümum femper erit, ex- purgato
ab use nentis f: inguine, minüs fuz qu
xilem reddere, mini (foli acrimonià irricantem, f hs iod incommodum ex motu eveniat
.autil ilo sueiusibot et revulfione y^ | Midica- | 143. Sint tamen n medicamenta
hc aut per] | spenta tz- fe cum aliquà
adftrictione; aut adjectione ad-4 n aü-
4 R hab arbarum ín hoc cafü fugiant Me-] i
! [ r^ abat- beat: potiffim! üm fi non multüm
maturum fue: 62 7 7 vit, quoniam tamen,
inquam; tota illius folvem | fup. [lis
di visinieneis et tenuiffiriis partibus pofita Jii Cie eit. qtux facillime venas uic cd c
etlam ! faneuinem fuo colore
tingunt;& eàrationeacu tiem illiaddunt,
et calorem ;càüm tot alia ; 8X fi
nplicia, et compofita fup erint, fatius fempe |
duxi abillo abftinere ; potiffimum cum ab alii lic, cüm ei, quz aut -i icraffanti
facultates aut 774//22*
lipEniraspropémodem mulieres ab hoc morbo Incmdton. et facillime P: arabile. Recipit
àutem Gor deme 4. iy datvm, obíervàrim,
multa in hoc morboattu- life
incomimodao.Poft hujt re remedia ea ratione fa(a Pire feri b rdaxitbe
corveniant;unumanr pre- /, (ena cnirtema
iato Bodo effe cenfiisquo "^ di
;interfecreta "Jn udo refe rvattim.
clefcehtibas ; áui fub noftrà tütel: id
pPraximi me K Am addiféendàm exercéntur;etia Icomimiimicatum nb&hcomhníbus;ad communem Hiliitenm cc mmune iit ;Qquo feré&
nunm- iquam friftra ufus füm,modo
exulcerato aliquo vaíe in ütero fluxus
as menftruorum aliquaiu.; kon
habeareccaficohem-: eftautem omnino eva? ^
aqva libras feptent; 1n'quà 1ncoquo cortüces lerium aurentivm acidorum ; aliouanto
adhuc fiubviridiom,'&i1llas in
philyras incido ; et exiccanoàd duarum pártium confumptionem; et factà colatrri, vhicias novem vel octo
potanda Imane dé: euod fi vay
medicamentum paliorebiccirf:m volo;nunrpalum herbz pilofel- 1 31li«c £g *1
. E 11 like 1n fne exccquendum addo :
Ines adhuc redditur; fi ie aqvà
Villenfi decoctio fiat, aut fi in octo
"Hbris aqui fiat? vbi duz terti? partes
pér coctiopen abf mypta fverint,& excolatumm ldciimiyehalybetdito ignito fepius 3 PUT 713 roborettir. Boethi u-
xoris albo profievio laboratis
biftortec o explicata et Gal.lib,
de praco- gn. ad Poflbu22H?7 « az De albis per uterum purgamentis. 146. C Vmillud mihi femper fit perfuafum, |
|. | in hoc morboeaiterum non laborare.» per fe, mifi cüm ex longo «lefluxuetiam pars
ea;, 1;, aut laxatur nimiüm ., aur
refrigeratur, aut; jy, cetiamaliquando
ulceratur fed vel à totocore. f; pore,
aut à ventziculo;aut ab hepate; aut eriam. |i
àcapite materiam 1llam transfundi, laudare.» fatis. non poffum,quod Galenus //b. de
-pracog.ad Poflhumurz, maxime
necetfarium, effeduxit; ut aut totius,
aut partis laborantis,& tranfmitten- | |.
tis rationem habeamus ;.nec fufficere humores . |... divertere, et evacuare et per alvum, et per
uri- ps, ut fecit eo loco. Galenus ; qui
non folum... diureticis, afaro, et apio,
et hydragogis ufus]... eít, fedlongà, et
forti fricatione, ciun non abi]; hepate,
aurà ventriculo tumor ille ventrisinfe-
rioris, et fluxusaquofus per uterum originem. duxerit, fed ex refrizerato nimiàm,&
humente: habitu corporis, et potiffimum
carnibos par... tium infernarum,unde per
longam, et validam; fiicationem, et fimplicem,&
cum melle cocto | EUR. » "e
.non folàüm revocabatur ab utero ferofailla af]. fluens humiditas ; fed incalefcebat habitus
cor--J poris, et ira ficcabantur carnes,
ut (anguis adi]; appofitionem, et renutritionem
tranfiniffuss] non ampliü s
recrudefceret, autin pituitam, fe--] .
rofümve humorem abiret, fed nutrirer,sícque |. optimé nobilis illa matrona convaluerits
nona, Jguur [^ 'J vocare «Quod fi af ANIM-ADFERS.: . Igitur oportuit alia etiam adhibuiffe, et exhi- buiffe prarcr ea, qua tradidit eo Iibroad
aufe- rcndam intemperiem à tcto; aut
parte, üt cen- fuit t doctiffimus
laffarlas meus, cm non alia» labcraret:
unde excalefaétà; et ficcatà par- t€, ne
denuo m aterja e enerayrecur, faris fuit;ges
nitam et peralvum, en perurinas ab utero re« '0
&apioufus eft, ad du- cendam
materiam " er i mofadd àm,qua tamen etia
27$ 4| perm,enfes, et uterum
folent evacua re; ncn vl"A P * f detur mihi reprehendendus;s qui nt và
cencra| rione humoris inhibità, rectà victüs ratione; | potiflimüm pottis parfimonia,iX füblatà
intem- J| petieà parte laborante; nó
ahud habebat;quod | faceret pro
eàcurandà ; quàm genitam jam a- | quam
evacuare,& à partéad quam tota fereba! div reticis »
tur, derivare ; nempe hydræoeis per alvum. per veficam, et iis quidem;que fimul menfes prolicere poffunt; qualia
effeafarum,& apic m docuerat 5. C $
xfi med. facul. ^ut etiam fi qua excrementa
picultof. | uteri veris, et utero
1pfo i ferofa in, rent;aut ob craf- fitiemretincrentvr, neaut corrumperentur
re- tenta, aut iptcanperiem 1n utero
1nducerent, tandem etiam quamp rimum
expurearentur, . Ex quacvrandiration e
illu d primo col- ligendum eft, ncn hac
3" làin cedendum effe in curando
fli xv mulIicbi ahbà enim và 1ncef- fife et alios Medicc: n. cmanos,&
Galenum ipfum, ex Hi Medicis anuquvis dcíompt refide
pocrate, et optimis qvibufqveo
à,Cccnftatex cap1teo $ à illo:
Albg bro. fiii fa- bé
CHYAV- dut vtría ra-
Moe à di tradita et », ls l;b.
de pr&cog. ed. Pofl bu 322/4772 . lx arena yanarina
fepe: e 2nalum, £9 contra
G a. Albi bro- finvi vc-
YA CHYAL- Ai TAL.illo: mutàffea
item poftcà Galenum fentétiam;
poftquàminundià ftomachi regione. ex unguen to nardino precordia perfenfit frizida,&
humi- da, ac mollia; ncn fecüs quàm lac
coaguíiatum ; nondum tamen in càfeum
concretum ; ut ex hi- fori illà tradità
Zib.de pracog. ad Poflbusmum.», eap. 8.
colligia 129. "XN etroris
'arcuendi. funt ; qui piocurando eo moi
rbo ;mulieres in calidá ma- risarenà
fepeli endas ex Ga leni. decreto cenfent;
cim tamen Galerius fateatur aperte; et ce tcros omnes d C feipfum non firié errore hoc remedium attentàffe: ut magis ii finr.
deridendi; qui etiam in divi arena Soli
aftivo nudas mulieres exponentes, ac
deméreerites ; tentà- runt mbrbutá
huncevincere. 149. C urari igitur
poterunt fim iles ur orbi, derivatà, et fimulevacuatà
materià per vias fe cefsüs ydrago?is;
diureticis per viàsu rinz, eo modo, quem
docuit Gal. cap. illo o.de pracog. ad
Poftb. Inter hvdragoga noftrotempore pri-
mum fibi locum vendic at Mechoacani kann
fialiquaadmixta fit bilis; £x Jappa,tum ola Q
tertüm cum pilu lis ak epha iginis, fuccüs 1reoss potiffimum, f. Bie I? decoctum; et Pa m aj
fylv 'CitI1S 14 )a- 541-
Ixt il« LI t (imilibus« alia.aut ex 115:2* . Dofita. tiffimum witbid, &'prafentaneum
remiedium funt; aque T bermales falíz.
vt T'ettuciana ; et fimiles, quód per
vias fecefsüs hunziditates de4? " Do v .À d S S asi es AUI
FEMA ^ M. ducant. Tot ner hanc viam
naturam attuetcat eoi- cCrC. Incafi lium
tam een haco n inl daa fient dem tranfimitt y77
Gent, nifi partis cenerantis hos humores ratic- pem habuerimus aut, ftà toto
eenerentur;to- uus; propterea, in ufum
e. CURED dug intem- periem partis aut
touus tollere poflint; puta» EL: | e
MN wd fi frioe1da et humida fuerit; quod
1a pius evenit; je. aut ventticuli,aut
hepatis, aur toti s,excaiefa- cientibus,«&
ficcantibus conabimur evinccre ?
commodiora autem hazcerunt, f15ü88nrhoc prc1-4 331311 " ; (^v 1taàlnLls 3 a Vt( Lt : assise ap, o e« 1ncontrarum tractam eCvacliaic co i
LHl- C15 potiliiniulu lia totoad uterum
trans fundaa- - h 1 * T decoótum Guajaci: aut fi1ntemperies bec
frigii Q | :, 1*3 ^ 14 : vw da « humida
jecur etiam att1gccr1t; quo d Cx Ia-
dice, vel. ilgno oafiairas paratur; ex quorum hr ES, * $^ "s " 14* T^ we 4 | Qe»
T C XCInD] l ) CU 111 P xin rima aiia |
roponl px (tunt. 1 E I $C. Animadvert« naun Lt 1d Cn,n ja fempet1 aut íerofuin humorem, aut pitu1tcium
peccare; peque ícmpernunc cíic. Cx pl
rcandum neque 423311 " I ! À ' E
a^ bor d x c4 femper calidis cczr1endam
efie caufam efncien Puross:8 2 mulie
by 12 20) 75ber "t £ J 7 ,211 CALtis
Ci 4avanáa o Adftrictus enim
locis ; aut nobiliota meinbtáà in-. 1: vadent molefta illa excrementa; aut
retenta in., malum habitum ; aut.
hydropem laborantes] ducent. De. Vteri prafocatione . Prfoa- 132 f leri prefocatio ut morbus eft
per-- 1^ Vis air dn niciofus, ita cutn
folis mulieribus,,! tento fei et fepe ex
Iimprovifo adveniat ; curationem fe-- [4
ne,odova- X6 € fola fibiadfciverunt, ut inde quàm] j]uri--p £5 vulva 1naà errata introducta e(ífenon
fit titm : Inter nen inn quz lllud
primum locum obtinet ; quodi infuf-- pun
gea. ^ focatione matricis ex retento femine, in matiriss| virginibus, et viduis ; internas vulva partes
;1n--[' ungunt odotatis cleis, ex
Zibeto, Mofcho,& fi--|' milibus,
aut peffaria talia imponunt;quibus,licet ob fuavem odorem, uterus füpetnas
partes: petens deorfüm allictatur ;
quoniàtm cunen et titillatio excitatur,
et appetitus Veneris promovectr;quaft in furorem viregineum coricitan-- p turmulieres, &à comprefhio ne
diaphragmatis retracto utero in proprio
loco extenfus, quaft turzente materia
undequaq; movetur, ac fynt- ptomata p
ropemodum ind icibilia producit; Le- fo
cetebro, et corde: hinc cordis palpitationes,
et fyncope, hinc pulfüum
deperditaiones, hinc:] dementis, lío
cerebro, concuffiones omnium partium,
convulfiones, et fimilia. Prafota- 153.
Quare pra ft arct fuaves illos odotes co-
tiséeze o X1$in párte internà prope. puderda alligare, quam
onum intrudere, fic enim beneficio fuavis olen- ! tie fruerentur,nec in illa tam magna
incom- 1 | modi inciderent . r$4. Nutriquam faciem frigidà in tali
Cau afperzant. 155. Minüsautemodoratis aquis. r$6. Quinimó ne vino quidem facies erit abluenda.
157. Quamvis enim vini nonnihil vietiam
adapertoore infündi poffit; cum Hipp.Z/b.dc» | morb. mul. cra tamen. eodem tempore malé ! olentia naribus admoveat, vino faciem
làvan- I dam non efle docet . 158. TitiHationes aut'dieito
medioimpofi- | to, et perfricante os
uteri,aut aliis inftrumen- tis,ut femine
excreto füblevetur mulier,à Chri- !
füano homine omnino ablegentur . 1f9.
Quametiam ob caufam peffi illi ex ali- |
ptà, lienoa |Joe,eca ryophyllis, Zibeto, et fi fimili- Pbus parata, licet difcurere flatus uter:
valeant, !quin et fermen
promovere;quoniam tamen ten- J'tizinem
maximam promovent, et Saty riafim. fepe
inducunt, in hac fuffoc ationis fpecie ex re-
I rento femine non ita tutó in ufum duci poffunt, MEC Cerata ex Tacahamach&, Caragnà, fGalbano, et fimilibus, utin hoc morbo ex
re- litentis menfibus ob craffitiem, aut
putrefacts, llrron refrieeraris
excrementus, ac ex flatibus à Wl proprià
fede dimoventibus; proficua funt ; ita,
I[mb: ex femine.retento, et putrefacto ortum du- Ixerit; non 1ta fecura erunt, nifi cum
exftinguén- S ^ tibus lentia to xis appli-
canda . F scies frs qida n9 æ
fhergeda. Nec a- quis ode-
pyAf:'fe Nec vinos Pauxilis
viniconce dendum mai? olem
tiba$ na- ribus Appo- fitis «
In prafeos catis ex fe mine reti
ciéda titi latione. Pe[ft odos
raulpra- LUUD e femine
reiitiédi » GCeratæx Caragna»
galbano » gc. tpr et focatis (ex
f 1oine y. Gucarcoi-
z ZéLá. 1 " r&- /*
J« jocis Za d fit P €? ü4 E tibus femen,aut refrieeran
ub us; ficcantibuss uteítagn 15
caftus&« Sorallium»aliquid adjun- ol
1l ^ AX61I«. Scio multas, quo ri
Pe. ev t TE 7 emo NE S TEN in
locc Pp OpEh yretinea nhtL,Uu6 DnVItCLLiCA alieettio 23
x Ln en excitentur; hujufinodi ceratisex T
acahátnach uti,41n.umbilici autem, Cay
itate 11 1 f56snere q10n1 nponecie quo aut tria grana Mofchi: fe C 1 quàm ] ehci
fucceffu, 1 ipíz viderint ;ex calore
enim corporis et lec elevatis bene
olenübus vaporibus;fepe in pi focaüones
incidunt ., 162. Cucurbitule ut infernis
parti ris, et coxis, quin et 1pfi publ
appofitz profi- ciünt ia reeioni
umbilici | Te» parte Obefle ic
lent. adis. In 3 Vero
y ftot A nx 3 - Q5 ; 1€ CX re tenti: d inen 1 /
^14 e! * ^x/11133 1140 7 T gor 3 44A Cu iquo n yd. Xxumque appo lli 29 PP! OXAS bi
alliüi Lil 1 US E 1 lm. LJ Cc 291 Db 11C5 Li
Tas 13 EIU 3x4. 1 ders: s Lou.
PLUS 5 ctiam in par: X VilllO a mo s COI
LI » poris totus refrigeretur ;
Don j« LU 1n DatOoxy. Y ibe enda eft dili S4NIMADFERS:- LIB.FIF .281 T2)
166. Incaauteém, quT Cx Hagone ( Ag ine D o0» fla- T p^des v
ducit, cucurbitulà magna umbilici regioni apa ;;, c55- lic rel 3 toin (1617 qo ^ 1 : Prtifi » VCI intcf uroblücum E ul em
pl&G- as tadffimum;fi quod
aliud,remediun efleíclet. zza ati- ^
2 I67. Hac tamencautione,utaut €x aGUa
ca- 5/75. ÓH 1^ !1 »li "etr! . 111
"Y 1^ ' id-erxa30mnme 13 61 T5 bruvbpi-
ldáaapp ICCI1 L5 41 LCI m non nil m 19n€;, pocti- gu Ve» - : E ! "1 : nia : 24/3 7H inum jn pra pinguibus mullcribus . IH: a
255 1698. Sitex iis,qua perforatx funt
1n furn- 5 mitate. j : 3 m. d P m E di 1 2 t 5214 169. Diutius non permittaptul
adherere.ne, - - LI * a " MoqT1 48 Í3 t: 4 «1171 1^ 1 (11 ^
if impegito kA AlilLL 2 lllLUl £1l5| D I
|) ill «CC 2 ]I1lo 1$ ^^] v m lI13carr-
anmod alia p Qe qu oa n91 4Enaln CL.
aLLiI 3 quod et iiti LIII «idl . )Yali$ et j i j 1
Z»^r: I * f. Y
: | D, ! )! 3 up 1410 J 420A A20 n2^77
0741147253122 : ] Lc 14154 E aud A40, i
AF LH222 07-1 A. MI e«LcoATL a Ter 4 Le
per mient e j«€?t E m, Medicorum
1n partu naturail ; præ JÆcuncdi
, dicorum. Canones veró curationiim
omnium morboram muliebrium:
diligentiffimé -profe- cuti funt;
przterantiquos Patres noftros, Graz-
cos, Arabes, et Latinos, ex ecentioribus Mer- catus, Mercurialis, et Maftfarias ; fofüm
aliqua attingamad munus
füfceptunvattinentia . Obfetrici Primóanimadverto, et frequenti experien- £us non te tià Obfervavi, nons effe temeré
credendum ob- mtré cre- ftetricibus aut
aftruentibus graviditatem, aut dendil,
fea negantibus;,ubi agituraut de promovédis men- Mec Gus aut de fecandà venà ; aut purgando
cor- dd ed pore, ob urgentem aliquem
morbum; fed Me- Hla iljg,; dicus
diligentiam fuam adhibeat, conjecturis
expendos, 4$aG has cum dictis obftetricum congu negat, et agar,
lufpenfofemper pede in re-admodum judicatu 8 difficili incedat; ne, fi dicta
folümobftetricum, 1 aut mulierum fequatur;
nimis fecuré incedens, abortum
inducat;aut remediis deftitutam lan-
guentem finat. Obffetvici | 371.
SYumquamtamen in fimilibus cafíbris bus
sfferé aperiendi (untoculi, tunc fáné quàm minimum tibus fe- obftetricibus eft credendum,etiam
jurejurando tum mor- afferentibus, cüm
mortuum effe fætum teftan- P489 59 tur,
et valentibus medicamentis excludendum
ice . Perfüadent; cüm fepenumeró multas videri- erts mus, à quibus feet!m ramquam mortuum,
aut excludendim;aut, quód pejus ett,
ferramentis extrahendum effe cenfebsnt
obftetrices, et fub füà, ut ajebant;
conftientià jurabant, quz non., ita
muftó póít vivum,& bene valentem fcetiim
pepererunt. E HÁÉÓ € acerbit
ter efflæitant à Medi potrigant,
pulveres, decocta, àquás füllaauas
potrige endo : ; quibi 1S 1 (æp
Vta ate dol " utem non ita óbftetricibus; ita aures non f tirientibus, qui aifficatéa de partis ue:
Na orm commortz precibus inftanC1: K datur, autirritata natul tcvc
T5 i 4* n! dd i
cit nac Ale Ob hat
tanta rtat undeaut acerbu clu(iis ante temptts à natura cotil fervet ndtur m fitum 1i 1C ipfam cà
difficiltàs, unt pra facile SENCASCI éit eben
; ut mahuüs adjuttrice
ftit n exe indo. ifaycun
laxantib P emolltentibus res erit triti fizenda ati folemus ad expellénd üm fetum 1mnor q mbus tuiim; I74.
aut fecur Quod f 1 placidi ráfémpér in aum parturien
infantis éxclt Occidàtmus. 17;.
multerit neque i enim CO
ee A mentes; fueéverint,
énim fuübfequuntir fübv« alvus
xliquándo citatur : tó convenit, quód
dolores 1l foleant,n eet üm .
dated. ter er, nin dà
df no iearuue
I^ [ r1
aus 1ftofi uerih
n Ira 1 ^"r41
G "i 1 n
T u ;
ad]: imyoda arcu
CUUccl ! 11€ nfe t d bl
CX nil ^ Mc
À. a» V $^ CXP
^( 5 5 Xlt loratunm
laritm,d Da [im iciimque c
fiiper ione exl TÍI nc
primipatris 1s fi 1
I 1 uo
) JUS V "f.
Cxnh1Dc $ ventric lt s iabeamus, quar e fit; ut infans aut occi- "i tenifpus debituman- cegcto datur;aut ex- utum, non»
n partüs ad- OUS » Gt laln 11$ etiam ad hic eft venien« á UL. um ip: ci debebunp ivaré
» DC, 'élymus;, " li
pfius Im, (ofüinia aut étiam ip d : noftris exhiben video n
fluxerti it,neque vc he
venit: nire c De "EPIIT fe pc LA o9
E | CC 1l Qui DadIp iCrvenirc non P
parParttut »o [rà Uth- vA PTS á
Medico ob fprttes parturien
I A7 Paviu dm ains
vt29 tja fati s bi 07220
Et [cam dAs, 4p 20X1A .
Fét& ex- cLedentt- $ QHA7
do dun; - Qieu?n 4^
mys dali. |onü A par- tu hegue
femper,ze gue ou
Uentt s 4at6Hn)11- ? Us
cg Febrttit Li
LoUs.a bart : LI ag
mut jeans [AU * gz 4
[u- ht f par, 2 201ÉS e. gv i, - piod qua
purgatio C07 din et "i ndo
obofd, qu. ex £ontvoverY
fia b«c til lez d: a . exp eme.
A! com bue E ) . LFVD. SEPT.ALII um fiuere velit materia. "176. Sifüpervenerit febris, aut
inflammatio aliqua, numquam à
fuperioribus venis extra- hehdus erit
fanis, qn dgad alu fentiant;ne »
retrahantur purgamenta: fed ab infernis fem- pereritevacuandus. M EDIOL.: Aag pe ud De AMforlbis articularibus... ( 7s Íciam
maximé. contre um efle, an incipi Sn
eplc varticulorum,potufflimüm.po ex ufu fit medicamento elective purgante iid motes evacüarc, multis 1d affirmantibus,
quód ;, humores fluxionem facientes
evacuentur, re- vocentüf£, et ab
articulis, ad quos fluunt, rev Sy
lantur; evacuatà enim materias cn urnores fuc- céldent dolores ;& brev lori tempore pii
ura- bunt: experientiam bac inre
iunltoru m etiain. afferunt ; in quibus expurgatis
humoribus me- dicamento, et dolores
leviores fuerunt, et bre- v1evanueru nt.
B epugna nthuicopiniontali, afferentes,
ci dicamento purgante res ad inf
iürihantur,*« devehantur;, fpe humores
per íé € à medicamento com- motos
vehementius irruentes, majori etiam»
impetu, majori A ug et magis affatin
culos pedum ; et ad 2enua affiuere et vehementiores cfl dcc re dolores : et ob hanc
unà caufam, dicunt, et Galenum; et omnes
fcripto- restam Gf£zCos, quàm nos«
1 Á IT. [|
bns iiLilnoO4p Ccrna e a
SICQUuc 1ad arti-4 *
Maurit 2QI3060S C lat IOS. m e
Crraturos;cu dloribus adfit et expellentis ; à UCTIt COp1a ANIM ADI Dæiscommendáàfle evacuationem
factam per contraria humores eoe £T?
L| ime. Cij us i cum dili- Zenter caufam 1inveft1io irem; ceno iictl1onem hacin re QC
materias Savocare,1d vero
au IDnatcria inque'qdquandatrate La ad 111a: RQARSM VEPPE erimenta;
ul ex] crie tà cc Ec Cas a l11q
l 3 M
ic fiuens 5 CX 3 'Clilltas recipientis de,ant rob:
controverfiam .düàn fias
evacua dà ex £diftin- 2uluc ho . )pri - ü1m. i8 mS "m pr E E ", 26. LED. SEPT ALII MEDIOEL. Ead ut ex fignis debilitas arücnlorum.
Facilids Gxtvonviip autem difcernemus,
an purgante medicamento ^...
utendumfit.an abftinendum, ex experimento
facto : fi enim femel aur itezum tentatà purga tione, &ingravefcant dolores ; et diutius
per- durent, ab illà in pofterum
abftinere oportebit: fin autem melius fe
habuerit ; aut faltem bre- vicr faétus
fit morbus, omnino intrepide erit corpus
purgandum. Purpusio x79. Cum vero, fi purgandum eft; in
princi- zpwdsgra piold faciendum fj.
freftra preparaturfytupis cü facit.
materia; cüm nec putrida fit, ut: cocticne indi- day etl l4 coat; tantem aucferofa., et rennis,queftaum;
Us um [466 expureari poteft, Galeno
magiftro, Jib. Qwoss:. 9 | da, r Qj
quatido purgareéxpediat, avt fané bilicfa.; te-
ph wv^^^ quls, non potrida, qua facilé expurgatur;nec. |? Becy)wM
coctione indiget, quód fit fine putredine: cum. |. "von netóf v tamen craffa aliquando fb
perfit præparari po- pc terit, et atcenuaris
ut facilis, fi non refolvatur Acum per
infenfibilé evaporationem, cvacuari pofht .
179. Miflio (aneuinis per fectam venam ut / :
A T7ÉATCUAAMA . Ppodagri
"- A 1 É - : ^ dg quA A: gmaxll ne
lauda CUT, ad praca vendam podærà 5. MN (C sis -
| JC -irgdus, goinefit refertum ; et ad
eandem curandam, ft. |! an guin- bumores
mixti fint cum fanguine : ita fi fercft: [uy
jJ" dozen. fucrint humores,& frigidi, &frà parübusexe--
pu cernis capitis defluat materia,
fruftra tentatut: pni tale remedium,
quód. habitum corporis refrie- | ecret,
et hujufmodi humori: prftet occafic-- [1t
nemo . Pedaga X80, Quin ubi frequentiüs hujufimodi
pce] dagrice» [q" ód crudis humoribus tunc det
occafionem 5q« | elagricz acceffiones homines invadunt fie piüf- ^ f | quealiquem affüixerint, nifi fumma adfit
ple- vei fim- Initudo qui alis
inebriofis, et vinofis aggreearl,,;, ji
e | folet, hujufmodi remedium
erit omittendum, tendus uius /feffatis
d vvv eL- eda | habitum corporis refrigeret, nec curfum
hu--* yis | morim extra venas«ohibere
poffit . E- $1. Repellentia quamvis
paffimin princi Podagre | p1o,
Ccvacuato tamen p rlüs corpore aut fangui- lalerax f | nis miffione, aut purgatione, commendentur
à £u ridiou Jaffirmare,raró tutó in
ufum duci poffe ;. fi enim ró Con"ve-
ntt Í .lidolores vehementes
articulorum non prius ps "6o |
zefícunt quàm ubi :materia illa maxime calida, i'Galeno, Acuo,Pau lo,&. Ceteris; aufim
tamen. Jeztia va Lin. hu C34Y ^ ad externa prol. abitur, tumorem, et ru
Pocos Y m 1p partc excitans,quc modo
repulfa refrigeratis »«Æ clot |
externis partibus non morbo occoficnem augc-
| bit; exitum impediens ? Quód fiadítridio Ten hleigendes | pu lion juncta fit, magis eriam ledet ..
Sed ve- - | 1o jam ex parte f'uxa amate
ria dolorem excitás, | nonne etiam, fi
cà ref riger à dolor imminu: tur, craffeícet magis, magi f ue impingetur; et 2. ad
fubind e€contumaciorem mo yrbum efficiet? Non po P» nifrigitur feviffimis doloribus ; omnem ad
fe; " curationem trahentibus,
verisrepellenübvsu- J| C0. LL a. remur, frigidà, aceto, farinis admixtis,
pfyllio, lenticulà pafnftri ex
aquà.& accto.& fimilibus;
Securius eft oleum rofaccum, quod vocant Com o dos. "- pletum, quamvis enim refrigeret, et alique
eec. modo repellat, vi tamen olei
laxante tranfpira- c^ tionem non
impedit, neque partem conftipat;
atit [Let ano WSLGii
quatre prat joy: !] -!
* v cr el
Tn ex Cut: $e), LC
piam 2! 3 Í AG
eui; articulos po X | CAT. Q. C
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do fricart'r,; 1D ^47 03 Li
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4 l (t, difcutit nre
iatiifa P ter
praulel-. 1 IOX123.». Ep:
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(:3Hs^w1S I UETTICIL
soni e «& vix falfedo oleo communicatur, foleo
ego fa- lem tritum M A EERATE in vini
calidi leviffimà poruone pat] aum
colliquare, mox falem illum |
cciliquatum affidue fpatulà cum oleo agitare »;
I et ficoleum falíedinem contrahit: Velin fübti- | liffimum pollinem falem contritum, et oleo
ad| mixtum femper ; antequàm 1n ufüm ducatur
| dilicentcr concutiemuls . De
AMorbo Gallico. - ^ 136. N Venereà hac ]ue cura inda multa
fa- À néannotare potero, cüm illud veré
af- firmare aufim, poft delatü à novo
Qrbe ad nos I| hunc morbum, me
fortaffe multo plures hoc I morbo
laborantes curáffe, quàm qu ifquam. alius, quód prater innumeros in magna hac urI
be paffim curatos, per quadraginta annorum.
fpauum magni illius Hofpitalis Brolii,in quo, ll folus 1s morbus curatur ; et fzpenumeró
vere I folo fepringentis, quà
decoctis, quà inunctioni- l| bus, et fuffumiegis
curato adhibetur ; reliquo vero tempore faltem ducent ex ulceribus femJ| per
crrantur, purgato diligenter corpore, et Ili multis etiam et pulvifcul 1$, et elec
tuariis,alexipharmacis praterea exhibitis ; curam in adole- fcentià mihi demandatam fcmper retinuerim., et adhucin hac tate retineam, ob FRUIR
cau- fas ; rtüm potiffimum, ut
adolefcertes, et novi- tiosin hoc morbo
cerrando poffem exercere ». Vnde
cuamanno praterito ; multis poftulantiT bus,
adzmifce- tur s fi fal oleo no?»
qa idus 04 Lol CÓ voa /
p Æ ra pn. Gallici morbi cu-
ratio du clort Quo- 7modo frequens, c in ea mal
ta obfer- vare quo- 72049 po-
tuerit. mw M A MorlLi gal
]l:wei cura- 20 diver- f?» morbo
vix 1- €boante, FR mento aliquo füperficiei penis, atit
feminei pu- 0e bus, diebus, quibus à Moralibus,&
politicis ii meis lectionibus vacare
conceffum erat ; pluttbus fermonibüstotam hanc de Iué Veneftea tra- étationem comprehenfis fum. Ex quibus ali: qua, quain curatione hijus morbi
finguilaria occurrunt, excerptà hocloco
annoranda miht fumpfi. | Primó ieitur illud annotandutm;non
eándem eífe curationem luis hujus primis
diebus com- municatz, et übi altiüs
radices egerit, fedém- que, quam hepar
femper cenfüt, occupaverit 2 . ^oi A fiepé enim malà illà qualitate mediante
recre--déndi; communtcatà,externas folüm partes oc--J. cupat; ulcufculo cariofo, aut fimilibus
excitato; quo exficcantibus curato,
aliquando penitiorés partes noh attinet,
eu occafioné neque mittendus erit fanouis; néque purgandum corpus ; 4; ne, quz externis partibüs folis adhæret
conta: cio;agitata magis diffundatur,
magífque ad in- terna trahatur, urndé
veré morbus contrahatuür Neque veró
timendim eft ; ne contta medica-
tzcepta agamus, quibus cavetur, ne umquam localibus utaviur,anteduàm erirverfum fit
inásJ, nitum: Id enim veriffimum eftin
morbis à cauw si interni ortur
ducefitibus, non autem in iis S &. qui ab externis ; tiani 1m miorfü
venenatorutns] 4nimaltum ómninoad
externa evocamus, fiftt] mus, acad
cutem trahimus, denique non. pürn camus;
ut comode in fcabie recenter ccntadt .
^, ^. » - N . 4 communicata, in quà
fxpiffimé citra purgauea ncm ANIMADFERS. LIB. FII. 394 nem cuti emendanda, et fcabiei tollenda
folüm unfiftimus . Neq; tamen
placet,quod ab Empiricis paffim
commendari video, ut indiftin&é qui-
bufvis cibis ; et cujufceumque conditionis utan- ' Iur, multaque paffim ingerant, poriffimüm
ubi I:bubones appareant, nec ita facilé
eleventur ; uomodo enim naturam
opiailantem ad expul f1onem habebimus,
aut ad foi confervationem, fiillam
multitudine ciborum;aut malà qualita-
ite cbruemus? Át neinecià etiam
macerandum eft cor pus. neinternz partes
2]imento debito deftitu- Ita, ab ambitu
corporis, et externis partibus at- T
trahànt. 199. Exercirium, quod alii
injungunt, po- tiffimüm in bini bone
promovendo, ut non pof- fum non
commendare, ita fi excedat ; f peoffi-
'Teere poteft, apertis nimiiim meatibus ss ex- 'THhaufüs intern2rim partium fpiritibus, quà
oc- Ieafione virus exrernem fepcad
interna remeat: "FQ rows ab
exercir1o füdor promoveatur;abij | fter. 'ebet. neaperiis meaubuscumrecremen tis oualitate mala infectis remeet, et interna Tinfciat.. Átveró ne decipiamvr, dilieentet
in» 4 carie apparente obfervandum eft,
fi à congretfa Babont- bus nàe- XL bas $
n0n "male ta ingeré- da,neque
quibufvis vefcendti, cotra Em
pirieos . Morbo gal lito. in-
ChoADte » tenuis vte« ? malus.
Gallico t cboante
exércitim valdum fap made
lssta Carte gallica atpaI4
Venerco p er quatuoraut quinque dies caries i]- rente; T f laar paruerit . creffn tempcris : fi cilenim primun 4 efle ex fordibus communicatis, et tunc
nullà 1 a prean po ;tiüs sr illud evererit,fionum erit,crram mode tr& "7 enda
DEAN c9 06? &n1//€ . precedente corporis univerfali evacuatione
s exficcantibus folm totum negotium
trarfige- mus: fi véró ex labe hepati
communicat illud fieri judicabimus,
tuncevacaato corpore, ale- : xipharmacis
rem abfolvemus ; ingow- | 191. Sic&
in gonorrhoeá procedendum:ali- vhs (^
quandoenimà concubitu ftatim evenit ; validà
$0763 49? exi(tente natura, et ftatim propeliente per cam enodo pro- artem virulentiam contractam; et tunc
nullo cededit « ; f à . à modo per raultos dies erit cohibenda, fed
finen da, fübluendum folüm quod adharet
. At pro- erediente tempore fi non definat;aut fi
novum. aliquod fymptoma füperveniat jam
providendum eft fedi, et evacuato corpore ; alexiphar- |j macis edomare vim morbi, vel potius
malamo qualitatem tentabimus . Quomos 192. Idemin
bubone apparente:fi enim pri--] do
proct- mis diebus apparuerit ; quoniam robur arguit] dendw
fAcultatis propellentis luem illam ad ignobi-4. £2
€/4* lem partem, omnino actioilla eritadjuvanda ;4, fione, bu-
&one gall £o appare gt. nec
purgatione; àut faneuinis;miffione evacuan
düm erit corpus, ne revocemus naturam à mo- tu illo : et fiepé talem evacuationem aperto
bunémque virulentiam evacuáaffe. Ya 193. Obfervatum tamen
eft aliquando, tan) 32 bubo-. ^ iyole
humorum premi naturam,& adeo craf!
ze contu- à snati alina. As aggrediatur
natura tale opus,fuccumbat ta ; men
oneri, nec dd elandularum locum poffi!]
purgandi . à : materiam totam
propellere ; inchoatumque- J opus COYbM S »
(4m, et contumacem effe materiam, ut, quam bone totam vim morbi edomáffe conftat,
ome«4 y | opus relinquat ; 1n quo
| I fum,füblevatà naturàà mole, et farcinà,
eva- | cuato corpore, foeliciàs omnia
ceffiffe, tumo- ! rem in debitam
menfuüram effe elevatum, et ! materiam
duram, et contumacem ad fuppura- |!
tionem effe deductam. nj X n r2 . PUO I r^ ood ac NLLTTISSERPNXEMS LL LS
ud cafü fzepiffimé expertus . Vbi
virulenta bac qualitas fedem jam| occupaverit,& morbus Gallicus jam factus
fit, | radicéfq; jam egerit; edomari
illa debebit; atq; N
alexipharmacis evinci: expurgarr autem ante | corpus debebit, fed nonab initio folis
lenientibusagendum ; cüm enim ii humores veram»
coctionem non admittant, fed in eo eenere fint; | utfolàüm pre parariad evacuationem
debeant, I lenientibus et abftergentia funt
adjungenda,& aliqua etiam veré
purgantia;fed in minori quan ritate; et hzc
veré funt minorantia . Quin, fi in aliquo morbo, in hoc maxi- mé validicribus eft agendum ; tum quód
fpé rebellis,& contumax eft materia,
puta, lentas; et vifcida, et fzpiüs
adufta;tum maximé,quia, cüm per exrerna
prorepferit, et jam bonà ex parte extra
venas ad carnes, et folidas partes
pervenerit; non potcft nifi validis medicamen- üuseducd.
. In decoctis pro diluendis fvrupis;autin fyrupisipfis variis pro varià materlà, cul
potif- fimüm infidet virulentia illa;
femper admifcen- dum eriraliquid ex iis,
quz alexipharmacá fa- cultate x j a"
Gallico »orbo pro greffo pur
ga ndum In eallico morbo 15
principio lenietibus abífergen
I7 N72 ganrtia ad i 06A o
In gallico mo bo v4 lidis pur
qantibus ACenatmm, T e Iv
fyrupis pro morbo gallico zd
denda 4- lexiphar» "afa.
na, aut faponaria; ex quorum ufü.fepiüs exper- tus fun, poft repegitam purgationem ; et mul- tos affumptos fyrupos adeo imminuta fuitfe
ac- cidentia, ut mult fe jam
convaluiffe cenfentes, cztera auxilia
refpuerent, X ni(i admonuiffem;
refractam folüm effe vim. morbi, non. convul- fam, vix alia auxilia amplius admififfent
. Pilula ia. 197. Poítremum quod in purgatione repeti» fine perga c fumitur medicamentum, placet
effe in formá 10515. 12 /fo]idà, qualia
funt füb pilularum formà ; quód enorbo
gel Sc) longioribusattrahant, et fi qua à medica- licobF^f- entis, aut (yrupis commota fint
recrementa»; rehda . facts ooi dd
cs acilius poflint educere. Syvupifol
198. Inrepetità preparatione humorum lau
ventt$ i? doadmiícerefyrupos compofitosfolventes ; ut gporbo gal fyrupum Montani, de fumarià
compofitum,de ? ?"* bolypodio,
decichoreà Nicoli ; vel Gulielmi ; dans
e. : tiores, et pouffimüm Maffarias
doctiffimus ; neque enimimpeditur
coctio;quz nullibi in ta limaterià
exípectatur ; fed paulatim. prepata- |J
tam materiam, cui virus infidet, evacuamus. Palvfcu . Quinimó,ubi maximam
fupereffeads li fc!ve- Syacmaterke
coplam cognoverimus, optimtrm. 26$, (9 e Eg uo wiain
alli : atico ANT ^ir n 2 5 rs,; aut fuffumigia, pu 'vifculis, aut
confectis ex! znendaz-: folvéntibus
paratis ; Senà, Mechoacano, Ziapro varietate materie, quidquid dicant recen- |
; effe cenfeo, antequàm ad vera
alexipharmacaz.] véniamis,potiífimum
autem ante 1nunctiones,,| lr. lappà,
Turpetho, Hermodactylis,& fimilibus, : " s *À ^ pro varietate materie exuberatis; add1tà
zqualiferéad omnia quántitate Sarzg panilie pulvee;] I1z4l4 5
NT € B t " tC s e ais tunc SDN a. «i vta lora sow ruis cate
Se 0" ANIMADVERS. LIB.VIL
a9$ d rizatz, exhibitis, materiam
illam imminuere 5 uc qua rel iqua erit,
aut per fudorem propelli poflit,
faciiufque dieere e per univerfum cor- |
pus difpet(a edomari, atq; evinci ; aut f1 per os expure zanda fit, peculiari argenti vivi
faculta- | te, mole (uà. no * füffocet,
aut gravi (fima lla; | quz aliquando
folet; fymptomata non inducat. 100. In
decocüs ex 1is paratis, qua alexite- Guaiacs
||| ria facultate ; et antipa thia quàdam virus illud fpecies. in | evincunt,.& ex corpore pellunt ; ut
quod ex vagos || Guajaco paratur ; primó
veniat cófiderandum, 7 Mola illüdque p
rimüm animadvertendum, non effe Ie illud
inufüm ducendum, quod annofum eft;ni- i|
miscraffos truncos habens; ataue peromnia,
i| vetuftatem Niediolebes quod paffim Empurici fa- i| ciunt, utacrimonià illà perfectionem
medica- i| mentiareuentes a2ris (uis 1m
ponant; cüm calor natur disin tali ligno
jam fere fit abíumptus,& .|| vis
ejufdem effeta dedidit ta; Vimoiridum (hbétantis yn oleaginofa pars abfümpta, aucta
ficci- | ta5 » five potius ariditas fine
pinguedine ; nam. | ob has caufas,cüm multas
partes terref fttes de- i| coctum rale
habeat; numquam clarefcit de ter- j|
reftres iile partes cama wifteritate quàdám acres yh eram pe: (entiuntur 201. Neque tamen etiam truncos illos mi-,, (l| nores laudo ;. minimus cnim illis ineft
vigor, et,,,,; i»- Ji calor h uoi litate
füperfluà hebetatur, et fücitlt 2, 4;d;i .
|i tas illa à tota fübftangià tamquam in-infante eft imbecilla .
202. Efttamen fpecies quedam Guajaci que Gaaiaci 4 n'meGsaiacs, LÀ
b. 9^. dass EL. 3 eie W numquam
in ufum ducenda eít, qua nierorem.» cis,
c VErumin medio non habet, fed colcris cft íub-
sb Obícuricum quádam viriditate, que decc cvm decoclumy facit omnino tur bidum, quod
numquam clare- faciens, fcit, tum maximà
acredine et in eulà, et fauci- reiicióda
. bus ardorem excitat; ob craffas autem, et terre- ftres partes majori ex parte in fplene,
nonnum« quametiam in hepate
obftructiones inducit ; Empirici
fylveftre lignum fandtum appellant fed
cüm apud fcriptores nullibi reperiam dupli
cem hancífvlvef tris, et domeftici differentiam, potius ratione foli has qualitates acquirere
cen- ferem. Guaiaci 03. Ánimadvertendum etiam, ne aut
m» Jobs neq, ciafiær particulas, aut in
nimis fabtilem pol- erf ]inem minuatur; illud enim impedit, ne
virtus fi (nes ligni bene aquz
impertiatu IE hoc autem efficit, Sec 7?
wt difficillime clatefcat decodhum, fed femper
^' feréebibatur turbidum, undeobftructiones in fplene, aut hepate. Virg opi . 2104. Abfu rdum eft, quód viri
quidam alio- mimatc- qui doctiffimi
etiam firiptis editis cenfierunt,
"4 »1? ^ yon poffe fieri decocta ex vino,aut faltem ex v i4 5 et nof, fed infufionem fieri debere ex aquà
; qan OR Harc diutiüs Reb ime effe,
adden- Fives dümque in fine vinum, quod
hoc cenfe 'antine- : ptam effe materiam
infuftoni; quodque tamdiu cxcoqii
nequeat, quamdiu opor teretad clicien
dam Enc medicamenti : certum eft enim, et in chymicis extractionibus experientià
come probatur, nihil effeaptius ad
extrahendas me- dica. coéiis 1n
Idicamentorum facultates ipfo vino, aquá vini ; I& aceto; quód igneis, et calidis,
fubtilibut que partibus renitiora queque
permeans ; intimi rem ise Kun facultatem
pcterit extrahere; et lin fc concipere
: verum quidem eft, non adeó longam pau
coctionem, f fed aut longà infufione id
compet fati f let, aut in d ici vafe folet ex-
Eoqvi. Parare ego decoctum foleo 1n morbo in: 4^ Iveterato, cum mal VRRBET- : » materia
frigida pr dominan te, ex vino; quo
aliqucs a pud alios tos ertcéte curavi.
Paraturautem hoc ; ea infufione corticis ligni fancti OpUd C | CI: ihmodoe:
iml,cra de 'contufi unc. xviij. in vinl alb |ppem |, ut gt od dpbdfid Vernatia
dicitur;boc- ica æ Isn (catibos decem et
octo / funt auteni: Ilibrz medicineles
xxxx1j.) per duos CES exca- lcfacto
prius vino, et femper per duos illos dà
lin duplici vafe, vel cin ribus cale: 16d í lento iene vel in duplici Và apes IÆ n- ilfüumptionem rertic partis j quo
utàturagrotus li& mane loco fv1 upi,
et c pro potu in cibis; fümet NEN ac mier Mr nh ie ds mne iid Imane unc. v1]. pot ram proliciantvr
fudo- Dr t (d les: in 'xceda linc.xiv.Vti D the [0] M
'O autem, et 1n ceena » nOn (
vid a 444 44 a u-ipett rt oo
i i(Timum eft etiam 1n1s, aui
inunctioLE LULA 48A p M [A Jecoloss Jo üraaadà
fzve P T m » medi [^ bro xir
? gallice . erdum "Y Ie factà ex vicia: v1vo non C nvaluc
nt; I& portdoaliqua argenti vivi
relicta eft in 76 c; ada
"More l^ 2o«
Sunt,quiutuntur dccocto folvente ex pc;
I3 ta1aco, Sorzà, vcl etiam Chinà, ex Sen, 5 Il'urpetho, Hermodaéctvylis ; aliquand
iaim lveratro ni2ro,additofemper
carduo benedi pL ^ yo 12 Hil
quA, Sudores proliciedi
aat i2 by- pocaufto., aut in le-
&o, fed qu4 caH- t0 ad pibe
Ev1tbora- feriis t5 calidis c
fiecis na- furi utem dum. Inter fa-
dandum nó freque fer purga
dum. Sudores 3 0an a
aff umpto ie i^ favo EI
lici odit. Chin ras ut Brafavolus, et Matthaolus, et aliu. Hzcía- né in robuftiffimis, et quibus fuüdores aut
non» profunt, aut pr olici non poffunt,
meà quidem. fententià, in ufüm venire
poffunt:fi enim pulvifcülis, et clectuariis aliquando, fi non ad reftineuendam,
ad imminuendam faltem labem feli- c
fucceffu utimur, cur id etiam cum decoctis
praftare non poterimus ? non tamen adeó eft fecurum, cüm aliquando infequi foleant
2ravif- fimz dyfenteriz. S PIER 206. In fudore proliændo, fi fponteab
at- fümpto decocto non fluat;uti tutó
poffumus aut DX poca ta aut capfülà cum
1gne in lecto : fed n pofteriori hoc
diligentia adhibenda eft, mu- cda effe.
liftéimina,ne fordes infecbz jam ex-
pulfz iterum remeent, quodà paucis obferva- tim vidco: quapropter hypocauftorum ufus,
fi tolerari poteft,.multó tutior effe
folet. 207. ln calidis, et ficcis
temperaturis, et e- maciatis vi morbi,
füdores commode evapora- torio
proliciemus . 208. Vbifudores commodé
proffuunt, non. adeo frequenter
intermediis medicamentis cor pus per
feceffum evacuabimus; revocatur enim
liumoresà füperficie verfus ceatrum,impediüt- que faltem,aut difficiliorem proptereà reddunt füdorem, corpüfque rmbecillius faciunt. 209. Non ftatimab affumpto
fudoriferoat- te promovendurs eft fi
üdor, fed pel th Drop ln- tercedente, fi
fieri poflit, omn ? cec (Krnon. 210.
Inradicis Chine decocto parandó,cüm
foleant, tid ih £2.
9 !foleànt; fi recens fuerit; et noncariofa
; unciám unamillius in decem librisaqua,
vel fi felecta non fuerit, et antiqua,
duas ejufdem uncias 1f libris duodecim
aqua. excoquere; multi etiam. * cf mat ote Ritt i a ent ehe aaa tg ERREUR Yn,
^ /^ ^ Cem
cAvi^ 0e. 0A P ili v ü. à (a0 Á& foe * / 299"
dicis deco &o inpa- rando có-
munis er- ror MediMedia, ut nimie
impente rationem habeant ; corum. ! cüm
multi totam illam decoctionem unicá die»
abfumere nequeant,vercanturautém,fi 1n alte!rum dicm confervent ; né
acefcat, dimidiam Chinz ? portionem in
dimidiatà aqua quanttæ te excoquunt,
et aut dimidias, aut duas tertias
confumunt, fic cenfentes et indemnitati crümee . le confiluitfe ; et decoctum xqué validüm
pàá« | raile: fed maximé
decipiüntur,& (1 suftüs udi I cium
non fübtraxerint,facilé coenofc ent, poten
ius multó effe primum illud decoctum ; quàm | fecundum; et rauo * in A Don a: tis eft dari proportio ! | fpectáidum maxim éte 'mpus coctioni js
«& actio-, et reactuonis aquz. m dca
chapa aquz communicandam ; cüm l| quatuor, puta; horarü fpatium intercedere
de- | beat ; quantum confuümetur in abf
ümendis pet I elixationerm fex, aut ock
| '] diatà qu: intitate im cià, libris fex aqi ue, dimidium c ytiftittiere
finà- v Lert e irtes,m ino ride )
qti: I nis caloris igni hendam enum facultate: &- ficcifIima, et mtus; aut du
duarum horarü al ni 19nls
I cere ]
1m IAdl1CI1S ad libris
aQU£s:; pofi C hin: ilente ? Nequ Ie vc eró quis di- is quantitate, et | magis lento igne fi fat €oslio; poffe nos
PM 'eTow etifcer«
au deat, da incommodo contrà
venire : nam ad extrahen- ; e. . A E dam
vim hanc ex folidiori fubftantia, debita
quoqueignis quantitas concurrere debet . " x P j . A 2aw. Sar[opt'i yir. In Sarzz parilie, quam in edomand$ rd
7*-Gui^i (enpertenere cenfui ; decocto, illud obfervans (ofa. 9e Qeeacls ; (L84 &£« de «Af liz decotlo hac ]ue, et fuperandis
fymptomatibus primas prs seper . €? dum, numquam folam in ufum ducendam
effe; uitfíceda.cüm enim laxante quàdam
facultate preditas fit; et fapore fatuo,
adeó eos, qui illà utunturj,
naufeabundos reddit, ucob imbecillitatem vi- rium ex ciborum averfione multa illius
ufum omittere cogantur; adjicienda
igitur tertia, vel quarta pars ligni
Guajaci; quinimó apud nos :
Mediolanenfes decoctum Guajaci folius vix in
L ufum duci poteft;ob temperamentum calidum, et humidum, et ob hepar
ejuídem tempera- tura. pisa deci So Obfervandum autem, cüm zftate
pa- d ds, CAtür, cumminor quantitas
decocti paranda» ; fit ; majorem effe
debere aque quantiratem, EY e . : A
" " ci msior; quàm hyeme;
utloneiori cocturà tota vis Sarze
guiatita. communicari poflit ipfi aque ; nam quemad- 'e 4444 modumin decocto Chinz dicebamus, non
fo- fier? de-. ]àm eftobíervanda
proportio aquæ ad medica- et » C menta,
quz fimul excoquentur, fed etiam pro-
ENT portio temporis coctionis, tum ut communice- tur vis aqua, tum ratione actionis ienis
calidi- tate et ficcitate,tum reactione
aquz cum humi- ditate, et frigiditate. Guaiati 213. Curautem Guajacum, cüm durius
fit ; deccéluno ex Ííolidius non tantam
aqua quantitatem exe» poi1cat; "ML AM ^ " - Vr ennt ir a ier ardere o eel ai Tees nma
ra cx c ESL 1T 3ci Ipofcat; nequetam longam cocturam pro
extra- Ictione virtutis alexipharmacz,ut
China et Sar- za, fecüs quàm cenfuerit
doctiffimus Rudius,, [qui temporiscoctionis rationem non confidera- vit; in caufa eft humidit: 1s Mla ærea, et oleagi- Inofa Guajacd, in quà potiffimum facultas
illa, álexiteria refidet, quz facilis et
extrahitur,& Icommunicatur aqua,
quàm qua in Sarzà eít | quz quamvis
rariori fi fübftz ntià, et minüs fo-
I1idà, ex(ucca tamen eft, et arida; et in hac tcta. | pofita eft facultas S Sarzz. Chinat tamen
multó | majoriindiget et aquà, et cod
turà tum quo- | niam duriffima eft, tum
qu1a;,arida cum fit,nul- Ilametiam habet
oleæinofam fübftantiam. 214. Sed quoniam
fepenumeró evenit, ut aliqui vel vi
morbi;vel procraftinatis remediis; vel
Medicorum infcitià,ab hoc morbo macera-
|! ti; et ad extremam tabem deduc fint, ut nulla amplius f fupereffe falutis fpes videatur, ne
etia n ope medicá deftituti remaneant,
remedium quoddam proponam, quo quàm
plurimos ex | 3isad optimum ftatum
deduxi, fimülque viru- | lentiam
exftinxi, &àtalitabeomnino curavi. |
Eft veró confumptum quoddam;quod folà ale-
| xipharmacà qualitate;fine fudore ullo, fed me- I eliantibus pinguedinofis carnis partibus,
ali- '|! menti vim fumens, et in
fübftantiam aliti ver- '] fum, et vim
illam virulentam evincit, et abfu- |
mit, et fanguinem eenerat alexipharma ica illà
'] qualitate præditum,ut malàillà iqualitate : l- | tà, inaliti bonam fubftantiam vertatur.
Sic autem t Ó' P
€HY foiads longa €p- ura igo
v 1 at, cum düritás
fit Sar[a deco i mira- bile adta
&idos ex »jorbo gal lico.
gebe bk echt Px Anat - Inte; ;o0. erswxbÁma autem paratur: Rec. Sarzz pàáriliz electa
mi- vi tola nutim incifz unc.vj.
infundatur per horas vigin ad feq mac
.ti quatuor in libris quindecim aquz calentis;ita E 1 utlenem calorem confervet, et operculo
bene occludatur vas, mox lentoigne
decoquatur, it4 ut nihil exhalet, donec
quinque libre abfume pte fint, et tunc
cochleari perforato extrahatut
Sarza,& tundaturin marmoreo mortario, moX eidem aque reimponatvr ; addendo carnis
vi- tuli macrz libras tres, feminum
coriandrorum preparatorum, unc.1, aut
eorum loco aut ligni (an&i rafi
tantundem, aut fantalorum citringos rum
minntim inciforum drach.1j. pro varià ho. ft
minum, et przdominantium humorum condis : [| tione, et benc operto vafe ; iterum
lentoigne»] fimul ebulliant, donec
remaneant libre quin--[" que.&
in fine aromatizentur cum drach.iij.cin--[
pamomi electi mox fiat colatura cum fort! ex ar preffione, et refervetur in vafe vitreo,
vel vi- Jud del cov - treato ; de qnà
furimo mané per quatuor horassf i emat -
apre cibum capiat zegerunc, vj. aut vij. vefpernp autem iiij.aut y. unciasante cenam, vcl per
tre:gqi horasanté ; aut fi tempus non
intercedat come modum, immediaté
antealios cibos: quód fij * inaftate
verfemur ; autfebris hectica adjunctaqlut
PeaL' ve tulelt fit, fimulcum Sorzà parilià indere foleo hordesphar 5 excorticati uncias Mij. atque in
affumptione-Jpt uri huis decocti per
quàm plurimos dies perfeve 3 geb m AN
randum eft, jitaut ad Centefimum quandoqu qd j ote
dicm perveniam. 11j.
NNonomittendus hoc loco ufus altering
decoch ANIMADFERS. LIB. FH.) e
inecocti alexipharmaci fa icilé parabilis; pro pau (p fperónth Iperibusoptimi, €x fa pon: arià, herbà
vulgari; et safor A omnibus notà,
parandi ; quin 1n conturaciffi-- ARN mo
morbo áliquando u fus fum eo, felici fuccef-
lusfed guftui inoratum eft; et propterceà páupe- - libus refervatum . Accipiantur fapona js
viri- afe Iis M. 1j. infundantur per
noctem in lib. viij aqui mox excoquanttur
ad coctura fàpc nada Lteinde librauna
cum dimidià aquæ cum herbá jam coctà
excoletur cum expre flione, Q )uz Ire-
lervétur prof potione matutinàad fud resp roli- (ad Iriendos, fum endo uncias viJ.aut viij. quod
ve- Iro fuperet rotulvereRor cum
paffulis;autfa iccha- ko, pro potü cum
cibis; æftate; et bilicfisratu-
IKis;addi poterit aut fonchi,aut cymbalarie Mj. "Valet et pro tulieribus ad menftrua
alba ab- » hé frt. i fiimenda, cum
M.s.cvmbalariz; et addiro tan- ma es nl
iirundem filipendulz.Inventum ef efttz apate;Em- aliscmatlo. ipirici Hifpani. Egoautem fzj pé ac fe pius
illo Rifus fum. Doct &iffimu s
Rudius meus, /jb. $.de2 aptorbis
occultis, 4?" venenatis, cap.18. de Sapon:
Aria, et ejus decocto facit mentionem; fed vereor féum numquam ufum efTe decocto ilo;ctm
pu- ipeillos vj. decoqu átfaponariz
inTib.xvj.aqui ad Mdirnidias ; cüm aquz
ad fapcnaria m nimia fit pqtianutas : et
quod majoris eft momenti, tenel- Aa
herba virens non 1nd ciget tam lone elixatio-
"line, jienéz enim et acrez partes c Iuninc evanecent; et in nihil
iab ibunt; in quibvs temáhn
"héértum eft, vim falteni fudoriferam «ffe pofiZitan V [ , Eoi4 LED. SEPT.ALII. MEDIOL. Avv . Eorum,quz ex argento vivo
parantur, A JO» medicamentorum due cüm
fint formule; qui- tod bus vim. malz
hujus quahtatis ; qua 1n mo rbo ef
gnenta ai Gallico reperitur x cw ref. lemus, aut é cor- 4C in ufum pore pellere humores malaillà
qualitate infe- duci pof- ctos: quorum
altera in formam fuffumigiorum, 5 Boa.
/5* » € altera inunctionum applic ari folet. Duos hos dii quando. remediorum m: xlos ad evincendum
hunc mor- 1; bum experientia
Haygptossesubis magniquie jut dem viri,tumexantiquioribus,
tum ex recens |t: Dbys,numquamin ufum
Pete dos cenfent, jb multas noxas, quas
ex argento v ivo in cot--[ lo poribus
humanis excitari à fcriptc ribus tradi-
tum eft; et (epe experientia oftendit. Alii nullài factà diftinctione, ftatim ad fuffitus. hos
ex cinnabari,autad uncliones ex
hvdrareyro de-4 i ícendunt, ut faciunt
Empirici i. Alii hacin re» fu fpenío q
idem pede eunt.p riüs reo11s alexi- | ph:
armacis evincere l:em illam tentantes, fed
ubi tamquam hydra denvó novum caput emit«| | ] | tereluea : Veneream vid erint, experiri
altert irum exiis medicamentis
permittunt, fed uni]; dr ver(nm neeotium
Empiricis, et ba rbitonfcril;... "m
bus committunt; ne fcrm:-]oim quidemaut fuf:
é REC t unguenti, qn Auf ri fint; przcognofcer y. es,;quinimo, f fi ab es fc mulam aliquam
expo fcas, obmutefcunt ; là timé id
Empiricos fcire. re [popdentes . Ego
hacin re ita cenfeo, et ita]; apes pax
procedo : fiin p! inci pi: » fuerit. morbus, atu, eA uolo caamfi progreffu aia iüs radices
egerit, nom. v7. dum tamen ufus fit re elis
remediis « alexi phar macls s» I F- ^ nd wd L gue pe
c «f ANIAt ADVERS. LIB. FII.
305 nacis, omiffis illis ; quid cum veris alexiphar- Inacls! preftare pæem experior, et quandoque rei »etità üac curan Idiratione, omni ingenio
tali id em tento 5 ftc emm et ma ilam
illam qual Itaté evincere foleo,&
laneuetr entib us particulis robur addo
: $in vcro fic vis morbi evinci nequit fed
hic nos 'eludit ; Su€ fi cb sis iitatem rei fami- liaris illa 1n ufum duci non poftuünt; tutó;«
: ia- cricer ad hiec remedia tranféundum
cenfeo ; et ecofzpce illa remedia in
ufum duco. 217. Sed cavendum, ne totum
id neectium E In pil r1Cl1S I; LE OH CH
NN comn Ittàn t5'€ inc m inibus eodem
calopodio titentes, autin. multus
imperfectum relin quunt neeotium, aut
pracipites &grotantes aguntin gr: iffima pe- ricula,aut edam In mortem. 218. Maxi n Crro! reverfantur ii, qui poft omnia adhibita r reoia remedia, cüm
zerotan- tcs jam imbecillos videant, M
rtüute vitali, et quafi universa carne
confumptà ; nec aliam. » Jue e ml m RE e den os! mri Rr mme ee n A fm Intinélto
fumigia 04b Eta fries,
fsd à fert tis Medi- cis ad mi^
niftvari debent ; nuncio fun ereí lef] Cc)n, qua min ren led iis x
hydrarey- l "n 7 rA end Ern Cimes 7
: nes ex ar to paratis ; 1 lla quidem ncedut
-. ed debilia, aut quantitate arcenti
vV1IVj, aut numero aut inunctionum, aut
foftituum;& fp 'cnumeró fti- en
olant. Ai t cnim omnino duo hec remedia
xcludenda funt, avt omnino valentia conce- fent, et quantitate hvdrargyri, et numero inunctionum, aut fuffituum; alioqui
attenuata, et loco motà quidem materi,
dolores, et fym- ptomata imminuta
viderentur, fcd cóm ea non expellatur ;
alium locum quarens, fxpe nobi- | V
liorem qento vi- vo a no
admint- firanda » att vali-
de, trm quantis te COZfi--
nua, 11473 PilCrtL A Á liorem
partem impetit, potiffimum caput, EN
hydrargyro, et cinnabari na ura fua ten dente $ " et fecum attenuatas materias
ducente;quinimo . cümargentum vivum
veneficam habeat qualitatem, eoà corpore non evacuato, egrotantes duplici morbo laborant, eo, qui fità
qualitate» luis Venerez, et aliis
fymptomatibus ; quz ab hydrargyro fiunt.
Quoetiam fit ; ut tales feré numquam
curentüur, fed infeliciffimam vitam
ducant, et tandem tabefcentes marcefcant. Inundlio 4119. Ex duabus formulis femper et tutio- uádopra rem, et quæ meliüs morbum exftirpat,
eam eí- ferenda, fe cenfeo, quz cum
inunctione perficitur : ino ch 142-
emaciatis enim, fi ccis naturis, 1n ftricto pecto" $2 31 do f4ff^- xe,3nanh lofis magis convenit, et
in omnibus ængi^- (ymptomatibus magis eft proficua. In
caden- tibus tamen capillis; 3n
cruftofis, externis ulce- ribus,
praferre foleo fuffumigia. Suffumi -
2,20. Abfurdum ett fuffumigiis ilis uti ina
gia levia € ncendo hoc morbo; quz levia à doctiffimis Fallopii, Fallopio, Mercato, et ahis dicuntur,
in quibus e^ M*r'à noninereditur
cinnabaris;exficcant enim exter zin m?'-
nas partes laborantessat «im morbi interni not
£o FOR cxfüneuunt, neque materiam,in quà virulentia p «nutu Ma refidet, expellunt. " 221. Bafis fit cinnabaris ; addita.
portione» 9j t es Antimoenil Wa March
efitæ:ut prouno æorotan- £5 "7.
tecinnabaris fint uncie tres, Antimonii,& Mar- fo mds chefite ana drachme tres, auripigmenu
drach. s. aromatum ad penetrationem additorum, pro yarià cerporum condiücne variantium
quanti- tas v1 1 i
ck T. ANIM-ADVERS 1 VAR E: 9
d pon. dus caterotri LIB.FVIL.
3 Q
im: &[ ichmis fex, v« aiuti di eria f per prunas, corpus in
hypo- auftoinclufum univerün piat, C
anna ac. ans, sif firanhelo- liquando
I| tas it ferea lius frnou] lie dr:
es n exci Infpirans, et exípi um tamen erit, Íus, aut aneuft nem illiu sfun 45 1222 j$ Antequam ta IOTacl5s,42 "hs 31 17/3 lexcipere B
j 'mie1a caleícat aliquandiu zeer,& p O off i
fudores Pic 'O- fluant, non ^ Inutile
», 224. Inunctiones ex hydrarevro: apud
me»funt multó frequentior prouna
curatione,iteratis inun t131 It1Ont Inus
tri | quatuor unciis hydrarey i | s falis
lgO mw 1n nw Ct1OI 1
35:10. ingeicc l GG CD s
nlus tan naxti rta
già, qu : "ut: laceo,&
fi n «X pulv cribus: Ini, et Gmilibu S alique m Case Marciatiaddü nt; lIidere,; ut aliquibus vifun b feriat.
215. In fricidiffimis natur rià
przfente,quz vix attenvar b p CO moveri,
1 Ibi! eft preftantiu aqua | | |
aniforum, vel ale,portionem
un- placet crocum ad-, quod
caputinimis et crafsa mate- ffit; aut de Io- $, quàm fi portio portiuncula olei Gq
I 1i 226. Vlratftabit "multàan T Í v 3
catis dofibus, ul OICp
OrtiOoibusad fpu bus, vel ber ona ., Ex-
| hominis ; commu- 10 Cum. elIn n du plicata dofi e(fe debet, addi- pica,lili ni-
"15,1: iaftic em S, benzoi-
07 ulverisil- [uncia unà 1n, Suffü "mi- giA ét ove
* aliquado eXCipiei da.
Saffuni- g*4 aAZIÍE- quam fiat
calor 1g corpore ex [4 71 A A5 LI H»dárar /
s,1n quarum una dofi 7 JU
prouno bomine Cr AW,
v Lr OHAT Hs, £^ VL et 4d a-
&a propor 10. CYOCH 1
26i le Ch tones
ex bydrar gyro 7:0 i egrediatur.
A2uA vis !&, yel 0» lea calida
Cbynica, quado "Án £uentis
addenda. Vrguente so6 LPD. SEPT ALII A4EDIOL. Iruncédt
e»ultam bus multam illius copiam] Pharmacopola ali- quie. quis diligens, fidelis fi fimul prz
paret;ut axun- FXericah gla vett iftate
cc nt tacta attenuationem adjuva- i urs
poffit: at quoties dofis neceffaria eft extrahen "æg da, fpatulà, qua: deoríum erant
partes fuprà ponantur,,& piftilli L
ongàin gyrum com mmotio- ne optime de
novo commifceantur ; gravitate.» enim
fuà hydrargyrum femper vafis continen-
tisinfimas partes petit.
Sudorife- | 217- Peccant communitet practicantes ; 'e ya alexi- graviffimi quoqu e fcr ipto res,
quia ante hanc in- pharma- unctionem pr
ropinant (iid lorificum aliquod me-
cawuipra- dicamentum a alexipharmacum, fic cenfentes affuméda igmminui fymptomata illa fà eviffima,
quz poft (ded inundionem illaminfequi f
epenumero folent ; ÉH006* cym illud potius fequatur, ut fübtili per f
füdo- rem parte cductà, contumacicte
crafsa reddita, non moveatur loco; neque
ados feratur; vest hydrargyrumn maximáà
egrotantium pernicie corpore non ex
lens, perpetuam illislafferat mo-
"dex leftiam «i infu perabilia; fere fymptomata . abarmaca 238. Preftabitigitur decoctis iis
alexiphar- soft inus. WX icis utl
poftquàm inunctioneevacuata fue- eg
iones c-. Tit materia, five per fputum, five pe r feceffum puma.
Áiveper lotium, ut vifcera à malà illà qualita tei fi« anaréuen erii liberentur. 229. À pedibus aícendendo ad os facrum | modas .
Qupui nd fiatinunctio, &à carpo vc er(us fcapulas, et per inungex. Ípinam ad collum ufque : nu wt m caput in- | dum. X ungatur,quod peífime aliqui
iaciunt. Junto i30. lnunganturadfputi prafilicdns ec] tunc
c PER. M * 4 T»
- treno t TR i oii BER e e e cati nto tem ANIMADVERS. LIB. VII.
3069 quando cunc per diemintermtttatur ; et fi lenté
moveri Edi fputum viderimus;iterum unà ;
aut alterà inun- 77 P 4" ctione
inCitetur ny s Sjuto zs 231. Si nimis
affatim, et cum impetu przci- jj; 4f...
pirari materiam ad os viderimus, periculüm- siad di que fübeffe inflammationis, aut füffocationis
; effiwentes deturbanda erit; et ad
inferna períeceffum me- c» periei
dicamento aliquo erit ducenda ; id tamen raró /» inflam faciendum erit, et non nifi magnà urgente ne-
74/0975» ceffitate . C fuffow €8110/$75
grafente FI MAI. XX quid
pra f'andum FOR V:M;
Quz in hocopere conamnentur. .
P ?" " ! cerum im exyrbodinis
mon ftt acerrimum, aut € * 3 2 Ad :
C vino potenti[[nmo. lib.6. hi "Aceti loco in oxyrbodimis [uccus
citri aut limonum non iudendus. libro 6.
2! "etum pro oxymelite non [it
acerrmmm nec ex vino
potentif[mo-.-lib.z. $7 JAceti folius
ufus im. [puto
fanguinis [u[pectus . libro "A cidorum uus 12 acutus. febribus utilis
; fed zodtvandus, C quamodo. lib. 2. 37
ge cerkoodte 2ur-2iddat : Mert PNE
A cribus imus 1 dy Hi EY1A, quid fta um prejram- dum. ' b a7 L Í O $ 1eutic in febribus tenui ens M orant -Acutis 1n | eUriDus. TOHWIMS CibAHQO Hm quam
17,5 alitis acutis. . [7 LI T . e /1 * : * ' L ecu Acute l'ebricitantes [Hragulis nom numis
cooperien- a /.. Ps ZI / AA e7 14 277 lk / c5 ULL 23 ! DAL Ü
CH inflamma- Md ^" n^ ] ^ Y ; -J
- 1207€ (9 f €t /€» fi Í»ecta. I1b..6. I j 3
n * . cs r* . ] * Adfieinrentia
1n [puto [anguimis quando conve- niunt,
quando non. lib.6. 152 Jer frigidus
acuce febricitantibus quando conce-
dendus. lib.2.. 63 | e Ld nc flate quomodo ip acutis plus cibi
concedendum lib.2. IQ etu
IWNSDMESVY "etii fententia
vefutata, in [anguinis miffione 121;
enim [uppreffione. lib. I3I Albi
pr ofi Yit vera curandi vatio que . lib.7. 149
«Albo m fluvio laborantes arena fc peli re malim.» ;b. 145
4lboi 1H Pluoye adftr ingentia omnino fugienda . [ib; 07. IfI uA b: mp: ofiuwvium curatum A Galenotaz uxo
€ Boetbi 377,eularis fuit cafus ;
(9" curatio TAYO "uitanda.
lb.7. I46 "Album profs !"PIUm
apis us curandum aiver[Aa Ya- Vincula T.
radit ;G al £7 / 7 LE l1 jf I "muuaane ovt 7 Voopidibd roa ral 10 5 eo
Catttimes. lb. 9$ " LLexipbarmacts vmpuro corpore non utendum.
li- rà 0 f. 7 "lots dofts varia, fi p*o pureante
[umatur, cft f pro atjeBori. ij I9 "L: oes duplex faculta: 3 fastahorbikana
C abfler- feria etrenans eresa les I9 l|
Jdtoes Jonmumenm relettantibus mala. lib.c. 156 loes ulis dr riti libi. I9
ah locs ulus in fobribu: quotidtantt » C longis opti- - Ls
27145, C7" quama oeauteuaum . lLb.«. I9 MUI Tx YU T Lb! 2 T] ! JA vi profiuvto laborantibus frigida potus
fape con- Yeztt. lib. 7. Q7 Gp),
«neotna laberantibus, C b petis "fi (922241 1022€, copiofrus fanmuis evacuart pote[ff, quam in
alüs 17 fi. Uy pmeaionbuss € cur. 7 b.4
7 Ant ; ' Aneoiza laboranti bus g (4l Feci PN [7 iz laborantibus repe! 'cida [c£ 10 Y€Z hi . h b.
Ó. Æ Cant. v Caut. 174
"nein laborantibus pra[lat potiones dare; quam medicamenta [olida. lib.6. I1j "Angiofts [2cculi ex di[curientibus mali
busenutia pra[tave. ib.G. 116 Animi deliquio [uperveniente in principio ex
af- fluxu bumorum acrium ad os
veutriculiin prin- cipio «cce [[7onum
eft autriendum; ff ex refolutt ne
[pirituum aliquanto ante . lib.2.. 36 Antbrace, et bubose
apparente;pro varietate pav tis à
diver[is venis [anguis mittendu rlib.$. 37
aut braces furimenlo, C bubone im pe fle apparcu- te; fécanda vena, et quando. tib. 5. 36
A:uimenium in apoplexia fugiendum. lib. 6. 07 dntimonium in pefle veyiciendum . lib. s.
$o Apborifmus quinis prima Sect. quomodo
intelli- SCIAMUS. LIU 2. 23 "M:popletlicis aimiimmonitm mon dandum.
lib.6....67 JdApople£licis cauteriam in
comnailjura coronali 1n- utile. "Apople£fieis ely[levzum quantitas
varia. lib.6. 65 Ci pU corpus. l'ib.6. "Apoplett:cis cucurbitula fiucipiti
appo[ita utilis. lt4, POETA. rho zi) 2 rA» ddr nesrlisitte HG "p 'DLOCUTCLS COHCHII1CHAMUIP »
perjricanaum eft | $8 i Lj
bát bro] "A popletitets 12 ficanda vena vuluus.
fiat apaplum. "Apopleiticis 1a ctirandis
votaitus fugiendus. lib.6 Caut. "Ayopletticis ligatura quales
adhibenda.lib.6. ..6. "d popletlicis quaudo » C quomodo
cucurbitula apiye: plicauda plicanda. lib.6 6i Jd pc aple&icis repetizà fc "euis
mittendus. lib. 6. $7 jetpoplectteis, ft
[2 net: ei[[oconveniat.flaiin
admitni[handa.lib.6. $6 dpoplecztcis
p ezaf ontis qua do [« cazaa.l:b.6.60
ledpoplechicus veficantia caput rafoappoft tau ite. Jdpoplexia i curanda, valida meaicemen a
coti- veutunt. lib.6. 69 Idpoplexia 1n curandas[ternutatorta quanao
ednui- mftranda. lib.6. 69 IVdpoplex:a 12 curanda » ab oleis minus
waltáts 1n- choandum. lib.6. 70 Mdqua bordet 12 acutzs febribus optimus eft.
potus - lib.2 p : 49 vAqua bordei non comventt 12 ommbus suarbis
.h- bs 0 2.4 A9 ^ kdgua bor "dei quo 077 odo paranda.
lib. 3 49 liqua op ciflerninas aut
fomiana, jop! mius potus 17 ACHI JA lib.
p Á 49 T L/
IL4daua vita, € olea calida Cbymica arte parat a» quando cum utilitate wiguentis ex
bydrara)ro |. adauntur.lb.7. 22$ Mr: n&murtna, Yel fluviali, laborantes
war em 0- flivio zudas [zb Sole fepelire
malum effe » et ex Ww
^ NY X a& o de
ad Galezo repugnans. Iib; 7. L4 | wr fenico p braparate placenia pro favendo
corde, im Fe eflc le. lib. s. (9 duetrrevia qua [ecenda in palpitatrome.
cordis . lib. 6. C. 172 «ilti 20ft Zia 1 "77 palp itatione C07
diquando C0AH- Y€AL. ILXLNGUAVEX
i 9. id
] b yenit. lib.6. fyI JA[cite laborantibus poft bydvagoga valida,
ven- triculus roborandus. lb.7. 49 "Afcite laborantibus bydragoga [aptus
vepetit as, noxia.lib.7.. $5 ftbmati ai tenuantia, OQ" impense
calida, mala». lib.6. I2X "Af omat: obnoxii gargarifpata f
l'neiant.lib.6.110 At omaticis diuretica
mala.lib.6. 124 zifhoma icis, fomentis calidis gon fovendum
pe- eD&us. lib.6. 146 VAflbrnaticis c Hi veteris jus naxium.lib.6..
137 "A: flbmatiecis sa pa rox [mo medicamenti
m purgansi mon propimaud um. lib.6.
I40 Af bmaticts iu paroxy[noo nibil
violentum f acien--| ies lib.6. IA4I![ Jl (omaticorum im parox "ox ymo ue
clyfleribus uten- dun. lib. I42 A
flbmaticis in par oxyfmno nom perfricandum pe-4
Cus. lb.6. L4 55] Lh mat icis
medicamenta purgantia que opaodo 12.4] a
funr ducen da. Irb.5 T E A:
batis quomodo, C' quando ladorifera con-4,
: 1 J d YeRIuut. lib.6 :
I3 "A febmatteis ficcamtta
fugienda. lib.6. 133 Aftbmaticis fit 745
[ "pin u$,72alus.lib.6. I4
flbznatici [udorif iferisnon utantur fine dulcibus lib.6. 1j:
"All omatteis vornitus pericn dois. lib.6. I 3f A fl bmaticis vonzius 1a paroxy[mo
fugiendus. lbi] ^ Cut Hl. I4 A ft hma2
1 L € TD
h ww : d WT "* A o ral ep c
0, S BUE oo caliber à Mie E£MA COD. E 3 I bmatteis varta remnedia mutaada,ct mes lib.6. I 47
l'rzennantta tz ^! 1€ comventunt ad deob[lruendas | vias uriza. lib.7 9) M'rtenuantia 12 princ: 'pio quottdzanarum
non ftnt J| valeztey catefacinita.
ib.s. 20 I vc | L0 0PIZILIAO cibum
aliquando d ætervrima | aueaue
concederfa. lib.1. 2:6 Iugoentum
acce[[mongs: gmimus incommodeum ciba- quam fLaiusurmente nece[fiiate. lib.a.. 3 TE €a5 722207€ £A, Gc L0 ques quribus 27C0
quer €» ab- " IU furdum. lib. $. (9 Inribus vera inflammatione laboi antibus
vepelle " ] 114 ULX C07 D€ZILHM v
b b.6. IO3 luribus applicanda vemedia
menit alla fricida. ; | Ib.6. IO NES s al us 7 ]1 urium dolor: | "materia frigida,
remedia ia- fait vr ftii: IO$ moz ufus per os aamaittendus. lib.«. $6 lurz per os alJuzmendi varii modi. lib.g.
$6 )
b bendum [. p €, fed paulatim 1n
et fuantibus fel mi bes, mon affattm, C
confertim. lib.a. 6o i |
] p^ a P ], | febribus, ad offen dendum pureand a» c»
pe E 77220* €772, | "vfhcit
1 7 lotio 4ac []e P [/A dir 2Z alba H m
p»€?2,C7?' &Qud. pa. lib.,- G andis
iedicamæntis alumptts s ' vus [omms po-
A JJ Ec[t concedis. Itb. s. IO i T2947
ux 0i All [^ profiu y:o l. "bora "ntis bi "[Toria Xplicata, Q'
rao reddita curationis llus . lib.7.
Cant. 146 Bubone F.y NS IMESXI Zubone contumaci exiftente ; aliquando
purgattomeM y utendum. lib.7.
19551: Bubone Gallico apparente, ques
"podus CHYATOHTE enl Bubone non
exeutzte, non multa ingerenda neque dd
quibu[vis ve[cendum» contra E mpiricos. lb. 7-4 Caut. 196;
C Calculo ureteres occupante,diuretica
mala. lib. 77 Cat. 122d Caragna, T acabamacha, Galbanum, 1n forma
cep vati applicata, in prafocatis ex
femine » nul aid lb.7. 1640) Cardialeia laborantibus quando yonmitoria;et
quad do dete&loria conveniunt.
I1b.7. 2i Cardialgia laborantibus
dejettoria [int 1t forma); boli. Lib.7.
121] Carie Gallica apparente, qua
cautione proceden, dum in curatione.
ltb.7. 19)| Carnofts.quam pinguibus;plus
[anguis detvaben.. dug. lib.a. I Cel[ia ia colicts ex taflammatrone utilis
.lib.7. 84. Ca:alepfi laborantibus
calida P fteca fugiendax),.. lib.6 - 4A Catalepft laborantes aceto intus * foris
iutevam cendi. lib.6. " Cataratla oculi in vemovenda, cavendum ne
tu[/h. ad[it. hb.6. Id Catavalla oculi antequam deponatur » quid.
cavet dum. lib.6. 1d Gatarrbo ad thoracem, C pulmones srruente cam gari[mii|
. gari iri periculofi.Inb. 6.
108 Wetarrbt non fi lends narcotzets,
nifi magna trgeu da E te. l1b.6. 1124 Vufts rui hissoufüo t bu; quis ordo t2 illis
evsa^ C7 er vendus. iib * 2» j: liaufone laboranti purgato [ers exbibitio
poft, op ma.lib.5. II iutione s qui multas babere voluerit circa
Jangti- nis 7H, fionem T quibus petere
dichos, 2€ acta ab aliis &gere vta
lcaptr. lib.a. v os uidi Mm 1n futu: a
coronal ; cata D0,T€ cien (9 52.0. 9^
Un REMEC - repe aso wt "P |
YAiclti17 GCCOCIO p«uranao COPMZZHPEAS error
4 ]fec do tinens "mt Ps , 1
7L cac HT027 LÍD«. /« 2JlIO j "Aalt) OC ) Ibole: Í 0Yantes qaiuaniao pet tpe? 2 € aq 540 ! t? / /Lat f "p - Le. [D.7 B 2 M, AI DAI20H€C 17 HA, AH ALÍ€Ya CT! Leandauma
&OoY0oÍtjs Ld E, 4 d
I3 DU AUECY 1a? 3 4€ C1005 " £barare Yiæant. lib. 2.Canut. 27
v Y^, ri 4 )4 ;
RETOURS KL onspsa osse v T Apb: 17 «Ctt
0KHE OQUAHGOO 0] eT€HAMS ; (d quanao ]
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" per áuas bores ABC HU. *, ; da " E "P ! "n, ! pons pauio ætertoi,24000 [MAYIOY » COZC
CaoHnattse OT Q NOUTT CN Sete PL E b 2. À pl CI.245.010H/0« C etit V2 490977 »
LE Un, 4 7 Y J H Wrbu: querido o erre æUet 1» y? "etpio
acce) Duy. ub dib.». jj ' J 3 £e ÉL.
" d nutaseuutanda YAUDHC lexus, € YoUOTLLS j r
Ma, - Uu Col ! À, e 6 f bun 0p €! 15À2 DY1À ctt 10 2 (2 "Zl
4994€510 act efi:g- ] d «hl ?7 j "., "J^ /2 i si j D. : 2
2 y : v ubtes Kroxexes ERI "T IM UTE 7 0j et / c yr&[rat perju J/4€82
[ftaius » € -- Rt
Io : juftante acce[fran e CP
auando. lib.2. 21 Ci eres abflergentes
in dyfeuteria quandoinden- ] aài.lb. 7*
98 cif cerium abflergentium in fine
dy[enteria abufus. lib (7. 99 Cly[leres l lande inWiciendi, turgentibus
flatuinte- fini Yo. 2» 24. Clyfleves communes cum. decottione folita
zzmvete- Válaty 707 let "Idadi ib.
4j. 26 Cl»(lerium commumum frequentes
abu[us.lib. 3.277 Cif eres etam refr:,
COT AHICS inflammat 25 Y€Hids, fint pauce quantitatis. lib.7. 11j Chyfleres ia effetiibus vepum quantitatis
parva. li- bro 2 3* AR Clyfleri in indendo ante fcBlionem venaqua.
obfer- vanda.lib.3. 3l |j Clyflerem aute indendum in alvo dura,
validum..| muedicamentum
exbibendum.lib.. $651 Clyfleres in
pragnantibus grandtori | fetu,quanti-
tate non excedant .Atb.3. 2I!
Cl feres NUM €: fícce antes in dyfentericis rejiciemi di Mib.7. 1044 Clyfieves prapinguibus uonindantur multum
calem ) tes. lib. 3. 2.33. Clysieves pragnantibus non frequenter
3ndantur /V lib. T 2 CQ, C! jfrere pro mulieribus quantitate majores
effe A. ) iig ID, 2t Clyfleribus puerorum oleumnon indendum.lib.
388 Chysleves violenter non injiciendi,
snteffinis facd, oM MUR: PL 2'8 Cly[ler
FHAXNTSU Vvfter ut
retineaturquid pre[landum. lib.7.. og
piscis a flatu olea data ab aito etiam ut ilia.lib.7 . Cant. 76
plicis caltda valde atiu, uoxta.lib.7. 68 plicrs cly[Teres ab initio cum vino, vel [apa
noxii. lib.7. 67 pl;cis clr[leres ne zndantur, repleto
ventriculo.li- br ME 69 Wicis ex flatua valenter di[cutie €t4 nox 7
J[ib.7 . 60 Up/zers ex flatu laborantes
ante u[um cucurbitula puregands. lib.7 i
SI E WA 3 TIPIRAS in dolori ibus aqua frigida quandoque
utilis ; e Ce quama NH, jJ. 72 92 APIZCLS L7 doi lO0Y 10145 .£ i flammat
1071€» "mca 1 A122 CH - : T j L
Q Jzo purean t1, let baie.lib.7 92, LJ.
] 35 »- p/ E 'oyt lecta YYCeAA 277 talo.
]14 "dado confert i "1 "3
] ! 4 p - " E ss i - Izcis 172
aotoribus non Legientibu. Jolissaut ft Ji 'erco- FAVILIS., «H 'Aræ agentibus med pem C7 1$,
Aat ILI zrautegdum Jed pere pur
gaumtiuns » (cur. I /b.7. 7 rcr s 172 121110 vale nterdi[cutietia mala.
lib.7.66 qWNzczs [T upc facientia
potilTipouma con vcaiunt jfi fimt Wa
calida mat eria.li ib.7, 70 Meus SEupef
acientia concedendas viribus confi flem
Sirebus. lib.7. 71 y2C1$ uftes ok
orum ab t1a:t:0,202 ali 4 grecede c2
CHAT » Muiuttlis.lb.7. 73 ' | boatna
compen C" ion5 ^P MV 0o 4 O0^^ mn
zs 742 na44 1 f444^ / FAAULO[L S !
092€/2: 4 €X olets 208 Iutt 7 "4 bibeg A4 vLlbro IV NS DEM PA. Ais 3$] (
dii io male primis diebus oleum cl« onamcli- ? ex aceto applicati m. lib.6. 37! C inc oCta médicari,cruda ncn movere, c'e
Fin pocva 1i fent €fii 1a expHeatz ; loc
Hi "ppocratiss! i (C alen: con:
roverfi coz ciltati-lib. 3. 48i
"on [udi ar iones meæ debent fieri feciufrs arbi-- tris (P eur-liba. I2 Cos[ mpsaqui a porius ex carme vi
tulina.lib.2. 4$] Con mp quom odo
parcatur«F. | Convt jr partes omnes ca. TUE fo? enda.
lib.6. 92, f«do ove [uper Y€81€5H:€ s quid á (enam i (un Q.
;41 4 ib. o: Cordis in palpt'« attore zum ob fers 29
41015 is wbunaa 7 QU x1 z
ram mitiendus fi [anguis » qua caurto adf biben da. i;b. 6. 16 Code laboramte ex craffis bumoribus,
diuretica.A c fedorifera non cor
vertunt. cfi 6. 177] Coáe laborante ob
fer ofó buroves, diuretica » C
[udov:fera optima. Iib. 6. 17
Cordis] palpitattoni quando, G1" quo cafn fangu "m 'cndus.lib.6. IC E vi ft d fia fente quomodo proct ede
dum.lb.s. fi in iamper[ecía ; codem die
sibil à AMedicomml, E: €/ don bs 25 Crift immiutntes quando à capite eff
repellendum l:b.6. ] Critici: diebus quando sædicamentum purgans
eA Crocum inuutliones ex bydrargyro
non ingred. 2 Crura
Hi PY. liD. 7. IA DX Ey Crura. [unt perfricanda, ' abluenda per tres
dies eunte [ethionem tali.lb.7 137 Cucurbitule zn fpa[mo q ducimio
applicanda.lib.6.8e Cucurbitule12 dor[o,
"E 107 cordi5.quando
comvemant.lib.6. 173 Cucurbitule
in palpitatione cordis quando applican-
da. Cucurbitula in pefle dorío
quando applicanda, is quando
ag0n.lib.$. Cucurbitule im. prafocatis ex
enenfibus famreffis ventri
applieite,mala. lib.7. 163 Cucerbitule in prafocatis nbi
affigenda.lib.7. 162 Cucurbitula magna
in colicis applicanda cautio. Libro 7 y 78
Cucurbinul 4ARAQUHA ventri a pi heit, fi ff f CHZ paunco z2ene.lib.7. 167 Cucurbitulamagna [it ex perforatis.lib.7. .
168 Cucurbitula magna ventri appoftta
diu 20 bareat . Cucurbitula noa diutius afhxa parti
permittatur . Iib... 26 Cucurbitula [carificata ia pefle aliquando
vicarie fechionis vena.libro 5. 29 Cucurbitula [Gavificata in [uris in pe[fle
frequenter in ufus venire [olent.lib.s.
40 Cucurbitule, fi cum [carificationes
cum pauco 1gue fent afficenda.lib.4.
2 Cucurbitulis [ablatis 1a [pafmzo,
fabietla paries fo vezda.lib.6. oI D
Debiles dum purgautur.aon ex[uraant.
X A -- i Dec
CÜINDEM. Decotta folventia in morbo
Gallico rarà in ufum yeniant. lib.7.
20j Decrepiti parum, C fepe cibandi; €
cur.lib.a. 7 Diapboretica 1n flatibus
cordis aur 1n ufum. nca ducenda, aut
sllis admi[cenda fabad fl ringentia.
lib.6. | 179 Diarrbea
laborantibus pinguia [n[pecta. lb.7. 8$
Diarrbea laborantibus quando ab[lergentium ufus conventt.ltb.7. Diureticain a[tbzaate mala.lib.6. 134 Dinretica ia calculo venum in uretevibus
mala. libro 7. 124 Diuretica in pra[evvatione à calculo; [epe
moxta.». lib.7. 12j Diuretica potulentá won diu in lydropicis in
u[um ducenda, G cur.lib.7. $2 Dolente capite ex intemperte calidasaceti
portio it ox »yrbodrnis frt parva. Dolente capite ex intemperie calida fine
materia, oleum vo[atum 1a oxyrbodinis
fit ex olivis maturis, C cur. lib.6. 9
Doloribus capitis etiam vebementiffimisyimmninen te criftsvepellentia fugtenda.lib.6. Ij Dyfentericis clyfleves abflergentes quando
conventant.)l. i TU Pi Dy[enterici ex
atra bile antequam purætur, fero--| cia
illius bumoris prius attemperanda.lib.7. 92:41;
Dyfentericis in decltmatione ab[lergentia malas. Dyfentericis per fe convenit [zngurmis
»ui[io;fed oll, adjuntla raro convenit. Dyfen- Dy[entericis pinguia in Jict quando
utile, noxium. lib.7. C" quando Dyfentericis quando purgans medicamentum
cosn- vent, C? quando non.lib. 7.
$9 Dy[entevicis quando, * quomodo
Janguis mitten- dur.ltb.7. 96 Dyleutevicit quomodo, cf quando narcoticis
uten- dup.lib.7. IOt
Dyfentericis KR babarbar: ZZ Jufpettus. lsb. 7. 93 Dyfenterici ubi psrcadi,flatim id
pra[ladul.7.91 £z EmplafHicis in ophthalmia quando
utenda.lib. 6. 96 Empyii a na' ura
curari per evacuatiouem mattri& per [eceffumsexemplum.lib.G. I27 Empyiei quando wrendi;aut [ecandi. lib.
€. f:,
Epileptici in paroxy[mo non concutiendi.lib6. 45 Epitepriets ex aura virulentælevata raro
gmitten dies [anguis.lib.G. í3 Epilepticis in paroxy[mo caput non ceoperiendum.». lsb.6. j
Eytlepricis lignum ori nom ind£dum fed quid aliud. lib.6. f1
KEpilepticis pralervaudi quando ex brachio, cf quando ex talo mittendu: Janguis. lib. 6.
$5 Eptlepticis pra[eyvandis valida
purgantta fepe no- xam afferunt.lib.c. |
$4 Epileptiets veficantia capiti de vafo
applicata, optt mum remeditm.lb.. 33
Epilepticts vomitus malus.lib.G. $o
KE pilepricis vom orta fempe y mala.lib.6. $4 Epiphbora i2 curanda tn princrpio
«dftringentibus Aytendum. $5 KÉypiphbora in curanda eyrbinorü rarus
ufus.lib.6.90 Errbina;et flernutatoria
aal laborantibus oculis. lib.6. ! 17 Errbina in letbargo optima »18 emultis tamen
fu- gienda, et 1n quibus .lib.G. 33 Errbina funt pe[[ima in dolore capitis ex-
morbo : Gallico.lib.6. ! I1 Errovescommi[fi ig ten yillu;pravalente indica tione à virtute, funt majores » fi peceetur
minus dando.lib.2. 21 Errores commi[fi in tenui victu in formapari
indi catione virtutis C£ morbi exiflenre
; pares fant s c «qualia inducunt
pericula.Iib. 2- 22 Errores commi [i ia
tenni vitium quan "tates pars
exiflente indicatione virtutis CP morbi, pe]ores unt fi plus quàm par frt concedamus.lio.1.
23 Errores 1 tenui vitlu p valete
mdicatione à sorbo fabtrabed:,
majores»fi peccetur plus dado.l. 2.21 E
yacuandum [anguimis mi[fione, antequam motus
defierit ; fi tempore mit endi [anguimis men[es fluere contigerit »[ed impevfetie lib. a.
II Evaporatorus in calidis,có frecis
naturis, ad [udo- res utendum.lib.7.
207 Ex argento vivo inuntliones parate»?
fuffumigits zon ab Empiricis, fed à
peritis pra fcribi debere; UR
yariari.lib.7. 217 Ex bydrargyro parata
vestediapro morbo Gallico, an im ufum
duci po[fint. C quande.lib.7. ^ 216
Febricitantibus à partu ummquam mittendus [au- 4/721
e guis à f[upevnis.lib.7.
1768 Febribus in continuis evacuatto per
lotium comma- dior, quam per
[udorem.lib.5. à Febribus in
intermittentibus, potiffrmum tertia
pis,fudoris provocatiopraflats qua urina.lib. s.t Febribus longis aloes u[us commodus, C
quomodo e lib. 5. 19 Fiuentibus ad oculos bumoribus ; ab[linendnm
ab ad [lringentibus. lib.6. $8 Fonngraci in lippitudine utendum decocto, mon
fe- mins. lib.6. 97 Fanugracum abluendum antequam in ufum
duca- tur .lib. 6. 9 Fotidanon [int,qua capiti [unt applicada.
lib.G.11 F gium excludentibus quando
utendum, Gi quomo- do. libro 7. 174 Fomentis calidis non diutius utendu et
cur.l.3.39. Fomentis frigidis a&bu
nü dinutenduset cur.l.3.40 Fontanella in
[tura coronali in catarrbo ve]iciente
da.lib.6. 107 Formam vittus
primo virtus o Bendit,[(ecundo [ym P |
Die p'omata ertio flatus d:flantia.
lib.2.. 20 Forma vitlus qua doceant 1n
acutis morbis. Frigida potus [ugiendus
in inflammatione inte jfeinorum. lib.7. 98
Frieid:fima atu e[fe nom debent, qua tboracs apple cantur.ltb.6. 161 Frigida «d fiflendum [anguinis fuxum
optima... | praterquam [i ex tborace
fluat. lib.5. AI Frontis in vena [écanda » blande gula
ad[Iringen- dax brevi tempore .lib.G. X 3 Frue
. E rullus bovarii in acutis
vejiciendi. Galeni con[ilium pro puero
epileptico depravatiam . Galli veteris jus aflbmaticis noxium. lib.
6... 137 Gallico12 7ovbo curando,
quomodo zAutlor plura s quàm alii ober
vare potuerit.lib.7. 186 Gallico iz
»orbo in principio lententilss abflergen-
tia C purgantia admijcenda.lib. 74.194,
Gallico in morbo curando alexipharmaca mi[cen- da.lib. 7. 196 Gallico1n morbo proeve]fo purgandum. lib.7..
194 Gallico in morbo pargantibus validis
agendum; c9 cur.libro 7. 19$ Gallici morbicuratio diver[Aa » inchoante ; pro-
ere[[osmorbo.lib.7. 186
Gallicosmorbo incboante C$ bubone vix exeunte 2, tenuis vitlusnalus.lib.7. 18$ Gallicoyaorbo incboantesetuam ad bubonez
promo- vendumsexercitium validum malum- Gallicus yaorbus inchoans,ftze purgatione
exteris quandoque folis curatur. " ",, Garczavifmata fugiendasis, qui repleto [unt
tbera- ce.Iib.6. 109 Gargar:[matain catarrbo quado co
veniat.l.6.111 Glaucis 12 oculis s(£
latas-venas babentibusy smittoræxterna comveniunt.lib.G. 89 Glutinantia in [anguinis (puto quando utilia, quando noxia. 11.6. IjI Geonorrhbea Gallica non fLatim fupprimeda.
1.7.1 18 Generrbea Gallica in
curanda,quomodo 1t curatio- ne pro- FINE IROBS X se procedendum.lib.7. 19] Gonorrbeamuta:ur 15 f'uxun albu.fi diutius
per- feveret., et mnc quomodo curanda.
libro 7. 130 Gonorrbea quando calef
acientibus curada.l.7,129 Gracilibus
quibus plus [anguinis detrabendum, c
quibus muixus.dib. 4. 11 Cua]aci
decoblum cum dura fit illus fob[litia, qua
nodo minus lonea cotitone zndiget. lib. 7. 213 Guajaci ligni fpecies qua in Cura done morbi
Gallici re]ciende. lb.7. 260 Cua]aci lignum quod in ufum ducttur,non [ft
anno- durm-lib.7. 200 Guajac: [pecie s rejiciatursque eft mimi
acris,et tur b1au decoétu facit, pumquam
clarefcens.1.7.202 Guajaci fcobs neque
craffor, neque im pollinem du&a.lib.7. 203
Gya]aci rune non [int umoris ligzi, neq; parvi, nam [unt in validi.lib.7. 201 H
Flemorrboietbus [sperflue evacuantibus, am omnes occiudenda » an una velinqueuda, fententia
AA4uCloris.lib.7. II2 Heyate evyfipelate
laborantes frigida atla comve-
"nunt .lib.6. 46 Hlepate
evyftpelate laboraa*e, vepellentza [ola con-
veniunt . lb.7. 4j Hlepate f
712:do; calida t? ficcamedicamentæxier
na fufpetta.lib.7. 3$ Hepati:
eibbainflamata, ante ufum diureticorum
alvus lenienda. lib.7. I
FHepatico fiuxuis remedium fineulare.lib.7. 106 Ne
d Hepaf ND E'zx. Wgepatis in
calidaintemperie quando purgandum » ci
quando non. lib.7- 3 Hepatis in calida
integperie manna uo [ufpe£tum - lib.7.
33 Hlepatis in intemperie calida
ref[rigerantiaumpen- se, e adfiringentia
[u[petta- Hepatis in inflammarne in
principio non purgan- dun- Hepatis ia inflammarione repellentibus
attenuan tia etiam in principio mi[cenda . Fiepátis in inflammatione attu
frigidafugienda . (im [bi
Hiepatis inflammatatava purgandum. fed in decli». fis nationes cotla materia. MH
Hepate inflamma:o [ime mate ria,repellentia fola conveniunt
Hlepatis in iuflammatione in declinatione mon puris. | vefolv entibus urendum. Hepatis in ob[lruttione attenuantia cur
dnte pran- «| dium applicanda. Horde: ad aquam proportio pro pti[Jana
paranda .. |l, m Ó dj Hordeum aliud [læ cortice, ve[hrum aliud. lib.
2..11i Caut. ] Hordeum pro ptifana quale
elicendum.lib.a. | 4p Hordeum quomodo
parandum pro pti[Jana confi--|
cienda.lib.z. ATi Hora tres à
cibatione ad principium acce[[wumis nom. | fifficere. lib.a. 344] Elunores effc ducendos quo aatura
vergit.quomodcià gntellimendum.
H»yárarFIXNYXDOcBGI | Ei ydrareyri
prouno bomine 1numgendoque quati-
tas." qu& ad aliasmar edientta proportio J| Jd ydropicisattenuatia no diu in usu
duceda. L 7.5I | Hydropicis Rhabarbarum
inutile.J| Hydropicis bumores [erofl à principio purgari po[- fuat; fed à et levioribus tncboandum. li
ddyeme plus concedendum. [ed variussa[late miuus; fed [apius.Iib.2. H yeme quando minus nutriendum.lib.z:
I1 "i Ilerici inprincipio non purgandis[ed
praparandao eft materia. Iilerici valetioribus medicametis evacuadi. Jélevicis valida non danda medicamenta, [i ex
ix. patis inflammatione.lib.7. 65 In cardialeia ex vituitaatida dejecloria fiat
cum purgantibus. lib. 7 30 Is cardtaleia 1n SrinGSpuA vepellentia
conveniunt, non ad[ ringentia.lib.7.
216 In cardia dia fbduiloria fim blanda. Iu empyemate no tentanda materia
expurgattio per Po fece[furn. I| Jnflammato bepatesrepellentza ante
fecélionem vene non comveniunt. lib.7.
29 IIo palpitatione cordis curanda que
vena f[ecanda,. | libro 6. 176 In palpitatione cordis ex flatu pr
"ovidendum flati- bus ventricult. Jn palpttatione cordis ex flatibus,
exterats calidis non e[[e utendum
pra[cuie adbuc materta. 5 In
plevriticiseexterms no indi[Lintie utedul.G.
Inter Jntev [udandum ton adeà
[ape purgandu.lib.7.208 Inunéiiones ex
argento vrvo aut non [unt 1m u[uino
duccudas aut ft in ufum ducantur valide efJc de- bent. cur-Àib. 7. iid Tnunélio in morbo Gallico magis laudanda. Inuntlio ex argento vivo quando1nte rpolanda. Inuntlio fi fiui praferenda in curatione
morbi Gal lici. Jnwungendi roodus.Lac in d'y[entevicis am
conveniat » quando, C quomodo parandum Lac in renuma wlceribus qua. diflinélione
dandum. Late a[fempto in phibift, dormiendum. Latle muliebri qua di[Hntlione
utendum in ophtbal VU, »mia. Latlis quantitas rn ulceribus venum qu&. Lapidem
in vefica frangentia medicamenta fiétittia.Lapidis in vefica unica curatio,
excifio. Layidum ex vefica extrattorum bifloria due admiranda. Àhu Lapillorum
precioforum [us neq omnino ve ficien-
dus,nec pe[[amsut fitsrecipiendus. Lenientia:n morborum principio majori
ex partem, comvenunt. Bi P Lenientia
quo tempore, qua bora, C quantum ane cibum exbibenda.lib.5. $i Lens quomodo Fitppocrati frigidiffima.lib.g..
ye8 LenILentium decobtuma, C f)rupus
inpe[le, C vartolis vepiobasdum ie Y MLentium qualitates, variazatura.lib.
D? $9 J erbargicis cucurbii ula
applicanda | Lei bar. eicis quando
[ecanaa veuas C£ quando mon 0 Letbargieis vepellentiaparce applicanda. C fiue
2 aa[tvitlione 4: | Lezimeniis hepatis 1a obflru£lione fotus
calidi pra- ?ALTi endi. vs ; cS FS ): Jt, P". ; sc E P - V aLippiiudigi valide ad[Lringentta
contraria. d !' MM azrea s, co Jp ccharo
parata, 14 chole va fn f Cla» !j M
aflicatoria 12 doloribus a calidis, €? temubus
bumoribus quando non concedenda. LM edicamen: ovum altevautium materiam
t [fc mu- tandam.lib.s. I JM edieus commre]Tus medicos amet, C quopzodo
[e 12 €15 gerere debe. l1b.1. I1 aM edicus cum mulierculis, C imperitis de
rebus medici non differat |abyo dM edicus de mercede non paci[catur. Mad edteus C do£irizasC ufu inflrutius
artemexer eat lib.i. 24 IdM edicu: fuaiat mollitiem exteruer.lib.t.
$ uiuM edieus eratis aliquando curare
debet. uM edicus tznan glortasaut nimo
[ui amorc aon ten- Ji tetur-lib.x. 9 dub
edicu: gratos erian1n nece[[itaizbus non defc-
ab -rat.lb.1. 21 AM
cdiI'N*JDS.E Medicus in omnibus
praftans qualis.lib.t. 3 Medicus im
oratione, C farmonibus varius, pro |
jo agrorum varia natura.lib.1. 26
lu Medicus juvenis fab datto M edico
praxim. addi. Lim fcat Medicus morbos [uos excujet. lib.1. 3 | Medicus nom inbumana [evermate
utatur.lib.y.25 li Medicus aon fit
jattabuudus, amt nimium pollici- 4. w(
tator. |l M:edicus gulli [ctt fít additinus s fed nudam
fequa-. Mais rur veritatem.lib.1. 10» M edicus pietatis cul tor.lib.1. Ii
Medicus qualis in veftitu.lib.1. 6;
Medicus qualis in odorati sfe vendis.lib.t1. 7] Medicus quomodo excolendus.lib.1. HET dicus
Jamtatem pra[efe vat.lib.t d v
Medicus [ecreta remedia non profiteatur, [cd alis I, communicet.lib.1. Medicus ftt [Fudiofus munditiei.lib.1. Medicus [ylvasm medicamentorum prompi am
ha beat. lib.1., Avfel vof fol.licet im bilioft : febribus ab
initio 20 CCo vyeniat,in quo'iduanis
opiimu eff vemedin.l.s-YÀy,
AMelancbolicis liquida macis.quam arida vIEAICUA qenta comvemunt.lib.6. «q €Melancholicis quando fineuis spittendus,quani,. fupprimendus, et quado finendus.hb.G. Mellis
ad aqua propor!10 pro paran da sul [a.l.2..]
Memoria deperdira remedta non famper calidas cet Galenus ejus caulum frieidam faciat.l.G.
.| Memoria deperdita curanda varii modi
et contio. rii.) Vit. Lib. 6. 36 jJ Memoria deperdita quomodo à frigiditate;
fi fepe à caufis calidis. lib. 6. 36 ^l] Memoria
curada rara evacuatione op eff.l.6.36
| | Men[es promoventia pev os fumpta debent effe i2 multa quantitate. lib. 7. -I40 | AMenfibus immodicis in iflendis repetita
[angurauts silhofiat endeen die. lib. 7.
141 VAM ez fibus mimodice fluent ibus;
aliquando medica- men! o purqante
utendum . AM ez fibus promovendi, Jecari pote[t vena in. à ante tempus motus cum Galeno, C?
verfus finezo motus. lib. 7. 53 TAM enfibus 12 promovendis mon eff [ecarda
ver a dum diminu: € fant tibi mulier aut t1207€ iui afficiatur. aut animo folea: AT lficei re. . | Wa enfibu:: 15 i pramoy enais pra[lat
repetere [25gu:-1$ 9i Jf oneza. $ p^
n[tbus [uapevfiuisscum v "edicement opurgaute o | uilcenda. aa[tringentia. [; MR I4
"T enfibus [up ci finis remedin "o "lare . 1.7. 145 m7 e libus fupp: ejfcs LU e Pene yox naa. D ies 131 Mercedem oblat am Mediceus prompte, uon qu
gi s]
2 furtim capiat. Irb. I. 2C Map.
onem [aneuinis ex talo pracedere debet exer-
jn CLUMm RA "me partium m fern un. l7 ode[Ha aceintius Medicus
domos dngrediaiur . WM orbis complicatis ton contvrartis, quomodo
pro- cedendum WWACER S j "Morbis complicatis eontrarus quomodo
provi- acndum dendum.lib.5. ær Morbis
extremis; flatim extremms vemediis utendum Morbo cau[& complicatostau[a
primo vationem bæ qu bebomus. Morbis mediocribus blande; cum tempore
occur ; vendunz.lib.5 Morbo jn pracipiti [anguis prius mitti
debet,qu& Vu alvus
[ubducatur.lib.4. 21 jd Morbus cum
1gnoratury attenuandus victus . cur »»1) . quomodo.lib.1. AMofthus in umbiliai cavitate
pr&focatione gignt «vina .
zGXul Mulfa alia crudasalia coéfa.lib.».
$c AMul[a aliapro medicamentosaliapro
potu.lib.2.. 5 cc (m; 7Mulfa alia
meraci[[mmasalia mediocris » alia dilus
ta.lib.z. $« ib
Mul[a ex faccbaro optima quomodo paretur. AM
ufa svekmelicrati d. fEnetro ; e£ conficiendi rad) in IN
H10.lib.2. Narcoricaim capitis dolore ratrone doloris ix aad) am pibenda, fcd aliquando vatione
vieiliarum.l.6- i r Narcotica:n dolore captis pev fe vix per os
concad ai denda.lib.6. Narcotica in
dy[entevia parce adhibenda.. Narcoiicasumaua applicada f uris capiti., Narco'
ica numquam aurvibu: emmittenda.lb.3 v
Narcotica numqua iu puerts in usu ducenda.l.3. Narcoticis varo utendumsQ quando.lib.3. Naufca laborantes quando purgandi, C quado
sid, INatn-li TT 1] li Is Do EY
] AMaufea prefente, vomitu excitato,in co sion veul- tum infiflendum ie d Obffetricibus eut affeventibus.aut
negatitibus gra- viditatem, Medicus non
temere credat. FOb[lerricibus remeré non
credendt.cy afferunt fe- tum e [fe
mortuum se »iexclidenat, ef[c.l.7. 171
ipOlea in colicis data adjuvanda cum ab[lero ibus, vel pureantibus. lib.7. 7 WOlca f'nllata in wfism mon venient » mft
aliis alliez- ta.TOleis cur cera
cddenda. lib.G. yÀ: WOleum amyedaltmum a
partu ntq; femper.neq; qui busvis coz
venit qOlcum per os [umptum quando zn
colicis optimum. 4o prafdim. aiOleum rofatum pro oxyrbodinis fft vecens. JOpb: balmta in curanda opii vfus neq
multus, neq; A frequens JOph!baimia 1n curanda, qua lentorem babent A
comrmoda.lib.c. 75 UOpb:balmicis
paucif[ma externa vemedia adbiben |
da.lib.6. 99 Dpiatasut 7n alitis
ventriculi affctlibus fugienda, sta in
dolore inflammatorio eju[Æm concedenda,
b C quomodo.lb.7. 3 WOp: ufus
frequens im lippztudrme malus. 4D: colluendum anrequam æri cibu [smant. | qDo mel no[t-u imbecille ad
cra[faincidéda. 1.2. AQ. ymel H0 ferum
17 ACUETS f bribus non fat 15$ 44CCom
eodatum. lib.a« j Oxymel
iN Oxymel quamdiu excoquendum. Qxymel feplaftariorum diveríum à Galenico ;
C Gracerum. lib. 2. $2 Ox*ymel feplafiariorum fimplex nom eft potus
» fed forbitio . lib.2. $3 Q:ymel feplafrariorum non bumetlat. Q»ymellis parandi ratto Oxyrbodina applicata
ne ficcentur. » aut ex affa zmateria
applicentur. lib.6- 2 Qiyrbodina n
capitis dolore magis proficere » ft ex
alto decidant.Ox yrbodinis narcotica vix adpiifcenda Panatella an [emper
ex pane loto.lib. 2. A4 Panatella
quomodo paranda 1 acutis.lib.3. ^ 44
Pazalytici quando ab initio purgandi.lib.6. 73
Paralyticis cucurbitula ubi; quamdáo pn A. ra Paralyticis diuretica
optima . lib.6. 744]. Paralyticis olea
diflillata folainutisa - lib.6. 760p
Paralyticis oleanmmis calida mala Paralyticis rubificantia quando
comveniant.l.6. 765m Paralyticis
fedorifera non enultum comada.
Paralyticis vc ficantia utilia.itb.6. za
Partus non accelerandus ob preces parturientium | partu in diffcils varó exbibenda promoventia
fei cukdas.lib.7. iz Peffi odorati impoftti in pr efocatis ex
femine » ve IL. LA ciendi.I:Pete affecti
medicamento purgandi. lib.5- m
Pefle !| Peffe laborantibus ex diver [rs
caufis, quando smit- rendus fane s.lib.
s. ji
|! Pefle laborantibus mon [emper conveniunt purga- ros fangumis mito. lib. s. fI | Peffe laborantibus numquam mittendus
[anguis ad ammideliquium. | Peffe
laborantibus folum im principio [angws mnitti
poteft. cur. lib.g. 34 |Peftis
materia ab initio puyanda. Peflis materia crudadici non poteft. LPeffis materia majori ex parte turgéns.
lib.g. 4 KPe[Hlentes febres, licet
peracuta, non requirunt te- nuifhmum
vitium . MPeflilentes. febres frne
peffe coElionem expo[cunt in
"HAI€YIA » nec 1n principio 1u dis purgandu.A MPeflilenti in febre,
maculis evumpentibus, [anguis |... fecta
vena poteft evacuari Ci quomodo.lib.$. 3 r APharmaca glacie, vel aliter
vefrigerata pe[[ime à quibu[dam
conceduntur.lib.5. 12 /MPbarmaca » que
mifcentur, non ffztt ex dis, qua difpari tempore operantur. IPbarmaco a[wmpto, non dormiendum, cr in
qui- buss e quando. IPbarmaco aJumpto, eule, aut vemionz
ventriculi calida non [unt applicanda. "dMPEarmaco non évacuante, uon [emper poft tres
bo- ] ras pufculapropinanda. lib.5. dPbarmaco non evacuante;clyfena mo
indendsz.1. 2.9 Jbarmacorum validorum
extratla per vinum; aur aquam vite,
periculi plena. JPbrenetict in principio
purgandi. WPbreneticis acetum in
oxyrbodimis parce adbibene v Y 9 um.
e Phreneticis cucurbitulis appo[itis
quid faciendum Phreneticis in curandis mon diu narcoticis uiendum. Phreneticis in curandis vepellentiætiam
folaultra principium comy emunt Phreneticis non e[l enittendus [anguis ad
ammi ufq; deliquium. Phreneticis
fi inbrachio fecari vena non poteft, non
fécanda easquein fronte. Phreneticis [latim vena fécanda.lib.6.
19 Phtbifi laborantes latte ajumpto
dormire debent Phthifi laboratibus blande alvus mollieda.l.6. Y64 Piluleta Gallico morbo laborantibus purgandis
in fine praferenda.lib.7. 197 Pilula in tufi f capitis ajfectibus ; male
dantur poft cenam. Pilulepro capite expurgando majores » pro
ventyt- culo minores. lib.3. Pilule pro capite purgando à cea 40
danda.l.6. 15 Pilule valid:f[ima forma
non fiut magna (cur. Dituita fal[a quotidianam producente » plenius mu rriendum in principio, [éd 4 ventriculo
deturbaui y; da e[ materia. lib. $.
? Plevrifictí; c€ ante fomentis
dolore, non confe[tim| defi flendum A
veris remediis. plevriticis, dolore
a[cendente » fotus fimt bumidi || defcendente [icci.lib.6. p DPlevriticis » dolore def[dendente ; iH
feclione vez) "07? 1] ILLA EX
OEAZXA son efe exfpeclanda coloris [anguimis mutatio Plevriticis quando fomenta
anodyna conveniunt.Plevriticis [acculs fovetes ex levi materia.l.6.122. Pleuriticis, viribus imbecillbus, nou ex[pettanda coloris ia [anguine mutatio.. Plevriticorum reliquia omnino abfamenda.l.6. Ya y Pleyrsticorum triapraclarif[Timaremedia. Podæra
laborantibus varo repellentia conveniunt. Podagra laborantibus am ab
suitiomedicamentum purgans dandum
scontrover[ia cociliata Pi Podæra laborantibus quando mittendus eft. [anqurs.Iib. Podagra laborantibus frequenter [ecanda varà
ve- ZA.ltb. Podagrofís fmunttto ex oleo falito ante
declinatio- nem aAla. Podærofi non. [olum oleo. [alito snungendi ».
[ed etiam yperfricands. Podævofis oleum [alitum 1m declinatione
Optitum. Potulenta 12 bydrope a[cite [epe fu[petla. Potus acutarum f ebrium quis, C qualis. [ib.
Prafocatis bene olentta coxis applicanda .lib.7. 153 Prafocatis ex flatu ; cucurbitula magna
ventri in- eriori applicitA » praftanti[umum
remedium Prefocatisex retento [emine bene olentibus vulva non 1nungenda. Prefocatts f acie: bene olentibus non e[t
a[pereenda.3 libra. . : r$? Prafocatis
facies frigida non afpergenda.lib.7.14* Prafócatispauxtllum vini concedendum »
[ed vmale elentianaribus tunc apponénaa.
Prafocatis quando etiam im pároxy[mo
po]fit fecars pena. lib.7- nsn 164, Prafocatis quando mon lscet fecare venam. Prefácatis vino facies non abluenda. Preanatibus clyfteves no frequeier indatur. Pregenantibus erandiori fetu cbyfferes
quantitate non excedant. Prapinguibus, et fenfu exauifito praditis
inte fhinis, clyfteves non indanter
»ultum calentes Principio morbi cur
aliquando tenui[[ime ciban- dum.lib.2.
16 Priffanæx quo genere bo ydei
paretur PuJana ut condiatur » que
addenda, quando quomodo. lib.2. 43 Prj[ana ut paretur s quomodo hordeum
praparabixinus Puelliin applicatione 'cavendu: fior. lb.7. 7 Puelli in applicatione caveda pollutio
nocturna.l 7.9 Pueris ante decimum
quartum annumyevacuationtis
eratia,aliquando [ecari yote[t vena. lib.a. 8 Pæris ante feprenmum yra [lat bi rudimbus
[angui- nem mittere, et cur. lib.4.
IO Puevis, c adole[centibus plus cibi
concedendum, quam fenibus. lib... 7 Pueris numquam concedenda narcotica. lib...
46 Pueris pro revulfione fecari omnino
«ena débet .. | 5m, lib. Pulverei C
eletluarias qua etiam fol'vant; n; bo PUN DV
bo Gallico comvenive Pulvifculi
cardiaci non cum cibis, fed cum potioni-
bus fepunis dandi. Purgamenta
muliebria non [emper frigida, nec ca-
lids curanda... 1j0 Purgandum
egrum quid interrogare oportet.1.3.2.
Purgandum in principto n pe[fle, Difputatio. lb.g. Cut. Purgandum interrogare oportet » an alvo [it
lubri- c4,an dura. Purgandum in vera declinatione . Purgandum non [emper in declinatione febrium
pu-. tridarum.lib.3. $3 Purgandum quando in barum declinatione. , Purgantia debilta repetita im. quotidianis.
comvenut. Purgantia fint leviora 1n
febribus, quam in aliis oorbis, €
cur.lib.s. "" Purgantia
valenter apud Galenum in febribus varà
ia ufum veniunt.lib.s. 3I
Purgattone impe[le utendum. lib.s. 46
Purgantia valida in pe[fe non comveniunt.lib.g.. 49 Purgatto in podagrofis fi f acienda» [latim
facienda Purulentis nom tentanda efl evacuatio materia per feceffum medicamento.Putrida non omnis
materia coquenda Quartana laborantibus vitlus in principio varian- dus CP quomodo. lib.s. 2j Quartana laborantibus [al(amenta concedenda;
[cd parca manu. Quarutat laborantibus
dum [ecatur vena, prafen« S 5a Medici nece [[avia.lib.s. 1 uartana laborantibus quando et dextro
brachio extrabendus [anguis. Quartanis
vena [ectio quando convert. Ouartanariis dum [anguis
mittitur y non flatim. -fupprimendussetuamfi
bonus.lib. 5. 29.(2* 30 Quibus maxume in
acutis os colluendum. uotidiana in
febre. ab imtio vomitus utilis,
qualis.Iib. s. 17 Quotidianain
febre quomodo Galenus commenda- yit
vomitum validu pofl [rema cocottionis.l. 5. Y7
uotidianis in febribus tenuis etiam, quam iz. flatu
alendum in principio Refrigevantia in[igniter qua capita no ferant. Renædiis in multis quomodo
procedendum.lib.3.36 Remedium
pra[tantiffimum ad wen[es [uperfiuos. j Renibus inflammatis;po[t [etlam venambrachi
ea etiam [ecandæ[L, qua 1n talo. Rembus mflanmatis, Rbabarbari wfüs [u[pettus Renibus laborantibus, clyfleres quantitate
parva Renibus laborantibus, qua vena [ecanda: Renibus ulceratislattis
admunifltrandi ratio varia. Renum 1n
inflammatione non purgandum, fed le-
niegdum blande. Renum in inflammatione 17 principio ) impense re-
WM, Cc frigeranziamala Reuun Ü - UIT PMI E^Zi
Renum calculo laborantibus lemientia ab snttzo" ape non [ufficiunt ; itaq; etiam purgandi Renum
tn ulceribus valide exftccatiamala. Renum ulcera quam primur o Jm Repellentia in cholera quomodo, Cj quando in
u[um ducenda. Repellentia in podagra,
[nfpetta.lib.. 181 Repellentia 1n
palpitatione cordis, dum mittitur
Janguissregtont cordis applicanda. lib.c. 176 Repelle ntibus folis in doloribus in
principio quando 10n utendum Repetitio fanguinis mi[fiomis quando eadem
die, €& quando altero.lib.a. I6 ] Repetitio [anguis milTionis vevul[iue,
contra Galenum [ape eodem dte repetenda eur" quan- do: ]
Revul[1o ree. [célam venam quando requirat vecli- Iudinem partium (t quando con [en [um YOnat-Yum.
Itb. a. 18 I Rbabarbari safu[lo vino
exbibita febres eftuan- te$ excitat.
lrib.a. Ij I Rbabarbart ufus £n
eflnofis febribus [nfpettus.l.s-g IL
Rbabar bar: ulus 12 [puto [auguinis [epe [ufpettus LRhabasbari ufus dy[entericis
fnfpettus.lib.7..Rbabarbarum bydr optcis 10utile. I Rbabarbarum im dolore inflammatorio
ventriculs fueieudum.lib.7 x WRbabarbarum 12 in nflamnratione renum
fu[peétum- y lo ebarbar H2 menfibus [opevfluis noxzu. E Mhatar barum pro purganda bile, 12
dévirmtione | Y D &[tuan- | effuatium febriumsmalum, C quando eo uti
pof- famus.lib.s. 7.6 8 Rhabarbarti phreneticis no multu utendum. Rhabarbarum [n[petium in intemperie calida
be- patis.lib.7. 0034 Rhabarbarum torrefatium in dy[enteria
rejicienadum Rubificantia quou[que cuti adbarere debent. Ay
Sacchari ro[ati exbibitio poft purgatum corpus ardentibus febribus, non
multuprobanda.l. 5.12 Sal clyflevibus
non ita frequenter tndendus.l.3.. 2.9
Sal oleum quomodo [al [um reddat, ft oleo nom liqua- tur . [i
Sara et decotlo portio Guajaci cur indenda.l.7. 211 Sara decotlum a[late cum majori quantitate
aque. |o parandum; C cur. Sarza parilia mirabile decoblum ad tabidos ex
Gal | i; lico s2orbo.Itb. Sanguine malo
fetla vena exeunteminor quantitas iio;
illius evacuanda . lib.a. 1
Sanguinis in colore zutatio in evacuatiua. eUACHA- i) tione mon vevulfrvas non ex[peclanda.
lib.4. 33). Sanguinis in colore mutatio
nec in vnflammationi- bus etiam perpetuo
exfpettanda. lib.a. T Sanguinis in
colore mutatio quomodo intelligendai|
lib. 4. Mn Sanguinis in colore
mutatio ua vevul[tone a longimsyds, quis
non ex[pectanda. lib.4. T Sanguinis 1m
colore mutatio in plevritide non ei
ex[petlanda, impa 1o in parte bumore. . Yi] Sanguimis gatffiomi non. [emper p Aldi; eni- J
lenitio. lib.a. 1 Sanguinis
mi[[io ad animi deliquium raro inu[um.
ducenda.a quibus, C? cur.lLb.a Sanguinis mi[io quando per [es quando per
accidens A centro ad circum[ erentiam
trabit, quomo- do.lib. $. 3$ Sanguinis mi[[ionem quando pracedere debeat
fa- cum [ubductio. Sanguinis minus detrabendum i1s,qui artes
laborio fas exercent .lib.a. I Saguinis repetita evacuatio quomodo
facieda.] 4g Sanguinem ve ectantibus
cucurbitula parti affix ao quando
conventat . lib.G. I1$O Sanguinis [puto
ex retentis men[ibus, qua vena [c- veda.
lib.G. 148 Saponarie decoélum pro
pauperibus 12 morba Gal- lico. Scammonii u[us im e[luofts febribus
[nfpetlus, e quando eo titendum .
lib.s. Scarificatio crurum tn pe[le
[aluberrima. lib.g. 33 Scar: ficatia
quando proj unda factenda, G' quando
Ww leviter.ib.4. T Gellio venain talo ad movendos men[es melius
jit fub noctem.hib.7. 136 Semis in curando profluit diver[a ratto
[ervan- da »pro varietate magna
occaftoms .lib.7. . X38 Seri € lalle
[egreg and: veramdica v mds ie. $1. Seri
quantitas varte 4 uarias tradit a.quomodo con- cilianda.lib.5. ! $i Siccanttbus valenter in [puto [anguinis
empla[lica o mi[cenda.l:b.6 (6 2, Siti in magna calidas G quando frigidabi- bcn- Symptomatice
narra operante quid à Medice moliendum. Symptomatice
natura operante » caute agendum. |
Iib.ss 61. [s Synocha
labcvantibus quando cibus o fferendus.lib.2. Cant. jo Syrupi acetoft parandi ratio. Syrupus » c mel.vof. fol. quando in principio
conce- denda.lib. 3. $a. f, Syrupus ex cichorea cum Rhabarbaro Guliclmi,
1t dyfenteriaadmittendus |y, Syrupis pro morbi Gallici materia paranda
alexi-- V, pharmaca mi[cenda. Syruptes vof.(ol.inter lemientia non
connumerandus», y. fed 1n*ev [olventia.] Syrupi [olventes in cura morbi Gallici
commendaniy, di. T'enui[fcmo vitta in ftatu acutorum utendum
fem-. per. 1. Aphor. 8. quando verum .
lib.2. 18: T enui[fimo vitlu utendum. in
peracutis omnibus :) i exceptis
pestilentibus.ltb.2. 114 T'ertiana in
febre ante cotlionem quandoque pur: n
eandum, quando. . T T erttana im
febre, etiam intermi[[ionis die; victim [.
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[^ Veficania in febre pefhlentiali [rne
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optima. .]^ V«ficantta bydropicorum eruribus
applicatamoxia, V Vificantia in letbargo optima, C quibus partibusi| applicanda. lib.6. 357] Veficantia: tn pe[le aliquando in ulum duci
po[[unt »)/ C quando.lib.s. 421] Veficantiaia ye[Hiferis » cum extra corpus
alget 4! utilia.lib.5. 4$ Veficantia in peflilentibus peffreme pa [form
ufurpata Ati Itb. $. $! Ve ficantia in principio febrium
peflilentialium noii] i. conveniunt.
lib. s. T Vitus cra[fas 1n acutis
rejtciemdus.lib.a. jt Vitlus formatn
acutis paffim corrupta y ve '(peCtu ves |
cionis mutanda. lib.2.. I: Vitus
bymidus febricitantibus confert, bumidwl!n,
atu. c potentia.lib.2. PH
Vitius immutandus, vatione temperamentorum CO quomodo. IHb.. Y. c4 30 9v2141* 772 J, * ; L bi *, f Vibius mmutanaus, vatiome babitu corporis »
CA terperamenti ventrigulilib.a.
4G] lt-ION DoESLY. Vicius mttandus in acutis obanteatla
vitam.La. I4 Villus ratto pro vartetate
con[netudipis » Ci vegio- "s
wautanda. lib.z. Victus tenus pro
acutis antiquis quotuplex, Cb qui 4A
nobis reciptendus . lib.a. 30 Vicius
tenuts 12 acutis cur. lib.a. I
Vinculum laxandum, [e£la wena 1m melanchalicis. lib.6. 87
Vinum 1n acutis per fe numquam concedendum.», præfertim apud Infubres Vinum: acutis quando
concedendwum Vinum In[ubriues ineptum pro potu acute febrici- tantum .lib.3. $9 Vini medicati formula praflanti[ima pro
aliqia.. Jpecie morbi Gallici.lib.7.
204 mum optima materia pro paraudis
aliquando de- coctrs pro.quorbo Gallico.
1b.7. 204. Fino terttana laborantes Apud
no[lrates per torum morbum
interdicendi-lb.g. ' I4 Virtute per [e
debili, vitlus ativezicus ct 72 forma ;
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Virtute debili ob aeevavationems, parten. C varo ; » M inf n 6n gnat pee ob reíolutzozt Wn paruTC i&pecióaraum.l..
i Vite "mhi u""umua
lormevitie:i ecutrt.l.a. jg / 7, 2
44. -P pawlir *4h 4 Vomendnm A cibo,
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bus huno ribu;.dib.7. 16 Vomcndum quando 1e]uno ventriculo, C
quands 7 epleto.lib.7. | r$ Vomitorio ab allumpto, quam diu a vosnttu
abfti- nendum .lib.7. 1o OO QS€, m mq 4 P o osa a £5 pi "p
LIFE. Kk. 0721IMS TTCOHOEAT10? |
4£;:€/2a13 "deu C27? " PE WT Vomitus in men [e determinati non
habeant dies» flatutum Jib.7. 13 Vomitus potius repetendus, quam diu in eo
infi 'ften- dum.lib.7. II Vomitus quibus noxas afferat
inemendabiles.l.3. 12. Vomitus vepetiti
quales effe debeant.lb.7. I2 Vomitus
quomedo frequentius byere promovendt ; C
quomodo rarius, € im quibus ca[ibus.l.3.. 10
Vomitus tabidi: inimicus lib.;. II
Voritu qui ab[Linendi.lib.7. I4
Vomiturinon debent nimium cibo vepleri.l.7. 17 Voritoria in
cholera fint ex levioribus » nec multe
quántitatis.lib.7. 11.e£ 24
Vomitoria in cholera varianda, pro varietate ma- teri& Vomitu in colicis quando utendum.. M» Vmbilicus aliquando mumiendus im
applicationc.2 cucurbitula.lib.7.
79 Vnguenti ex bydrargyro preftare
»multam quanti- tatem parare, C"
cautio ante illius u[nm.1.7. 226 Veri
regio fovenda attenuantibus ante. [anguims
wi [tonem ex talo.lb.7. 139
Laus Deo; Deiparzque Virgini
ep" E Hez ^ MACC gs NI Aer: ce EO Edd iR c aq. dpa did Ludovicus
Septalius. Ludovico Settala. Settala. Keywords: ragion di stato, lizio, sesso. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Settala” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Severino: la ragione
conversazionale del velino -- oltre il linguaggio, oltre l’aporia di Parmenide –
la scuola di Brecia -- filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Brescia). Filosofo lombardo.
Filosofo italiano. Brescia, Lombardia. Intende collocarsi oltre ogni filosofia
permeata dal nichilismo. Si laurea a Pavia come alunno dell'almo collegio borromeo,
discutendo una tesi su metafisica, sotto la supervisione di BONTADINI. Insegna a
Milano e Venezia. Lincei. Critica sia il capitalismo sia il comunismo, fonti
della vita inautentica in quanto espressioni di dominio della tecnica, come
d'altronde il FASCISMO, ma anche la sinistra in quanto non è più social-democrazia,
rilasciando anche dichiarazioni sul suo punto di vista sul passato e
sull'avvenire dell'Italia. Le spiegazioni della crisi del nostro tempo
rimangono molto in superficie anche quando vogliono andare in profondità. Il
fenomeno di fondo, che non viene adeguatamente affrontato, è l'abbandono, nel
mondo, dei valori della tradizione occidentale; e questo mentre le forme
della modernità dell'Occidente si sono affermate dovunque. Un abbandono che si
porta via ogni forma di assolutoe innanzitutto Dio. Muore, dicevo, ogni forma
di assolutezza e di assolutismo, dunque anche quella forma di assoluto che è lo
stato, che detiene il monopolio legittimo della violenza. Questo grande turbine
che si porta via tutte le forme della tradizione è guidato dalla tecnica ed è
irresistibile nella misura in cui ascolta la voce che proviene dal sottosuolo
del pensiero filosofico del nostro tempo. Il turbine travolge anche le
strutture statuali. Investe innanzitutto le forme più deboli di stato. La
trasformazione epocale di cui parlo non è indolore: il vecchio ordine non
intende morire, ma è sempre più incapace di funzionare, soprattutto in paesi
come l'Italia. E il nuovo ordine non ha ancora preso le redini. È la fase più
pericolosa (non solo per l'Italia). Criticando "l'assolutismo religioso e
comunista", oltre che tacciando la magistratura di "ingenuità",
poiché processando una classe politica a fondo ha rivelato la contiguità anche
con la criminalità organizzata, figlia della guerra fredda e,
secondo S., impossibile da debellare integralmente in pochi anni
senza debellare lo Stato stesso, causando notevoli problemi. «L'Italia è
uno stato acerbo. Ha 150 anni su per giù. Ma soprattutto ha alle proprie spalle
una storia di frazionamento politico-economico-sociale, dove si sono imposte
forze che hanno avuto nel mondo un peso ben maggiore di quello dell'Italia
unita.. Sull'evasione fiscale: Una tara storica, come prima le dicevo.
L'evasione fiscale è un furto ai danni di tutti. Se c'è da costruire una strada
io devo metterci anche la parte degli evasori. Certo, molti artigiani e piccoli
imprenditori, se non evadessero, fallirebbero. Tutti sanno queste cose. Però
conosco anche tanti cattolici ai quali molti uomini di chiesa facevano capire
che se non avessero ritenuto "giusto" pagare le tasse dello stato,
avrebbero fatto bene a non pagarle. Questo Papa, da buon pastore, sta cercando
di cambiare le cose. Ma non vorrei che si perdesse di vista che la
"corruzione" di fondo è l'"evasione" del mondo dal passato
dell'Occidente. Oltre alle citate critiche, Heidegger parlando con FABRO a Roma
ha a dire a proposito di "Ritornare a Parmenide" di S. Immobilizza il
mio Dasein. Già da molto prima prima, alcuni appunti di lavoro heideggeriani
testimoniano come Heidegger seguie S. (da uno studio di ALFIERI e HERMANN -- è
stato criticato da ODIFREDDI, in risposta a un giudizio critico su un'opera di ODIFREDDIi,
ovvero l'introduzione scritta all’ABC della relatività di Russell, dove venneno
citati alcuni filosofi (tra cui S. e CROCE) in maniera non congrua e "alla
rinfusa l’ODIFREDDI l’ accusa invece di non considerare l'importanza della
scienza, come già fecero i neo-idealisti, come CROCE e GENTILE, a differenza di
filosofi che studiano a fondo alcune teorie. Nel dialogo con Chiara, “Oltre l’umano
e oltre il divino” la filosofia della necessità si contrappone alla filosofia
della libertà. Fa spesso riferimento a pensatori come PARMENIDE di VELIA,
LEOPARDI, e GENTILE. LEOPARDI e GENTILE sono all'apice della follia del
nichilismo. Considera LEOPARDI e GENTILE come i due più grandi geni che hanno
portato all'estremo la concezione del mulla ovvero l'entrare e l'uscire degli
enti dal nulla. Affronta il problema dell'essere. Tutte le filosofie
costituitesi precedentemente sono caratterizzate da un errore di fondo:
la fede del divenire. Sin dagli antichi, infatti, un ente (ovvero un
qualcosa che è) e considerato come proveniente dal nulla, dotato di esistenza e
successivamente ritornante nel nulla. Rifacendosi a VELIA, è stato definito come un neo-veliano, di cui
sarebbe l'unico esponente, peraltro criticato in senso anti-metafisico da SASSO
e VISENTIN, i quali sostengono, rovesciando la sua tesi, come, contrariamente
all'opinione diffusa, in VELIA esiste invece un deciso rifiuto della
metafisica.. Riflettendo sull'opposizione assoluta tra essere e non-essere,
dato che tra i due termini non vi è nulla in comune, ritiene evidente che
l'essere non può non rimanere costantemente uguale a se stesso, evitando di
rimanere alterato dall'altro da sé. Anzi, essendo l'essere la totalità di ciò
che esiste, non può esserci altro al di fuori di esso dotato di esistenza (S.rifiuta,
quindi, il concetto di differenza ontologica così come è stato avanzato da
Heidegger). Per S., quindi, tutta la storia della filosofia
occidentale è basata sull'errata convinzione che l'essere possa diventare un
nulla, sebbene alcuni filosofi tentano di negare tale assunto. Ma, mentre
VELIA tenta di risolvere il conflitto tra il divenire e l'immutabilità
dell'essere affermando l'illusorietà del divenire (negando l'esistenza delle
cose del mondo e cadendo quindi in un'aporia), sceglie una via differente,
portandolo a delle tesi estreme. Dato che l'essere è, e non può mai
diventare un nulla, ogni essente è eterno. Ogni cosa, ogni pensiero, ogni
attimo e eterno. Il di-venire non può, quindi, che rappresentare l'apparire
degli eterni stati dell'essere, così come i fotogrammi di una pellicola si
susseguono sino a formare lo svolgimento completo di un film. Gl’essenti
entrano ed escono del cerchio dell'apparire. Quando un essente esce dal cerchio
dell'apparire, non diviene un nulla, ma si sottrae semplicemente all’inter-soggetivo.
Dunque, l’essente esiste anche quando scompaie ovvero non si perceive. Vedere
senza vedere, dice Sperduto in una tragicommedia. Afferma che il di-venire dell’essente
è come lo scorrere dell’essente sulla superficie di uno specchio. L’essente,
infatti, esiste prima di entrare nel
campo inter-soggetivo dello specchio e ovviamente continua ad esistere anche
dopo esserne uscite. Il di-venire e l’ immagine inter-soggetiva dell’essere. Questo
si estende anche a ogni essente che nel divenire si manifesta. La dimostrazione
dell'eternità di tutti gli essenti, si basa sostanzialmente sul principio di
non contraddizione, ma non nella versione che ne dà Aristotele nel “De
Interpretatione”. In essa anzi il discorso del tramonto del senso dell'essere trova
la sua formulazione più rigorosa e più esplicita. Bisogna invece ritornare a VELIA
correggerne l'esito aporetico, dimostrando che l'evidenza fenomenica non è in
contrasto col principio di non contraddizione, ma scoprendo anche che il
divenire così come uscire dal nulla e ritornare nel nulla, non appare affatto,
non è affatto evidente. Di qui si potrà proseguire su una via -- quella
indicata da VELIA, il sentiero del giorno. Consideriamo la proposizione di VELIA
-- è infatti l'essere, il nulla non è. Tale proposizione esprime
l'opposizione assoluta tra i "essente" e "non essente". Pertanto
ogni essente, in quanto ent-e, è assolutamente opposto al nulla e non ci può essere
uno stato in cui un ente non sia, come pensa invece il principio di non
contraddizione aristotelico -- è necessario che l'essente sia, quando è, e che
il non-essente non sia, quando non è". Quest'enunciato esprime il pensiero
di una condizione, in cui l'essente è nulla, in cui essere = nulla. Questa
impossibile ed impensabile contraddizione costituisce una follia essenziale. Infatti
il pensiero occidentale pensa sì, consapevolmente, l'essente come essere, ma
insieme come di-veniente, cioè che esca dal nulla e ritorni nel nulla. Ad esso
sfugge invece che ciò equivale a pensare l'ente come nulla; e questo è il
nichilismo più proprio, la follia che si annida nell'inconscio della filosofia.
L’essere non è un ente tra gli enti. Esso rappresenta piuttosto l'apparire
ontologico degli enti, e per questo motivo viene definito un transcendens
rispetto all'ente. Rigetta questa concezione. Afferma che la totalità
dell'essere è costituita dalla totalità degli enti. La vera differenza
ontologica è quindi quella che si costituisce tra l'essere (l'ente) diveniente
e quello immutabile. L'essere che appare e scompare non è lo stesso
essere immutabile, ma è anch'esso eterno. Entrambi esistono, ma in differenti
dimensioni. L'essere come fondamento è una struttura eterna e non soggetta ad
alcun mutamento. Tutto è avvolto (fino alla morte) dal nichilismo Un po'
tutti i filosofi che l'hanno avuto sottomano hanno inteso il nichilismo come
allontanamento dalla verità, e l'hanno dunque declinato a seconda dell'idea di
verità a cui stavano pensando. Nella prospettiva severiniana dell'eternità di
tutte le cose, il nichilismo è dunque il credere che le cose siano mortali,
ovvero che l'essere possa non essere,ed uscire e rientrare nel nulla, ovvero
credere nel di-venire delle cose. Credere infatti che le cose escano dal nulla
e vi ritornino equivale ad identificare l'essere con il nulla: quindi si parla
di pura "follia". Al di fuori della follia appare l'eternità di ogni
cosa e di ogni evento. Al di fuori del nichilismo il sopraggiungere dell'ente è
il comparire o lo sparire dell'eterno. Il divenire dell'essere è un'opinione
senza verità. L'Occidente non domina il mondo casualmente o perché ha una
possibilità offensiva superiore; ma, al contrario, ha una possibilità offensiva
superiore perché domina il mondo che crede nelle sue stesse imprescindibili
idee guida (scienza, potenza, tecnica, salvezza, ecc.) e quindi in una cultura
che ritiene più avanzatae dove dunque l'avanzamento non è una virtù morale, ma
la capacità di capire e fare più cose per sopravvivere all'imprevedibilità
dell'esistenza. Ritiene che la filosofia abbia sempre cercato riparo contro il
terrore che scaturisce dall'imprevedibilità dell'esistenza perché innanzitutto
si è sempre creduto nell'evidenza del divenire degli enti, del loro uscire dal
nulla e rientrarvi. Anche le grandi forme di epistème che tendono a dare un
ordine ed una configurazione prestabiliti all'esistenza, si muovono sullo
stesso terreno. L'intera storia della filosofia italiana è quindi storia
del nichilismo. La radicale distruzione dell'epistème operata da parte della
filosofia e la rapida ascesa della scienz ai vertici del sapere sono
conseguenze inevitabili di questa forma di pensiero (la civiltà della tecnica
è, infatti, la forma estrema di volontà di potenza). Tutto ciò che appare
appare in maniera necessaria ed il progressivo manifestarsi degli eterni non
segue, quindi, una sequenza casuale. Ciò significa che la libertà dell'uomo non
esiste, ma appare all'interno di quell'essente (anch'esso eterno) che è il
nichilismo. Ed è proprio all'interno dell'Occidente che appare il
"mortale" come noi lo conosciamo. Ma l'Occidente è destinato al
tramonto, per fare spazio al destino della verità, la verità che testimonia la
follia della fede nel divenire. Solo all'interno del destino della verità la
morte acquista un significato inaudito: in realtà la morte è la persuasione
dell'assentarsi dell'eterno. Da quanto detto precedentemente appare
chiaro come non ci sia posto per il divino comunemente inteso. Nel corso della
storia della filosofia, l'affermazione
dell'esistenza di qualcosa di immutabile (tra cui il divino in tutti i diversi
modi nei quali filosofia e religione lo hanno concepito) è sempre stata fatta
partendo dal presupposto che il di-venire non significhi necessariamente la
nascita dal nulla e il tornare nel nulla delle cose che in esso si presentano.
Quest'affermazione è, inoltre, sempre avvenuta con l'intento di risolvere le
varie contraddizioni che quel presupposto implica e di inventare un rimedio per
l'angoscia che il pensiero dell'annientamento provoca. Questo genere di
immutabilità è, quindi, di segno diverso da quella che compete agli enti sulla
base dell'impossibilità assoluta che qualcosa si annulli. Per questo motivo è
impossibile che esista un divino. A maggior ragione è impossibile che esista un
dio dotato della capacità di creare gli enti dal nulla e di mantenerli in
esistenza grazie alla sua libera volontà (altrettanto libero potrebbe essere,
pel divino, l'annichilimento"diverso dal concetto fisico di annichilazione
-, e cioè la volontà di far cessare la durata della loro esistenza per farli
ritornare nel nulla). Essendo ogni ente eterno, non può esserci né
creazione né annientamento, e quindi neanche un Dio comunemente inteso. Alla luce
del destino della verità, ogni ente, anche il più insignificante, acquista un
significato inaudito. L'uomo si porta quindi radicalmente al di là del super-uomo
e della volontà di potenza. L’uomo è un super-dio, ben più grande del divino
della tradizione religiosa. L'inconciliabilità fra la dottrina dell'Essere e AQUINO
è stata sostenuta da Fabro. BARZAGHI, con cui ha più volte dialogato
pubblicamente, ha mostrato la possibilità di utilizzare le intuizioni sull'eternità dell'essente proprio per
affermare l'esistenza di Dio e ricondurre il pensiero del filosofo all'alveo
cristiano da cui si è staccato (entrambi sono stati alunni, all'Università
Cattolica, del filosofo cattolico e apologeta BONTADINI). Pur non rivedendo
pubblicamente il suo punto di vista sull'esistenza del divino, apprezza ed
elogia la proposta di BARZAGHI. Con “La Gloria” giunge, tra le altre
cose, alla dimostrazione necessaria dell'esistenza degli "altri".
Quando Cartesio infatti scopre che la carta vincente della scienza è la
conferma delle ipotesi da parte dell'esperienza, e cioè da parte della presenza
certa a me da parte delle cose, si apre il problema della fondazione
dell'esistenza appunto di altre dimensioni che come la mia accolgono l'accadere
del mondo, ma che a differenza della mia non sono apparenti, non sono cioè da
me visibili. I fallimenti dei tentativi di soluzione a tale problema
(eminentemente proposti ad opera della fenomenologia, sì che questo problema fu
certamente uno dei più cogenti all'interno del discorso filosofico di Husserl),
a cominciare da quello di Cartesio, si determineranno essenzialmente per
l'assenza del senso autentico dell'essente e del senso dell'oltrepassamento. L'oltrepassamento
dell'attualità nella costellazione infinita di cerchi finiti dell'apparire del destino
è necessità dell'esistenza di un altro apparire finito, diverso da quello
attuale. Nella Gloria, perviene alla fondazione del senso autentico
dell'oltrepassamento, dopo aver stabilito nelle opere precedenti che il
divenire autentico (cioè non nichilistico) non è il crearsi e l'annullarsi
dell'essente, ma il comparire e lo sparire di ciò che è eterno. Ma è in
questa sede innanzitutto fondamentale precisare, a partire da considerazioni
svolte dallo stesso S. in Destino della Necessità (che le cose della
"terra" (termine con il quale S. designa la dimensione degli essenti
che via via appaionoe che, per contro, il nichilismo pensa come fuoriuscenti
dal nulla ed al nulla ritornanti) "incominciano" ad apparire (il loro
apparire esce cioè dall'ombra del non-apparire ed entra nel cerchio
dell'apparire). Con "cerchio dell'apparire" si intende, qui, la
totalità degli enti che appaiono: è, cioè, l'apparire in quanto ha come
contenuto tutto ciò che appare (ossia è l'apparire "trascendentale");
l'apparire delle cose della terra, quell'apparire incominciante di cui sopra,
è, perciò, la relazione tra il cerchio dell'apparire (l'apparire
trascendentale) e una parte del suo contenuto. È altrettanto fondamentale
precisare che l'incominciare della terra (a sua volta eterna), non aggiunge
alcunché al tutto eterno che è, con VELIA, appunto, “non incompiuto” (ouk atelePombaon),
“non manchevole” (oulon achineton). Anche l'incominciante apparire, difatti, è
eterno: il suo incominciare è il suo entrare nel cerchio dell'apparire.
Entrandovi, naturalmente, apparema questo apparire dell'entrare è lo stesso
entrare, ossia è quello stesso di cui si dice che, eterno, entra nel cerchio
dell'apparire. E, così come ogni ente, anche l'appartenenza della terra al
cerchio dell'apparire è eterna. L'eterna appartenenza al cerchio dell'apparire
entra nel cerchio eterno dell'apparire. Entrandovi, appare, e quest'ultimo
apparire è lo stesso apparire incominciante in cui consiste l'incominciante
appartenenza della terra al cerchio dell'apparire. L'apparire incominciante è
cioè apparire di sé stesso (e di tutte le altre cose che incominciano ad
apparire), ed è questa autoriflessione dell'apparire incominciante ciò che
entra nel cerchio dell'apparire e incomincia a far parte del contenuto di
questo cerchio. Ma ogni essente che incomincia ad apparire (ogni
oltrepassante) è destinato ad essere oltrepassato: diventerebbe, altrimenti,
condizione indispensabile dell'apparire degli essenti e quindi originarietà che
sarebbe dovuta apparire già da sempre. Un oltrepassante che sia non
oltrepassabile è impossibile, perché altrimenti esso dovrebbe iniziare ad
appartenere allo sfondo (e intende, con
questo termine, quel complesso di significati, o costanti persintattiche costanti
sintattiche di ogni significato –, senza i quali non apparirebbe nulla, motivo
per cui non possono non essere sempre presenti. Tra questi ad esempio vi sono i
significati esseree e nulla. Inoltre, la serie progressiva degli essenti che
via via appaiono è necessariamente finita; infatti, se in direzione del passato
fosse estensibile all'infinito, ci vorrebbe un percorso infinito, e quindi mai
concluso, per giungere al momento attuale. C'è quindi un primo passo compiuto
dalla terra. La totalità attuale di ciò che è destinato ad apparire è,
per quanto sopra esposto, necessariamente oltrepassata. Ma in che senso?
Essa non è, difatti, oltrepassata dall'apparire infinitogiacché l'apparire
infinito (l'infinito oltrepassarsi da parte delle forme proprie dell'apparire
finitodove la Gloria è proprio questo infinito dispiegarsi) non è un
oltrepassamento incominciante, ma è l'oltrepassamento già da sempre ed
eternamente compiuto della totalità del finito. La totalità attuale
dell'incominciante è, dunque, necessariamente oltrepassata da un
incomincianteil quale non può apparire attualmente, ma è tuttavia necessario
che appaia (in quanto l'incominciare è incominciare ad apparire), e che quindi
è necessario che appaia sopraggiungendo in un cerchio diverso, altro, dal
cerchio originario dell'apparire. La totalità simpliciter degli
essenti-che-sono-degli-oltrepassanti (la totalità dell'oltrepassante, cioè, che
include come parte la totalità attuale dell'oltrepassante) non può essere a sua
volta oltrepassata, perché ciò che la oltrepasserebbe sarebbe un oltrepassante
non incluso nella totalità dell'oltrepassante; e se l'oltrepassante (cioè
l'incominciante) che oltrepassa la totalità degli oltrepassanti non fosse a sua
volta oltrepassato, esso sarebbe quel contenuto impossibile che è, appunto (per
quanto sopra esposto), l'incominciante non-oltrepassabile. Poiché la
terra oltrepassa anche l'attualità dell'apparire del cerchio originario, sopraggiungendo
in un cerchio diverso, il contenuto incominciante che appare nel cerchio
originario dell'apparire attuale, è oltrepassato (infinitamente) in due
direzioni: (a) In quanto contenuto incominciante, esso è oltrepassato
lungo il dispiegamento infinito del contenuto attuale del cerchio originario
(o, per utilizzare il suo lessico, lungo la Gloria del dispiegamento infinito
della terra che si inoltra nel cerchio originario). Ma non è in quanto tale
contenuto è attuale che esso viene oltrepassato lungo il dispiegamento infinito
del contenuto attuale. (b) In quanto contenuto attuale (in quanto, cioè,
alla sua attualità) il contenuto incominciante è oltrepassato invece in un
altro cerchioe in un'infinità di altri cerchi dell'apparire.
L'oltrepassante-incominciante, qui, entra nell'apparire non attuale. Anche
questa seconda direzione dell'oltrepassamento è un dispiegamento infinito nella
Gloria, ma, appunto, nella gloria che consiste nell'infinito sopraggiungere,
nel cerchio originario, della costellazione infinita degli altri cerchi. La
gloria è l'unità di queste due dimensioni. La dimensione dell'essente, che
incomincia cioè ad apparire nel cerchio originario, è necessariamente
oltrepassata da un'altra dimensione dell'essente (perché l'incominciante non
può incominciare ad appartenere all'essenza dello Sfondo, non incominciante e
non tramontante, del cerchio originario); ma anche l'attualità dell'essente che
incomincia ad apparireossia anche l'apparire (che, in quanto tale, è apparire
attuale) dell'essente che incomincia ad apparireincomincia ad apparire, sì che
(per lo stesso motivo) è necessariamente oltrepassata in un altro cerchio
dell'apparire; e anche la sintesi tra l'attualità del cerchio originario e
l'attualità in sé dell'altro cerchio incomincia ad apparire nel cerchio
originario, quando in esso incomincia ad apparire ciò che ne oltrepassa
l'attualità; e dunque (per lo stesso motivo) tale sintesi è oltrepassata in un
terzo cerchio (e, cioè, l'attualità in sé dell'altro cerchio non è oltrepassata
solo nel cerchio originario, ma necessariamente in un terzo cerchio)e così
all'infinito. In definitiva, l'oltrepassamento dell'attualità di un
cerchio non avviene solo lungo la dimensione "verticale" del singolo
cerchio, ma anche lungoquella "orizzontale" della costellazione di
cerchi del Destino. L'oltrepassamento hegeliano, invece, conserva
"idealmente", cioè astrattamente, ciò che oltrepassa, e non
realmente, determinandone la distruzione. In un contesto siffatto è fondata
l'impossibilità dell'esistenza degli "altri", perché l'altro, che è
il mio oltrepassante, determinerebbe il mio superamento, e mi consegnerebbe ad
una dimensione puramente ideale. Infatti nel sistema hegeliano l'esistenza
degli altri significa l'esistenza di soggetti empirici, sensibili, che è quindi
comunque interna all'esistenza produttiva dell'unico io. Il nichilismo è un
essente che incomincia ad apparire, ed è quindi destinato ad essere
oltrepassato. L'essente che oltrepassa il nichilismo è l'essente che porta al
tramonto l'isolamento del senso delle cose dalla verità. Il nichilismo è,
infatti, pensare e vivere le cose come nulla in quanto delle cose non appare il
legame alla struttura originaria della verità, e quindi non appare l'eternità.
L'essente, o la dimensione di essenti, che porta al tramonto l'isolamento del
senso delle cose dalla verità è la gloria (cioè la manifestazione) della verità
stessa. L'ampiezza dell'isolamento non coinvolge solo il legame tra i singoli
essenti e la verità, ma anche il legame tra gli infiniti cerchi dell'apparire,
il loro passato e il futuro del percorso che la terra è destinata a compiere in
essi. Nella Gloria non si è il divino, perché il divino crea ed annienta le
cose anche e soprattutto quando ama; e dunque appartiene al regno dell'errore
perché l'amore è volontà e la volontà è voler alterare il senso proprio ed
eterno, cancellarne l'identità. Il divino è, quindi, infinitamente meno della
più umbratile tra le cose vere. Tutto è oltre il divino e oltre ogni forma di
mortalità, compresa la vita umana come credenza nel poter creare e annientare
gli essenti. Saggi: “La struttura originaria” (Brescia, La Scuola; Milano,
Adelphi); “Fichte” (Brescia, La Scuola, poi in Fondamento della contraddizione,
Milano, Adelphi); Filosofia della prassi,
Milano, Vita e Pensiero, Milano, Adelphi);
“Ritornare a PARMENIDE di VELIA” -- Rivista di filosofia neoscolastica», poi in
Essenza del nichilismo, Brescia, Paideia, Milano, Adelphi, Ritornare a
Parmenide. Poscritto -- «Rivista di filosofia neoscolastica», poi in Essenza
del nichilismo, Brescia, Paideia, Milano, Adelphi, Essenza del nichilismo.
Saggi, Brescia, Paideia, Milano, Adelphi, Gl’abitatori del tempo. Cristianesimo,
marxismo, tecnica (Roma, Armando,
Téchne); “Le radici della violenza” (Milano, Rusconi, IMilano, Rizzoli);
“Legge e caso, Piccola Biblioteca Milano, Adelphi,); “Destino della necessità.
Κατὰ τὸ χρεών, Biblioteca Filosofica Milano, Adelphi); “A Cesare e a Dio” (Milano,
Rizzoli, La strada, Milano, Rizzoli); “La filosofia antica” (Milano, Rizzoli);
“La filosofia moderna” (Milano, Rizzoli, “ Il parricidio mancato, Collana Saggi.
Milano, Adelphi, La filosofia contemporanea. Da Schopenhauer a Wittgenstein,
Milano, Rizzoli, Traduzione e
interpretazione dell'«Orestea» d’Eschilo, Milano, Rizzoli, La tendenza fondamentale del nostro tempo, Milano,
Adelphi, “Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Biblioteca Filosofica
n.6, Milano, Adelphi); “Antologia filosofica dai Greci al nostro tempo, Milano,
Rizzoli); “La filosofia futura” (Milano, Rizzoli); “Il nulla e la poesia. Alla
fine dell'età della tecnica: LEOPARDI, Milano, Rizzoli); “Filosofia. Lo
sviluppo storico e le fonti” (Firenze, Sansoni); “Oltre il linguaggio” (Milano,
Adelphi); “La guerra” (Milano, Rizzoli); “La bilancia” (Milano, Rizzoli); “Il
declino del capitalismo” (Milano, Rizzoli); “Sortite -- sui rimedi e la gioia”
(Milano, Rizzoli); “Metafisica” (Milano, Adelphi); “Pensieri sul Cristianesimo”
(Milano, Rizzoli); “Tautótēs, Biblioteca Filosofica Milano, Adelphi, La filosofia dai Greci al nostro tempo” (Milano,
Rizzoli); “La follia dell'angelo” (Milano, Rizzoli); “Leopardi -- Cosa arcana e
stupenda” (Milano, Rizzoli); “La tecnica” (Milano, Rizzoli); “La buona fede”
(Milano, Rizzoli); “L'anello del ritorno” (Biblioteca Filosofica Milano,
Adelphi); “Crisi della tradizione occidentale” (Milano, Marinotti); “La legna e
la cenere, ovvero, dell’esistenza” (Milano, Rizzoli); “Il mio scontro con la chiesa”
(Milano, Rizzoli); “La Gloria. ἄσσα οὐκ ἔλπονται: risoluzione di destino della
necessità (Biblioteca Filosofica, Milano, Adelphi); “Oltre l'uomo e oltre Dio”
(Genova, Melangolo, Lezioni sulla politica. I Greci e la tendenza fondamentale
del nostro tempo” (Milano, Marinotti); Tecnica e architettura” (Milano, Cortina);
Dall'Islam a Prometeo, Milano, Rizzoli); Fondamento della contraddizione,
Milano, Adelphi,. Nascere. E altri problemi della coscienza (Milano, Rizzoli, Milano, BUR,. Sull'embrione, Milano, Rizzoli, Il
muro di pietra. Sul tramonto della tradizione filosofica, Milano, Rizzoli); Ricordati
di santificare le feste” (Milano, AlboVersorio); “L'identità della follia” (Milano,
Rizzoli). “Oltrepassare” (Biblioteca Filosofica, Milano, Adelphi); Etica e
Scienza” (Milano, Editrice San Raffaele, Immortalità e destino, Milano, Rizzoli, La
buona fede. Sui fondamenti della morale, Milano, Rizzoli, Volontà, fede e
destino, Grossi, Milano-Udine, Mimesis); L'etica del capitalismo e lo spirito
della tecnica, e sulla pena di morte, Milano, AlboVersorio, La ragione, la fede,
Milano, AlboVersorio, L'identità del
destino. Milano, Rizzoli, Il diverso come icona del male, Torino, Boringhieri, Democrazia, tecnica, capitalismo, Brescia,
Morcelliana, Discussioni intorno al
senso della verità, Pisa, ETS, La guerra e il mortale, Taddio, Milano-Udine,
Mimesis. Macigni e spirito di gravità. Riflessione sullo stato attuale del
mondo, Milano, Rizzoli,. L'intima mano, Biblioteca Filosofica, Milano,
Adelphi); Volontà, destino, linguaggio. Filosofia e storia dell'Occidente,
Perone, Torino, Rosenberg e Sellier, Istituzioni di filosofia, Brescia, Morcelliana);
Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia, Milano, Rizzoli,; Milano, BUR,. La
bilancia. Milano, BUR, Del bello, Milano, Mimesis,, La morte e la terra, Biblioteca Filosofica
Milano, Adelphi,. Capitalismo senza futuro, Rizzoli, Milano,. Educare al
pensiero, Brescia, La Scuola,. Pòlemos, Milano, Mimesis, Intorno al senso del
nulla, Milano, Adelphi,. L'etica del capitalismo e lo spirito della tecnica. E
la pena di morte, Milano, AlboVersorio, La potenza dell'errare. Sulla storia
dell'Occidente, Milano, Rizzoli,. Il morire tra ragione e fede, Venezia,
Marcianum, Parliamo della stessa realtà? Per un dialogo tra Oriente ed
Occidente, Milano, Jaca, Sul divenire. Modena, Mucchi,. Piazza della Loggia.
Una strage politica, I. Bertoletti, Brescia, Morcelliana,. In viaggio con
Leopardi. La partita sul destino dell'uomo, Milano, Rizzoli,. Dike, Biblioteca
Filosofica, Milano, Adelphi,. Cervello, mente, anima, Brescia, Morcelliana, Storia,
Gioia, Biblioteca Filosofica Milano, Adelphi, Il tramonto della politica.
Considerazioni sul futuro del mondo, Milano, Rizzoli); “L'essere e l'apparire” Brescia,
Morcelliana, Dell'essere e del possibile, Milano, Mimesis,. Sulla verità e la morte, Milano, Rizzoli, Il
nichilismo e la terra, Milano, Mimesis, Testimoniando il destino, Biblioteca
Filosofica, Milano, Adelphi, Ontologia e
violenza. Milano, Mimesis, Aristotele, I
principi del divenire. Libro primo della Fisica (Brescia, La Scuola). Filosofo
dell'eterno. Il mio ricordo degl’eterni. Autobiografia, Milano, Rizzoli, “Parmenideo” -- VELIA, su la Repubblica, Scianca, Addio a S.: ecco chi era il grande
filosofo dell'essere, su Il Primato Nazionale, Bovegno, il filosofo cittadino onorario, su
giornale di brescia «L'esperimento di
Barzaghi è importante e va seguito con attenzione. Immerso nell'alienazione, il
cristianesimo è come una casa invisibile di cui qualcuno dice, indicando un
banco di nebbia: "Là c'è una casa". Che cosa si riuscirebbe a vedere
se la nebbia (l'alienazione) diradasse? Forse una casa. Ma forse nulla. Nel
primo caso, il cristianesimo avrebbe ancora qualcosa da dire, e di grande» (S.,
Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa). «Rigoroso fino alla fine. Solo un po' più
triste», in Brescia oggi, Emanuele
Severino, il tributo si celebrerà a Palazzo Loggia, in Bresciaoggi. Ecco perché
la giovane Italia va in malora", su il Fatto Quotidiano, Odifreddi, La
scienza sotto tiro, su la Repubblica, Fusaro e Didero, Filosofico. Miligi et
al., "Sguardo su S.", su filosofia.) "filosofo poetante" cf. La Guerra, occorre
riconoscere che le sue posizioni, qualunque sia il giudizio che si pensa di
dover dare su di esse, non sembrano aver avuto, perlomeno fino ad ora, un vero
e proprio seguito tra coloro che si occupano professionalmente di filosofia.»
(Cfr. Visentin, Il neo-parmenidismo italiano. Le premesse storiche e filosofiche,
Napoli, Bibliopolis) Neo-parmenidismo,
su filosofia. Se noi potessimo mai non
essere, già adesso non saremmo. La prova più certa della nostra immortalità è
il fatto che noi ora siamo. Perché ciò dimostra che su di noi il tempo non può
nulla: in quanto è già trascorso un tempo infinito. È del tutto impensabile che
qualcosa che è esistito una volta, per un momento, con tutta la forza della
realtà, dopo un tempo infinito possa non esistere: la contraddizione è troppo
grossa. Su questo si fondano la dottrina cristiana del ritorno di tutte le
cose, quella induista della creazione del mondoche si ripete continuamente a
opera di Brahma, e dogmi analoghi di Platone e altri filosofi.» (A.
Schopenhauer) Sperduto, Vedere
senza vedere ovvero Il crepuscolo della morte, Schena ed., Fasano di
Brindisi, "Ritornare a Velia", in Essenza del Nichilismo,
Brescia, Aristotele, Liber de Interpretatione, essenza del nichilismo, follia
estrema ed estremamente nascosta: la persuasione che gli essenti, in quanto
tali, escano dal loro non essere e vi ritornino: la persuasione che vi sia un
tempo in cui l'essente (prima di essere e dopo il suo essere) sia nulla, che il
non niente sia niente: la persuasione che è il culmine in cui si mantiene
l'intera storia dell'Occidente. Destino della necessità, Milano, Adelphi, L'alienazione
dell'Occidente. Quadrivium, Genova); “La struttura originaria, Milano, Adelphi,
Sito web Amadori F., Il libero arbitrio, "Filosofia" Antonelli,
Verità, nichilismo, prassi. Roma, Armando, Berto F., La dialettica della
struttura originaria, Padova, Poligrafo, Crapanzano, L'immutabilità del
diveniente. Roma, Gruppo Albatros Il Filo, Cusano, Capire S.. La risoluzione
dell'aporetica del nulla, Milano, Mimesis Cusano N., S. Oltre il nichilismo,
Brescia, Morcelliana,. Sasso, Dal divenire all'oltrepassare. La differenza ontologica,
Roma, Aracne, Dal Sasso A., Creatio ex nihilo. Tra attualismo e metafisica” (Milano,
Mimesis); Giovanni, Sul divenire. Gentile e S., Napoli, Scientifica, Paoli, “Furor
Logicus” (Milano, Angeli); Aporia del fondamento, Napoli, Città del Sole); Fabro,
L'alienazione Genova, Quadrivium, Goggi, Al cuore del destino. Milano, Mimesis
Goggi, Vaticano. Magliulo, Quaestiones disputatae, Milano-Udine, Mimesis, Mauceri,
La hybris originaria. Cacciari Napoli-Salerno, Orthotes, Messinese, L'apparire
del mondo. sulla struttura originaria Milano, Mimesis, Messinese, Il paradiso
della verità. Pisa, ETS, Messinese, Stanze della metafisica. Carlini,
Bontadini, Brescia, Morcelliana,. Messinese, Né laico, né cattolico. S., la
Chiesa, la filosofia, Bari, Dedalo, Petterlini, Brianese e Goggi, Le parole
dell'essere. Per S., Milano, Mondadori, Poma, Necessità del divenire. Una
critica a S., Pisa, ETS,. Saccardi, Metafisica e parmenidismo – I veliani, Il
contributo della filosofia neoclassica, Napoli-Salerno, Orthotes,. Scilironi, Ontologia
e storia, Abano Terme, Francisci, Scurati, Pensare l'identità. Milano, Alboversorio, Simionato, Nulla e
negazione. L'aporia del nulla (Pisa, Plus); Soncini, Il senso del fondamento in
Genova, Marietti, Spanio, Il destino dell'essere. Brescia, Morcelliana,.
Sperduto, Vedere senza vedere ovvero Il crepuscolo della morte, Fasano di Brindisi,
Schena, Sperduto, Maestri futili? Annunzio, Levi, Pavese, Roma, Aracne, Sperduto,
Il divenire dell'eterno. Su S. (ed ALIGHIERI), Prefazione di Messinese, Roma,
Aracne,. Testoni, S., La follia dell'angelo, Milano, Mimesis, Tarca, Verità, alienazione e metafisica. Rilettura critica
della proposta filosofica di S., Treviso, Mevio Washington, Valent, Cura e
salvezza. Saggi dedicati, Bergamo, Moretti & Vitali, Visentin M., Tra
struttura e problema. Note intorno al pensiero di E. Severino, Venezia,
Marsilio [ora in Il neoparmenidismo italiano, Dal neoidealismo al
neoparmenidismo, Napoli, Bibliopolis, Metafisica Ontologia Episteme Nichilismo
Leopardi Velia Valent Galimberti. Treccani Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Associazione spazio interiore ambiente, Ursini. EMANUELE
SEVERINO LA POTENZA DELL'ERRARE Sulla storia dell'Occidente Alle radici della storia dell’Occidente, in
concetti come azione, volontà, potenza, si trova l’alienazione più profonda della verità, ossia l’estremo
disfarsi della verità: nel senso in cui ci si libera di una ricchezza rimanendo impoveriti. A questo principio
cruciale della filosofia di Emanuele Severino è dedicato questo libro che, parlando di arte, cristianesimo,
politica, diritto, economia, mostra in azione l’essenza del nichilismo, il più potente dei meccanismi
dell’errare. Quando si parla di “nichilismo”» scrive l’autore si intende per lo più il crollo dei valori
tradizionali. Inoltre, solitamente, il nichilismo è una crisi soltanto descritta, ossia è presentato come un fatto
che accade, ma che sarebbe potuto o potrebbe non accadere.» Queste pagine ci esortano invece a prestare
ascolto alla spinta che ha provocato l’inevitabile accadere della resa al nulla. Da Dante e Leopardi fino allo
stato-azienda e ai governi tecnici, la riflessione di Severino svela il meccanismo oscuro che culmina nel
rovesciamento del mezzo in scopo. Il risultato è un’analisi che porta allo scoperto come lo “scambio delle parti”
derivi dall’origine di ogni alienazione del destino della verità e che dimostra — con nuovi scorci e riferimenti
— come la malattia nascosta (il culmine dell’errare) sia la persuasione che le cose siano nulla, e il
viverle come un nulla. Accademico dei Lincei, è autore di saggi fondamentali.
Scrive regolarmente sul “Corriere della Sera”. Tra i suoi sagi più famosi ricordiamo
l’autobiografìa 1/ mio ricordo degli
eterni (Rizzoli, ora in BUR), Capitalismo senza futuro (Rizzoli) e Intorno
al senso del nulla (Adelphi) e La
potenza dell’errare Sulla storia
dell’Occidente RCS Libri S.p.A., Milano. In copertina: Art Director: Francesca Leoneschi Graphic Designer: Andrea Cavallini /
f/zeWorldo/DOT rizzoli.eu La potenza
dell’errare. Per richiamare e introdurre
Anche la storia dell’Occidente presenta un insieme di processi in cui il mezzo di cui ci si serve,
agendo in modo più o meno complesso,
diventa lo scopo (il nuovo scopo) di tale
agire e lo scopo iniziale diventa il mezzo per realizzare il nuovo scopo. Si può dire che tale
rovesciamento è uno scambio delle
parti. Altri saggi di S. si rivolgono a
questo tema. La sezione prima del saggio
intende tuttavia mettere in luce la
relazione tra alcuni luoghi apparentemente distanti in cui quel rovesciamento si manifesta: arte,
cristianesimo, politica, diritto,
economia. Ma intende anche richiamare che alla
radice non solo di tale rovesciamento, ma dello stesso rapporto tra mezzo e scopo, cioè dello stesso
concetto di azione-volontà-potenza si
trova Yalienazione più profonda della
verità, ossia il disfarsi della verità, in modo estremo, da parte della storia dell’Occidente. Disfarsi,
nel senso in cui ci si disfa di una
ricchezza rimanendo impoveriti, disfatti.
Appunto per questa alienazione il rovesciamento in cui consiste lo scambio delle parti di cui si è
detto appartiene all’ essenza del
nichilismo (a sua volta richiamata nella sezione prima). Tale essenza è il più potente dei
meccanismi delVerrare. Quanto più
l’errore è profondo, tanto più è
cresciuta la potenza. L’errore è potenza. E viceversa. Non può quindi esistere un potenza buona e una cattiva:
la potenza è, in quanto tale, errare e
ferrare è la forma originaria di ogni
violenza e malvagità. L’impotenza, tuttavia, non è altro che la volontà di potenza fallita,
frustrata. E la potenza ottenuta e vincente
è soltanto l’ illusione di aver ottenuto e
di aver vinto. L’essenza del nichilismo esprime nel modo più radicale un evento che è essenzialmente più
profondo di ogni peccato originale.
L’illusione estrema è la fede (posseduta da uomini e dèi) di avere la potenza
di condurre le cose dal nulla all’essere
e dall’essere al nulla. È però
possibile parlare di errare e di errore, di alienazione della verità, solo se la verità appare, solo
se si manifesta ciò che è opportuno
chiamare destino della verità per indicare
qualcosa il cui contenuto è abissalmente diverso da tutto ciò che, lungo Vintera storia dell’Occidente, è
stato chiamato verità. Il capitolo VI
della sezione prima richiama appunto la
configurazione di fondo di tale diversità. Con questo si sta insieme dicendo che l’alienazione della
verità non è soltanto un evento che
appartenga alla storia del pensiero
filosofico, ma è il terreno in cui vanno via via crescendo le opere, le istituzioni, le res gestae - e
quindi anche, e certo innanzitutto, le
molteplici forme culturali - dell’Occidente e
quindi anche ogni historia rerum gestarum. E forse è il caso di avvertire già qui che,
anche queste pagine, per lo più,
intendono parlare delle cose segrete,
delle più segrete, a lettori che non hanno la filosofìa in cima ai loro pensieri giacché le cose più segrete
sono peraltro manifeste, e in piena
luce, nel più profondo di ogni uomo (e
forse non solo), ed è inevitabile che trapelino nel deserto in cui l’uomo è gettato dall’alienazione della
verità. La forma in cui oggi culmina lo
scambio delle parti rimane quella che
altre volte ho indicato, cioè il rapporto con la tecnica, dove tutte le forze oggi dominanti
(i luoghi indicati all’inizio) sono
destinate ad assumere come scopo l’aumento
indefinito della potenza, lo scopo cioè nel perseguimento del quale la tecnica consiste (cfr. E.S.,
Capitalismo senza futuro, Rizzoli 2012).
Tuttavia quest’ultima forma è preceduta e
accompagnata da altre forme dove tale scambio si costituisce tra quelle forze stesse (ognuna peraltro
destinata alla fine, come si sta
dicendo, a rinunciare alla volontà di essere lo scopo che subordina a sé gli
altri e ad assumere come scopo l’aumento
indefinito della potenza). Ad esempio: lo scambio esistente tra felicità e verità - per cui
dapprima la verità viene ricercata per
essere veramente felici e poi si vuole esser felici per poter contemplare la verità con una
felicità diversa da quella che serve a
produrre tale contemplazione (cfr. E.S., La
buona fede, Rizzoli 1999, 5-6; Dall’islam a Prometeo, Rizzoli 2003, 7). Altri esempi: lo scambio che si
produce tra cristianesimo e arte
cristiana (cfr. sezione prima, cap. I), tra
individuo e Stato, tra individuo e capitale, tra merce e denaro - lo scambio marxiano, questo, che ripropone
lo scambio aristotelico tra economia e
crematistica (dove l’uso del denaro non
ha come scopo l’acquisto e il consumo della merce, ma l’aumento indefinito del denaro stesso). In
generale: nella storia dell’Occidente la
verità sta alla felicità come l’arte
cristiana sta al cristianesimo, come Dio o lo Stato stanno all’individuo, come il denaro sta alla merce,
come la tecnica sta al diritto (naturale
e positivo) e, infine, sta a tutte le forze
che ancora oggi intendono servirsi della tecnica come mezzo per realizzare i loro scopi. Il primo termine
di queste coppie è ciò che, assunto
inizialmente come mezzo per realizzare il
secondo termine, diventa lo scopo di quest’ultimo, che diventa il mezzo. Come volontà di aumentare aU’infinito la
propria potenza, e riuscendo a essere la
potenza suprema, cioè vincente su ogni
altra, l’Apparato scientifico-tecnologico non può non essere planetario, destinato quindi a subordinare a
sé ogni forma politica dello Stato e
ogni trust sovranazionale che sul
fondamento della potenza economica sia riuscito a subordinare a sé tale forma. L’Apparato è
cioè destinato a costituirsi come
Superstato planetario, essenzialmente diverso
dalle logiche politiche che hanno condotto a organizzazioni internazionali come la Società delle Nazioni
e l’Onu. La forma politica dello Stato nasce come scopo che gli individui o
i gruppi sociali si danno per
sopravvivere, rinunciando ai propri
impulsi (il cui soddisfacimento costituiva il loro scopo iniziale) e riconoscendo nello Stato il monopolio
legittimo della violenza-potenza. In
modo analogo, la conflittualità oggi
esistente tra gli Stati (che ripropone il bellum omnium contro, omnes) spinge verso la forma estrema
di Superstato, il Leviatano supremo in
cui consiste l’Apparato della tecnica (e
di cui il Duumvirato Usa-Urss è stato una prima, ancora acerba ma significativa anticipazione). Esso riesce a essere il supremo monopolio
legittimo della potenza quando riesce a
comprendere il senso autentico della
propria potenza perché sente la voce del pensiero filosofico che mostra fimpossibilità di ogni Limite
assoluto all’agire dell’uomo e quindi
all’agire tecnico, che più di ogni altra forza
è capace di oltrepassare i limiti dell’uomo. Ascoltando quella voce, l’Apparato ha la capacità di mostrare
l’illegittimità di ogni Limite assoluto
e di ogni altra forma di potenza. Anche
ma non solo in questo senso la filosofia è la madre della potenza estrema. Ancora una volta la
filosofia degli ultimi due secoli - e
propriamente il suo sottosuolo essenziale e per lo più inesplorato (cfr. sezione prima, cap. II) - è
il fondamento della più grande
trasformazione storica del pianeta: quella
appunto dove la tecnica, ricevendo dalla filosofia la coscienza della propria forza, riesce a subordinare a
sé ogni altra forza. Questa,
sommariamente indicata, è la configurazione
complessiva di ciò che abbiamo chiamato scambio delle parti e dell’alienazione nichilistica della
verità che sta alla radice di esso. Ad
alcune delle forme di tale scambio si
rivolgono queste pagine. Quando
si parla di nichilismo si intende per lo più il
crollo dei valori tradizionali. Inoltre, solitamente, il 10
nichilismo è una crisi soltanto descritta, ossia è presentato come un fatto che accade, ma che sarebbe
potuto o potrebbe non accadere. Questo
libro mette appunto in risalto
(richiamandosi ad altri miei scritti) l’incapacità di prestare ascolto alla spinta che lo ha fatto
inevitabilmente accadere, e al
significato di questa inevitabilità. Ma mette in risalto anche qualcosa di ben più decisivo, giacché la
definizione usuale di nichilismo,
nonostante la sua visibilità, è soltanto una
conseguenza del senso autentico, ossia di ciò che abbiamo chiamato Yessenza - peraltro nascosta del
nichilismo. Inutile ogni rimedio se si
ignora la natura della malattia. La malattia
nascosta (il culmine dell’errare) è la persuasione che le cose siano nulla, e il viverle come un nulla.
Tanto più profonda, la malattia, quanto
meno si riconosce di esserne affetti. Ma una
volta accertata la vera malattia anche il senso del rimedio mostra un volto essenzialmente diverso. Questo tema sta al centro di tutto il mio
lavoro filosofico, ma è prevalentemente
accessibile a chi ha già una certa confidenza
con il pensiero filosofico. Come già ho accennato, questo libro intenderebbe invece coinvolgere
nella riflessione su questo tema - che è
la radice più profonda di ogni attualità
- i lettori che tale confidenza non hanno.
Intenderebbe, appunto, avvicinarli all’essenza del nichilismo e della potenza - quindi al destino della
verità, cioè allo stare autenticamente
oltre tale essenza. Il linguaggio di queste pagine proviene da un gruppo di
scritti (alcuni inediti e altri rielaborati),
pubblicati prevalentemente sul Corriere della Sera e sul settimanale Liberal.
Il tema di S. si rivolge alla poesia di Dante
e di Leopardi può lasciare perplessi. Il fiore! Che serietà può avere rivolgersi alla poesia - e per di più
con un’immagine così scontata come il
fiore - in un tempo tragico ed
enigmatico come il nostro, dove i popoli poveri intendono non essere esclusi dalle ricchezze dei ricchi
e dove la tecnica sta avviandosi al
dominio su tutte le altre forze della civiltà?
La lotta contro il dolore e la morte si è fatta troppo dura perché sia ancora lecito rivolgersi alla
poesia e ai fiori. Ma dobbiamo subito
chiederci qui: la poesia non ha proprio
nulla a che vedere con la lotta contro il dolore e la morte? È così scontato che la poesia
appartenga al regno del superfluo?
Queste domande non intendono alludere al luogo
comune che, dopo aver chiuso la poesia nella dimensione dell’estetica, crede che la poesia sia
qualcosa di indispensabile per le anime
belle. Oggi, indebolendosi, la poesia è
diventata anche questo. Ma alVorigine la
poesia appartiene invece al gesto essenziale che l’uomo compie contro il dolore e la morte.
Appartiene al rimedio essenziale. In principio, il gesto e il rimedio
essenziale sono la festa arcaica.
All’origine la festa unisce e fonde in sé ciò che in seguito si separa e diventa canto, mito, rito,
danza, poesia, arte, sapienza, saggezza,
filosofia, tecnica, scienza (cfr. E.S.,
Dall’islam a Prometeo, cit., 8). Quanto più la poesia si allontana dall’originaria casa festiva, tanto
più si indebolisce e diventa oggetto di
godimento estetico - cioè qualcosa che può
certamente sembrare superfluo rispetto ai bisogni primari dell’uomo. E invece, nell’antica lingua greca
poesia - poìesis - significa produzione. La poesia appartiene cioè
all’ambito della potenza. Come gli altri
fattori della festa. Anche in seguito la grande poesia conserva le tracce
di quell’antica potenza. Nel canto XIX
del Paradiso (w. 22-24) Dante si rivolge
così ai beati: O perpetui fiori de
l’eterna letizia, che pur uno parer mi
fate tutti i vostri odori. Sono, i
beati, i perpetui fiori della letizia divina. Fioriscono dall’albero della letizia eterna, che li
unisce in modo che i loro odori, per i
quali essi si distinguono l’uno dall’altro, paiono e sono tuttavia un unico profumo: pur uno. Mezzo millennio dopo, Leopardi compone La
ginestra o il fiore del deserto.
Rivolgendosi alla ginestra il canto dice (w.
32-37); Or tutto intorno una
ruina involve, dove tu siedi, o fior
gentile, e quasi i danni altrui
commiserando, al cielo di dolcissimo
odor mandi un profumo che il deserto
consola. Il riferimento a Leopardi e a
questo suo canto può sembrare
estrinseco. Eppure il pensiero di Leopardi porta al tramonto l’universo in cui si muove il
pensiero di Dante. Leopardi, prima ancora
di Nietzsche, e nel modo più radicale,
mostra l’impossibilità di ogni eterno, di ogni Dio, di ogni eterna letizia. Non si tratta dell’opinione,
della fantasia, del sentimento di un poeta
infelice e deluso. Leopardi, come
altrove ho mostrato, apre la strada della filosofia del nostro tempo: un percorso inevitabile che tuttora è
in attoed è la radice del distacco del
nostro tempo dalla grande tradizione
occidentale, che a sua volta ha la propria radice nel pensiero filosofico dei Greci. Di questa radice Dante
è pienamente e potentemente consapevole.
Quando all’uomo non basta più la letizia della
festa arcaica, nasce la letizia della filosofia, che per i Greci è
la massima di cui l’uomo possa godere
sulla terra. Ma, in precedenza, la
festa è il primo rimedio c ontro la
paura del dolore e della morte perché è l ’immagine della lotta umana contro di essi. Nella festa l’uomo si
identifica a questa immagine. L’immagine
si solleva e si libra al di sopra della
lotta: già per questo librarsi si sente libera dal pericolo e dalla paura, ossia è vittoria, lotta vincente,
godimento della salvezza. La paura che è vinta dalla festa è più
originaria e angosciante della paura di
chi, ormai all’interno del regno della
ragione e della fede cristiana ha paura perché si è allontanato dalle leggi divine, dalla diritta
via della salvezza. Lo dice anche Dante
all’inizio deìYInferno. La selva oscura è
la lontananza da Dio, dalla quale proviene la paura; ma questa selva paurosa Tant’è amara che poco è più morte. ( Inferno, I, v. 7) È tanto amara che la morte è poco più amara.
Il che vuoi dire che la paura della
morte è ancora più amara della paura
suscitata dalla lontananza di Dio. È questa ancor più amara paura a essere inizialmente vinta dalla festa
arcaica. Il deserto della morte è dunque
ancora più originario del gran diserto
(Ibid., v. 64) della selva dove Dante incontra Virgilio. La paura che non è ancora raggiunta e vinta
dall’evocazione dell’immagine festiva è
essenzialmente più radicale di quella di
chi, dopo aver abitato quell’immagine, se ne è allontanato credendo di trovare altrove il rimedio, e
teme le conseguenze di questo suo gesto
- e tuttavia, anche e proprio per questo suo timore è pur sempre in rapporto
con la dimensione festiva e
salvifica. Di quel più originario e
pauroso deserto, da cui l’uomo ha sempre
tentato di salvarsi, parla il canto della Ginestra. Il fiore del deserto il deserto consola. Nel
mondo di Dante i perpetui fiori
dell’eterna letizia sono lo stato più alto
dell’uomo. Ma Leopardi vede l’impossibilità di questa letizia: dal deserto che è il regno della morte non si
può uscire. La ginestra è il poeta
stesso; il poeta è insieme il filosofo; il
genio è l’unità di poesia e filosofia, e questa unità è lo stato più alto che l’uomo può raggiungere prima di
essere afferrato dal nulla della morte
(e dopo che la tecnica ha invano tentato
di salvarlo). Leopardi vive e sa di vivere questo stato supremo, effimero paradiso terrestre; sa di essere il genio.
Il genio della ginestra consola il
deserto perché sa che non ci si può
salvare dal deserto della morte. La consolazione consiste nella poesia pensante, nel pensiero poetante. (Cfr.
E. S., Il nulla e la poesia. Alla fine
dell’età della tecnica: Leopardi, Rizzoli 1990 e Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e
Leopardi, Rizzoli 1997). Nell’incontro
di Dante col cielo, all’inizio del viaggio
nell’oltretomba, la parola consolazione è invece assente in quanto riferita alla paura del poeta. Dal cielo
giunge per lui la salvezza. Quando
Virgilio glielo dice, Dante si sente come i
fiori che escono dal gelo notturno - e questo suo stato è la prima prefigurazione della rosa dei
beati: Quali i fioretti, dal notturno
gelo chinati e chiusi, poi che ’l sol li
imbianca si drizzan tutti aperti in loro
stelo tal mi fec’io.(Inferno) Dalla paura del gelo notturno al calore
eterno - un sol calar di molte brace -,
da cui si leva l’unico odore dei fiori
dell’eterna letizia. Volendo essere il rimedio contro la paura
originaria del dolore e della morte, la
festa arcaica vuol essere sempre più
potente. Questa volontà attraversa l’intera storia dei mortali e oggi si presenta come civiltà della tecnica.
Potenziamento crescente della festa, che
è potenziamento delfimmagine festiva
della lotta in cui la vita consiste. Il
potenziamento delfimmagine festiva procede lungo due vie: quella del contenuto delfimmagine e
quella della forma, cioè del modo in cui
l’immagine esprime il contenuto. Ma
appunto perché la potenza originaria della festa sdoppia la via della propria crescita, appunto per questo
l’originaria potenza festiva si
indebolisce. Il potenziamento del contenuto è il sorgere e l’articolarsi del mito; il
potenziamento della forma è il sorgere e
l’articolarsi di ciò che sarà chiamato arte,
poesia, tecnica. Gli abitatori originari della casa festiva tendono a separarsi e la separazione diviene
violenta e irreparabile quando il
contenuto sapienziale del mito non sa
resistere alla propria volontà di sapienza e diventa lògos, ragione, filosofìa. Il mito, infatti, vuole
sapere per salvare. Ma la volontà di
salvezza è massimamente esigente: richiede che il sapere sia capace di resistere a qualsiasi
dubbio; e ciò che possiede in modo
assoluto questa capacità è la verità, intesa
come i Greci per la prima volta l’intendono, cioè come sapere che non può essere in alcun modo smentito.
Questo il senso della verità che, lungo
l’intera tradizione dell’Occidente,
giunge fino al XIX secolo - fino a Leopardi. In questo senso della verità il pensiero di Dante è
essenzialmente immerso, e in modo
pienamente consapevole. È questo senso
radicale della verità a separarsi dal mito e a
scorgere e insieme a produrre il differenziarsi; il separarsi e dunque l’indebolimento degli abitatori
dell’antica casa festiva. Li separa da sé e gli uni dagli altri. Separati, è
inevitabile che si trovino estranei gli
uni agli altri, dunque sostanzialmente in
conflitto e pertanto privati della forza a essi conferita dalla loro unità originaria. Arte, poesia, tecnica,
sapienza incominciano a vivere di vita
propria. La loro capacità di salvare dal
dolore e dalla morte si prolunga, ma indebolita. Pochi oggi credono che la poesia o la
filosofia possano salvare dal dolore e
dalla morte. E il discorso può essere esteso in
consistente misura alla religione.
Eppure, per quasi due millenni e mezzo la verità evocata dalla tradizione filosofica è la via lungo la
quale procede non solo Finterà cultura,
ma l’intera civiltà dell’Occidente. È la
diritta via, la verace via di cui parla Dante. Nascendo, la filosofia porta alla luce la forma estrema di
ciò che per il mortale è il pericolo:
intende il dolore come l’andare nel nulla
da parte dei piaceri, e la morte come l’andare nel nulla, da cui non c’è ritorno, da parte della
vita intera. E per poter così intendere
il dolore e la morte la filosofia deve
pensare il significato radicale del nulla e dell’essere. La filosofia salva il mortale perché essa crede
che la verità esiga che quanto più
conta, nella vita dell’uomo, sia già da sempre
salvo dal nulla, cioè sia in quell’Essere, o addirittura sia quell’Essere, già da sempre salvo dal nulla,
che è il divino. In questa concezione
del divino si inserivano l’esperienza
cristiana e la riflessione teologica su di essa. Dante è uno dei massimi testimoni di questa inscrizione. Ma i
testimoni non aggiungono alcunché al testimoniato. Questo significa che Dante non è soltanto un
testimone. Si sa che il concetto che
Dante possiede della poesia va in direzione
opposta al suo fare poetico. Egli non fa quel che pensa. Pensa che la poesia sia soltanto bella menzogna
qualora non si faccia banditrice del
vero, testimone della verità che sta
nascosta sotto il velame della favola e il favoloso e ornato parlare. Dante pensa della poesia quello che
pensa Platone. E anche di tutto il gran
volume della sapienza greco-latina-
cristiana - comprendente anche la configurazione dell’oltretomba e i viaggi che in esso si
possono compiere -, anche di tutto
questo egli pensa, nella sostanza, quel che è già stato pensato, per quanto rilevanti siano
alcune sue prese di posizione. Scrive allora la Commedia solo per esprimere
in un favoloso e ornato parlare la
verità già pensata da altri? Per questo
impegna e consuma tutta la sua vita?
Impegna e consuma tutta la sua vita per qualcosa di essenzialmente più decisivo. Anche senza
rendersene conto, con la Commedia egli
intende produrre la nuova immagine
salvifica della festa: intende rinnovare la festa che salva, consentendo ai mortali di sopportare il
dolore e la morte. Questo suo gesto
scuote fino alle radici il grande albero della
tradizione. Che Dante scriva la
Commedia significa cioè che per lui la
grande sapienza della tradizione greco-cristiana e la stessa vita a essa conforme hanno una potenza salvifica
inferiore a quella della dimensione dove
la verità e la vita adeguata alla verità
sono il contenuto del canto e della poesia. Bella menzogna e velame della favola, la
poesia, quando il suo contenuto non è la
verità; ma più potente della nuda verità quando, avendo come contenuto la
verità, le conferisce una potenza
salvifica ben superiore a quella che la
verità possiede di per sé sola.
La poesia della verità parla inoltre a tutti, anche agli indotti. La difesa di Dante della lingua volgare, su
cui egli fa crescere il proprio
linguaggio poetico, non è un fatto semplicemente letterario o astrattamente culturale, ma
esprime la coscienza che ad attendere e
a tendere alla salvezza della verità sono
tutti i mortali, e coloro, tra essi, che sono gli indotti, possono identificarsi a quella rinnovata immagine
festiva, che è la verità della
filosofia, solo se tale immagine si presenta non nella sua cruda e astrale concettualità, ma,
attraverso un ulteriore rinnovamento,
con le parole terrene della poesia.
Unendo poesia e filosofia (e, sul tronco della filosofia, il cristianesimo), Dante fa cenno all’antica
festa di ritornare presso i mortali. Ciò
significa che troppo flebile rimembranza
è per lui la liturgia cristiana - in cui peraltro si sente ancora forte l’eco della festa arcaica. Dante pensa
che dalla poesia non possa separarsi la
festa della verità e della cristianità -
cioè il luogo dove sulla terra il mortale sperimenta la propria salvezza e la propria destinazione all’eterna
letizia. La liturgia cristiana deve
diventare liturgia poetica. Questo
pensiero di Dante non si mantiene dunque sotto la protezione della cattedrale del passato:
scava a fondo nel terreno del suo tempo
e sbuca in un altro emisfero. In tale
pensiero si dice che lo scopo dell’esistenza è l’immagine festiva come unità di poesia e di filosofia. Dante
non si limita a essere un grande
testimone della situazione dove lo scopo
dell’esistenza, sulla terra, è la verità cristianamente concretantesi e la vita a essa adeguata: al
di là delle sue convinzioni sulla
poesia, Dante, nel suo agire poetico, evoca la
poesia come fattore indispensabile all’immagine festiva che consente
all’uomo di sopportare il dolore e la morte.
Certo, la poesia è terrena; a differenza della nuda verità parla, oltre che ai sapienti, anche agli
indotti; mentre nella letizia eterna del
paradiso nessuno è indotto. Nell’eterna
letizia la poesia, in quanto indispensabile alla verità, è cioè destinata a scomparire come scompare la fede
- giacché la fede è l’assenso alle cose
che non si vedono (non apparentia, dice
l’apostolo Paolo), mentre nel paradiso le cose
si mostrano e non hanno bisogno della fede. Ma perché qui, sulla terra, si libri
l’immagine festiva e salvifica è
necessario che alla fede, che cresce sul tronco della verità filosofica, si unisca anche la poesia.
E Dante è pur sempre un essere terreno
quando giunge al cospetto dei fiori
dell’Eterno e della candida rosa. Rispetto alla verità che si mostra nel paradiso, le forme visibili della rosa
sempiterna dei beati - Il fiume e li
topazii / ch’entrano ed escono e il
rider de l’erbe ( Paradiso) - sono forme
esterne, preamboli, prefazioni - prefazi - della loro verità, che in qualche modo esse coprono d’ombre (son
di lor vero umbriferi prefazi, ibid., v.
78), mentre i beati la contemplano in sé
stessa. Ma nella condizione terrena - all’interno della quale Dante pur sempre rimane compiendo il
suo viaggio nell’oltretomba - è l’ombra
terrena della poesia a illuminare la
sapienza del contenuto, a rendere potente l’immagine che salva: a rendere potente la sua forza
salvifica e a rendersi quindi
indispensabile alla potenza dell’immagine:
E vidi lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
dipinte di mirabil primavera. Di
tal fiumana uscian faville vive, e
d’ogni parte si mettean ne’ fiori, quasi
rubin che oro circunscrive. Poi, come
inebriate da li odori, riprofondavan sé
nel miro gurge; e s’una intrava,
un’altra n’uscia fòri. Come semplice verità della ragione e della fede,
l’immagine terrena della beatitudine del
paradiso impallisce e dunque non
dispiega la propria potenza salvifica se i beati non appaiono insieme nelle forme della poesia:
come i perpetui fiori dell’eterna
letizia che ora, in questa più alta regione del
cielo, formano le due rive, dipinte di mirabil primavera, del fiume, fulvido di fulgore, da cui escono di
continuo le scintille degli angeli della
vita eterna, api che sui fiori depongono
rubini nell’oro e che restano a loro volta
inebriate da li odori. Imponendo la propria presenza alla liturgia
sacra, la liturgia poetica, si è detto,
scava nel terreno del tempo in cui Dante
vive - e sbuca in un altro emisfero. Di che cosa si tratta? La Commedia apre uno spazio nel quale lo
scopo del mortale è l’immagine festiva
dove la poesia si unisce alla filosofia
- e dove la sophla si dispiega nel kérygma cristiano. Anche se Dante deve chiamare commedia e non tragedia il proprio poetare cristiano, tuttavia la
commedia, sulla scia della tragedia
attica intende riproporre il clima della festa
arcaica - sebbene ormai la festa non possa più prescindere dalla filosofìa, che è peraltro il principio
della separazione degli abitatori della
casa festiva. Dante pensa come scopo dei
mortali la festa, nella forma poetica della commedia filosofico-cristiana. (La tragedia infatti si
arrende al dolore e alla morte, dice
Platone nel libro X della Repubblica e quindi è
la commedia la forma poetica adeguata all’eterna letizia cristiana). San Pietro gli dice: E tu, figliuol, che per lo mortai
pondo ancor giù tornerai, apri la
bocca, e non asconder quel ch’io non
ascondo. (Paradiso, XXVII, w.
64-66) Il riferimento immediato è alla
corruzione della Chiesa, ma il contesto
imprescindibile di tale riferimento è tutto il
contenuto della Commedia : su tutto questo contenuto Dante è convinto di dover aprire la bocca e non
nascondere quel che in cielo non è
nascosto. Non nasconderlo è proclamarlo
appunto scopo dell’uomo. E se lo scopo è il dispiegarsi dell’immagine festiva, nella quale il
contenuto filosofico- cristiano deve
stare unito alla poesia, allora, questo contenuto, in quanto separato dalla poesia, non è più lo
scopo a cui l’uomo deve mirare. Ma
quando la filosofia, che già si è fatta innanzi, si unisce al messaggio cristiano, è soprattutto questo
messaggio a parlare alle genti, e a dir
loro che la salvezza si ottiene seguendo Gesù
e nient’altro. Ogni altro che si voglia seguire è un secondo padrone; e non si possono servire due
padroni. Quaerite primum regnum Dei. Il
messaggio cristiano non dice di tendere
all’unità del regno di Dio e della poesia. La primarietà che compete al regno di Dio in quanto scopo
non include la poesia. La bella menzogna
della poesia, il velame della favola
poetica, il favoloso e ornato parlare non sono
necessari per andare in cielo.
La Commedia di Dante, già con la sua semplice esistenza, intende invece mostrare che il viaggio dalla
terra al cielo è autentico solo se è
avvolto, espresso, sorretto dalla poesia.
Unita alla filosofia cristiana, la poesia salva. In quanto separato dalla poesia, il contenuto
filosofico-cristiano cessa quindi di
essere lo scopo: diventa, nella Commedia, il mezzo per poter cantare la verità, cioè per raggiungere
quello scopo che è l’unità della verità
e del canto. Cercate per prima l’unità
del regno di Dio e della poesia. Separato dalla poesia, il regno di Dio non salva. Questo è lo straordinario pensiero di Dante
- anche se in lui tale pensiero può aver
evitato di guardare in faccia sé stesso.
Tale pensiero è infatti la perentoria negazione del mondo sapienziale e morale - cioè della
filosofia e del cristianesimo - che pure
è cantato nella Commedia. Nel pensiero
di Dante la salvezza può presentarsi all’uomo in un’immagine salvifica che dev’essere guidata
da due padroni, cioè dal mondo cristiano
e dalla poesia; e pertanto il mondo
cristiano, come id quod primum quaeritur, dunque come indipendente e separato dalla poesia, non
appartiene allo scopo dell’esistenza.
Tale mondo può essere cioè presente solo
come mezzo per raggiungere lo scopo, ossia l’unità di mondo cristiano e di
poesia, e dunque resta negato,
essenzialmente negato, nella sua pretesa di essere l’unico padrone a cui l’uomo debba affidarsi - che è
la pretesa evangelica. La Commedia si rivolge al divino - al
salvifico - per cantarlo; non canta per
rivolgersi al divino. Non canta per
rivolgersi al divino, inteso come l’unico padrone che si serve della poesia per mostrare la propria gloria
al di sopra di tutto, anche della
poesia. Così inteso, il divino non salva. Certo, il canto della Commedia canta il divino, ma,
appunto, è il divino che appare nella
sua inscindibile unità alla poesia - e che è
salvifico solo in quanto è cantato.
Questo che si è indicato è il tratto comune di tutta la grande arte cristiana, da Giotto a Bach e
oltre ancora, lungo un processo dove il
divino diventerà sempre di più il pretesto
perché il canto si levi come unico padrone di ciò che rimarrà dell’immagine festiva sapienzialmente e
religiosamente salvifica. Diventa sempre
più intenso e perentorio il processo in
cui, per il grande artista cristiano, al di sopra di tutto - anche al di sopra del messaggio di Gesù -
finisce con Tesserci l’arte; nell’arte
egli vede, sempre di più, la salvezza. Quando
non si sentirà più cristiano, l’artista crederà di essere lui il vero creatore del mondo. La negazione
oggettiva - ossia non intenzionale - del
mondo sapienziale della tradizione greco-
cristiana è quella esercitata dall’arte nel tempo della dominazione di tale mondo. Sussiste, questa
dominazione, anche quando le forze della
terra, specie quelle pratico-
economico-politiche agiscono in direzione contraria alla sapienza e alla morale filosofico-cristiana.
Anche questo agire è una negazione di
tale sapienza, ma è una negazione che
avviene alTinterno del riconoscimento esplicito, da parte dei potenti, che tale sapienza è l’inviolabile
guida del mondo. È quindi una negazione
in malafede. Video meliora proboque, deteriora sequor. Invece la grande arte
cristiana, dunque anche la poesia di
Dante, non nega in malafede la sapienza filosofico-cristiana, perché ancora non
sa o ancora non rende esplicito che il
suo sentirsi indispensabile a tale sapienza, e
alla evocazione delfimmagine salvifica, è in effetti la negazione perentoria del modo in cui il
cristianesimo, cresciuto sul tronco
della filosofia greca, intende sé stesso. È
una negazione che dal sottosuolo preme sul pavimento della coscienza, ma che ancora non lo frantuma e
non si rende visibile. L’anima riceve
vita. Negazione perentoria ma implicita, dunque; e non solo implicita ma an che soltanto sentita, voluta,
vissuta, cioè senza sostegno e
fondamento che non sia appunto la
prepotenza con cui il nuovo modo di sentire del poeta si contrappone al vecchio, sapienziale - il
vecchio modo che però ha alle proprie
spalle il fondamento costituito dalla
grande tradizione filosofica. Per quanto innovatrice, la negazione della verità della tradizione, da
parte della poesia e dell’arte, attende
ancora che venga alla luce la necessità di
lasciarsi alle spalle la verità che la filosofìa ha portato alla
luce e in cui si manifesta il vero senso
del divino. Nel tempo del dominio della
verità filosofico-cristiana, l’arte cristiana apre la porta alla morte di Dio, ma senza ancora
sapere quel che sta facendo e senza
riuscire a scorgerne la legittimità e la
necessità. È Nietzsche a parlare
della morte di Dio - e a fondarla (cfr.
sezione prima, cap. V). Ma è innanzitutto il pensiero di Leopardi a scorgere questo fondamento a
mostrare la necessità di questa morte,
cioè Yimpossibilità di ogni eterno, di
ogni divino, di ogni vita perpetua che fiorisca dall’eterna letizia. Nonostante tutto, la gigantesca
potenza filosofica di Leopardi rimane
oggi ancora celata, sebbene fosse stata
intravista da Nietzsche e Wagner. Di questa gigantesca potenza, qui, non si può dir nulla di
determinato e pertanto rinvio ancora una
volta ai miei due scritti sopra ricordati, Il
nulla e la poesia: Leopardi; e Cosa arcana e stupenda. Si deve però richiamare che il carattere
indissolubile dell’unità di poesia e
filosofìa, al quale Dante guarda per
primo nel mondo cristiano, forma uno dei temi più esplicitamente, potentemente e diffusamente
presenti nel pensiero di Leopardi. Ma è
presente nella sua innegabile necessità - cioè appoggiandosi al fondamento, di
cui qui sopra si parlava, che invece è assente
nella negazione del mondo sapienziale
cristiano da parte dell’arte cristiana e
dunque della poesia di Dante -, cioè nella negazione che è soltanto volontà di negazione, soltanto
volontà di autoaffermazione. E va
aggiunto che l’unità di poesia e
filosofia è presente nel pensiero di Leopardi con il senso radicalmente nuovo che la filosofia assume
quando essa si rende conto
delfimpossibilità della verità e del divino
evocati dalla tradizione dell’Occidente. Leopardi mostra per primo, aprendo la strada
della filosofia del nostro tempo, che
l’uomo non può salvarsi dal nulla. La verità,
ora, è questa, terribile. Ci si è anche rallegrati, nella cultura degli ultimi due secoli, della morte
di un Dio divenuto più angosciante della
paura da cui egli avrebbe dovuto
liberare. Ciononostante l’angoscia diventa massima quando ci si rende conto che nessuna opera umana potrà
mai salvare l’uomo dal nulla. Il
contenuto del mito consente al mortale di
sopportare il dolore e la morte: è il tratto sapienziale che, sebbene unito agli altri tratti dell’immagine
festiva, più le conferisce la potenza
salvifica e dunque la letizia per la quale
la festa si configura come lo scopo supremo del mortale. La filosofia porta il mito al tramonto, ma nella
tradizione dell’Occidente ne diventa
anche l’erede. La filosofìa della
tradizione è la suprema theoria - e in origine questa parola significa appunto festa. Ma quando la
filosofia scorge, e innanzitutto nel
pensiero di Leopardi, che la verità innegabile
è l’impossibilità, per l’uomo, di salvarsi dal nulla, allora la verità della filosofia non può più dare
alcuna letizia. Leopardi vede dapprima
che la conoscenza della verità rende estrema e
insopportabile l’angoscia dell’uomo e che se per il mortale può esserci, sia pur breve, un tempo di
letizia, cioè di festa, questo deve
nascondere la verità e non essere altro che bella menzogna - che dunque può essere solo umbrifera, apportatrice di ombre che oscurano e che non
possono essere, come in Dante, prefazii
della verità. Ma dopo questo primo modo
di intendere la poesia Leopardi si
avvede anche, ben presto, che ormai non solo
rintelletto, ma nemmeno la fantasia può lasciarsi ingannare dalla poesia e che dunque è
inevitabile che anche e soprattutto
nella poesia la verità terribile si mostri. Il risultato di questa consapevolezza è che l’unico tratto
festivo e caducemente salvifico concesso
al mortale è la potenza con cui la
poesia esprime la nullità dell’uomo. Il
genio è il produttore: gignens. Genera quanto ormai, eco lontana, è possibile ripristinare
dell’immagine salvifica della festa.
Volgendosi all’opera del genio, - dice Leopardi nel pensiero 259-61 dello Zibaldone - l’anima
riceve vita, se non altro passeggera,
dalla stessa forza con cui sente la morte
perpetua delle cose e sua propria. Questa vita è appunto quanto rimane dell’antica letizia della festa
- le opere del genio, scrive Leopardi in
quel pensiero dello Zibaldone, riaccendono
l’entusiasmo, sono consolazione che apre il
cuore e ravviva ma tale vita e forza festive posseggono la potenza dell’immagine in cui il genio
presenta la terribile verità innegabile
della filosofia, cioè la morte e la nullità
dell’uomo e di tutte le cose. L’immagine prodotta dal genio unisce la poesia alla filosofia, ma è la
potenza della poesia a consentire al
mortale di sollevarsi ancora per un poco al di
sopra del nulla che si mostra nella verità terribile della filosofia.
Nel genio, l’unione di filosofia e poesia è l’ultimo modo in cui, col disincanto rispetto alla tradizione
cristiana, è concessa al mortale l’aura
festiva di una passeggera letizia. Il pensiero
di Leopardi mostra cioè che quando sarà manifesta l’incapacità della
tecnica di salvare l’uomo dal nulla, resterà
quell’ultima forma di tecnica che è la poesia pensante del genio, l’ultima festa - l’ultimo quasi
rifugio, dice Leopardi - a cui tendere
prima del silenzio nudo e della quiete
altissima della morte. Il genio è la ginestra, il fiore del deserto. La
ginestra siede tra le rovine del deserto
che il vulcano ha steso attorno a
sé: una ruina involve dove tu siedi, o fior gentile. come il genio, cioè Leopardi, siede a notte
sulle rive del flutto indurato della
lava: Sovente in queste rive; che, desolate, a bruno veste il flutto indurato, e par che ondeggi, seggo la notte. Il lume divino, le scintille del fiume di
fuoco dell’amore divino fulvido di fulgore, intradue rive dipinte di mirabil primavera. è ormai divenuto il flutto indurato della
lava, sepolcro che sigilla, copre e a bruno
veste la vita annientata dal fuoco del
vulcano. La mirabile primavera delle rive del paradiso è vestita a lutto. La ginestra, cioè il genio,
siede tra le rovine delfeterno. Esse
sono il deserto. Ma Inodorata ginestra,
che è la nobile natura del genio, è contenta
dei deserti: guarda in faccia il deserto del nulla e, sapendo di non potervisi sottrarre, ne è contenta,
cioè non si illude di poter aver altro,
non si sente il perpetuo fiore
dell’eterna letizia che d’eternità s’arroga il vanto. La nobile natura del genio della ginestra tien ferma
dinanzi agli occhi la verità terribile,
non le sottrae nulla, non distoglie lo
sguardo dal fato comune del nulla: Nobil natura è quella che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra al cumun fato, e che con franca lingua, nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in
sorte, e il basso stato e frale. Non detrae nulla dal vero in cui appare
l’essenziale nullità deH’uomo; ardisce
sollevare lo sguardo mortale sulla
verità: questa forma intransigente di volontà di verità è l’essenza della filosofia del nostro tempo.
Leopardi la inaugura. Ma la franca
lingua che nulla detrae alla verità è la
libera lingua della poesia, la potenza dell’immagine che mostra l’impotenza dell’essere e dell’uomo.
Senza la potenza poetica l’uomo è subito
risucchiato nella pietrificata
contemplazione nel nulla. Riesce a persistere ancora per un poco nell’ultima eco dell’aura festiva,
unendo dunque filosofia e poesia. La
ginestra non detrae alcunché alla verità
angosciante della nullità del tutto; e tuttavia il can i. C’è uno scambio delle parti già a partire dal fiore
della poesia, che da mezzo per mostrare
la verità diventa fine; per arrivare alla
tecnica, che, da mezzo per realizzare gli scopi delle grandi forze dell’Occidente è destinata a diventare
il loro scopo. Anche le pagine che
seguono possono essere lette come un
contributo a una fenomenologia, finora solo abbozzata nei miei scritti, di questo scambio delle parti.
Il problema del fiore della poesia conduce dunque al problema della tecnica. Oggi se ne continua a
discutere. Ma se ne discute rimanendo
all’interno della dimensione che ha reso
possibile qualcosa come la festa, la tecnica, la poesia, il mito, la filosofia, il cristianesimo, la scienza.
Si rimane all’interno della dimensione
dove l’uomo percepisce sé stesso come un
mortale, che in preda alla morte e al nulla ha bisogno di salvarsi.
Siamo proprio sicuri che questa dimensione, in cui l’intero pianeta è ormai completamente immerso, non
debba finalmente esser messa essa stessa
in questione? Siamo proprio sicuri che
l’eterna letizia non possa avere altro
significato che quello che la tradizione le ha conferito? Al di là di questo significato, noi siamo
perpetui fiori dell’eterna letizia, ma
non nel senso che è stato
inevitabilmente distrutto dal pensiero e dalla cultura del nostro tempo. Il senso autentico
dell’eternità del Tutto è abissalmente
lontano dal senso che l’eterno possiede nella
tradizione filosofico-cristiana; e non è nemmeno qualcosa che possa essere rintracciato in qualche altra
forma di civiltà, diversa da quella
dell’Occidente - anche se esso risplende nel
fondo di ogni uomo. Nel paradiso
della tecnica, la tecnica può essere guidata e
animata o dalla scienza moderna o dalla poesia che si unisce alla filosofia del tempo della tecnica. Ma in
entrambi i casi, per quanto alta possa
essere la luce del tramonto, è inevitabile
che ci si renda conto dell’essenziale incapacità del mortale di vincere il nulla - ossia di vincere il
divenire, il contenuto della fede, cioè
della volontà che le cose siano un uscire dal nulla e un ritornarvi. Comunque si configuri, il
paradiso della tecnica è cioè destinato
all’angoscia estrema. Può essere quello,
allora, il tempo in cui l’uomo incomincia
a volgersi verso il senso inaudito dei fiori dell’eterna letizia. Esso non è un futuro da produrre e da
creare. Già da sempre attende di essere
condotto fuori dall’ombra: già da sempre
attende che tramontino le ombre che attirano
su di sé la cura dei mortali, lasciando fuori del linguaggio (e, in questo senso, nell’ombra) la luce piena di
quel senso inaudito. Nella sua essenza
il cristianesimo è una grande religione
della salvezza. Ma - Gesù è esplicito - solo chi crede in lui sarà salvo. La fede, peraltro, può ottenere
la salvezza solo se la vuole, e solo se,
d’altra parte, questo volerla non è un atto di
imperio ma è un chiederla a Dio. Chiedere a Dio la salvezza è pregare. Nella sua essenza il cristianesimo è
quindi la preghiera, così intesa.
Appunto per questo Tertulliano dice che
la preghiera insegnata da Gesù è veramente la sintesi di tutto il Vangelo. Alla fine del Vangelo di Marco (16, 16-17)
Gesù dice: Chi crederà sarà salvo, chi
non crederà sarà condannato. Ma prima di
questa sentenza il testo (Me., 11) racconta come Gesù abbia unito strettamente e
sorprendentemente il tema del credere a
quello della preghiera. In quanto inseparabile
dalla fede, la preghiera sta dunque al centro di ciò che più conta: la salvezza eterna. In quel testo Gesù dice. Abbiate fede in
Dio. In verità vi dico che se qualcuno
dirà a questa montagna: “Togliti di lì e
gettati nel mare”, e non avrà alcun dubbio nel suo cuore [et non haesita = verit in corde suo], ma crederà
che quel che dice s’abbia a compiere
[fiat], questo gli accadrà [fiet ei]. Perciò vi
dico: tutte le cose che chiederete nella preghiera abbiate fede [credite] di ottenerle e le otterrete [et
evenient vobis]. E quando vi accingete a
pregare, perdonate, se avete qualcosa
contro qualcuno, affinché il Padre vostro che è nei cieli vi perdoni i vostri peccati. Marco accenna
subito dopo a quello che a suo avviso è
il centro della preghiera insegnata da Gesù,
ma non lo sviluppa. Essa è invece compiutamente riportata nel Vangelo di Matteo (6, 9). In questa
concezione della preghiera è presente un grande
sottinteso. Supponiamo che un uomo chieda a Dio qualcosa, per esempio di essere aiutato in una certa
circostanza, ma che in un primo tempo
Dio ritenga di non dargli ascolto; e che
tuttavia quell’uomo insista, sino a che, alla fine, riesca a ottenere quel che voleva. Se ci si chiede che
Dio sia mai questo, la risposta è
scontata: non è il Dio delle religioni
monoteistiche; non è il Dio di Gesù. E non può esserlo, perché se alla fine egli cambiasse parere ciò
accadrebbe o perché quell’uomo è più
potente di lui, oppure perché alla fine
Dio si renderebbe conto di aver avuto torto a non dargli ascolto subito. Ma un Dio che è meno potente
di un uomo o che può aver torto non è,
appunto, il Dio del monoteismo, non è il
Dio di Gesù. Chiedere a Dio qualcosa è
pregare. Se si prega Dio di avere da lui
qualcosa che egli non vuol dare, non si potrà mai essere esauditi. Egli è l’Onnipotente. A Dio si può
chiedere dunque solo quel che egli vuol
dare. Si può volere solo quel che egli
vuole. Appunto per questo, Gesù insegna a dire, nella preghiera: Sia fatta la tua volontà. È sul
fondamento di questo decisivo sottinteso
che va interpretato il senso
deH’affermazione paradossale che la fede muove le montagne e che, se uno riesce ad avere la forza (si
potes) di credere, tutte le cose sono
possibili per lui (omnia possibilia sunt
credenti, Me., 9, 23). Se avendo
fede si ottiene il massimo, cioè la salvezza eterna, si può anche ottenere tutto il resto. Purché
sia voluto da Dio, l’Onnipotente. Già
Platone, dando forma filosofica al mito
biblico, afferma che Dio è tecnica divina, cioè la più potente.
Inoltre, se Gesù dice che chi crede sarà salvo, egli vuole la salvezza dell’uomo. Quel suo dire è cioè un comandare
all’uomo di credere. Non lo lascia solo, dunque, a trovare la forza che lo porti a credere. Vuole che
creda. E quindi, pregando, l’uomo deve
innanzitutto chiedere, senza aver dubbi,
di credere, e otterrà di essere un credente, cioè salvo. (Chiedendo di credere, chiede insieme di non
aver dubbi intorno a questa sua
richiesta. Si può mostrare che chiedere con
fede di aver fede non è una contraddizione?) Dal punto di vista cristiano, se l’uomo vuole ciò che Dio
vuole, non può non ottenerlo, perché Dio
è l’Onnipotente. Da quel punto di vista,
la fede che muove le montagne non è un paradosso. Pregando nel modo voluto da Gesù, l’uomo non
solo ottiene ciò che vuole, ma sa di
ottenerlo, perché non può non sapere di
voler quello stesso che è voluto da Dio, che è
l’Onnipotente. E non spezza
nemmeno in due quella preghiera, come se
nella prima parte di essa egli voglia che sia fatta la volontà di Dio, ma nella seconda gli dica quel che vuole
lui - il pane quotidiano, la remissione
dei debiti; la liberazione dal male ecc.
Infatti, se Gesù gli comanda di chiedere il pane, è perché sa che il Padre vuole che l’uomo abbia il
pane. Lo stesso si dica per gli altri
doni richiesti. Anche per quello che è
espresso dalle parole e perdona a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori.
Infatti nella preghiera autentica l’uomo
può chiedere di essere perdonato solo se
sa che Dio vuole perdonarlo. E lo sa per lo meno perché crede che sia il Figlio di Dio a
comandargli di chiedere al Padre di
essere perdonato, e il Figlio non potrebbe
comandarglielo se sapesse che Dio non vuole perdonare l’uomo.
La preghiera di Gesù contiene dunque anche l’implicazione, vincolante e compromettente,
tra il perdono per i propri debiti, che
un uomo chiede a Dio, e il perdono, da
parte di quest’uomo, dei debiti che gli altri hanno nei suoi confronti.
Perdonami come io perdono, dice quell’uomo. Egli chiede perdono perché sa che Dio vuole
perdonarlo. Ma il suo perdonare i debiti
che gli altri hanno contratto nei suoi
confronti? Questo suo perdonare gli altri può essere un gesto che riguardi lui solo, cioè dove Dio lo lasci
solo a compierlo? No. Lasciarlo solo
vorrebbe dire, per Dio, non volere che
l’uomo perdoni e non volere nemmeno che non perdoni: starsene in disparte lasciando che sia l’uomo
a trovar la forza che lo può salvare
eternamente - visto che se non perdona
non è perdonato. Ma in questo modo l’uomo dovrebbe volere qualcosa che Dio o non vuole o rispetto a cui
è indifferente. Verrebbe meno, allora,
il principio per il quale l’uomo può
ottenere soltanto ciò che Dio vuole. È dunque impossibile che Dio, dopo aver detto all’uomo che se non
perdonerà non sarà perdonato lo lasci
solo a raccogliere le forze che gli occorrono
per riuscire a perdonare le offese ricevute dal prossimo. Tutto questo significa che - quando, nella preghiera
di Gesù, l’uomo chiede a Dio di
perdonare i propri debiti come egli
perdona quelli dei propri debitori - è necessario che l’uomo creda che Dio vuole che egli abbia la
forza di perdonarli. Anche il perdono
delle offese è dunque qualcosa che
l’uomo chiede a Dio, sapendo che anche questa sua capacità di perdonare è voluta da Dio, e che
quindi egli otterrà anche questa
capacità (più diffìcile da avere che non la
capacità di muovere le montagne).
L’uomo è salvo solo se ha fede nel Liglio di Dio. Ma la fede è inseparabile dalla volontà che vuole quello
che è voluto da Dio, e la preghiera è
quel mettersi in rapporto con Dio, dove
non solo si dice di volere quel che Dio vuole, ma lo si vuole effettivamente, cioè si perdona il prossimo,
lo si ama, e si fa tutto ciò che Dio
prescrive. E volendo tutto questo si è
convinti di ottenerlo, giacché chi crede di volere quel che è voluto da Dio non può pensare che Dio non sia
capace di ottenere quel che vuole. Chi
vuole che sia fatta la volontà di Dio è il giusto, il buono, il santo, ossia è quel che Dio vuole che egli
sia. Ma è anche necessario che egli sia
convinto di essere il giusto, il buono, il
santo, perché se fosse incerto di esserlo sarebbe in dubbio anche sul proprio star volendo quel che Dio
vuole. Chi si trova in questo dubbio
ammette la possibilità di star volendo
qualcosa di non voluto da Dio; dunque non vuole quel che Dio vuole e quindi non può nemmeno credere di
ottenerlo. Volere qualcosa, infatti, è
credere di volerlo. Se non si crede di
volerlo non lo si sta volendo ma si resta incerti se lo si voglia o meno, non ci si trova cioè nella condizione
di chi, pregando, riesce a muovere le
montagne. Convinto di essere il giusto
che perdona le offese e ama il suo
prossimo, chi prega nel modo dovuto agisce nel mondo e si imbatte in situazioni via via diverse,
portando sempre con sé quella convinzione.
(Altrimenti abbandonerebbe
l’insegnamento di Gesù.) Agisce nel mondo, cioè nella polis. La politica è appunto questo suo agire tra
gli individui, le istituzioni, i gruppi
sociali. Per Gesù la politica è
innanzitutto perdonare le offese e amare. Ma che una certa azione sia un’offesa, una cert’altra sia un
perdono e una cert’altra ancora sia una
forma di amore è chi agisce nel mondo a
doverlo decidere. A questo punto chi
presta ascolto alla parola di Gesù si
trova davanti a due strade. O rinuncia a credere che il modo in cui egli decide di considerare offesa,
perdono, amore certe azioni sia esso
stesso un volere ciò che Dio vuole; oppure non
compie questa rinuncia e crede che tutto quello che egli vuole e fa sia voluto da Dio. Nel primo caso, non
può più credere - in relazione alle
valutazioni e decisioni che egli, da solo, deve
adottare nel mondo - nell’identità tra la volontà propria e quella di
Dio: rinuncia a credere e quindi a pregare nel modo autentico; rinuncia pertanto alla propria
salvezza (perché solo chi crede sarà
salvo). Sul piano politico è la rinuncia a
ogni progettazione cristiana della politica. Nel secondo caso crede che ogni sua azione privata o pubblica
sia la volontà di Dio e che quindi egli
sia il giusto, il buono, il santo che sa
capire quando un’azione è offesa, perdono, amore e dunque sa realizzare il regno di Dio in terra. Non ammette che sia per un equivoco che egli
giudica come offesa un’azione; né può
ammettere che nel proprio agire non sia
presente il vero perdono e il vero amore,
conciliabili con la punizione del colpevole che non può essere che giusta. Sul piano politico è, questo, il
passo decisivo verso la teocrazia, che è
il regno di Dio in questo mondo, mentre
Gesù assicura che il suo regno non è di questo mondo. Certo, chi ha l’intenzione di essere
cristiano tenta di ritrarsi da ciò a cui
conducono entrambe queste strade (anche se
entrambe sono una tentazione costante). Tenterà di camminare un po’ sull’una e un po’
sull’altra. Ma anche in questo modo
tradirà la propria fede, non ne salverà la
coerenza. Non sono infatti, quelle indicate, le conseguenze del rapporto che nei Vangeli viene istituito tra
il credere e il pregare? Lo scambio delle parti che si presenta nella
preghiera di Gesù è una delle più
potenti anticipazioni dello scambio in cui
la tecnica, da mezzo, sta diventando scopo. Prima di Gesù l’uomo prega Dio, la Potenza suprema, per
salvarsi: la salvezza è lo scopo, la
Potenza divina il mezzo. Ma anche Gesù
fa capire che lo scopo determina, condiziona, configura il mezzo, e che quindi uno scopo umano, cioè
assunto da un essere bisognoso di
salvezza, quindi debole, finito, mortale
quale è l’uomo, indebolisce e vanifica il mezzo (la Potenza) e pertanto
pregiudica la propria realizzazione. Anche Gesù fa capire che l’uomo deve porre come scopo non
il soddisfacimento dei propri bisogni ma
la volontà di Dio (Sia fatta la tua
volontà). In questo modo gli sarà dato tutto il
resto. È, questo, uno dei modelli più rilevanti della situazione in cui l’uomo, dopo aver tentato di servirsi
della tecnica, capisce che, per
salvarsi, deve dire anche alla Tecnica: Sia
fatta la tua volontà, non la mia, che, posta come scopo (volontà capitalistica, comunista, cristiana,
democratica ecc.), non ha la potenza
della Tecnica e quindi, condizionandolo,
indebolisce il proprio mezzo, ostacolando in tal modo sé stessa.
Sennonché, ponendo come scopo la Tecnica, la volontà cessa di essere ciò che intendeva essere,
giacché per essere ciò che intendeva
essere doveva essere scopo. Nello stesso modo,
si è visto, pregando autenticamente, il cristiano è costretto a imboccare quelle due strade che lo portano a
non esser più cristiano. Proprio per
aver fede in Gesù e quindi per pregare
autenticamente, per salvarsi, il cristiano non può più essere cristiano. Non lo è, sia facendo la propria
sia facendo la volontà di Dio. È
indubbio che chi vorrà salvare la propria
vita la perderà, ma non è nemmeno vero che chi perderà la propria vita per amor mio [héneken emou, cioè
avendo me come scopo, dice Gesù, Me., 8,
35] e del Vangelo, la salverà. Lo
scambio delle parti dove la Potenza, da mezzo, diventa scopo e quindi salvifica, non salva, giacché
la vita, intesa come vita autentica,
cioè cristiana, è perduta anche quando, dopo
che la si è perduta, Gesù assicura che la si sia salvata. È perduta lungo entrambe le strade, qui sopra
indicate, che chi vorrebbe esser
cristiano è costretto a imboccare.
Proprio perché, per raggiungere la salvezza, ci si serve di ciò che si considera come la Potenza suprema
(teologica o tecnologica), proprio per
questo non ci si può salvare; ma non ci si salva nemmeno assumendo come scopo
la Potenza suprema, perché, rispetto
alla Potenza teologica, la volontà che
intenderebbe esser cristiana non può esserlo e, rispetto alla potenza tecnologica, la volontà che
vorrebbe essere scopo, cioè volontà
capitalistica, comunista, democratica, totalitaria, cristiana ecc., cessando di essere scopo, non
può più essere ciò che essa intende
essere. Continua ad aumentare la pressione dei popoli poveri su quelli ricchi. Non si tratta solo di
spostamenti di masse umane, determinati
dal bisogno elementare di sopravvivere.
Da sempre, infatti, l’uomo interpreta la propria sofferenza. Il modo in cui soffre nel corpo e nell’anima e
tenta di uscirne dipende da ciò che egli
crede di essere, dal modo in cui
interpreta la propria vita. Cultura è innanzitutto questo credere. Per quanto ne sappiamo, in questo
credere sono sin dall’inizio presenti
gli dèi. L’uomo crede di essere un vivente
che è in pericolo e che sta in rapporto con misteriose potenze che lo possono aiutare o schiacciare. Il
senso della cultura è legato a quello
della coltivazione e del culto. La pressione
dei poveri sui ricchi è cioè un fenomeno eminentemente culturale.
Gran parte dell’immigrazione è islamica. Il culto dei poveri è diverso da quello cristiano in cui, almeno
formalmente, i Paesi ricchi si
riconoscono. Dopo l’Unione Sovietica, è l’islam
a essersi posto alla guida dell’interpretazione della sofferenza e della fame dei poveri. In quest’ultimo
decennio si è reso altrettanto visibile
- sebbene non nelle forme drammatiche
della protesta islamica contro l’Occidente - il rinnovato vigore della Chiesa cattolica. Si tratta di
un fenomeno ambivalente, perché da un
lato la Chiesa non può non vedere
nell’islam un alleato contro l’ateismo della modernità, dall’altro non può non avvertire che l’islam
è anche l’avversario dove la religiosità
dei fedeli è molto più convinta di
quella cristiana (non dice forse la Chiesa che l’Europa è terra di missione?), tanto da alimentare
quel fondamentalismo che convince
individui a immolare la propria vita per
il trionfo della causa. D’altra parte non è
nemmeno possibile affermare che l’ambivalente tensione tra islam e
cristianesimo è il fenomeno culturale che più
determina la fisionomia degli ultimi decenni. Se non altro perché la modernità, contro cui cristianesimo
e islam si trovano alleati, esiste. La tecnica, che è impensabile senza la
cultura moderna, stupisce il mondo.
Tuttavia la tecnica sta procedendo senza
guardarsi le spalle, cioè senza sapersi difendere dalle critiche della tradizione occidentale, che la accusano
di violare limiti inviolabili. Un
gigante, la tecnica, che tocca il cielo, ma che
rimane incapace di interloquire con chi gli dice che il cielo non va toccato. Intendo dire che chi potrebbe rendere il
gigante capace di replicare è la punta
estrema della modernità, ossia quella
essenza, prevalentemente nascosta, della filosofìa del nostro tempo che è in grado di mostrare l’inesistenza
di ogni inviolabile e che quindi il
gigante è legittimato a toccare il
cielo. E tuttavia quell’essenza è come l’arco di Ulisse, che nessuno dei Proci è in grado di tendere. Da
un lato, pertanto, la potenza cieca
della tecnica; dall’altro lato quegli sguardi
impotenti del laicismo contemporaneo, che andando avanti così non riuscirà mai a possedere Penelope,
cioè a dominare il mondo, lasciando
ancora a lungo la scena alla coscienza
religiosa. Nel nobile modo in cui Benedetto XVI ha espresso la sua rinuncia è indicato esplicitamente il
problema centrale del cristianesimo: il
cristianesimo si trova oggi in un mondo soggetto
a rapide mutazioni e turbato da questioni di gran peso per la vita della fede (in mundo nostri
temporis rapidis mutationibus subiecto
et quaestionibus magni ponderis prò vita
fidei perturbato ). Rispetto a questo problema, che un pontefice dichiari di non avere più le forze
per affrontarlo è un tema che,
nonostante la sua rilevanza e pertinenza, passa
in secondo piano. Nel testo, la parola pondus (peso) compare tre volte: come peso delle questioni
riguardanti la vita della fede, come peso
del gesto di rinuncia e come peso del
ministerium che viene lasciato per il venir meno delle forze. Ma solo il primo peso vien detto grande:
la vita della fede è oggi gravata da questioni
di gran peso ed è essa stessa turbata
dal turbamento del mondo. Il mondo cristiano (tanto meno un pontefice) non può riconoscere che il
turbamento della fede è ben più profondo
di quello visibile, dovuto alla
corruzione alfinterno della Chiesa.
Il turbamento del mondo, tuttavia, riguarda non solo la fede religiosa, ma anche quelle altre forme
di fede ancora dominanti (e che non
amano sentirsi dire che sono a loro
volta fedi). Mi riferisco soprattutto al capitalismo, alla democrazia, al capitalismo-comunismo cinese,
o, in Iran, alla mescolanza di teocrazia
e capitalismo; e il comuniSmo sovietico,
come il nazismo, era tra le più rilevanti di queste forze. Ognuna delle quali avverte la
necessità di eliminare le proprie degenerazioni,
ma si rifiuta di ammettere
l’inevitabilità del proprio tramonto. Non è una metafora né un’iperbole fuori luogo affermare che ognuna
di esse si sente un dio che deve
distruggere gli infedeli. Ma, come la fede religiosa, anche la vita di queste
altre forze è gravata da questioni di
gran peso - da questioni che fanno
intravedere l’inevitabilità di tale tramonto. Certo, un pontefice deve credere che il
cristianesimo durerà fino alla fine del
mondo. Ma la gran questione è se quelle
forze - dunque anche il cristianesimo - si rendano conto del loro vero avversario, che le scuote e le
travolge. Il relativismo è stato
l’avversario di Benedetto XVI. Lo sforzo
di combatterlo ha avuto un carattere soprattutto pastorale. Il semplicismo concettuale e l’ingenuità del
relativismo ne favoriscono infattila
diffusione presso le masse, e tale
diffusione è tutt’altro che irrilevante per la vita della fede. Giovanni Paolo II si avvicinava maggiormente
all’avversario autentico quando
individuava negli inizi della filosofia
moderna (Cartesio) la matrice di tutti i grandi mali del XX secolo, quali le dittature del comuniSmo e
del nazionalsocialismo, o l’egoismo
dell’economia capitalistica. In questa
prospettiva, lo stesso relativismo può essere inteso come un parto di quella matrice. Ma tutte queste interpretazioni non riescono
ancora a guardare in faccia l’avversario
autentico. Riusciranno le varie forme di
fede ad alzare lo sguardo affinché, se vogliono vivere un po’ più a lungo, non accada loro di
combattere i nani, quando invece il
gigante pesa già su di esse e toghe loro il
respiro? Il gigante che possiamo chiamare Prometeo. Anche qui, è ovvio, mi limiterò ad alcuni
cenni; doppiamente insufficienti perché
a chi sta per morire, e non vuole, è
estremamente difficile fargli alzare lo sguardo sulla propria morte.
All’inizio dei tempi è invece un altro gigante a togliere all’uomo il respiro, impedendogli di vivere.
L’uomo può incominciare a vivere solo se
vuole trasformare sé stesso e il mondo da cui è circondato. Se non fa questo
non può nemmeno compiere quella trasformazione
di sé che è il respirare in senso
letterale. E muore. Vive solo se si fa largo
nella Barriera che gli impedisce di trasformare sé e il mondo. La Barriera è l’Ordine immutabile della
natura. Solo se la penetra, la sfonda,
la squarta, e comunque la fa arretrare, può
liberarsi un poco alla volta dal suo peso e ottenere ciò che egli vuole. La Barriera è l’altro gigante: il
Tremendum (per servirci, ma per altri
scopi, dell’espressione di Rudolf Otto).
Ma è anche il Fascinans (ancora Otto), perché l’uomo può incominciare a vivere solo se domina le parti
della Barriera frantumata, e se ne ciba
- così come Adamo, cibandosi del frutto
proibito, frantumando cioè l’icona stessa del divino, può diventare Dio ( eritis sicut dii, sarete
come dèi, dice il serpente). E infatti
il tremendum-fascinans è il tratto
essenziale del sacro, del divino, del Dio. La Barriera divina vive inviolata solo se
uccide l’uomo; l’uomo vive soltanto se
uccide Dio. Il fuoco è il simbolo
essenziale della potenza divina; e Prometeo ruba il fuoco - uccide l’inviolabilità degli dèi - per darlo
all’uomo. Prometeo è l’uomo. Soprattutto
da due secoli egli è l’avversario della
tradizione. Mostra infatti che il divino merita di tramontare e che su questo meritarlo si fonda tutto ciò
che più salta agli occhi, ossia
l’allontanamento della modernità e soprattutto
del nostro tempo dai valori della tradizione e dunque dalla vita della fede. (In questo contesto, la
corruzione della Chiesa è più grave di
tutte le forme passate del suo degrado.)
Se Dio esistesse, non potrebbe esistere l’uomo, ossia ciò la cui esistenza è considerata innegabile anche da
chi si è alleato con Dio. Giacché, dopo
l’inizio dell’uomo, la Barriera si è ritirata,
ha lasciato spazio al mondo, Dio è diventato trascendente, e l’uomo della tradizione lo ha trovato meno
tremendum e più fascinans, e gli si è
alleato, diventando uomo di fede, non solo cristiana ma anche quella degli dèi
- delle barriere - in cui consistono le
forze (sopra menzionate) via via dominanti nel
mondo. Prometeo, ora, ruba il fuoco dell’alleanza dell’uomo con Dio. È la potenza di questo furto a
nascondersi, per lo più inesplorata,
sotto le rapide mutazioni del nostro tempo,
turbato da questioni di gran peso per la vita della fede. Una delle
radici dello Stato moderno è il desiderio
dell’uomo di sottrarsi all’imprevedibilità della vita facendo funzionare lo Stato come una macchina
tecnicamente razionale a cui viene
riconosciuto il monopolio della forza e
che quindi consente a ognuno di calcolare in anticipo le conseguenze delle azioni proprie e altrui.
Così si esprime Max Weber; ma questa
constatazione risale a Hobbes. Allo Stato si
chiede di eliminare il più possibile il rischio del vivere. Anche il capitalismo è un calcolo razionale
(a differenza delle forme violente di
acquisizione della ricchezza). Tuttavia
è anche rischio, scommessa, imprevedibilità delle conseguenze dell’agire. Due componenti
inseparabili, fino a che il capitalismo
esiste nella sua forma tradizionale. Il talento
dell’imprenditore sta nell’indovinare ciò che dal punto di vista scientifico è imprevedibile: la forma
relativamente più remunerativa di
investimento. A sua volta, il talento è
inseparabile dalla fortuna. Il più capace
degli imprenditori, se è sfortunato, non è veramente capace. È vero: oggi si sa che una teoria
scientifica non è valida se non è
confermata e che tale conferma è una forma di
fortuna, una circostanza felice. Ma l’imprenditore capace deve avere una fortuna incomparabilmente più
grande di quella sinora richiesta per le
teorie scientifiche: egli ha tanto più
successo quanto più rischia, cioè si lascia alle spalle - in base alle proprie intuizioni - le precauzioni
della razionalità scientifica - che
essendo di dominio pubblico, sono tra l’altro
adottabili anche dalla concorrenza.
Sebbene siano entrambi macchine tecnicamente razionali, Stato e intrapresa capitalistica vanno dunque
in direzioni opposte: azzeramento e
moltiplicazione del rischio. La
tendenza verso lo Stato-azienda - o l’azienda-Stato - non è soltanto un fenomeno italiano. Alla sua
base sta il crescente potenziamento
dell’economia e il crescente
indebolimento dello Stato moderno. Ciononostante, a quel potenziamento corrisponde non solo
l’indebolimento dello Stato, ma anche
quello della produzione economica legata
principalmente al rischio, al talento e alla fortuna del singolo imprenditore. La macchina economica tende
cioè a diventare l’erede della macchina
statale e del compito, proprio di
quest’ultima, di garantire gli individui dal rischio del vivere.
Contro l’oppressione di uno Stato sempre più obsoleto rispetto ai bisogni della società civile, le
destre mirano invece, ancora, a
un’azienda-Stato diretta da ultimo (sebbene non
esclusivamente) da uno o più superimprenditori capaci di rischiare, e soprattutto fortunati. Ma in
questo modo si mira a qualcosa che corre
a sua volta il rischio di diventare obsoleto
prima di nascere. Lo Stato-azienda, così inteso, è uno Stato a rischio. Certo, in democrazia l’elettorato ha
il diritto di rischiare e di imporre il
rischio alle minoranze, credendo che la
fortuna continuerà ad accompagnare i superimprenditori statali. Però è opportuno sapere quel che si
sta facendo. La difesa dello Stato
tradizionale contro le prevaricazioni
dell’economia è invece propria delle sinistre. Che a loro volta stentano a comprendere la tendenza, di cui si
è detto, che conduce dalla macchina
tecnicamente razionale dello Stato a
quella di una economia sempre più simile alle procedure scientifiche e sempre meno bisognosa del
carisma e della fortuna di certe persone
- la presenza delle quali può peraltro
costituire un passaggio obbligato. Ormai, anche le sinistre credono nella necessità di rafforzare
l’iniziativa privata; e la concezione
minimalista dello Stato non equivale, per le
destre, alla soppressione di esso. Tuttavia le sinistre continuano a credere nella capacità
dell’apparato giuridico statale di guidare i popoli. Per esse la crisi dello
Stato può essere superata restando
all’interno della politica. Ma si vuol
riflettere sul fatto che la macchina dello Stato e quella economica sono tecnicamente razionali?
Non è già significativo che tanto lo
Stato moderno quanto il capitalismo
siano considerati delle macchine? Si tratta di comprendere che è la tecnica a conferire potenza agli
Stati e alle economie. E si è richiamato
che nel suo significato più autentico la
tecnica è la potenza che presta ascolto alla voce del pensiero filosofico degli ultimi due secoli - alla
voce cioè che mostra l’inesistenza di
ogni limite assoluto all’agire dell’uomo e
innanzitutto all’agire tecnico. Tale ascolto non va confuso con un ozio astratto: è la condizione che
consente all’operatività tecnica di
accrescere indefinitamente la propria potenza.
Andiamo verso un tempo in cui, a eliminare il rischio del vivere, non sarà più né la forma tradizionale
dello Stato, né lo Stato-azienda, ma la
tecnica, di cui entrambi hanno così
bisogno da doverla togliere dalla sua funzione di mezzo per assegnarle quella di scopo. Non più lo Stato
o lo Stato-azienda che si servono della
razionalità tecnologica, ma quest’ultima
che si serve di ciò che rimane di essi una volta che da scopi siano diventati mezzi: mezzi di cui la
tecnica può servirsi per accrescere il
proprio dominio sul mondo. Se a questo
punto si vuol usare ancora la parola politica,
si può dire che la grande politica è destinata a restare estranea alle destre e alle sinistre mondiali
sino a quando non comprendono
l’inevitabilità della rotazione che dalla
dominazione dello Stato e dell’economia conduce alla dominazione della tecnica. In uno dei suoi
significati economici più importanti la collaborazione
-- di Grice, ‘the principle of conversational helpfulness – efficenza e
solidarieta -- riguarda oggi, nel sistema capitalistico, il rapporto tra datori di lavoro e lavoratori
(nel senso più ampio di questo termine).
Con la fine del socialismo reale è finita
anche, nelle società avanzate del pianeta, la volontà di soffocare questa forma di collaborazione e di
sostituirla col suo opposto, cioè con la
lotta di classe. La collaborazione
riguarda il rapporto tra gli interessi di chi
lavora e quelli del capitale. Quest’ultimo collabora con gli interessi dei lavoratori quando non si
propone soltanto il proprio interesse,
cioè l’aumento del profitto, ma anche la
salvaguardia di un dignitoso tenore di vita del lavoratore. A sua volta, il lavoratore collabora con gli
interessi del capitale quando non si
propone soltanto di aumentare il proprio
tenore di vita, ma anche il rafforzamento dell’intrapresa in cui egli si trova ad agire. Il primo tipo di collaborazione conduce alla solidarietà; il secondo all’effìcienza. Fino a questo punto, si può credere che, sia
nell’ambito del capitale sia in quello
del lavoro, quando esiste la
collaborazione di cui stiamo parlando, ci si proponga, in egual modo, la sintesi di efficienza e solidarietà
- la sintesi in cui, appunto, consiste
tale collaborazione e si può credere che il
centro del problema stia nel saper realizzare le condizioni che conducono alla collaborazione. Ma in questo
modo si va fuori strada: non si scorge
la configurazione autentica del problema
e ci si priva degli strumenti per poterlo affrontare. Visibilissima in tutte le società avanzate,
la lotta tra capitale e lavoro ha quasi
completamente perduto i connotati della lotta
di classe marxista; ma non si estingue con la
realizzazione di quella sintesi di efficienza e solidarietà che sarebbe perseguita in egual modo dalle forze
lungimiranti del capitale e del lavoro: non vi si estingue, perché essa si ripropone a causa del diverso modo in cui
tale sintesi è perseguita da queste due
forze. Oggi si tende a mascherare
questa diversità. Per esempio dicendo
che efficienza e solidarietà devono alimentarsi in una circolarità virtuosa - una espressione
che si è fatta strada tanto nel mondo
imprenditoriale, quanto nel mondo cattolico
(o, in generale, cristiano) e in quello delle sinistre. Nella alimentazione circolare i due elementi in
circolo sono posti sullo stesso piano.
Ma è un’apparenza, come è un’apparenza
la virtù del circolo. Infatti,
dal punto di vista del capitale i livelli di solidarietà (quelli cioè fino e non oltre i quali può
essere spinta la solidarietà) sono
stabiliti dai livelli al di sotto dei quali il
capitale ritiene che l’efficienza (cioè l’incremento del profitto) non possa scendere. Ma dal punto di vista del
lavoro i livelli di efficienza (cioè
fino a che punto debba essere promosso lo
sviluppo economico) sono stabiliti dai livelli al di sotto dei quali chi lavora ritiene di non poter far
scendere il proprio tenore di vita e la
qualità della propria vita. Nel primo caso la
collaborazione di efficienza e solidarietà ha come scopo primario e dominante l’efficienza; nel
secondo caso la collaborazione ha come
scopo primario e dominante la
solidarietà. Nel primo caso la solidarietà è un mezzo per realizzare l’efficienza; nel secondo
l’efficienza è un mezzo per realizzare
la solidarietà. In entrambi i casi le due
semicirconferenze della circolarità virtuosa sono diseguali, si alimentano in modo diseguale, la
circolarità è claudicante, cioè
viziosa. I due avversari possono
gettarsi a vicenda polvere negli occhi,
invocando ed elogiando la collaborazione. Ma quando la Chiesa cattolica dichiara che il profitto
deve avere come scopo il bene comune della società pensa a una sintesi di efficienza e solidarietà, cioè a una forma di
collaborazione, dove lo scopo dell’agire
economico è la solidarietà e l’efficienza
è il mezzo per realizzarla. E quando il capitalista afferma che non si può dire a un capitalista
“limita il tuo guadagno”, perché un
imprenditore deve produrre ricchezza e
quanto più lo fa, più opera per il bene della
società, il capitalista che parla così pensa a una sintesi di efficienza e di solidarietà, cioè a una forma
di collaborazione dove invece lo scopo
dell’agire economico è l’efficienza e la
solidarietà è il mezzo per realizzarla. In entrambi i casi, come si è detto, la collaborazione è una
circolarità viziosa, dove ognuno dei due
fattori circolanti tende a fare dell’altro il
proprio alimento evitando di diventare a sua volta l’alimento dell’altro. Ciò significa che la collaborazione è un
paravento, una maschera che più o meno
consapevolmente nasconde il proprio
opposto, ossia la lotta, l’opposizione, il conflitto irrisolto. Si evita di riconoscere che se la
collaborazione tra interessi del
capitale e interessi del lavoro esistesse per
davvero, allora ognuno dei due limiterebbe sé stesso per far posto all’altro, e pertanto non esisterebbe
più né il senso autentico
dell’intrapresa capitalistica, né il senso autentico del lavoro; e che se invece questi due fattori
esistono per davvero - come in effetti
esistono storicamente per davvero -, allora
ognuno dei due vuole diventare lo scopo dell’altro e ridurre l’altro alla funzione di mezzo, e in questo
caso il loro alimentarsi in una
circolarità virtuosa svanisce, cioè
svanisce la loro collaborazione.
Si tratta infatti di comprendere che se lo scopo dell’agire economico è la sintesi di quei due fattori -
ossia è la sintesi costituita dalla loro
collaborazione -, allora, in questa loro
sintesi, ognuno dei due limita l’altro, gli impedisce di espandersi sino
a diventare l’unico scopo, e quindi ne
distrugge la configurazione originaria. Se un uomo (fuor di metafora: l’agire economico) ama due donne
(fuor di metafora: la crescita del
profitto e la solidarietà), e crede che il
suo amore per l’una e il suo amore per l’altra abbiano a collaborare, cioè ad alimentarsi in una
circolarità virtuosa, quest’uomo si
inganna, perché l’amore che darebbe a
una se non ci fosse l’altra non può esserci più quando oltre a quell’una ama anche l’altra. Se i due amori
si alimentano virtuosamente e
collaborano, ognuna delle due donne è meno
amata, l’amore vero, esclusivo che ci sarebbe potuto essere per lei è andato perduto; se invece
questo amore vero ed esclusivo rimane,
allora esso non potrà più dividersi tra
le due donne e cioè l’amore vero ed esclusivo per l’una finirà inevitabilmente col detronizzare e
vanificare l’amore vero ed esclusivo per
l’altra. Fuor di metafora: o efficienza
e solidarietà collaborano, ma allora non
ci sarà più né capitalismo - cioè volontà di non limitare il proprio guadagno - né dottrina
sociale della Chiesa o delle sinistre,
che, sia pure in modo diverso, non
intendono limitare la realizzazione del bene comune, sacrificandone parti o aspetti al profitto;
oppure efficienza e solidarietà
mantengono i caratteri che storicamente sono loro propri e per i quali ognuna di queste due forze
intende essere lo scopo primario
dell’agire economico, ma allora non ci
potrà essere collaborazione tra i due, ma urto, lotta, conflitto più o meno mascherati. Per ora, si può dire che ognuno dei due
antagonisti tende a predicar male e a
razzolar bene. Cioè predica la
collaborazione con l’altro (e dunque predica, più o meno consapevolmente, la propria rovina - e questo
è appunto il predicar male), ma in
effetti persegue il proprio scopo
tentando di ridurre a mezzo lo scopo dell’antagonista (e questo è appunto il razzolar bene). Ci sono
avvisaglie, nel mondo, che oltre a
predicar male i due avversari incomincino
anche a razzolar male, e cioè incomincino a collaborare. Ma questo fatto vorrebbe dire che i due
avversari - efficienza capitalistica e
solidarietà cristiana o progressista - stanno
avviandosi al tramonto: così come va al tramonto quel vero amore per una donna quando esso viene a
trovarsi in compagnia dell’amore per
un’altra. Stanno avviandosi al tramonto
perché rinunciano al proprio scopo, cioè rinunciano a sé stessi. Che cos’è oggi un governo
tecnico in Europa - e, con qualche
riserva, nel mondo? È un insieme di decisioni,
vincolanti per un popolo, che, guidate dalla competenza scientifica, si propongono il benessere di
quel popolo. Ma tale benessere non è lo
stesso per le destre, le sinistre, la Chiesa
cattolica, il comuniSmo cinese, l’islam ecc.: in generale, per le diverse concezioni culturali dell’uomo e del bene. Appunto per questo, quando si produce un
forte condizionamento politico dei
partiti che sostengono un governo
tecnico (come ad esempio è accaduto in Italia), le decisioni vincolanti sono guidate da una
mescolanza di competenza scientifica e
di volontà politica, e la competenza
scientifica è soprattutto il mezzo per realizzare il concetto che forze politiche quasi sempre contrapposte
hanno del benessere del popolo che esse
intendono guidare. Tale concetto non ha
un carattere scientifico. L’azione
politica non è la scienza politica. Si dice, appunto, che la politica (Yazione politica) è un’arte,
avvolta quindi da quell’alone di
arbitrarietà che compete a ogni arte. Accade
quindi, al governo tecnico così inteso, che la scienza serva per realizzare una forma di non-scienza, tanto
più lontana dalla coerenza scientifica
quanto più accentuato è il contrasto delle
forze politiche che sostengono tale governo. È vero che per Max Weber la scienza ha un carattere
puramente strumentale, il cui scopo non
ha un valore scientificamente appurabile; ma
è anche vero che in questo modo la ragione vien posta al servizio della non-ragione, alla quale viene
affidata la sorte del mondo. (Certo, si
dovrà poicapire che cosa sta dietro la
ragione scientifica.) Ma nei
governi tecnici che agiscono nelle economie di
mercato il benessere del popolo, perseguito attraverso il
condizionamento politico, è il benessere quale è inteso, appunto, all’interno delle categorie della
produzione capitalistica della
ricchezza. In questa situazione, il
capitalismo è la condizione ultima della politica e del governo tecnico: la politica è un mezzo di cui il c
apitalismo si serve. Chi si propone
ancora, nel mondo democratico, una
economia non capitalistica? Tolta qualche eccezione, anche le sinistre vogliono essere ormai lontanissime
da ogni forma di marxismo o di economia
pianificata. La contrapposizione tra
destra, sinistra, centro ha un consistente denominatore comune, è una lotta all 'interno del sistema
capitalistico. Parlare dunque di un
condizionamento capitalistico dei
governi tecnici e della politica sembra soltanto un’owietà. E lasciarsi alle spalle la distinzione
tradizionale di centro, destra, sinistra
significa, innanzitutto, adottare correttamente e seriamente le regole dell’economia di
mercato. Nulla di strano che il riformismo
del governo di Monti si sia rivolto a
(quasi) tutte le formazioni politiche, rendendo più visibile che (quasi) tutte, ormai, si muovono all’interno
della logica capitalistica. Tecnica e
politica sono un mezzo di cui il
capitalismo si serve per realizzare i propri scopi. Sennonché nemmeno il capitalismo è scienza.
La scienza economica può sostenere che
esso è la forma più efficace di
produzione della ricchezza, ma all’essenza del capitalismo appartiene il rischio, Yazzardo, mentre la
scienza è essenzialmente la volontà di
evitare che le proprie leggi siano leggi
a rischio, azzardate, e dunque arbitrarie. Joseph Schumpeter, amico del capitalismo, ha
sostenuto che la sua crisi è dovuta alla
progressiva sostituzione del rischio con la
routine delle procedure tecno-scientifiche. D’altra parte, anche per il carattere rischioso del proprio
agire, il capitalismo si sente
autorizzato a porre come scopo primario non già il benessere del popolo ma il continuo aumento
del capitale 61 privato. Anche per il capitalismo si deve
dunque affermare che esso, assumendo
come mezzo la tecno-scienza, fa sì che la
scienza serva a realizzare la non-scienza: che la ragione (ossia ciò che oggi è considerato come la ragione
per eccellenza) serva a realizzare la
non-ragione. Tuttavia, la situazione si
complica ulteriormente quando accade che
la dimensione tecnica del potere sia condizionata non soltanto dall’economia capitalistica, ma
anche, e magari fortemente, dalla
dimensione religiosa, per esempio dalla
Chiesa cattolica. In questo caso, l’intento, lo scopo, è di tenere insieme capitalismo, politica e cattolicesimo
(evitando le degenerazioni dell’agire
economico e politico e anche religioso),
servendosi della tecno-scienza. La situazione si complica ulteriormente perché, mentre per il
capitalismo lo scopo primario dell’agire
economico e quindi del governo è
l’incremento del profitto privato, per la Chiesa lo scopo primario di tale agire e di un governo giusto
non deve essere il profitto, ma il bene
comune quale è appunto concepito dalla
dottrina sociale della Chiesa. Il capitalismo deve essere cioè un mezzo per realizzare questa forma del
bene comune. Mezzo, e non scopo. La pretesa della Chiesa (vado ripetendo da
tempo) che il capitalismo abbia come
scopo il bene comune e non il profitto è
volerne (inconsapevolmente?) la distruzione. A sua volta il capitalismo, assumendo come scopo
primario il profitto, vuole, a volte non
rendendosene conto, la distruzione della
società cristiana. È un problema, questo, che
non riguarda soltanto l’esperienza governativa Monti, ma tutte le presumibili coalizioni che
governeranno l’Italia. (Quasi vent’anni
fa, in un articolo sul Corriere poi incluso
in Declino del capitalismo, Rizzoli 1993, avevo preso in considerazione la proposta di Monti al
convegno di Cernobbio di quell’anno, di
tenere insieme efficienza capitalistica - e solidarietà - cristiana - e avevo
mostrato le difficoltà a cui va incontro
non solo tale proposta, ma ogni progetto
politico che intenda conciliare democrazia,
capitalismo, cristianesimo.)
Dico questo per rilevare come anche, ma non solo, in Italia si renda percepibile quella gigantesca
trasformazione del mondo che è
costituita dalla crisi del capitalismo (e del
cristianesimo - e della politica). Un governo che assuma come scopo primario sia l’efficienza sia la
solidarietà, assume infatti uno scopo
che non può essere né quello del capitalismo
né quello della Chiesa, i quali non intendono avere al loro fianco, in posizione paritaria, alcun altro
scopo (ma dove l’efficienza subordina a
sé la solidarietà, servendosene, e la
solidarietà, a sua volta, subordina a sé l’efficienza, servendosene). Se tale governo crede di poter
mantenere in posizione paritaria sia
l’efficienza capitalistica sia la solidarietà
cristiana si illude, cioè si propone di realizzare una contraddizione. Ciò non significa che tale
proposito non abbia a realizzarsi, e
magari con risultati soddisfacenti:
significa che tali risultati saranno inevitabilmente provvisori, instabili, ossia che quel proposito non potrà
mai ottenere ciò che crede di poter
ottenere. Come di regola accade lungo il
corso storico. Comunque, sia
illudendosi di unire efficienza capitalistica e
solidarietà cristiana (e politica) sia evitando questa contraddizione, dando quindi vita a un nuovo
senso dell’efficienza e della
solidarietà e dunque della loro unione,
proporsi come scopo tale unione servendosi delle competenze tecno-scientifiche è pur sempre un agire in cui
la forma oggi ritenuta la più rigorosa
della razionalità umana (la tecno-
scienza, appunto) è posta al servizio di forme meno rigorose di tale razionalità. Cioè la potenza di
quell’agire è posta al servizio della
non potenza. E la potenza, la capacità di realizzare scopi, è insieme la
ricchezza di un popolo. Proporsi, come
accade nei governi tecnici d’oggigiorno, di
eliminare le degenerazioni della politica e dell’economia è però un passo avanti nella direzione lungo la
quale si finisce col capire che le
società diventano potenti e ricche non
eliminando la cattiva politica e la cattiva economia, ma mettendo la buona politica e la buona
economia (che anche risanate sono pur
sempre forme meno rigorose dell’agire
razionale) al servizio della tecnica guidata dalla scienza - della tecnica, il cui scopo è precisamente
l’aumento indefinito della potenza. Difficile
smentire, nel loro insieme e nel loro senso più
corrente e generale, le osservazioni proposte nel 2003 dalla rivista Liberal (n. 19) per la discussione
intorno agli Stati Uniti d’America.
Esempio. Dall’Europa, dalla sua cultura
politica prevalente, si guarda sempre più all’America in modo semplificato. C’è la tendenza a sottovalutare
i valori della sua democrazia e a
sottolinearne, al contrario, i limiti.
Se le espressioni Europa e sua cultura politica prevalente indicano soprattutto gli umori
dell’opinione pubblica europea, allora è
un fatto che mentre alla fine della
seconda guerra mondiale gli Americani erano per gli Europei i liberatori, oggi vengono piuttosto sentiti
come i cittadini di uno Stato che
ritiene di non dover dar conto a nessuno del
proprio operato. Questo è un problema di psicologia delle masse, facili a dimenticare i benefìci
ricevuti (anche perché il ricambio
generazionale fa sì che i dimentichi di oggi non siano più i beneficiati di ieri). Se invece Liberal intendesse affermare che
oggi in Europa è in atto una critica dei
valori espressi dalla Costituzione
americana, questa affermazione vorrebbe dire
che in Europa cresce la preferenza (o la nostalgia) per lo Stato autoritario. Ma questo non è vero (in Europa
i partiti di estrema destra e di estrema
sinistra sono piccole minoranze); e non
sembra nemmeno che Liberal voglia sostenere questa tesi. Fuori discussione, invece, che quella
americana è la prima costituzione
liberal-democratica apparsa nel mondo
moderno - la prima, cioè, dove il principio della libertà dal potere politico si unisce al principio
dell’eguaglianza dei cittadini di fronte
alla legge. E fuori discussione, inoltre, che gli Stati Uniti sono nati da una grande decisione collettiva di proteggere
gli interessi e il bene comune, definiti
soprattutto in relazione a ciò che essi
significano nella cultura illuministica. Qui va aggiunto che tale decisione è tanto più rilevante quanto
più essa ha inteso arginare (con
maggiore o minore successo) gli interessi e il
bene dell’economia di mercato, dove l’agire capitalistico non ha e non può avere di mira l’interesse e il
bene comune, ma l’interesse e il bene
privato, cioè l’incremento del profitto (sì
che l’interesse e il bene comune, nell’intrapresa capitalistica, non sono lo scopo dell’agire economico, ma
una conseguenza, un sottoprodotto di
quell’incremento). Relativamente allo
sfondo (o al contenimento) liberal-
democratico del capitalismo si può dire, con Liberal, che è la natura della democrazia americana a
presentarsi come un fenomeno unico anche
nel contesto più generale dell’Occidente. La domanda centrale (e, se non mi inganno,
retorica) di Liberal suona comunque: Non
è forse questo - americano - l’unico
modo di vivere una democrazia, che
altrimenti si limiterebbe ad essere un insieme di procedure...?; e tale domanda è preceduta
dalla affermazione della capacità della
democrazia americana di credere in sé
stessa e di assumersi le proprie responsabilità. Queste affermazioni riguardano un insieme di
questioni eterogenee: da un lato, la
tesi che la condotta storico fattuale
degli Stati Uniti è sostanzialmente fedele al proprio ordinamento costituzionale; dall’altro lato,
la tesi che l’Europa avrebbe il miglior
ordinamento costituzionale se adottasse
quello statunitense; e, anche che gli Europei condurrebbero la miglior vita politica se sul piano
storico-fattuale si adeguassero alla propria
rinnovata costituzione così come gli
Americani vi si adeguano. Tesi, queste ultime, che possono essere
veramente discusse, ma che lasciano
fuori campo la questione preliminare e
decisiva (alla quale abbiamo già accennato), che peraltro è venuta sempre più in luce dopo la risposta
americana, in Afghanistan e in Iraq,
all’attacco terroristico dell’11
settembre: che cosa significa, che cosa implica, quali reazioni produce uno Stato che agisce in base alla
convinzione di essere di fatto rimasto
l’unica Superpotenza alla guida del
mondo e a proposito del quale si teorizza anche il diritto a esserlo?
La risposta americana all’attacco subito era inevitabile (come in altre sedi ho motivato), ed era inevitabile
che la risposta avvenisse nella forma
della guerra preventiva concepita come
legittima difesa. Ma, nonostante tutto quel
che si è detto in proposito, non sta qui il problema - il problema preliminare e decisivo. Esso
riguarda il contesto delle convinzioni
con le quali gli Usa stanno vivendo questa
fase della loro storia. Altro è infatti credere che i supremi interessi dello Stato americano richiedano
che esso si difenda adottando misure
come la guerra preventiva, ma lo si creda
sapendo che tali misure, prese in modo così fortemente autonomo, sollevano il problema, non meno
grave di quello del terrorismo islamico,
del rapporto tra l’autonomia americana e
il resto del mondo, e cioè sapendo che tale
problema è, appunto, problema e non soluzione; altro è che gli Usa trattino come soluzione questo
problema e siano convinti che, poiché
sono di fatto venuti a trovarsi alla guida
del mondo, o hanno il compito di porvisi, allora l’autonomia esercitata nella loro risposta al terrorismo
è la conseguenza naturale della loro
primazia planetaria. Due atteggiamenti
profondamente diversi, questi due, e, soprattutto negli ultimi tempi, tra loro in contrasto negli stessi
Stati Uniti. Il contrasto è alimentato
dalla coscienza crescente che gli Stati Uniti non possono reggere da soli il
peso immane di cui il secondo, e
trionfalistico, di quei due atteggiamenti vorrebbe caricarli. Affermare che l’unico modo di vivere una
democrazia è quello americano significa
certamente che l’Europa non può mettersi
in rotta di collisione con gli Usa. Ma significa anche che l’Europa deve stare a loro soggetta? Il
bon ton della riflessione politica
auspica che l’Europa non allenti i legami
con gli Usa e che d’altra parte non ne sia succube. Ma può l’Europa non essere succube senza essere
forte - cioè militarmente forte, o
addirittura competitiva rispetto agli Usa
- e continuando ad affidare aU’America la propria difesa? Sembra che vi
sia stata la tendenza a sottovalutare l’asse
Parigi-Berlino-Mosca (e Madrid), costituitosi in contrapposizione alla guerra Usa contro
l’Iraq. Ma si parla anche
dell’opportunità dell’ingresso della Russia nell’Unione eu-ropea - sia perché la Russia muove i primi
passi verso l’economia di mercato sia
per la rinnovata visibilità della Chiesa
ortodossa. Una ventina d’anni fa avevo scritto (il testo è stato poi incluso ne II declino del
capitalismo, cit., col titolo L’Europa
tra America e Russia ): Ciò a cui si presta troppo poca attenzione è che la Russia, una volta
aiutata dall’Occidente a uscire dalla
crisi economica in cui si trova
attualmente, è anch’essa in grado di offrire all’Europa quella protezione militare, contro le minacce del
Sud, di cui gli Stati Uniti hanno oggi
il monopolio - e in nome della quale
possono pretendere che l’Europa stia in posizione subordinata, perché non può restituir loro un
vantaggio di egual peso. Scambio che
invece è possibile nel rapporto tra
Europa e Russia, perché l’Europa ha sì bisogno di aumentare sostanzialmente il livello della propria
potenza militare, ma anche la Russia,
che può consentire questo aumento, ha a sua
volta bisogno del sostegno economico che l’Europa occidentale può darle. Un processo che
d’altra parte già allora si presentava
tutt’altro che agevole, soprattutto per quanto
riguarda il controllo dell’arsenale moderno russo, giacché l’Europa potrebbe sostenerne economicamente
l’efficienza solo se la gestione e il
controllo di esso fossero effettuati, oltre
che dalla Russia, anche dagli altri Stati europei. Certo, a distanza di vent’anni, la
situazione è cambiata: la crisi
economica dell’Unione europea rende quest’ultima molto meno forte nella contrattazione con una
Russia che ha superato il trauma dovuta
al tramonto del marxismo e dell’economia pianificata. Da ciò si spiega
l’aumento della diffidenza dell’Ue
(perfino della Germania) nei riguardi della
Russia. Sino a che la crisi economica dell’Europa non verrà superata, il processo che conduce a una più
stretta collaborazione politica tra
Europa e Russia subirà un inevitabile
rallentamento. Da satellite degli Stati Uniti - per i quali diventa peraltro sempre più pesante il
compito di contenere anche in Europa la
pressione del mondo arabo -, l’Europa
non intende diventare satellite della Russia. D’altra parte è nella natura della storia dei
rapporti secolari tra Europa e Russia,
della situazione geopolitica e degli attuali
rapporti economici tra le due aree, che esse vengano a formare un unico sistema euroasiatico di
controllo della conflittualità
internazionale, insieme a Stati Uniti, Cina,
India. E se da un lato è nell’interesse della Russia che la decadenza dell’Europa venga arginata per non
essere coinvolta, dall’altro lato la
Russia non può non capire che gli Stati
Uniti non accetterebbero mai che per tale decadenza la Russia divenga arbitra delle sorti
dell’Europa. Pertanto, se oggi l’Europa è
più debole che in passato nella contrattazione
con la Russia, esistono tuttavia le condizioni perché il rapporto tra queste due aree tenda a
riequilibrarsi. Non si tratta qui di auspicare
(o temere) la simbiosi Europa-Russia, ma
di constatare una tendenza che è
nell’ordine delle cose, anche se contrastata da molte forze, innanzitutto da quanti, ancora, concepiscono
gli Usa come l’unica Superpotenza che
non può rinunciare a questo suo status e
che in ultima istanza deve rispondere soltanto a sé stessa. (Tra quelle forze va annoverata anche
la Chiesa cattolica, che vedrebbe
ridimensionata la sua presenza in Europa
ad opera della Chiesa ortodossa russa, e che tempo fa, per bocca dell’allora ministro degli Esteri
vaticano Tauran ha manifestato
perplessità circa l’entrata della Russia nell’Unione europea, aggiungendo che
prima si dovrebbe pensare all’entrata di
Stati come l’Ucraina e la Moldavia.)
Per mezzo secolo il bipolarismo Usa-Urss ha assicurato la pace nel mondo, nonostante l’insanabile
contrasto ideologico delle due
superpotenze. Alla guida dei popoli poveri, l’Urss ha anche contenuto e controllato la loro
aggressività. Impensabile, in quel
tempo, un terrorismo islamico. Per
quanto paradossale possa sembrare, l’Urss ha contribuito in modo decisivo ad assicurare la pace delle
società democratico-capitalitiche. Da
quando si è creduto che il bipolarismo
fosse ormai tramontato, gli Usa si sono trovati
sulle spalle un fardello troppo pesante, reso ancor più pesante dal fatto che la Russia, avviandosi verso la
democrazia e l’economia di mercato, si è
sempre meno presentata come guida delle
rivendicazioni dei popoli poveri e si è sempre più schierata in favore delle popolazioni slave
contro quelle mussulmane. Il bipolarismo
Usa-Urss è stato (come da vent’anni
sostengo) la prima incarnazione dello Stato
mondiale - ossia del monopolio legittimo della violenza esercitato su scala mondiale (cfr. E.S., La
tendenza fondamentale del nostro tempo,
Adelphi 1988); e sin dalla caduta del
muro di Berlino sostengo che la scomparsa del
bipolarismo è un’apparenza che ha illuso e illude molti. Infatti, il bipolarismo ha un carattere
primariamente militare, che non è certo
venuto meno per il fatto che l’arsenale
nucleare russo, tuttora concorrenziale rispetto a quello Usa, non è più gestito da una ideologia
totalitaria (Cfr. E.S., Il declino del
capitalismo, cit.). Se il bipolarismo gestito da irriducibili
avversari ideologici ha salvaguardato
per mezzo secolo la pace (ho spesso rilevato
l’ingenuità della convinzione che le due maggiori potenze della terra considerassero seriamente la
possibilità di distruggersi a vicenda),
si presenta ora la tendenza reale verso un bipolarismo costituito da due
dimensioni economico- politiche (Usa e
Europa-Russia), che, in parte già omogenee,
per quanto riguarda l’Europa, vanno sempre più avvicinandosi e che, insieme, possono
costituire quel centro dello sviluppo
storico sulla terra, che non può essere gestito
da una sola delle due. È nello stesso interesse di quest’ultimi che tale nuova forma di bipolarismo prenda
piede. Ed è prevedibile che alla fine
gli Usa prendano coscienza dei loro
autentici interessi. Degno di nota, in proposito - ripetiamo - che in Italia il presidente del Consiglio del
governo di centrodestra abbia più volte
proposto l’entrata della Russia
nell’Unione europea. Le considerazioni qui sopra sviluppate indicano il contesto in cui tale proposta può
avere fondamento. E forse è interessante
anche (e non paradossale, come a prima
vista potrebbe sembrare) che quella proposta
sia accompagnata dalla volontà di mantenere un asse preferenziale con gli Usa. Se non è una
contraddizione, quella proposta può
essere infatti condotta a significare che l’Europa può essere la vera alleata e dunque non
subordinata ah’America, solo se essa
possiede, oltre alla potenza economica,
anche quella militare, che oggi continua ad avere il suo fulcro in un arsenale atomico
invincibile, cioè in un apparato che
sarebbe velleitario per l’Europa costruire
(nonostante la chance nucleari di Francia e Inghilterra), ma che la Russia realmente possiede, e la cui
perpetuazione diventa tuttavia sempre
più onerosa per la Russia - premuta,
quest’ultima, da un lato dalla consapevolezza che in un mondo sempre più pericoloso l’invincibihtà
atomica è un bene irrinunciabile, e dall’altro
dalla tentazione di intaccare il
capitale atomico cedendone porzioni in cambio dei vantaggi economici che i compratori, più o meno
affidabili, potrebbero assicurarle. L’entrata della Russia in Europa pone
indubbiamente enormi problemi - soprattutto, si è già detto, per quanto riguarda la gestione dell’apparato nucleare
russo -, che però sono pur sempre
inferiori a quelli dell’alternativa costituita da un mondo sempre più complesso (anche per
l’affacciarsi di nuove grandi potenze
come la Cina) ed esplosivo, dove gli Usa
fossero convinti di poterne da soli determinare le sorti e dove le difficoltà economiche della Russia
potrebbero farle perdere il controllo
del proprio apparato nucleare a vantaggio
del terrorismo islamico. Il problema del rapporto tra popoli ricchi e poveri si risolve riducendo il loro
dislivello economico; ma la tendenza
verso l’entrata della Russia nell’Unione
europea e il conseguente rinnovato bipolarismo
stabilizza l’organizzazione globale dei Paesi ricchi e rende quindi efficace e sicura la loro
indifferibile decisione di ridurre la
loro distanza economica dai Paesi sottosviluppati. La costituzione americana è
un grande modello di società
liberal-democratica, ma è un’astrazione proporlo all’Europa senza tener conto del processo storico reale
che spinge l’Europa a confrontarsi col
problema-Russia. È un’astrazione anche perché
il sottinteso dei sostenitori della democrazia e dell’economia di mercato è che quest’ultime,
dopo la fine del socialismo reale, non
abbiano alternative. Ma, anche qui,
debbo rinviare a quanto vado sostenendo da molto tempo. Infatti il Meccanismo inaggirabile -
richiamato anche nelle pagine precedenti
- per il quale le grandi forze che oggi
guidano il pianeta (capitalismo, democrazia, cristianesimo, islamismo, nazionalismo ecc. - e, ieri,
socialismo reale), e che lo guidano servendosi,
come mezzo, della tecnica moderna, sono
destinate a diventare mezzi del potenziamento del proprio mezzo, cioè della tecnica, la quale
dunque è destinata a diventare il loro
scopo. Ma la tecnica destinata a
diventare scopo non è la tecnica
scientisticamente intesa, ma è l’apparato scientifico- tecnologico in quanto esso va unendosi
all’essenza della filosofia
contemporanea, ossia alla struttura concettuale che negli ultimi due secoli ha mostrato
l’impossibilità di ogni limite assoluto
all’agire dell’uomo. La tecnica, così intesa, è
guidata dal risultato essenziale del pensiero filosofico dell’Occidente. In quanto tale pensiero la
guida e le fa scorgere l’impossibilità
di ogni limite assoluto dell’agire, la
tecnica acquista una potenza essenzialmente superiore a quella di ogni tecnica che invece sia assunta
come mezzo e pertanto sia limitata e
frenata dagli scopi delle forze della
tradizione occidentale. E la superiorità della sua potenza la destina - in un mondo che crede sempre di
meno nei valori assoluti della
tradizione - a prevalere su ogni forma di tecnica che funzioni come mezzo per
la realizzazione di tali valori. Già da
questo ordine di considerazioni si può capire che lo strumento vincente conduce a una situazione
dove la sua tutela e Fincremento della
sua potenza sono destinati a diventare
lo scopo delle forze che invece vorrebbero
trattenerlo nella sua funzione di mezzo. Oggi anche la democrazia si serve della
tecnica, ma il mondo procede verso un
tempo in cui sarà la tecnica (intesa in
quel suo significato complesso) a servirsi della democrazia (e delle altre forze prima menzionate), ossia
a utilizzare l’organizzazione
democratica della società per realizzare
Fincremento della propria potenza - a utilizzare la democrazia, dico, e non quell’assolutismo
politico che appartiene all’insieme dei
limiti assoluti di cui il pensiero
filosofico del nostro tempo mostra l’impossibilità. Ma la democrazia come scopo della tecnica è
qualcosa di essenzialmente diverso dalla
democrazia che diventa mezzo della
tecnica. Così come la ricchezza al servizio della vita buona, cioè dell’etica, è qualcosa di
essenzialmente diverso della ricchezza
che ha l’etica al proprio servizio; e l’etica che si serve della ricchezza è qualcosa di
essenzialmente diverso dall’etica di cui
la ricchezza si serve. Ho in più modi indicato
perché il Meccanismo che conduce a questo rovesciamento di scopo e mezzo sia qualcosa di inaggirabile -
un rovesciamento, peraltro, che pur non
dicendo affatto l’ultima parola, è
destinato a dominare per lungo tempo la storia del pianeta (cfr., oltre ai miei due scritti
prima citati: E.S., Il destino della
tecnica, Rizzoli 1998; Crisi della tradizione
occidentale, Marinotti 1999; e N. Irti - E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Laterza 2001; E.S.,
Capitalismo senza futuro, cit.). La democrazia europea e americana continuano
a concepire la tecnica come mezzo per
realizzare un mondo democratico. Stando all’interno di questa convinzione, si
può vedere nella costituzione americana
il modello stesso della vita
democratica. Ma se, in forza di quel Meccanismo, la democrazia è destinata a perpetuarsi solo
nella misura in cui diventa mezzo della
tecnica, e se la democrazia come mezzo è
qualcosa di essenzialmente diverso dalla democrazia come scopo, allora il problema dell’adeguazione
della democrazia europea al modello
americano diventa obsoleto, perché a
questo punto viene in primo piano il problema di quale nuova configurazione venga ad assumere -
negli Stati Uniti, in Europa, in Russia
- la democrazia, una volta che essa sia
ridotta, appunto, alla funzione di mezzo. Il Meccanismo di cui stiamo parlando avvolge cioè e coinvolge
lo stesso problema, prima considerato,
relativo al rapporto tra Usa, Europa,
Russia. Il processo che conduce verso
il nuovo bipolarismo democratico è
inscritto cioè nel più ampio e più profondo
processo che conduce al rovesciamento dove l’indefinito potenziamento della tecnica - in quanto unita
alla consapevolezza filosofica che non
esistono limiti assoluti all’agire umano
(Dio è morto) - diventa lo scopo delle forze
che tuttora si illudono di servirsi della tecnica e dunque diventa lo scopo della stessa democrazia. La
rivista Liberal rileva che la democrazia
americana crede anche nelle
responsabilità che si assume e nella sua capacità di difendere i suoi principi di riferimento. A fondamento di
questa fede si trova la volontà di non
cedere agli avversari; e tale volontà è
concreta solo in quanto potenzia il più possibile l’apparato scientifico-tecnologico che le consente di
non cedere. Ma sino a che tale apparato
è mezzo, strumento, esso è soggetto al
logoramento a cui ogni mezzo è soggetto; sì che la democrazia stessa non può permettere che abbia a
logorarsi lo strumento che le assicura
la sopravvivenza e la primizia. Ma quando e in quanto evita che la tecnica,
ossia il proprio strumento, attualmente
insostituibile, abbia a logorarsi, la democrazia è già sulla strada del Meccanismo a cui abbiamo
accennato, la strada dove la democrazia
stessa rinuncia a porsi come lo scopo
dell’agire sociale e assume come scopo del proprio agire la tutela e rincremento indefinito della
potenza del proprio strumento. Lo stesso
discorso va fatto a proposito di tutte le
altre forze che, come la democrazia, intendono servirsi della tecnica come mezzo per la realizzazione dei
loro scopi (reciprocamente
escludentisi). D’altra parte la
liberal-democrazia americana è unita
all’economia di mercato e già da tempo quest’ultima non è più lo scopo dell’azione storica degli Stati
Uniti. Essi cioè, in quanto superpotenza
planetaria, non intendono sviluppare la
propria potenza, e guidare il mondo, allo scopo di incrementare il profitto dei grandi trust del
capitalismo americano, ma, all’opposto,
intendono servirsi del profitto che
l’economia capitalistica va accumulando, allo scopo di sviluppare la propria potenza e dominare il
mondo. Infatti, anche questi due scopi
sono tra loro conflittuali; ed essere
potenti per essere ricchi indebolisce da ultimo la potenza e quindi la stessa ricchezza che dalla potenza
è resa possibile e sostenuta. L’inevitabile percezione di questa
conseguenza spinge l’America verso un
atteggiamento dove essa vuole essere ricca
per essere potente, cioè per incrementare la potenza del proprio apparato tecnologico, di cui ci si
illude ancora, negli stessi Usa, di
servirsi. Peraltro, l’illusione è tanto più
giustificata quanto meno viene percepita l’inevitabilità del tramonto dei valori della tradizione
occidentale - tra i quali, va
sottolineato, vanno annoverati gli stessi valori dell’islamismo. In questa situazione, lo
scopo dell’agire non è più l’incremento
capitalismo del profitto, e quindi non è più la liberal-democrazia in quanto a
esso unita: lo scopo diventa la tecnica;
e la democrazia, cambiando volto, assume tratti che sono ancora tutti da decifrare. Ma già qui è
opportuno rilevare (e l’osservazione vale per
tutto quanto ho scritto sulla tecnica) che il rovesciamento in cui la tecnica, da mezzo, diventa scopo -
il meccanismo cioè del rovesciamento - è
un movimento che si costituisce
alVinterno della fede che esistano mezzi e scopi - e questa fede appartiene alla follia estrema del mortale
(cfr. cap. VI). Come tale follia diventa
coerente quando essa nega ogni immutabile
e ogni verità che pretendano porsi al di sopra del divenire, per dominarlo, così la follia estrema diventa
coerente quando la volontà di far
diventar altro le cose esce dalla situazione in cui essa si serve della tecnica come mezzo ed
entra nella situazione in cui il
potenziamento infinito della tecnica
diventa lo scopo dell’uomo. Proprio perché appartiene al contenuto della fede nel divenir altro delle
cose, e pertanto della volontà di farle
diventare altro, il rovesciamento di cui
stiamo parlando appartiene alla volontà interpretante, ossia alla non-verità. Nello sguardo del destino,
invece, appare che, commisurato alla
verità autentica ossia al destino della verità,
il contenuto della follia - cioè della fede, della volontà e della volontà interpretante - è il nulla - non
essendo invece un nulla la fede, la
certezza che tale contenuto non solo non sia
un nulla, ma sia l’evidenza suprema. Nello sguardo del destino della verità appare cioè che
l’apparire di quelVeterno, che è la fede
di assumere la tecnica come mezzo, è seguito da
quell’altro eterno che è la fede che la tecnica da mezzo diventa scopo - dove questo rovesciamento, cioè
questo scambio delle parti, ha un
carattere vincolante, ossia è qualcosa di
inevitabile, aU’interno della logica e delle regole secondo cui si costituisce il contenuto della volontà
interpretante, ossia della fede. In
altri termini, è lasciando parlare la fede nel divenir altro, che essa, diventando coerente alla
propria logica, afferma la necessità che
quella volontà di far diventar altro le cose, in cui la tecnica consiste,
divenga, da mezzo, scopo. Il discorso
va esteso all’intero contenuto della volontà
interpretante: l’intero contenuto di tale volontà è il nulla, ma tutte le determinazioni che restano evocate
dalla volontà intepretante sono degli
eterni che appaiono con necessità così
come appaiono - dove questa necessità è essenzialmente diversa da quella che compete alla logica che
guida la fede e la volontà interpretante.
Si richiami qui uno dei motivi fondamentali per i quali in queste pagine si afferma che lo scambio delle
parti - ossia il rovesciamento del
rapporto mezzo-fine - è, all’interno di tale
logica, inevitabile (cfr. E.S., Capitalismo senza futuro, cit.). Nell’agire, lo scopo, come idea - ossia come
primum in intentione, come presenza
ideale nella mente di chi agisce -
determina il mezzo da cui è realizzato: lo configura, lo orienta e gli assegna i limiti oltre i quali esso non
sarebbe più idoneo a realizzare tale
scopo. Lo scopo, come fatto reale - ossia in
quanto è Yultimum in executione -, è prodotto dal mezzo; ma, prima e durante questa produzione, la presenza
ideale dello scopo guida, controlla,
regola la produzione del mezzo. (Ad
esempio, la decisione di far guerra guida, controlla, regola la produzione delle armi che sono il mezzo con
cui tale decisione è realizzata, cioè
sono il mezzo di cui quella decisione si
serve per realizzarsi?) Se uno scopo è
in conflitto con altri scopi e non intende
farsi sopprimere da essi, e anzi intende prevalere e sopprimerli, l’agire che mira a farlo
prevalere non può evitare di potenziare
il più possibile il mezzo di cui tale agire si serve per far prevalere tale scopo. Ma non può
potenziarlo oltre i limiti al di là dei
quali il mezzo non è più guidato, controllato,
regolato dallo scopo. Ad esempio l’agire che ha uno scopo non può concentrare tutte le proprie energie
nella produzione e nel perfezionamento e
potenziamento del mezzo, altrimenti non
resterebbero più energie e tempo per la realizzazione dello scopo dell’agire. Proprio la volontà di
perfezionare e potenziare il più
possibile il mezzo con cui ci si propone di
realizzare uno scopo sottrae il mezzo alla guida, al controllo, alla regola che lo scopo stabilisce per la
produzione del mezzo. Se, nel conflitto
tra scopi (e nella storia dell’uomo nessuno
scopo si è trovato al di fuori dell’elemento conflittuale), uno di essi, per prevalere sugli altri, rinuncia
alla propria o a una parte della propria
determinazione del mezzo e potenzia il
mezzo oltre il limite che rende coerente il mezzo allo scopo, gli scopi antagonisti saranno certamente
vinti, ma il vincitore non sarà nemmeno
lo scopo che, per vincere, ha rinunciato a
determinare il proprio mezzo, ossia ha rinunciato a sé stesso. Sfuggendo alla guida di ciò che dovrebbe
essere il suo scopo, il mezzo che ha
vinto non ha realizzato il proprio scopo
perché andato oltre i limiti che determinano il mezzo e che, insieme, definiscono lo scopo, ha realizzato
uno scopo diverso da quello che
inizialmente intendeva servirsi di tale mezzo per realizzarsi. Propriamente, lo scopo che è
stato realizzato è diventato il
potenziamento del mezzo che doveva realizzare
un certo scopo, e al nuovo scopo, costituito da tale potenziamento, il vecchio tenta di restare
aggrappato per poter mantenere ancora la
propria funzione di scopo. Ma invano,
perché la fine di un conflitto è solo una parentesi nella conflittualità che è ineliminabile
perché è dovuta all’esistenza stessa
dell’agire e della volontà; sì che viene alla
luce che lo scopo autentico dell’agire è un potenziamento del mezzo, che non consente ai vecchi scopi di
restargli aggrappati per sopravvivere
come scopi. Anche lo Stato parassitario
che dà loro l’apparenza di scopi è destinato a
tramontare. Una situazione, poi,
in cui nessun agire oltrepassi i limiti
che determinano i propri mezzi e definiscono i propri scopi sarebbe una situazione non conflittuale, cioè
una situazione impossibile, perché le
cose che la volontà di una certa forma
di agire vuol trasformare per ottenere un certo scopo sono le stesse che la volontà di una cert’altra forma
di agire vuol trasformare per ottenere
uno scopo diverso, e quindi il conflitto tra le due volontà è inevitabile. Quando si afferma che il fine non giustifica
i mezzi, si intende che i mezzi devono
essere coerenti al fine voluto. Il fine
giustifica i mezzi che sono coerenti a esso. Ma la giustificazione dei mezzi è anche la loro
limitazione. La giustificazione dei
mezzi da parte del fine è la loro
mortificazione, il loro freno.
Poiché ogni scopo si trova in una situazione conflittuale, l’agire, cioè l’assunzione di mezzi per
realizzare scopi, è una contraddizione,
dove, da un lato, lo scopo guida il mezzo da
cui è realizzato e, dall’altro, per prevalere sugli scopi che impediscono tale realizzazione, lo scopo non
guida il mezzo. Da un lato il mezzo è
potenziato fino a un certo punto,
dall’altro è potenziato oltre quel punto. La libertà dell’individuo moderno è la
facoltà di realizzare una serie di
scopi, e nella democrazia la libertà di
un individuo si estende sin dove arriva la libertà degli altri individui. Lo Stato moderno dovrebbe
garantire l’equilibrio, cioè i limiti
che definiscono le diverse serie di scopi, cioè la libertà di ogni individuo. Ma anche
all’interno dello Stato moderno queste
diverse serie sono tra loro conflittuali, e
pertanto l’agire individuale è esso stesso una contraddizione. La libertà del cittadino è contraddizione.
All’interno della contraddizione si
trova tuttavia anche la schiavitù e la servitù,
che è totale o parziale a seconda che chi si impone abbia una signoria totale o parziale sul vinto. Nel
conflitto, chi ha vinto un avversario
autentico - cioè che non si limita a subire lo
scopo del potente, ma intende a sua volta prevalere sull’avversario - ha dovuto potenziare i
propri mezzi oltre i limiti che
determinano i mezzi e definiscono lo scopo del
vincitore. Ma lo stesso ha dovuto fare chi ha perso, perché per non perdere ha dovuto a sua volta
oltrepassare il più possibile i limiti che determinano i mezzi di cui disponeva
e che definiscono gli scopi a cui
mirava. L’avversario autentico non perde
(diventando in tal modo servo o schiavo) perché
non ha oltrepassato quei limiti, ma perché, oltrepassandoli non ha ottenuto dai propri mezzi la potenza
che dai propri è riuscito a ottenere il
vincitore. L’agire del vincitore è
contraddizione proprio perché è contraddizione anche l’agire del vinto. Poiché l’agire dell’uomo è
coordinazione di mezzi in vista della
realizzazione di scopi, e si trova essenzialmente all’interno di una situazione conflittuale,
l’agire umano in quanto tale è
contraddizione. È contraddizione dallo stesso
punto di vista di chi non vede l’alienazione dell’agire in quanto volontà che qualcosa divenga e sia
altro da ciò che essa è. Tutte queste
considerazioni sono ora da riferire alla
situazione conflittuale di particolare rilievo storico, dove le grandi forze dell’Occidente intendono
realizzare i loro scopi conflittuali
servendosi ognuna di una certa frazione
dell’apparato scientifico-tecnologico, divenuto ormai il Mezzo supremo per la realizzazione di ogni scopo
dell’uomo. La filosofia del nostro tempo
mostra infatti, nella propria essenza,
che non può esistere alcuna dimensione divina e
immutabile che possa essere raggiunta con un mezzo diverso da quello tecnologico, cioè da ciò che nella
tradizione filosofica era l’adeguazione
dell’uomo e dello Stato alla verità
svelata dal sapere filosofico.
All’inizio, ognuna di quelle grandi forze dell’Occidente intende guidare, controllare, regolare e
quindi limitare il mezzo tecnologico di
cui essa dispone. Ma nella situazione
conflittuale è inevitabile che il limite che determina il mezzo e definisce lo scopo di ognuna di tali forze
sia oltrepassato e che il potenziamento
della tecnica divenga lo scopo supremo di
tutto l’agire umano. Qui si produce la forma più imponente dello scambio delle parti e, insieme, la
forma più imponente della contraddizione dell’agire. Capitalismo,
comuniSmo, democrazia, cristianesimo,
islamismo, nazionalismo sono (o sono
stati) costretti da un lato, a potenziare sempre di più il Mezzo tecnologico a loro disposizione, e,
dall’altro, sono (o sono stati)
costretti a indebolirlo, cioè a limitarne il
potenziamento, per evitare di farlo uscire dal loro controllo, dalla loro guida, dalla loro regola. Oggi la
tecnica è il fondamento della salvezza
di ogni scopo e quindi ogni scopo, per
salvare sé stesso, è costretto ad assumere come scopo il potenziamento del proprio Mezzo: per salvare
sé stesso ogni scopo è costretto a
rinunciare a sé stesso. Nel saggio di S. La tendenza fondamentale del nostro
tempo (Adelphi), ma anche prima in
Téchne (Rusconi 1979), e in seguito in
altri scritti ancora, si mostra in che senso e per quali motivi è necessario affermare, da un
lato, che l’essenza - Inanima - della
civiltà occidentale è il pensiero
filosofico, e, dall’altro, che il pensiero filosofico del nostro tempo, quando si riesca a scendere nel suo
sottosuolo essenziale, mette in luce l’inevitabilità
del tramonto della grande tradizione
dell’Occidente e l’altrettanto inevitabile
destinazione della tecnica al dominio del pianeta. Ma, fino a che non si scorge il significato autentico di
queste affermazioni, esse scadono al
livello della semplice notizia. (Se non
intende essere la semplice opinione di qualcuno, ogni affermazione dev’essere infatti argomentata.
La parola argomento proviene dal latino
arguo e dal greco argòs, che indicano il
porre in chiara luce. Poiché la luminosità può
essere maggiore o minore, per affermare qualcosa in modo adeguato bisognerebbe dire che cosa
propriamente significa luce e qual è il
grado di luminosità di cui la risposta si
avvale. Da millenni l’uomo tenta di dirlo.) In che consiste l’identità dell’Europa? È
stato indicato in molti modi. Come
prendere posizione? Innanzitutto va messa
in luce l’indicazione che è in grado di includere tutte le altre e che non è inclusa da nessun altra. È quindi
inevitabile che essa sia la più astratta.
In quanto è comune alla maggiore o
minore concretezza di tutte le altre, tale indicazione sta infatti al di sopra della concretezza - senza
tuttavia ignorarla. L’astratto non è
qualcosa di negativo; è anzi il segreto in cui
è riposta l’adeguatezza della diagnosi.
Si tratta di portare alla luce ciò che è comune all’immensa varietà di eventi da cui è costituita la
storia europea. Oggi il sapere diffida di ciò che è comune. Si ritiene, oggi,
che la forma più rigorosa del sapere sia
la specializzazione scientifica - che,
appunto, è l’opposto della cura per ciò che è comune. Ma dal comune non ci si può liberare. Ogni
sapere autentico - si dice - dev’essere
specialistico e quindi il senso dell’Europa
si spezza nella molteplicità di sensi che appaiono all’interno delle varie forme della specializzazione e
del frammento. Ma se solo il frammento
ha senso - se cioè il senso è
frammentario -, allora tutti i frammenti hanno questo di inevitabilmente comune : di essere, appunto,
dei frammenti. Inoltre l’Europa è,
originariamente ed essenzialmente,
tendenza e vocazione al frammento e all’isolamento delle cose. A un certo momento, in Grecia si incomincia a
pensare che una cosa è ciò che è - l’ente
- ed è come ciò che non era e non sarà,
ossia è come ciò che era nulla e tornerà a
esserlo. Ma ciò che è stato nulla non può avere alcuna relazione con ciò che già esiste, instaura
relazioni provvisorie e accidentali che
verranno meno quando ciò che è non sarà
più. Questo significa che,
nonostante ogni intenzione in senso
contrario, ogni cosa è un frammento, è isolata da ogni altra. La specializzazione scientifica ha il proprio
fondamento nella filosofia greca, che
stabilisce una volta per tutte il significato
delVesser-cosa, con un gesto che si rende sempre più presente e operante in ogni azione e in ogni
conoscenza: in ognuno degli infiniti
eventi, grandi e piccoli, che formano la storia
dell’Europa, dapprima, e, ormai, dell’intero pianeta. In questo significato consiste Yidentità
dell’Occidente. A esso sono
essenzialmente legate la volontà di potenza e la violenza estrema. Si può voler annientare
qualcosa solo se si crede che le cose
(uomini e enti non umani) siano di per sé
stesse figlie del niente e a esso destinate. E la violenza
dell’annientamento inseparabile dalla violenza della creatività. Dapprima l’Occidente non si accorge del
proprio essere volontà separante e
costruisce le grandiose cattedrali della
volontà unificante: il senso filosofico del Tutto, che raccoglie in sé le differenze e le opposizioni più
marcate, il Dio di tutte le cose,
l’eguaglianza cristiana tra gli uomini in quanto figli di Dio, la volontà di essere
comprensibile da tutti, lo Stato che è
il Dio in terra e dunque principio di unità,
l’economia di mercato che mette in comunicazione i popoli, la scienza che, prima di diventare
specializzazione, vuol essere a lungo
unificazione delle leggi della natura, il comuniSmo che si rivolge ai lavoratori di tutto il
mondo perché si uniscano, la globalizzazione
del nostro tempo: sono alcuni degli
esempi più rilevanti della volontà di unire ciò che, essendo stato concepito e vissuto come
separato, non può essere unito. È innanzitutto il sottosuolo del pensiero
filosofico del nostro tempo a portare al
tramonto la volontà unificante della
tradizione. Dio muore e rimane la terra infranta. Su questa base, non solo ogni integrazione e interazione
tra i popoli, ma anche tra gli individui
dello stesso popolo, della stessa città,
della stessa famiglia è velleitaria. Rimedi
provvisori. Auctoritas, non
veritasfacit legem (si dice da Hobbes a Cari
Schmitt). Anche su base linguistica, lex è l’ordinamento imposto alle cose, che quindi le costringe a
stare insieme. La verità è il mondo in
cui nella tradizione occidentale si vuole
legare ciò che è vissuto e inteso come originariamente separato. La verità è quindi destinata al
tramonto. E auctoritas significa potenza
(anche qui la linguistica lo conferma). La
legge è il risultato dell’ auctoritas, ossia della costrizione che lega insieme le cose. La potenza della legge
può essere maggiore o minore. Oggi la
potenza maggiore è la tecnica guidata dalla scienza moderna. Il sottosuolo della filosofia del
nostro tempo ha distrutto la verità e
quindi autorizza la tecnica a facere
legem. La specializzazione scientifica, Lisciamento e il frammento sono legati alla costrizione che
con la propria potenza unisce i
frammenti del mondo. Qui è il fondamento
di ciò che vien chiamato globalizzazione. Ma se ogni volontà di unire ciò che non può essere unito
è una costrizione destinata, prima o
poi, a fallire, si apre il problema
della configurazione dell’evento che è destinato a lasciarsi alle spalle la stessa civiltà della tecnica.
Stiamo parlando a un pubblico composto soprattutto da giuristi. Che però sono anche filosofi del
diritto e quindi comprendono bene
l’opportunità che nel mio intervento
tenga conto anche delle sollecitazioni che prima mi sono state rivolte.
Innanzitutto è il caso che ci si chieda che cosa significhi filosofia. Se già qui non ci intendiamo,
faremo poca strada insieme. Ne facciamo
ben poca se concepiamo la filosofia come
un sapere che dipende dalla scienza, se riteniamo cioè che la filosofia, per costituirsi, debba
incominciare col tener conto di quanto
si afferma nell’ambito del sapere scientifico.
Alla filosofia è nota l’esistenza del mondo, e nel mondo c’è anche la scienza; ma ciò non significa che la
filosofia debba fondarsi sulle sapienze
del mondo (oltre alla scienza ce ne sono
anche altre). Se ha bisogno di fondarsi
sulla scienza, meglio lasciarla perdere,
la filosofia; che non potrebbe andare molto oltre una specie di ricapitolazione del sapere
scientifico. Meglio lasciar parlare
questo sapere. Prima è venuto fuori il nome di Searle. Che, anche lui insieme a moltissimi altri (in
ogni campo), dà appunto per scontato che
esista quella forma di storia del mondo
dove, in un primo tempo, l’uomo ancora non esiste, seguita da un tempo nel quale l’uomo esiste,
e infine da un tempo in cui, con ogni
probabilità, l’uomo non ci sarà più e il
mondo continuerà a esistere più o meno a lungo. Certo, la scienza procede adottando la convinzione che
la realtà esista indipendentemente dalla
conoscenza umana di essa, breve
parentesi nel corso degli eventi. Spesso (ma con eccezioni) gli scienziati (per esempio Max Planck) lo
affermano esplicitamente. (Però Bertrand Russell, senza essere idealista, ammette la possibilità che il mondo intero
sia incominciato a esistere da pochi
istanti, corredato di tutte le esperienze che
ne abbiamo, di tutti i nostri ricordi del suo più lontano passato e con tutte le aspettative e i
progetti riguardanti il futuro.) Per
Searle, poi, uno che non lo creda è un minus
habens. Non credo tuttavia di esserlo, se affermo che la filosofia non può presupporre alcune delle
pur mirabili costruzioni del sapere
scientifico, anche perché si tratta di un
sapere che, come l’amico Giorello sa benissimo, oggi riconosce il proprio carattere
ipotetico. Ora, sarebbe
sorprendentemente improprio che si desse
credito (come mi sembra che Ferraris finisca col fare) al senso comune, e lo si sollevasse al rango di
verità incontrovertibile, là dove il
sapere scientifico, perfino il sapere
logico-matematico, mette in questione la propria incontrovertibilità, la propria verità
assoluta. La filosofia è critica
radicale, radicale problematizzazione del sapere, e quindi non può procedere dando per scontati i
risultati della scienza (o di qualsiasi
altra sapienza, quella filosofica
compresa). Per questo non è il caso di farsi riguardo ad affermare che la filosofia, autenticamente
intesa, richiede una concettualità
estremamente più radicale di quella scientifica. Altrimenti la filosofìa si limiterebbe a
essere (ripeto) un panorama del sapere
scientifico, o una specie di pattuglia in
avanscoperta dove alcuni audaci, o incoscienti, si inoltrano nel deserto per tentar di vedere di sfuggita e approssimativamente come stanno le cose, in
attesa che poi arrivino le truppe
regolari, quelle della scienza, che
stabiliscono come le cose effettivamente stanno e rimandano nelle retrovie le avanguardie filosofiche.
No: sin dall’inizio la filosofia ha
inteso essere 1’evocazione dell’innegabile, della verità in quanto innegabilità assoluta. Anche
quando si contrappongono i fatti alle interpretazioni si tende a considerare il fatto come l’innegabile, come
ciò che non può essere negato, mentre l’interpretazione
- lo richiamava il professor Zaccaria -
rende sì particolarmente significativo il
fatto, ma immergendolo in un alone di controvertibilità, di non-verità, per cui da ultimo, nel confronto,
è il fatto che prevale - e prevale in
quanto, appunto, lo si ritiene
innegabile. La filosofia evoca
il senso radicale dell’innegabile unendolo
al suo carattere di visibilità. Non c’è bisogno di leggere Heidegger: basta un vocabolario per sapere
che i Greci chiamano alétheia la verità.
A-létheia significa, alla lettera, non
nascondimento. Ciò che è vero è il non nascosto. Heidegger però non rileva che, per il
pensiero greco la verità, nel suo senso
radicale, non è solo alétheia, ma epistéme tes
alethéias (scienza della verità è una delle traduzioni correnti di questa espressione). Ciò che si disvela
neW alétheia è il contenuto
assolutamente stabile (epistémonikón ). Il tema -ste di epi-stéme, dalla radice indoeuropea -sta,
nomina appunto lo stare di ciò che,
disvelato, si impone su (epi) tutto ciò che
vorrebbe spingerlo a essere diversamente da come è e sta. Si può dire che epistéme tes alethéias esprime
sia un genitivo oggettivo (il sapere
assolutamente stabile che ha come
contenuto la verità), sia un genitivo soggettivo (la stabilità assoluta che è il contenuto del
disvelamento). Questo senso radicale
della verità - il contenuto manifesto che sta e che, proprio perché sta, è innegabile - è evocato
una volta per tutte dal pensiero greco. Una
volta per tutte, anche perché quando
oggi, per esempio nel sapere scientifico o filosofico, si dichiara di non voler proporre verità
assolute, incontrovertibili, definitive,
ci si riferisce appunto al senso
radicale della verità che i Greci hanno per la prima volta evocato, e da esso ci si allontana. A questo
punto, che l’innegabile sia Yalétheia-epistéme, ciò che si mostra nella sua stabilità, significa
che ciò che oggi è chiamato coscienza è
il luogo dell’innegabile. È nella
coscienza che le cose escono dal loro nascondimento e si rendono visibili. I Greci chiamano
phàinesthai la visibilità, l’ apparire
(phàinesthai deriva da phos, luce, e il visibile, essendo ciò che sta in luce, garantisce la
propria esistenza). Ma come la semplice
affermazione che X è X, o che a X non
possono convenire Y e non-Y, non è sufficiente per poter affermare che il principio di identità e di
non contraddizione sono innegabili, così
la semplice affermazione che qualcosa
appare non è sufficiente per rendere innegabile il principio della fenomenologia - che in effetti non
riesce a essere che un presupposto, un
dogma. Perché ciò che appare non può
essere negato? Con questa osservazione alludo alla necessità di procedere oltre l’immediata elevazione del
visibile al rango dell’innegabilità. Il
senso greco deìYalétheia (da cui discende il
principio di tutti i principi della fenomenologia) è ineliminabile, ma non può riuscire a essere
l’assoluta stabilità e innegabilità
richieste dal pensiero filosofico.
Quando, sul Corriere della Sera, intervenni nella polemica sul cosiddetto nuovo realismo (cfr.,
nel presente saggio, sezione seconda,
cap. 8) intendevo mostrare quali siano
le possibilità del realismo e dell’idealismo, ossia di forme filosofiche che si presentano
all’interno della storia dell’Occidente.
I miei scritti indicano tuttavia la dimensione
che mostra perché tale storia è il culmine de\Y alienazione della verità. I Greci evocano cioè una volta
per tutte il senso della verità, ma
aprono anche la strada al pensiero in cui si
intende come verità ciò il cui contenuto è, in modo radicale, l’alienazione della verità. In quel mio
intervento sottolineavo la potenza
concettuale di Giovanni Gentile; ma non,
ovviamente, perché il pensiero di Gentile sia libero da quell’alienazione.
Ciò a cui quegli scritti si rivolgono è
abissalmente lontano dal pensiero di Gentile. La potenza concettuale del pensiero di Gentile è massima
perché tale pensiero è massimamente
rigoroso nell’errare. Non tenendo conto
di questa potenza dell’errare, il cosiddetto nuovo realismo (all’estero e in Italia) non fa
cheriproporre (sembra senza rendersene
conto) quel realismo della tradizione greco-
medioevale che è stato messo in questione, e fuori gioco, dallo sviluppo fondamentale della filosofia moderna
da Cartesio a Kant, all’idealismo fino,
appunto, aH’idealismo gentiliano.
Giacché - qui entriamo nel vivo della questione - più decisivo del problema del rapporto tra realismo e
idealismo o tra realismo e ermeneutica,
ben più decisivo è il problema della
sorte della verità lungo la storia dell’Occidente. Infatti, altro è il contenuto che la verità
(l’incontrovertibile, l’innegabile) ha
assunto nella tradizione dell’Occidente, altro è il contenuto che la verità è venuta in seguito ad assumere
- e inevitabilmente. Queste considerazioni coinvolgono anche la
dimensione del pensiero giuridico.
Quando si confronta il fatto con
l’interpretazione, il fatto si presenta come ciò a cui per lo più compete il carattere dell’innegabilità, della
verità. Tuttavia in campo giuridico il problema
del rapporto fatto- interpretazione
riguarda l’esigenza di porre tale rapporto in
relazione con la norma : l’accertamento del fatto intende stabilire la compatibilità del fatto con la
norma. E l’accertamento della
convergenza o divergenza del fatto
rispetto alla norma non è fine a sé stesso, ma è operato perché sia fatta giustizia. Il problema del rapporto
fatto-norma rinvia al problema della
giustizia; e tale problema riceve oggi (penso
ad esempio a Rawls e a Kelsen) una soluzione essenzialmente diversa da quella che gli viene data lungo la
tradizione filosofico-giuridica. Qual è la definizione tradizionale di giustizia?
Nella Summa Theologica Tommaso d’Aquino
scrive: Iustitia est constans et
perpetua voluntas ius suum unicuique tribuendi,
la perpetua e costante volontà di assegnare a ciascuno il suo ius. Una definizione in seguito continuamente
ripetuta (qualche volte con l’infinito
del verbo invece del gerundio). Sono
note le critiche che sono state rivolte a questa definizione - non solo tomistica, ma classica
- di giustizia. Essa sarebbe un circolo
vizioso perché nel definiens si
ripresenterebbe il definiendum (iustitia è il definiendum, ma ius, che compare nel definiens sarebbe
daccapo identico al definiendum). Eppure questa definizione non è un circolo
vizioso. Si rifa a Platone, al secondo e
quarto libro della Repubblica : giustizia
è, sì, che ciascuno non abbia ciò che è di altri e non sia privato di ciò che è suo (IV, 433 e), ma quel
che è decisivo è 95 che ciò che è suo è ciò che gli spetta in
relazione all’Ordinamento assoluto della
realtà che è compito dell’ epistéme
della verità mostrare, indicando pertanto in che luogo di tale Ordinamento si trova ogni uomo
e ogni cosa. La verità mostra
incontrovertibilmente in che cosa consistono gli uomini e i diversi tipi dell’umano, e la
giustizia è il riconoscimento, nel
conoscere e nell’agire, di ciò che, in
verità, ogni uomo è e di ciò che non può essere perché, in verità, è di altri. Lo ius che compare nel
definiens della definizione qui sopra
menzionata non è dunque la semplice
ripetizione della iustitia in quanto definiendum. Poiché Yepistéme tes alethéias crede di poter
mostrare in modo incontrovertibile
l’esistenza di un Ordinamento assoluto e
immutabile in cui ogni cosa prende posto (sì che ogni cosa è quello che essa è solo in quanto ha il posto
che le spetta all’interno di tale
Ordinamento), la giustizia è appunto il
riconoscimento di ciò che incontrovertibilmente spetta a ogni cosa, e pertanto quella definizione della
iustitia non è un circolo vizioso. (Né
ciò significa che lungo la storia del
pensiero filosofico quell’Ordinamento abbia avuto sempre la stessa configurazione.) Questa grandiosa concezione della giustizia
illumina e domina anche la dimensione
giuridica della tra dizione occidentale.
Uno dei temi centrali in sede giuridica è oggi il rapporto tra diritto naturale e diritto
positivo. Il diritto naturale è il modo
in cui l’Ordinamento della realtà, mostrato
dall’epistéme della verità, si riflette nei rapporti tra ciò che nella società accade, i fatti, e le norme che
la regolano. Tali norme si inscrivono in
quell’ordinamento e stabiliscono ciò che
spetta a ciascuno aH’interno di esso, ossia ciò che a ciascuno spetta per natura - la natura non
essendo altro che tale Ordinamento. Si
aggiunga che se il diritto naturale
afferma che l’uomo ha un posto che gli spetta necessariamente, per natura, nell’Ordinamento
complessivo e incontrovertibilmente
immutabile della realtà, allora non le interpretazioni,
ma le constatazioni (ossia ciò che è ritenuto
constatazione), qui, hanno il compito di accertare se i fatti (ciò che accade) siano o no compatibili
con le norme. Al diritto naturale si
contrappone oggi il diritto positivo.
Questa contrapposizione è la conseguenza, in campo giuridico, di un evento grandioso e
spaesante: il tramonto delle forme
sapienziali e pratiche della tradizione
dell’Occidente, il tramonto cioè al cui fondamento agisce il tramonto dell ’epistéme della verità e
dell’Ordinamento immutabile che essa ha
inteso mostrare. Essenzialmente più
decisiva del rapporto tra idealismo (o
pensiero ermeneutico) e realismo - ognuno dei quali intende valere come il contenuto della verità - è,
dicevo prima, la domanda: Che ne è della
verità?; e quindi: Qual è la storia
della verità?. Infatti il problema della contrapposizione tra realismo e idealismo può essere risolto solo
accertando perché si debba tener ferma
la verità dell’uno piuttosto che la verità
dell’altro. Tutto ciò significa che il problema relativo a quella contrapposizione, e pertanto alla questione
del rapporto tra fatti e interpretazioni,
rinvia da ultimo alla questione di quale
sia il contenuto che è necessario porre come verità, ossia come incontrovertibilità. Vado richiamando da tempo che l’autentico e
profondo avversario della tradizione
occidentale non è il relativismo (come
ad esempio la Chiesa cattolica invece ritiene). Al di sotto del rifiuto appariscente ma impotente
della tradizione occidentale, proprio
del relativismo, al di sotto di tale rifiuto,
ossia nel luogo che vado chiamando sottosuolo filosofico del nostro tempo, agisce un pensiero
tendenzialmente nascosto, ma capace di
mostrare Vimpossibilità che l’Ordinamento immutabile e divino della tradizione
sia il contenuto dell’ epistéme della
verità. Fra i pochi abitatori del sottosuolo,
Giovanni Gentile, Nietzsche, e ancor prima di
loro Leopardi. Nell’ epistéme della verità quell’ordinamento immutabile domina il mutamento degli enti del
mondo, domina cioè il loro uscire dal
nulla e il loro ritornarvi. L 'epistéme
è il riconoscimento originario dell’esistenza del mutamento così inteso. Ma è appunto sul
fondamento di tale riconoscimento che
nel sottosuolo essenziale del nostro
tempo si mostra (ne accenneremo tra poco) Vimpossibilità dell’esistenza di ogni dimensione immutabile.
Ogni realtà e ogni sapienza sono
pertanto storiche, temporali, contingenti,
finite. Da ciò segue, e inevitabilmente, il prevalere del diritto positivo sul diritto naturale, cioè segue la
necessità che ciò che spetta a ciascuno
e ciò che non deve essergli sottratto è tale
non assolutamente, ma in relazione a una certa epoca storica dove le forze sociali che sono riuscite a imporsi
sulle altre stabiliscono (con una
voluntas che quindi non è constans et
perpetua ) che cosa sia ciò che in tale epoca spetta a ciascuno (ius suum unicuique tribuendi) e ciò che non
gli può essere tolto. Hanno carattere
storico, pertanto, non solo i fatti, ma
anche i criteri in base ai quali i fatti sono individuati, interpretati e giudicati. E, questo, sia che
i fatti vengano sia che non vengano
considerati come indipendenti dal loro
essere interpretati. Il tramonto di ogni realtà e sapienza immutabile è quindi l’orizzonte comune al
realismo e all’idealismo - la cui
contesa si risolve peraltro in favore
dell’idealismo solo qualora quest’ultimo si sollevi alla dimensione che l’attualismo gentiliano (come
altrove ho mostrato) ha saputo indicare.
Il sottosuolo filosofico del nostro tempo e il positivismo giuridico
Se si vuole richiamare in breve il senso essenziale della potenza concettuale del sottosuolo filosofico
del nostro tempo (degli ultimi due
secoli, si potrebbe dire) - se lo si
vuole richiamare in breve e in una forma che possa valere come tratto comune agli abitatori del sottosuolo
(che d’altra parte hanno elaborato in
modi specifici e differenziati tale
tratto) -, si deve innanzitutto richiamare la convinzione di fondo che incomincia con la vita stessa
dell’uomo sulla terra, e che lungi
dall’esser qualcosa di nascosto in un
sottosuolo sta invece alla luce del sole, mostrando ciò che non viene in alcun modo messo in questione lungo
l’intera storia dell’uomo: si tratta
della convinzione che la terra si trasforma,
e l’uomo con essa. La trasformazione è il diventar altro da parte delle cose, il loro diventare altro da
ciò che dapprima esse sono. Le teogonie
e le metamorfosi confermano il carattere
archetipico di questa convinzione. Con
l’avvento del pensiero filosofico il diventar altro da parte delle cose è interpretato in senso
ontologico : il loro diventar altro si
spinge fino al loro diventare
quell’assolutamente altro che è il loro non essere, ossia il loro esser nulla, e le cose, provenendo dal nulla,
diventano quell’assolutamente altro dal
nulla che è il loro essere, ossia il
loro esser enti. La filosofia evoca pertanto, una volta per tutte nella storia dell’Occidente e ormai del
pianeta, non solo il senso della verità
come assoluta incontrovertibilità, come
epistéme tes alethéias, ma anche il senso ontologico del diventar altro delle cose; e una volta per
tutte, lungo quella storia, l ’epistéme
della verità pone tale senso come il proprio
contenuto originario. È a
partire da questo contenuto che, nella tradizione, Yepistéme della verità si
porta oltre di esso (oltre, cioè metà,
nella lingua greca) e si costituisce come metafisica, ossia come sapere che mostra la necessità di affermare, al
di là delle trasformazioni del mondo,
1’esistenza dell’Ordinamento immutabile
e divino dal quale il mondo è regolato e per il
quale il diritto naturale si fonda su di un’etica assoluta. Il senso ontologico del diventar altro diventa
in tal modo l’evidenza suprema
delVintero Occidente: sia della tradizione
dell’Occidente, sia del sottosuolo filosofico del nostro tempo, sia degli amici sia dei nemici di Dio. Ma è
questo sottosuolo e il carattere della
sua inimicizia verso il divino a costituire la
forma più radicale e rigorosa della fedeltà a ciò che lungo l’intera storia dell’Occidente e ormai del
pianeta - dunque anche all’interno del
sapere scientifico, religioso, artistico e
ormai dello stesso senso comune - è ritenuta la suprema evidenza del senso ontologico del diventar
altro. (È per questa fedeltà che il diritto
positivo si fonda su una forma storica di
etica, su di una Grundnorm, che è tale solo in relazione a una certa epoca storica e che quindi - la tesi è
resa esplicita da Kelsen - può avere
qualsiasi contenuto.) Ebbene, da un
lato, l’Occidente è convinto, sin dai suoi
primi pensatori, che l’evidenza suprema sia il provenire degli enti dal nulla e il loro ritornarvi (e si può
dire che anche Parmenide lo creda: nel
senso che egli afferma l’esistenza di
una regione dove si crede evidente il provenire e il ritornare nel nulla da parte degli enti, una regione
che tuttavia egli qualifica come
illusione, dóxa). All’interno di questa
convinzione il futuro è l’ancor nulla, il passato è formai nulla. D’altra parte, in ogni sua
configurazione, Yepistéme della verità,
che lungo la tradizione dell’Occidente intende
affermare l’esistenza di un Ordinamento (o Legge) immutabile, non può ritenere che tale
Ordinamento domini soltanto il presente,
ma deve ritenere che il suo dominio si estenda anche alla totalità del futuro e
del passato, cioè che futuro e passato
non possano sottrarsi al suo dominio e alla
sua legislazione. Non può cioè ritenere che dall’ancor nulla del futuro possano provenire o che dall’ormai
nulla del passato possano ritornare cose
che si sottraggono a tale Ordinamento e
siano per esso qualcosa di imprevisto.
Nemmeno la libertà dell’uomo e la contingenza delle cose riescono a distruggere realmente la Legge. La
Legge deirimmutabile è universale (e chi
ha creduto di poterla violare si è
ingannato, perché alla fine è raggiunto dalla
Giustizia e dalla Punizione).
Ciò significa che l’Ordinamento immutabile invade l’ancor nulla del futuro e l’ormai nulla del passato
e gli prescrive tutto ciò che da essi
può veramente (e non apparentemente e
provvisoriamente) generarsi e tutto ciò che a essi è destinato ad appartenere. Ma questa invasione del nulla
da parte deH’Immutabile rende essente il
nulla, lo entifica e quindi cancella o
rende apparente il senso ontologico del diventar altro, il senso che sussiste solo in quanto è
un diventare dal nulla e un diventare
nulla. E tale entificazione del nulla non
soltanto nega l’evidenza del diventar altro l’evidenza che Yepistéme stessa dell’Immutabile è essa per
prima a riconoscere -, ma nega e
sopprime anche quella differenza tra il
cominciamento e il risultato del divenire, senza la quale nessun divenire, e tanto meno il divenire
ontologicamente inteso, può esistere.
Così parla il sottosuolo essenziale (cioè
filosofico) del nostro tempo. Se
una qualsiasi Realtà o una qualsiasi Verità immutabile esistono, è impossibile che esistano quel
divenire e quella volontà di far
divenire le cose che per l’intera storia
dell’Occidente (dunque anche per la tradizione epistemica) sono l’originaria, suprema e innegabile
evidenza. È appunto nel sottosuolo
essenziale del nostro tempo che l’Occidente giunge a scorgere, sul fondamento
di tale evidenza, che l’autentica realtà
e l’autentica verità immutabile sono il
divenire di ogni realtà e di ogni verità immutabile e pertanto sono la volontà sempre più potente di
trasformare il mondo. Non rendendosi
conto del proprio carattere essenzialmente
antinomico, la tradizione epistemico-metafisico-teologico- ontologica dell’Occidente elabora la pur
potente struttura concettuale in cui si
intende mostrare che gli enti divenienti
esistono solo se esiste un Ente immutabile; gli abitatori del sottosuolo essenziale del nostro tempo,
scorgendo il carattere antinomico della
tradizione, si rendono conto che gli
enti divenienti possono esistere solo se non esiste alcun Ente immutabile. E questa è conseguenza
necessaria della fede che il divenire
sia l’evidenza originaria e innegabile. Anche se il sottosuolo non ama questa espressione,
esso è dunque la forma più coerente
dell’ epistéme tes alethéias, perché esso
mostra che il contenuto d éìl y epistéme incontrovertibile non è il rapporto tra il divenire e l’Immutabile,
ma l’esclusione necessaria di ogni
Immutabile. Appunto in forza di questa
necessità tale sottosuolo non ha nulla a che vedere con le ingenuità del relativismo e dello
scetticismo. Dalla potenza concettuale
del sottosuolo deriva l’impossibilità di
ogni diritto naturale; il prevalere del diritto
positivo è inevitabile. Il tramonto della forma
tradizionale dell’ epistéme (che si dispiega dai Greci a Hegel) è cioè anche il tramonto della configurazione
giuridica di tale forma, ossia è il
tramonto del diritto naturale. Il senso
autentico del conflitto tra diritto naturale e diritto positivo può essere quindi compreso solo se lo si vede
inscritto nella grandiosa vicenda che
conduce al tramonto ormai planetario
degli Immutabili. Tuttavia,
anche per il positivismo giuridico la giustizia è volontà di ius suum unicuique tribuere: nel
senso che ciò che spetta a ciascuno non è quanto viene mostrato
dalYepistéme della verità, ma ciò che,
all’interno di un certo gruppo sociale e
in un determinato periodo storico, per le norme vigenti spetta a ciascuno. Ma poi, sul fondamento
della distruzione dell ’epistéme della
verità, a ciascuno e a ogni cosa di ogni
luogo e di ogni epoca viene riconosciuto il loro essenziale divenire, il loro essenziale esser qualcosa
che esce dal proprio nulla e vi ritorna;
sì che la giustizia consiste nel salvaguardare
e assecondare il divenire delle cose e del mondo umano e il loro diritto di oltrepassare ogni limite
assoluto (e di non costituire un limite
siffatto). In questa situazione, ogni forza si
propone di prevalere sulle altre, ogni individuo sugli altri. Ma le grandi forze che guidano il mondo e gli
individui si servono tutte, per
prevalere, della tecnica moderna; e poiché la tecnica è destinata a diventare, da mezzo, scopo di
tali forze, essa impedisce che
l’anarchia totale prenda piede e, subordinando
a sé ogni forza, stabilisce una gerarchia, riconosce a ogni forza e a ogni volontà di potenza ciò che loro
spetta alFinterno di tale gerarchia e
pertanto realizza la forma suprema di giustizia
a cui l’Occidente è destinato a pervenire, la suprema volontà di ius suum unicuique tribuere. 103
4. Realismo e idealismo Quanto
alla contrapposizione tra realismo e idealismo
(nella quale è coinvolto il rapporto tra fatti e interpretazioni), ho già rilevato che essa si inscrive nella
vicenda, qui sopra tratteggiata, del
tramonto degli Immutabili. Aggiungo che tale
contrapposizione presenta, lungo la storia del pensiero occidentale, una complessità ben più profonda
del modo in cui il realismo viene oggi
sostenuto in ambito analitico e continentale
e del modo in cui in tali ambiti Fidea-lismo
viene conosciuto. Ad esempio si tende a ignorare la necessità che conduce dal realismo premoderno
alla riflessione cartesiana sull’
impossibilità che - se la vera realtà è
esterna al pensiero e indipendente da esso (come vogliono il realismo premoderno e lo stesso Cartesio) -
la realtà pensata (il cogitatum), in
quanto pensata (la realtà che peraltro è il
mondo in cui l’uomo vive), sia indipendente dal pensiero. E si tende a ignorare l’ulteriore necessità
(mostrata dall’ideahsmo) che la
cosiddetta realtà esterna e indipendente
dal pensiero sia pur sempre un pensato e sia dunque un concetto autocontraddittorio. (Nella
tradizione l’idea è ciò attraverso cui è
conosciuto l’oggetto reale, essa è id quo
objectum cognoscitur; Cartesio mostra la necessità di intendere l’idea come ciò che è conosciuto,
id quod cognoscitur, ma che, ancora,
lascia al di là di sé la vera realtà l’essere
formale: Kant vede l’impossibilità di conoscere la vera realtà, la cosa in sé; l’idealismo,
rilevando l’autocontraddittorietà di
ogni concetto di cosa in sé e di realtà
al di là del pensiero, mostra la necessità che Vobjectum del pensiero sia idea, ma mostra insieme che
l’idea è la stessa realtà in sé stessa,
la stessa cosa in sé. Lo stesso sviluppo
si ripropone nella riflessione sul linguaggio, che conduce alla cosiddetta svolta linguistica; lo sviluppo
dove, dapprima, nella tradizione, la
parola è intesa come id quo objectum
104 dicitur - e Yobjectum sta
al di là della parola poi ci rende conto
che, in quanto detto, è Yid quod dicitur a dover essere Yobjectum della parola, sì che il linguaggio
parla del linguaggio, ma, ancora,
lasciando al di fuori di sé la cosa;
infine si intrawede che anche la cosa è in qualche modo detta e pertanto, non la cosa esterna al
linguaggio, ma il linguaggio stesso è la
cosa, che peraltro continua a esser
concepita come ciò che esce dal nulla e vi ritorna). Ma anche il realismo premoderno è ben più
complesso delle sue attuali
configurazioni. Per il realismo greco, ad
esempio, è propriamente solo quando Yepistéme della verità ha dimostrato l’esistenza della Realtà
immutabile, è solo allora che può essere
affermata l’indipendenza della realtà dalla
conoscenza umana. Ne\YEtica Nicomachea (se ricordo bene, in 1139 b), si dice che quello che sappiamo
epistemicamente non può essere
diversamente da com’è; ciò che può essere
diversamente da come è, quando esca dall’osservazione [ci] rimane nascosto se esso sia o non sia. La
potenza di questa affermazione è tale da
prefigurare e contenere l’essenza stessa
del pensiero fenomenologico dei nostri tempi. Il testo greco dice: ho epistàmetha, che ho tradotto con quello
che sappiamo epistemicamente, ossia
ne\Yepistéme della verità. Ciò che
sappiamo in modo epistemico met’endéchesthai àllos échein, non può essere diversamente [da come
è]. Questo non poter essere diversamente
è l’innegabilità, l’incontrovertibilità,
la definitività deìYepistéme della verità. È
in modo assoluto, non relativamente, che ciò che sappiamo in modo epistemico non possa essere
diversamente; esso non può assolutamente
essere diverso da ciò che l’epistéme è. Il
testo continua riferendosi a tà d’endechòmena àllos, ossia alle cose che è possibile che stiano diversamente
(e che quindi non sono contenuti
àe\Yepistéme), e dice che, quando escono
dall’osservazione ( hótan éxo tou theoreìn génetai), allora lanthànei,
cioè rimane nascosto, ei estin e mé, se esse siano o non siano. L’osservazione, theorein, è la
nostra visione delle cose del mondo, è
il loro apparire, mostrarsi, il
phàinesthai (Cartesio lo chiamerà cogitare). Ho tradotto theorein con osservazione perché theorein è
costruito su theorós, ossia lo spettatore,
colui che osserva e vede con i propri
occhi. Quando le cose non epistemicamente note
escono dall’apparire rimangono, appunto, nascoste, e quindi rimane nascosto se continuino a esistere o
no. Ciò che invece continua a esistere
anche quando non appare nella conoscenza
umana è l’Ente immutabile la cui esistenza è
dimostrata, all’interno deWepistéme, sul fondamento del principium firmissimum che nega la
contraddittorietà degli enti. D’altra parte, l’apparire degli enti che
possono essere diversamente è l’apparire
del loro diventar altro; e tale apparire
è ciò che innanzitutto il pensiero greco considera come l’evidenza originaria e supremamente
innegabile e quindi come appartenente
eàYepistéme della verità. Ciò si spiega,
perché se quelli divenienti sono gli enti che possono diventar altro, tuttavia che essi possano
diventar altro ed essere diversamente da
come sono è qualcosa che, appunto perché
appare, ossia è originariamente evidente e innegabile, non può diventar altro e non può essere
diversamente da come è. Appunto per
questo Leibniz potrà considerare come verità
(ossia come epistéme della verità) non solo le verità di ragione (riguardanti ciò che non può
essere diversamente perché è
contraddittorio che lo sia), ma anche le verità di fatto (che appunto riguardano ciò che può
essere diversamente perché non è
contraddittorio che lo sia). Se la
scienza afferma che il mondo esiste prima dell’uomo e continuerà a esistere anche quando l’uomo non
ci sarà più, tuttavia la scienza è una
fede; certo, oggi, la più potente. Ma la
106 potenza non è la verità.
Il mondo che esisterebbe
indipendentemente daH’osservazione e dallo sperimentare non è comunque qualcosa di
osservabile e di sperimentabile. Questo
anche se all’interno delle regole della
fede scientifica si devono trarre (in base a certe altre regole non incontrovertibili) certe conseguenze, che
conducono alla tesi dell’indipendenza
del mondo dall’osservazione umana. Ma,
appunto, si tratta di inferenze compiute all’interno di una fede. Sul fondamento della convinzione che le
cose del mondo diventano altro è
inevitabile che prevalga la sapienza del
sottosuolo, in cui si mostra l’impossibilità di ogni Immutabile e quindi di ogni verità
incontrovertibile che, da un lato, si
ponga come Legge assoluta del divenire, e dall’altro differisca dalla verità assoluta che si
mostra nel sottosuolo. Ma il destino
della verità (così viene chiamato nei miei scritti) sta al di là della fede nel diventar altro
delle cose e degli enti, ossia al di là
deWintera storia del mortale e dell’Occidente,
dunque al di là dello stesso processo che conduce dall ’epistéme metafisica della verità al
sottosuolo essenziale del nostro tempo.
Sta pertanto al di là dell’inevitabile
prevalere, nella storia dell’Occidente, della negazione di ogni verità immutabile. Il destino sta al di là,
nel senso che contiene, mostrandola, la
storia del mortale e dell’Occidente. Il
destino è l’apparire del senso autentico della necessità e della necessità che ogni essente sia eterno.
E la testimonianza del destino non è né
realismo né idealismo, perché sia il
realismo sia l’idealismo affermano che alcune dimensioni dell’ente possono esistere anche se altre non
esistono ancora o non esistono più;
laddove, poiché tutto è eterno, né l’uomo
può esistere senza il mondo, né il mondo può esistere senza l’uomo e senza la più irrilevantedelle sue
parti. Poiché si obbietta - come anche
in questo nostro incontro è accaduto -
che l’affermazione dell’eternità di ogni essente nega ciò che incontrovertibilmente appare,
ossia nega il diventar altro delle cose,
concludo accennando al motivo di fondo
per il quale l’affermazione dell’eternità di ogni essente non è in contrasto con il contenuto che
appare incontrovertibilmente, e che, in
quanto tale, appartiene alla struttura
del destino - il contenuto la cui eco si fa peraltro sentire nei concetti di esperienza,
osservazione, dato, fenomeno ecc. Quando si crede che gli enti che si
manifestano non siano stati (totalmente
o in parte) e tornino a non essere
(totalmente o in parte), quando cioè si crede che escano dal nulla e vi ritornino, è impossibile
(contraddittorio) che si creda che gli
enti, quando ancora sono nulla, appaiano e si
manifestino già così come appaiono e si manifestano quando incominciano a essere; ed è impossibile che
si creda che essi, annientandosi,
continuino ad apparire e a manifestarsi così
come appaiono e si manifestano prima del loro annientamento. È impossibile, perché
altrimenti, nel diventar altro, il prima
non differirebbe dal poi e quindi non ci
sarebbe qualcosa come un diventar altro. È quindi necessario che, quando si crede nell’uscire dal nulla e
nel ritornarvi, si creda che, quando gli
enti non sono, non appaiano nel modo in
cui appaiono quando incominciano a essere, pur
apparendo ed essendo in qualche altro modo nel loro esser attesi, sperati, temuti, supposti, previsti;
ed è necessario che, quando vanno nel
nulla, non appaiano più nel modo in cui
appaiono quando ancora esistono, pur apparendo ed essendo in qualche altro modo nel ricordo, nel
rimpianto, nelle varie forme in cui ci
si riferisce al passato. Ciò significa
che nella misura in cui si crede nel tempo in
cui un ente è nulla (prima o dopo il suo essere), in questa misura si crede che tale ente non appare,
ossia non appartiene alla totalità degli
enti che appaiono - la quale include anche
gli enti che, in quanto attesi e ricordati, non sono un nulla. Ma, allora, Yapparire, la totalità degli enti
che appaiono in quanto tale non può
nemmeno mostrare alcunché di ciò che non
le appartiene ancora (quando esso è ancora nulla) e non le appartiene più (quando esso è ormai
nulla); e pertanto l’apparire, in quanto
tale, non può nemmeno mostrare che gl’enti escono dal nulla e vi ritornano, appunto perché il loro esser nulla non appartiene a ciò che è
mostrato (come non gli appartiene nemmeno
che gli enti sono già e continuano a
essere anche quando non appaiono). Nella misura in cui qualcosa non è (ossia è nulla), in questa
misura esso non appare e pertanto l’apparire
non può mostrare il suo non essere.
(Facendo corrispondere il cielo alla totalità degli enti che appaiono e il sole a uno di questi enti,
allora, quando il sole non è ancora
sorto e quando è ormai tramontato, non si
può chiedere al cielo che ne sia del sole quando non si mostra nel cielo: in questo caso il cielo non può
che tacere sulla sorte del sole.)
Aristotele - si è rilevato - afferma che, quando un ente che può essere diversamente (ossia che
diviene) non appare, rimane nascosto,
cioè non appare se esso sia o non sia.
Ma anche Aristotele crede, come l’intero Occidente, che certi enti che appaiono possano non essere.
Eppure non può essere l’apparire a
mostrare il non essere degli enti che, non
essendo, non possono nemmeno apparire.
Il non essere di ciò che ancora non è e di ciò che non è più è dunque una interpretazione, non una
constatazione; una interpretazione che
non solo richiede un fondamento, ma che
è negata dal destino della verità, che scorge in tale interpretazione il culmine dell’estrema
follia in cui l’uomo si trova. (Tale
interpretazione non ha un fondamento
incontrovertibile - anche se è sollecitata sia dal modo, spesso terribile, in cui ciò che all’uomo sta a
cuore esce dall’apparire, sia dalla
constatazione che ciò che esce in quel modo
dall’apparire non ritorna più.)
Ma qui ci si deve arrestare. Il linguaggio, ora, è di fronte al tema decisivo: l’impossibilità che Tessente
in quanto essente non sia. (Sta al
centro di tutti i miei scritti.) Il linguaggio è cioè, insieme, di fronte all’essenza
dell’uomo, ossia alla dimensione, già da
sempre salva, che circonda la follia del mortale e dell’Occidente. Dalla relazione tenuta al convegno fatti e
interpretazioni rivolto a un pubblico di filosofi del diritto, tenutosi all’università di Padova,
il 30 novembre 2012, e presieduto dal magnifico rettore prof. Giuseppe Zaccaria, con la partecipazione dei
proff. Maurizio Ferraris e Giulio Giorello, e con interventi, fra gli altri, dei Illetterati, Milanesi,
Scilironi, Testoni. Da centinaia e migliaia di anni prima della nascita di Cristo, vi sono dodici giorni, in ogni ciclo
delle stagioni, che i popoli arcaici
considerano sacri. I giorni dedicati alla
rifondazione del mondo. Nelle società cristiane sono quelli che vanno dal Natale all’Epifania. Nel loro
mezzo, il Capodanno, festeggiato
dovunque. Soprattutto in quei dodici
giorni, già quei popoli agiscono per ricostituire l’integrità e la vita del mondo, consumate e perdute durante
il tempo che veniva chiamato l’anno.
Ripetono la creazione originaria
compiuta dagli Dèi o dal Dio supremo.
Oggi i popoli credono sempre meno nel divino; ma la loro cultura dominante ne ripropone, sia pure in
modo profondamente diverso, i tratti
essenziali. Tale cultura è la tecnica
scientificamente orientata e controllata dalla
produzione capitalistica della ricchezza. La produzione di beni e di merci richiede energia. Il consumo
di energia ne richiede il rinnovo, la
reintegrazione. Richiede la
ricostituzione del suo fondo. La rifondazione del ciclo energetico ripropone la ripetizione umana
della creazione divina. Il Capodanno può
essere anche la festa del ciclo
energetico. Noi capiamo subito
che l’energia si consuma e dev’esser
rinnovata. Ma perché quegli antichi sentono il bisogno di rifondare periodicamente il mondo? Se non si
risponde, anche l’analogia tra tecnica e
rifondazione mitica del mondo rimane
sospesa nel vuoto. Eppure quel bisogno
è molto meno stravagante di quanto possa
sembrare. Per rispondere alla domanda che ci siamo posti incomincia a venire in aiuto il
concetto di volontà (un 112 aiuto di cui non si approfitta
adeguatamente non solo da parte delle
scienze dell’uomo). Poi indicherò come le
implicazioni di questo concetto siano in grado di spiegare il bisogno di cui stiamo parlando - che non è
per noi irrilevante, ma è anche il
nostro, e il più importante di tutti: il bisogno di vivere.
Volere è voler fare diventar altro il mondo (le cose e sé stessi). Se non si vuole e si resta immobili,
si muore. La volontà è la vita. Ma
quando la volontà apre gli occhi non ottiene subito ciò che vuole. Si trova di
fronte a qualcosa che non si lascia
smuovere e trasformare: l’Inflessibile. Per il
singolo è l’ambiente familiare e sociale; per i popoli arcaici è ciò che noi chiamiamo natura, ma che a essi
si presenta, appunto, come la Barriera
di fronte alla quale l’uomo si sente
impotente e muore; e in cui la sua volontà deve tuttavia aprirsi un varco per riuscire a ottenere il
voluto e dunque per vivere. Un varco
nella Barriera dell’Inflessibile, che si presenta alla volontà come la dimensione della Potenza
suprema, demonica, divina. Nell’atto stesso in cui l’Inflessibile
acquista per l’uomo il volto del divino,
in quello stesso atto l’uomo, per vivere, deve
quindi flettere l’Inflessibile, forzarne e penetrarne la Barriera, spezzarlo, squartarlo. Deve ucciderlo.
Volendo essere come Dio Adamo vuole
uccidere Dio. Mangiando il frutto che lo
rende come Dio Adamo mangia Dio. Accade così che, avvertendo il proprio essere deicida, l’uomo
si senta colpevole, in debito. Il
bisogno di vivere diventa bisogno di
espiazione. Ogni giorno, ogni
ora, ogni istante facciamo esperienza di
ciò che, per vivere, la volontà richiede. Se il mondo ci stesse davanti come un unico blocco che non si
lascia spezzare, ci spegneremmo subito.
La volontà, per ottenere, ha bisogno di spezzarlo, di agire sui frammenti,
sulle parti del blocco. L’agire richiede
l’isolamento delle parti dal blocco e tra di
loro. Oggi si crede che anche la conoscenza sia seria solo se fa conoscere parti del mondo, non il Tutto,
vanamente inseguito dalla vecchia
sapienza filosofica. La scienza chiama specializzazione
la propria conoscenza delle parti. E la
tecnica, da essa guidata, agisce sempre su parti. (Anche l’arte si chiude nel frammento.) Adamo che vuol
uccidere Dio ha già un’anima tecnica. La
tecnica ha un’anima teologica. E il
senso di colpa affiora anche nell’uomo della civiltà della tecnica, ben al di là della preoccupazione
per la propria incapacità di realizzare
uno sviluppo sostenibile. Per quanto ci
dicono le scienze storiche si può dire che
ogni forma della religiosità arcaica (e monoteistica) abbia al proprio centro il mito in cui lo smembramento
del Dio è la condizione dell’esistenza
del mondo. Dall’Oceania alla
Mesopotamia, dall’India alle popolazioni germaniche e alle società greco-cristiane i miti raccontano la
creazione del mondo come effetto del
sacrifìcio originario di un Dio, di una
Dea, di un Eroe, di uno sposo o di una sposa del Dio: Hainuwele (Nuova Guinea), Tammuz, Dumuzi,
Tiamat (Mesopotamia), Ymir (presso i
Germani), Purusha e Prajapati (India),
Osiride (Egitto), Dioniso (Grecia), Cristo.
La creazione del mondo è lo squartamento del Dio, che diventa cibo dell’uomo. L’uomo vive solo in
quanto usa, consuma, gode le membra, le
parti del Dio. Anche la morte di Cristo
sulla croce rende possibile la rifondazione, la rinnovata creazione del mondo che era andato
consumandosi e morendo in conseguenza
del peccato. E nel Genesi si dice che
Dio si riposò nel settimo giorno da tutto il lavoro che aveva fatto e da cui era stato dunque consumato e
indebolito. Ma il divino rimane pur
sempre la fonte della vita. L’esaurirsi della fonte è la morte dell’uomo, così
come lo era l’inflessibilità originaria
del divino. E la morte è il pericolo
estremo da cui ci si deve difendere. Diventa quindi necessario che si restituisca al divino quel che gli si
è tolto e che tuttavia è stato consumato
e non c’è più. È a questo punto che il genio
religioso deve inventare il sacrificio compiuto dall’uomo (che assume anche la forma del sacrificio dell
uomo) come ripetizione del sacrificio
divino e dunque come rifondazione del
mondo. Acquisterà le forme più diverse, nei tempi e nei popoli, ma l’essenza della ripetizione del
sacrificio divino e della fondazione
divina del mondo è la consapevolezza della
necessità che, per continuare a vivere, non venga spenta la fonte della vita. Quando ci si convince che qualsiasi vittima
offerta dall’uomo al Dio è radicalmente
incapace di assolvere il compito
gigantesco che le si assegna, allora diventa necessario credere che sia Dio stesso a farsi uomo e
vittima con la quale Dio restituisce a
sé stesso quello che la violenza e il peccato
dell’uomo gli ha tolto. E quando la filosofia, volendo dire e fare cose vere, si porterà oltre il mito da
cui è preceduta (e da cui sarà seguita),
le sue prime parole (quelle di
Anassimandro) diranno che il mondo, separandosi dal divino, dovrà necessariamente dissolversi in
esso, scontando la pena dell’ingiustizia
commessa con tale separazione - dove la
separazione dal Dio è l’eco dello smembramento-
sacrificio mitico del divino, e la pena da scontare è l’eco della ripetizione umana di tale sacrificio. Quando,
infine, nel nostro tempo, non si crederà
più né negli dèi del mito né in quelli
della verità, e la lotta contro la morte sarà affidata soprattutto alla Potenza suprema della
tecnica, allora al consumo di questa
Potenza, cioè al suo Sacrificio, dovrà
corrispondere una civiltà in cui le saggezze e sapienze del passato, per quanto grandi e nobili, dovranno
sacrificare ogni loro aspirazione al dominio del mondo, e cioè non contrastare il potenziamento indefinito della
Tecnica. Sin dagli inizi della storia
deH’uomo il giorno del Capodanno,
rifondando il mondo e aprendo un nuovo ciclo
alla vita, si sbarazza dell’anno vecchio, della vecchia terra, ricolmi delle colpe degli uomini; e li lascia
cadere nell’oblio. (Accade anche nel
grande Capodanno de\YApocalisse di
Giovanni, dove l’anno della vecchia terra viene diviso da quello della nuova.) Oggi il Capodanno rievoca
soltanto le vicissitudini della volontà:
non le rivive. Ma a questo punto la
questione decisiva rimane ancora tutta
da esplorare. Riguarda appunto il senso autentico della volontà - alla quale invece ci si affida come
alla cosa più sicura del mondo. Non si
scorge che la storia della volontà si
svolge interamente al di fuori di quel senso. Ora si aggiunga che quando, all’inizio, si
trova di fronte all’inflessibilità della
Barriera, la volontà è insieme avvolta da
essa. Infatti non può tornare indietro. Tornando indietro, riuscirebbe non solo a far diventare altro il
mondo, ma a ottenere immediatamente
tutto ciò che essa vuole, giacché
tornare indietro è lasciarsi alle spalle la Barriera che le impedisce di trasformare il mondo. Ma la
volontà riesce a vivere solo se fa
breccia nella Barriera; e il far breccia implica un tempo in cui la volontà è bloccata e muore
(è originariamente morta). E non può
nemmeno, e per lo stesso motivo, muoversi
di lato, a destra o a sinistra, o verso l’alto o il basso. Appunto per questo diciamo che
all’inizio la volontà si trova di fronte
all’inflessibilità della Barriera, la volontà è
insieme avvolta da essa. Le
metafore spaziali qui sopra sottolineate aiutano a comprendere perché, essendo di fronte e
insieme avvolta dalla Barriera, il far
breccia in essa sia insieme un uscire da essa. 116
Appunto per questo, all’inizio del pensiero filosofico, Anassimandro ripropone il rapporto tra la
volontà e la Barriera, dicendo che le
cose del mondo, separandosi dall’Uno, divino,
ne escono - escono dal luogo da cui
proviene la loro nascita ( génesis ). Far breccia dall’esterno è lo stesso far breccia dall’interno, uscendo
da ciò da cui si è avvolti e commettendo
ingiustizia (adikia). La volontà può
riparare l’ingiustizia (e qui la volontà è il mondo stesso che si è separato dell’Uno) solo ritornando nel
luogo, separandosi dal quale essa ha
commesso ingiustizia: solo morendo le cose
che hanno voluto separarsi dal divino possono rendergli giustizia per l’ingiustizia commessa (
didónai dìken tes adikìas). E così si
comprende perché le cose debbano tornare
là da dove son venute. Dove il sottinteso è che la morte subita dalla volontà fino a che non riesce a far
breccia sulla Barriera del divino è
diversa dalla morte a cui la volontà (ossia la
totalità delle cose del mondo) va incontro ritornando nel divino. Tanto diversa da far dire, in
seguito, che morire è incominciare a
vivere la vera vita. Ma nel pensiero
filosofico, e innanzitutto in Anassimandro,
è un sottinteso anche la ferita del divino prodotta dalla breccia con cui la volontà riesce a uscire e
a staccarsi da esso. L’intenzione
esplicita della filosofia, sin dall’inizio, è di affermare, come dice Anassimandro, che il
divino è eterno e non invecchia, è immortale
e incorruttibile; eppure la Barriera che
la volontà umana trova dinanzi e attorno a sé, a sbarrarle la strada, è sentita da essa come
la Potenza dominante, sacra e divina
come il Tremendum-Fascinans,
l’Inflessible che dev’essere flesso, cioè corrotto, reso vecchio, ucciso in quanto Inflessibile, perché la
volontà possa vivere. (D’altra parte la
Barriera, smembrata, è anche la condizione
perché la volontà possa cibarsi delle sue membra - e per questo, oltre che a essere il Tremendum, essa
è anche il 117 Fascinans .) E che l’uscire delle cose
dall’Uno divino sia inteso da
Anassimandro come ingiustizia è il trapelare, nell’esplicito, del sottinteso che il divino è ferito e
ucciso dall’avvento della volontà. Il
pensiero della tradizione filosofica deve trattenere nell’inespresso il sottinteso, cioè la
contraddizione per la quale il divino,
in quanto trascendente il mondo, Altro dal
mondo, è, insieme l’eterno e il perituro; il mito può permettersi di evitarla sia con la fede
nell’unità del divino e del mondano
(ripresa peraltro, in campo filosofico, dalle varie forme di immanentismo), sia con la fede
nell’esistenza di una molteplicità di
dèi (per la quale la morte riguarda uno o
alcuni di essi ma non gli altri), sia con la fede che il divino non muore definitivamente, ma muore e
risorge. Ma, detto questo, la questione
decisiva rimane ancora tutta da
esplorare. Riguarda il senso autentico della volontà alla quale invece ci si affida come alla cosa più
sicura del mondo. Non si scorge che la
storia della volontà si svolge interamente
al di fuori di quel senso. Dai Greci a Hegel la tradizione filosofica è
la volontà di indicare come si configura
il contenuto del sapere che ha il
carattere dell’assoluta incontrovertibilità e stabilità: Yepistéme (alla lettera: il sovra-stare) della verità.
Tale epistéme è per Platone tò
anamàrteton (Civitas, 477, 35 - una parola che è negazione della negazione di màrtys, testimone,
colui che essendo in presenza delle cose
non può errare nei loro confronti). Dai
Greci a Hegel, Yepistéme a cui compete il
carattere delfincontrovertibilità ha un contenuto che non solo è ciò che è, l’ente (tò ón ), ma è
l’ente che assolutamente (pantelós) e
primariamente è, l’Ente immutabile ed
eterno, il divino che è fondamento
(trascendente o immanente) degli enti che sono ma non sono assolutamente, cioè divengono, vanno dal loro
non essere al loro essere e
viceversa. Per la tradizione filosofica
Yepistéme è prevalentemente sapere
metafisico. Con alcune rilevanti eccezioni (ad esempio lo scetticismo), la più profonda delle quali
è l’antimetafisicismo kantiano. Che però
intende mantenere il carattere primario
àe\Y epistéme della verità, cioè
l’incontrovertibilità, e che come immutabile pone la struttura a priori della soggettività finita
(immutabile, quindi, sino a che il
soggetto esiste). Si può dire allora che la tradizione filosofica è la storia
delfincontrovertibilità dell’epistéme e del
modo in cui l’ente diveniente ha il proprio fondamento nell’Ente immutabile - che nell’ epistéme
metafisica è Dio. Vessenza della
filosofia degli ultimi due secoli è invece la
distruzione di questa grandiosa concezione della realtà. Distruzione, dunque, che - nella sua essenza,
appunto - è a sua volta grandiosa.
Purché la si sappia cogliere. Oggi come
ieri, sia l’esistenza sia l’inesistenza di Dio sono per lo più affermate e
vissute all’interno di una fede, cioè di
una scelta che da ultimo è arbitraria (anche quando si presenta come ragionevole, rationabile
obsequium). Sul piano filosofico, il
modo in cui oggi si contrappongono amici
e nemici di Dio non è per lo più consapevole della grandezza e profondità della lotta tra il presente e il
passato della filosofia. Tanto più
grande e profonda, questa lotta, quanto
meno entrambi gli avversari si rendono conto che l’abbandono del passato non è una semplice
scelta o una semplice constatazione
storica, ma è la fondazione
incontrovertibile delVimpossibilità del Dio metafisico. Nello stesso mondo filosofico la grandezza di
quella lotta rimane cioè sullo sfondo, o
addirittura sepolta. Non mancano certo
forza e competenza, a quel mondo, che si
usa ancora dividere tra analitici e continentali. Ma le due prospettive sono molto meno divise di
quanto possa sembrare. Giacché per
entrambe la fine deH’affermazione
filosofico-metafisica di Dio è per lo più fuori discussione. Tanto che in entrambe è ormai quasi del tutto
assente la discussione sull’autentico
fondamento filosofico che ha condotto
alla negazione di Dio. Una negazione che tende
quindi a regredire, e nell’ambito stesso della filosofia, al
livello che è proprio della fede. Accade
quindi non di rado che oggi sia la
filosofia stessa a dichiarare di non voler essere una fondazione dell’impossibilità di Dio, ma, ad
esempio, di essere la semplice
constatazione che la fede in Dio, almeno in certi luoghi del pianeta, va scomparendo; oppure di
essere una scelta, una prassi - dunque
una fede, che preferisce un universo in
cui Dio non esista. Rinunciando a
quella fondazione, e a ogni fondazione
assoluta, la filosofia contemporanea si presenta come quel relativismo o nichilismo concettualmente
inconsistente a cui gli epigoni della
tradizione filosofica - tra cui la Chiesa cattolica - trovano comodo o tendono
a ridurre tutto ciò che la filosofia ha
pensato negli ultimi due secoli. Ma in questo
modo quegli epigoni non riescono ad avere di fronte il loro autentico avversario, e gli avversari della
tradizione filosofica ignorano la forza
speculativa della tesi che essi sostengono.
Da tempo i miei scritti mostrano la distanza tra Yessenza profonda e tendenzialmente nascosta del
pensiero filosofico del nostro tempo e
il fenomeno in cui tale essenza si presenta
alterata e svigorita, e che è costituito appunto da quel relativismo e nichilismo di cui ci si può
sbarazzare molto facilmente. L’avversario autentico della tradizione
filosofico-metafisica è appunto
quell’essenza. Tale essenza - si diceva - è la
fondazione radicale delfimpossibilità di Dio. Radicale significa che procede dalla radice stessa
della storia dell’Occidente, la radice
che fa vivere sia gli amici sia i nemici
di Dio, sia l’essenza del pensiero filosofico del nostro tempo sia il fenomeno di tale essenza - non
filosofi e filosofi, uomini di azione e
di pensiero. Questa radice è la persuasione
che le cose del mondo siano un divenire in cui esse escono dal nulla e dopo un provvisorio soggiorno
nell’essere ritornano nel nulla. Per la
filosofia che è amica di Dio questa
oscillazione delle cose tra l’essere e il nulla non è un assurdo solo se esiste un Dio immutabile ed eterno;
per Yessenza della filosofia del nostro
tempo tale oscillazione non è un assurdo
solo se il Dio immutabile ed eterno non esiste. È appunto sul fondamento della persuasione che le cose del
mondo vengono dal nulla e vi ritornino
che Yessenza del pensiero filosofico del
nostro tempo mostra che Dio è qualcosa di impossibile - e che quindi è illusorio ritenere che il
divenire del mondo sarebbe un assurdo se
Dio non esistesse. Tale essenza è la
fondazione radicale delfimpossibilità di Dio perché si fonda sulla radice che essa ha comune con la
tradizione filosofica da essa distrutta. In questa radice consiste
Yessenza autentica del nichilismo la cui
forma più coerente si presenta
nell’essenza del pensiero filosofico del nostro tempo. Non è questa la sede per approfondire il
senso concreto di questi cenni. Qui si
può solo indicare il senso generale del
discorso, rinviando, per quel suo senso concreto, agli scritti sopra menzionati - che mostrano la Follia
estrema dell’essenza autentica del
nichilismo e quindi mostrano che la
persuasione che le cose oscillino fra l’essere e il nulla è soltanto una fede. Innanzitutto, ciò che è stato chiamato essenza
della filosofia del nostro tempo ha un
contenuto storico determinato: è un
nucleo, circondato da un alone che più si
distanzia dal nucleo più ne perde di vista la potenza. Per quanto è possibile guardare nel sottosuolo
essenziale della filosofia del nostro
tempo, il nucleo ha un perimetro breve. È
costituito dalla dimensione centrale del pensiero di Nietzsche e daH’attualismo di Giovanni Gentile. E,
prima di entrambi - e conosciuta da
entrambi -, la filosofia di Giacomo Leopardi.
All’alone appartengono invece pensatori che oggi sono ritenuti tra i più decisivi, come Heidegger e
Wittgenstein. Non si tratta di mettere
in questione la loro importanza, bensì
di rendersi conto che, nonostante essa, in modi differenti lasciano aperta la porta a un Dio che ritorni
dall’esilio in cui è fuggito. Una porta
che invece non è lasciata aperta dai
pensatori di quel sottosuolo essenziale (e dunque da Leopardi, la cui potenza filosofica, soprattutto nella
filosofia anglosassone, è completamente
sconosciuta). L’essenza della filosofia
del nostro tempo consiste nel mostrare
che se esistesse il Dio immutabile ed eterno della tradizione, esso sarebbe la Legge a cui
dovrebbe adeguarsi anche il nulla da cui
le cose provengono e il nulla in cui esse
ritornano. Pertanto il nulla diverrebbe un ascoltatore e un suddito di tale Legge, cioè non sarebbe più
un nulla, ma un ente. Ma la persuasione
che gli enti provengono dal nulla e vi
ritornano implica necessariamente che l’ente e il nulla differiscano - un’implicazione, questa, che
sussiste anche se, nell’ambito
dell’essenza della filosofia del nostro tempo, il principio di non contraddizione è visto come
negazione del divenire e quindi è
rifiutato. All’interno di quella persuasione,
la negazione dell’esistenza del Dio immutabile ed eterno della tradizione è incontrovertibile perché tale
esistenza implica necessariamente che il
nulla sia ente - il nulla senza di cui è
impossibile quel divenire degli enti che sta al fondamento non solo del pensiero metafisico (che procedendo
dal divenire intende condurre al Dio
eterno) e del pensiero che invece
distrugge la tradizione metafisica, ma anche delle stesse opere e istituzioni che costituiscono la civiltà
dell’Occidente. Se si ignora tutto
questo - se si ignora cioè la grandezza
della lotta tra tradizione e distruzione radicale di essa - anche il dialogo tra credenti e non credenti rimane
alla superficie, ossia è un equivoco
dove non si riesce a scorgere il dramma
autentico del mondo attuale. L’essenza della filosofia del nostro tempo mostra l’impossibilità di porre
limiti assoluti all’agire dell’uomo - e
dunque a quella forma suprema dell’agire
che è la tecnica guidata dalla scienza moderna e il supremo Limite assoluto è la Legge in cui
consiste il Dio immutabile ed eterno.
Oggi la tecno-scienza non è ancora in
grado di ascoltare la voce dell’essenza della filosofia del nostro tempo. Nessuna meraviglia, visto che nemmeno
la filosofia contemporanea e il
cosiddetto laicismo sono in grado di
ascoltarla e si riducono a essere una semplice fede nell’inesistenza di Dio. Ma quella voce e la
tecnica esistono, ed è inevitabile che
si finisca col comprendere che la loro
unione consente la maggiore potenza di cui l’uomo abbia mai potuto
disporre. È questa unione l’autentico avversario del Dio della tradizione: non l’incredulità dei
popoli europei o il consumismo dell’Occidente. Ma il passo decisivo verso il dialogo
autentico, quello tra le due grandi
forze in lotta tra loro - l’essenza del passato e l’essenza del presente della civiltà
occidentale, ormai planetaria - è il
loro prender coscienza della propria anima
comune: io. fede che le cose del mondo escono dal nulla e vi ritornano. Che non ci sia bisogno di un Dio
perché ciò accada è la fede vincente
rispetto alla fede che invece ritiene che di un
Dio ci sia bisogno. Ma se ciò per cui le due fedi si oppongono è certo grandioso, esso è ciononostante
qualcosa di subordinato rispetto
all’esistenza di quell’anima comune, cioè
rispetto alla fede che le cose hanno nel nulla la loro culla e il loro sepolcro. Abbiamo più volte chiamato fede quell’anima
comune che invece, sia per gli amici sia
per i nemici di Dio, è l’evidenza
suprema. Infatti a questo punto si tratterebbe di volgersi verso il culmine del pensiero e di
lasciarsi alle spalle anche quel passo
decisivo, cioè anche il dialogo autentico tra il passato e il presente dell’Occidente.
Volgendosi verso quel culmine si
vedrebbe che in entrambi - cioè sia
nell’affermazione sia nella negazione di Dio - è presente il senso più radicale del nichilismo, ossia la
convinzione che le cose (ossia gli essenti,
che non sono un nulla) sono nulla:
proprio perché, intesi come divenienti, sono originariamente e conclusivamente nulla. E, come sopra si
accennava, la convinzione che ha come
contenuto l’Errore estremo, l’estrema
Follia, non può essere che una fede.
L’anima comune degli amici e dei nemici di Dio è l’essenza del nichilismo, cioè dell’eccidio
dell’essere. E, insieme, è la forma
fondamentale dell’omicidio. La convinzione che l’uomo, di per sé, sia nulla, e
come le altre cose sia il prodotto di Dio
o del Caso, è infatti il requisito essenziale perché si decida di rendere l’uomo un nulla. (Ma ogni
decisione non è forse, ormai, la volontà
di far passare le cose dall’essere al
nulla e dal nulla all’essere? Non è forse, ogni decisione, un eccidio? Il linguaggio stesso non avvicina
forse il de-cidere e l’uc-cidere?)
Nonostante il riconoscimento altissimo e crescente della sua grandezza poetica e filosofica, il genio
di Leopardi, insieme al genio di
Eschilo, è forse quello di cui meno si è
visto il carattere decisivo nello sviluppo storico della civiltà - dunque non soltanto della cultura -
occidentale. L’accostamento dei due
nomi non è casuale. Eschilo appartiene
al ristretto convegno di sovrani con il quale
incomincia la filosofia. Appunto per questo la sua poesia è tragica. La filosofia, infatti, porta alla
luce il pericolo estremo: che il
divenire delle cose del mondo è il loro venire dal nulla e il loro ritornare nel nulla, da cui non si
ritorna più, sì che anche la morte
dell’uomo assume il volto e l’anima tragici
dell’annientamento. Se non ci si rivolge a questo, che è il passato essenziale dell’Occidente, si perde
di vista il senso autentico di ciò che
Leopardi ha inteso dire nelle sue prose
e nelle sue poesie. Anche quel
portare alla luce è qualcosa di assolutamente
inaudito. La filosofia è la radice del tragico perché intende lo sta -re nella luce (nella quale essa stessa
consiste) come la sta¬ bilità del sapere
che non può essere in alcun modo scosso o
smentito. La filosofia evoca il senso stesso della sta-bilità assoluta del sapere innegabile. La chiama,
appunto, epi-sté- me (in cui risuona lo
sta -re e che inadeguatamente traduciamo
con la parola scienza). La stabilità dell ’epistéme è l’essenza della verità. Porta oltre i
millenni dell’esistenza guidata dal
mito. Ma proprio perché attribuisce questa
stabilità al sapere che afferma il divenire dove le cose escono e ritornano nel nulla (proprio perché afferma
che Tesser preda del nulla è verità), la
filosofia getta l’uomo nelYangoscia più
profonda, più profonda di quella di cui il mito è il rimedio e che ancora non si è imbattuta nel nulla. Il
mito conferisce al mondo un senso che
non si mostra nella luce, ma è voluto, e
quindi, da ultimo, è una fede, un arbitrio, anche se chi vive nel mito non se ne avvede e crede che esso
mostri la realtà. Tuttavia la filosofia
è, insieme, la radice del senso che la
tradizione dell’Occidente conferisce alla salvezza, perché fa sorgere nell’uomo anche la ricerca del saldo
rimedio (secondo l’espressione di
Eschilo) contro il dolore e l’angoscia.
Sin dall’inizio il pensiero filosofico porta alla luce l’esistenza di un Principio {arche) divino,
eterno e incorruttibile, sì che la
nascita delle cose è dovuta al loro separarsi
da esso e la loro morte è il loro farvi
ritorno, lasciando nel nulla l’ingiustizia,
ossia tutto ciò che nelle cose è
l’effetto di quella separazione (Anassimandro). Il Principio custodisce da sempre e per sempre
tutto ciò che preme all’uomo. Anche nel
mito il rimedio che dà senso al mondo e
al dolore è avvolto dal divino, e tuttavia non si mostra nella luce, non è saldo. Eschilo, per primo in modo esplicito, porta
alla luce che Yepistéme della Verità,
come coscienza del proprio contenuto
divino, è il fondamento della salvezza e della
felicità. Questo pensiero è il fondamento di ogni forma culturale e pratica della tradizione
dell’Occidente. Ed è espresso da Eschilo
con un linguaggio che non può essere
quello comune e che solo impropriamente è riconducibile al teatro nel senso corrente della parola.
Théatron, per Eschilo, è la ricerca che
culmina nella contemplazione della Verità.
Il dialogo di Platone, in cui la tragedia (e l’arte in genere) viene radicalmente condannata, non
capisce di avere nel teatro di Eschilo
il proprio più potente predecessore.
Leopardi, per primo, rovescia tutto questo; dice tutto l’opposto. Porta alla luce l’impossibilità e
l’illusorietà del quadro grandioso della
tradizione occidentale. Un altrettanto grandioso, terribile e inevitabile
gesto, quello di Leopardi, la cui
potenza è rimasta incompresa anche da quanti (come lo stesso Nietzsche) hanno visto in lui uno dei
culmini della cultura europea. Ma come è
possibile capire questo gesto - presente
in ogni verso, anzi in ogni parola di Leopardi - se non si ha dinanzi che cosa in questo gesto
resta distrutto, ossia ciò che qui sopra
abbiamo sommariamente tentato di
indicare? A proposito di un
passo di Diogene Laerzio, in cui si
richiama il fondamentale principio di Socrate, Leopardi afferma: Oggidì possiamo dire tutto l’opposto.
Possiamo: nel senso che dobbiamo, che è
necessario, che è tutto l’opposto a
dover esser portato alla luce dalla filosofia.
Che cosa si dice in quel passo? Che per Socrate vi è un solo bene [ agathón ], Yepistéme, e vi è un
solo male [kakón], il non sapere [
amathìan ], cioè la privazione di quel sapere
(màthos ) in cui Yepistéme consiste. Ogni bene, infatti, è tale solo se è vero, se appare non nell’opinione,
nella fede, nel mito, ma nella luce
della epistéme della verità. Ed esiste un
rimedio contro l’angoscia, il dolore, la morte, solo se esso è un vero, saldo rimedio; il Dio salva l’uomo solo
se il Dio e la salvezza da lui data sono
portati alla luce dall’ epistéme della
verità. Quest’ultima è dunque la radice di ogni bene, e, in questo senso, è l’unico bene. Il male è il
dolore, la morte e l’angoscia che ne
deriva; il bene è la felicità e la salvezza del
male, prodotte dalla conoscenza della verità, il cui contenuto è, da ultimo, l’Ordinamento divino del mondo. Ma, dicevamo, Leopardi mostra che è tutto
l’opposto, cioè che Yepistéme è l’unico
male e che il non sapere (amathia ) è
l’unico bene. Alla base di
quest’ultima, che è una conclusione decisiva,
sta la scoperta angosciante che non può esistere alcun Principio eterno, incorruttibile, divino, e
che quindi tutte le cose sono nulla,
perché sono circondate dal nulla infinito che
le precede, le segue e le attraversa.
Se esistesse un Essere eterno e divino, incorruttibile custode di tutte le cose che nascono e
muoiono - si è qui al cuore deirultrafilosofia
di Leopardi -, il loro provvisorio
sporgere dal nulla sarebbe una semplice e illusoria apparenza; laddove l’uscire dal nulla e il ritornarvi
sta al centro della verità che per
l’intero Occidente è l’assolutamente innegabile. Proprio perché l’esistenza del divenire è
innegabile, la verità è che l’Eterno,
l’Infinito è impossibile. Questa, la potente
anticipazione, da parte di Leopardi, della nietzscheana morte di Dio.
Ma, diversamente da Nietzsche, per Leopardi il nulla è il Principio di tutte le cose. Meglio allora per
l’uomo non saperla, la verità, che
saperla; meglio Yamanthìa che Yepistéme.
(Soprattutto a questo punto vanno tenuti presenti Il nulla e la poesia, cit., e Cosa arcana e
stupenda, cit., che ho pubblicato per
Rizzoli rispettivamente nel 1990 e nel 1997, e,
per quanto riguarda Eschilo, Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Adelphi 1989). Leopardi può in tal modo portare alla luce
il legame profondo che unisce Yamanthìa,
l’ignoranza della verità, alla poesia e
all’arte in generale. Anche qui, molti decenni prima di Nietzsche, Leopardi mostra che la poesia è
illusione, inganno, menzogna, senza di
cui la vita sarebbe però impossibile.
Non si tratta della poesia ridotta a fenomeno
letterario, ma della poesia potente, dove ad esempio il poeta incita l’esercito dalla battaglia o di quella
dove il canto fa sopportare il dolore e
la morte. Nell’illusione poetica - che
peraltro da gran tempo inganna la fantasia, non l’intelletto - l’uomo crede di essere in rapporto
all’Infinito e aH’Eterno. In un primo tempo Leopardi crede che, per illudere,
la poesia non debba mostrare la verità,
cioè la nullità di tutto - e il canto
L’Infinito è una delle espressioni più alte di questo primo atteggiamento, dove il naufragio nel mare delFInfinito è dolce. Ma poco dopo egli
sviluppa la grande teoria del genio che
unisce nella propria opera la verità
terribile dell’esistenza e la potenza poetica: unione di filosofia e poesia. Qui l’Infinito e l’Eterno non
costituiscono più il contenuto del
canto, ma, sia pure provvisoriamente,
convergono nella potenza del canto, in modo che l’anima riceve vita, se non altro passeggera, dalla
stessa forza con cui sente la morte
perpetua delle cose e sua propria. Infinita ed
eterna è questa forza: non nel senso che il genio si sostituisca a Dio, ma nel senso che la forza, pur sempre
finita e caduca, con cui egli riesce a
esprimere la morte, cioè la finitezza e
caducità di tutte le cose (e quindi di sé stesso) è l’unica forma di vita della cui infinità e eternità ci si
può ancora illudere. E sono la suprema
salvezza e consolazione concesse a chi non
può salvarsi né essere consolato.
La ginestra è il fiore del deserto. Il deserto è la morte e nullità di tutte le cose; il fiore è il
genio. Egli è mortale, nasce per morire,
e questa nascita è natura. Ma nobile. Nobil
natura. La sua nobiltà è la capacità di tenere uniti il suo profumo (la potenza del canto) e
Yepistéme della verità che vede il deserto.
[...] di dolcissimo odor mandi un
profumo, / che il deserto consola. Ora la dolcezza non si addice al naufragio nel mare dell’Infinito
illusoriamente cantato come reale:
l’Infinito è morto (è distrutto Iddio,
scrive Leopardi, anticipando il Dio è morto di Nietzsche) e il deserto ne ha preso il posto. Nobil natura è quella che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali
incontra al comun fato, e che con
franca lingua, nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte.
Il pensiero poetante del genio ha l’ardire di guardare con occhi mortali la morte (il comun fato), non
nasconde la verità, non le detrae nulla.
Egli non è l’uomo comune, per il quale
Yepistéme è l’unico male e Yamanthia l’unico bene, ma è la nobile natura che unisce Yepistéme
dXYamanthìa del canto poetico e che
intende come vero amore il porgere agli
uomini questa unione. Come vero amore e come unico rimedio di cui gli uomini, dopo quello di Dio
e della Tecnica, potranno, sia pur
fugacemente godere, prima che il fuoco del
vulcano ardente abbia a distruggere la ginestra, il fiore del genio, che cresce vicinissimo al fuoco
annientante, perché ne vede il vero
senso, e insieme lontanissimo, perché il suo
profumo consola il deserto. Il genio
che consola il deserto non è la volontà
dell’oltreuomo che, in Nietzsche, accetta il deserto e ne vuole l’eterno ritorno. Ma se si prescinde da
questa tematica di Nietzsche, da questa vetta
della contemplazione, come egli la
chiama, che si porta ancora più in alto della vetta raggiunta dal pensiero di Leopardi (un
pensiero il cui linguaggio sta tuttavia
più in alto del linguaggio di Nietzsche),
allora si può dire che sia come filosofia sia come poesia il pensiero di Leopardi è, di diritto, il
pensiero che più si addice all’Occidente
e, ormai all’intero pianeta. Se ciò che viene
portato alla luce dall’ epistéme della verità è il vortice che
getta le cose nel nulla dopo averle per
un poco sottratte all’abisso del nulla,
allora il pensiero di Leopardi indica la conclusione inevitabile della storia dell’Occidente e del
mortale. Ma proprio a questo punto si
fa innanzi la questione decisiva.
Possiamo formularla così: è così indiscutibile che quel vortice - in cui crede sia la tradizione
dell’Occidente, sia la distruzione di
essa, avviata dal pensiero di Leopardi - appartenga all’evidenza assoluta, cioè
all’assolutamente indiscutibile? Ogni
linguaggio è problematico: non solo quel che esso dice lo dice all’interno di
un’interpretazione, che non può mai
essere una verità assoluta, ma lo stesso esser linguaggio del linguaggio è il contenuto di una
interpretazione. Noi dialoghiamo perché,
nonostante la problematicità
dell’interpretazione - che non si riferisce soltanto al linguaggio delle parole, ma anche a quello
del comportamento, ma poi a tutte le
cose dalla terra e del cielo -, abbiamo
fede (per lo più inconsapevolmente) che il nostro interlocutore (se esiste) sia a sua volta un
interpretare e ponga a fondamento del
suo interpretare le stesse regole che noi, e,
daccapo, per lo più inconsapevolmente, poniamo a fondamento del nostro. Ma anche noi - e anch’io
- siamo contenuti di una
interpretazione. Di solito quelle regole non
vengono messe in discussione. Ad esempio che esista un prossimo, una società, che certi eventi
sensibili siano linguaggio, che un certo
oggetto sia un libro e che sia scritto
in una certa lingua. È all’interno di queste regole e del tipo di interpretazione che ne scaturisce in virtù di
certe altre regole - analoghe alle regole
di trasformazione di cui parla la logica
- che appare qualcosa come Storia dell’uomo. Storia dell’Occidente, o come Aristotele o Nietzsche
(o un certo Nietzsche). Con queste considerazioni non si intende
affermare che ogni sapere sia
interpretazione. Anzi, solo sul fondamento
dell’apparire della verità autentica si può affermare che un certo ambito delle convinzioni umane è
interpretazione, ossia non-verità. Nietzsche appartiene all’esito inevitabile
della storia del pensiero occidentale -
e della stessa civiltà dell’Occidente (cfr. E.S., L’Anello del ritorno,
Adelphi). L’attenzione maggiore deve
essere dunque rivolta all ’inevitabilità della
distruzione del passato, a cui Nietzsche ha potentemente contribuito. Che Dio sia morto non è dovuto
alla semplice circostanza che - come lo
stesso Nietzsche qualche volta ritiene -
la gente non crede più in Dio. La tendenza dei popoli è indubbiamente questa - nonostante il peso
che le religioni hanno riacquistato
negli ultimi tempi. Ma le tendenze, anche,
si possono invertire. Se domani i popoli si rivolgessero di nuovo a Dio dovremmo forse dire che Dio è
risorto? L’obbiezione storica decisiva,
che per Nietzsche consisterebbe appunto
nell’attuale incredulità della gente, non
ha nulla di decisivo. La potenza del pensiero di Nietzsche sta altrove.
Non la si trova nemmeno quando si riduce il pensiero di Nietzsche al prospettivismo - che
sostanzialmente non differisce dallo
scetticismo. (Che peraltro può presentarsi in
forma non ingenua quando - di fronte ad avversari che si limitano a rilevare la contraddizione della
sua tesi che sostiene la verità
dell’inesistenza di verità - esso può replicare
chiedendo per quale motivo non ci si debba contraddire; e a questa sua domanda ben pochi sono in grado di
rispondere in modo adeguato.) Nella sua essenza autentica - tanto più
autentica quanto più nascosta e quanto
più rara - il pensiero del nostro tempo
non è scetticismo. Non lo è, certamente, il pensiero di Leopardi e di Giovanni Gentile. Costoro,
insieme a Nietzsche, seminano l’essenza
del nostro tempo. L’essenza del nostro
tempo conduce alla sua forma più rigorosa l’essenza dell’Occidente, cioè la fede nell’esistenza
del divenire, inteso nella
configurazione ontologica che i Greci una volta per sempre gli hanno assegnato: la fede
nell’evidenza originaria e irrinunciabile
di tale configurazione. Appunto sul fondamento della fede nell’evidenza
del divenire - inteso secondo tale
configurazione - Nietzsche (come
Leopardi e Gentile) mostra l’impossibilità di Dio. Si tratta di capire l’incontrovertibilità -
Yinevitabilità, appunto - di questa
fondazione. Che Dio sia morto - cioè che
non sia mai stato vivo se non nella volontà dei popoli - è una necessità. Si tratta di capire il senso di
questa necessità. E, insieme, di capire
che Nietzsche porta al culmine la storia
dell’Occidente anche perché mostra che la forma di potenza che la tecnica è destinata ad assumere per
essere la potenza suprema è la potenza
della volontà che vuole l’eterno ritorno
di tutte le cose. Capire cioè
che, proprio perché è necessario che Dio sia un
morto, proprio per questo è necessario l’eterno ritorno di tutte le cose ed è necessario che tale
ritorno divenga il contenuto essenziale
della volontà che costituisce la tecnica.
Nel Così parlò Zarathustra di Nietzsche il Dio che non può esistere è chiamato da Zarathustra l’Uno, il Pieno,
il Satollo, l’Immoto, l’Imperituro. La
fede nel divenire, che accomuna tutti i
pensieri e tutte le opere dell’Occidente,
implica con necessità l’impossibilità dell’esistenza di questo Dio. Zarathustra dice: Affinché vi apra tutto
il mio cuore, amici, se vi fossero degli
dèi, come potrei sopportare di non
essere Dio! Dunque non vi sono dèi ( Sulle isole beate). Ma nell’ Anello del ritorno si mostra che la
premessa autentica di quel Dunque è
quanto Zarathustra dice verso la fine del
capitolo: Che cosa mai resterebbe da creare se gli dèi esistessero?. Ma nemmeno questa è
un’affermazione che non abbia bisogno di
essere compresa. Nietzsche aveva ragione ad
affermare l’indispensabilità di una cattedra universitaria per la comprensione di Così parlo Zarathustra, da
lui considerato il più importante dei
suoi scritti. Se si vuole richiamare in astratto la sequenza essenziale
che costituisce la grandezza del suo
pensiero, ci si può esprimere così: la
creazione e l’annientamento delle cose sono l’evidenza originaria. Tale evidenza implica con
necessità l’impossibilità di ogni Dio.
La stessa necessità che implica tale impossibilità comporta l’eterno ritorno di tutte le cose,
il ritorno che in quanto voluto dalla
volontà di potenza conferisce alla tecnica
la potenza estrema (dove l’essenziale è la configurazione concreta di tale necessità). Questa è una indicazione astratta. Senza la
concretezza corrispondente (a cui
L’anello del ritorno si rivolge) si fa poca
strada. Ma è l’indicazione della sequenza essenziale. Ciò significa che tale sequenza non esprime le
molteplici tematiche che nel discorso di
Nietzsche le sono più o meno
strettamente connesse. Credo che l’interpretazione della sequenza essenziale presente neWAnello del
ritorno esprima qualcosa che appartiene
a Nietzsche: l’essenziale, appunto. Se
ciò non fosse (ma non mi è nota alcuna alternativa che abbia la capacità di modificare questa mia
convinzione), ebbene non avrei troppe
difficoltà ad affermare - modestia invita -
che quella sequenza non cesserebbe di essere essenziale, per la storia dell’Occidente (non cesserebbe di
esserne il culmine), per il fatto di non
appartenere a Nietzsche. b) Affinché vi
apra tutto il mio cuore Che cosa mai
resterebbe da creare se gli dèi esistessero?
Nulla! Questa è la risposta richiesta dall’interrogativo retorico. Creare e annientare: sono gli
aspetti fondamentali del divenire, secondo
il senso che i Greci hanno assegnato al
divenire: andare dal non essere all’essere e dall’essere al non essere. Creare: condurre nell’essere ciò che
non era, che era nulla. Annientare:
riportare nel nulla ciò che era riuscito a
essere. Negare l’esistenza del creare e dell’annientare è negare 1’esistenza
del divenire, ossia di ciò che per l’Occidente è l’evidenza suprema. Che cosa mai resterebbe da creare, all’uomo,
se gli dèi esistessero? Nulla!
L’esistenza degli dèi rende impensabile la
potenza creativa e annientante dell’uomo cioè la vita dell’uomo - giacché è questa potenza a
formare il centro di ogni divenire, e
dunque il centro dell’evidenza originaria.
Ma perché l’esistenza degli dèi rende impensabile e impossibile il creare e l’annientare
dell’uomo? Incominciamo a rispondere dicendo
il motivo per il quale Zarathustra
attribuisce al dio i caratteri dell’esser l’Uno e il Pieno e l’Immoto e il Satollo e l’Imperituro.
È ben più profondo di quanto non sembri
a prima vista. Il dio è pieno e sazio.
Pieno di tutta la realtà, che sta raccolta nell’immutabile e imperitura unità che lo costituisce e lo
sazia. Il dio è questa unità anche se lo
si pensa separato dal mondo. Il mondo non
aggiunge nulla alla pienezza del dio, che dunque è sazio anche se ha lasciato al di fuori di sé il
mondo. Pertanto il dio prescrive sé
stesso a tutte le cose. Ne è la Legge.
Egli non può non prescrivere sé stesso; non solo a tutto ciò che è già, ma anche a tutto ciò che sarà
e a tutto ciò che è già stato. Se
qualcosa, al di fuori del dio, avesse una propria legge, un proprio ordine e senso, una propria
vita, diversi da quelli in cui il dio
consiste, il dio non sarebbe ancora sazio,
avrebbe ancora qualcosa di cui potersi saziare. Egli prescrive sé stesso al presente, al
passato, al futuro, al tutto, prescrive
la propria costituzione, cioè la legislazione in cui egli consiste e che egli proietta intorno
a sé, nei secoli dei secoli, catturando
e mantenendo tutto dentro di sé, sazio da
sempre e per sempre. È già sazio di tutto. All’uomo e al divenire dell’uomo e della terra non resta
dunque nulla. Nulla da creare e da
annientare. Il divenire sarebbe impossibile, se vi fossero degli dèi. Se vi fossero, come potrei sopportare di non
essere dio!?, dice Zarathustra. Non si
tratta di una esclamazione vana e infine
patetica. L’insopportabile non è tale per un individuo dalle molte pretese, ma per il pensiero che
intende vedere la verità e che non può
sopportare che l’esistenza del dio renda
impossibile e impensabile la verità, cioè l’evidenza originaria e irrefutabile del divenire. Il dio è infatti
la Legge suprema a cui tutto deve
adeguarsi, che non può tollerare che dal nulla
emerga una novità da lui non prevista, la quale sconvolga la sua legislazione e mostri che solo
apparentemente egli era sazio e immoto.
Con la propria pienezza e sazietà egli ha già
raggiunto tutto e non può essere raggiunto e sorpreso da alcunché. È pieno perché ha riempito tutto di
sé. Che cosa resterebbe da creare, che
divenire resterebbe, se egli avesse
tutto riempito con la Legge; in cui egli consiste e avesse raggiunto e occupato futuro, passato,
presente, imponendo al futuro di non
essere un futuro, un ancor nulla, ma di esser già una regione totalmente adeguata alla Legge;
e, trattenendo a sé il passato,
impedendogli di essere un ormai nulla e
prescrivendogli quindi di non sottrarsi alla Legge, andandosene in una regione dove si possa
essere liberi da essa? Che vita
resterebbe all’uomo da vivere se tutto questo
dovesse esistere? Nessuna. Eppure è evidente che l’uomo vive. Dunque dio non può esistere. Il divenire implica che esista un non essere
da cui gli enti divengono e in cui
ritornano. Ma un dio immutabilmente
pieno e sazio ha già da sempre riempito tutti gli spazi vuoti del non essere: da essi non può provenire
alcunché di cui egli non sia già sazio,
e nemmeno nel vuoto in cui le cose si
portano possono trovarsi mondi ed eventi di cui egli non si sia ancora impadronito o che si sia lasciato
sfuggire di mano. Ciò significa - ecco
il tratto decisivo e fondamentale - che 1’esistenza del dio, la cui legislazione
si estende al tutto e alla totalità del
tempo, trasforma il non essere, che è
necessariamente richiesto dal divenire, in un ascoltatore e in un suddito dell’essere. Il dio identifica il
nulla con l’essere, e quindi cancella il
divenire, cioè l’evidenza originaria e
suprema del pensiero e delle opere dell’Occidente. Molti a questo punto possono domandarsi se
sia così scandaloso per Nietzsche che il
nulla sia essere e l’essere sia nulla.
Non è forse ben nota la spregiudicatezza di Nietzsche nei confronti dei principi logici? Eppure,
chi crede nell’esistenza del divenire,
quella spregiudicatezza non può averla -
o ha un senso del tutto diverso da quello che
comunemente le si assegna.
Credere nel divenire significa infatti credere nella differenza tra il prima e il poi, tra ciò che
ancora non è, ed è un nulla, è ciò che
ormai è, tra ciò che è ciò che ormai non è
più e daccapo è nulla. Tutte le forme di negazione del principio di non contraddizione proposte dal
pensiero del nostro tempo negano tale
principio in quanto esso si presenta ai
loro occhi come negazione del divenire, ossia come negazione del senso autentico della non
contraddittorietà, del senso consistente
appunto nella ineliminabile differenza, nella
struttura del divenire, tra il prima e il poi, tra l’essere e il nulla.
Oggi si crede che i problemi dell’uomo possano essere risolti da un ritorno ai valori, alla
tradizione dell’Occidente e soprattutto
alla radice di tutti quei valori, che è Dio. Ma è un passato che agli occhi di Nietzsche si
presenta come una foglia secca, ancora
attaccata al ramo - una grande foresta
disseccata che all’uomo della tradizione appare ancora come una vegetazione animata dalle linfe della
terra e quindi ancora capace di guidare
l’umanità. Ma se Dio è veramente morto
139 come è ancora possibile
questa illusione? c) Eterno ritorno e
tecnica La seconda parte di quella che
sopra abbiamo chiamato la sequenza
essenziale del pensiero di Nietzsche afferma che la stessa necessità che implica l’inesistenza di
Dio implica anche l’eterno ritorno di
tutte le cose. Si può esprimere questa tesi
anche dicendo che in Così parlò Zarathustra non si deve perdere di vista la concatenazione essenziale
di tre capitoli che nel testo compaiono
invece separati l’uno dall’altro: Sulle
isole beate, Della redenzione. La visione e l’enigma. La visione e l’enigma racconta l’eterno
ritorno di tutte le cose. Zarathustra
racconta che ci sono due strade, una che
procede in avanti, l’altra all’indietro. Da come si presentano, non si dovrebbero mai incontrare; eppure,
assicura Zarathustra, si incontreranno e
tutte le cose che camminano su di esse
si ripresenteranno, e infinite volte, così come una volta si sono presentate - ad esempio questo
ragno e questo chiaro di luna e il
colloquio tra Zarathustra e il nano.
Zarathustra, qui, racconta.
Eppure a Nietzsche è del tutto estranea la volontà di raccontar miti. La sua è una gaia scienza.
Gaia; ma scienza. Non la scienza come
epistéme che afferma resistenza di Dio,
ma come conoscenza che tuttavia intende essere
incontrovertibile e innanzitutto affermazione incontrovertibile dell’esistenza e
dell’evidenza del divenire di tutte le
cose e, su questo fondamento, conoscenza
incontrovertibile della morte di Dio, ossia di ciò che rende impensabile e impossibile resistenza del
divenire. Il pensiero di Nietzsche
appartiene al culmine dell’essenza
autentica del nichilismo - all’essenza cioè cui si rivolgono i miei scritti mostrando la Follia estrema -;
ma, proprio perché è la forma più
radicale del nichilismo, esso è anche la forma più radicale di fedeltà alla fede
nel divenire. Gli amici di Dio, che pure
fondano questa loro amicizia su tale fede, non
posseggono tale fedeltà. Appunto per questo sono destinati al tramonto e a essiccare anche se sono
attaccati ai rami. Il genio di Nietzsche
sta nel rendersi conto che il rapporto fra la
creatività dell’uomo e Dio è del tutto analogo al rapporto fra tale creatività e il passato. Come il Dio immoto, imperituro e sazio è
immodificabile dalla volontà umana, così
il passato si presenta all’uomo come
immodificabile dalla sua volontà. Sul passato non si può più intervenire, non lo si può cambiare. Così fu.
Ma questa - agli occhi della fede nel
divenire - è la voce della non-verità;
come è la voce della non-verità quella che afferma che Dio è vivo. Il passato possiede la stessa anima, la
stessa essenza dell’anima e dell’essenza
di Dio. Come l’immutabilità di Dio rende
impossibile il divenire, così il divenire è reso impossibile daH’immutabilità del
passato. Sebbene Zarathustra non usi
queste espressioni, si può dire che
anche il passato - quando sia visto da chi riesce a portarsi oltre l’uomo - è l’Uno e il Pieno e l’Immoto
e il Satollo e l’Imperituro. La sua
esistenza è infatti la legislazione che
condiziona tutto il futuro. Non in senso deterministico, ma nel senso che anche quando ci si vuole
liberare dal passato e dai suoi
condizionamenti non si può evitare che esso sia stato così come è stato, sicché la liberazione da
ciò che non può essere diverso da come è
stato non può renderlo diverso da sé e
non può non esserne condizionata. Una liberazione apparente. Ci si potrà proporre di evitarne
le conseguenze, ma non si potrà evitare
che la totalità del futuro si mantenga
in relazione a ciò che non potrà mai diventare diverso da sé e a cui ogni futuro si dovrà quindi adeguare in
questo senso più profondo. In nessun
luogo del divenire si potrà evitare di
rimanere in relazione con ciò che non potrà mai non essere più ciò che è
stato. La coscienza umana può ricercare
il passato - pensa la fede nel divenire
-, ma è prigioniera della convinzione di non
poter far sì che ciò che è stato non sia stato. La legislazione in cui anche il passato consiste potrà essere
dimenticata ma non distrutta, e quindi
anch’essa riempie di sé ogni spazio vuoto
del nulla in cui il futuro consiste. Anche questo nulla diventa quindi un ascoltatore del passato, un passato
esso stesso; così come il nulla
implicato dal divenire diventa, con resistenza di Dio, un ascoltatore e un suddito di essa,
diventa cioè un essere. Proprio perché
non può essere modificato o annientato,
il passato è il macigno che anticipa il futuro, e quindi lo annienta. Se esistesse un
Immutabile, nessun evento, per quanto
lontano nel futuro, potrebbe non tenerne
conto, ossia potrebbe configurarsi indipendentemente da esso. Inoltre, da un lato il passato è ciò
che è diventato nulla; dall’altro lato,
tuttavia, ha un contenuto positivo che non
rinuncia a sé stesso e al suo imporsi al futuro, così come non vi rinuncia Dio; sì che anche in questo senso
il così fu è l’identificazione del nulla
e dell’essere. Anche il futuro, quindi,
sino a che l’uomo crede che il passato
sia immodificabile, si presenta come qualcosa che non proviene più dal nulla - secondo quanto è
richiesto dall’essenza del divenire -,
ma proviene dal macigno del passato, da
cui dipende come si dipende dal macigno di
Dio. Come Dio, anche l’immodificabilità del passato implica la negazione del divenire, cioè di quella
novità autentica che è la nullità di ciò
che è ancora un futuro. Come Dio, anche il
passato anticipa tutto, trasformando il nulla, senza di cui non ci può essere divenire, in un essere, in un
ascoltatore del passato. Pertanto, come è necessario affermare che
Dio è morto, così è necessario affermare che è morto anche il passato, in quanto esso è pensato e vissuto come
l’assoluta immodificabilità del così fu.
La creatività della volontà implica cioè
necessariamente la sua capacità di trasformare il passato, di volere il passato come si vuole
il futuro. Si tratta ora di indicare
come ciò sia possibile. d) Volere
Veterno ritorno e volere il passato
Ancora sulla base di Così parlò Zarathustra - che nonostante i suoi tentativi di sviare il
lettore contiene tutti gli elementi che
rendono la dottrina dell’eterno ritorno una
conseguenza inevitabile della fede nel divenire - richiamiamo dunque il modo in cui Zarathustra mostra come
la volontà possa volere il passato (il
che essendo già stato fondato da quanto
è stato qui sopra rilevato), senza essere una semplice velleità.
La volontà è il tratto essenziale del divenire. La sua libertà è innanzitutto il suo liberare da Dio e dal
passato, e in generale da ogni forma che
gli immutabili possono assumere. Proprio
per questo, è libera nel senso che non è sottoposta ad alcun disegno prestabilito. Non solo essa è
casuale: è il caso stesso. Se essa si
presenta dapprima come volontà che vuole il futuro, ormai Zarathustra ha mostrato l’unilateralità
di questo aspetto della volontà, cioè ha
mostrato che essa è padrona del passato
come del futuro. Essa vuole anche il passato. Ma essa non può volerlo separatamente dal proprio
volere il futuro, perché altrimenti il
futuro, una volta voluto e ottenuto,
diventerebbe un passato su cui la volontà non ha potenza. È cioè necessario che il volere in avanti - il
volere che vuole il futuro - sia lo
stesso volere che vuole a ritroso, ossia che
vuole il passato. Questa identità è possibile solo se volendo in avanti si percorre un circolo: un percorso
in cui si finisce col ritornare al punto
di partenza. Il percorso circolare - l’anello del ritorno - rende possibile
che, volendo il futuro, si voglia per
ciò stesso il passato. Solo se il divenire del mondo è un circolo, e un circolo che ritorna su di
sé alfinfinito - un anello del ritorno
-, la volontà che vuole il futuro vuole per
ciò stesso il passato, e lo ottiene come ottiene il futuro. Ogni punto del circolo è un punto di
partenza. Altrimenti, se esistesse un
punto privilegiato, esso sarebbe il punto
immutabile, Yarchè del processo: sarebbe, daccapo, un Dio immutabile che anticiperebbe in sé la
totalità del divenire, vanificandola. Il
circolo non ha né inizio né fine, nemmeno se
inizio e fine sono il nulla (come invece pensa Leopardi con un rigore che è massimo all’interno di una
prospettiva in cui, tuttavia, non si
vede ancora la necessità dell’eterno ritorno di
tutte le cose), perché anche in questo caso il divenire avrebbe una direzione, cioè sarebbe sottoposto a una
legge che attribuirebbe al nulla i
tratti che sono propri
dell’anticipazione divina del tutto. Se il nulla stesso fosse l’origine unica e inamovibile da cui tutto
proviene e il termine a cui tutto
ritorna (anche la scienza e in particolare la
cosmologia si muovono per lo più nei paraggi di questa tesi), il nulla preordinerebbe il futuro e
riceverebbe il passato in modo analogo a
quello in cui il futuro e il passato sono
rispettivamente preordinati e conservati da Dio. Ciò non significa che il futuro non sia un
uscire dal nulla e il passato non sia un
ritornarvi: significa escludere che i nulla
del futuro e del passato si distacchino dai punti del circolo dell’eterno ritorno e si configurino come
dimensioni teologiche, immutabili,
dominanti ed esterne rispetto alla
casualità del divenire. Nemmeno il nulla può essere lo scopo e il riposo eterno dell’uomo. L’esistenza non
ha senso. Che il divenire abbia un senso
è un modo di affermare che il divenire è
guidato da un Dio. Appunto perché è
144 impossibile che un
qualsiasi immutabile esista, è necessario
che il divenire - e cioè il tutto, la totalità di ciò che esiste -
sia assolutamente senza senso. Come è
impossibile un inizio assoluto, così è
impossibile uno scopo assoluto. Il
pensiero di Nietzsche mostra dunque non solo che ogni Dio, cioè ogni Immutabile, rende impotente la
volontà, ma che la forma più potente
della volontà è quella in cui la volontà
vuole l’eterno ritorno di tutte le cose. Sino a che la scienza guiderà la tecnica assumendo la
potenza come una volontà che vuole
soltanto in avanti e che non sa di avere
potenza anche sul passato, ossia non sa di essere, essa, l’eterno ritorno di tutte le cose, la tecnica non
potrà raggiungere la potenza massima cui
è destinata. Il destino della tecnica è di
ascoltare la voce dell’eterno ritorno di tutte le cose e di realizzare l’epoca della potenza massima
raggiungibile dall’esistenza (e a sua
volta destinata a declinare, a ridursi, per
poi ricomparire infinite volte).
La tecnica è destinata a volere l’eterno ritorno di tutte le cose. Questa è la dottrina di Nietzsche che
ancora è la più lontana dalla coscienza
che scienza e tecnica hanno di sé stesse
(anche se la possibilità di un recupero del passato è sempre più presa in considerazione aH’interno
del sapere scientifico). Più vicina a
quella coscienza è la dottrina che la
morte di Dio toglie ogni limite alla volontà di potenza, anche se la morte di Dio non deve essere trattata
come un dogma simmetrico a quello degli
amici di Dio, ma deve essere vista nella
sua necessità. Tutto ciò che qui è
stato sommariamente tracciato trova il
proprio significato concreto nelYAnello del ritorno. Qui si deve lasciar da parte, di quel mio scritto,
la considerazione dell’aspetto
speculativamente più rilevante del pensiero di
Nietzsche, cioè il senso autentico della tragedia da cui esso è 145
avvolto e che può essere indicato dicendo che se la fede nell’evidenza del divenire implica
necessariamente l’eterno ritorno di
tutte le cose, tale fede implica necessariamente la negazione di sé stessa. Infatti, se l’eterno ritorno non è la
riesumazione di un’antica dottrina
metafisica, esso è tuttavia pur sempre
un’eternità. Il tragico che il pensiero di Nietzsche non ha mai guardato in faccia (e che quindi non ha nulla
a che vedere con le considerazioni di
Nietzsche sulla tragedia attica) e che
tuttavia grava sulle sue spalle è che la negazione del divenire appartiene necessariamente all’essenza del
divenire: che il divenire non è
divenire. Il genio di Nietzsche è
infinitamente maggiore di quello che
egli è disposto ad attribuire a sé stesso. Infinitamente maggiore, perché, senza volerlo - e anzi
volendo l’opposto - mostra l’abisso
senza fondo su cui si libra la fede che regge
l’intera storia del mortale e, al culmine di quest’ultima, la storia dell’Occidente. Non si dovrà dire
allora che il librarsi della fede nel
divenire sull’abisso senza fondo della negazione di questa fede - il legame indissolubile che
lega questa fede alla propria negazione
- è il librarsi stesso della Follia - non
quella che lacera la mente di un individuo che è stato un grande filosofo, ma quella che sta alla
radice del modo in cui l’uomo ha abitato
e tuttora abita la terra? Ricordo che due anni fa - Hans-Georg Gadamer era venuto a Venezia, e stavamo entrando a Ca’
Foscari parlando di Heidegger-, mentre
ponevo termine alla nostra
conversazione, perché la conferenza del professor Gadamer era imminente, volli avanzare quello che mi
sembrava il punto decisivo, e gli dissi
che tra Heidegger e l’essenza della
tecnica c’era una sostanziale solidarietà. Al che Gadamer rispose con un no tanto perentorio quanto
gentile. Ma è proprio su questo punto
che vorrei un po’ soffermarmi; quindi mi
è cara l’occasione per riprendere quel discorso
interrompu con Gadamer: l’essenziale solidarietà del pensiero di Heidegger con l’essenza della tecnica, con
quell’essenza che secondo Heidegger si
colloca agli antipodi della sua posizione.
Ieri si è parlato di differenza ontologica: vorrei prendere le mosse da questo concetto. Differenza
ontologica significa che esiste una
essenziale accidentalità nel rapporto tra l’essere e l’ente. Significa che l’ente non è
essenzialmente legato all’essere e in
questo senso è un evento che sopraggiunge
improvvisamente e imprevedibilmente. Il concetto che è opposto a quello di differenza ontologica è
la non- differenza ontologica. Questa
lega l’essere all’ente; questo legame,
per Heidegger, o la storia di questo legame, è la storia della metafìsica. Legare l’essere all’ente
vuol dire assicurare le cose al loro
essere. Assicurandole, le cose diventano stabili e arginano, bloccano, il sopraggiungere delle
novità storiche. Allora, parlare della non-differenza
ontologica è parlare delfimmutabilità, o
dell’eternità delle cose. Recentemente, è
uscita la traduzione di Was heisst Denken, dove viene sviluppato il concetto che al culmine di
questa assicurazione degli enti
all’essere, al culmine della non-differenza
ontologica sta il pensiero di Nietzsche. Heidegger cita il frammento
della Volontà di potenza, dove si parla della
vetta della contemplazione: la vetta della contemplazione è il ritorno di tutte le cose. Questa, per
Nietzsche, è l’estrema approssimazione
del mondo del divenire al mondo
dell’essere. Heidegger vede in Nietzsche, in quanto teorico dell’eterno ritorno, l’anticipatore della
civiltà della tecnica, perché la civiltà
della tecnica consiste nella programmazione
che esclude la differenza ontologica; la programmazione che, stabilendo la routine, la ripetizione
dell’inedito, esclude la possibilità del
sopraggiungere del nuovo, del diverso.
Heidegger si muove certamente verso l’espressione dell’essenza del pensiero occidentale, in
quanto, allontanandosi dalla maggior
parte delle forme del pensiero
contemporaneo, capisce che l’essenza di tale pensiero va vista in termini ontologici. Ma è appunto in questa
raffigurazione heideggeriana
dell’aspetto ontologico della civiltà occidentale che si cela quella sostanziale solidarietà
fra Heidegger e la tecnica, di cui avevo
parlato prima. Perché? Il tema dell’eterno
ritorno dice dunque che il nuovo è
impossibile, ed eterno ritorno vuol dire estrema approssimazione del mondo del divenire al
mondo dell’essere. Ecco, penso che tutti
colgano il significato della parola approssimazione,
che è estrema, ma è pur sempre
approssimazione. Ciò vuol dire che la distinzione tra il mondo del divenire e il mondo dell’essere rimane;
c’è sì l’estremo tentativo di
identificarli, ma è tentativo che lascia
inevitabilmente un margine dove il divenire non è l’essere. È il massimo che si può compiere per
identificare i due mondi; ma il
tentativo è uno sforzo, non riesce.
Ora, il concetto dell’eterno ritorno finisce col bloccare il divenire, ma il divenire è bloccato solo in
quanto se ne riconosce l’esistenza. Se
teniamo ferma la vicinanza che Heidegger stabilisce tra tema dell’eterno
ritorno e civiltà della tecnica, allora
l’immutabile, cioè la non-differenza ontologica
in cui consiste quell’immutabile che è l’eterno ritorno, è possibile soltanto sul fondamento del
riconoscimento dell’esistenza del
divenire. L’immutabile protegge dal pericolo
della novità, precattura il nuovo, ma proprio perché è la difesa rispetto alla novità che il divenire porta
con sé, appunto per questo l’affermazione
dell’immutabile è il riconoscimento del
divenire. Ma questo
riconoscimento del divenire - che dunque è
evidente in Nietzsche: proprio in quanto egli si vuole assolutamente cautelare dal divenire - questo
riconoscimento del divenire non è nulla
di diverso, nell’essenza, da ciò che
Heidegger chiama differenza ontologica. Perché, se differenza ontologica significa accidentalità
dell’ente rispetto all’essere, il non
essere legato necessariamente all’essere
da parte dell’ente, allora differenza ontologica vuol dire appunto il movimento di
oscillazione delle cose, e la loro
eventualità è il loro andare e venire - un processo in cui le cose sono lasciate nel loro andare e
venire. Voglio dire che quel divenire,
che è necessariamente riconosciuto da
Nietzsche quando egli intende rendere radicale (e insieme difendersene) con 1’evocazione dell’eterno
ritorno, quel divenire è altrettanto
radicalmente riconosciuto da Heidegger
quando egli lo esprime in termini puramente ontologici, come, appunto, differenza ontologica. D’altra parte è chiaro che quando Heidegger
parla della programmazione operata dalla
civiltà della tecnica, che impedisce la
storia, dissente da questo acme che la metafisica occidentale raggiunge nel pensiero di
Nietzsche e nella civiltà della tecnica.
Voglio dire che quel modo di interpretare
Heidegger per il quale egli verrebbe a equivalere simpliciter a Weber, non è quello che intendo sostenere.
Dal punto di vista filologico è ovvio che Heidegger intende prendere le
distanze dall’epoca in cui domina la
civiltà della tecnica. Egli rivendica la
possibilità del nuovo in contrapposizione all’eliminazione del nuovo.
Allora, una prima domanda: qual è il fondamento dell’esigenza del nuovo? Perché ci deve
essere il nuovo? Perché non ci può
essere un sistema che predetermini la
totalità dell’evento, precatturando appunto ogni novità e rendendo impossibile ogni novità? Che cos’è
ciò che fonda questa esigenza del nuovo,
che è l’esigenza dell’esistenza della
storia? Lo so, è l’esigenza di tutti abitatori dell’Occidente: noi vogliamo che la storia esista. Ma perché deve
esistere il non¬ sistema? Ecco, sostengo
che Heidegger esprime semplicemente
l’esigenza, ma non più che l’esigenza, della
esistenza del nuovo: si limita a un’atteggiamento, che è proprio dell’intera cultura contemporanea,
che non può escludere il sopraggiungere
di un sistema il quale riesca a fare ciò
che Hegel non è riuscito a fare. Per escludere il sistema, per riuscire a escludere la negazione della
storia e della novità è necessario un
approfondimento del senso ontologico del
divenire, che rimane invece nel sottosuolo del pensiero di Heidegger (cfr., del mio saggio Gli abitatori
del tempo, Armando 1978, il capitolo
intitolato Gòtterdàmmerung). Seconda
domanda: quando Heidegger polemizza contro la
civiltà della tecnica, contro il piano, la programmazione, non si dimentica forse della caratteristica
essenziale della scienza moderna, cioè
del carattere ipotetico della scienza?
L’anticipazione del futuro da parte d elYepistéme tradizionale è indubbiamente una cattura che elimina
radicalmente la novità. Se è già aperto
il senso del mondo, se il senso del
mondo è già aperto all’interno di una epistéme, allora il nuovo è certamente impossibile. Ma la scienza
moderna si è costituita proprio
attraverso la distruzione d elYepistéme; quindi la programmazione, il piano, in
cui consiste la civiltà della tecnica, è
una anticipazione ipotetica del futuro: se
teniamo presente il concetto di scienza come metodo sperimentale, allora, all’interno di questa
prospettiva, la scienza, come
sperimentazione, è una programmazione che
però resta aperta alla smentita possibile operata dalla novità sopraggiungente. Vepistéme, sì, elimina la
novità; dice alla novità: Io so già che
cosa tu sei, io sono la tua regola; ma la
scienza non fa questo, cioè la scienza realizza appunto a fondo quell’atteggiamento di apertura verso la
novità storica, che Heidegger si limita
a invocare. Questo sarebbe un primo
senso secondo il quale la civiltà della tecnica è l’autentica erede dell’atteggiamento che Heidegger
intende proporre. Ma vi è un senso più
sostanziale. Il senso più originario e
più nascosto della volontà di potenza è
la volontà che la storia (il divenire, la differenza ontologica) esista. Solo se si stacca l’ente
dall’essere e lo si fa oscillare tra
l’essere e il niente è possibile il dominio dell’ente. Alla base della volontà di dominio sta la
volontà che esista il campo del
dominabile. Questa volontà originaria è l’essenza dell’Occidente. E in questa essenza
convengono quindi anche la tecnica e il
pensiero di Heidegger. Ma il pensiero di
Heidegger, a differenza della tecnica, contraddice la propria essenza, perché mentre la tecnica, volendo il
dominio dell’ente, porta a compimento
l’originaria volontà di potenza (cioè la
volontà che il dominabile esista), e cioè resta fedele alla propria essenza, Heidegger contrappone
alla volontà di dominio il lasciar
essere gli enti: quel lasciar essere che è
stato originariamente violato (anche) dal pensiero di Heidegger, proprio perché la volontà che
separa l’ente dall’essere - e che quindi
vuole la nientità dell’ente - non lascia
essere l’ente nel suo essere presso il suo essere, nel suo essere unito al suo essere. In questo senso,
la volontà di potenza, nel pensiero di Heidegger, è incoerente (tradisce
la propria essenza), mentre la tecnica
si libera da questa incoerenza ed è
quindi la coerenza del pensiero di Heidegger
(e non solo di esso). In questo senso bisogna dire che il pensiero di Heidegger è unterwegs zur
Technik, in cammino verso la tecnica. O
anche: il pensiero di Heidegger esce
dall’incoerenza solo se si pone come il lasciar essere le forze che si contendono il dominio dell’ente, e
quindi come il lasciar essere l’organizzazione
tecnologica del mondo, che ormai ha
avuto il predominio su ogni altra forza.
* Intervento al convegno su L’eredità
di Heidegger, tenutosi all’università di Padova nell’inverno 1978 (con la partecipazione, tra gli altri,
di Gadamer, A. De Waelhens, M. Riedel, G. Vattimo) e poi pubblicato in Verifiche. Le religioni
soddisfano i desideri più profondi deiruomo. I
miti gli dicono che può accostarsi e unirsi alle potenze supreme: possono salvarlo dal dolore e dalla
morte e renderlo felice in un’altra
vita. Dando ascolto a queste voci, per
millenni e millenni l’uomo riesce ad anticipare qui sulla terra quella felicità, e a sopravvivere. Crede, ha
fede in esse, ne è certo. Ma queste voci
asseriscono, raccontano: non possono
impedire che il dubbio si insinui e si faccia largo nella gran massa delle loro certezze. Il mito soddisfa
il desiderio, ma è inaffidabile. La
salvezza è il contenuto di un sogno. Nemmeno
le religioni più evolute riescono a uscirne. Si fa avanti allora la religione. Intende
mostrare come il dubbio possa esser
vinto. La storia breve della religione: due
millenni e mezzo. In essa, però, i criteri per accorgersi di ciò che è sogno sono andati sempre più
perfezionandosi. E tuttavia il contenuto
del sogno non è stato sostituito da una
veglia altrettanto salvifica e beatificante. L’uomo ha voluto vedere - e, di assolutamente affidabile, ha
visto soltanto l’assoluta precarietà
della propria condizione. Scienza e tecnica
fanno sì prevedere, qui sulla terra,
l’avvento del loro paradiso. Ma fanno anche capire che nemmeno questo paradiso può uscire dal sogno.
Sanno che, per quanto raffinate, le loro
procedure razionali sono ipotetiche,
fallibili. La condizione umana è precaria, perché precaria è ogni rassicurazione razionale
dalla non precarietà dell’umano. Sia
pure in modo diverso, la salvezza dal dolore e
dalla morte continuano a essere qualcosa di sognato. In questa
situazione, i miei scritti indicano qualcosa che non può non sembrare esorbitante e
velleitario. Può essere espresso con
l’affermazione di Eraclito: Sono attesi gli
uomini, quando sian morti, da cose che essi non sperano né suppongono. Intendo: da cose che sono
infinitamente di più di ciò che essi
desiderano, suppongono, sperando di
ottenere; infinitamente di di più di ciò verso chi vuole condurre la stessa speranza cristiana, e
dunque di più di ogni immortalità e di
ogni resurrezione della carne che a
speranze di questo genere sono connesse - e infinitamente di più di ciò a cui lo stesso Eraclito poteva
riferirsi. Siamo destinati a qualcosa
che è infinitamente di più di tutto
quanto il più insaziabile dei desideri può volere. Ma il carattere esorbitante di queste
affermazioni è ancora maggiore, perché
quel che esse indicano non si presenta, nei
miei scritti, come il contenuto di un mito, ma come lo stare, in modo assoluto, al di fuori del sogno in
cui rimane ogni mito e ogni forma della
stessa ragione. In questo stare al di fuori
del sogno non si tratta di attendere l’avvento dell’insperato: già ora, da vivi, gli uomini sono avvolti da
una veglia assoluta che è infinitamente più
radicale di ogni incontrovertibilità e
di ogni procedura critica della ragione -
dunque anche di quella delle scienze logico-matematico- naturali. È all’interno di questa veglia
assoluta che si mostra la destinazione
dell’uomo a cose che egli non spera né
suppone. L’uomo non è ciò che il mito e la ragione gli fanno credere di essere, ma è lui stesso, nel
profondo, a esser questa veglia
assoluta. In essa appare l’infinito allargarsi di sé stessa, cioè la sua Gloria; il suo accogliere tratti
sempre più ampi del Tutto, ossia della
Gioia che l’uomo, da ultimo, è. Nei
miei scritti tale veglia assoluta è indicata dalla parola destino, intesa come costruita in modo
analogo a termini quali de-amare,
de-vincere, dove il de esprime l’intensifìcazione dell’amare e del vincere, sì
che il destino è l’intensificazione
estrema dello stare, cioè dell’inamovibilità
in cui consiste la veglia assoluta.
Il destino è l’apparire di ciò che è, ossia degli essenti. Nel destino appare che ogni essente è sé stesso e
non diventa altro da sé, e dunque è
eterno; e appare che il variare del mondo è il
sopraggiungere degli eterni nell’apparire, ossia è la Gloria dell’inesauribile sopraggiungere della Gioia;
e, insieme, nel destino appare che la
negazione del destino è negazione di sé
stessa, una freccia che, volendolo colpire, colpisce sé stessa. Il destino è il senso autentico della
verità. E, ancora, nel destino appare
che l’uscire dal nulla e il ritornarvi
non appaiono, ma appare il sopraggiungere di
quegli eterni che sono il dolore e il piacere, la nascita, l’agonia. Il cadavere - gli eterni che sono oltrepassati
quando tramonta l’isolamento della terra
dal destino. Nell’isolamento della
terra, la fede nel divenir altro porta alla luce la volontà di salvezza e di potenza. Nel suo significato
essenziale la morte è il divenir altro
(ossia è l’impossibile); e da sempre i mortali
hanno tentato di vincere la morte diventando altro da ciò che essi sono: uccidendo il Dio, come Adamo, o
diventandone gli alleati, come Gesù.
Hanno tentato di vincere la morte con la
morte. Certo, tutto questo,
detto in questi termini, può sembrare un
ennesimo mito che ripropone quanto la tradizione filosofico-metafisica dell’Occidente ha
inteso essere: l’unità di quanto
interessa l’uomo e di quanto la ragione può dire (l’unità tuttavia che non può essere
realizzata né dalla coscienza religiosa
né dalla configurazione che la religione è
venuta ad assumere nel nostro tempo). Ma, lungo la storia stessa dell’Occidente, quella tradizione è
tramontata. Sennonché è proprio nei miei
scritti che si mostra l ’inevitabilità di tale tramonto, la quale va
rintracciata in quella dimensione più
profonda del pensiero filosofico del
nostro tempo, che questo stesso pensiero per lo più non riesce a raggiungere. D’altra parte sin dal suo inizio la
filosofia porta alla luce non solo
l’istanza dell’incontrovertibilità, ma anche un senso radicalmente nuovo della salvezza: si tratta
di salvarsi dal nulla da cui le cose del
mondo sporgono improvvisamente. Il mito
prefilosofico non pensa il nulla e dunque non vede nemmeno che la morte è annientamento. Non vede
il pericolo estremo e quindi non salva
da esso. Pensando l’eternità del divino,
la tradizione filosofica crede che la salvezza dal nulla sia possibile. Ma se si sa scendere nella
dimensione profonda della filosofia
degli ultimi due secoli si scorge che qualsiasi
Essere eterno è impossibile. Impossibile, quindi, anche ogni verità eterna, incontrovertibile, definitiva.
Ciò significa che sia la tradizione
filosofica sia la filosofia del nostro tempo, sia l’intero passato sia l’intero presente della
civiltà occidentale, e dunque, ormai,
planetaria, hanno in comune il grande mito -
la grande Follia - in cui il variare del mondo è inteso come l’uscire dal nulla e il ritornarvi, da parte
degli essenti. (Il mito che dunque
accomuna non solo gli amici e i nemici di Dio,
ma anche, per quanto riguarda la filosofia del nostro tempo, la cosiddetta filosofia analitica e la
cosiddetta filosofia continentale). La
volontà di salvezza - che è la stessa volontà
di potenza - è la figlia di questo mito. Ma è inevitabile che si obbietti: Come può
essere sostenibile un discorso che
ritiene di essere l’unico a non
appartenere al mito e alla follia? Il genio dell’uomo ha sempre fatto perno sul divenir altro delle cose; e
proprio quel discorso, che pretende di
smentire quel che l’uomo ha sempre
pensato, e su cui si fonda tutto ciò che egli ha creato, dovrebbe esser l’unico detentore della
verità?. Possiamo richiamare così la risposta a questa obbiezione - che peraltro è sempre stata rivolta ai
filosofi e al campo di lotte senza fine
(dice Kant) a cui essi hanno dato vita. Che
esistano altre coscienze, oltre a quella che appare nel destino è, originariamente, un problema, non una
verità assoluta. Originariamente, è un
problema che l’uomo sia una società di
individui umani. Ed è un problema anche ciò che i linguaggi dell’uomo intendono dire. Li si interpreta;
ma l’interpretazione non è una verità
assoluta. È dunque un’interpretazione
anche Yesistenza del dissenso rispetto al
linguaggio che indica il destino - del dissenso che si esprime dunque anche nell’obbiezione che stiamo
discutendo. È una interpretazione anche
l’esistenza della storia, di cui prima si è
detto, che conduce dal mito alla ragione. Che il genio degli uomini sia sempre rimasto al di fuori del
destino, e abbia sempre agito secondo
questa sua alienazione, è
interpretazione, cioè qualcosa di problematico. Il linguaggio che indica il destino dovrebbe propriamente
dire: se c’è stato qualcosa come mito, e
se c’è stato qualcosa come ragione,
allora l’avvento della ragione esprime l’inaffìdabilità del mito, e la esprime nel modo sopra rilevato. Certo, al destino appartiene anche la
necessità del suo essere presente in
infiniti altri cerchi dell’apparire - e in
questo senso gli appartiene l’affermazione che Tesser uomo è Tessere una molteplicità di modi di esser
uomo, ossia è una società. Ma poiché è
sul fondamento del destino che
l’esistenza di questa molteplicità può essere affermata incontrovertibilmente, allora, se si scopre
che tale molteplicità è tutta o in parte
un dissenso rispetto al contenuto del
destino, tale dissenso morde la mano che lo sorregge, nega ciò sul cui fondamento è affermata
incontrovertibilmente la sua esistenza.
Che esista il dissenso che si scandalizza o irride le esorbitanti pretese del linguaggio che indica
il destino non è un fatto: è anch’esso un mito. Quando il destino mostra
di essere presente in un’infinità di coscienze
e mostra il loro dissentire dal destino,
tale dissenso perde ogni verità. Che tale
dissenso esista viene affermato infatti proprio in base a ciò da cui si dissente. La fantasia è l’insieme
delle immagini originarie, delle forme
di rappresentazione più antiche e più generali
dell’umanità: gli archetipi (ad esempio il divino). Diffusa dappertutto, la fantasia appartiene ai
misteri della storia dello spirito umano.
Così scrive Cari Gustav Jung. Platone
vede nelle idee le immagini originarie di tutte le cose, gli archetipi; così originarie da essere le
stesse cose originarie. Ma per lui la
conoscenza delle idee non appartiene ai misteri
dello spirito umano, bensì alla scienza ( epistéme ) della verità a cui solo il filosofo è capace di
sollevarsi e che dunque è l’opposto
della fantasia intesa come evocazione
misteriosa, e quindi da ultimo oscura e arbitraria, di mondi. Eppure è necessario risalire molto più
indietro di ogni archetipo a cui l’uomo
si sia rivolto lungo la propria storia. Ci
si imbatte nella forma originaria della fantasia, di cui tutti quegli archetipi sono derivazioni. Da tempo
chiamo terra la storia dell’uomo e delle
cose che gli si fanno incontro. Infatti
si può pensare che la più antica origine di questa parola indichi il venire e l’andare, l’insieme di
ciò che va e viene: il seno e la voce
materna, la luce e la casa, uomini e dèi, il dolore e il piacere: cose terrestri e celesti,
giacché anche il divino raggiunge i
mortali a un certo punto della loro vita e poi da molti di essi si allontana. La terra: gli
stormi delle cose che vengono e
vanno. Da che cosa è accolta la terra?
Da che luogo si allontana? I mortali
appartengono alla terra: nascono e muoiono. Ma
l’uomo non è un mortale. Egli è il luogo eterno in cui appare ciò che da sempre la verità è destinata a
essere: il destino della verità del
Tutto; essenzialmente diversa da ciò che i
mortali hanno inteso con le parole destino e verità. Nell’uomo sopraggiunge la terra. Ma insieme a
essa sopraggiunge e si fa dominante la convinzione che l’uomo sia un mortale, e con lui tutte le cose; ed egli
vive come se in verità lui e le cose lo
fossero. Ma in verità ogni cosa è eterna.
Non solo le anime, come invece pensa Platone, ma anche i corpi, e tutti gli stati delle une e degli
altri. Anche la terra è eterna; e anche
quella ingannevole convinzione che separa la
terra dal destino della verità.
Com’è lontano questo discorso da tutto ciò di cui sono convinti i mortali. Anche e soprattutto in
questo caso la sua inevitabilità non può
essere, qui, neppure lontanamente
indicata. Qui si tratta solo di mostrare, e da lontano, in che senso è necessario risalire molto più
indietro di ogni archetipo evocato dai
mortali. Tanto indietro da poter scorgere
che sia la verità dei mortali sia la loro fantasia hanno la stessa anima e che quest’anima è la
forma originaria della fantasia. In una delle sue accezioni più comuni, la
fantasia è la capacità di portare alla
luce mondi diversi da quello quotidiano
o da quello che è ragionevole ritenere esistente. Ma questi due tipi di mondi, cioè di
andirivieni, entrambi evocati dai
mortali, appartengono alla terra. Essa è il
fondamento non solo della sapienza di questo mondo e della sapienza di Dio, ma anche della fantasia. E
la terra si inoltra nel luogo eterno del
destino della verità. Ma non basta. La
maggior parte di coloro che leggono
queste righe sta pensando che esse non abbiano nulla a che fare con la realtà e la serietà della vita.
Fantasie, appunto. Ma anch’essi sanno
infinitamente di più di quanto credono di
sapere. Sono l’apparire del destino. L’autentica fantasia originaria è cioè la convinzione che la realtà
con cui noi abbiamo sicuramente a che
fare sia, appunto, le cose che vengono e
vanno, terrestri o celesti, le cose della terra ; e ormai si pensa che tutte le
cose vengano dal nulla e vi vadano. Tutto
è avvolto dalla morte. Chiudendosi in questa persuasione i mortali vivono nella terra separata dal
destino della verità, nella terra che
appare sfigurata, irretita, trascinata in basso. La terra dei morti. La fantasia originaria è la
separazione della terra dal proprio
destino. Una metafora può forse aiutare a
comprendere queste affermazioni - purché non si dimentichi che la filosofia autentica non è metafora, ma
il pensiero più radicale, essenzialmente
più radicale e inevitabile di ogni altra
forma di sapere, scienza compresa.
Quando i cacciatori vedono gli stormi di uccelli attraversare il cielo, non è che il cielo non
lo vedano più. Non si produce in essi
qualcosa come un oblio del cielo e del più
alto dei cieli - quale invece secondo Platone si spalanca nelle anime che hanno perduto le ali e non riescono
più a vedere gli archetipi che appaiono
nella pianura della verità. Quei
cacciatori, il cielo, lo vedono ancora, ma son tutti presi dal volo degli uccelli e se qualcuno parlasse
loro del cielo direbbero che le sue son
fantasie e che sono gli uccelli le cose
con cui essi hanno sicuramente a che fare. Son tutti presi dal volo degli uccelli perché non mirano ad altro
che a prenderli, gli uccelli; ed
effettivamente li prendono, e gettano loro
addosso le reti e li sfigurano e, separandoli dal cielo, li trascinano giù in basso e li uccidono. La fantasia originaria è il volo irretito
degli uccelli. L’arte tenta di rievocare
il libero volo, ma, per quanto splendente,
rimane anch’essa aU’interno della rete, mostrando il volto sfigurato della terra. Giacché ora si può
capire che, nella metafora, il volo
degli uccelli corrisponde alla pura terra, il
cielo al destino della verità. La rete dei cacciatori corrisponde dunque alla volontà di potenza che isola la
terra dal destino della verità. Tale
isolamento è la forma originaria della
fantasia. Su di essa si fondano le forme derivate: religioni e miti,
filosofia, arte, scienza, tutti i morti pensieri e le opere morte dei mortali. Discutere il destino della
verità, concretezza delVerrare, isolamento
della terra, linguaggio Anche oggi il
tema di fondo del pensiero filosofico -
nonostante i tentativi di eliminarlo, ma anche in seguito alla loro presenza - riguarda la verità di ciò che
è conosciuto e voluto dall’uomo. Con
diversi gradi di potenza e rigore la
filosofia del nostro tempo rifiuta la possibilità di una verità assoluta e definitiva, capace di affermare
qualcosa di Immutabile. Un rifiuto,
questo, che è cosa ben diversa dal
considerare superfluo il tema della verità; e che là dove è adeguato al proprio compito è un rifiuto
inevitabile. Esso è tuttavia la coerenza
estrema del nichilismo. Da quando abita
la terra l’uomo intende le cose del mondo
come un diventare altro; da quando la terra è abitata dalla filosofia la filosofia concepisce la cosa
come ciò che è (ente) e definisce il suo
diventar altro come passaggio dal suo
non essere al suo essere e viceversa. La cosa che incomincia a essere è stata nulla nella
misura in cui essa non era e incomincia,
e la cosa che finisce di essere torna nel nulla
nella misura in cui essa finisce e non è più. Procedendo da questo senso dell’esser cosa è inevitabile
che la filosofia pervenga al rifiuto di
ogni verità assoluta e definitiva e di ogni
Ente immutabile e divino; e viceversa, tale rifiuto è inevitabile solo se procede da quel senso -
che domina progressivamente non solo i
pensieri ma anche le opere della civiltà
occidentale e, ormai, dell’intero pianeta. (Ciò non significa che questa dominante inevitabilità
stia davanti agli occhi di tutti i
protagonisti della filosofia contemporanea:
all’opposto, va invece rintracciata nel sottosuolo del nostro tempo.)
Il senso greco dell’esser cosa domina la terra perché è ritenuto indiscutibile. Ma perché non può
essere discusso? In questa domanda traspare la dimensione ignota alla
storia della terra. Tanto più ignota
quanto più tale dimensione si mostra non
come un semplice domandare, ma come
negazione di quel senso e quindi come negazione di ciò sulla cui base è inevitabile che si pervenga alla
negazione di ogni verità incontrovertibile.
Tale dimensione è il destino (inteso
secondo il senso richiamato nelle pagine precedenti). Il destino è la manifestazione del differire
degli essenti tra loro e del loro non essere.
Essi sono le differenze. Proprio per
questo il destino è la manifestazione dell’impossibilità che ciò che è, in quanto tale, non sia: è
l’apparire della necessità che Tessente
in quanto essente (e pertanto ogni essente) sia
eterno. Le implicazioni di questa affermazione conducono molto lontano. Ma il destino è tale solo in quanto è la
dimensione in cui appare incontrovertibilmente
il senso dell’incontrovertibile e
Tincontrovertibilità di tale dimensione: non è la fede nella propria incontrovertibilità. Con una
espressione che, qui, non può che
rimanere astratta, formale, si può indicare il senso delTincontrovertibilità e della necessità del
destino dicendo che esso è la dimensione
la cui negazione nega sé stessa. Il
destino è la negazione della fede, cioè dell’errare. L’uomo di cui si parla all’interno della
terra isolata dal destino è anch’esso il
contenuto di una fede. Con ciò si
intende qualcosa di essenzialmente più radicale dell’affermazione che l’uomo erra: si intende
che la fede nell’esistenza dell’uomo
della terra isolata è un errare, un
sogno. La terra intera, in quanto appare separata dal destino, è il contenuto del grande sogno in cui
consiste la vita e che è il grembo di
ogni fede. (Ma in quanto è un essente, anche il
sogno è un eterno.) La vera essenza dell’uomo è il destino. Essa non appartiene ad alcuno degli
abitatori, umani o divini, della terra
isolata. È all’opposto la terra isolata ad
appartenere al contenuto che appare nel destino - giacché solo nel destino può apparire
incontrovertibilmente l’esistenza
dell’errare, della fede, del sogno, ossia della
negazione del destino della verità.
Discutere il destino è un modo di negarlo, sì che tale discussione nega sé stessa. Infatti discutere
significa affermare una differenza: tra
ciò che è discusso e ciò che in vari
modi gli si oppone. E il destino - si è detto - è innanzitutto l’apparire del senso che compete
alla differenza (ossia alla differenza
dei differenti). Discutere e opporsi al
destino è quindi un differirne. E proprio per questo è condividerne, più o meno inconsapevolmente,
il tratto originario: l’affermazione
della differenza. In questo differire -
condividendo-ciò-da-cui-si-differisce si ripresenta l’indicazione, prima sommariamente
richiamata, del senso
dell’incontrovertibile, ossia Tesser la dimensione la cui negazione nega sé stessa. Discutere il
destino è condividerlo; ma è anche
negarlo, e pertanto è negare tale condivisione, sì che discutere il destino è negazione di sé
stesso. È necessario affermare
l’esistenza delle differenze non perché
esse appaiono all’interno della fede e del sogno in cui consiste la terra isolata dal destino - e
dunque, da ultimo, non perché si vuole
che esse siano. È nel destino che appare la
necessità della differenza dei differenti e la necessità della loro eternità e di tutto ciò che essa implica: nel
destino - che già da sempre si apre al
di là del percorso dove gli abitatori della
terra pervengono inevitabilmente, sul fondamento della fede nel diventar altro, alla negazione di ogni
verità e di ogni Ente immutabile. Discutere e opporsi al destino, quindi
condividendolo, è pertanto solo il
tentativo inconsapevole di condividerlo. Giacché altro è la negazione del
destino, che gli appartiene
essenzialmente in quanto esso è la negazione della propria negazione (e questa negazione del destino non
è un semplice tentativo di esser
negazione); altro è la negazione che appare
nella terra isolata dal destino e che se (a differenza dell’altra negazione) si rende visibile agli abitatori
di questa terra, tuttavia, in quanto è
una fede, è solo un tentativo di essere
negazione del destino. Già il
vivere è trovarsi nelle differenze - è, appunto, credere, aver fede di trovarvisi. Forse la
differenza più antica è quella che la
volontà è convinta di esperire tra i propri
desideri e le resistenze da essi incontrate. Oggi la tecnica guidata dalla scienza moderna è il modo più
potente con cui la volontà domina le
differenze. Ma nemmeno la scienza e la
tecnica, nonostante il loro rigore concettuale, riescono a porsi al di là della fede e pertanto della fede
nell’esistenza delle differenze. La filosofia, sin dall’inizio, è la volontà
di liberarsi dalla fede - quindi dal
mito, che è uno dei contenuti più antichi della
fede e che a lungo ha raccolto in sé e dominato ogni altra forma di fede (e ancora permane in molte
parti del mondo). Eppure la filosofìa
conserva il tratto centraledella fede
prefilosofica nelle differenze: conserva, appunto, la fede nel loro diventar altro. Il pensiero filosofico
conserva in sé la fede che le differenze
siano anche un differenziarsi, e nel modo più
radicale. I miti raccontano cosmogonie, teogonie, metamorfosi: le grandi forme del diventar
altro. La filosofìa, però, intende
essere il vero racconto. La sua
grandezza sta nell’aver evocato una volta per tutte il senso radicale della verità. La verità è il
mostrarsi dell’assolutamente
incontrovertibile. Si è poi trattato di
stabilire il senso dell’assolutamente incontrovertibile e il contenuto
di cui è necessario affermare tale
incontrovertibilità. Ma lungo la storia dell’Occidente la fede è prevalsa sulla stessa filosofia: oltre a
essersi sviluppata come fede nel
differenziarsi delle differenze, la filosofia si è sempre più consolidata come fede
nell’incontrovertibilità della manifestazione
(esperibilità, osservabilità) di tale
differenziarsi. Verità si dice
in molti sensi anche perché molti ambiti
della vita si presentano come verità - e per questo si parla di verità religiosa e morale, di verità degli
istinti, degli affetti, dell’arte, di verità
della filosofia e della scienza; e,
complessivamente, di verità dell’esistenza della vita e della terra (quale appare nel suo essere isolata
dal destino). Ma poiché queste verità
non sono il destino della verità, esse
sono tutte verità controvertibili - per quanto diversa possa essere la loro plausibilità (probabilità, ragionevolezza, potenza e coerenza concettuale) e potenza - e
raffermarle è sempre una fede, anche
quando esse hanno fede nella propria
incontrovertibilità. La più plausibile è lontana dal destino tanto qua nto la meno plausibile:
infinitamente. (Questo, anche se è
appunto all’interno di questa infinita
lontananza che tuttavia si presenta come inevitabile, nel pensiero del nostro tempo, la distruzione di
ogni verità assoluta e di ogni Ente
immutabile.) Si può chiamare filosofia
futura il linguaggio che, invece,
testimonia il destino della verità. Essa è futura perché se nel presente la sua voce è soverchiata dalle voci
della terra isolata dal destino,
tuttavia essa è destinata a mostrarsi come il
linguaggio dei popoli. D’altra parte, testimoniando il destino, la filosofia futura si rivolge alla
dimensione che, eterna, non è inclusa,
ma - più antica del più lontano passato - include la totalità del tempo che viene affermato
all’interno della terra isolata. Tuttavia, le stesse voci che si levano nella
terra isolata, e sono quindi negazioni
del destino, vanno rendendo anch’esse sempre
più concreto il contenuto del destino. Infatti vanno rendendo sempre più concreta quella negazione
del destino che essenzialmente gli è
unita, e in questo senso gli appartiene,
e quindi senza la quale il destino non potrebbe
essere. Ciò significa che la discussione del destino non è soltanto l’opporglisi che, si è detto,
proprio perché intende differirne
condivide (ossia è il tentativo inconsapevole di condividere) l’affermazione della differenza
che in esso appare: tale discussione è
insieme l’arricchirsi della negazione
del destino, quindi è insieme l’arricchirsi, il concretarsi di esso. In questo senso tutto l’infinito
contenuto della terra isolata dal
destino - il contenuto che è, tutto, negazione del destino - va rendendo sempre più concreta la
negazione del destino e quindi il
destino stesso, in quanto negazione di tale
negazione. D’altra parte, la
terra isolata, in quanto fede originaria, è
interpretazione, ossia un conferir senso a qualcosa. Ma, proprio in quanto esso è un conferire, non
gli può competere l’incontrovertibile
necessità del destino, ed è quindi
volontà di dar senso. È per tale conferimento di senso che, nella terra isolata che appare nel
destino, certi eventi appaiono come
linguaggi e come linguaggi che negano il
destino. Tutte le negazioni del destino che appaiono nella terra isolata sono cioè contenuti
dell’interpretare (cioè del sogno) che
appare alfinterno del destino (e la cui esistenza è pertanto un tratto del destino). Gli eventi
della terra isolata sono interpretati
come linguaggi che, proprio perché
testimoniano altro dal destino, ne sono la negazione. Che dunque esista la discussione del destino
offerta dalla terra isolata, è qualcosa
di voluto dall’interpretare (che appare nel
destino). Né può essere diversamente, perché se nella negazione del destino il destino apparisse, essa
apparirebbe come negazione di sé stessa,
e l’apparire di tale autonegazione sarebbe
l’apparire stesso del destino. Se il destino appare è impossibile esser convinti della sua negabilità e
controvertibilità. Lo si può discutere e
negare, se ne può affermare la
controvertibilità e negabilità solo in quanto il discuterlo e negarlo è un linguaggio che nella terra
isolata testimonia soltanto essa - cioè
un linguaggio che nel destino appare
come qualcosa di evocato dall’interpretazione. Sono così evocati anche i linguaggi che, all’interno
dell’interpretazione, mostrano di essere
affermazione del destino, o di condividere
il linguaggio che lo testimonia - e questo stesso linguaggio è evocato dall’interpretazione in
quanto esso appartiene al passato,
mostrandosi con la proprietà dell’esser
mio. Appunto a questo tipo di linguaggio (e non al mostrarsi del destino) si rivolge la discussione del
destino nella misura in cui essa riesce
a costituirsi - visto che essa riesce a
costituirsi solo in quanto non si rivolge al destino, non ne contiene l’apparire, non lo capisce: solo in
quanto non ha come contenuto il destino,
nel quale la negazione-discussione di
esso può apparire soltanto come negata. Diciamo dunque: nella misura in cui riesce a costituirsi la
discussione del destino si rivolge al
linguaggio che lo testimonia, perché non è
non è un tratto del destino che tale linguaggio possegga tutte le condizioni richieste per essere capito dai
linguaggi altrui. L’uomo vive soltanto
se crede - nel senso più ampio di questa
parola, rispetto al quale la fede religiosa è soltanto una specificazione, per quanto eminente. Vivere è
innanzitutto credere di esistere e di
agire nel mondo. E ogni credere, ogni
fede, è volontà. La volontà non vuole soltanto cambiare il mondo e realizzare il futuro, ma innanzitutto
vuole che le cose presenti e passate
siano ciò che essa crede che siano e
siano state. La fede-volontà è interpretazione. Tuttavia credere-volere-interpretare è stare
al di fuori della verità non smentibile.
Credere è errare. Ma se l’uomo fosse
soltanto un vivere, cioè un credere,
allora sarebbe soltanto un credere anche l’affermazione che vivere è credere e volere - affermazione
condivisa peraltro da gran parte della
cultura non solo filosofica del nostro tempo.
E invece - ma al di fuori del modo in cui è così condivisa - questa affermazione non è un credere, ma è
una verità non smentibile. Ciò significa che l’uomo non è soltanto
vita, cioè fede, ma è, originariamente,
l’apparire della verità non smentibile. È
all’interno della verità che - in modo non smentibile, incontrovertibile - appare la vita, cioè la
fede, la volontà. La verità a cui si è
rivolta l’intera storia dell’Occidente
non è riuscita a essere la verità non smentibile - la verità che d’altra parte s’illumina nel fondo più
nascosto di ogni uomo (e ovunque
qualcosa appaia). A volte il linguaggio la indica; la chiama destino della verità - come appunto
nei miei scritti viene chiamata. Ma,
anche qui, che questo linguaggio sia
l’agire di qualcuno - che qualcuno ne sia l’autore, che tale linguaggio abbia il carattere dell’esser mio
-, questo è daccapo uno dei contenuti in
cui la vita può giungere a credere (come
crede che l’uomo esista e agisca nel mondo e che sia l’autore dei linguaggi che
parlano del mondo). Il nichilismo -
inteso nel senso indicato nei cosiddetti
miei scritti - è la forma più potente della vita, cioè della fede, cioè dell’errare. Lascia le sue tracce
anche in questi scritti, che sono andati
via via liberandosene. D’altra parte
sono il contenuto di una fede sia Vesistenza del linguaggio che conduce oltre il nichilismo, sia quella forma
di vita che è il voler dire e quindi
anche il voler dire in cui consiste quel
linguaggio. Ciò che sta oltre il nichilismo è il de-stino della verità. Esso mostra anche in che senso non è
contraddittorio che quella duplice forma
di fede (cioè di non-verità) possa condurre
al destino della verità, ossia a ciò che, in quanto tale, non è un punto di arrivo, ma è il punto
di partenza di ogni percorso. In un senso che è fondamentale i miei
scritti hanno quasi subito guardato
nella stessa direzione. Però il loro è stato un
percorso, non un salto oltre il nichilismo. Il percorso è incominciato molto presto (nei primi anni
Cinquanta), ma l’oltrepassamento del
nichilismo è stato progressivo^ Anche
ai miei scritti (sebbene, sembra, in misura
consistentemente inferiore rispetto a molte altre scritture filosofiche) si può quindi muovere
l’obbiezione, considerata nel paragrafo
precedente, di essere uno sviluppo dove il
linguaggio giunge a dire qualcosa che in qualche modo esso dapprima negava. E perché, allora, quel che
ora esso dice non dovrebbe essere a sua
volta negato da un suo ulteriore
sviluppo? Tale obbiezione e la
relativa risposta hanno in questo caso
un peso particolare perché riguardano il rapporto tra il senso radicale della verità e il linguaggio che lo
indica. I molti significati della parola
verità, comunque, non tolgono di mezzo
la differenza tra la verità, intesa come sapere il cui 171
contenuto è l’assolutamente non smentibile e incontrovertibile - il destino della verità,
appunto - e tutti gli altri sensi, nei
quali, alla luce della verità così intesa, le diverse forme di verità appaiono invece come sapere
il cui contenuto non è qualcosa che non
possa essere in qualche modo negato. Saperi,
si è detto (si pensi ad esempio alle
espressioni verità morale, verità dell’arte, verità della fede, verità del cuore, ecc.), ma anche
intuizioni, emozioni, certezze, fedi,
impulsi profondi, desideri, costumi,
tradizioni ecc. La gran questione è la determinazione del contenuto dell’incontrovertibile, ossia del non
poter essere altrimenti (secondo la
definizione aristotelica): il contenuto
che lungo la storia dell’Occidente è stato qualificato come verità ( epistéme della verità) non è
riuscito a essere l’assolutamente
incontrovertibile. Rispetto
all’incontrovertibile autentico, ogni modo di esperire le cose che differisca da esso è un modo del controvertibile,
cioè tien stretto un mondo che d’altra
parte può sottrarsi alla stretta ed
essere diversamente da come è - per quanto alto e nobile o per quanto profondo e preteso dalle
viscere e dal cuore. L’incontrovertibile
autentico è il destino-, e la struttura
originaria del destino è il centro da cui si irradia la multiforme pianura infinita del destino. Nella sua
essenza autentica l’uomo - ogni uomo -
ne è l’eterno apparire (e tale
affermazione è una forma a sua volta appartenente a quella multiforme infinità). La risposta all’obbiezione che si sta
considerando in questo e nel precedente
paragrafo, si fonda sul rapporto tra destino e
terra. Nel destino appare la terra - ossia tutto ciò che sopraggiunge nell’eterno apparire del destino
ma appare nel suo esser isolata dal
destino, appare cioè come il luogo
originario del controvertibile - ossia del credere-volere - interpretare. AH’interno della terra isolata
si crede inoltre che il linguaggio non parli d’altro che delle cose della terra
(lo si crede, senza poter sapere che
sono le cose - umane e divine della
terra isolata dal destino). E tuttavia
nello sguardo del destino appare che nella terra isolata anche il linguaggio che testimonia il
destino riesce ad affacciarsi; e appare
che non è impossibile che tale linguaggio
sia presente anche in linguaggi che sembrano essere - nelle interpretazioni del mondo che crescono e
dominano alfinterno dell’isolamento
della terra - le negazioni più
perentorie dei tratti del destino. Quella forma di testimonianza del destino che sono i miei
scritti sono eventi della terra isolata,
che nello sguardo del destino appaiono
alfinterno dell’interpretare, ossia della fede che costituisce l’isolamento della terra - appaiono
all’interno dello sconfinato contenuto
dell’isolamento. L’obbiezione che si
sta prendendo in considerazione è una
voce dell’isolamento, cioè del controvertibile. Che la testimonianza del destino sia uno sviluppo
dove il linguaggio giunge a dire qualcosa
che prima negava è un presupposto
controvertibile. Ma nessun controvertibile è qualcosa che - in quanto configurantesi così come attualmente
si configura - potrebbe venire a
mostrarsi come incontrovertibile: quella
configurazione è una negazione dell’incontrovertibile. Tutte le più incrollabili certezze della vita (che
appaiono tutte nella terra isolata) -
tutte le forme del controvertibile - sono
alienazioni della verità del destino. La risposta all’obbiezione consiste appunto nel rilevare che tale
obbiezione non solo è un presupposto
controvertibile, ma si costituisce all’interno di quella forma estrema dell’alienazione della
verità che è l’isolamento della
terra. In relazione allo sviluppo del
mio discorso filosofico - quale appare
all’interno della terra isolata - dell’intera storia isolata - sono peraltro
complesse le articolazioni che conducono
da La struttura originaria (1958) a La morte e la terra (Adelphi 2011), e nelle quali,
tuttavia, il centro di quello scritto
del 1958 permane lungo tutto il tragitto (e si era fatto innanzi già qualche anno prima). Nel
tragitto, la svolta (così è stata
chiamata) consiste nella sopraggiunta consapevolezza, per un verso, che quel centro richiede la
messa in questione dell’intera storia
dell’uomo e, per altro verso, che Yalienazione
dell’uomo e, per altro verso, che Valienazione (del senso autentico della verità ) che domina tale
storia lascia per un certo tempo le sue
tracce anche neìYalone che nei miei scritti
avvolge quel centro.
L’alienazione del senso autentico della verità investe quindi anche il cristianesimo. Ma anche il cristianesimo,
come ogni altro evento storico, appare
all’interno dell’interpretare secondo
cui si costituisce la terra isolata dal
destino della verità. Che il cristianesimo esista e che degli uomini abbiano una fede cristiana è cioè il
contenuto di una fede, della fede in cui
consiste l’isolamento della terra. Nello
sguardo del destino non è invece il contenuto di una fede l’esistenza di quella fede e
dell’interpretare che compete
all’isolamento della terra. L’esistenza di tutto ciò che chiamiamo la nostra vita è contenuto della
fede interpretante. (Appare aH’interno
di quella fede anche l’intera vicenda
che è stata riassunta dal titolo redazionale di un mio libro: Il mio scontro con la Chiesa, Rizzoli
2001. Questo scontro, che appare
all’interno della fede della terra isolata,
sussiste, sì, tra la testimonianza del destino della verità e quella grandiosa forma dell’alienazione della
verità che è il cristianesimo e la sua
configurazione storico-istituzionale, ma
tale scontro è, innanzitutto e propriamente, la negazione, da parte del destino della verità, della verità
di ogni contenuto della terra isolata -
e quindi anche del cristianesimo, in quanto appartenente a tale
contenuto.) Il mondo è interpretato. Non nel senso che
l’uomo, quando voglia, abbia la facoltà
di interpretarlo. Anche gli uomini e i
loro rapporti appartengono infatti al contenuto dell’interpretazione. La quale, dunque, pur
essendo volontà interpretante, non è a
disposizione dell’uomo, ma dispone
l’uomo e le cose del mondo secondo gli ordinamenti da essa stabiliti e modificati. È l’interpretazione
originaria. Ma l’interpretazione non è
verità: è fede, volontà, ossia errare. Il
mondo in cui l’uomo crede di vivere è errare. Tuttavia l’interpretazione appare aH’interno
della verità. Non delle verità del mondo
- che sono a loro volta form e particolari di interpretazione -, ma di ciò
che nei miei scritti è chiamato destino
della verità, o semplicemente destino.
L’interpretazione è errare perché separa il mondo dal destino. La terra isolata è ciò che appare in questa
separazione. Anche le teorie
dell’interpretazione, avanzate dalla cultura del nostro tempo, appartengono alla terra
isolata. L’interpretazione, che evoca i
propri contenuti sul fondamento di
regole e di criteri (di cui essa è più o meno
consapevole), può adottare (cioè volere) quell’insieme di regole e di criteri in base ai quali essa può
affermare che l’uomo esiste come
molteplicità di individui umani e che gli
uomini interpretano il mondo in modi diversi e con un diverso grado di coerenza rispetto alle
regole e ai criteri adottati. Ma anche e
innanzitutto il destino della verità vede
la differente coerenza delle interpretazioni evocate dall’interpretazione originaria. Che la storia
dell’uomo sia storia del mortale, cioè
della fede che, in modi estremamente
diversi e complessi, le cose e l’uomo stesso diventano altro da ciò che essi sono e quindi muoiono via via
ciò che sono stati, fino alla morte di
tutto ciò che essi possono essere, questa è una interpretazione; che però si
presenta come la più coerente, sino ad
ora, rispetto a ogni altra interpretazione di
quella storia (la cui stessa esistenza è un contenuto interpretato). Non è escluso cioè che - ad
esempio in seguito a una svolta radicale
delle discipline storiche, linguistiche,
antropologiche, psicologiche ecc., si imponga una nuova forma di interpretazione, per la quale l’uomo
non ha mai creduto che le cose siano un
diventar altro. Sino a che quella
svolta non si manifesta, l’interpretazione
più coerente è tuttavia in grado di mostrare quell 'ulteriore coerenza, per la quale i diversi modi di
pensare e di vivere il diventar altro
delle cose è esso stesso un mostrarsi sempre più coerente a sé stesso, lungo il percorso che
conduce dall’esistenza guidata dal mito
all’esistenza guidata dalla verità e, in
seguito, dalla distruzione della verità (ossia
della verità che appartiene alla terra isolata) alla civiltà della tecnica.
Il destino della verità mostra che questo è il percorso dove YErrare estremo perviene alla propria estrema
coerenza; ma è anche questo stesso
percorso, in quanto isolato dal destino e
dunque con le proprie forze, a mostrare il proprio diventar sempre più coerente alla fede nel diventar
altro, dalla quale tale percorso si
sprigiona. Non potendo sapere di essere
l’Errare, l’Errare stesso provvede cioè a rendere sempre più coerente (e, dal suo punto di vista, sempre
più vera) la propria fede nel diventar
altro, che all’inizio della storia
dell’Occidente si presenta in forma ontologica, ossia come convinzione che le cose del mondo,
corruttibili, escono dal loro non essere
(dal loro esser nulla) e vi ritornano. E poiché
questa convinzione - se il linguaggio si libera daH’incantesimo della terra isolata - è
convinzione che l’essente in quanto
essente sia niente, la storia dell’Occidente è
storia del nichilismo - in un senso essenzialmente diverso da quello
affermato da Nietzsche e Heidegger. Innanzitutto, l’intera storia della filosofia si
costituisce il proprio costituirsi come
sistema : non in senso hegeliano, come sistema della Verità, ma come sistema dell’Errare. Il compito gigantesco da cui è atteso il
linguaggio che sul fondamento del
destino mostra il nichilismo dell’Occidente è
di allargare a tutte le dimensioni attraverso le quali si dispiega l’Occidente l’analisi in cui appare il suo
carattere di sistema : allargarla alla
dimensione religiosa, artistica, economica,
politico-giuridica, a quella della historia rerum gestarum e delle res gestae, oltre che, appunto, a
quella delle diverse forme della scienza
in quanto sapere della natura e dell’uomo
e in quanto sapere logico-matematico. Anche in queste dimensioni è possibile scorgere il percorso
che rende sempre più coerente e visibile
il nichilismo che in modo specifico le
avvolge e sorregge, e la sua tendenza all’autodistruzione. La dimensione filosofica del nichilismo anima tutti
gli altri luoghi dell’Occidente e ormai
del pianeta - e tanto più quanto più
essa è ignorata sì che innanzitutto all’esplorazione analitica del suo articolarsi dev’esser data
la precedenza. Per indicare l’Errare è
necessario esserne al di fuori: solo in
quanto il destino della verità è già da sempre aperto qualcosa può apparire come l’Errare - che d’altra
parte non è qualcosa di accidentale
rispetto al Non Errare. Lo smascheramento del
nichilismo non è una semplice confutazione di un errore che, esercitando una maggior attenzione e
perspicacia, si sarebbe potuto evitare.
La grandezza della verità richiede la
grandezza dell’Errare e dell’errore. E la cura per la potenza delle configurazioni storiche del pensiero
filosofico, per la loro inevitabilità -
cioè per la loro capacità di andar oltre le
forme storiche di volta in volta raggiunte, proprio perché sono queste stesse forme a richiedere di
essere oltrepassate senza peraltro
riuscire a soddisfare questo loro intento più profondo, è un modo di pensare la filosofia
che troppo presto è stato messo in
disparte col pretesto che Hegel ne aveva
abusato. Recuperandone la forma (e non il contenuto, si è già detto), si dovrà comunque distinguere il
senso che l’inevitabilità del processo
storico presenta in quanto considerato
alfinterno della logica dell’Errare e il senso di tale inevitabilità in quanto appare nello sguardo
del destino. Al culmine della propria
coerenza - e dunque nell’incombere della
propria distruzione - il nichilismo si
presenta come civiltà della tecnica.
Come ho richiamato più volte, l’essenza della tecnica non è infatti il suo carattere
scientifico-matematico (che peraltro,
oggi, non si scorge come potrebbe venir sostituito da una concettualità più potente - anche se questa
insostituibilità è una situazione di
fatto, un fatto grandioso che ha alle proprie
spalle tutti i successi della scienza). L’essenza della tecnica è
la messa in opera del rapporto
mezzo-fine: l’organizzazione di mezzi in
vista della produzione di scopi, e propriamente di quello scopo che è l’incremento indefinito
della capacità di produrre scopi. Se
qualcosa riuscisse a servirsi della tecnica -
se cioè riuscisse ad assumere la tecnica come mezzo, costituendosi pertanto come il supremo
dominio e come la potenza suprema, tale
qualcosa sarebbe la tecnica autentica,
cioè la tecnica più potente. Infatti già ora la tecnica assume e usa come mezzo non soltanto le forze che si
illudono di servirsi di essa come mezzo,
ma si serve anche di sé stessa o di una
dimensione parziale di sé stessa. Ormai (cioè dopo la fine di quell’illusione), che qualcosa si serva
della tecnica significa che la tecnica,
ossia ciò che oggi si presenta come la forma più potente del divenire, si serve e usa sé
stessa o una sua dimensione parziale.
Poiché la volontà di accrescere
all’infinito la propria potenza è lo scopo della tecnica, questa volontà è la forma trascendentale del
divenire, che servendosi di mezzi si serve anche di sé e delle forme particolari, empiriche del divenire. Detto in
modo sommario: si serve di sé, in quanto
potenza massima attualmente realizzata,
per produrre sé in quanto potenza ancora
maggiore - e servendosi di sé e usando sé stessa si serve e usa anche le forme di volontà di
potenza che credono ancora di poter
guidare la tecnica (e lo credono nella misura
in cui la tecnica non riesce ancora a sentire la voce dell’essenza, peraltro tendenzialmente
nascosta, del pensiero filosofico del
nostro tempo, che mostra l’impossibilità di ogni limite assoluto alla volontà di accrescere la
propria capacità di realizzare scopi).
La tecnica - che può essere mezzo solo in
quanto si propone innanzitutto come lo scopo supremo del divenire - è ormai la forma fondamentale del
divenire, rispetto alla quale il
divenire naturale si presenta come
routine, staticità che tale volontà va sempre più sciogliendo. La civiltà della tecnica è, così, il culmine
della coerenza del nichilismo (anche se
ancora resta da esplorare, da un lato, il
rapporto tra i contrapposti modi in cui Leopardi e Nietzsche intendono la forma trascendentale della volontà
che si fa avanti alla fine dell’età
della tecnica, e, dall’altro, il rapporto
tra questi modi e l’attualismo gentiliano). L’anima dell’Occidente: la
persuasione che le cose e gli eventi -
gli essenti - escano dal niente e si annientino. Ciò significa che annientati sono niente, e
che prima di uscire dal niente sono
niente. Ma questa persuasione è la
Follia essenziale, la più profonda che possa manifestarsi nel mondo dell’uomo e nel Tutto. È infatti la
persuasione che un essente, un no
n-niente, divenendo, sia, in quanto essente,
niente (come passato e come futuro). In forme diverse, la Follia domina la storia della terra, ma al di
fuori della Follia appare eternamente
l’eternità di ogni essente: di ogni evento,
di ogni stato del mondo, di ogni essente che non sia uno stato del mondo. Il mantenersi al di fuori della
Follia essenziale non è una semplice
fede, un mito, un desiderio vano, un dono
divino, una filosofia, e non è nemmeno un atteggiamento scientifico: non perché non riesca a
raggiungere il rigore delle scienze
della natura e delle scienze logico-matematiche, ma perché, nel suo significato autentico, il mantenersi
al di fuori della Follia ha un rigore,
un’incontrovertibilità, una stabilità, e
dunque una verità e necessità
essenzialmente più radicali di quelli che competono al sapere scientifico, e a ogni altra forma di sapere e
di coscienza. La negazione di ogni
verità assoluta a cui è pervenuta la
coscienza critica del nostro tempo è conseguenza inevitabile della persuasione che le cose e gli eventi
siano divenienti, cioè possano uscire
dal nulla e annientarsi. Ma in quanto appare,
nella Non-Follia, la Follia di tale persuasione, quella conseguenza non è più inevitabile; cioè non
si può impedire, al pensiero che si
mantiene nella Non-Follia, di essere la
verità e necessità essenzialmente più radicale di ogni verità e necessità della conoscenza scientifica, e
di ogni altra forma di conoscenza. Destino
della necessità si può chiamare questo senso estremo della verità e della
necessità, che si mantiene eternamente
presso di sé. Il destino della
necessità è l’essenza autentica dell’uomo:
come apparire eterno degli eterni, l’uomo è infinitamente altro dall’essere un che di effimero, preda
del tempo e del nulla, più o meno raggiunto
dalla grazia di un Dio o di un
Salvatore. Nella sua essenza autentica l’uomo è il luogo eterno che accoglie la terra, ossia tutto ciò che
sopraggiunge - e tutto ciò che
sopraggiunge è il corteo degli eterni al quale
appartengono non solo gli individui umani, ma la stessa Follia essenziale, cioè la stessa fede che
gli essenti possano uscire dal niente e
ritornarvi. Stando aH’interno della Follia,
gli uomini chiamano storia del mondo e
dell’universo il sopraggiungere degli eterni,
ossia la terra. Al di fuori della Follia, la storia del mondo e dell’universo non è la produzione e la
distruzione degli essenti, ma è il
comparire e lo scomparire degli essenti, cioè
degli eterni. La morte appartiene alla manifestazione degli eterni, è un evento interno al cerchio eterno
dell’apparire degli eterni in cui l’uomo
consiste. La morte non travolge e non
disperde l’uomo, ma è l’uomo a comprenderla in sé stesso come parte della totalità in cui egli
consiste. Da sempre e per sempre, quel
cerchio è l’apparire della verità del
destino. La terra sopraggiunge nel cerchio del
destino - che dunque è una dimensione finita. L’uomo è sì l’apparire infinito del destino
della verità, ossia l’apparire di tutto
ciò che è, nella sua verità assoluta - e
dunque è l’apparire in cui non può sopraggiungere alcunché (appunto perché esso è l’eterno apparire di
tutto) ma l’infinito rimane l’inconscio
del finito: nell’uomo, in quanto luce
finita del cerchio del destino, l’eterna luce infinita è destinata a rimanere nascosta, pur
affacciandosi, con la terra, 182 in quel cerchio. Come eterno oltrepassamento di tutte le
contraddizioni del finito, l’apparire
infinito del destino è la Gioia, l’inconscio
dell’uomo, in cui egli è destinato a inoltrarsi, all’infinito. Ma che ne sanno, intanto, gli individui
umani - o i popoli - di tutto questo?
Nulla. Vedono in eterno la verità, ma i
loro linguaggi tacciono di ciò che si mostra nella piena luce e parlano soltanto di ciò che
sopraggiunge; e la terra appare come la
dimensione in cui la volontà dell’uomo ha la
potenza di trasformare e dominare cose ed eventi. Due anime abitano nel nostro petto: l’apparire
del destino della verità e la
separazione della terra da tale apparire. Il mondo in cui crediamo di vivere - il mondo del dolore
e della morte - è il volto che la terra
viene a mostrare nel suo essere così
separata e isolata. Ma intanto,
prima del tramonto della Follia l’uomo è
rattrappito. Nelle sue certezze, innanzitutto. È infinitamente di più di quel che crede di essere.
Rattrappito, perfino quando crede di essere
Dio o il figlio di Dio, o che la sua anima sia
immortale o che anche il suo corpo possa risorgere. È rattrappito anche nei suoi desideri: non
perché debba desiderare di più, ma
perché l’uomo desidera quando non è
consapevole della propria infinita ricchezza e della necessità che tale ricchezza gli si faccia innanzi
lungo un percorso a sua volta infinito
al quale, dunque, si addice la parola Gloria. E, tutto questo, non certo perché sia io o tu o
un popolo o un Dio a dirlo, ma perché
appare, non smentibile, nel più profondo
di ognuno di noi. Già da sempre, eterni, siamo oltre qualsiasi Dio e qualsiasi forma dell’esser
uomo. L’isolamento della terra dal
destino della verità è il fondamento, la
radice più profonda della Follia essenziale.
L’isolamento della terra non è una colpa, una decisione dell’individuo,
ma è esso stesso destinato all’uomo in quanto
cerchio finito del destino. Solo all’interno della terra isolata può apparire qualcosa come individuo umano, popolo, società. Sul fondamento della terra isolata
si fa innanzi, nell’apparire, la Follia
essenziale e la storia dell’Occidente, che
è ormai storia del pianeta, destinata a culminare nella civiltà della tecnica. Quali sentieri la terra è destinata a
percorrere nel cerchio finito
dell’apparire? Il suo isolamento dalla verità è
insuperabile? È destinata ad abbandonare quel cerchio? Quali spettacoli sono dunque destinati a mostrarsi
in quel cerchio durante la vita e dopo
la morte - che, comunque, non può essere
l’annientamento di ciò che dell’uomo è andato via via apparendo? Nella sua essenza autentica l’uomo non solo
è l’eterno apparire degli eterni e degli
eterni della terra, ma è la luce che si
allarga senza fine sulla distesa degli eterni: nel senso che ogni eterno che sopraggiunge (ossia ogni
configurazione della terra) è destinato
a essere oltrepassato dal sopraggiungere,
nell’apparire, di altri eterni; sì che anche l’isolamento della terra - che tuttora domina i pensieri e le
azioni dei mortali - è destinato al
tramonto; e la Gioia, pur rimanendo inesauribile, è destinata a mostrarsi libera dal contrasto
con la terra isolata. L’essenza
autentica dell’uomo, come luce dell’apparire degli eterni, che si allarga senza fine, è la
Gloria dell’uomo. L’uomo è destinato a
questo rapporto tra la Gioia e la Gloria
- che dunque non è un premio concesso a chi abbia usato bene la propria volontà libera -. È
necessità che, dopo il tramonto
dell’isolamento della terra - e dunque dopo
il tramonto della vita e della morte, della volontà e dell’abulia - l’uomo sia l’inesauribile
apparire della libertà della Gloria
dalla terra isolata. Tale libertà non è oblio della terra isolata: tutto ciò
che nel cerchio dell’apparire è oltrepassato
è insieme totalmente conservato in quel
cerchio. Se il dolore, che come ogni essente
è anch’esso eterno, non fosse eternamente e totalmente conservato nel cerchio delfapparire, il suo
oltrepassamento sarebbe una semplice
immagine, un’astratta rappresentazione
(cfr. E.S., La Gloria, Adelphi 2001).
Poiché la Gloria - il dispiegamento infinito degli eterni nel cerchio finito delfapparire - è la Gloria
dell’uomo, per un verso essa si dispiega
nel cerchio in cui appare questa mia
fede di essere una forza, individuo capace di trasformare consapevolmente le cose; per altro verso la
Gloria è il dispiegarsi, in quel
cerchio, e in ogni altro cerchio, degli
infiniti altri cerchi finiti. In ogni uomo è destinata cioè a sopraggiungere, in carne e ossa, la totalità
infinita dell’umano e dunque la totalità
infinita dei modi in cui la terra è stata e
sarà isolata. Questo è il venerdì santo che precede la pasqua della terra libera dall’isolamento. Si
dice, di Cristo: Nonne oportuit haec
pati Christum et ita intrare in gloriam
suam? (Le., 24, 26-27). Ma volendo trasformare la terra per prendere su di sé il dolore del mondo, egli vuole
qualcosa che invece è necessità che
accada in ogni cerchio delfapparire, e
il cui accadimento è richiesto con necessità dalla destinazione di ogni cerchio alla Gloria,
oportet haec pati in Gloria - e nella
Gioia. Cfr. su questo punto, per restare agli studi più recenti, i saggi di
Leonardo Messinese L’apparire del mondo.
Dialogo con Emanuele Severino, Mimesis 2008; Il paradiso della verità. Incontro
con il pensiero di Emanuele Severino,
ETS 2010; Né laico, né cattolico, Dedalo 2013; e i saggi di Nicoletta Cusano,
Emanuele Severino. Oltre il nichilismo,
Morcelliana 2011; Capire Severino. La risoluzione delVaporetica del nulla, Mimesis 2011. A Messinese interessa
valorizzare soprattutto il mio scritto del 1958 La struttura originaria (La Scuola) - e in generale la prima fase del
mio discorso filosofico - e gli interessa valorizzarla anche perché, a suo avviso, essa sarebbe
compatibile con la fede cristiana; alla Cusano interessa invece sottolineare quanto del nichilismo permanga
in quella prima fase di oltrepassamento del nichilismo, e, questo, per valorizzare il modo in cui gli
scritti successivi si liberano da quella permanenza: ma le interessa 185
anche sottolineare la differenza essenziale tra il modo in cui il
nichilismo permane in quella prima fase e
tutte le forme di nichilismo che invece non compiono il primo passo,
compiuto appunto in tale fase, che è
quello decisivo, perché spinge inevitabilmente verso tutti gli altri.
Eschilo (E): Conosco quel che tu scrivi di me... che oltre a essere uno dei più grandi poeti sono anche
uno dei più grandi filosofi che i
mortali abbiano mai avuto... e che proprio
perché la filosofia è in me così grande può esser divenuta in me così grande la poesia... Ma... c’è anche dell’altro... Interlocutore (I): Se tutto questo - ed è
molto! - non ti può bastare... e non
certo perché tu sia insaziabile... E.
Certo! Tu mi metti in testa al grande Corteo della tradizione dell’Occidente. Ma poi, questo
Corteo lo vede fermarsi (o muoversi per
inerzia)... e credi che sia sorpassato
da un più potente Corteo : quello della civiltà del vostro tempo: la civiltà della morte di Dio, come
Nietzsche si esprime, la civiltà della
tecnica... Non è così?... I. In qualche
modo sì... ma, tu sai bene, ciò che più conta
non è quel che si dice, ma la verità di quel che si dice... e la più gran questione, a partire dai Greci, è il
senso della verità... Quanto al semplice
dire, anche i bambini sono capaci oggi
di dire che Dio è morto... E. ... e tu
credi invece che si possa sapere il vero perché di questa morte! I. Ma se ti fermi qui non ci facciamo
capire... E. Lo so... Perché poi, a tuo
avviso, tutti e due quei Cortei di cui
ho parlato, e che pure sono in lotta tra loro, sono uniti da una stessa cadenza... o, se preferite,
dalla stessa Anima... Come se la loro
marcia fosse scandita dallo stesso Canto...
(che però richiede orecchie fini, tu dici, per essere udito)... e per te quest’Anima e questo Canto li accomuna
più di quanto 188 la loro inimicizia li divida...: come se
celebrassero un rito comune... che però
è inviso al Cielo... (chiamiamolo così).
I. Sì... purché ci si intenda sulla parola Cielo... Non la uso mai... ma forse, in questo nostro veloce
colloquio potrebbe servirci... E. ... Ma vedi allora che non mi può bastare
il riconoscimento che tu dai della mia
grandezza poetica e filosofica! Ti
sembra che mi ci trovi bene alla testa di un
Corteo che, per quanto potente, non solo è superato da un altro ancora più potente, ma che insieme a
quest’altro non ottiene il favore del
Cielo? L Dipende da questo Cielo che le
cose vadano così. Cioè né da me né da
te... Ma, intanto, su questo possiamo esser
d’accordo: che il Cielo di cui stiamo parlando non può essere il cielo di Dio (non si dice che Dio sta nell’alto
dei cieli?)... ma nemmeno essere quello
degli atei, che riabbassano il Cielo al
soffitto delle loro case... Non credo
che avremo tempo di parlare del significato del
Cielo inaudito al quale ci si deve riferire. Ma ora lasciamo dire questo... E. Certo!
E ... che se non ottenere il favore del Cielo significa essere nell’Errore, l’Errore è però prezioso
come la verità... Soprattutto quando è
grande come quello dei due Cortei di cui
si parlava... Lo dico, un po’ nel senso in cui quell’altro grande che è Emanuele Kant osservava che
senza la resistenza dell’aria le colombe
non potrebbero volare... E. ... Intanto
siamo al mio Cielo: il Cielo di Dio... che
d’altronde non è nemmeno il cielo di Cristo... e non solo perché, quando io scrivevo, Cristo non era
ancora nato... L Sì, tu ti rivolgi a
Dio - ecco le tue parole - con un sapere
che sta e non si lascia smentire; e questo sapere non può 189
essere la fede cristiana né alcun’altra fede. Avvolto nello splendore della tua poesia, è tuttavia il Dio
dei filosofi e tu sei stato uno dei
primi re del pensiero ad affermarlo. La
grandezza di ciò che tu hai visto non poteva essere espressa che da un linguaggio potentemente nuovo, che
ha attratto gli amanti della poesia ma
ha fatto perdere di vista che lì stava
nascendo la filosofìa, la più grande delle avventure del mortale...
E. Di solito, quando si dice Dio dei filosofi si pronuncia questa espressione con un accento di più o
meno larvato rimprovero, mentre il volto
e la voce si rischiarano, quando a codesto
Dio si contrappone il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e, soprattutto, il Dio di
Gesù... I. Ma il rischiararsi di quei
volti e di quelle voci è poca cosa
rispetto al chiarore di cui parli tu quando ti riferisci al sapere che sta e non si lascia smentire! E. È il chiarore della filosofia. Quando
pronuncio l’espressione phrenòn tò pàn
intendo parlare del culmine della
sapienza... (come tu traduci) ossia di ciò che noi Greci eravamo in procinto di chiamare filosofia. E
il culmine della sapienza è il sapere
che non si lascia smentire... Stando su
quel culmine e in quel sapere, si abita en phàei, nella luce, nel vero chiarore... I. Sì, nella tua lingua luce si dice phàos e
la parola filosofia contiene le parola
sophia... che è costruita sulla parola
phàos, e dunque suona come se dicesse: grande luce... E. ... Certo: quel so di so-phia è un
prefisso che rafforza, intensifica e,
appunto rende grande il significato della parola da cui è seguito, cioè, in questo caso, il
significato della parola phàos. I. ... e quindi si deve dire che
philo-sophia significa aver cura per ciò
che sta nella grande luce, al culmine della luce... La cura per qualcosa che è
essenzialmente più radicale del rigore
del sapere scientifico e della dedizione di ogni fede. E. ... e che per questo, ma solo per questo,
può essere detto sapienza... Forse ora si potrebbe incominciare a capire
ciò che tu affermi del modo in cui io
intendo la sapienza: quel che sta al
culmine della luce è il sapere che sta e non si lascia smentire...
L Ho dovuto usare quest’ultima lunga espressione per tradurre quel che tu esprimi rapidamente
quando affermi di rivolgerti a Dio... E. Sì, io dico: rivolgersi a Dio
pant’epistathmómenos ... che tradotto
alla lettera nella vostra lingua significa ponderando bene tutte le cose... Ma tradotto così alla
lettera dice ben poco... Se si è capaci
di scendere nel senso profondo di queste
mie parole greche, bisogna intenderle nella direzione in cui tu ti sei messo... In esse risuona una grande
parola: la parola epistéme che alla
lettera vien tradotta con la parola scienza,
ma che nel suo significato originario significa lo stare (- stéme), dove lo stante non si lascia scuotere
dalle forze che vorrebbero scuoterlo,
abbatterlo e smentirlo. I. Ti ringrazio
per quanto hai detto di me... A questo punto
sarebbe forse il caso che tu richiamassi e facessi sentire quel tuo Inno a Zeus - l’Inno a Dio - che,
parlando del culmine della sapienza, sta
esso al culmine della sapienza che guida
la tradizione dell’Occidente... QuellTnno è il contesto in cui compare la rapida e potente
espressione che ho tradotto con il
sapere che sta e non si lascia smentire...
E. Ne ricorderò solo una parte... e non nella mia lingua, ma nella traduzione che tu nei hai dato, e
con qualche ritocco... Se il dolore, che getta nella follia,
dev’essere cacciato 191 dall’animo con verità, allora, soppesando
tutte le cose con un sapere che sta e
non si lascia smentire, non posso pensare che
a Zeus [...] che ha vinto tre volte.
Chi ha la mente protesa verso Zeus e annuncia la sua vittoria perviene al culmine della
sapienza. Guidando il pensiero dei
mortali Zeus ha stabilito che il sapere
acquisti potenza sul dolore. Quando, invece del sonno, goccia davanti al cuore l’affanno che ricorda
il dolore, allora, anche senza che lo
vogliano, sopraggiunge nei mortali un
sapere che salva. Questo è un dono dei dèmoni che siedono potenti sul sacro seggio di Zeus. I. Quanto tempo occorrerebbe per portare
alla luce la grandezza di queste
parole!... Bisognerebbe mostrare,
innanzitutto, che Zeus è per te ciò che la filosofia, nascendo, chiama Dio... e che tu sei tra i pochi che la
fanno nascere... E. Zeus ha vinto tre
volte: ha vinto per sempre la propria
mente... quindi è il totalmente essente, come tu hai tradotto l’espressione pantelés, che compare
nella mia tragedia Le supplici ... I. ... e, ancora, bisognerebbe mostrare che
tu incominci a intendere la morte come
l’andare nel nulla e dunque a pensare
quel significato radicale del nulla che prima di Parmenide, di te e di pochi altri era rimasto
nell’ombra... e portandolo alla luce
avete fatto sì che gli uomini
incominciassero a nascere e a morire in modo diverso da prima: nel modo estremo e più
terribile... E. Morire sapendo di andare
nel nulla dal quale non c’è ritorno è
infatti qualcosa di essenzialmente diverso dalla morte di chi, la morte, non la può vedere
legata al nulla perché ancora non sa
nulla del nulla... I. All’estremo
opposto di Zeus che ha vinto per sempre la
propria morte e per questo è totalmente essente, c’è il panóles, la
parola con la quale tu indichi Tesser totalmente distrutto di chi è spinto nel nulla dalla
morte... E. Eppure... eppure nel mio Inno
a Zeus dico che il dolore che getta
nella follia deve essere cacciato dalVanimo con
verità...! e il dolore getta nella follia quando lo si patisce come messaggero della morte!... Nel mio Inno
io indico anche il Rimedio!... il
Rimedio contro la follia in cui getta
l’angoscia della morte!... il Sommo Rimedio! I. Sì, tu hai indicato il Rimedio... Di più:
alTinterno della storia dell’ epistéme
tu sei stato il primo a indicarlo a chiare
lettere... Di più ancora! Il tuo Rimedio è il Riparo sotto il quale si sono rifugiati quasi due millenni e
mezzo di storia dell’Occidente... e si
semplificano troppo le cose dicendo che
il tuo Rimedio è Dio!... E.
Certo, si semplificano troppo, perché anche nel mio Inno dico che... con verità è necessario
cacciare la follia del dolore... con
verità!... cioè con un sapere che sta e non si
lascia smentire... e questo sapere non può essere nessuna sapienza che il mito ha prodotto, e nessuna
fede, nemmeno quella che per chi è
venuto dopo di me è stata la fede cristiana
o la fede nella tecnica del vostro tempo! Inchiodato dalle arti, cioè dalla tecnica del falso Zeus del mito e
della fede, non è forse il mio Prometeo,
a urlare: La tecnica è troppo più debole
della Necessità? Sono io a pronunciarle, queste
parole, perché la Necessità è proprio ciò che si manifesta alTinterno del sapere che sta e non si lascia
smentire, e che nel mio Inno chiamo
sophronéin, cioè sapere che salva, come
tu hai tradotto... L Siamo al centro
del tuo pensiero e del pensiero della
tradizione occidentale: la verità salva - voi dite. Nel tuo Inno lo metti in piena luce. E. Guidando il pensiero dei mortali Zeus ha
stabilito che il sapere acquisti potenza sul dolore e questo è il sapere che
sta e non si lascia smentire. I. Ha in mente te e gli altri grandi
filosofi greci, Gesù, quando dice: La
verità vi farà liberi! Liberi da che cosa se
non dalla incapacità di sopportare il dolore e la morte...? E. ... solo che in lui la verità è ormai
diventata la verità della fede, la
volontà che un sapere sia verità perché è lui a
rivelarlo... I. ... mentre la
filosofia ha cura per il sapere che mostri da
sé stesso di non poter essere smentito... E. Su questo pensiero la filosofia si è
curvata per millenni... L ... si tratta
di aver cura per la luce che non inganni e della potenza che può essere suprema, divina, supremamente liberatrice solo in quanto essa appaia in
questa luce... E. Saldi rimedi; saldi,
cioè veri, invocano le Erinni alla fine
della mia Orestea... Su questo pensiero la filosofia si è curvata per millenni... L ... e si è spezzata... e questo è insieme
lo spezzarsi dell’intera civiltà
occidentale, e ormai è la spezzatura del
mondo... E. Tu vuoi dire che si
è spezzata nei due Cortei di cui
parlavamo all’inizio?... il Corteo della tradizione, della verità liberatrice, del divino... L Sì, e il Corteo del tempo presente, dove
invece si scorge l’inesistenza di ogni Rimedio,
di ogni Riparo dalla nullità
dell’uomo. E. Sì, il mio Corteo
ha pensato (e per primo) che le cose e i
mortali sporgono provvisoriamente dal nulla, ma ha anche pensato che dall’angoscia in cui spinge il
pensiero della nostra nullità, ci si può
liberare solo con la verità che sta, non
smentibile, e mostra il divino che ha vinto per sempre la morte e in cui
in qualche modo restano salvate dal nulla tutte
le cose mortali... I. ... ma una
volta che il tuo Corteo ha evocato il canto
terribile della nullità delle cose era inevitabile che il controcanto del Rimedio e della Salvezza dal
dolore e dal nulla si rivelasse senza
forza e si spegnesse, e si facesse innanzi
l’altro Corteo, che in mille modi e anche contrastanti canta lo stesso Inno, diverso al tuo, ma figlio
legittimo del tuo: l’Inno del nulla,
della incapacità dell’uomo di salvarsi dal nulla... è inevitabile che il tuo Corteo sia seguito da
quest’altro... E. ... ma tu dici anche
questa inevitabilità non è a portata di
mano e che molti cantori del mio Corteo credono che il mondo debba essere guidato da loro... I. Sì, lo credono... si illudono... perché
sotto la cenere di Dio c’è il fuoco del
nulla. Leopardi canta così: ... a noi
presso la culla immoto siede, e su la
tomba, il nulla e questo canto finisci
col sentirlo anche al di sotto delle voci
delle magnifiche sorti e progressive della tecnica... E. ... che tenta di allontanare il più
possibile il dolore e la morte. L La tua sentenza che la tecnica è troppo
più debole della Necessità deve essere
rovesciata: oggi appare che la Necessità
è troppo più debole della tecnica : considera allora quanto essa (cioè il canto del tuo Corteo) sia debole, se
la tecnica stessa che è molto più forte
è poi del tutto impotente rispetto al
nulla che attende ogni cosa! E.
Ma, poi, tu sostieni che l’anima più profonda di quei due Cortei è la stessa (l’abbiamo accennato
all’inizio!). Mi sembra che tu voglia
dire che essi intonano entrambi l’Inno del nulla, e che il mio Corteo si illuda, dopo averlo
cantato di poter cantare anche quello a Zeus... I. Sì, ma ora è tempo che il nostro
colloquio si concluda... E. ... e
sostieni anche che tutti e due i Cortei e tutti e due gli Inni non riescano a ottenere il favore di
quel Cielo di cui parli tu e che sarebbe
abissalmente diverso sia da quello degli
amici sia da quello dei nemici di Dio... L ... sì, ma ora dobbiamo salutarci... E. ... e in quel Cielo appare la Necessità
autentica, non quella che si fa vincere
dalla tecnica, ma la Necessità che tutto
sia eterno - tutto: ogni gesto, ogni stato, ogni cosa, ogni vicenda, anche i due Cortei, e anche i due
Inni... I. ... questo Cielo non è una
dottrina che passi dalla testa di uno a
quella degli altri. E. ... risplende in ognuno di noi anche quando non ce
ne accorgiamo... I. Ti ringrazio di aver accennato a queste
cose.. E. ... arrivederci, allora! I. Arrivederci! 196
2. Parmenide 1 Interlocutore
(I): Anche tu, gli uomini, li chiami mortali.
Della loro mente dici che è plaktón. Dovrebbero riflettere a lungo su questa parola. Di solito la si
traduce con errante. Non è sbagliato -
purché si sappia che cosa spinge la loro
mente a errare. Parmenide (P):
Infatti. Sono spinti a errare perché credono
che 1’esistenza della nascita e della morte, cioè l’uscire dal nulla e il ritornarvi, sia verità. Lo dico
continuamente nel mio Poema. Ad esempio
nei versi 39-40 di quello che voi chiamate
frammento 8. I. Ma quando dici
che la mente dei mortali è plaktón rendi
ancora più profondo il senso dell’errare che viene espresso da questa parola. Infatti plaktón, che tu
riferisci alla mente dei mortali (fr.
6), prima ancora che errante, significa colpita. E chi è colpito patisce. Il colpo fa
soffrire. Spinge nel dolore e
nell’impotenza. Si è impotenti quando non si riesce a ottenere ciò che si vuole. Quando ciò accade si è
preda del dolore, e allora si vacilla,
si va di qua e di là, si va errando, appunto. La mente dei mortali è errante perché è colpita.
È colpita dalla convinzione non vera che
nascita e morte esistano. E, preda di
questa convinzione, patisce. P. Sì, con
la parola amechame ho indicato appunto questa
impotenza, angustia, mancanza, questo essere avvolti dal dolore quando non si segue - così lo chiamo -
il sentiero della Verità. Amechame
indica l’assenza di mechané, ossia della
macchina (nel senso originario di questa parola), ossia del mezzo che consente di liberarsi
dall’impotenza angosciata. La frase
completa dove parlo della mente errante
dei mortali dice infatti: Nei loro petti un’impotenza angosciata governa la mente colpita ed
errante. I. Dunque tu dici che credendo
nell’esistenza della nascita e della morte, nell’essere e non essere di ciò che
è, la mente dei mortali è colpita e va
errando nell’oscurità dell’angoscia... !
P. ... e che da questa Notte si esce andando verso la luce della Verità. I. Nietzsche ha scritto che tutto il
pensiero filosofico, prima di lui, è
stato al tuo seguito. Non sono d’accordo, anche se tu stai indubbiamente al centro della storia
dell’Occidente. Un celebre filosofo
della scienza ha sostenuto non molto tempo fa
che tu sei il padre di quella roccaforte della scienza moderna che è la fisica e che tutti i grandi fisici
del nostro tempo sono stati parmenidei.
Di nessun altro Platone ha detto quel che ha
detto di te: Venerando e terribile, l’espressione che Omero riferiva agli dèi. Sono d’accordo con
Platone. Ma tu sei un grande dio
bifronte... ne parleremo più avanti, se lo vorrai... P. Sentirò che cosa intendi dire. I. Ritorniamo, se ti va bene, a quanto
stavamo dicendo prima della mia
digressione. Quando parli dei mortali dalla
mente errante, mostri le configurazioni della loro angosciata e dolorosa impotenza ( amechame ): essi, tu
dici, sono ottusi, accecati, storditi. E
sostieni che è necessario cacciare via
dalla mente, con verità, tale impotenza, che li rende folli. P. Anch’io ho compiuto il gran viaggio verso
la Verità, accompagnato dalle Figlie del
Sole, e mi sono lasciato alle spalle le case
della Notte, le case di quell’impotenza.
I. Non è un caso che Eschilo dica lo stesso. Nell’Inno a Zeus, dell’ Agamennone, il coro canta: È
necessario cacciar via dalla mente, con
verità, il dolore che rende folli. P.
Sì, son proprio le sue parole... I. ...
e anche le tue; anche se tu, la mente, la chiami nóos e lui phrontìs; e il dolore che rende folli tu
lo chiami amechame, mentre lui lo chiama
àchthos. Ma quell’affermazione di
Eschilo, e la tua, indicano la nascita stessa della filosofia - 198
anzi, sono questa nascita. P.
Sì, la filosofia è il sentiero della Verità. Se lo si percorre si è capaci di cacciar via dalla mente
l’angosciata e dolorosa impotenza che la
rende folle. I. Anche prima della filosofia
ciò che i mortali vogliono sopra ogni
altra cosa è riuscire a vincere il dolore e la morte. Ed è, quello, il tempo del mito, cioè il
tempo in cui essi credono nell’esistenza
delle potenze demoniche e divine della
terra e del cielo; e credono di salvarsi facendosele alleate. Ma, appunto, credono, hanno opinioni, si illudono
e nutrono cieche speranze (anche queste
sono parole di Eschilo), la loro è una
salvezza sognata. P. Sì, per uscire
dalla salvezza sognata è necessaria la vera
salvezza, è necessario che la Verità venga incontro e si mostri all’uomo, e mostri in che consista la vera
Potenza. Ma l’uomo può scorgerla solo se
riesce a capire in che consista la Verità.
Questo è il culmine della sapienza.
I. Non deviamo dal nostro discorso se a questo punto ricordiamo che per Aristotele la filosofia
nasce dalla meraviglia. Con questa
parola si traduce solitamente il termine
greco thàuma. Ma è una traduzione che porta fuori strada. Basta tener presente, per
giustificare questa mia affermazione,
che per Aristotele anche l’uomo del mito
(l’amante del mito, philómythos) è in certo qual modo filosofo, perché anch’egli è preso dalle reti
di thàuma. Ora, è ingenuo pensare che,
nell’esistenza dominata dal mito, sia
l’esangue sentimento della meraviglia a esser capace di far rivolgere l’uomo e di farlo alleare, per
salvarsi, alle potenze che egli crede
supreme. L’uomo del mito è il primo a lottare
contro l’immane sorpresa del dolore e della morte. Thàuma è l’angosciato stupore, l’angosciata e dolorosa
impotenza. P. Sì, thàuma è Yamechame.
Infatti Aristotele afferma che
199 la filosofia conduce nello
stato contrario a quello da cui essa
procede. Il viaggio che descrivo all’inizio del mio Poema conduce anch’esso allo stato contrario: dalla
Notte delYamechame al Giorno della
Verità, dove il mio animo vuol pervenire
(fr. 1, v. 19). Lo stato contrario a thàuma, a
cui la filosofia conduce, è per Aristotele la felicità, per quel tanto che essa è concessa agli uomini, è la
loro salvezza. I. Ma, come tu avevi
incominciato a dire, il pensiero che
stabilisce il senso di ogni sapienza e di ogni agire - e dunque della salvezza e della felicità - è il senso
della Verità. Che importa una salvezza
se non è vera? E una virtù, una sapienza,
una potenza che non siano vere? È un amore per il divino se l’amore e il divino non hanno verità? A te e
a coloro che per primi con te
filosofarono spetta questa gloria ineguagliabile: aver capito che l’avventura più alta
dell’uomo consiste nel portare alla luce
il senso della Verità. P. I più pensano
ad altro. Lo dice anche Eraclito: I molti
vivono come avendo una loro propria saggezza (fr. 2), che è del tutto estranea alla Verità di tutte le
cose. I. Tutte le cose! Il Tutto! Tu e
quel coro di dèi che voi siete - voi, i
primi pensatori greci per la prima volta sulla
terra avete incominciato a parlare del Tutto. È un evento infinitamente più decisivo di quello in cui,
come si racconta, l’uomo si è rizzato
sulle gambe e ha incominciato a guardare
il cielo e le sue luci. Infinitamente più ampio e profondo è il Tutto rispetto al cielo stellato. P. Sì; e lo sguardo verso il Tutto è
necessariamente richiesto dal senso
della Verità. Infatti il cuore della Verità non
trema (è atremés). Trema il cuore delYamechame; trema il cuore di tutto ciò che può essere negato da
uomini o da dèi. Il cuore non tremante
della Verità non può esser negato né da
uomini né da dèi. Proprio per questo la Verità non può essere la verità
di una parte del Tutto: se lo fosse,
rimarrebbe esposta al pericolo che dalle
altre parti si faccia innanzi qualcosa capace di smentire la verità di quella parte - la
verità, cioè di dimensione particolare
dell’essere -, e il cuore della verità non
cesserebbe mai di tremare. P. Questo
è uno dei motivi per i quali affermo che il Tutto non è divisibile, ossia non ha parti. I. Certo, ma su questa tua tesi, vorrei,
ritornare tra poco. Ora vorrei
aggiungere che la Verità non può essere negata né da uomini né da dèi, non perché per ora essi
non siano capaci di negarla, ma domani o
in un futuro più o meno lontano
potrebbero diventarne capaci...
P. ... ma perché è impossibile che lo diventino. I. Solo che è questo impossibile a dover
render conto, ora, del proprio
significato. Da questa impossibilità dipende
infatti 1’esistenza di un cuore non tremante della Verità. P. Infatti, il Tutto è ciò che è, l’essente
(tò eón). E al centro del mio Poema sta
questa affermazione: È impossibile dire
o pensare che Tessente non sia. L’impossibile è appunto questo: che Tessente (ciò che è) non
sia. I. E qui tu ti sollevi sopra tutti
gli altri. D’altra parte, mi sembra che
tu voglia anche affermare che l’impossibile non
ha un significato per proprio conto, indipendentemente dal significato dell’espressione Tessente non è;
ma che impossibile significa proprio
questo: il non essere dell’essente. O
almeno mi sembra che nel tuo Poema le cose
vadano così. La tua voce si leva su tutte le altre per quel suo dire che è impossibile che Tessente (il
Tutto) non sia. Tu hai l’audacia di
affermare che ciò che è, è ingenerato, imperituro,
eterno dunque. E non è un’audacia avventata,
ma dà da pensare ai millenni e a tutte le sapienze che son 201
venute dopo di te - a tutte, dico, anche quando esse non se ne sono rese conto e ancora per molto
continueranno a non rendersene
conto. P. Ma non ci sono quelle due
affermazioni che tu hai lasciato in
sospeso e che ora dovresti chiarire? La prima, che io sarei un grande dio bifronte; e, la
seconda, la tua riserva - almeno così mi
è sembrata - a proposito della mia tesi che il
Tutto - Tessente - non è divisibile, cioè non ha parti. I. Andando avanti per questa strada - tu lo
sai bene - ci avviamo verso una regione
impervia e insieme grandiosa, che in
questo nostro dialogo dovremo accontentarci di guardare da lontano. Si tratta, ancora una volta, di
capire che cosa significa essente. P. Sì. Platone, nel Sofista, mostra con
potenza mirabile perché io escluda che
Tessente abbia parti. E affermo questa
sua potenza pur sapendo che egli ha inteso compiere un parricidio, come lui dice, nei confronti del
mio pensiero, cioè ha mostrato che
Tessente è necessariamente molteplice,
ossia ha parti. I. Diciamolo,
intanto, che cosa significa che Tessente non
ha parti. P. Significa che il
mondo, in apparenza ricchissimo di parti
nello spazio, nel tempo, nelle nostre anime e nei nostri affetti, non può essere Verità. Nel mondo, Tocchio non
vede, l’orecchio è stordito, la lingua
straparla. Le cose del mondo sono
soltanto opinioni dei mortali, a cui non
compete alcuna vera convinzione. Sono illusioni. Sono soltanto nomi. Dicevo all’inizio che i
mortali sono spinti a errare anche
perché credono che nascita e morte siano verità. Ma come è illusione la falsa ricchezza delle
molte cose, così è illusione la nascita
e la morte. I. E Platone mostra perché
tu neghi che Tessente abbia parti
202 (terra, cielo, piante,
animali): perché, se le avesse, ognuna
dovrebbe differire dall’essente. Infatti cielo (o casa o altro) non significa essente, cioè non è
essente, e il non essente non può
essere. Quindi le molte cose del mondo non
sono, e l’opinione che esse siano è illusoria. Se le cose del mondo fossero, il nulla sarebbe; ma, tu dici,
come è necessario che Tessente sia, così
è necessario che il nulla non sia. P. Questo
non potrà mai venir imposto, che le cose che
non sono siano. So che, secondo alcuni, io non avrei negato la molteplicità delle cose. Ma se fosse così
dovremmo dire che pensatori come
Platone, Aristotele, Hegel non abbiano
letteralmente capito quello che ho detto. I. Sono d’accordo con te. Io sostengo da
tempo che non è stata capita la potenza
del tuo pensiero. Ma altro è affermare
che tale potenza non è stata capita, altro è affermare che non si è capito quel che il tuo Poema ha
esplicitamente affermato. P. Tu hai
scritto anche più volte che il mio pensiero può
sembrare il punto in cui l’astro dell’Occidente viene a trovarsi più vicino all’astro dell’Oriente. Come
l’induismo e il buddhismo, dico anch’io
che il mondo è illusione - maya, dice
l’Oriente. Ma quale differenza! I.
Infatti: sono simili le tesi. L’Oriente possiede tesi analoghe a quelle che si leggono nel tuo
Poema, ma, separate dalla cura per la
Verità, separate dal perché le si afferma, esse
non sono filosofia, ma miti. P.
Prima di noi l’Oriente è philómythos, non philosóphos. Poi rileggerà i propri pensieri - il cui
splendore è indiscutibile - alla luce
dei nostri. I. D’altra parte, proprio
perché il tuo discorso sulTimpossibilità
che Tessente abbia parti è ben
comprensibile, non può evitare di confrontarsi con Platone, che mostra, all’opposto, la necessità che
Tessente sia molteplice; e lo mostra portando alla luce un principio che resterà alla base dell’intero sviluppo
dell’Occidente - dell’Occidente, dico,
non della sola cultura occidentale. P.
Lo so: Platone mostra che l’affermazione che Tessente è una molteplicità di essenti... I. ... l’affermazione che il mondo
esiste... P. ... non implica, come
invece io sostengo, che le cose che non
sono siano... I. ... cioè non implica
che il nulla sia. P. Di questo gran
passo di Platone parleremo un’altra
volta... I. D’accordo, qui
vorrei allora restare alTinterno del tuo
discorso, ed esprimerti quella che tu prima hai chiamato la mia riserva, invitandomi a non dimenticarla.
I mortali, tu dici, vivono nell’opinione
( dóxa ), che è illusoria: credono che
esista la molteplicità delle cose e la loro generazione e corruzione.
P. Nascita, dolore e morte, infatti, non possono esistere se non esistono le molte cose del mondo. Questa
illusione, che li fa errare lontani
dalla Verità, li colpisce e li fa sprofondare
nell’ amechanie. I. Ma tutto
questo significa che, per te, l’opinione illusoria e Vamechanie e, infine, i mortali stessi sono,
esistono, non sono un nulla. E allora,
non è soltanto Tessente a essere, ma anche
il mondo illusorio dei mortali - giacché, ripeto, quando dici che questo mondo non ha verità, nemmeno tu
intendi dire che, dunque, è
nulla... P. ... e allora tu mi stai
obbiettando che dunque, ciò che è,
Tessente, è costituito da almeno due parti: lui, Tessente, (che vorrebbe esser solo lui a essere) e il mondo
dell’illusione, che poi è a sua volta
costituito dalle molte cose illusorie che sono soltanto nomi - e, anche qui, tu
diresti che per me i molti nomi non sono
un nulla, ma a loro volta sono. Cosicché io
stesso verrei ad affermare quella molteplicità delle cose che invece dichiaro impossibile. E potresti
aggiungere che, oltre ai nomi che per i
mortali sono cose, ci sono le parole che nel
mio Poema indicano la Verità e si distinguono le une dalle altre e che io non sarei certo disposto a
considerare inesistenti per il fatto che
sono molte... ... Ma a questo punto
puoi andare avanti e dirmi perché,
prima, mi hai chiamato un grande dio bifronte - e, mi pare di aver capito, bifronte in un senso diverso da
quello per cui sarei bifronte già per il
fatto di affermare implicitamente quella
molteplicità delle cose che invece esplicitamente nego. I. Ma innanzitutto un dio. In questo nostro
dialogo non abbiamo il tempo per
mostrarlo. Ciò che più conta dovremo
quindi lasciarlo da parte - e ciò che più conta non è soltanto il senso del tuo essere un dio. Ebbene, ti dico
bifronte rispetto all’essenza autentica
del nichilismo, ossia dell’anima e del
fondamento dell’intera storia dell’Occidente e, ormai, dell’intero pianeta. P. Se questo è il tema, allora so quel che
sostieni. Tu dici che io sono colui che
indica il Sentiero del Giorno e,
contemporaneamente, spinge verso il Sentiero della Notte: colui che indica che cosa sia veramente il
nichilismo e quale sia il senso
autentico della sua negazione, ma che, insieme,
apre la strada che conduce nel baratro del nichilismo. I. L’essenza del nichilismo è infatti
affermare che ciò che è non sia. Non si
pensa mai che ogni annientamento degli
uomini e ogni devastazione della terra sono possibili perché, innanzitutto, si crede che ciò che è possa
non essere. L’errore estremo è insieme
l’estremo orrore. Ma poi anche tu - anche
tu! -, anche la tua mente è colpita come quella dei mortali dalla doppia
testa, dikranoi, come tu dici: anche tu affermi
che ciò che è non è, ossia che le molte cose del mondo sono nulla - esse che invece non sono un nulla
nemmeno per te, nella misura in cui sono
il contenuto dell’opinione illusoria.
P. E questo lo dici perché Platone ha mostrato che se una qualsiasi cosa del mondo, ad esempio la luna,
non ha lo stesso significato di ciò che
è, o di essente - se dunque la luna non
è Tessente -, d’altra parte la luna non ha
nemmeno lo stesso significato di nulla, luna non significa nulla, e pertanto non è un nulla... I. ... con la conseguenza che, affermando
che la luna è, non si è costretti ad
affermare; come invece tu sostieni, che le
cose che non sono siano, ossia che il nulla è; ed è dunque necessario affermare che le molte cose
sono. P. Ma so anche che, per te,
Platone, salvando il mondo da me, si
porta dietro, credendo di avermi ucciso, il veleno col quale io uccido (o almeno penso di uccidere)
il mondo. Tu dici appunto che, col
parricidio compiuto nei miei riguardi,
Platone è il salvatore apparente del mondo, perché in realtà ne è il cattivo pastore, e che è alTinterno
di questa cattiva cura del gregge che
poi si farà innanzi, lungo la storia dell’Occidente,
ogni buon pastore. I. Ma quando parlo
del nichilismo che anima quella storia,
non intendo dire che gli uomini avrebbero potuto pensare meglio di come hanno pensato - e qui mi
riferisco innanzitutto a te: gli uomini
hanno pensato e agito come era necessità
che pensassero e agissero; e anche il cielo e la terra procedono nel modo in cui è necessario che
procedano. In proposito non dico altro.
Vorrei invece ritornare un momento su
quel discorso che facevo a proposito della luna, cioè del suo non esser né Tessente né un
nulla. Questo non significa che tra ciò
che è e il nulla vi sia qualcosa di
206 intermedio (la
molteplicità delle cose, appunto). Significa
invece che quel ciò che è, separato dalla molteplicità delle cose che sono, è esso un nulla. Certo, luna
non significa essente, ciò che è; ma
Tessente non è il non composto, il semplice,
ma è ciò che ognuna delle molte cose è, ossia è ciò che è presente in ogni cosa. P. Vedo dove il tuo discorso sta andando. Tu
dici che, essente, è ogni cosa. Quindi
Tessente è, propriamente, gli essenti.
Ma, insieme, tieni fermo che è impossibile che
Tessente non sia - e appunto per l’accecante splendore di questo pensiero mi chiami un dio; ma, tu
aggiungi, Tessente è ogni cosa e quindi
di ogni cosa è necessario affermare che è
impossibile che non sia, è cioè necessario affermare che è eterna.
I. Hai detto bene anche questo:
che quello splendore è accecante. Ha
accecato tutti, tutte le menti più alte
dell’umanità. Era necessario che ciò avvenisse. Se Terrore non si dispiegasse totalmente e in tutta la sua
forza e in tutte le sue luci, la Verità
non potrebbe esistere; così come il Giorno non
potrebbe esistere senza la Notte. Occorre quindi che il linguaggio parli e del Giorno e della Notte,
ma che dica sì al Giorno, non alla
Notte. P. Della Notte parlano i
mortali, la cui mente, colpita dal
dolore e dalla morte, è avvolta àd\Yamechame. Parlano della Notte credendo che sia il Giorno. I. Eppure, ai mortali dalla doppia testa,
per i quali Tessente non è ed è
necessario che non sia, il linguaggio della
Notte gliel’hai messo in bocca proprio tu! P. Cioè?
I. Voglio dire che, per quanto ne sappiamo, quei mortali sei stato tu a evocarli per la prima volta. P. Perché?
I. Perché, per quanto ne sappiamo, tu sei stato il primo a pensare e a parlare dell’essente come di ciò
che è assolutamente opposto al nulla.
L’Oriente ignora la radicalità di questa
opposizione. E se così stanno le cose, prima di te non potevano esserci quei supermortali per i
quali Tessente non è ed è necessario che
non sia. Esistevano i comuni mortali del
mito, che ancora non potevano sapere che la
morte è annientamento e la nascita è uscire dal niente. P. E quindi tu affermi che io non solo ho
evocato per primo la Verità
dell’essente, ma per primo ho anche evocato i suoi nemici, quelli che tu hai chiamato i
supermortali. I. Che sono per davvero
tali, perché, a partire dall’atmosfera
aperta dalle tue parole, essi hanno incominciato
a credere di morire dinanzi al nulla che li
attende, sì che la loro morte ha incominciato a essere infinitamente più angosciante di quella del
mito. Proprio per questo tu hai guardato
alla Verità come sommo rimedio contro
l’angoscia estrema. P. ... Abbiamo
parlato di cose grandi, anche se abbiamo
dovuto soltanto sfiorarle. Di molte altre, e grandi, che a gran voce chiedevano di essere dette, abbiamo
dovuto tacere. Ora dobbiamo salutarci.
A presto! Dal testo richiestomi da Pressburger per le Interviste impossibili,
tenutesi nel 2007 al Teatro Stabile di
Trieste. Dialogo richiestomi dal Corriere della Sera. Di tutti i miei possibili
critici, (dunque, oltre che di quelli
passati e presenti anche, di quelli futuri) va detto che tutti, con maggiore o minore potenza sviluppano il
Contenuto a cui si rivolgono i miei
scritti. Questa affermazione non suona
paradossale se si tiene presente quanto si è detto nel capitolo 6, della sezione prima. Non suona paradossale
nemmeno se si aggiunge, e lo si deve,
che tutte le possibili critiche al
Contenuto dei miei scritti sono, tutte, sviluppi, più o meno rilevanti, di quel Contenuto (una parola,
questa, che va con la maiuscola, miei
scritti andando invece con le minuscole).
Quel Contenuto è infatti la verità, il destino della verità. Immodesto non sono io: immodesta è la verità
che ne ha il diritto perché non è cosa
modesta e attira a sé il linguaggio
imponendogli di testimoniarla. Ritorniamo brevemente su questi temi.
La verità è sola in quanto nega l’errore. Senza errore non c’è verità. L’errore con-ferma, la verità la
rende ferma, nel senso che essa ha il cuore
che non trema - per usare un’espressione
di Parmenide - solo in quanto mostra che essa
è e significa errore e la necessità di negarlo. Essa vive, eterna (e l’uomo ne è l’eterno apparire),
solo in quanto l’errore vive; ed è tanto
più concreta quanto più l’errore è
concreto e fiorisce ed è robusto, coerente, razionale, suggestivo, cioè quanto più sviluppa la
ricchezza che gli compete. La verità ha cioè bisogno degli scavatori
che portino alla luce questa ricchezza
con la convinzione di portare alla luce la verità (una convinzione che è
presente anche quando scrivono libri e
libri per mostrare che la verità non esiste). È, il loro, un lavoro che invece chi scava per
portare alla luce la verità non riesce a
fare così bene, o non gli dedica il tempo e
la convinzione dovuti. In questo senso va detto che tutti i critici e tutte le possibili critiche al
Contenuto a cui si rivolgono i miei
scritti, sono, di questi scritti, sviluppi, e
spesso originali. Anche tutte le critiche che possono essere mosse a proposito del discorso che qui si è
appena fatto intorno al rapporto tra
verità e errore, agli scavatori dell’errore e della verità, e alla loro
indispensabilità. La magnificenza
dell’Occidente, che ormai conquista la terra, è il tempo dell’errore, della sua fioritura e del
suo trionfo. Ma la verità non abbandona
a sé stesso l’errore: esso cresce secondo
le leggi della verità. L’errore
cresce secondo le leggi della verità anche perché ogni obbiezione che si possa fare a quel
Contenuto (e l’ignorarlo è la forma
preminente della negazione di esso) è
convinta di affermare qualcosa che differisce da tale Contenuto. Non solo, ma crede anche che il
fatto di differire non sia cosa di poco
conto. E infatti è di tantissimo conto. Il
Contenuto di cui si sta parlando è infatti la manifestazione del senso autentico e della necessità del
differire dei differenti. È il punto
infinitamente più stabile di quello che ad Archimede sarebbe bastato per sollevare la terra. Ben
vengano dunque, daccapo, le obbiezioni,
purché intendano essere per davvero
obbiezioni; ossia intendano differire da ciò contro cui obbiettano e tengano quindi in gran conto la
differenza dei differenti e
l’impossibilità di negarla. E, una volta che avranno fatto tutto questo, capiranno di tenere in
gran conto proprio quel Contenuto contro
il quale esse vorrebbero andare. Gli
scavatori dell’errore sono gli erranti - e come individui tutti sono erranti, anche quelli che scavano
la verità. Nel tempo dell’errore - un tempo che coincide con il tempo deH’uomo, cioè con l’uomo quale è inteso
all’interno della terra isolata dal
destino della verità -, l’errore crede di
conoscere ciò che ai propri occhi appare come errore; e si crede capace di distinguere questo, che gli
appare come l’errore, dall’errante. Ma
là dove domina l’errore che è tale agli
occhi della verità, ed esso dice di voler combattere e distruggere ciò che ai suoi occhi è errore,
ma non l’errante, là è inevitabile che
ci si convinca che il fiorire degli erranti
finisce con l’essere il fiorire dell’errore ai danni di ciò che è ritenuto verità, e si finisca col condannare,
e punire e distruggere anche gli
erranti. Questa confusione tra l’errore e
l’errante attraversa tutta la storia del mortale. Eppure anch’essa contribuisce alla costituzione
della concretezza dell’errore. Tutta la
storia della sofferenza umana è richiesta
da tale concretezza. Il destino della verità è destinato a oltrepassarla (cfr. E.S., La Gloria, 2001,
cit., Oltrepassare, Adelphi 2007, La
morte e la terra, 2011, cit.). Il relativismo, si dice, nega che l’uomo riesca
a conoscere una verità assoluta e
irrefutabile. Se ci si ferma a questa
definizione, tutta la cultura del nostro tempo, innanzitutto quella filosofica, è relativista. Ma allora
va anche detto che quella negazione
della verità era già sostenuta 2500 anni fa, e
in grande stile, dalla sofistica. Dopo tutto questo tempo saremmo ritornati al punto di partenza per
quanto grande fosse il suo stile? No;
perché a quella definizione non ci si può
fermare. Anche perché già il pensiero greco sapeva che chi afferma che non esiste alcuna verità assoluta
afferma egli stesso che nemmeno questa
sua affermazione è una verità assoluta.
(Le cose non sono però così pacifiche, perché un negatore della verità potrebbe replicare che
egli intende proprio negare e insieme
affermare la verità, perché no?, visto
che se gli si obbiettasse che in questo modo egli nega il principio di non contraddizione egli potrebbe
daccapo rispondere che quel principio,
così semplicemente affermato, è un
dogma; e bisognerebbe allora darsi da fare per mostrargli che non lo è). Il relativismo degli ultimi due secoli è
tutt’altra cosa. Nega tutto
l’antirelativismo che c’è stato nel frattempo. Qualcuno crede che il relativismo possa appoggiarsi
anche a Pascal, per il quale la verità
assoluta non potrà mai esser trovata perché
tutto muta col tempo. Ma Pascal non giunge a dire che, proprio perché tutto muta col tempo, non può
esistere nemmeno un Dio eterno e
assoluto. Lo dirà Nietzsche (per il
quale Pascal era un genio rovinato dal cristianesimo). Pascal non giunge a tanto, perché per lui quel tutto
che muta è, propriamente, il mondo.
Nietzsche arriva a tanto perché,
fondandosi sulla persuasione che nel mondo tutto muta, mostra Vimpossibilità dell’esistenza di un
qualsiasi Essere eterno e assoluto, al di là (o all’interno) del mondo. Ma tale persuasione non è solo di Pascal e
di Nietzsche: è di tutta la cultura e la
civiltà dell’Occidente - e, ormai, del
pianeta. Sin dall’inizio l’avanguardia dell’Occidente - la filosofia greca - è persuasa che il mutamento
del mondo sia una verità incontrovertibile
(e che il mutamento sia un passare delle
cose dal non essere all’essere e viceversa, cioè abbia un carattere essenzialmente più radicale del
modo in cui esso era stato precedentemente
inteso dall’uomo). O gli odierni
relativisti ritengono forse, contro i Pascal sui quali essi si appoggiano, che il mutamento del mondo sia il
contenuto di una conoscenza fallibile,
congetturale (per usare una nota
espressione di Popper)? E la ricerca della verità, che i relativisti preferiscono al suo possesso,
tale ricerca, dico, non è forse una
forma rilevante di mutamento del mondo? E
l’esistenza di tale ricerca è forse, per i relativisti, il contenuto di una conoscenza fallibile e congetturale?
No di certo. (O vedano loro che cosa
intendono sostenere.) Solo che è
Nietzsche, insieme a pochi altri, a saper mostrare perché, dal fatto che nel mondo tutto muta, è
necessario concludere che non esiste
alcuna verità assoluta e irrefutabile
oltre a quella che consiste nell’affermazione di quel fatto, e che non esiste alcun Essere eterno e assoluto
oltre agli esseri che mutano nel tempo
(cfr. sezione prima, cap. V). Nietzsche
e pochi altri - abitando quello che chiamo il sottosuolo essenziale del pensiero del nostro tempo -
sanno fare cioè quel che i relativisti
d’oggigiorno non sanno fare; e non lo
sanno anche perché, per lo più e più o meno consapevolmente, evitano di riconoscere che
anche per loro è una verità irrefutabile
e assoluta che nel mondo tutte le cose
mutano col tempo.
Antirelativisti sono invece coloro che lungo la tradizione dell’Occidente
condividono sì la persuasione che il
mutamento delle cose del mondo è una verità irrefutabile; ma, a differenza dei relativisti, ritengono che
verità irrefutabile sia anche
l’esistenza di un Essere eterno e assoluto al di là o aH’interno del mondo. Sono gli amici della metafisica.
Nel sottosuolo essenziale del nostro
tempo appare appunto l’impossibilità
della metafisica. D’altra parte, ai relativisti che stanno fuori del sottosuolo, alla superficie,
gli antirelativisti e i metafisici
obbiettano quel che già abbiamo sentito, cioè che se tutta la nostra conoscenza è fallibile e
congetturale, allora lo è anche
Taffermazione che tutta la nostra conoscenza è fallibile e congetturale. Ed è quindi inevitabile che i
relativisti di superficie non abbiano
argomenti incontrovertibili contro la
metafisica e la verità assoluta e incontrovertibile. Per trarsi d’impaccio, i relativisti più
spregiudicati di superficie hanno finito
col riconoscere che anche il loro
relativismo è fallibile e congetturale. (Sembrerebbe il culmine dell’atteggiamento critico - ma allora non si
vede perché si dovrebbe dar loro
ascolto.) Il filosofo liberale americano
Richard Rorty lo ha riconosciuto. In Italia lo aveva riconosciuto, e anche molto meglio, il
filosofo Ugo Spirito, che però aveva il
difetto di non essere americano e di essere
fascista, come il suo maestro Giovanni Gentile - che invece, insieme a Nietzsche, è uno dei pochi
abitatori di quel sottosuolo e ha quindi
molto da insegnare a tutti i Popper.
Comunque, se il relativista riconosce che tutto quel ch’egli sostiene è esso stesso una conoscenza
fallibile e congetturale, pronta ad abbandonare
i propri valori teorici e morali se
altri si rivelano più credibili, lo ascolto con interesse (condividendo anche i suoi buoni
sentimenti). Ma aggiungo che anche
questa autocritica del relativista è
apparente. Domando: chi si dichiara pronto ad abbandonare i propri valori se altri si rivelano più
credibili è uno che dubita di esser così pronto? È uno che dice: Forse son
pronto ad abbandonarli se ne vedo di più
credibili?. È uno che dice: Forse son
pronto, perché non escludo che anche se ne
vedessi di più credibili non abbandonerei mai i miei?. Se si son capite le domande, la risposta non può
che essere negativa. Anche questo
relativista, cioè, non mette in dubbio,
è sicuro del fatto suo: più o meno consapevolmente, considera come irrefutabile, indiscutibile e dunque
assolutamente vero il proprio trovarsi
nello stato in cui egli è disposto ad
abbandonare le proprie convinzioni se ne vede di migliori. Infatti l’uomo non apre bocca se dubita di
quel che dice. E se dice: Dubito di quel
che dico, egli non dubita di dubitare.
(Che è cosa del tutto diversa dal cogito cartesiano, perché se l’uomo apre bocca solo se non dubita, la
maggior parte delle volte che l’apre
dice però cose false; mentre le considerazioni
di Cartesio sul cogito intendono pervenire alla suprema verità incontrovertibile.) A Popper che afferma il carattere fallibile
e congetturale di tutta la nostra
conoscenza va dunque replicato che, d’altra
parte, l’uomo - dunque anche Popper e tutti i relativisti di questo mondo - è sempre convinto, più o
meno consapevolmente, di conoscere
verità assolute e incontrovertibili
(anche se sbaglia quasi sempre). Come ne
sono convinti anche quei logici che secondo certi relativisti avrebbero mostrato (e anzi dimostrato !) che
non ci è possibile dimostrare vera,
assolutamente vera, nessuna teoria. Come
ne sono convinti anche i relativisti alla Popper e alla Hans Kelsen, che sostengono
un’implicazione necessaria, cioè
assolutamente vera, tra relativismo, libertà,
democrazia. E allora? Allora,
nella folla sterminata di coloro che - senza saperlo e anzi spesso negandolo - sono convinti di
conoscere verità assolute, si trovano
anche gli uomini dell’Occidente, per i quali la verità assoluta e
incontrovertibile dominante è che le
cose del mondo mutano col tempo; e son giunti a mostrare (nel sottosuolo del nostro tempo) la
necessità che tutte le cose mutino,
nascano e muoiano, quindi a mostrare che non esiste alcuna verità immutabile se non quella che
afferma il divenire e il travolgimento
di ogni cosa e di ogni verità. Restano
travolte anche la politica e la morale che, lungo la tradizione antirelativistica dell’Occidente,
consistevano nell’adeguare la vita dello
Stato e dei singoli individui alla
verità immutabile ed eterna. Quelle erano la politica e la morale convinte di parlare con verità. Se
oggi qualcuno auspica una politica
capace di parlare con verità, deve tener
presente che quella della verità è, si è intravisto, una faccenda parecchio complessa. Per questo in un mio
articolo sul Corriere avevo domandato a
Ernesto Galli della Loggia, che cosa
intendesse con la parola verità, avendo egli appunto auspicato una politica capace di parlare con
verità. Glielo avevo chiesto anche
perché, quando oggi i cattolici e la Chiesa
ad esempio usano questa espressione, intendono un politica e una morale che, contro il relativismo, siano
legate alla verità incontrovertibile e
assoluta della metafisica tradizionale
(aperta alla rivelazione di Gesù). E dunque intendono una democrazia che non sia, come invece lo è la
democrazia procedurale, una libertà
senza verità. La risposta di Galli della
Loggia è stata fuori luogo, perché mi ha detto - c’era ancora il governo di centrodestra - che una
politica che parla con verità è quella
che non nasconde ma dice in che stato
miserando si trova il nostro Paese. Un problema che certo ci tocca da vicino, ma che (a parte il fatto che
non riguarda la verità, ma la sincerità,
giacché se non c’è verità senza
sincerità, si possono invece dire con sincerità cose false) è pur sempre subordinato alla gran questione del
rapporto tra relativismo e
antirelativismo - visto che l’accentuata corruzione della politica e della
morale è una conseguenza dello stato di
transizione in cui il mondo si trova: tra la
tradizione, dove anche i corrotti si riconoscevano pur sempre sottoposti al giudizio della verità, e il
tempo futuro: il tempo in cui - con
l’inevitabile tramonto di ogni verità metafisica e di ogni eterno Signore del mondo - quella
forma suprema dell’agire umano che è la
tecnica viene autorizzata, a prendere in
mano, essa, le sorti del mondo. La tecnica che sa ascoltare il sottosuolo, dico, non la vera buona politica.
(Un processo, questo, in cui consiste il
senso autentico dell’antipohtica.) Con la lettera del pontefice a Eugenio
Scalfari il dialogo tra credenti e non
credenti è giunto a una svolta di grande
importanza e interesse. Che va accuratamente tutelata. Anche da parte di chi è soltanto uno spettatore -
che però, come me, sia interessato al
problema. Il pontefice ha un modo
ammirevole di mettersi in relazione al prossimo. Ammirevole, anche, il desiderio dei due interlocutori, di
confrontarsi con ciò in cui non credono.
Proprio per fimportanza di questa
inedita forma di dialogo è però altrettanto importante che non sorgano equivoci. Mi limito a due
esempi. Il pontefice scrive a Scalfari:
Mi chiede se il pensiero secondo il
quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di
verità relative e soggettive, sia un
errore o un peccato. Il pontefice risponde:
Io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato,
ciò che è privo di ogni relazione. Ora,
la verità, secondo la fede cristiana, è
l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Ma aggiunge: Ciò non significa che la verità sia variabile e
soggettiva, tutt’altro. Si riferisce
anche alla verità della fede. Ora, Scalfari aveva sì parlato di verità assoluta, ma intendendo non
ciò che è slegato, ciò che è privo di
relazioni, ma proprio la verità che non
è variabile e soggettiva. E il papa gli risponde che no, non è variabile e soggettiva: tutt’altro. In
questo modo, la domanda è elusa, e viene
ribadita la posizione ufficiale della
Chiesa (Cfr. la recente enciclica Lumen fidei, Editrica La Scuola 2013). A sua volta Scalfari, nella recente
intervista a Otto e mezzo, ha lodato
l’innovazione di papa Francesco rispetto alla
costante critica rivolta al relativismo da papa Ratzinger, e fa addirittura passare per relativista papa
Francesco (appunto per il suo rifiuto del concetto di verità assoluta). Ma lo
loda per qualcosa che papa Francesco si
è ben guardato dal sostenere. Chiedeva
Scalfari: la verità è variabile e soggettiva?
No, risponde il pontefice: Tutf altro!
Una seconda possibilità di equivoco, tra i due interlocutori, vorrei segnalare, e ben più importante. Dopo
aver scritto che la specificità di Gesù è
per la comunicazione, non per
l’esclusione, il pontefice aggiunge che da ciò consegue anche - e non è una piccola cosa - quella
distinzione tra la sfera religiosa e la
sfera politica che è sancita nel “dare a Dio
quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare”, affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente,
si è costruita la storia dell’Occidente.
Non mi consta che finora Scalfari abbia
chiesto chiarimenti in proposito. Mi permetto di dirgli che invece, proprio lui, dovrebbe chiederli.
In questo caso sarebbe il silenzio a
favorire l’equivoco. Da quasi
cinquantanni (che rispetto alla storia
dell’Occidente sono certamente nulla) vado mostrando che quel detto evangelico, lungi dal sancire la distinzione
tra la sfera religiosa e la sfera
politica, nega tale distinzione. Non ho
mai ricevuto una risposta adeguata - e mi sembra grave mi sembra di averne parlato anche con
Scalfari in quello che forse è stato il
nostro unico dibattito pubblico, a Roma. Ne ho
parlato anche sulle colonne del “Corriere della Sera”. Se qui debbo pur giustificare in qualche modo la mia
tesi, che indubbiamente suona troppo
perentoria, come d’altra parte non
vergognarmi di doverlo fare ancora una volta?
Domandiamo a Gesù se a Cesare - cioè allo Stato - si possa dare qualcosa che sia contro Dio.
Risponderebbe di noi Assolutamente no!
Ciò significa che le leggi dello Stato non
potranno essere contro le leggi di Dio, del Dio di Gesù, della cui verità oggi la Chiesa si ritiene
depositaria. Domandiamogli ancora se allo Stato si possono dare leggi neutrali, che cioè consentano ai cittadini
sia di agire contro Dio, sia di non
essergli contrari. Ancora una volta Gesù
risponderebbe di no, e altrettanto risolutamente: si renderebbe lo Stato libero da Dio; si
lascerebbe ai cittadini la libertà di
vivere contro Dio. Con la prima risposta lo Stato sarebbe costretto a essere uno Stato
cristiano (anzi cattolico); con la
seconda lo si lascerebbe libero di non esserlo. Ma anche questa libertà è un modo di essere contro
Dio. Quindi per Gesù le leggi dello
Stato debbono essere cristiane (e
cattoliche). Ma esistono leggi
dello Stato la violazione delle quali non
implichi una sanzione statale, terrena? Assolutamente no. Quindi - come spesso si dice, ma senza
accorgersi della connessione tra questo
dire e il detto di Gesù - è necessario
che il peccato (l’agire contro Dio) sia anche delitto (l’agire contro lo Stato), una colpa che è punita in
terra prima che nell’al di là. Ma in
questo modo la distinzione tra la sfera
religiosa e la sfera politica, che, anche secondo questo pontefice, dovrebbe essere conseguenza di
quel detto, è invece radicalmente negata
da questo detto. Certo, Yintenzione di
Gesù, si può ritenere, è di separare quelle due sfere; ma il contenuto oggettivo di quello che egli
afferma è inevitabilmente la riduzione
della sfera politica a quella religiosa.
O anche: Gesù vuole conciliare l’inconciliabile, vuol conciliare la distinzione tra politica e
religione con la loro reciproca
opposizione (giacché anche la politica che non crede in Dio non vuole che a Dio sia dato quel
che è contro Cesare). Con quanto ho osservato non ho affatto
inteso sostenere che, quindi, abbia
senz’altro ragione il pensiero laico, che vuol
tener separate quelle due sfere. Ho inteso mostrare che il comando di Gesù non conduce là dove
comunemente si crede. Nel dialogo tra
Scalfari e il pontefice i problemi che ho
indicato non sono gli unici, i più importanti stanno più in fondo. Qui si voleva dare soltanto un
contributo alla tutela della chiarezza
del dialogo. Davanti alla filosofia molti scienziati alzano le spalle.
Dato il modo in cui essa, per lo più, è
loro presente, hanno ragione.
Soprattutto se non sa essere altro che una riflessione sui risultati della scienza, o ha la pretesa di
insegnarle che cosa debba fare. Ma i
concetti fondamentali della scienza sono
inevitabilmente filosofici: in un senso ben più radicale di quello a cui si allude quando ad esempio, per
la profondità delle categorie filosofiche
coinvolte, si paragona il dibattito tra
Einstein e Niels Bohr a quello tra Leibniz e Newton (M. Jammer, The Philosophy of Quantum Mechanics,
Wiley). E se il fisico Léonard Susskind,
nel suo libro La guerra dei buchi neri
(2008, Adelphi 2009), scrive di non essere molto interessato a quel che dicono i filosofi su
come funziona la scienza, tuttavia la
sua guerra, combattuta contro il collega
Stephen Hawking, riguarda il tema a cui la filosofìa si è rivolta sin dagli inizi e che sta al fondamento di
tutti gli altri. Per Hawking i buchi
neri presenti nell’universo sono voragini
in cui vanno definitivamente distrutte le cose che vi precipitano. Susskind vede in questa tesi la
violazione del primo principio della
termodinamica, per il quale la quantità
totale di energia dell’universo rimane costante nella trasformazione delle sue forme. Ora la costanza
dell’energia è il suo continuare a essere;
e l’incostanza delle sue forme è il loro
venire a essere e il loro ridiventare non essere, nulla. Certo, il fisico si disinteressa del
senso dell’essere e del nulla, ma il
primo principio della termodinamica non
può disinteressarsene: lo ha dentro di sé, ne è animato, ed è aH’interno di quest’anima che cresce la
scienza anche quando i suoi cultori
alzano le spalle davanti alla filosofia, che a
quest’anima si rivolge sin dall’inizio.
Si ritiene tuttora che la teoria generale della relatività d’Einstein e
la fisica quantistica di Heisenberg siano
incompatibili. Ma Einstein e Heisenberg si contrappongono mantenendosi entrambi all’interno del senso
greco¬ occidentale dell’essere e del nulla:
per il determinismo di Einstein le forme
di energia escono dal proprio esser nulla
e vi ritornano seguendo un percorso inevitabile (determinato) e quindi prevedibile; per
Heisenberg tale percorso non è né
inevitabile né prevedibile; ma anche per lui
le forme di energia escono e rientrano nel proprio nulla. Non è un caso che egli abbia ricondotto il
concetto di onde di probabilità al
concetto aristotelico di dynamis, potenza,
cioè alla possibilità reale (non alla necessità) che uno stato del mondo sia seguito da un cert’altro stato).
Freud ebbe a scrivere, di Einstein, col
quale ebbe peraltro rapporti cordiali: Capisce
di psicologia quanto io capisco di fisica. Eppure si capiscono benissimo sul fondamento ultimo,
cioè sulla caducità delle cose del
mondo, che oggi è data comunque per
scontata. La filosofìa sostiene
spesso la tesi del carattere
controvertibile della scienza. La discussione è tuttora aperta. Anche al tema deH’incontrovertibihtà la
filosofia si rivolge da sempre. Per il
grande matematico David Hilbert il rigore
nelle dimostrazioni, condizione oggigiorno d’una importanza proverbiale in matematica, corrisponde a un
bisogno filosofico generale della nostra
ragione. E II più grande spettacolo
della terra di Richard Dawkins (Mondadori 2010), eminente biologo evolutivo inglese,
incomincia così: Le prove a favore
dell’evoluzione aumentano di giorno in giorno
e non sono mai state più solide. Esse dimostrano come la “teoria” dell’evoluzione sia un fatto
scientifico e in quanto tale
incontrovertibile. Ma quel che rimane oscillante e alla fine oscuro in queste pagine è proprio il concetto
di prova, di fatto scientifico, di incontrovertibilità,
cioè la loro filosofia. Sono un buon paradigma di quanto tende ad accadere in molti scritti scientifici del
nostro tempo. D’altra parte,
l’evoluzione è un processo in cui le specie escono dal proprio non essere e vi ritornano così come
accade per le forme incostanti della
costante quantità totale dell’energia. L’evoluzione
è un fatto, oltre ogni ragionevole dubbio,
è la pura verità confermata da una valanga di prove, con la certezza assoluta che non ci sarà smentita.
Come la certezza, intende Dawkins, che
il sole è molto più grande della terra e
che l’antica Roma è esistita; come la teoria eliocentrica e quella della deriva dei continenti. Si può
certo convenire. Ma il punto sul quale
va richiamata l’attenzione è il senso
dell’inoppugnabilità e incontrovertibilità di tutte le teorie di questo tipo. Che in loro favore esista una
valanga di prove nessuno lo nega. La
questione è se tali prove e la loro
abbondanza consentano di dire che le teorie così provate godano della certezza assoluta che di esse non
ci sarà smentita. A meno che Dawkins - e
allora il discorso potrebbe finire qui -
non si proponga altro che allineare la
teoria dell’evoluzione alle altre teorie dello stesso tipo, e per dare risalto al suo discorso si serva di un
linguaggio enfatico e improprio, che
però, tirate le somme, risulta inoffensivo.
(D’altra parte egli sottoscrive il vecchio principio che a rigor di logica solo i matematici sono in grado di
dimostrare davvero qualcosa. Parole che
però debbono fare i conti con
quest’altra sua dichiarazione: Nel resto del libro dimostrerò che l’evoluzione è un fatto inconfutabile.
Infatti se solo i matematici sono in
grado di dimostrare davvero qualcosa,
allora il suo libro non matematico non dimostra davvero che l’evoluzione sia un fatto inconfutabile.
Capisco che queste possano sembrare
all’illustre collega considerazioni da pedanti
e da sofisti, però è diffìcile sostenere che non siano a rigor di logica.) Ma che cosa intende
Dawkins affermando che il suo libro dimostra
che l’evoluzione darwiniana è un fatto? Egli sa
bene che essa, come la deriva dei continenti, non può essere oggetto di osservazione diretta, la quale,
come egli sottolinea, è inaffidabile. La
sua dimostrazione vuol essere quindi un’inferenza
che dalle tracce lasciate dal processo
evolutivo risale all’esistenza di tale processo, al suo essere, appunto, un fatto. Egli sa bene che anche l’inferenza
si deve basare, in ultima analisi,
sull’osservazione. Sostiene però che
l’osservazione diretta di un evento come un
omicidio è meno affidabile dell’osservazione indiretta delle conseguenze di esso: È più facile che incorra
in un errore di identificazione un
testimone oculare piuttosto che un
sistema di inferenza indiretta come il test del Dna . Sì, posto che sia più facile, non è però impossibile
che in certi casi l’osservazione diretta
sia più affidabile. Anche per Dawkins.
Esser più facile non significa essere incontrovertibile, ossia è un’ipotesi (plausibile, se si vuole).
Sennonché da questa ipotesi dipende, nel
suo libro, la validità dell’inferenza con
cui egli intende dimostrare che l’evoluzione è un fatto incontrovertibile. Ciò significa che anche
questa inferenza, e pertanto l’esistenza
dell’evoluzione, sono soltanto ipotesi.
(Egli rileva inoltre che i cambiamenti evolutivi sono troppo lenti per poter essere osservati da un
individuo nell’arco della sua vita. Ma
chi si propone di dimostrare che
l’evoluzione è un fatto non può presupporre l’esistenza di tale fatto e delle sue caratteristiche. E invece
Dawkins fa proprio questo: invece di
dimostrare che l’evoluzione è un processo
lentissimo, afferma arbitrariamente che essa non può essere direttamente osservabile perché è un processo
lentissimo.) Deludente anche il modo in
cui egli si sbarazza di una nota ipotesi
di Bertrand Russell, la quale, sino a quando non si mostri che nemmeno come ipotesi è
accettabile, lascia aperta la possibilità che l’evoluzione, almeno come viene
intesa dai biologi, sia qualcosa di
inesistente. Dice dunque Russell: Può
anche darsi che abbiamo cominciato tutti a esistere cinque minuti fa, completi di ricordi
preconfezionati, calzini bucati e
capelli incolti. A parte lo stile di molti filosofi anglosassoni, che preferiscono parlare di calzini bucati
piuttosto che della Passione secondo san
Matteo di Bach, e, questo, per far sapere
che l’esistenza non è da prendere troppo sul serio - a parte cioè il senso che all’esistenza viene
conferito dall’intero pensiero occidentale,
che la ritiene caduca, effimera, storica,
temporale, provvisoria abitatrice dell’essere e preda del nulla (dunque degna di esser cominciata cinque
minuti fa) anche quando e appunto perché
la si pensa nelle mani di Dio o della
poesia o di altra nobile e austera dimensione - a parte tutto questo, come risponde Dawkins a Russell? Risponde scrivendo che sì, è possibile, a
voler esser pedanti, che gli strumenti
di misurazione e gli organi di senso che
li interpretano siano rimasti vittime di un colossale inganno, cosicché, se l’evoluzione non fosse
un fatto, sarebbe un colossale inganno
del creatore, ipotesi a cui pochissimi
teisti sarebbero disposti a dare credito. Risposta deludente. Innanzitutto perché la verità
incontrovertibile dell’evoluzione
sussisterebbe solo se non si fosse pedanti, ma
nemmeno per Dawkins la pedanteria è qualcosa di scientificamente inaccettabile. In secondo
luogo perché dal fatto che i teisti non
darebbero alcun credito al colossale
inganno non segue che tale inganno non possa esser perpetrato e che quindi l’ipotesi di Russell
sia da respingere. Queste osservazioni
non hanno il benché minimo intento di
affermare che, dunque, i negatori dell’evoluzione abbiano ragione. Entrambi gli avversari si muovono
nel campo delle ipotesi. Oggi, ciò che
decide dove stia la verità non è il
costrutto concettuale delle teorie contrapposte, non è la loro incontrovertibilità,
ma la loro maggiore o minore capacità di
trasformare il mondo conformemente ai progetti che l’apparato scientifico-tecnologico planetario
si propone. Una scienza che si affanni a
dimostrare la verità incontrovertibile
dei propri contenuti combatte una
battaglia di retroguardia. E quanto si sta dicendo delle scienze della natura vale anche per quelle
logico-matematiche. L’esistenza delle
geometrie non euclidee, ad esempio, implica
che nel migliore dei casi la geometria euclidea sia una verità incontrovertibile solo in relazione ai
postulati e agli assiomi su cui essa si
fonda, e dunque non sia assolutamente ma
relativamente incontrovertibile. Da quando nasce la filosofia pensa la verità come in-contro-vertibilità,
ossia come ciò contro cui non ci si può
rivoltare (vertere), ma che non intende
essere una costrizione transeunte e quindi violabile. La connessione tra la verità e l’inviolabile principio
di non contraddizione attraversa tutta
la storia della cultura. Per Hilbert la
questione più importante è dimostrare che
basandosi sugli assiomi della matematica non si potrà mai arrivare a dei risultati contraddittori. Ma
Kurt Godei dimostrerà che questa
dimostrazione è impossibile. Cioè la
matematica si sviluppa ammettendo la possibilità di essere un sistema concettuale contraddittorio e quindi
controvertibile. Se lo dimentica Dawkins
quando afferma che solo i matematici
sono in grado di dimostrare davvero qualcosa.
Infatti, dimostrare davvero, cioè incontrovertibilmente, significa essere in grado di escludere quella
possibilità. Il primo grande libro di
Darwin è intitolato L’origine della
specie (The Origin of Species). Già dal punto di vista linguistico origine, che rinvia al latino
orior (provengo da..., sorgo)
corrisponde all’antico greco arché, la parola
con cui, all’inizio della filosofia, Anassimandro indica il principio da cui tutte le cose provengono e
in cui tutte ritornano. La filosofia ha voluto giungere in modo incontrovertibile all’affermazione
dell’esistenza del principio, ma insieme
ha reso estrema la fede che è radicata
nell’uomo più antico: la fede che le cose, per stare dinanzi a lui - e quindi l’uomo stesso -, abbiano
bisogno di qualcosa d 'Altro da esse,
che le spinga sulla terra e le renda disponibili. Qualcosa d ’Altro che è il mondo degli
antenati e dei fondatori della stirpe,
il demonico, il divino, e poi, quando la filosofia appare, Yarché, appunto. L’immenso e tremendo
sottinteso di questa fede è la
convinzione (a cui prima si è accennato) che
le cose, di per sé, sono incapaci di stare sulla terra - e poi, quando la filosofia incomincia a parlare,
sono di per sé incapaci di essere, e
sono preda del nulla. Cose morte. La
morte e il nulla sono la loro culla naturale. Perché si alzino dal sepolcro occorre dar loro un’origine. Anche
la scienza si muove all’interno della
fede nell’origine (ormai divenuta fede
filosofica). Dell’antica origine demonico-divina la concezione filosofica e scientifica sono trascrizioni
mondane che di quell’origine conservano
l’essenziale. Così accade per Yarché e
l’origine della specie, per il big bang come origine dell’universo, per l’inconscio freudiano come
origine della coscienza. E ancora: per
il lavoro, la società, la storia, il
linguaggio, il cervello, il corpo, la materia come origini della mente e della cultura. In generale, per le cause
prossime e remote degli eventi. E
perfino il nulla è un succedaneo dei
vecchi e nuovi dèi - il nulla da cui i più oggi pensano, più, o meno inconsapevolmente, che l’esistenza abbia
l’origine ultima. Sì, in queste forme dell’origine è presente
l’intera sapienza dell’uomo. Ma proprio
perché la fede nell’origine porta sulle
spalle un fardello così gravoso, si è proprio sicuri che non le si debba chiedere se sia in grado di reggerlo?
In Italia alcuni fisici e qualche filosofo hanno notato l’affinità tra la tesi centrale del mio
discorso filosofico - l’eternità di ogni
ente e pertanto di ogni stato del mondo - e
la tesi di Einstein che per noi fisici, la distinzione tra passato, presente e futuro non è che una
testarda illusione. Ho messo tra
virgolette la parola tesi, per sottolineare che
quando le logiche che conducono alla stessa tesi son diverse, son diverse anche le tesi che
suonano apparentemente identiche. E la
logica della fìsica einsteniana è
essenzialmente diversa da quella secondo cui si manifesta la necessità dell’eternità di ogni essente a cui
si rivolgono i miei scritti. Ciò non vuol dire che ci si debba
disinteressare del rapporto tra le due tesi,
soprattutto ora che molti fisici mettono
in questione il concetto di tempo, che sta in piedi solo se il presente differisce dal passato,
ossia dall’ormai nulla, e dal futuro,
ossia dall’ancor nulla. L’esempio più
recente e tra i più rilevanti di questa crisi del tempo nel mondo della fisica è il libro del fisico
Julian Barbour, La fine del tempo. La
rivoluzione fisica prossima ventura (Einaudi).
Che la filosofia abbia da imparare dalla fisica è un luogo comune. E sacrosanto. Perché se la filosofia
intende comprendere il senso della
scienza e della tecnica, scienza e
tecnica deve in qualche modo conoscerle. Ma è vero anche l’inverso. In una fase in cui, ad esempio, un
fisico come Steven Hawking prevede
(1979) che la fìsica debba lasciare il
posto a una Teoria del Tutto, si toccherebbe il fondo della povertà di pensiero se non ci si rivolgesse
alla filosofia che, da sempre, è stata
la Teoria del Tutto. Ma poi la filosofia
giunge a indicare in concreto - nei miei scritti il linguaggio mira
appunto a questa indicazione - in che senso essa non è un sapere ipotetico, esigenziale, metaforico,
falsificabile ecc., ma è il sapere
assolutamente incontrovertibile - in un senso
essenzialmente diverso da quello che la tradizione filosofica attribuisce all’incontrovertibile e di cui la
filosofia del nostro tempo ha mostrato
l’impossibilità. Barbour scrive: Da una
quindicina d’anni un numero esiguo ma
crescente di fisici, me compreso, comincia a
considerare l’idea che il tempo non esista veramente. E lo stesso vale per il movimento. Posso invitarlo
a tener presente che la riflessione
sull’eternità di ogni essente e di ogni evento
è presente nei miei scritti sin dalla metà degli anni Cinquanta e che a metà degli anni Sessanta la
discussione su questo tema è stato un
non trascurabile evento della filosofia italiana, che continua tuttora a essere vivo? Egli non è
uno di quegli sprovveduti che non vedono
relazioni tra fisica e filosofia: nella
prima pagina del suo libro (di grande interesse e avvincente) scrive che ben pochi pensatori,
nelle epoche successive, hanno preso sul
serio le idee di Parmenide; io invece
sosterrò che l’eterno fluire eracliteo... non è che una radicata illusione. Dirò allora al professor Barbour che qui in
Italia, da mezzo secolo, quelle idee
sono state prese molto sul serio non solo da
me, ma anche da chi ha creduto di dover dissentire. E son certo che al professore non interessa
favorire quella sorta di incompetenza
che c’è all’estero intorno alla filosofìa italiana. Letteratura, scienza e
religione, confrontandosi con la
filosofia, si danno spesso la mano.
La Bellezza regna su queste pagine di Roberto Calasso, tra le sue più importanti e ricche della loro
disincantata sobrietà: La letteratura e
gli dei (Adelphi). Indicano la Bellezza
che presenta sé stessa nella sua assoluta autonomia dalla Verità e dalla Bontà. E indicano insieme gli
dèi pagani, soprattutto quelli greci,
che si eclissano in oscurità variamente
profonde, ma per ritornare in Europa, secondo diverse forme di evidenza. Ad esempio nella pittura fra il
Quattrocento e il Settecento.
Soprattutto tra la fine del Settecento e la fine dell’Ottocento: l’età eroica della
letteratura assoluta che incomincia con
la comparsa della rivista Athenaeum
(Schlegel, Novalis...) e si chiude con la morte di Mallarmé. Letteratura assoluta perché indipendente da
ogni legislazione esterna, soprattutto
quella della comunità è alla ricerca di
un assoluto e perciò non può che coinvolgere
il tutto. Un anello - Calasso ne intende
decifrare la lega - unisce letteratura, linguaggio, mitologia, poesia, arte e gli dèi che appaiono in queste
grandi luci. Il sottinteso è che il
cristianesimo non appartiene alla letteratura
assoluta. Ma non è proprio all’assoluto
e al tutto che la filosofia si è sempre
rivolta con l’intento di preservare il proprio sguardo da ogni dipendenza da altro, innanzitutto
dalla comunità e dal sociale? E, se è
così, la discordia tra letteratura
assoluta e filosofìa non è la discordia tra due forme della filosofia, sia pure lontane tra loro? Per
indicare questa lontananza Calasso
scrive ad esempio: La letteratura cresce
come l’erba tra grigie, possenti lastre del pensiero. Ma è un accertamento poliziesco di identità (come
dice Calasso dei tentativi concettuali di irretire la letteratura) chiedere
se quelle parole di Calasso sono erba o
lastra? Certo, l’esperienza degli dèi,
in cui consiste la letteratura assoluta, intender non la può chi non la pruova. Ma o
quest’ultima espressione non ha
assolutamente senso, o, se lo ha, ed è innegabile tale senso, è la mano che incorona la testa di
quell’esperienza, e pertanto la
sovrasta. Calasso intende sfuggire a questo nodo che stringe il collo della proclamazione
romantica della superiorità assoluta
dell’arte. Ma se non è una possente lastra
del pensiero a conferire assolutezza alla letteratura assoluta, allora, a conferirla, è erba che appassisce,
semplice aspirazione all’assoluto. Oltre l’età eroica della letteratura
assoluta, ma nel suo clima, si ricorda
nel libro, Gottfried Benn scrive che al di
sopra del linguaggio che raffigura vi è il linguaggio, cioè Nietzsche: E allora viene Nietzsche e
incomincia il linguaggio, che non vuole
(e non può) altro che fosforeggiare,
luciferare, rapire, stordire. Calasso commenta: Nietzsche era stato il primo tentativo di evadere dalla
gabbia delle categorie di origine
platonica e aristotelica. Che cosa si
estenda al di fuori di quella gabbia non è stato ancora accertato. Nemmeno da Nietzsche, dunque. Da
parte mia, chiedo a Calasso se non gli
sembra che su questo punto il suo
discorso possa procedere soltanto perché ha messo tra parentesi il mio. E ancora: quel linguaggio,
che come dice Benn, non vuole altro
che... non è forse un volere? E non si
dovrà allora tentare di comprendere, innanzitutto, che cosa il significhi, appunto, volere? (E, certo,
l’affermazione che al di sopra del
linguaggio che raffigura, vi è il linguaggio che stordisce vuole raffigurare o stordire?) Il rapporto teatro-scienza, e in generale
arte-scienza è stato teorizzato da
Brecht in Scritti teatrali (Einaudi). Una
prospettiva, questa, che per un verso, è decisamente antiplatonica - il
che non meraviglia in un marxista come
l’autore delle tre versioni di Vita di Galileo -, per altro verso va incontro a una delle esigenze più profonde
espresse da Platone: quella di parlare
di cose di cui si è competenti.
Platone, infatti, invita a diffidare dei poeti tragici e dell’arte in genere proprio perché l’artista può avere
soltanto opinioni e non scienza intorno
ai grandi temi della vita e della morte,
dello Stato, della pace, della guerra, dell’amore e dell’odio, ai quali costantemente si riferisce in modo più
o meno esplicito. Certo, Brecht
riconosce che il piano della scienza e quello
dell’arte sono diversissimi. Tuttavia non solo si rifiuta di considerare semplici hobby gli interessi
scientifici di Goe¬ the e di Schiller,
ma, con gli stessi esempi offerti da Platone
nel libro X della Repubblica (grandi passioni, storia dei popoli, impulso del potere), sostiene che
anche nell’arte i grandi e complicati
avvenimenti non possono essere
sufficientemente riconosciuti in un mondo di uomini che non si provvedano di tutti gli strumenti utili ad
intenderli. Un dramma sulla vita di
Galileo può essere quindi scritto solo
da chi conosce da vicino la nascita della scienza moderna. E Brecht, che per la Vita di Galileo
ebbe a ricorrere anche all’aiuto di
alcuni assistenti di Niels Bohr, non esita a
riconoscere che una quantità di letteratura è a uno stadio fortemente primitivo. Platone respinge l’arte perché non ha
competenza di ciò a cui essa si rivolge;
Brecht si fa banditore di un’arte che invece
questa competenza ce l’abbia, lasciando al suo destino la sterminata quantità di letteratura che invece
si trova, per la sua incompetenza, a uno
stadio fortemente primitivo. Rimane il
problema di come il contenuto scientifico che può essere racchiuso in un’opera poetica debba
essere completamente risolto in poesia.
Rimane anche ovviamente incolmabile l’opposizione tra Platone, che vede l’anima dell’uomo destinata
a una vita immortale, e un Brecht, che
in sintonia con il pensiero filosofico
del nostro tempo, scrive: Lo confesso:
io non ho nessuna speranza. I ciechi parlano di una via d’uscita.
Io ci vedo. Quando gli errori sono esauriti siede come ultimo compagno di fronte a noi il nulla ( Poesie, Einaudi). Non è allora del senso del nulla che (anche)
l’artista deve avere la massima
competenza? Oggi si tende a considerare la scienza moderna come la forma più alta di sapere. Ma la scienza
stessa riconosce ormai il proprio
carattere ipotetico. Anche le scienze storiche lo riconoscono. Anzi, a questa consapevolezza
sono giunte prima delle scienze della
natura e logico-matematiche. In modo
indiretto Giambattista Vico, nel XVIII secolo, ha aperto la strada in questa direzione. Ci è
mancata sinora scrive una scienza la
quale fosse, insieme, istoria e filosofia
dell’umanità. Passa la vita a tracciare la configurazione di questa nuova scienza. Al di fuori di essa, esiste una istoria
senza filosofia, cioè, per lui, senza verità:
una conoscenza storica che mostra sì un
immenso cumulo di notizie, ma senza indicare alcuna Legge immutabile, eterna che dia loro un
senso unitario, e quindi lasciandole
allo stato di ipotesi. La Scienza nuova
deve procedere pertanto senza veruna ipotesi: senza le incertezze e dubbiezze che competono alle
scienze storiche sino a che rimangono
separate dalla filosofia. Ma il nostro
tempo - e innanzitutto l’essenza (tendenzialmente
nascosta) della filosofia del nostro tempo -
esclude l’esistenza di una qualsiasi Legge immutabile ed eterna, sì che le scienze storiche si trovano
oggi a conservare proprio quel carattere
di incertezza, dubbiezza, ipoteticità
che Vico aveva consapevolmente colto in esse in quanto separate dalla filosofìa. La Scienza Nuova è
stata ripubblicata da Bompiani nelle tre
edizioni, a cura di Manuele Sanna e
Vincenzo Vitiello, con un importante saggio
introduttivo di quest’ultimo. Il testo è riproposto secondo l’edizione fattane dallo stesso Sanna, da
Fulvio Tessitore e Fausto Nicolini, con
alcuni restauri per le edizioni del 1730 e
del 1744. Un’imponente operazione culturale. Molto opportunamente,
Vitiello mette in luce il carattere
problematico della conoscenza storica e in generale della nostra memoria. Vico e tutte le successive riflessioni sulla
conoscenza storica non mettono però in
questione Yesistenza della storia. E
nemmeno le scienze naturali mettono in questione Yesistenza della natura. Storia e natura sono cioè
trattate come indubitabilmente
esistenti: la loro esistenza è considerata una
verità incontrovertibile. Ma a chi va affidato il compito di mostrare la verità non ipotetica
dell’esistenza del mondo? Che esista il
mondo è una conoscenza scientifica - quindi
problematica -, oppure è una conoscenza innegabilmente vera, e quindi non scientifica? Né il senso
comune può farsi avanti con la pretesa
di saper lui rispondere, infatti non può
avere la pretesa di possedere una conoscenza superiore a quella della scienza. Affermare che l’esistenza del mondo è una
verità innegabile significa affidare
alla filosofìa il compito di mostrarlo. È
sempre stato il suo compito metter tutto in questione e spingersi in vari modi fino al luogo che non
può esser messo in questione. Da questo
punto di vista, non mettendo in
questione l’esistenza della storia, lasciandola cioè implicitamente valere come verità innegabile,
Vico rimane indietro rispetto al compito
essenziale della filosofia. Ma per altro
verso egli coglie nel segno intuendo che la filosofia non può, a sua volta, chiudere gli occhi di
fronte alla storia, alla natura, al
mondo. Proviamo a chiarire quest’ultima
affermazione. Il senso comune,
in cui si trova ognuno di noi da quando
nasce, non ha dubbi sull’esistenza del mondo e della ricchezza dei suoi contenuti: vi crede con tutte le sue
forze. (Vi crede anche la scienza, anche
quando essa si discosta dal senso comune.) Ma, appunto, lo crede, ha fede nella
sua esistenza, e non può fare a meno di
crederlo - così come non può fare a meno
di credere che il sole si muova da oriente a occidente anche se la scienza gli dice che è la terra a
muoversi attorno al sole, che sta fermo
rispetto a essa. Ma la fede non è la
verità innegabile. La fede mette in
manicomio o distrugge chi mostra di dissentire da essa; sebbene faccia questo quando il dissenziente
ha meno forza del credente. Sennonché la
verità non è una forza o violenza
vincente. Quando la filosofia del nostro tempo lo sostiene, lo può sostenere sul fondamento di ciò che per
essa è la verità innegabile: 1’esistenza
del divenire del mondo, cioè del
divenire le cui forze sono capaci di travolgere e vincere ogni verità che pretenda imporsi su di esse e
regolarle. Affermando che la verità
innegabile è il divenire del mondo
(implicante l’inesistenza di ogni eterno e di ogni immutabile al di sopra di sé), nemmeno la filosofia del
nostro tempo lo afferma perché è
riuscita a mettere in manicomio o a
distruggere chi la pensa diversamente da essa. In verità, il mondo non è il mondo (storia,
natura, lo stesso altro dal mondo) quale
appare all’interno della fede nella sua
esistenza e nei suoi molteplici contenuti - ossia all’interno della non-verità. Tuttavia è necessario che
nella verità appaia la non-verità:
innanzitutto perché la verità è negazione della
non-verità e per esserne la negazione è necessario che la veda. È necessario cioè che nella verità appaia la
fede nel mondo, al cui interno si
costituisce ogni altra fede (ad esempio la fede
nella storia e nella natura, la fede religiosa), ossia ogni altra non-verità, ogni altro errare. Ciò significa
che, in verità, il mondo è la fede nel
mondo e che la non-verità della fede nel
mondo appartiene necessariamente, come negata, al contenuto della verità. Quando Vico pensa una
scienza la quale sia insieme istoria e
filosofìa dell’umanità, non scorge che l’esistenza della storia (e del mondo) è il contenuto di
una fede, ma crede che nell’unione di
storia e filosofia la storia sia illuminata
dalla verità della filosofia e divenga essa stessa verità; e tuttavia egli intuisce che la verità è
inseparabile dal proprio opposto, cioè
dalla fede, dall’errore. Quale volto
deve avere la verità che si mette
autenticamente in rapporto col proprio opposto? Nel capitolo conclusivo della sua introduzione, intitolato
Prospezioni vichiane Vincenzo Vitiello scrive: Al presente spetta
la cura della “possibilità” del futuro,
che non solo, in quanto futuro, non è,
ma neppure è necessario che sia. Sono d’accordo che questa sia una prospezione vichiana, un
proseguire cioè lungo il sentiero
percorso da Vico. Ma aggiungo che questo
sentiero è solo un tratto del grande Sentiero aperto dalla filosofia greca e in cui consiste la storia
dell’Occidente: il Sentiero per il quale
il divenire delle cose (di cui sopra si
parlava) è il loro uscire dal nulla del futuro e ritornare nel nulla del passato. E Vitiello sa bene che,
servendomi di un’espressione dell’antico
Parmenide, lo chiamo Sentiero della
Notte - dove la Notte è l’errare estremo. Quella prospezione vichiana raggiunge il proprio
culmine e la propria estrema coerenza in
ciò che prima ho chiamato essenza
(tendenzialmente nascosta) della filosofìa del nostro tempo, ossia nella distruzione di ogni Legge
e di ogni Essere immutabile ed eterno.
Da gran tempo vado mostrando la malattia
mortale - l’essenziale non-verità del mondo - che sta al fondamento di quel Sentiero e che
impedisce alla verità di essere
l’autentica negazione dell’errore, cioè della malattia mortale che, appunto, fa dire a tutti gli
abitatori del pianeta che il futuro e il
passato non sono e non è necessario che
siano. Ho detto che tutto questo vado mostrandolo da gran tempo? Mi son lasciato andare. Rispetto alla
grandezza della posta in gioco quel
tempo è minimo. 239 8. Suicidio dell’Europa Lasciar da parte la brocca riempita di vino
e porre al suo posto una cavità dove si
trova del liquido. È quel che fa la
scienza, secondo Heidegger, rendendo un che di nullo la brocca e tutte le cose. Ma già per Goethe la
scienza lascia da parte gli aspetti più
concreti e intimi delle cose; e questa
astrazione è chiamata da Hegel intelletto. Non è nemmeno un discorso perentorio, perché si potrebbe
replicare che anche la poesia annulla
tutto ciò a cui invece si rivolge la
scienza. E quella cosa che è l’Europa?
Pietro Barcellona non si confronta con
il passo di Heidegger, ma anche nel suo ultimo
libro l’Europa è proprio come la brocca piena di vino che è stata annientata dalla scienza e dalla
tecnica moderne: è stata sostituita con
una cavità in cui si trova del liquido. E poiché la scienza è un fenomeno europeo l’annientamento
dell’Europa è un autoannientamento. Il
libro di Barcellona è infatti intitolato
II suicidio dell’Europa (Edizioni Dedalo 2005). Da molto tempo Barcellona si dichiara
d’accordo con vari aspetti del mio
discorso filosofico. A modo suo, con
sensibilità e acutezza. Del mio pensiero dice: Bisogna fare a pugni oppure aprire le braccia. Non mi sembra
che le apra alla mia tesi che la
dominazione della tecnica e della scienza è
inevitabile (per un certo tratto - dunque finito - della storia dell’Occidente. Però lo invito a mostrare dove non lo
soddisfano le pagine che ho scritto a
proposito di tale inevitabilità. In esse si
mostra che, lasciando il dominio alla tecnica, l’Europa non si suicida ma è un albero dove i rami più alti
(tecnica e essenza profonda della
filosofìa del nostro tempo), per respirare e
vivere, fanno appassire quelli più bassi (tradizione teologico- metafisica-religiosa dell’Occidente),
sebbene, come 240 quest’ultimi, traggano la loro linfa dalle
stesse radici e dallo stesso tronco.
Certo, scienza e tecnica non hanno l’ultima
parola. E quello dell’Europa è l’albero della Follia. Anche Lucifero è folle, ma è il signore del
mondo. Barcellona mi concede che gli
eventi del mondo siano l’apparire e lo
scomparire degli Eterni, i quali sono pace,
guerra, amore, odio, albero, brocca, nubi e anche tutto ciò che non si lascia vedere e che culmina nella
gioia e nella gloria a cui l’uomo è
destinato. Ma Barcellona parla anche degli
intervalli in cui l’Eterno della gioia, l’Eterno della gloria non si è ancora presentato. Nel bel mezzo di uno
di questi intervalli, mi ci ritrovo io -
scrive - che, non avendo (ancora) visto
la gioia o la gloria, ma avendo visto la tecnica, sto male. Dice infatti che la tecnica distrugge avvenire,
speranza, promessa, profezia, rende
tutto presente, calcolabile,
manipolabile. Riprende la tesi di Heidegger e Bloch. Che vale però per il pensiero filosofico tradizionale
(i rami bassi dell’albero di cui sopra
parlavo). Volendo essere tale pensiero
incontrovertibile, ha infatti la pretesa di dire già tutto sull’essenza del futuro, ossia di ciò che
ancora, per l’intero Occidente, è un
nulla. Scienza e tecnica (i rami alti) sono
invece un sapere ipotetico, che non adatta a sé l’esperienza, ma le si adatta, lasciandola vivere e aprendosi
all’awenire. Inoltre la filosofìa del
nostro tempo mostra l’impossibilità di
ogni Eterno che stia al di sopra delle cose create e annientate, ma che non ha nulla a che vedere con gli
Eterni, di cui parlano i miei scritti,
che non sono i padroni che dominano e
regolano quella creazione e annientano, ma sono le cose stesse.
Questa sintesi di tecnica e filosofia del nostro tempo, alla quale ben pochi guardano, è animata da quella
volontà di avvenire, la cui mancanza fa
star male Barcellona e anche altri. Mi sembra che egli oscilli tra
l’inconsapevole adesione allo spirito
del nostro tempo - che, proprio in quanto
tecnologico, e contro quel che di solito si pensa, intensamente vuole e promuove l’awenire - e l’adesione al
mio discorso filosofico, dove anche la
totalità del futuro è già, eterna, e
attende di venire alla luce, oltrepassando quell’Eterno che è la Follia da cui è dominata la terra. A volte Barcellona mi dice che la sua è una
fede. Troppo modesto. Alla base del suo
discorso c’è invece una filosofia per la
quale la verità non può essere che visione. È il principio della fenomenologia. Ma si può dare
davvero un rapporto necessario con la
verità scrive che non sia la visione?
Rispondo: sì, perché la semplice visione non potrà mai essere necessità. Limitarsi, in un
paradiso, a vedere Dio, significa
esporsi al dubbio di essere vittime di una
illusione. La semplice visione non mostra la necessità di quel che si vede. Nemmeno chi toccava Gesù
toccava la necessità che egli fosse il
Figlio di Dio. Tempo fa, in un
editoriale di Liberal (n. 19, 1998) il
direttore Ferdinando Adornato richiamava il problema delle nuove regole di un equilibrio mondiale e
affermava la necessità che l’Europa
abbia una propria autonomia politica di
difesa e di sicurezza. Aggiungeva di non trovare saggio pensare che tale autonomia debba servire a
riproporre un ordine mondiale basato su
un “bipolarismo antagonista” nei
confronti degli Usa. Poiché in un mio articolo pubblicato su quello stesso numero sostenevo una tesi che a
prima vista sarebbe potuta sembrare
affine a quella che l’editoriale non
considerava saggia, nel numero successivo aggiunsi, in risposta, quanto segue. Siamo d’accordo che l’Europa si trova
all’interno di un processo storico che
la vede e continuerà a vederla alleata degli Usa. D’accordo, anche, che un
alleato non è un suddito. Lo diventa se
non ha potenza - se non ha l’autonomia di
cui Lei parla. A meno che l’alleato debole abbia grande autorità su quello forte. Ma non è il caso
dell’Europa rispetto agli Usa (che hanno
tirato diritto anche di fronte alle
esortazioni del Papa). Nel mio
articolo rilevavo che il processo storico in cui si trova l’Europa la vede anche avvicinarsi alla
Russia, nel senso che si profila la
tendenza verso la collaborazione tra la
potenza economica europea e la potenza nucleare russa. L’unione di questi due fattori fa nascere
appunto quell’alleato degli Usa, che è
tale solo se non è un suddito. Non si profila
dunque un semplice antagonismo rispetto agli Usa. Perfino il bipolarismo Usa-Urss era chiamato dal
sottoscritto, sin dagli anni Settanta, Duumvirato
(l’espressione era piaciuta anche a
Giulio Andreotti). Rispetto alla concordia discors del Duumvirato di allora, il Duumvirato che si
sta profilando (e che il mio discorso si
limita a constatare) vede
considerevolmente ridotta la discordia. D’altra parte gli alleati sono veri, solo se ognuno dei due ha la forza
di resistere alle possibili
prevaricazioni dell’altro. Solo questa forma di
alleanza tra Europa-Russia e Stati Uniti può consentire all ’Occidente di tutelare affìcacemente i
propri valori rispetto al resto del
mondo. Lei rileva invece che la logica
della deterrenza nucleare è obsoleta. Il
terrorismo è evanescente e asimmetrico.
(D’accordo). Per Lei, mi sembra, sarebbe obsoleto anche un ombrello nucleare russo che sostituisse
quello che gli Usa hanno tenuto e
tengono aperto sull’Europa. Ora,
contrapporre al terrorismo l’armamento nucleare è ovviamente insufficiente. Oggi esistono le
armi chimiche e le cosiddette nano-tecnologie
di basso costo e di altissimo potenziale
distruttivo dalle quali è estremamente difficile difendersi. Ma perché i
terroristi non le hanno usate, per
esempio per difendere l’Afghanistan e l’Iraq? Se l’armamento nucleare è insufficiente, è però anche
necessario. Alla fine, sono soprattutto
degli Stati ad alimentare il terrorismo. Gli
Usa non parlano forse di Stati canaglia? Rispetto a quest’ultimi la minaccia atomica
(esplicitamente richiamata dagli Usa
prima dell’attacco all’Iraq) non è obsoleta. E allora non si dovrà dire che il terrorismo si
astiene dall’uso delle armi
chimico-batteriologiche proprio perché certi Stati temono la ritorsione atomica su di essi da
parte degli Usa (e della Russia)? Ma poi, la concreta risposta americana al
terrorismo dell’11 settembre non è stata
forse l’attacco a due Stati? E un articolo
di questo numero di Liberal, scritto da un americano, non è forse significativamente intitolato E adesso
l’Iran^ È proprio così obsoleto il
possesso di un arsenale invincibile (e
invincibile lo è tuttora e nonostante tutto anche quello russo), in un mondo dove la rincorsa all’armamento
nucleare sta diventando sempre più
pressante - come proprio in queste
settimane stiamo constatando? A
parte il riferimento alla potenza economica europea, che come già si è accennato nelle pagine
precedenti si è nel frattempo
notevolmente ridotto, le considerazioni presenti in quella mia risposta vanno tuttora tenute
ferme. Non credo alla sopravvivenza
Molte le pagine di Maurizio Ferraris da cui la comprensibilità del discorso di Jacques
Derrida ha tratto, un notevole,
giovamento. Anche quelle pubblicate da Bollati
Boringhieri e affettuosamente intitolate Jackie Derrida. Ritratto a memoria (2006), dove egli scrive
che per Derrida, cercare di far sì che
non tutto scompaia è stato al centro delle
sue preoccupazioni senza trasfomarsi in una meditatio mortis narcisistica (p. 20). A dar ragione a Ferraris, è lo stesso
Derrida che dichiara: Non penso che alla
morte, ci penso sempre, non passano
dieci secondi senza che la sua imminenza mi sia presente. Analizzo continuamente il fenomeno della
sopravvivenza, è veramente la sola cosa
che mi interessi, ma proprio nella
misura in cui non credo alla sopravvivenza post mortem. In fondo, è questo che comanda tutto, tutto ciò
che faccio, sono, scrivo, dico (J.
Derrida e M. Ferraris, Il gusto del segreto,
Laterza 1997). Nella cenere tutto viene annientato dice da qualche parte. Ma di quel continuo analizzare il fenomeno
della sopravvivenza non trovo traccia
nelle pagine di Ferraris. E lo si
spiega; perché per quanto ne sappia, non la trovo nemmeno nelle pagine di Derrida. Egli dice, sì, che
continua a pensarci, ma è difficile
venire a sapere che cosa egli abbia pensato in
proposito; o si viene a sapere ben poco più del fatto che egli non crede alla sopravvivenza post mortem. In
questo senso, non solo Ferraris ha
ragione a sostenere che in Derrida non
c’è una meditatio mortis narcisistica, ma verrebbe da dire che non c’è affatto una meditatio
mortis. Certo, a dirlo così nudo e
crudo si sbaglierebbe, perché Derrida
conosceva bene la meditazione di Heidegger sulla morte. E tuttavia doveva anche saper bene che
è una meditazione fenomenologica, che cioè non si pronuncia sui problemi metafisici come 1’esistenza di Dio,
la sopravvivenza dopo la morte ecc.
Rimane dunque l’impressione che Derrida
abbia distolto lo sguardo da ciò che
maggiormente lo assillava. Che è
certamente quel che più conta. Sono d’accordo. Ma sono d’accordo perché al tema della cenere in
cui tutto viene annientato ho invece
dedicato tutto quello che ho scritto.
Tutto quel che ho scritto si riferisce alla necessità che ogni cosa (evento, stato ecc.) sia, eterna,
cioè che nessuna cosa si annienti nel
cosidetto suo diventar cenere. Vi si riferisce
argomentandola e mostrando il senso della necessità e dell’argomentare. Peccato che in proposito
Derrida non abbia voluto prendere
posizione. Ma limitarsi a dichiarare la
propria incredulità intorno a qualcosa non è il momento più alto della filosofìa. All’amico Ferraris vorrei pertanto proporre
di non seguire, in questo, Derrida. Che,
per quanto ne sappia, non si è mai
interessato di Leopardi. Ma la meditatio mortis di Leopardi è grandiosa, straordinariamente potente, unica.
E non è soltanto fenomenologia. Leopardi
crede di poter mostrare che nessuna cosa
è eterna. Ma come è alto e ricco, e
argomentante il suo errare! Con questa meditazione devono fare i conti i credenti. Derrida li disturba
ben poco. Se non si guarda da vicino il
senso del pericolo, cioè
dell’annientamento e dello scomparire, che stanno alla radice dell’angoscia, quale consistenza può avere la
ricerca di un rimedio contro la morte
ossia di quel far sì che nontutto
scompaia? Per Derrida il rimedio era la scrittura, che trattiene ancora per un po’ le cose
nell’esistenza. Proust questa tesi
l’aveva già analizzata a fondo. Ma, anche qui,
com’era ben più radicale Leopardi, che pensava alla scrittura nel senso
più ampio, cioè, come opera del genio, ossia di
chi sa dire con potenza la nullità di tutte le cose. Per le scienze del
linguaggio il sacro è il separato: tiene
lontano l’uomo; anche se insieme lo attira. Freud ha visto neH’inconscio la follia da cui la coscienza
dell’uomo si è distaccata. All’inizio
del suo bel libro Orme del sacro Umberto
Galimberti scrive tuttavia che a conoscere questa follia non sono la psicologia, la psichiatria o la
psicoanalisi, ma la religione. Ma la religione - osservo - è solo un credere;
e se un sapere riuscisse a mostrare che
l’occhio della religione vede più
lontano degli altri e riesce a scorgere la profonda verità della follia del sacro, non sarebbe allora
questo sapere (lo si è chiamato filosofia)
ad avere l’occhio più acuto? Più in alto
di una testa incoronata sta la mano che la incorona. Per Nietzsche al di là della ragione c’è il caos.
Per Dostoewskij c’è Cristo. Per Freud
l’inconscio è il luogo in cui non vige
più il principio di identità e di non contraddizione. La contraddizione è il caos, è Cristo, la
follia. La follia è la verità ultima
dell’esistenza. In ognuno di questi casi, si apre alle spalle della ragione il mondo dell’indifferenziato,
dove, scrive Galimberti, una cosa è questo
e anche altro. La ragione, tuttavia,
non trova scandaloso pensare che un vino
possa essere forte e anche nero. I problemi incominciano quando si pensa che lo stesso vino sia forte
e non forte, nero e non nero: indifferenziato,
appunto. Platone e soprattutto
Aristotele sostengono che il contenuto di questo pensiero non può esistere: cioè che il mondo della follia
non può esistere. Qui mi limito a
riproporre una domanda che può sembrare
oziosa. Quella follia che,
separata, sta al di là della ragione, è forse
non separata? Se ne stata forse al di là, ma anche al di qua, dentro la ragione? No! - risponderanno gli
amici della follia, 248 del caos, dell’inconscio, di Cristo,
dell’indifferenziato. Ma la follia non,
è forse, anche, non follia? A questo punto quegli amici perderanno la pazienza e diranno di
aver già detto che la follia è follia -
punto e basta. Ma, allora, non è forse
molto, ma molto giudiziosa questa follia
che se ne sta ben attaccata a sé stessa (e dunque al principio di non contraddizione), e non vuol
essere anche altro, cioè non vuol essere
ragione - e, dunque, tirate le somme,
non si permette di essere folle? Secondo un principio consolidato della
metafisica classica, il divenire
richiede una condizione che lo trascende scrive
Biagio de Giovanni nel suo studio, importante e suggestivo, dedicato a Hegel e Spinoza. Dialogo sul
moderno (Guida 2011, p. 121) - e tale
principio regola anche il pensiero di questi due grandi protagonisti del moderno. La
complessità del saggio di de Giovanni,
implicante notevoli conseguenze sul piano
politico, richiede che qui si accenni solo ad alcuni punti. Quel principio della metafisica classica domina
effettivamente sia l’antico, sia il moderno;
non però il pensiero del nostro tempo,
per il quale il divenire non richiede altro che sé stesso. Il mondo non ha bisogno di Dio. Che il divenire richieda una condizione
trascendente, indiveniente, infinita,
significa che essa salva il finito - il
divenire (nascita e morte) essendo appunto il regno della finitezza. La tesi di de Giovanni, che
l’intento di fondo di Spinoza e di Hegel
è di salvare il finito, è quindi del tutto
consequenziale. Ed egli, questo intento, lo fa proprio, ma dandogli un timbro nuovo, che insieme, a suo
avviso, rende esplicito quanto nei due
pensatori rimane invece velato.
Semplificando molto il suo discorso, si può dire che il mondo è salvato solo da Dio, ma che il rapporto tra
Dio e Mondo produce inevitabilmente un
radicale spaesamento del pensiero, che
non riesce e non può riuscire a sciogliere i
problemi prodotti dalla coabitazione di quei due termini. Ciò significa che le difficoltà e le
contraddizioni a cui va incontro il
rapporto finito-infinito in Hegel e Spinoza non sono imputabili alla limitatezza del loro
pensiero, ma sono strutturali. In una delle pagine decisive del suo libro
de Giovanni scrive: I grandi testi della
filosofia non sono grandi precisamente perché gravidi di altissimi contrasti,
che sono il vero sale del pensiero?, e
questo sale non è forse la profonda
istituzione di una dualità che non aspetta vera conciliazione e che però ambisce a vincere la scissione senza
poterla abolire?, sì che proprio questo
paradosso è la stessa vita umana?
Ritengo che i punti interrogativi non siano retorici. De Giovanni non presuppone arbitrariamente
1’esistenza delfinfinito, non ne
progetta nemmeno la fondazione, né la
richiede a Spinoza e a Hegel, dove, a suo avviso, Dio, cioè l’infinito e indiveniente Invisibile, è, non
meno e anzi ancor più del finito, il
luogo dove i problemi e le contraddizioni
maggiormente si addensano. L’infinito-invisibile è infatti per lui il contenuto di una fede. Ma questa fede, mi sembra, appartiene a suo
avviso all’essenza dell’uomo, ossia a
quel paradosso che avvolge non questo o
quel gruppo umano; non questa o quell’epoca,
ma la stessa vita umana in quanto tale. E qui il paradosso indicato da de Giovanni è scavalcato, nel
senso che diventa ancora più complesso,
la fede nell’invisibile essendo appunto
ciò che, come richiamavo all’inizio, è spinto al tramonto dell’essenza o sottosuolo della filosofia del
nostro tempo, dove il Tutto resta
identificato alla totalità del visibile-finito - diveniente. Egli vede sì l’unita sottostante
all’antico e al moderno (e si tratta di
millenni), ma non intende allargarla, e
anzi prende le distanze dalla fede, indicata nei miei scritti, che unisce l’intera storia dell’uomo e che
quindi sostiene sia la fede
nell’Invisibile sia la fede dei nemici dell’Invisibile, amici della Terra.
De Giovanni contrappone cioè il suo modo di considerare la storia dell’Occidente a quello dei miei
scritti, che considera il pensiero
dell’Occidente come preso in un unico
solenne errore, che è un estremo, iperlogico (e a suo modo, certo, geniale) invito a escludere il
significato delle differenze, ossia di ciò a cui non si può rinunciare (p.
117). Credo che qui de Giovanni si
riferisca alle differenze intese come
differenti modi di errare, non come differenze tout court - giacché l’affermazione dell’esistenza e
anzi dell’eternità delle differenze
(ossia delle molte cose e dei molti aspetti del
mondo, innanzitutto) è una tesi costante del mio discorso filosofico.
Ma è una sua tesi costante anche l’affermazione dell’esistenza di differenti, infiniti modi
di errare; che però hanno questo di identico,
di essere errori, cioè negazioni della
verità. E l’avere in comune il loro esser errori non cancella i differenti modi dell’errare - così come, per
i colori, l’avere in comune Tesser
colori non è una monocromia, ossia non
cancella il loro differire l’uno dall’altro. Nei miei scritti si mostra che la vita umana è il luogo in cui si
manifesta ciò che vi è di identico in
ogni errore, ossia il suo essersi separato
dalla verità. De Giovanni mi
gratifica di un riconoscimento che mi
piacerebbe meritare (Sono convinto che la profondità speculativa di Severino sia assai alta e
pressoché unica oggi in Europa), ma
aggiunge che la pedagogia che nasce da questa
profondità è muta, perché riduce la dialettica interna alla storia della metafìsica [...] alla monocroma
ripetizione dell’errore. Nei miei
scritti si mostra che l’Errore è la fede
nella trasformazione delle cose, il loro diventar altro da sé. Chiedo a de Giovanni di indicarmi, per uscire
dalla supposta monocromia, un solo
punto, nella storia dell’uomo, dove non
si creda nell’esistenza della trasformazione delle cose, ma si creda in una forma di errore diversa da
questa fede. Poi, se vorrà, potremo
discutere il punto decisivo, ossia i motivi per i quali affermo che questa fede, nonostante la
sua apparente plausibilità ed evidenza,
è l’Errore più profondo a cui l’uomo è
stato destinato - ma dal quale l’Inconscio autentico dell’uomo è già da sempre
libero. Cresce il rifiuto dell’affermazione di Nietzsche (peraltro in genere male intesa) che non esistono fatti ma
solo interpretazioni. Nietzsche non è un
realista. Ma implicitamente il bersaglio
in Italia si allarga a Heidegger e a
Gadamer, e anche a chi, come Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, ha lavorato sulla scia di questi
pensatori, a partire appunto da
Nietzsche. È ora - sostiene Maurizio Ferraris - di far rivivere su scala mondiale i fatti, la verità,
il realismo. Se è lecito annotarlo, c’è anche chi, da più
di mezzo secolo va dicendo che il senso
autentico della verità non è investito
dalla crisi inevitabile a cui è andata incontro la verità quale è intesa lungo la storia dell’Occidente, e
quindi anche dal realismo. Ma Ferraris vuol far rivivere fatti, verità
e realismo dando come cosa per sé
evidente (almeno così sembra) che la
realtà esista indipendentemente dalla coscienza umana, la quale sarebbe però capace di conoscerla con
verità, scorgendo appunto i fatti, ed
essendo quindi una certezza che ha come
contenuto la verità. Con fatica, si potrebbe far rientrare questo modo di pensare in ciò che Hegel
chiamava appunto identità di certezza e
verità. Non dubito che Ferraris (e Eco)
l’abbiano presente. Con fatica, dico, tuttavia, perché il senso comune non è la conferma filosofica del senso
comune. Anche per le scienze della
natura la realtà esiste
indipendentemente dall’uomo. Da qualche millennio questo è anche il comune modo di pensare dei popoli,
il loro senso comune. Ma ben prima della
scienza è la filosofia, sin dai suoi
inizi, a riflettere sul rapporto tra l’essere umano e la realtà - e sul significato di queste due
dimensioni. Prevale, con la grande
filosofia classica (Platone, Aristotele), la conferma del senso comune. E più
tardi tale conferma sarà chiamata realismo.
La prospettiva espressa dal principio di
Protagora che l’uomo è la misura di tutte le cose (e che quindi la realtà dipende dal modo in cui
l’individuo pensa e vuole) resta a lungo
emarginata. Ma, proprio perché conforma
il senso comune, il realismo filosofico
non è il senso comune. La filosofia,
infatti, viene alla luce evocando un senso prima sconosciuto della parola verità - il senso che domina
l’intera tradizione dell’Occidente dai
Greci a Hegel, a Einstein; cioè la verità
come scienza (epistéme) incontrovertibile, fondata su principi primi innegabili e per sé evidenti e
il realismo filosofico ritiene che il
senso comune abbia verità. Ma è la
filosofia a conoscere la verità del senso comune, non il senso comune.
Per avere un esempio della potenza e complessità concettuale del realismo filosofico si tenga
ancora sott’occhio (cfr. sezione prima,
cap. Ili) questo passo deW Etica
Nicomachea di Aristotele: Ciò di cui abbiamo scienza non può essere diversamente da come; delle cose
che possono essere diversamente, invece,
quando siano fuori dalla nostra
osservazione, rimane nascosto se esistano o no. (La parola osservazione traduce la parola theoréin :
l’osservazione appunto, la
manifestazione del mondo, che accade con
l’esistenza dell’uomo.) Si può dire che in questo passo sia addirittura anticipato quell’importante
atteggiamento del pensiero contemporaneo
che è la fenomenologia fondata da Edmund
Husserl, per la quale è verità tutto ma anche solo ciò che è osservabile (manifesto, immediatamente
presente, sperimentabile); e quindi non
è possibile che, con verità, venga
affermato qualcosa intorno a ciò che non è osservato. Proprio per questo la fenomenologia non è
una conferma del nostro senso comune. Aristotele non riconoscerebbe ciò che pure si è sviluppato dal proprio seme;
eppure la sua è una critica radicale del
senso comune in quanto sussistente al di
fuori della conferma che Yepistéme gli dà: tutto ciò che esso dice non è scienza (epistéme). Inoltre, per
Aristotele, la realtà di cui c’è scienza
e che quindi esiste indipendentemente
dall’uomo è più ampia della realtà di cui, secondo la fenomenologia c’è scienza (e anche Husserl
intende la filosofia come scienza
rigorosa). La scienza è infatti, per
Aristotele (come per l’intera tradizione occidentale) anche scienza di Dio, metafìsica. Il realismo filosofico greco si è sviluppato
nella filosofia patristica e scolastica
(Agostino, Tommaso tee.) e quindi nella
dottrina della Chiesa cattolica e delle altre Chiese cristiane, e poi nel Rinascimento e nella
stessa filosofia moderna prekantiana,
che però procede a una forma più
elaborata di conferma del senso comune. E il realismo è stato messo in questione da Kant e daH’idealismo,
per poi riaffacciarsi in varie correnti
della filosofia degli ultimi due secoli,
Marx e marxismo compresi. Si continua a dire che ci si è liberati della cultura idealistica. Ma
quanti conoscono l’idealismo da cui ci
si deve liberare? Per l’idealismo (e il
neoidealismo italiano) è fuori discussione (come per il realismo) che la natura esiste
indipendentemente dalle singole
coscienze degli individui umani. È dalla coscienza trascendentale (liquidata con troppa
disinvoltura) che la natura non è
indipendente. La scienza, si diceva
sopra, è realista. E la filosofia
analitica sostiene per lo più che per sapere come sia fatto il mondo bisogna rivolgersi alla scienza moderna
(che non è più epistéme). Sennonché, se
il realismo della scienza moderna non
vuol essere semplice, ingenuo senso comune, allora è una tesi filosofica è cioè quel realismo
filosofico la cui potenza e complessità concettuale e i cui rapporti con le
concezioni non realistiche sfuggono
completamente al moderno sapere
scientifico - e sarebbe un peccato se sfuggissero anche al nuovo realismo, stando al modo in cui esso è
stato presentato. Si aggiunga che la scienza intende
fondarsi suh’osservazione. Ma la gran
questione è che la realtà - che per la
scienza esisterebbe egualmente anche se l’uomo non esistesse (l’uomo è dice la scienza, compare
soltanto a un certo punto dello sviluppo
dell’universo) -, in quanto esistente
senza l’uomo è per definizione ciò che non è
osservato dall’uomo, ciò di cui l’uomo non fa esperienza: non può esserci esperienza umana di ciò che
esiste quando l’umano non esiste. Quindi
l’affermazione che la realtà è
indipendente dall’uomo finisce anch’essa con l’essere una semplice fede, o quella forma di fede che è
considerata come altamente probabile. Comune al nuovo realismo e al pensiero
debole di Vattimo e Rovatti è comunque
l’istanza politico-morale, messa in
primo piano. Si accusano reciprocamente di favorire il totalitarismo. Ora, la filosofia - come il
mito e poi la scienza moderna - è nata,
sì, per difendere l’uomo dal dolore e dalla
morte dovuti alla natura e alla lotta tra gli uomini. In questo senso la filosofìa (come il mito e la
scienza), nascendo dalla paura, è mossa
da un’istanza politico-morale. Ma la filosofia
si accorge che il rimedio non può essere quello inaffidabile del mito, ma deve avere verità, e la verità non
può fondarsi sulla dimensione
politico-morale. Per la sua assoluta
spregiudicatezza la verità deve chiedersi perché la violenza dei più forti debba essere bandita. E deve
saper rispondere. Altrimenti essa è
semplice edificazione. Un’ultima
osservazione a proposito di Nietzsche. La sua tesi che non esistono fatti ma
solo interpretazioni non va intesa in
senso assoluto: riguarda solo un certo insieme di eventi. Infatti, che il divenire del mondo
esista non è per Nietzsche
un’interpretazione affidata da ultimo alle decisioni storiche e quindi cangianti deU’uomo: che il divenire
(la storia il tempo) esistano è per
Nietzsche - anche per Nietzsche -
l’incontrovertibile verità fondamentale in base a cui è necessario negare ogni realtà eterna
immutabile, divina che sovrasti il
divenire e lo domini e guidi. Questa verità è la Grande Fede al cui interno cresce l’intera
storia dell’Occidente e, ormai, del
pianeta. La fede che da tempo i miei scritti
invitano a dar conto del suo incontrastato potere. Persiste il silenzio
su uno dei tratti più importanti della
cultura contemporanea. Da parte mia continuo a richiamare quanto sia decisivo il nucleo essenziale del
pensiero filosofico del nostro tempo.
Sebbene possa sembrare inverosimile, tale
nucleo è infatti ciò che fa diventar reale la dominazione del mondo da parte della tecnica - destinata a
questo dominio nonostante altre
candidature, ad esempio quella capitalistica,
politica, religiosa, e anche se la tecno-scienza (ma non solo essa) non è ancora in grado di prestare
autenticamente ascolto alla filosofia.
Quel nucleo mette in luce che ogni
Limite assoluto all’agire delfuomo, ci oè ogni Essere e ogni Verità immutabile della tradizione
metafisica, è impossibile; e dicendo
questo non solo autorizza la tecnica a oltrepassare ogni Limite, ma con tale autorizzazione le
conferisce la reale capacità di
superarlo. Non si salta un fosso se non si sa di esserne capaci; e quel nucleo dice alla
tecnica che essa ne è capace. Tra i pochi abitatori del nucleo essenziale
c’è sicuramente il pensiero di
Nietzsche. Ma anche quello di Giovanni Gentile,
la cui radicalità è ben superiore a quella di altre pur rilevanti figure filosofiche, di cui tuttavia
continuamente si parla. Invece su Gentile
il silenzio, in Italia, è preponderante
(sebbene non totale, anche per merito di alcuni miei allievi). All’estero, poi, sia nella filosofia di
lingua inglese, sia in quella continentale,
di Gentile, direi, non si conosce neppure il
nome. La cosa è interessante, soprattutto in relazione al tema filosofia-tecnica a cui accennavo. Infatti,
nonostante i luoghi comuni, la filosofia
gentiliana è un potente alleato della
tecnica, sì che il silenzio su Gentile è un elemento frenante, reazionario, rispetto alla progressiva
emancipazione planetaria della
tecno-scienza. Argomento di primaria importanza sarebbe quindi la
chiarificazione dei motivi che producono
quel silenzio. Qui vorrei però limitarmi - come ho incominciato a dire - al tema, molto più
modesto, riguardante alcune conferme di
tale silenzio e alcune
implicazioni. Per Gianni
Vattimo, sostenitore della filosofia ermeneutica (Heidegger, Gadamer ecc.), l’antirealista,
cioè la critica alla concezione
metafisica della verità sarebbe una scoperta di
Heidegger (Della realtà, Garzanti 2012; p. 100). Si tratta della critica alla definizione di verità come corrispondenza
tra intellectus e res, tra l’intelletto
e la cosa. In tutto il libro Gentile non
è mai citato. Ma ben prima di Heidegger, e con
maggior nitore, Gentile aveva già mostrato (rendendo radicale l’idealismo hegeliano)
l’insostenibilità di quella definizione.
In sostanza egli argomentava - per sapere se
l’intelletto corrisponda alla cosa, intesa come esterna alla rappresentazione che l’intelletto ne ha, è
necessario che il pensiero confronti la
rappresentazione dell’intelletto con la
cosa; la quale, quindi, in quanto in tale confronto viene a essere conosciuta, non è esterna al pensiero,
ma gli è interna. Ciò significa che il
pensiero, per essere vero, non ha
bisogno e non deve corrispondere ad alcuna cosa esterna. Solo che Vattimo si fa guidare, prendendolo
alla lettera, da quell’appunto di
Nietzsche in cui si annota - probabilmente
per studiarne il senso - che non ci sono fatti, ma solo interpretazioni e che anche questa è
un’interpretazione, ossia una
prospettiva che si forma storicamente e che quindi è revocabile, sostituibile. Poiché Vattimo
intende tener ferma questa sentenza di
Nietzsche dovrà dire allora che anche la
critica alla concezione metafisica della verità è un’interpretazione, ossia qualcosa di
revocabile. Capisco quindi che egli
consideri anche la propria filosofìa soltanto
come un’interpretazione rischiosa, una scelta, una volontà le cui
motivazioni sono soltanto decisioni etico-
politiche (p. 53): Come Heidegger, noi vogliamo uscire dalla metafisica oggettivistica perché la sentiamo
come una minaccia alla libertà e alla
progettualità costitutiva dell’esistenza
(p. 122, corsivo mio). In sostanza, come tanti
altri, esclude ogni verità incontrovertibile perché altrimenti libertà e democrazia verrebbero distrutte; ma
in questo modo mostra di considerare
come verità incontrovertibile la difesa
della libertà e della democrazia (la qual cosa è soltanto una bandiera politica o teologica). Oppure -
chiedo a lui e a tanti altri - anche
l’affermazione che la libertà è costitutiva
dell’esistenza è solo un’interpretazione revocabile? En passant, egli è stranamente fuori strada
quando mi attribuisce l’intento di oltrepassare
la metafisica attraverso la
restaurazione di fasi precedenti del suo sviluppo e rifacendomi a
Heidegger. Il quale però sostiene che
l’Essere è evento (contingenza e storicità assoluta, assoluto divenire) e che anche le cose sono avvolte da
questo carattere; mentre i miei scritti
sostengono che ogni cosa è un essere
eterno. E infatti essi indicano qualcosa di abissalmente lontano anche dalla filosofia gentiliana, che
afferma la totale storicità del contenuto
del pensiero (sebbene Gentile differisca
da Heidegger perché, platonicamente, intende il
Pensiero come indiveniente).
Comunque, già l’idealismo classico tedesco, soprattutto quello hegeliano, è ben consapevole
dell’impossibilità che la verità sia
corrispondenza o adeguazione dell’intelletto a una realtà esterna, e tuttavia l’idealismo è una
grande metafisica; sì che la critica a
tale corrispondenza toghe di mezzo solo un
certo tipo di metafisica. Per mostrare l’impossibilità di ogni Limite assoluto, metafisico, all’agire
dell’uomo, e in generale al divenire
delle cose, occorre altro, che, ripeto, è sì presente in Nietzsche e in Gentile (e in pochi altri,
come Leopardi), ma non in Heidegger. Né qui intendo indicare ciò che occorre
e che sopra chiamavo il nucleo
essenziale della filosofia del nostro
tempo. Se Vattimo, che condivide la
critica heideggeriana alla verità come
corrispondenza, su questo punto è
inconsapevolmente d’accordo con Gentile, invece un filosofo tedesco, Markus Gabriel,sostiene ora un nuovo
realismo (che peraltro condivide con
molti altri) al quale forse rinuncerebbe
se conoscesse Gentile. Egli non è d’accordo con
Heidegger, né quindi con Vattimo, ma è d’accordo con Maurizio Ferraris (non più allievo di
Vattimo), che presenta in Italia il
libro di Gabriel II senso dell’esistenza (Carocci editore 2012). Vi si sostiene subito un argomento
che conduce alla tesi seguente: C’è
qualcosa che noi non abbiamo prodotto, e
proprio questo esprime anche il concetto
di verità. L’argomento è che, una volta ammesso che noi produciamo qualcosa, noi però non
produciamo il fatto consistente
nell’esser produttori di qualcosa - il fatto
che dunque è indipendente da noi. Gabriel lascia indeterminato il significato di quel noi
(sebbene egli interpreti in modo a volte
condivisibile l’idealismo tedesco). Ma
l’idealista e quell’idealista rigoroso che è Gentile risponderebbero che, certo, questo o
quell’individuo non producono il fatto
consistente nella produzione umana di
qualcosa, e tuttavia questo fatto è pensato (anche da Gabriel, sembra) e, in quanto pensato, non
può essere, come invece questo libro
sostiene, una realtà indipendente dal
pensiero, ossia da noi in quanto pensiero. Io propongo di definire l’esistenza come
l’apparizione-in- un-mondo, scrive
Gabriel (p. 46). Intendo: l’apparizione di
qualcosa in un mondo. Ma nel suo libro non ho trovato alcun chiarimento sul significato del termine
chiave apparizione. Chi legge quanto
vado scrivendo ne conosce l’importanza. L’apparizione non è il qualcosa (o ente)
che appare (anche se essa stessa è un
ente). Se Gabriel intende che c’è
apparizione di un mondo anche senza che appaia questo o queU’individuo empirico, allora, su questo
punto, sono d’accordo con lui da più di
mezzo secolo. Ma allora si dovrà dire
che ciò che esiste è ciò che appare (e un caso di esistenza è l’apparire in cui tutto-ciò-che-non-appare
appare, appunto, come tutto ciò che non
appare). Ma Gabriel intende così l’apparizione? Per lui ciò che esiste esiste
necessariamente all’interno di un campo
di senso, cioè all’interno di un contesto. Se il motivo è (come mi sembra di capire) che
qualcosa esiste solo in quanto
differisce da ciò che è altro da esso, sì che questo altro è il contesto del qualcosa, sono
d’accordo (ma esortando Gabriel a
rendersi conto che egli, contrariamente ai
suoi intenti, sta sollevando il principio di non contraddizione - ossia il differire dal proprio altro - al
rango di assoluto principio
incontrovertibile). Ma dalla necessità che l’esistente abbia un contesto egli crede di dover
concludere che qualcosa come il Tutto,
la totalità degli enti, non può esistere
perché il Tutto non può avere un contesto, e non può nemmeno contenere sé stesso, giacché è
necessario che il Tutto, in quanto
contenente differisca dal Tutto in quanto
contenuto (pp. 52 ss.). Mi limito a rilevare che, poiché il Tutto è l’apparizione del Tutto (anche per Gabriel
dovrebbe esserlo), allora questa
apparizione contiene sé stessa proprio
perché il Tutto contenente è lo stesso Tutto contenuto: il contenente è insieme il contenuto e il
contenuto è insieme il contenente. Da
gran tempo i miei scritti si sono soffermati su
questo tema come su quello del significato che compete all’affermazione che il nulla è il contesto
del Tutto. (A proposito del tema del nulla
è curioso che Vattimo, per il quale -
come per Gabriel e l’intera cultura del nostro tempo - 263
tutto è contingente, neghi a un certo punto - p. 60 - l’annullamento delle cose. Curioso, dico,
perché senza il loro annullamento e
nullità iniziale non si vede in che possa
consistere la loro contingenza e storicità.) L’idealismo assoluto di Gentile è poi un a
ssoluto realismo, perché il contenuto
del pensiero non è una rappresentazione
fenomenica della realtà esterna, ma è la realtà in sé stessa. Un rilievo, questo, che potrebbe invogliare
Gabriel e i vari neorealisti a studiare
Gentile. Certo, la difficoltà maggiore
è capire il carattere trascendentale del
pensiero, che si è presentato in modo
sempre più rigoroso da Kant all’idealismo tedesco e al neohegelismo di Gentile. L’al di là di ogni
pensiero, l’assolutamente Altro, l’Ignoto,
gli infiniti tempi in cui l’uomo non
c’era e non ci sarà: ebbene, di tutto questo
possiamo parlare solo in quanto tutto questo è pensato. Per questo Gentile afferma che il pensiero non
può essere trasceso e che è esso a
trascendere tutto ciò che si vorrebbe porre al di là di esso e come indipendente da esso. Questo trascendimento è la verità. L’idealistica trascendentalità del pensiero
è stata sostituita oggi dal consenso,
cioè dall’accordo sociale su un insieme di
convinzioni. Insieme a molti altri Popper vede nel consenso il fondamento della verità. È vero ciò su cui la
comunità più ampia possibile è
d’accordo. Anche Vattimo sostiene questo
concetto della verità: per lui il linguaggio, entro cui tutto si presenta, è il linguaggio della comunità,
giacché siamo esseri storici e la
massima evidenza disponibile qui e ora si
costruisce solo con un accordo, che può essere messo in questione e rinegoziato (p. 109). Ma,
daccapo, questa sua affermazione è una
verità incontrovertibile? Oppure che gli
uomini esistano, ed esistano storicamente, accordandosi o discordando, è
soltanto un accordo rinegoziabile?
Rinegoziando, non ci si potrebbe forse trovar d’accordo nel far rivivere la metafisica e altre cose non
desiderate dalla filosofia ermeneutica?
Ma soprattutto a Heidegger (non solo a
lui) andrebbe chiesto come mai, se il suo intento è di prendere le distanze da ogni evidenza oggettiva, la
configurazione dello sviluppo storico
(la sequela delle epoche dell’Essere) finisca
col valere, nel suo discorso, come un’evidenza oggettiva e indiscutibile. La tecnica può riuscire a
porsi alla guida del mondo solo se si è
in grado dimostrare che ormai questo compito non può più essere assolto dalle grandi forze della
tradizione (quali il capitalismo, le
religioni, la politica e la concezione del mondo che sta al loro fondamento). Ma chi può
mostrarlo? Non certo la tecnica e la
scienza. È invece l’essenza
tendenzialmente nascosta della filosofia del nostro tempo a mostrarlo (purché si sappia guardare). Mostra
che non possono esistere quei Limiti
assoluti, indicati dalle forze delle
tradizione, di fronte ai quali la tecnica debba arrestarsi. Anche (ma non solo) per questo la filosofia ha un
carattere decisivo. Di qui l’importanza
di saper cogliere ciò che chiamo essenza
della filosofia del nostro tempo - alla quale appartengono pensatori come Nietzsche e Gentile. Appunto a
questo contesto si riferiva anche il mio
articolo (Corriere della Sera, la
Lettura, 16 settembre 2011), intorno al quale sono intervenuti vari interlocutori. D’altra parte, continuo a ripetere, quell
’essenza è la forma più coerente della
Follia estrema da cui è avvolta l’esistenza
dell’uomo - la Follia del nichilismo).
Ben presto l’uomo si accorge degli ostacoli che limitano la sua volontà. E si convince che il mondo
esista indipendentemente dalla coscienza
che egli ne ha. Questa, la base di ogni
forma di realismo. Se l’uomo è il singolo
individuo umano, anche l’idealismo è una forma di realismo. D’altra parte, il mito, e il
pensiero filosofico della tradizione
(sia pure in modo profondamente diverso) vedono
in quegli ostacoli una forma superiore, più potente, divina, di Volontà, capace di dominare la materia di
cui le cose son fatte o addirittura
capace di produrre ogni aspetto del mondo,
come pensa anche l’idealismo classico, culminante in Hegel, che però
indica i motivi per i quali quella Volontà divina e cosciente non sta al di là dell’uomo, ma gli
è unita. Come Cristo, l’uomo autentico è
Uomo-Dio. Il mondo è prodotto non
dall’uomo singolo, ma dall’Uomo-Dio. Nel pensiero del neohegeliano Giovanni Gentile questa tematica
è fondata nel modo più rigoroso. Marramao
(Il Secolo d’Italia) è limpidamente d’accordo con me circa questo rigore - osservando giustamente, tra l’altro, che uno
dei motivi del disinteresse per Gentile
sta nel suo stile pesante e ottocentesco.
Che però, aggiungo, vanta un nitore
concettuale estremamente superiore a quello del neohegeliani del mondo anglosassone del XIX-XX secolo.
Contrariamente alle loro intenzioni (e
nonostante i loro indubbi meriti), essi
hanno offuscato e complicato la potenza speculativa di Hegel, determinando una reazione realistica non
immune da consistenti ingenuità, che
sarebbe stata di più alto livello se nel
mondo anglosassone la presenza di quella forma di neohegelismo non avesse impedito la presenza
di Gentile. Ma soprattutto - per quanto
riguarda il predominio del realismo
rispetto aH’idealismo - la tecno-scienza si presenta quasi sempre come realismo (assunto come
ipotesi di lavoro o come tesi filosofica
acriticamente accettata). Da parte sua
il realismo filosofico dà spesso per scontato che la filosofia non possa procedere
indipendentemente dalla scienza. In
questo modo accade che la centralità della scienza nel mondo contemporaneo determini il
predominio del realismo rispetto a ogni
altra forma filosofica. Nell’intervento
di Maurizio Ferraris (la Repubblica 18
settembre 2011) si afferma che nella prospettiva che va da Kant a Gentile, noi non abbiamo mai a che
fare con cose in sé, ma sempre e
soltanto con fenomeni, con cose che appaiono a noi. No: questo lo si può dire
di Kant (e propriamente del Kant della
Critica della ragion pura), non di Hegel
o di Gentile. Per Hegel, come per Aristotele, il contenuto della ragione sono proprio le cose
in sé. E a sua volta Gentile ribadisce
che solo se si presuppone
(arbitrariamente) che esistano cose in sé al di là del pensiero, si può affermare che i contenuti del pensiero
siano soltanto fenomeni. Per confutare
l’idealismo Ferraris richiama
l’esistenza delle infinite cose che esistevano prima dell’uomo, gli ostacoli incontrati dall’uomo,
l’imprevedibilità degli eventi.
L’idealista risponde, a ragione, che di tutte queste situazioni non si potrebbe parlare se non
fossero pensate e che quindi esse non
stanno al di là del pensiero, indipendenti
da esso, che invece include nel proprio contenuto gli stessi individui umani che nascono, subiscono quelle
avversità e muoiono. I miei scritti
stanno tuttavia al di là dell’opposizione
realismo-idealismo - e Luca Taddio ha richiamato opportunamente (Corriere 27 settembre 2011) i
loro temi centrali, che nel mio articolo
avevo messo tra parentesi per non
complicare troppo il discorso. Invece Gianni
Vattimo (Corriere 21 settembre 2011) mi
trova troppo affezionato al vecchio argomento antiscettico (se uno dice che non c’è verità sostiene
peraltro che quel che lui dice è vero);
argomento che poi non sarebbe altro, a suo
avviso, che un giochetto logico-metafisico. Un giochetto che però (per richiamare solo due tra molti)
Platone ( Teeteto) e Aristotele ( Metafisica) prendono molto sul serio. Platone scrive addirittura che
quell’argomento è raffinatissimo
(kompsótaton). Ma poi Vattimo dimentica
che quel che qui egli chiama giochetto, nel suo libro (Della realtà) lo chiama invece giusta accusa
di autocontraddizione. (Comunque nel mio
articolo prendevo atto delle sue
frequenti dichiarazioni di non voler dire cose vere, ma di voler soltanto
esprimere desideri. E son d’accordo. Ma
poi, non è proprio per non esser vinto dall’argomento contro lo scettico che Vattimo, per sostenere
la propria negazione della verità,
dichiara di non voler dire una cosa
vera, ma di esprimere soltanto i suoi desideri - sì che quell’argomento ha un’importanza decisiva nel
suo discorso?) Da parte mia ho scritto
invece più volte che quell’argomento non
è sufficiente contro lo scettico non ingenuo, giacché a chi gli obbietta che si contraddice egli può
ancora replicare chiedendo perché mai
non ci si debba contraddire - e qui il
discorso prosegue in un territorio che Vattimo non sospetta neppure. (Sostiene anche che dialogare con
qualcuno significa andare a braccetto
con lui. Ora, vado sì dialogando con
Gentile, con l’essenza del pensiero del nostro tempo, con la storia del nichilismo, con i realisti, ma non
vado a braccetto con loro. Dialogo anche
con Vattimo...) Per Markus Gabriel (Corriere
29 ottobre 2011) il contenuto dei miei
scritti è realismo e quindi, da realista,
scrive che apparteniamo alla stessa famiglia, il cui capostipite fu Parmenide in persona. Infatti, a suo
avviso, Parmenide afferma un essere
indipendente dall’ambiente umano.
Sennonché da più di mezzo secolo i miei scritti vanno mostrando che ciò che Parmenide dice dell’essere
va detto invece degli enti : di ogni
ente va detto cioè che è eterno (ossia è
impossibile - è contraddittorio - che non sia), e quindi è eterno anche ogni ambiente e pertanto anche
Cambiente umano. Negarlo è, appunto, la
Follia estrema del nichilismo, che
identifica l’ente e il niente. Nessun ente può essere stato o può diventare un niente. Se realismo
significa che certi enti potrebbero
esistere anche se non esistesse l’uomo, il realismo è allora una forma di nichilismo (cioè una
tesi autocontraddittoria) - come
l’idealismo. (Né l’uomo potrebbe
esistere se non esistesse un qualsiasi altro ente.) Gabriel aggiunge che
la realtà è parzialmente contraddittoria
(e cioè che il principio di non
contraddizione non regola tutta la realtà) perché gli uomini continuano a contraddirsi. Ma, anche qui, è
più di mezzo secolo che vado
distinguendo il contraddirsi, che invece è
l’impossibile, il necessariamente inesistente (Cfr. sezione terza). Con una metafora: i pazzi esistono -
e sono pazzi e non sani, cioè sono enti
in contraddittorio -, ma (secondo coloro
che si ritengono sani di mente) ciò di cui i pazzi son convinti non esiste. L’esistenza del
contraddirsi non rende dunque parziale
il dominio del principio di non
contraddizione - che peraltro, in relazione al modo in cui è stato storicamente inteso, è ben lontano dal
presentarsi come un sapere assolutamente
intoccabile, ma è anzi una delle
espressioni più decisive del nichilismo.
Qualche chiarimento a proposito delle considerazioni (Giornale di Brescia 4 settembre 2012) che
Massimo Borghesi ha dedicato al mio
libretto-intervista Educare al pensiero,
gentilmente propostomi da La Scuola editrice. Provo a indicare, con un po’ di esagerazione, il
senso complessivo di quanto intendo
dire. Supponiamo che si voglia dare un’idea
della Divina Commedia affermando che essa è una illustrazione dell’Inferno (punto), e quindi,
se non proprio evitando di citare
l’ultimo verso della Cantica - E quindi
uscimmo a riveder le stelle -, mormorandolo appena. (Per me la vita sarebbe cioè infeliceì ) Chiedo scusa per il paragone inverecondo, ma
vorrei sfatare l’impressione complessiva
che si può avere leggendo l’articolo di
Borghesi. Sembra cioè, dal tasto su cui egli batte soprattutto, che il mio discorso consista nel
sostenere che noi tutti siamo
eternamente dannati e con noi tutte le nostre
convinzioni (punto). E invece, se mi è concesso sfruttare la metafora dantesca, nei miei scritti si mostra
che ognuno di noi è infinitamente di più
di quel che crede solitamente di essere:
è lo sguardo eterno in cui eternamente appare lo splendore delle stelle, l’eterno apparire del
firmamento. Sennonché (lo mostro nei
miei scritti), nella luce del firmamento
che noi siamo si fa innanzi questa nostra terra, la quale, sì, corrisponde aH’Inferno del poeta.
Infatti, abitandola, noi ci chiudiamo in
quel che per lo più crediamo di essere e
non vediamo il firmamento che noi siamo (al di sopra del quale sta un Firmamento ancora più
infinito). Per quanto riguarda la parte
dei miei temi considerata dal Borghesi
troverei invece molto più adatte queste parole di Angelus Silesius: Uomo, smetti di esser uomo
se vuoi raggiungere il Paradiso: Dio
riceve solo altri dèi. Oppure, Uomo, se non hai dentro di te il Paradiso, non
vi entrerai mai. Certo anche queste sono
metafore: ogni loro parola indica e
nasconde. Ad esempio è sommamente occultante
Yimperativo (smetti di esser uomo), perché ogni uomo ha già smesso da sempre di essere quell’uomo che
per lo più crediamo di essere, e già da
sempre, necessariamente, ha dentro di sé
il Paradiso che peraltro è destinato a
raggiungere. Ma poi sono le parole uomo Dio, dèi, Paradiso a dover deporre il loro timbro
mitico-metaforico - anche perché sapere
che cosa significhi uomo non è per nulla
più facile che sapere che cosa significhi Dio.
Ancora un chiarimento. Borghesi scrive che il mio è un sistema di pensiero che rifiuta l’idea che
l’uomo possa cambiare. Detta così,
questa sua affermazione altera il senso
del mio discorso, e, anche qui, perché ne mostra soltanto un lato. Proprio nella prima risposta
dell’intervista dico: Invece gli eterni
che costituiscono gli essenti [quindi anche gli
uomini] hanno una essenziale mobilità; tanto che ho scritto da qualche parte che “solo l’eterno può
divenire”. Nel senso che lo spettacolo
che sta davanti, costituito dall’apparire degli
eterni, è continuamente variante, è il variare che dapprima si mantiene all’interno di ciò che chiamo
“terra isolata dal destino” [cioè
l’Inferno di cui parlavo] e poi continua al di là della terra isolata dal destino della verità
[dove il “destino” è l’apparire, che noi
siamo, dello splendore delle “stelle”].
Questo proseguire della variazione degli spettacoli eterni è un proseguire aU’infinito in un percorso che
chiamo “Gloria”. La Gloria è l’infinita
adeguazione del finito all’infinito (p. 18).
Ogni uomo è destinato a compiere questo percorso. Nel suo secondo intervento ( Ibid ., 16
maggio 2012). Massimo Borghesi dà, dei
miei scritti, un’immagine certamente più
adeguata di quella da lui proposta in prima
battuta. In risposta avevo aggiunto qualche osservazione. Ma qualche
altra è forse opportuno che ne aggiunga a proposito di questo suo nuovo articolo. Mi sembra che egli non condivida la tesi che
Inesistenza dell’uomo sia tenebra,
sogno, non-verità, errore. Però a lui,
che è cattolico, posso ricordare che all’inizio del Vangelo di Giovanni si legge: E la luce splende nelle
tenebre e le tenebre non l’hanno accolta.
La luce è innanzitutto la verità; le tenebre
sono l’esistenza dell’uomo nel mondo, e sono
tenebre perché sono sogno, non-verità; errore, negazione della verità. Dicendo questo, delegittimiamo
forse le tenebre, come Borghesi in
sostanza sostiene, criticandomi? Si
delegittima ferrare dicendo che è errare (con tutto ciò che ferrare implica)? Certo, il pensiero filosofico non può
accontentarsi del senso che le religioni
danno alla verità e alla non-verità; ma è
anche chiaro che il cristianesimo non intende render luce le tenebre, ma condurre l’uomo fuori di esse. Si
tratta allora di capire perché, nei miei
scritti, si afferma che ogni uomo è già
da sempre nella luce, al di fuori delle tenebre, e che ognuno lo è nel modo che gli è proprio e che lo
distingue da ogni altro uomo. Ogni uomo
è già da sempre Oltreuomo - anche se questo
suo esserlo è contrastato dalla convinzione
ottenebrante in cui tutti ci troviamo per lo più a vivere. E, ancora, si tratta di capire perché in
quegli scritti si afferma che le tenebre
sono essenzialmente più profonde ed
estese di quelle a cui si riferisce Giovanni, e perché da quel contrasto siamo tuttavia destinati a uscire,
e perché la luce lasci sotto di sé le
tenebre. Borghesi dice che il mio discorso è
un dualismo. E allora? Questo suo dire è solo una descrizione, non una confutazione. Ma la sua
descrizione è ancora alterante - cioè mi fa dire cose che non ho mai detto -, soprattutto quando
afferma che per me la vita dell’uomo nelle tenebre è l’inutile affaccendarsi di un formicaio. Ancora una
volta, vorrei chiedere a Borghesi: ma la
vita degli uomini che pensano soltanto
al mondo (alle tenebre di Giovanni), e non a
Dio, non è appunto, secondo il cristianesimo, l’inutile affaccendarsi di un formicaio? Tuttavia preferisco ricordare che il sogno
nel quale consistono le tenebre di cui
parlano i miei scritti non è quel vagare
delle formiche che per chi non sa che cosa sia un formicaio è senza senso, un inutile
affaccendarsi. Il grande sogno si svolge
anch’esso secondo la necessità del destino
(come peraltro lo stesso mio critico riconosce); e con un ritmo e secondo una struttura che in molti ma
molti miei libri sono andato indicando,
chiamandola storia del mortale (ossia
dell’abitatore del sogno). La follia che produce il grande sogno è la persuasione che le cose si
strappino da sé e divengano altro,
invadendolo, dividendolo, spezzandolo.
Quindi la follia sta al fondamento di ogni volontà di far diventar altro le cose. E anche qui si tratta
di capire perché è necessario che la
follia si presenti dapprima nei miti, poi nella
storia della razionalità teorico-pratica dell’Occidente, e infine nella distruzione di questa razionalità e
nella progressiva dominazione planetaria
della tecnica. È necessità che nelle
tenebre si proceda illuminati dalla luce di Lucifero. L’autentica educazione è il linguaggio che
mostra tutto questo, e non invita a
incrociare le braccia (anche il
rinunciare a volere, sappiamo, è un volere), ma mostra che cosa, in quanto abitatori delle tenebre, i
popoli sono destinati a volere. Altre volte Borghesi si è occupato dei miei
scritti. Anni fa, su 30 Giorni, ebbe a
scrivere che Severino su un punto ha
ragione: la tecnica è l’orizzonte assoluto del nostro tempo.
Ringraziandolo, con molto ritardo, per aver salvato uno dei miei punti, osservo che non per caso la
tecnica è l’orizzonte assoluto del
nostro tempo, ma lo è per la necessità che regola lo sviluppo delle tenebre, ossia lo sviluppo
della struttura qui sopra indicata. Se
la si studia, si può constatare che,
nelFInferno dantesco, non aveva torto il Diavolo a dire al suo interlocutore: Tu non pensavi ch’io loico
fossi. La vita dell’uomo incomincia con un Rifiuto. La vita cosciente, dico, cioè quella in cui il mondo
si manifesta. Tale Rifiuto nega che il
giorno sia notte, l’acqua aria, gli alberi
stelle, il freddo caldo, la vita morte: nega che qualcosa sia altro da ciò che esso è. Già Platone avverte che
questa negazione è presente anche nel
sogno e perfino nella pazzia. Nei primi
decenni del Novecento il sociologo-etnologo Lévy-Bruhl tende invece a sostenere la tesi che nella mentalità
primitiva quel Rifiuto è assente o
quasi. Bergson, Durkheim, Mauss mostrano
in molti modi l’insostenibilità di questa tesi. E infatti come sarebbe possibile, per l’uomo,
compiere il gesto più semplice, ad
esempio bere dell’acqua, se la mentalità
primitiva credesse che l’acqua sia pietra (o fuoco, aria)? Anche il primitivo può vivere perché si
rifiuta di crederlo. Tale Rifiuto sta
all’origine e alle fondamenta della vita
umana, la domina e la comanda: tutte parole, queste, che corrispondono all’antica parola greca arché,
che viene tradotta anche con principio.
Già per la filosofia greca il Rifiuto
che qualcosa sia altro da sé è Yarché di tutta la conoscenza. Ma la filosofìa intende il
Rifiuto originario in un modo
radicalmente nuovo. Prima di essa il Rifiuto è un voler negare che il giorno sia notte, l’acqua
pietra, e così via. La filosofia sostiene
che questa negazioni non sono
semplicemente un volere, ma un sapere assolutamente non smentibile: il sapere che sta al fondamento
di ogni altro sapere e di ogni agire e
che quindi è la verità originaria. Aristotele
dice appunto che tutte queste negazioni sono espresse da un’unica arché, che è la più salda di tutte
le conoscenze. Più tardi questa arché
sarà chiamata principio di non
contraddizione. Più tardi
ancora, tuttavia, varie forme del pensiero filosofico riterranno che il
tentativo di separare questo principio
dalla volontà, facendone la suprema verità
incontrovertibile, è destinato a fallire. Ad esempio lo ritengono Nietzsche e Dostoevskij, e prima di
loro Leopardi e (secondo alcuni) Hegel.
Lo ritiene gran parte della filosofia
contemporanea; e qualcosa di simile accade (sia pure con vistose eccezioni) nelle scienze, nell’arte,
nella coscienza religiosa. Popper rileva
sì che senza il principio di non
contraddizione crollerebbe l’intero edificio della scienza: tale principio è il fondamento dell’atteggiamento razionale; sennonché, per lui, ciò che fa scegliere tale
atteggiamento è una fede irrazionale, e
quindi è innanzitutto il principio di
non contraddizione a esser dominato e guidato da una volontà (fede) senza verità. 1 Al di sotto
della propria maschera tale principio è
in effetti, nelle sue diverse
configurazioni e formulazioni storiche, un grande dogma, è appunto la volontà che le cose stiano nel
modo da esso prescritto. (Anche la
filosofia ha sostanzialmente trascurato
l’unico grande tentativo, compiuto da Aristotele di sottrarre quel principio all’arbitrio della volontà.)
Tale principio serve certamente a
vivere, rileva Nietzsche, ma che una cosa serva e sia utile non significa che essa sia vera. Ma tutta la vicenda che abbiamo sin qui
sommariamente richiamata - la storia
cioè del Rifiuto originario - copre e
nasconde qualcosa di essenzialmente più profondo e decisivo. Da un lato copre e nasconde il Rifiuto
autentico, ossia l’autentica negazione
che le cose siano altro da ciò che esse
sono: il Rifiuto che dunque non è né volontà, né il fallito tentativo filosofico di liberare il Rifiuto
dalla volontà. Dall’altro lato quella
vicenda copre e nasconde il sapere più
alto. Esso dice che proprio perché nessuna cosa può essere altro da ciò che essa è (proprio perché ogni
cosa è sé stessa), proprio per questo ogni cosa è eterna. Ogni cosa -
dunque ogni stato di cose, ogni stato
del mondo e dell’anima, ogni situazione
ed evento, e il contenuto di ogni istante del tempo. La teoria della relatività afferma sì che
ogni stato del mondo (ossia del
cronotopo quadridimensionale) è eterno,
ma non lo afferma perché ogni cosa non può essere altro da sé: lo afferma invece sulla base della logica
scientifica, che è ipotetica, e quindi
controvertibile, falsificabile. Anche la
teoria della relatività appartiene alla vicenda che copre e nasconde sia il Rifiuto autentico, sia
YEternità (anch’essa da intendere
autenticamente, cioè in senso essenzialmente
diverso da quello che le compete lungo tale vicenda). Ci si è rivolti da tempo, e procedendo da
prospettive diverse, ai miei scritti,
che indicano il senso autentico del
Rifiuto e delfEternità come un dito indica la luna. Restando in debito, verso molti miei critici, di una
risposta adeguata alle loro
osservazioni, mi limito qui a richiamare alcuni degli interventi più recenti. Suggestive e
ricchissime le indagini contenute nel
sesto tomo di Filosofia e idealismo di Gennaro
Sasso (Bibliopola 2012). Che termina il suo libro con uno struggente Congedo dai suoi lettori. Vorrei
invitare Sasso a rimuoverlo, quel
congedo, a non restargli fedele, innanzitutto
perché egli ha ancora molto da dire, e poi anche perché possa continuare il nostro colloquio - che
generosamente, anche in queste sue
pagine, considera importante per lo sviluppo delle sue ricerche. Egli sa bene che cosa intendo
quando parlo del senso autentico del
Rifiuto e delfEternità. Lo sa bene, e
sostanzialmente lo condivide, anche Leo¬
nardo Messinese, che dopo altri due libri recentemente dedicati ai miei scritti, pubblica ora Stanze
della metafisica. Heidegger, Lowith,
Carlini, Bontadini, Severino (Morcelliana
2013) e Né laico, né cattolico. Severino, la Chiesa, la filosofia 278
(Dedalo 2013). Messinese è un pensatore, e sacerdote, che tenta acutamente e coraggiosamente di porre
la luna, indicata dal mio dito, alla
base di ogni sapienza. Un tentativo
compiuto anche da Francesco Totaro nel suo importante volume Assoluto e relativo. L’essere e il suo
accadere per noi (Vita e Pensiero 2013).
Molto interessante e ricco di spunti
anche il modo in cui Nello Barile, nel suo Iperparmenide. Scienza, cultura e comunicazione. Oltre il
postmoderno (Mimesis 2012) si rivolge
alla luna e al mio dito. Carlo Sini
scrive invece che, sì, io lo costringo ad
arrendersi (perché lo colgo in contraddizione), ma che egli può replicare dicendo: Sì, mi contraddico, e
allora?! (La verità è un’avventura,
GruppoAbele 2013). Allora, rispondo, se
non gli importa contraddirsi non gli importa che la verità non sia un’avventura e nemmeno che ogni
affermazione contenuta in questo e negli
altri suoi libri sia la negazione di ciò
che essa afferma. Sì che ad esempio, quando egli scrive che noi siamo quel che abbiamo e che per il fatto
stesso di averlo siamo destinati a
perderlo, egli è disposto a contraddirsi e a
riconoscere che noi non siamo quel che abbiamo e non siamo destinati a perderlo. Certo, se si ha
presente (come mi sembra che accada a
Sini e a tanti altri) quella forma dogmatica dove il principio di non contraddizione è la
semplice volontà che il mondo non sia
contraddittorio, allora - se la cosa serve, se è vantaggiosa, se rende vincenti - ci si può
certo disinteressare del proprio
contraddirsi. A uno che gli aveva fatto notare che stava contraddicendosi, Stalin rispose
appunto: Sì, compagno, mi contraddico, e
allora?!. Raffinato e penetrante come
gli altri scritti di Alessandro Carrera,
anche La consistenza della luce. Il pensiero della natura da Goethe a Calvino (Feltrinelli
2010). Scrive Carrera che questo suo
saggio fa parte di un trilogia incominciata con
La consistenza del passato: Heidegger, Nietzsche, Severino (Medusa 2007), dove si esamina, dopo Heidegger
e Nietzsche, la radicale confutazione,
da parte di Severino, di ogni ipotesi
heideggeriana, nietzscheana o altrui, in base alla quale il passato sparirebbe nel non essere o non
potrebbe sopravvivere se non manipolato
dal presente e per i fini del presente
(p. 181). Sì, la consistenza del passato è implicata dall’Eternità di ogni cosa. Non nel senso che
questa luce che viene dalla finestra
debba esistere in ogni tempo, ma nel senso
che il fluire del tempo non porta via con sé, nel nulla, questa luce, che invece è, eterna - e che, sì, ora è
già scomparsa, ed è un passato, ma come
ogni altra cosa è destinata a ritornare. Perché - mi domando, e domando a
Severino - la tecnica come capacità
indefinita di realizzare scopi (capacità velata di astratto e generico) sarebbe destinata a
soverchiare la tecnica della forza, che
è immanente al diritto e che accompagna ogni
norma con la protezione di atti coercitivi? Perché quella volontà di potenza è più potente di questa? È
la domanda che Natalino Irti mi rivolge
anche nel suo libro più recente L’uso
giuridico della natura (Laterza 2013) che, egli ricorda, prolunga la pluridecennale discussione tra
noi due sul tema della tecnica. E la
prolunga in modo quanto mai felice,
innanzitutto per l’importanza di queste pagine. Dedicate a me nella concordia discors del pensiero. Lo
ringrazio di cuore. Con altrettanta
generosità l’eminente giurista rileva di quanto
si sia ridotto il suo sentirsi discorde. Rimane però quella domanda. Da lui rivoltami altre volte e a cui
altre volte ho risposto. Dev’esserci
quindi qualcosa che inceppa l’intesa, e
che provo a snidare. Accennerò poi alla direzione delle motivazioni che costituiscono l’organismo
della risposta (attendendo che Irti le
consideri). Il mio discorso sulla
tecnica non indica uno stato di cose già
in atto, ma una tendenza (non priva di resistenze): all’interno delle diverse forme di tecnica è
oggi in via di formazione il progetto
che ha lo scopo di aumentare senza
limiti la capacità umana di realizzare scopi, di dominare il mondo. Anche ma non solo per questo vado
scrivendo che la tecnica, in quanto è
tale progetto, è destinata a prevalere
sulle forme di tecnica che a esso si oppongono. (La destinazione si riferisce al futuro.) Questa
capacità è velata di astratto e di
generico (come scrive Irti), ma solo nel senso
che oggi l’uomo non può conoscere concretamente e specificamente le proprie capacità future. La
sua volontà vuol diventare sempre più
potente. Soprattutto oggi, nel tempo in cui i Limiti filosofico-religiosi posti
dalla Tradizione all’agire umano vanno
mostrando, soprattutto all’interno del
pensiero filosofico, la loro impotenza pratica e concettuale. Volontà di potenza e tecnica sono sinonimi;
ma la Tecnica che progetta Fincremento
senza Limiti inviolabili della propria
potenza differisce essenzialmente da tutte le
forme di tecnica in quanto sottoposte a quei Limiti e che pertanto le si oppongono. Differisce da esse,
spingendole altrove, ma agendo al loro
interno. Si chiamano economia, politica,
morale, diritto, arte, le stesse discipline scientifiche (fisica, biologia, astronomia ecc.) e le tecniche
da esse guidate (apparati industriali,
militari, burocratici, sanitari,
scolastici ecc.). Anche il capitalismo è ancora, prevalentemente, una forma della Tradizione:
pone come Limiti inviolabili (e pertanto
come verità indiscutibili e naturali)
l’uomo in quanto individuo isolato e libero, la
proprietà privata di beni e mezzi di produzione, il mercato come dimensione che rende possibile il
profitto e la sua crescita, la
concorrenza e, anche, il sistema di leggi che
garantiscono la perpetuazione di questi Limiti, il sistema cioè che nelle società capitalistiche viene
chiamato diritto tout court. Invece, Irti è ancora convinto che, nel mio
discorso, quella tra la Tecnica e le
altre forme di volontà di potenza sia la
contrapposizione tra una certa particolare forma di tecnica, quella fisico-matematico-biologica, e le
altre forme, tra cui il diritto (la
volontà capace di regolare altre volontà). E,
appunto, si domanda perché debba prevalere Luna piuttosto che l’altra. Sennonché, dico destinata a
prevalere non quella forma particolare
(sebbene oggi emergente), ma la Tecnica in
quanto progetto di incrementare all’infinito la potenza presente nelle tecniche esistenti e che mira
a porre tale incremento come la norma suprema - la norma che è il più radicale superamento delle Norme e Limiti
imposti dalla Tradizione. Un progetto
dunque che non sta sopra la testa di
quelle forme (astratto e generico), e non è nemmeno la loro semplice somma, ma tende a esser sempre più
presente e dominante in ognuna (e,
certo, in modo più avanzato, nella forma
fisico-matematico-biologica) e a distoglierle dalla loro soggezione ai Limiti inviolabili che via via
sono stati loro imposti. Nel diritto quei Limiti si incarnano nel
cosiddetto diritto naturale. Che però
tende a essere sempre più emarginato
dalla convinzione che il diritto sia positivo, posto storicamente dalle volontà vincenti; non,
quindi, espressione di una volontà che
rispecchia una immodificabile Legge
Naturale. Nel mondo occidentale (ma ormai sull’intero Pianeta, sia pure in modi molto differenziati
e spuri) vincente è ancora, e nonostante
le sue crisi, la volontà capitalistica, ed
essa si impone come la Legge, lasciando sullo sfondo, quasi dimenticato, quel carattere positivo della
legge che sta soppiantando la pretesa
del diritto capitalistico, di essere naturale.
La forza e la capacità coercitiva sottolineate
da Irti non competono cioè a una pura volontà giuridica separata
dalla volontà vincente, ma alla capacità di quest’ultima di rendere operante la forza e
il carattere coercitivo della volontà
giuridica. (La contrapposizione tra
potere politico e potere giudiziario - o quella dove un gruppo economico è sottoposto al giudizio della
magistratura - si svolge completamente
all’interno dell’orizzonte giuridico che
tutela i valori dell’economia di mercato). La volontà che progetta l’incremento
indefinito della potenza non è quindi,
come invece Irti mi obbietta, astratta
disponibilità, generica forza di raggiungere risultati, indistinta e indefinita varietà degli scopi, nome
con funzione riassuntiva - mentre il diritto avrebbe il vantaggio di essere decisione che impone certi scopi
escludendone altri (pp. 53-54). Le cose
non stanno così. Le decisioni del
diritto sono le decisioni del capitale, o
dell’economia pianificata, cioè delle forme di volontà di volta in volta vincenti. Le volontà di potenza che
hanno come scopo la potenza di certuni e
non di altri, di certe concezioni del
mondo e non di altre, di certe forme di ricerca e non di altre, non possono avere come scopo la
crescita senza limiti ed esclusioni
della potenza, ma la ostacolano. (Il socialismo
reale ha ostacolato lo sviluppo tecnologico dell’Urss; il capitalismo evita la produzione dei beni che,
pur vantaggiosi per l’uomo o l’ambiente,
non avrebbero mercato, e alimenta forse
quella relativa scarsità delle merci senza la quale, cioè con la loro abbondanza e la caduta della
domanda, non avrebbe nulla da vendere. E
in ognuno di questi casi vengono
ostacolate forme di potenza, quali, appunto, la tecno-scienza, il benessere dell’uomo e dell’ambiente, il
superamento della scarsità.) Perché, dunque - riformulo così la domanda
di Irti - la Tecnica è destinata a
prevalere sulle forme particolari di essa
nella misura in cui la ostacolano e che le si oppongono sia per il loro chiudersi nella loro particolarità,
sia per Tesser ancora soggette ai Limiti
della Tradizione? E quindi: perché la
Tecnica è destinata a prevalere anche sul diritto in quanto le si oppone nel senso ora indicato (visto che,
nella misura in cui sono invece il
terreno in cui prende piede la Tecnica in
quanto progetto di potenziare alTinfinito potenza, la Tecnica non prevale su di esse, emarginandole, ma se
ne serve - o prevale nel senso che quel
progetto è lo scopo che regola i loro
scopi particolari)? Rispondo così. 1)
Oggi la tecnica (tecno-scienza e apparati) si presenta ancora come un mezzo,
anzi come il mezzo più potente di cui si
servono le volontà di potenza dominanti e tra
di loro in conflitto: stati, concezioni politiche e religiose e, soprattutto la volontà oggi più potente, il
capitalismo. 2) Ma nella tecnica si sta
facendo largo, ravvivandola, la Tecnica in
quanto progetto di incrementare ah’infinito la potenza, oltre ogni Limite assoluto. 3) Il fondamento di
questa negazione è l’essenza - il sottosuolo
essenziale - del pensiero filosofico del
nostro tempo. 4) Nel conflitto, ogni volontà può prevalere sulle altre solo se rafforza sempre di più il
mezzo tecnico di cui dispone. 5) Tale
rafforzamento è ulteriormente rafforzato
dal progressivo prender piede, nella tecnica, del progetto della Tecnica di aumentare all’infinito la potenza
- e tale progetto è a sua volta
rafforzato dalla volontà, quella capitalistica in testa, di potenziare il mezzo di cui essa
dispone. 6) Pertanto lo scopo delle
volontà dominanti si trasforma. Infatti,
riferendoci ora al capitalismo, esso - e quindi il diritto che lo esprime e sancisce - tende a non aver più
come scopo primario l’incremento del
profitto, ma la sintesi tra tale
incremento e il rafforzamento del mezzo: il rafforzamento che nella sintesi tende a occupare sempre più
spazio rispetto a queU’incremento. 7) In
tal modo la tecnica, da mezzo, tende a
diventare lo scopo di quelle volontà - che quindi si trasformano e la cui configurazione
originaria tramonta. La tecnica tende
dunque a diventare lo scopo del capitalismo e
del diritto capitalistico. E in questa tendenza consiste la destinazione della tecnica al suo prevalere
su di essi e al dominio del mondo. 8) A
questo punto si tratterebbe di
richiamare il senso autentico di tale destinazione (cfr. ad es. E.S., La tendenza fondamentale del nostro
tempo, Adelphi 1988, o Capitalismo senza
futuro, Rizzoli). Ma, dicevo all’inizio,
questo è solo un cenno alla direzione
della risposta. Pieno di debiti nei Loro confronti, non mi è
concesso nemmeno di esordire in modo
originale. Perché anch’io, come tutti
coloro che mi hanno preceduto, debbo
incominciare con i ringraziamenti. Soprattutto io devo farlo - e, certo, mi è caro farlo. Mi rivolgo innanzitutto al dipartimento di
Filosofia, all’università di Venezia e a
chi ha preso questa iniziativa: i
professori Mario Ruggenini e Davide Spanio; e poi c’è l’appoggio finanziario dato a questa
iniziativa dal professor Luigi Ruggiu in
qualità di presidente del progetto Prin. Mi ha
fatto piacere anche quella sorta di preconvegno, organizzato dal professor Luigi Tarca, costituito da una
serie di seminari dedicati ai miei
scritti. Il professor Ruggiu ha anche
opportunamente sottolinea-to il senso
centrale di quanto è venuto fuori questa mattina, e cioè l’implicazione tra quello che a qualcuno
del pubblico può essere sembrato un
discorso.... algebrico, astratto, filosofico
(nel senso del formalismo filosofico), e le
implicazioni che invece tale discorso ha con la dimensione politica. Qui davanti ho appunto l’amico
professor Pietro Barcellona e l’amico
Natalino Irti, nei cui interventi questa
dimensione è emersa in modo più visibile. Mi è capitato altre volte di essere oggetto
di incontri come questo, e mi sono
sempre sentito inferiore a coloro che li organizzavano e vi partecipavano. Vivo
la qualità etica di chi festeggia come
decisamente superiore alla mia condizione di
festeggiato. E questo rende particolarmente ammirevoli i festeggianti. D’altra parte considero questo
nostro incontro come manifestazione
dell’amore per la filosofia. Perché è
chiaro che, attraverso quanto si è detto intorno al mio discorso filosofico, emerge soprattutto
l’interesse profondo per la filosofia da parte di coloro che di questa
università costituiscono un vanto. Il
dipartimento di filosofia
dell’università di Venezia anche oggi spicca nel panorama culturale italiano, dato che (mi pare di aver
dichiarato da qualche parte) anche per
merito del dipartimento di filosofia di
Venezia oggi l’Italia ha poco da invidiare alla filosofia straniera. L’Italia ha oggi pensatori di
altissimo livello. Anche per questo il
fatto di trovarmi qui festeggiato da una parte di loro mi riempie di gioia. La stessa che mi è
data dalla presenza di pensatori che,
venendo da altre università, contribuiscono
ad alimentare la ricchezza filosofica del nostro Paese. Penso di non avere dimenticato nulla. Devo
però un abbraccio al professor Spanio,
in particolare, per l’amicizia con la
quale si è impegnato per la realizzazione di questo nostro convegno, e in modo a mio avviso
splendido: abbiamo sentito voci quanto
mai rilevanti e variegate. Come quelle ben
note, oltre a quelle dei professori Barcellona e Irti, dei professori Vitiello, Messinese, Berti,
Visentin, Perissinotto e di tutti quelli
che hanno parlato. Scusino se non li nomino
tutti. Mi ricordo che qualche giorno fa mi hanno fatto un’intervista dove o si elencavano i
partecipanti a questo convegno, e allora
andava via tutto lo spazio per l’intervista,
oppure bisognava rassegnarsi a non nominare nessuno, fuorché Italo Valent, che ci è mancato e che
è stato ricordato dal professor
Perissinotto, al quale rinnovo anche per questo i miei ringraziamenti in quanto egli è
direttore del dipartimento di
filosofia. Vorrei riprendere almeno uno
spunto tra quelli che mi sono stati suggeriti;
quello relativo all’implicazione indicata
dal professor Ruggiu, alla quale ho già accennato. E vorrei rivolgermi soprattutto ai non addetti ai
lavori, perché si può avere avuto
l’impressione - avevo incominciato a dire - di
una discrasia tra il tecnicismo filosofico e i problemi
pratico-politici. Come eliminare questa impressione? Tento di rispondere.
Che noi si viva nel mondo, e che il mondo sia fatto così come crediamo - mondo della natura e
dell’uomo, e cioè con una struttura
sociale nella quale esistono forze politiche,
economiche, religiose, e industrie, fabbriche, Europa, Russia, America e via dicendo, che vanno storicamente
sviluppandosi -, ecco che noi si viva
nel mondo è la grande fede alla quale
nessuno di noi vuole rinunciare. Noi ci troviamo ad avere questa fede. E non possiamo rinunciare a
credere che ad esempio ci troviamo a Ca’
Dolfin e che stiamo parlando di
filosofia, e che Ca’ Dolfin è a Venezia, e Venezia è in Italia, alfinterno di un sistema internazionale ecc.
Ecco, questa fede (come ogni fede) è un
attribuire un valore di verità (usiamo
così alla buona la parola verità) a ciò che in quanto contenuto di fede non ha verità. E a cui,
però, noi non sappiamo rinunciare; non
sappiamo saltare al di fuori della
nostra fede. Allora, una parte
degli interventi - che qui ho sentito con
estremo piacere e dai quali ho imparato moltissimo e che terrò presenti anche nel loro aspetto critico
- si riferisce al contenuto di questa
fede, al centro del quale sta la nostra
civiltà occidentale, la quale, nell’interpretazione, ha uno sviluppo e un suo farsi progressivamente
coerente. Coloro che vedono la storia
del mondo come un susseguirsi di frammenti
caoticamente giustapposti non vedono invece l’unitarietà dello sviluppo, l’implicazione tra le varie
fasi dello sviluppo. Allora, una prima
parte degli interventi è consistita (penso
soprattutto a quello di Barcellona e di Irti, ma poi anche a quello di Goggi) nel mettere in luce il
calcolo, presente nei miei scritti,
della coerentizzazione delVOccidente. L’intento qui è di stabilire quali siano i motivi che spingono
dalla forma iniziale della civiltà
occidentale fino alla forma attuale, che è quella della civiltà della
tecnica. Vorrei evitare che qualcuno
dei non addetti ai lavori non si fosse
raccapezzato sentendo, da un lato, ripetere così insistentemente l’affermazione dell’eternità
dell’essente e, dall’altro lato (anche
ieri il professor Spanio accennava a
questa tematica), ad aver sentito la mia simpatia per le forme più radicali della coerentizzazione della
storia dell’Occidente. Per quanto
riguarda questo secondo tema, chiederei il
permesso di essere un po’ immodesto - ma visto che siamo in un clima in cui la mia modestia è stata messa
duramente alla prova, mi rendo conto di
chiedere di incrementare questa prova,
mostrandomi quindi ancora un po’ più immodesto.
Allora posso dire che un lato del discorso filosofico del sottoscritto (ma è anche questa una fede: che
io abbia scritto dei libri fa parte di
quella fede nel mondo di cui parlavamo
prima) ha dato una mano a ciò che ho chiamato coerentizzazione della storia dell’Occidente.
Che, come è venuto in chiaro da parte
degli amici che hanno parlato, è la
coerentizzazione della Follia estrema.
Nei laboratori ci sono scienziati che per accertare le capacità distruttive di un virus ne
favoriscono lo sviluppo massimo, fino a
che il virus mostra tutte le sue potenzialità.
Una parte del mio discorso filosofico - qualcuno di loro prima richiamava i miei scritti su Eschilo,
su Leopardi, su Gentile - tratta di
quelli che sono i grandi nemici della verità.
Ma la verità non è un qualche cosa che sia grande indipendentemente dalla grandezza della
negazione della verità. La verità non è
qualcosa di grande indipendentemente
dalla grandezza dell’errore. Senza la grandezza dell’errore non c’è grandezza della verità. Se la verità è
tale (è un po’ il tema di cui parlava
l’amico Vitiello questa mattina) in quanto è
negazione dell’errore, allora è la verità stessa a guadagnare forza
dalla concretezza dell’errare. E se la storia
dell’Occidente non è portata fino alle sue ultime conseguenze (consistenti nella dominazione
definitivamente vittoriosa della civiltà
della tecnica), se ci si ferma a metà strada rispetto a questo processo di coerentizzazione, allora
la stessa energia negativa della verità
risulta astratta. Da questo punto di vista
potrei dire che tutte le osservazioni critiche che mi sono state rivolte così amabilmente da Berti, Vitiello,
Visentin (chiedo scusa se in questo
momento non mi ricordo altri nomi, ma ci
sono), queste osservazioni critiche sono contributi alla verità. Nel senso, appunto - mi ripeto -, che la
negazione dell’errore esige la
concretezza dell’errore. Un primo lato
di quanto abbiamo sentito in queste due
giornate riguarda quello che sto chiamando coerentizzazione dell’errore, alla quale - ecco ripresentarsi
l’immodestia - credo di aver dato una
mano. Qualche amico mi dice: guarda che
il tuo Nietzsche (adesso l’immodestia cresce ancora) è una tua invenzione. Ma siccome penso che quel
cosiddetto mio Nietzsche sia in grado di
eliminare la forza teoretica della
grande tradizione dell’Occidente, se il Nietzsche storico non fosse stato o non fosse congruente col
Nietzsche quale appare nei miei scritti,
allora sarebbe il Nietzsche che appare nei miei
scritti ad avere quella capacità di eliminare la tradizione dell’Occidente. Se fosse falsa la mia
interpretazione, oltre che di Nietzsche,
di Leopardi e di Gentile, be’ amen; vorrebbe dire che non son stati loro a essere vincenti
rispetto al passato dell’Occidente, ma
sono quel Leopardi, quel Nietzsche, quel
Gentile che emergono nell’interpretazione che il sottoscritto ne ha dato. Si dovrebbe dire che se fossero
qualcosa di diverso (ma non lo credo)
peggio per loro: il loro discorso non
riuscirebbe ad aver partita vinta sulla tradizione dell’Occidente, cioè non riuscirebbe a
mostrare l’impossibilità degli eterni e
dei divini che tale tradizione ha evocato, mentre questa capacità l’hanno il
Leopardi, il Nietzsche, il Gentile che
si manifestano nell’interpretazione che ne ho dato (e che finora non mi sembra che debba cedere il
passo a un’altra). E qui siamo al centro
della nostra riflessione, perché gli eterni
dell’Occidente non sono gli eterni a cui si rivolgono i miei scritti. Siamo cioè al secondo dei due lati
del mio discorso filosofico. Dicevo
all’inizio: noi tutti abbiamo fede nell’essere
al mondo, nel mondo così come crediamo che esso sia. È probabile che una parte di Loro dirà: questo
è il mondo, quello in cui crediamo noi è
il mondo vero; e quelle che sentiamo dai
filosofi sono favole, fantasie. Ma a chi si ferma alla e nella fede nel mondo, va detto che la
fede, in quanto tale, non giustifica
l’affermazione dell’esistenza del proprio
contenuto. Se lo facesse non sarebbe più fede. Se chi ha fede lo capisce, allora la sua fede tende a
coincidere con lo scetticismo ingenuo.
Egli pensa: non c’è altro che questo
mondo in cui credo e da cui non mi so staccare, ma di cui non so dare ragione. E invece il mondo della fede è circondato
dalla non-fede, cioè dalla verità. E
solo per questo può esser qualificato (con
verità) come mondo della fede. La fede non sa di esser fede. È nella verità che, in modo incontrovertibile,
appare l’esistenza della fede, ossia del
mondo isolato dalla verità. Discuto questo
tema anche con gli amici cattolici (tanto interessante, la proposta del professor Messinese, di
valorizzare la prima fase, la chiamava
così, del mio lavoro filosofico). Ma l’uomo non è semplicemente e innanzitutto una fede (sia
pure altissima), ma è innanzitutto ben
di più, ossia è la manifestazione della
verità. Ci stiamo movendo lungo
il secondo lato del mio discorso
filosofico. Gli interventi dei professori Vitiello, Visentin, Berti, e altri, riguardavano appunto questo
secondo lato. Con un’altra metafora
geometrica, i due lati corrispondono a due cerchi concentrici. Il cerchio
inscritto è la nostra fede nel mondo. E
a questo cerchio è stata dedicata una parte del
convegno. Al cerchio circoscrivente, cioè alla non-fede, a quell’essere nella verità a cui accennavo
prima, è stata dedicata l’altra parte. E
abbiamo incominciato con quest’altra
parte, con la relazione del professor Visentin. Mi rendo conto che rispetto alle accurate
articolazioni concettuali che abbiamo
sentito, queste mie considerazioni sono
molto generiche. Qualche osservazione,
quindi, va fatta a proposito delle
obbiezioni. Possono avere un carattere problematico come quelle, mi sembra, del professor Vitiello:
mostrano delle difficoltà, presenti
nelle mie tesi, senza pretendere di essere,
esse, inconfutabili. Per considerare il modo corretto di impostare l’obbiezione a ciò che chiamo struttura
originaria del destino della verità,
direi che rispetto a questa struttura la
situazione è diversa da quella che in campo scientifico si produce quando si vuole assiomatizzare un
certo tipo di discorso, per esempio
quello matematico. Nella cosiddetta aritmetizzazione
della matematica, l’intera complessità del
sapere matematico è ricondotta all’aritmetica. È un’operazione problematica, perché esiste
quell’impresa straordinaria di Godei,
dove si mostra che partendo da un certo
gruppo di postulati, o di ipotesi - che vengono assunti senza giustificazione, e che quindi non hanno
un fondamento incontrovertibile, come
appunto accade per i postulati
dell’aritmetica -, non si può escludere che lo sviluppo di tali postulati conduca a una contraddizione. Cioè
non si può escludere che la matematica,
approfondendo il contenuto semantico dei
propri postulati, venga ad accorgersi della
contraddittorietà dei propri contenuti. Ecco, se si imposta in questo modo il discorso intorno alle
obbiezioni alla struttura originaria del
destino, allora ci si muove impropriamente, perché la mia più volte citata
Struttura originaria (che si rivolge
appunto a quella struttura) intende appunto
escludere una situazione concettuale in cui si parta da postulati, che sono ipotetici, probabili,
problematici ecc... È chiaro che
partendo da postulati assunti semplicemente in
base alla loro congruenza, ossia al loro non presentarsi come immediatamente tra loro contraddittori, è
possibile che si deducano conclusioni o
teoremi in sé stessi contraddittori.
Sennonché, in relazione alla struttura originaria del sapere, cioè del destino della verità, è impossibile
che si pervenga a mostrarne la
contraddittorietà. Qui la situazione è del tutto diversa da quella gòdeliana, perché il
fondamento è l’ incontrovertibile e
partendo dall’incontrovertibile è
impossibile dedurre qualcosa che sia una negazione di tale fondamento. Non ci si può appoggiare a questa
base in modo da sviluppare conseguenze
che ne siano la negazione. E allora
l’obbiezione alla struttura originaria del destino deve partire dalla negazione di uno o più tratti di tale
struttura, cioè dal chiedersi perché una
certa dimensione concettuale ha l’ardire
di proclamarsi come originaria e incontrovertibile. Altrimenti partire da mezza strada e mostrare le aporie
che scaturiscono da questa base è un
mostrare solo ipoteticamente (mi pare che
con l’amico Vitiello fossimo d’accordo) l’insufficienza di questa base.
Come giustificazione di quanto ho appena detto, chiedo: chi obbietta contro la struttura originaria
della verità (mi rivolgo dunque non solo
a Vitiello, ma anche a prospettive come
quelle di Tarca sulla differenza) intende dire la stessa cosa di ciò contro cui egli obietta? Penso
che tutti noi si risponda di no:
altrimenti la sua non sarebbe un ob-iezione
(ob vuol dire contro). Anche quando si proclama assolutamente problematica e ipotetica,
l’obbiezione assume come indiscutibile -
incontrovertibile! - la differenza tra quello che essa dice e ciò contro cui
essa dice. Alla base di ogni obbiettare
- ma ora interessa riferirsi alla struttura
originaria - c’è la differenza dei differenti, cioè il riconoscimento che i differenti sono
differenti - quella differenza che è
appunto il contenuto primario della struttura
originaria. Quindi l’obbiettare contro la struttura originaria è un incominciare a essere d’accordo con la
struttura originaria (e pertanto
l’obbiezione si rivolge contro sé stessa). Quindi, se la discussione dovesse proseguire, si
dovrebbe proseguire - penso, o almeno mi
auguro che prosegua - chiarendo questo
punto. Ma ora è tempo che io ringrazi
nuovamente tutti Loro, con ammirazione
per il livello intellettuale degli interventi e direi quasi con invidia per la generosità che Loro
hanno avuto nei miei riguardi.
Grazie! Debbo tener presente, oltre
alle considerazioni estremamente
interessanti di Enrico Berti, quelle di Brianese, e del professor Pagani ieri (ottima la sua
relazione), che hanno parlato dopo il
mio primo intervento. Era solo per
ricordare come sia rimasto interessato di questi tre interventi. A mezzogiorno, anzi, all’una, eravamo
insieme, con Berti, e parlavamo della
sua evoluzione verso la filosofia analitica. Gli chiedevo che differenza può produrre, tale
evoluzione, rispetto all’affermazione di
Aristotele, che il semantema (il
significato) essere non solo non è detto monachos, ossia univocamente, ma non è nemmeno un significato
equivoco. L’osservazione che facevo
all’amico Berti era questa: il tuo
avvicinamento alla filosofìa analitica è una ulteriore sottolineatura delle differenze di
significato della parola essere. Anche
se l’obiezione può sembrare formale (mi pare
che la reazione dell’amico Vincenzo Vitiello volesse dire questo, cioè che facevo un’obiezione
formale), però non possiamo prendere sottogamba la circostanza che le differenze (il lampadario, Ca’ Dolfin, il
tavolo, io, le galassie ecc.) hanno di
identico Tesser differenze. (Tra parentesi:
perché le obbiezioni formali devono essere respinte?) È questa Yanalogia, alla quale ho sempre
pensato parlando dell’on hei on di Aristotele:
che ci sia qualche cosa di identico
nelle differenze, che d’altra parte sono originariamente manifeste (ossia non c’è bisogno di dedurle).
L’analogia dei molti sensi dell’essere,
non è il risultato di una
argomentazione, ma è il contenuto del phàinesthai. Ieri si parlava della mia distinzione tra essere e
apparire. Apparire è appunto la parola
italiana con la quale traduciamo
phàinesthai. A questo senso dell’analogia non si sfugge, perché altrimenti (negando cioè l’identità
dell’esser differenze delle differenze)
il senso dell’essere diventa equivoco: non si
sfugge a quell’elemento identico che c’è nel pelo della barba e, se c’è, in Dio. Qualcosa di identico. Invitavo a tener presente l’inizio del libro
IV della Metafisica, dove quando
Aristotele parla dell’essente in quanto
essente (on hei on) dice che essente in quanto essente è qualsiasi determinazione, sia sostanza, sia
accidente, e poi arriva persino a dire
che anche il non-essere è un essente.
Ecco, se noi dovessimo ancora - ma me lo auguro - continuare a discutere, penso che il rischio
che corri tu, Berti, è quello di
arrivare all’equivocità, per cui c’è una molteplicità di differenze del significato essere, che
vorrebbero ma non riescono a essere pure
differenze, nient’altro che differenze,
appunto perché sono anche identiche nell’ esser differenze. Poi mi ha molto interessato quello che ha
detto il caro Brianese. Molto intelligente. E anche con te spero che si continui a parlare di questo. Loro
ricorderanno che Brianese accennava alla
vicinanza tra il discorso di Spinoza e quello del sottoscritto. Ma vogliamo
prescindere dal il concetto di causa
(ben presente in Spinoza)? Adottando il
concetto di causa sui - neWEtica Spinoza esordisce pressappoco con questa espressione causa sui
- egli mostra di intendere le cose come
effetto di un’azione che nel caso del
Dio è un’azione del Dio su sé stesso. Ma le cose non hanno bisogno di causa. Quando ci si chiede la
causa delle cose, è perché le si
considera appunto come enti che possono esser
nulla. Allora si tratterebbe di controllare questa espressione spinoziana. E poi anche il concetto di
conatus essendi. Anche qui: le cose non
hanno bisogno di essere un conatus. Cioè, è
interessante che qualche volta Spinoza torni a riveder le stelle o vada a riveder le stelle, però la semplice
tesi filosofica non è la fondazione di
essa. Perché allora - hai citato mi pare
qualche poeta - a me vengono in mente quelle bellissime pagine di Borges sull’eternità.
Straordinarie. Viene fuori la tesi che
tutto è eterno. Sì. Ma la semplice enunciazione di una tesi non ne è la fondazione - ed è la
fondazione a dare significato alla tesi.
Si tratterebbe dunque di vedere se in
Spinoza ci sia quel tipo di fondazione che a noi due interessa, ma che a me non sembra che ci sia. Ancora un’osservazione, se posso. A
proposito del mio più volte citato
Ritornare a Parmenide, io ho continuato a dire
che: primo, non ho mai usato per indicare quello che scrivo la parola neoparmenidismo - mai. Mai; anzi, è
scritto sin da Ritornare a Parmenide che
Parmenide è il primo nichilista (immenso
anche nell’errore). È il primo nichilista, però è così essenziale e profondo, in questo suo
intendere l’essere monachos, che anche
se oggi, come ha ricordato il professor
Ruggiu, si pensa che in Parmenide non ci sia la brutale e perentoria negazione della dóxa, però
bisognerebbe inventarlo quel Parmenide
tradizionale che la storiografia
contemporanea toghe di mezzo per dire che no, che egli prende positivamente
in considerazione la dóxa, che non si
limita a qualificarla come illusione, non-verità ecc. Bisognerebbe inventario quell’altro Parmenide
che oggi viene emarginato, ma che è il
Parmenide che sta dinanzi agli occhi di
Platone, di Aristotele, di Hegel (ma direi anche di Heidegger). Non si capisce come mai questi
pensatori - grandi pensatori (chi più di
loro?) - abbiano reagito rispetto a
Parmenide nel modo in cui hanno reagito se Parmenide fosse quello oggi configurato dalla riflessione storico-filologica. Mi fermo qui. Poiché l’atteggiamento
razionale è per Popper la decisione di accettare solo ciò che è fondato
sulla discussione, l’argomentazione,
l’esperienza, ne segue, per lui, che è incoerente la pretesa di fondare l’atteggiamento razionale sulla base di una
procedura razionale, cioè in base a sé stesso. Ma, osserviamo, il rilevamento di questa incoerenza è a sua
volta una argomentazione razionale, e quindi, stando a Popper, anche questa argomentazione, che conduce ad
affermare che l’atteggiamento razionale è fondato su una fede irrazionale, è a sua volta fondata su
una fede irrazionale, ossia non è una verità incontrovertibile. Due interventi
alla tavola rotonda tenutasi a conclusione del convegno di studi Il destino
dell’essere. Dialogo con (e intorno al
pensiero di) Emanuele Severino tenutosi il 29-30 maggio 2012 nell’aula
magna Ca’ Dolfìn dell’Università degli
Studi di Venezia. Gli uomini chiamano male tutto ciò che essi non vogliono - innanzitutto la morte e i dolori
che ne sono i battistrada. La vita è
inseparabile dal male. Sin dall’inizio
hanno tentato di difendersi costruendo Yimmagine della vita. L’immagine si libra al di sopra del dolore.
In qualche modo se ne libera, rendendolo
sopportabile. La più antica delle
immagini è la festa. Nell’antica lingua greca la festa è chiamata theorìa, che significa contemplazione, immagine, appunto. Nella festa sono fuse
insieme le forze che poi, separandosi,
si chiameranno mito, arte, ekklesìa, tecnica,
sapienza. In ognuna di queste forze separate si
prolunga, sebbene affievolito, l’antico rimedio festivo. Anche nelle arti figurative, dunque. Ma l’immagine festiva e salvifica non può
dimenticarsi del male. Nemmeno quando,
più tardi, l’opera d’arte non mostra
altro che lo splendore delle forme della scultura greca, delle Madonne col Bambino di Raffaello, dell’Amor
sacro e profano di Tiziano. Se il male
fosse dimenticato non si vedrebbe
nemmeno la bellezza e la bontà che sembrano le
uniche protagoniste della scultura e del dipinto. Non ne vedremmo la potenza, la capacità di tener
lontano da sé il male, il brutto, il
dolore. Dove la bella forma sembra
dominare occupando l’intero spazio dell’immagine pittorica, c’è sempre l’altro protagonista della scena,
il male, altrettanto intensamente
visibile proprio per la sua assenza. Non
vedere questo Assente è non vedere la bellezza del bene. Una mostra della rappresentazione visiva del
male dovrebbe raccogliere tutte le
immagini visive. Nel 2005, una mostra a
Torino ha operato - né poteva, dunque, fare
diversamente - una selezione relativamente al modo in cui il male si
rende visibile nell’immagine. Ma tendeva (con le dovute eccezioni) a lasciare da parte il male
in agguato dietro la scena, che provoca
un’angoscia ancora più inquietante
perché è lasciato dall’artista a sé stesso e aU’imprevedibilità dei suoi effetti nella coscienza dello
spettatore - intendo riferirmi
all’imprevedibilità addizionale rispetto a quella suscitata dalla parte visibile dell’opera
figurativa. Se non vado errato. Credo che in quella mostra non fosse
presente alcuna Madonna col bambino di
Raffaello. Ma in queste figure - avvolte
da una compiuta e ferma serietà, da una perentoria assenza del sorriso - lo sguardo mostra di
aver dinanzi ciò che per Raffaello è il
male assoluto, la passione e la morte del
Figlio di Dio, che stanno fuori scena, e tuttavia ben presenti a coloro a cui il dipinto si rivolgeva. La mostra di Torino conteneva pitture,
fotografie, film. Il criterio della
raccolta non era il valore artistico, ma il
contenuto deU’immagine: il male - presentato secondo la selezione di cui dicevo. Lasciando da parte
la questione di come è possibile, oggi,
parlare di valore artistico, è possibile
indicare il senso autentico dello sviluppo storico dell’immagine? In quella mostra, il tragitto temporale era
dal Beato Angelico ai grandi pittori del
Novecento: dal tempo in cui il
cristianesimo è vita reale dei popoli, al tempo del tramonto del cristianesimo. La pittura lo rispecchia.
Come ogni altra opera dell’uomo
occidentale. Dapprima la rappresentazione
mostra la vittoria sul male compiuta da Cristo. Ha come scopo esplicito questa celebrazione. La
serietà delle Madonne e le Deposizioni
nel sepolcro rinviano alla luce invisibile che
si dispiega, al di là del dipinto, nell’anima di chi lo guardava: la luce della Resurrezione e della Gloria. Il
tratto salvifico dell’immagine è il Racconto cristiano. Colori, figure, prospettive hanno come scopo la celebrazione
della salvezza cristiana dal male. Ma un poco alla volta si fa innanzi un
atteggiamento nuovo. Lo si è mostrato
anche contro le proprie intenzioni,
anche l’artista figurativo, come il poeta, non dipinge più per celebrare Cristo, ma celebra Cristo per
dipingere, per celebrare la potenza
dell’arte. Il dramma dell’arte e dunque
della pittura cristiane sta qui: nel progressivo rovesciamento dove il mezzo, cioè l’arte, diventa scopo di
sé stessa e del rapporto a essa da parte
dell’uomo, e lo scopo iniziale, cioè la
celebrazione della salvezza cristiana, diventa mezzo, pretesto. In questo processo, rimane pur sempre
incombente il male - di cui il contenuto
cristiano dell’arte vuol essere il rimedio
ma tale contenuto non essendo più lo scopo dell’arte, ridotto a mezzo e pretesto, va perdendo la
propria potenza ed efficacia salvifica.
E accade che le moltitudini, accostandosi
all’opera d’arte cristiana si sentano salvate sempre più dalla potenza della forma pittorica e sempre meno
dal contenuto cristiano di quelle forme.
È il dominio della luce sull’ombra - o
della forma sul difforme - a impersonare il dominio del bene sul male. Questo processo giunge al culmine quando
anche la pittura del nostro tempo
eredita il distacco dal divino - prodotto
soprattutto dal pensiero filosofico degli ultimi due secoli - e non può assumere il Racconto cristiano
nemmeno come mezzo e pretesto per
1’evocazione della forma artistica. La
quale si addossa tutto il compito salvifico che nella tradizione figurativa dell’Occidente gravava sulle
spalle di quel Racconto. Il dipinto,
ormai, mostra il difforme, il male, il
dolore, la morte, il nulla senza il Salvatore; e la salvezza può esser data solo dalla potenza con cui il male
è mostrato dall’immagine. La forma è tolta via dal contenuto dell’opera d’arte figurativa (e di ogni opera d’arte) e
si riduce a essere la potenza
dell’immagine che, ormai, ha come contenuto la
dissoluzione della forma, il difforme, giacché la forma che prima apparteneva (anche) al contenuto
rispecchia sul piano figurativo
quell’ordinamento immutabile del mondo, evocato
dalla tradizione filosofica e religiosa dell’Occidente, che è inevitabilmente condotta al tramonto
dall’essenza del pensiero filosofico del
nostro tempo. Ma la salvezza dal male,
separata dal divino, non può più avere
la potenza del divino. Diventa un rimedio caduco, sempre più incapace di impedire che - al di
là di ogni valore artistico - altre
forme della rappresentazione visiva, come la
fotografia e il cinematografo - attraggano a sé le moltitudini. Che quanto più si accostano, attraverso
l’immagine, a un male che si presenta in
carne e ossa, tanto più si illudono di salvarsi
da esso. Tutte le arti hanno bisogno di diverse forme di tecnica -
e nel Medioevo le stesse arti figurative
non venivano considerate arti vere e
proprie (arti liberali) ma arti
meccaniche. Anche la semplice voce e la semplice scrittura della poesia richiedono mnemotecniche,
tecniche della dizione, tecniche per la
produzione del materiale richiesto dalla
scrittura. E, già nel Rinascimento, soprattutto le arti figurative e architettoniche (e in qualche
modo la musica) richiedono tecniche
guidate dalla matematica, dalla geometria
e dalle incipienti scienze della natura. La fotografia e il cinematografo si fanno innanzi quando il
rovesciamento di mezzo e fine ha già
preso piede. Ma qui, ancora, la tecnica
produce immagini della realtà. Oggi la tecnica procede sempre più decisamente verso la produzione di
una realtà nuova. Con la tecnica del
nostro tempo l’immagine festiva si
solleva al di sopra del proprio carattere di imma organizzavano e vi
partecipavano. Vivo la qualità etica di chi
festeggia come decisamente superiore alla mia condizione di festeggiato. E questo rende particolarmente
ammirevoli i festeggianti. D’altra parte
considero questo nostro incontro come
manifestazione dell’amore per la filosofia. Perché è chiaro che, attraverso quanto si è detto
intorno al mio discorso filosofico,
emerge soprattutto l’interesse profondo per la filosofia da parte di coloro che
di questa università costituiscono un
vanto. Il dipartimento di filosofia
dell’università di Venezia anche oggi spicca nel panorama culturale italiano, dato che (mi pare di aver
dichiarato da qualche parte) anche per
merito del dipartimento di filosofia di
Venezia oggi l’Italia ha poco da invidiare alla filosofia straniera. L’Italia ha oggi pensatori di
altissimo livello. Anche per questo il
fatto di trovarmi qui festeggiato da una parte di loro mi riempie di gioia. La stessa che mi è
data dalla presenza di pensatori che,
venendo da altre università, contribuiscono
ad alimentare la ricchezza filosofica del nostro Paese. Penso di non avere dimenticato nulla. Devo
però un abbraccio al professor Spanio,
in particolare, per l’amicizia con la
quale si è impegnato per la realizzazione di questo nostro convegno, e in modo a mio avviso
splendido: abbiamo sentito voci quanto
mai rilevanti e variegate. Come quelle ben
note, oltre a quelle dei professori Barcellona e Irti, dei professori Vitiello, Messinese, Berti,
Visentin, Perissinotto e di tutti quelli
che hanno parlato. Scusino se non li nomino
tutti. Mi ricordo che qualche giorno fa mi hanno fatto un’intervista dove o si elencavano i
partecipanti a questo convegno, e allora
andava via tutto lo spazio per l’intervista,
oppure bisognava rassegnarsi a non nominare nessuno, fuorché Italo Valent, che ci è mancato e che
è stato ricordato dal professor
Perissinotto, al quale rinnovo anche per questo i miei ringraziamenti in quanto egli è
direttore del dipartimento di
filosofia. Vorrei riprendere almeno uno
spunto tra quelli che mi sono stati suggeriti;
quello relativo all’implicazione indicata
dal professor Ruggiu, alla quale ho già accennato. E vorrei rivolgermi soprattutto ai non addetti ai
lavori, perché si può avere avuto
l’impressione - avevo incominciato a dire - di
una discrasia tra il tecnicismo filosofico e i problemi pratico-politici.
Come eliminare questa impressione? Tento di
rispondere. Che noi si viva nel
mondo, e che il mondo sia fatto così
come crediamo - mondo della natura e dell’uomo, e cioè con una struttura sociale nella quale esistono
forze politiche, economiche, religiose,
e industrie, fabbriche, Europa, Russia,
America e via dicendo, che vanno storicamente sviluppandosi -, ecco che noi si viva nel mondo è la grande
fede alla quale nessuno di noi vuole
rinunciare. Noi ci troviamo ad avere
questa fede. E non possiamo rinunciare a credere che ad esempio ci troviamo a Ca’ Dolfin e che stiamo
parlando di filosofia, e che Ca’ Dolfin
è a Venezia, e Venezia è in Italia,
alfinterno di un sistema internazionale ecc. Ecco, questa fede (come ogni fede) è un attribuire un valore di
verità (usiamo così alla buona la parola
verità) a ciò che in quanto contenuto di
fede non ha verità. E a cui, però, noi non
sappiamo rinunciare; non sappiamo saltare al di fuori della nostra fede.
Allora, una parte degli interventi - che qui ho sentito con estremo piacere e dai quali ho imparato
moltissimo e che terrò presenti anche
nel loro aspetto critico - si riferisce al
contenuto di questa fede, al centro del quale sta la nostra civiltà occidentale, la quale,
nell’interpretazione, ha uno sviluppo e
un suo farsi progressivamente coerente. Coloro che vedono la storia del mondo come un
susseguirsi di frammenti caoticamente
giustapposti non vedono invece l’unitarietà
dello sviluppo, l’implicazione tra le varie fasi dello sviluppo. Allora, una prima parte degli interventi è
consistita (penso soprattutto a quello
di Barcellona e di Irti, ma poi anche a
quello di Goggi) nel mettere in luce il calcolo, presente nei miei scritti, della coerentizzazione
delVOccidente. L’intento qui è di
stabilire quali siano i motivi che spingono dalla forma iniziale della civiltà occidentale fino alla
forma attuale, che è quella della civiltà della tecnica. Vorrei evitare che qualcuno dei non addetti
ai lavori non si fosse raccapezzato
sentendo, da un lato, ripetere così
insistentemente l’affermazione dell’eternità dell’essente e, dall’altro lato (anche ieri il professor
Spanio accennava a questa tematica), ad
aver sentito la mia simpatia per le forme
più radicali della coerentizzazione della storia dell’Occidente. Per quanto riguarda questo secondo tema,
chiederei il permesso di essere un po’
immodesto - ma visto che siamo in un
clima in cui la mia modestia è stata messa duramente alla prova, mi rendo conto di chiedere di
incrementare questa prova, mostrandomi
quindi ancora un po’ più immodesto.
Allora posso dire che un lato del discorso filosofico del sottoscritto (ma è anche questa una fede: che
io abbia scritto dei libri fa parte di
quella fede nel mondo di cui parlavamo
prima) ha dato una mano a ciò che ho chiamato coerentizzazione della storia dell’Occidente.
Che, come è venuto in chiaro da parte
degli amici che hanno parlato, è la
coerentizzazione della Follia estrema.
Nei laboratori ci sono scienziati che per accertare le capacità distruttive di un virus ne
favoriscono lo sviluppo massimo, fino a
che il virus mostra tutte le sue potenzialità.
Una parte del mio discorso filosofico - qualcuno di loro prima richiamava i miei scritti su Eschilo,
su Leopardi, su Gentile - tratta di
quelli che sono i grandi nemici della verità.
Ma la verità non è un qualche cosa che sia grande indipendentemente dalla grandezza della
negazione della verità. La verità non è
qualcosa di grande indipendentemente
dalla grandezza dell’errore. Senza la grandezza dell’errore non c’è grandezza della verità. Se la verità è
tale (è un po’ il tema di cui parlava
l’amico Vitiello questa mattina) in quanto è
negazione dell’errore, allora è la verità stessa a guadagnare forza
dalla concretezza dell’errare. E se la storia
dell’Occidente non è portata fino alle sue ultime conseguenze (consistenti nella dominazione
definitivamente vittoriosa della civiltà
della tecnica), se ci si ferma a metà strada rispetto a questo processo di coerentizzazione, allora
la stessa energia negativa della verità
risulta astratta. Da questo punto di vista
potrei dire che tutte le osservazioni critiche che mi sono state rivolte così amabilmente da Berti, Vitiello,
Visentin (chiedo scusa se in questo
momento non mi ricordo altri nomi, ma ci
sono), queste osservazioni critiche sono contributi alla verità. Nel senso, appunto - mi ripeto -, che la
negazione dell’errore esige la
concretezza dell’errore. Un primo lato
di quanto abbiamo sentito in queste due
giornate riguarda quello che sto chiamando coerentizzazione dell’errore, alla quale - ecco ripresentarsi
l’immodestia - credo di aver dato una
mano. Qualche amico mi dice: guarda che
il tuo Nietzsche (adesso l’immodestia cresce ancora) è una tua invenzione. Ma siccome penso che quel
cosiddetto mio Nietzsche sia in grado di
eliminare la forza teoretica della
grande tradizione dell’Occidente, se il Nietzsche storico non fosse stato o non fosse congruente col
Nietzsche quale appare nei miei scritti,
allora sarebbe il Nietzsche che appare nei miei
scritti ad avere quella capacità di eliminare la tradizione dell’Occidente. Se fosse falsa la mia
interpretazione, oltre che di Nietzsche,
di Leopardi e di Gentile, be’ amen; vorrebbe dire che non son stati loro a essere vincenti
rispetto al passato dell’Occidente, ma
sono quel Leopardi, quel Nietzsche, quel
Gentile che emergono nell’interpretazione che il sottoscritto ne ha dato. Si dovrebbe dire che se fossero
qualcosa di diverso (ma non lo credo)
peggio per loro: il loro discorso non
riuscirebbe ad aver partita vinta sulla tradizione dell’Occidente, cioè non riuscirebbe a
mostrare l’impossibilità degli eterni e
dei divini che tale tradizione ha evocato, mentre questa capacità l’hanno il
Leopardi, il Nietzsche, il Gentile che
si manifestano nell’interpretazione che ne ho dato (e che finora non mi sembra che debba cedere il
passo a un’altra). E qui siamo al centro
della nostra riflessione, perché gli eterni
dell’Occidente non sono gli eterni a cui si rivolgono i miei scritti. Siamo cioè al secondo dei due lati
del mio discorso filosofico. Dicevo
all’inizio: noi tutti abbiamo fede nell’essere
al mondo, nel mondo così come crediamo che esso sia. È probabile che una parte di Loro dirà: questo
è il mondo, quello in cui crediamo noi è
il mondo vero; e quelle che sentiamo dai
filosofi sono favole, fantasie. Ma a chi si ferma alla e nella fede nel mondo, va detto che la
fede, in quanto tale, non giustifica
l’affermazione dell’esistenza del proprio
contenuto. Se lo facesse non sarebbe più fede. Se chi ha fede lo capisce, allora la sua fede tende a
coincidere con lo scetticismo ingenuo.
Egli pensa: non c’è altro che questo
mondo in cui credo e da cui non mi so staccare, ma di cui non so dare ragione. E invece il mondo della fede è circondato
dalla non-fede, cioè dalla verità. E
solo per questo può esser qualificato (con
verità) come mondo della fede. La fede non sa di esser fede. È nella verità che, in modo incontrovertibile,
appare l’esistenza della fede, ossia del
mondo isolato dalla verità. Discuto questo
tema anche con gli amici cattolici (tanto interessante, la proposta del professor Messinese, di
valorizzare la prima fase, la chiamava
così, del mio lavoro filosofico). Ma l’uomo non è semplicemente e innanzitutto una fede (sia
pure altissima), ma è innanzitutto ben
di più, ossia è la manifestazione della
verità. Ci stiamo movendo lungo
il secondo lato del mio discorso
filosofico. Gli interventi dei professori Vitiello, Visentin, Berti, e altri, riguardavano appunto questo
secondo lato. Con un’altra metafora
geometrica, i due lati corrispondono a due cerchi concentrici. Il cerchio
inscritto è la nostra fede nel mondo. E
a questo cerchio è stata dedicata una parte del
convegno. Al cerchio circoscrivente, cioè alla non-fede, a quell’essere nella verità a cui accennavo
prima, è stata dedicata l’altra parte. E
abbiamo incominciato con quest’altra
parte, con la relazione del professor Visentin. Mi rendo conto che rispetto alle accurate
articolazioni concettuali che abbiamo
sentito, queste mie considerazioni sono
molto generiche. Qualche osservazione,
quindi, va fatta a proposito delle
obbiezioni. Possono avere un carattere problematico come quelle, mi sembra, del professor Vitiello:
mostrano delle difficoltà, presenti
nelle mie tesi, senza pretendere di essere,
esse, inconfutabili. Per considerare il modo corretto di impostare l’obbiezione a ciò che chiamo struttura
originaria del destino della verità,
direi che rispetto a questa struttura la
situazione è diversa da quella che in campo scientifico si produce quando si vuole assiomatizzare un
certo tipo di discorso, per esempio
quello matematico. Nella cosiddetta aritmetizzazione
della matematica, l’intera complessità del
sapere matematico è ricondotta all’aritmetica. È un’operazione problematica, perché esiste
quell’impresa straordinaria di Godei,
dove si mostra che partendo da un certo
gruppo di postulati, o di ipotesi - che vengono assunti senza giustificazione, e che quindi non hanno
un fondamento incontrovertibile, come
appunto accade per i postulati
dell’aritmetica -, non si può escludere che lo sviluppo di tali postulati conduca a una contraddizione. Cioè
non si può escludere che la matematica,
approfondendo il contenuto semantico dei
propri postulati, venga ad accorgersi della
contraddittorietà dei propri contenuti. Ecco, se si imposta in questo modo il discorso intorno alle
obbiezioni alla struttura originaria del
destino, allora ci si muove impropriamente, perché la mia più volte citata
Struttura originaria (che si rivolge
appunto a quella struttura) intende appunto
escludere una situazione concettuale in cui si parta da postulati, che sono ipotetici, probabili,
problematici ecc... È chiaro che
partendo da postulati assunti semplicemente in
base alla loro congruenza, ossia al loro non presentarsi come immediatamente tra loro contraddittori, è
possibile che si deducano conclusioni o
teoremi in sé stessi contraddittori.
Sennonché, in relazione alla struttura originaria del sapere, cioè del destino della verità, è impossibile
che si pervenga a mostrarne la
contraddittorietà. Qui la situazione è del tutto diversa da quella gòdeliana, perché il
fondamento è l’ incontrovertibile e
partendo dall’incontrovertibile è
impossibile dedurre qualcosa che sia una negazione di tale fondamento. Non ci si può appoggiare a questa
base in modo da sviluppare conseguenze
che ne siano la negazione. E allora
l’obbiezione alla struttura originaria del destino deve partire dalla negazione di uno o più tratti di tale
struttura, cioè dal chiedersi perché una
certa dimensione concettuale ha l’ardire
di proclamarsi come originaria e incontrovertibile. Altrimenti partire da mezza strada e mostrare le aporie
che scaturiscono da questa base è un
mostrare solo ipoteticamente (mi pare che
con l’amico Vitiello fossimo d’accordo) l’insufficienza di questa base.
Come giustificazione di quanto ho appena detto, chiedo: chi obbietta contro la struttura originaria
della verità (mi rivolgo dunque non solo
a Vitiello, ma anche a prospettive come
quelle di Tarca sulla differenza) intende dire la stessa cosa di ciò contro cui egli obietta? Penso
che tutti noi si risponda di no:
altrimenti la sua non sarebbe un ob-iezione
(ob vuol dire contro). Anche quando si proclama assolutamente problematica e ipotetica,
l’obbiezione assume come indiscutibile -
incontrovertibile! - la differenza tra quello che essa dice e ciò contro cui
essa dice. Alla base di ogni obbiettare
- ma ora interessa riferirsi alla struttura
originaria - c’è la differenza dei differenti, cioè il riconoscimento che i differenti sono
differenti - quella differenza che è
appunto il contenuto primario della struttura
originaria. Quindi l’obbiettare contro la struttura originaria è un incominciare a essere d’accordo con la
struttura originaria (e pertanto
l’obbiezione si rivolge contro sé stessa). Quindi, se la discussione dovesse proseguire, si
dovrebbe proseguire - penso, o almeno mi
auguro che prosegua - chiarendo questo
punto. Ma ora è tempo che io
ringrazi nuovamente tutti Loro, con
ammirazione per il livello intellettuale degli interventi e direi quasi con invidia per la generosità che Loro
hanno avuto nei miei riguardi.
Grazie! Debbo tener presente, oltre
alle considerazioni estremamente
interessanti di Enrico Berti, quelle di Brianese, e di Pagani ieri (ottima la sua relazione),
che hanno parlato dopo il mio primo
intervento. Era solo per ricordare come
sia rimasto interessato di questi tre interventi. A mezzogiorno, anzi, all’una, eravamo
insieme, con Berti, e parlavamo della
sua evoluzione verso la filosofia analitica. Gli chiedevo che differenza può produrre, tale
evoluzione, rispetto all’affermazione di
Aristotele, che il semantema (il
significato) essere non solo non è detto monachos, ossia univocamente, ma non è nemmeno un significato
equivoco. L’osservazione che facevo
all’amico Berti era questa: il tuo
avvicinamento alla filosofìa analitica è una ulteriore sottolineatura delle differenze di
significato della parola essere. Anche
se l’obiezione può sembrare formale (mi pare
che la reazione dell’amico Vincenzo Vitiello volesse dire questo, cioè che facevo un’obiezione
formale), però non possiamo prendere sottogamba la circostanza che le differenze (il lampadario, Ca’ Dolfin, il
tavolo, io, le galassie ecc.) hanno di
identico Tesser differenze. (Tra parentesi:
perché le obbiezioni formali devono essere respinte?) È questa Yanalogia, alla quale ho sempre
pensato parlando dell’on hei on di Aristotele:
che ci sia qualche cosa di identico
nelle differenze, che d’altra parte sono originariamente manifeste (ossia non c’è bisogno di dedurle).
L’analogia dei molti sensi dell’essere,
non è il risultato di una
argomentazione, ma è il contenuto del phàinesthai. Ieri si parlava della mia distinzione tra essere e
apparire. Apparire è appunto la parola
italiana con la quale traduciamo
phàinesthai. A questo senso dell’analogia non si sfugge, perché altrimenti (negando cioè l’identità
dell’esser differenze delle differenze)
il senso dell’essere diventa equivoco: non si
sfugge a quell’elemento identico che c’è nel pelo della barba e, se c’è, in Dio. Qualcosa di identico. Invitavo a tener presente l’inizio del libro
IV della Metafisica, dove quando
Aristotele parla dell’essente in quanto
essente (on hei on) dice che essente in quanto essente è qualsiasi determinazione, sia sostanza, sia
accidente, e poi arriva persino a dire
che anche il non-essere è un essente.
Ecco, se noi dovessimo ancora - ma me lo auguro - continuare a discutere, penso che il rischio
che corri tu, Berti, è quello di
arrivare all’equivocità, per cui c’è una molteplicità di differenze del significato essere, che
vorrebbero ma non riescono a essere pure
differenze, nient’altro che differenze,
appunto perché sono anche identiche nell’ esser differenze. Poi mi ha molto interessato quello che ha
detto il caro Giorgio Brianese. Molto
intelligente. E anche con te spero che
si continui a parlare di questo. Loro ricorderanno che Brianese accennava alla vicinanza tra il discorso
di Spinoza e quello del sottoscritto. Ma vogliamo prescindere dal il concetto di causa (ben presente in Spinoza)?
Adottando il concetto di causa sui -
neWEtica Spinoza esordisce pressappoco
con questa espressione causa sui - egli mostra
di intendere le cose come effetto di un’azione che nel caso del Dio è un’azione del Dio su sé stesso. Ma le
cose non hanno bisogno di causa. Quando
ci si chiede la causa delle cose, è
perché le si considera appunto come enti che possono esser nulla. Allora si tratterebbe di controllare
questa espressione spinoziana. E poi
anche il concetto di conatus essendi. Anche
qui: le cose non hanno bisogno di essere un conatus. Cioè, è interessante che qualche volta Spinoza torni
a riveder le stelle o vada a riveder le
stelle, però la semplice tesi filosofica non è
la fondazione di essa. Perché allora - hai citato mi pare qualche poeta - a me vengono in mente quelle
bellissime pagine di Borges
sull’eternità. Straordinarie. Viene fuori la
tesi che tutto è eterno. Sì. Ma la semplice enunciazione di una tesi non ne è la fondazione - ed è la
fondazione a dare significato alla tesi.
Si tratterebbe dunque di vedere se in
Spinoza ci sia quel tipo di fondazione che a noi due interessa, ma che a me non sembra che ci sia. Ancora un’osservazione, se posso. A
proposito del mio più volte citato
Ritornare a Parmenide, io ho continuato a dire
che: primo, non ho mai usato per indicare quello che scrivo la parola neoparmenidismo - mai. Mai; anzi, è
scritto sin da Ritornare a Parmenide che
Parmenide è il primo nichilista (immenso
anche nell’errore). È il primo nichilista, però è così essenziale e profondo, in questo suo
intendere l’essere monachos, che anche
se oggi, come ha ricordato il professor
Ruggiu, si pensa che in Parmenide non ci sia la brutale e perentoria negazione della dóxa, però
bisognerebbe inventarlo quel Parmenide
tradizionale che la storiografia
contemporanea toghe di mezzo per dire che no, che egli prende positivamente
in considerazione la dóxa, che non si
limita a qualificarla come illusione, non-verità ecc. Bisognerebbe inventario quell’altro Parmenide
che oggi viene emarginato, ma che è il
Parmenide che sta dinanzi agli occhi di
Platone, di Aristotele, di Hegel (ma direi anche di Heidegger). Non si capisce come mai questi
pensatori - grandi pensatori (chi più di
loro?) - abbiano reagito rispetto a
Parmenide nel modo in cui hanno reagito se Parmenide fosse quello oggi configurato dalla riflessione storico-filologica. Mi fermo qui. Poiché l’atteggiamento razionale è per Popper
la decisione di accettare solo ciò che è fondato sulla discussione, l’argomentazione, l’esperienza,
ne segue, per lui, che è incoerente la pretesa di fondare l’atteggiamento razionale sulla base di una
procedura razionale, cioè in base a sé stesso. Ma, osserviamo, il rilevamento di questa incoerenza è a sua
volta una argomentazione razionale, e quindi, stando a Popper, anche questa argomentazione, che conduce ad
affermare che l’atteggiamento razionale è fondato su una fede irrazionale, è a sua volta fondata su
una fede irrazionale, ossia non è una verità incontrovertibile. Due interventi
alla tavola rotonda tenutasi a conclusione del convegno di studi Il destino
dell’essere. Dialogo con (e intorno al
pensiero di) Emanuele Severino tenutosi il 29-30 maggio 2012 nell’aula
magna Ca’ Dolfìn dell’Università degli
Studi di Venezia. Gli uomini chiamano male tutto ciò che essi non vogliono - innanzitutto la morte e i dolori
che ne sono i battistrada. La vita è
inseparabile dal male. Sin dall’inizio
hanno tentato di difendersi costruendo Yimmagine della vita. L’immagine si libra al di sopra del dolore.
In qualche modo se ne libera, rendendolo
sopportabile. La più antica delle
immagini è la festa. Nell’antica lingua greca la festa è chiamata theorìa, che significa contemplazione, immagine, appunto. Nella festa sono fuse
insieme le forze che poi, separandosi,
si chiameranno mito, arte, ekklesìa, tecnica,
sapienza. In ognuna di queste forze separate si
prolunga, sebbene affievolito, l’antico rimedio festivo. Anche nelle arti figurative, dunque. Ma l’immagine festiva e salvifica non può
dimenticarsi del male. Nemmeno quando,
più tardi, l’opera d’arte non mostra
altro che lo splendore delle forme della scultura greca, delle Madonne col Bambino di Raffaello, dell’Amor
sacro e profano di Tiziano. Se il male
fosse dimenticato non si vedrebbe
nemmeno la bellezza e la bontà che sembrano le
uniche protagoniste della scultura e del dipinto. Non ne vedremmo la potenza, la capacità di tener
lontano da sé il male, il brutto, il
dolore. Dove la bella forma sembra
dominare occupando l’intero spazio dell’immagine pittorica, c’è sempre l’altro protagonista della scena,
il male, altrettanto intensamente
visibile proprio per la sua assenza. Non
vedere questo Assente è non vedere la bellezza del bene. Una mostra
della rappresentazione visiva del male
dovrebbe raccogliere tutte le immagini visive. Nel 2005, una mostra a Torino ha operato - né poteva,
dunque, fare diversamente - una
selezione relativamente al modo in cui il
299 male si rende visibile
nell’immagine. Ma tendeva (con le dovute
eccezioni) a lasciare da parte il male in agguato dietro la scena, che provoca un’angoscia ancora più
inquietante perché è lasciato
dall’artista a sé stesso e aU’imprevedibilità
dei suoi effetti nella coscienza dello spettatore - intendo riferirmi all’imprevedibilità addizionale
rispetto a quella suscitata dalla parte
visibile dell’opera figurativa. Se non vado
errato. Credo che in quella
mostra non fosse presente alcuna Madonna
col bambino di Raffaello. Ma in queste figure -
avvolte da una compiuta e ferma serietà, da una perentoria assenza del sorriso - lo sguardo mostra di
aver dinanzi ciò che per Raffaello è il
male assoluto, la passione e la morte del
Figlio di Dio, che stanno fuori scena, e tuttavia ben presenti a coloro a cui il dipinto si rivolgeva. La mostra di Torino conteneva pitture,
fotografie, film. Il criterio della
raccolta non era il valore artistico, ma il
contenuto deU’immagine: il male - presentato secondo la selezione di cui dicevo. Lasciando da parte
la questione di come è possibile, oggi,
parlare di valore artistico, è possibile
indicare il senso autentico dello sviluppo storico dell’immagine? In quella mostra, il tragitto temporale era
dal Beato Angelico ai grandi pittori del
Novecento: dal tempo in cui il
cristianesimo è vita reale dei popoli, al tempo del tramonto del cristianesimo. La pittura lo rispecchia.
Come ogni altra opera dell’uomo
occidentale. Dapprima la rappresentazione
mostra la vittoria sul male compiuta da Cristo. Ha come scopo esplicito questa celebrazione. La
serietà delle Madonne e le Deposizioni
nel sepolcro rinviano alla luce invisibile che
si dispiega, al di là del dipinto, nell’anima di chi lo guardava: la luce della Resurrezione e della Gloria. Il
tratto salvifico 300 dell’immagine è il Racconto cristiano.
Colori, figure, prospettive hanno come
scopo la celebrazione della salvezza
cristiana dal male. Ma un poco
alla volta si fa innanzi un atteggiamento
nuovo. Lo si è mostrato anche contro le proprie intenzioni, anche l’artista figurativo, come il poeta,
non dipinge più per celebrare Cristo, ma
celebra Cristo per dipingere, per
celebrare la potenza dell’arte. Il dramma dell’arte e dunque della pittura cristiane sta qui: nel
progressivo rovesciamento dove il mezzo,
cioè l’arte, diventa scopo di sé stessa e del
rapporto a essa da parte dell’uomo, e lo scopo iniziale, cioè la celebrazione della salvezza cristiana,
diventa mezzo, pretesto. In questo
processo, rimane pur sempre incombente il male
- di cui il contenuto cristiano dell’arte vuol essere il rimedio ma tale contenuto non essendo più lo scopo
dell’arte, ridotto a mezzo e pretesto,
va perdendo la propria potenza ed
efficacia salvifica. E accade che le moltitudini, accostandosi all’opera d’arte cristiana si sentano salvate
sempre più dalla potenza della forma
pittorica e sempre meno dal contenuto
cristiano di quelle forme. È il dominio della luce sull’ombra - o della forma sul difforme - a impersonare il
dominio del bene sul male. Questo processo giunge al culmine quando
anche la pittura del nostro tempo
eredita il distacco dal divino - prodotto
soprattutto dal pensiero filosofico degli ultimi due secoli - e non può assumere il Racconto cristiano
nemmeno come mezzo e pretesto per
1’evocazione della forma artistica. La
quale si addossa tutto il compito salvifico che nella tradizione figurativa dell’Occidente gravava sulle
spalle di quel Racconto. Il dipinto,
ormai, mostra il difforme, il male, il
dolore, la morte, il nulla senza il Salvatore; e la salvezza può esser data solo dalla potenza con cui il male
è mostrato dall’immagine. La forma è
tolta via dal contenuto dell’opera
d’arte figurativa (e di ogni opera d’arte) e si riduce a essere la potenza dell’immagine che, ormai, ha come
contenuto la dissoluzione della forma,
il difforme, giacché la forma che prima
apparteneva (anche) al contenuto rispecchia sul piano figurativo quell’ordinamento immutabile del
mondo, evocato dalla tradizione
filosofica e religiosa dell’Occidente, che è
inevitabilmente condotta al tramonto dall’essenza del pensiero filosofico del nostro tempo. Ma la salvezza dal male, separata dal
divino, non può più avere la potenza del
divino. Diventa un rimedio caduco,
sempre più incapace di impedire che - al di là di ogni valore artistico - altre forme della
rappresentazione visiva, come la
fotografia e il cinematografo - attraggano a sé le moltitudini. Che quanto più si accostano, attraverso
l’immagine, a un male che si presenta in
carne e ossa, tanto più si illudono di salvarsi
da esso. Tutte le arti hanno bisogno di diverse forme di tecnica -
e nel Medioevo le stesse arti figurative
non venivano considerate arti vere e
proprie (arti liberali) ma arti
meccaniche. Anche la semplice voce e la semplice scrittura della poesia richiedono mnemotecniche,
tecniche della dizione, tecniche per la
produzione del materiale richiesto dalla
scrittura. E, già nel Rinascimento, soprattutto le arti figurative e architettoniche (e in qualche
modo la musica) richiedono tecniche
guidate dalla matematica, dalla geometria
e dalle incipienti scienze della natura. La fotografia e il cinematografo si fanno innanzi quando il
rovesciamento di mezzo e fine ha già
preso piede. Ma qui, ancora, la tecnica
produce immagini della realtà. Oggi la tecnica procede sempre più decisamente verso la produzione di
una realtà nuova. Con la tecnica del
nostro tempo l’immagine festiva si
solleva al di sopra del proprio carattere di imma e e tende a diventare la realtà nuova che sostituisce la
realtà angosciante originaria, al di
sopra della quale già si era sollevata
l’immagine festiva. Ad esempio - ma l’esempio è tra i più significativi - la tecnica guidata dalla
scienza moderna pensa già alla
costruzione di una vita umana in cui la sofferenza e la morte siano allontanate il più possibile. La
tecnica stabilisce la nuova aura
festiva, più potente di ogni immagine festiva
perché la festa, ora, è la produzione di una realtà nuova - la produzione che anticipa l’Apocalisse
cristiana, dove la terra nuova e il
nuovo cielo sostituiscono la vecchia terra e il
vecchio cielo. Ma la logica
della scienza, che sta al fondamento della
tecnica, non è una logica della verità assoluta e incontrovertibile. È una logica ipotetica. La
scienza stessa è un sapere
ipotetico-deduttivo. La liberazione tecnologica dalla sofferenza e dalla morte,
per quanto stupefacenti possano essere i
suoi progressi, rimane pur sempre una liberazione ipotetica, esposta cioè in ogni momento alla
possibilità che l’intera legislazione
scientifica si mostri incapace di dominare
le cose e che l’uomo ripiombi nell’antica indigenza di una vita semianimale o addirittura nella propria
completa estinzione. La tecnica non
salva l’uomo dal nulla. Ogni salvezza è
ipotetica. Il pensiero filosofico del nostro tempo è destinato a farsi udire dalla tecnica, a farle sentire
che nessuna potenza può salvare
necessariamente, incontrovertibilmente dal nulla, e che dunque la minaccia del nulla rimane
sospesa su ogni avanzamento tecnologico
della liberazione dell’uomo dal dolore e
dalla morte. La nuova realtà e la nuova vita, che la tecnica produce sostituendo l’antica immagine festiva della
realtà e della vita, si presenta così a
sua volta esposta al dolore e alla morte,
tanto più insopportabili quanto maggiore è la felicità dell’aura festiva che la tecnica sia riuscita a
produrre. È a questo punto che l’arte
può riproporsi come l’ultimo barlume
dell’immagine festiva, che per la seconda volta si solleva al di sopra della realtà - al di sopra cioè di
quella nuova realtà che con la tecnica
sta oggi sostituendo l’antica immagine festiva e salvifica della realtà originaria. È, questo,
il pensiero di Leopardi: quando - dopo
il tramonto della verità definitiva e
assoluta della tradizione occidentale (cioè dopo il tramonto a cui appartiene quel che Nietzsche chiama morte
di Dio) - appare che nemmeno la tecnica
ha la potenza di salvare con necessità
(ossia non ipoteticamente) l’uomo dal nulla, allora la potenza dell’immagine poetica che canta
l’impossibilità di ogni salvezza non
ipotetica dal nulla rimane l’ultimo barlume
di quella forma di festa in cui la poesia e l’arte consistono - quella forma di festa dove è la potenza del
canto, e non il suo contenuto, a salvare
ancora per un poco dal nulla (cfr. E.S., Il nulla e la poesia. Alla fine
dell’età della tecnica: Leopardi, cit.). A volte, certi essenti che chiamiamo opere
d’arte stanno in una relazione specifica
con l’infìnito. Se non nel senso che
essi rappresentano senz’altro l’infinito, nel senso che qualcuno crede che lo rappresentino. Ma,
anche qui, ciò che la tradizione
filosofica intende per infinito non può essere
sempre presente, nel suo autentico e concreto significato, a chi crede in quel modo, ossia a chi ha quella
fede. D’altra parte, anche se in tale
fede l’infinito può apparire in modo
indeterminato, ambiguo, inadeguato, a volte essa è tuttavia la fede di stare dinanzi a qualcosa
di ultimo, non oltrepassabile,
intoccabile. Sono i casi in cui anche l’uomo
comune è disposto a parlare della bellezza di ciò che gli sta dinanzi; e sono i casi in cui l’uomo comune
nomina come può l’infinito. Beati gli
umili (gli uomini comuni), perché di
costoro è il regno dei cieli - dove, in questo caso, il Regno dei Cieli è il regno della bellezza che appare
aH’interno della fede (ingenua, umile)
che qualcosa sia il senso ultimo delle cose,
inoltrepassabile, intoccabile.
Schelling, come Hegel, non parla di fede, ma di una rappresentazione che, sia pure per riflesso,
è verità che essa abbia come contenuto
l’infinito, cioè Dio. Si tratta della verità
dell’intera tradizione filosofica, che giunge al suo culmine ma anche al suo compimento. Si può parlare di arte contemporanea
prescindendo dalla tendenza fondamentale
del nostro tempo? Si può parlare di un
uccello migratore - sapere che natura abbia, da dove venga e dove vada - prescindendo dallo stormo che
sta migrando? Oggi il grande stormo del
nostro tempo sta migrando verso
l’estrema lontananza da Dio. Il grande uccello dell’arte non può che andare nella stesa direzione.
Schelling è ancora un grande amico di
Dio, ossia dell’archetipo per eccellenza. L’arte contemporanea sta invece
vivendo anch’essa ciò che Nietzsche
chiama morte di Dio. Ci si accorge che la
materia è senza luce, il reale senza ideale. Il contenuto della bellezza si trasforma
radicalmente. La bellezza, ora, è
innanzitutto, ma non unicamente, la capacità,
da parte dell’opera d’arte, di suscitare in qualcuno la convinzione che in essa sia presente quel
senso ultimo del mondo che è il trovarsi
privi di Dio e la disperazione che ne
consegue. Anche qui, ci si può rivolgere a questa terribile bellezza da uomini umili, poveri di spirito,
che però questa volta non possono essere
beati (o la cui beatitudine può
consistere, come dice Leopardi, solo nella forza con cui vedono la propria infelicità, debolezza,
nullità). Il tragico, la frantumazione
dell’ordine e del sacro, il frammento
sono aspetti della morte di Dio. Questa è la
vertigine del moderno. Ma pensatori come Benjamin e molti altri del tempo presente hanno molto da
imparare da Nietzsche - e innanzitutto
da Leopardi non hanno qualcosa di
essenziale da insegnargli o un’obiezione decisiva da muovergli. Proprio per questo il nostro tempo
è tragico. Se la negazione nietzschiana
di Dio fosse oscillante, la speranza nei
vecchi valori non sarebbe spenta - mentre in verità è spenta, anche se molti sono ancora quelli che
sperano. In quanto tendenza
fondamentale del nostro tempo, lo stormo
di uccelli di cui qui si è detto è l’ultimo degli stormi di cui prima si è parlato - o il penultimo, se
si tiene presente che anche la civiltà
della tecnica è destinata al tramonto (cfr. E.S., Oltrepassare, cit., cap. X). Del tragico le élites si sono accorte da
tempo; le masse stanno accorgendosene.
Infatti, come oltre ai modi adeguati di
rivolgersi a Dio ci sono quelli inedeguati, così c’è adeguatezza e inadeguatezza nel rivolgersi al
cadavere di Dio, cioè nel pensare che
Dio è morto. Nel tempo della morte di
Dio, la bellezza è la fede di qualcuno - ma è una fede in espansione - per il quale il tragico è,
appunto, il senso ultimo del mondo e che
crede che in certi essenti, detti opere
d’arte, questo senso si manifesti.
Si parlava prima dello stormo di uccelli che migrano. Migrano verso un tempo dove la Tecnica
sostituisce Dio. I due si assomigliano
molto più di quanto di solito si creda. Ma
la questione decisiva è che cosa sia l’Aria in cui lo stormo si muove. Lo stormo non può saperlo. Vola verso
la morte di Dio - come lo stormo della
tradizione volava verso la vita di Dio.
Sono accomunati (amici e nemici di Dio) dalla volontà di dominare gli spazi. Ma poi resta la questione di ciò che qui ci
limitiamo a chiamare Aria - che è libera
da ogni volo e sta al di sopra della
vita e della morte di Dio. Qui, di
essa, si può dire che non ha nulla a che vedere con i modi in cui, all’interno dei voli, si è
voluto andare oltre Dio e gli dèi e si è
pensato alla creazione come suicidio di Dio e alla terra come al suo cadavere. È tecnica il Dio demiurgo, ma è tecnica
anche il Dio suicida. Li accomuna la
volontà di manomettere l’essere. Nella
nostra cultura, chi si vuole portare al di sopra dell’azione e della dimensione demiurgica
crede pur sempre nella loro esistenza.
L’arte lo ha sempre creduto. Oggi lo crede
ancora di più. Svela la propria anima tecnico-demiurgica. L’Aria, di cui parlavo, è invece l’apparire
dell’eternità di ogni essere. Appare
allora, in questo apparire, che l’azione -
anche l’opera d’arte, dunque - è soltanto un contenuto della fede. Cioè non soltanto la bellezza, ma anche
Inesistenza dell’opera d’arte - ossia
dell’opera che fa essere le cose che non
sono (J.J. Bodmer) - è il contenuto di una fede. Dice Leopardi che, nelle opere
di genio, l’anima riceve vita, se non
altro passeggera, dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua della cose e sua propria (
Zibaldone, 261). Una vita illusoria, ma
che, sia pure per poco, rende possibile
la sopravvivenza dell’uomo. Un tema centrale, questo, del pensatore-poeta che ha aperto la strada
all’intera cultura del nostro
tempo. La prima opera di genio è quella
dei popoli più antichi: la festa, che è
l’immagine della vita e dunque della morte.
L’immagine si libra al di sopra del mondo: gli uomini festivi si identificano in essa e si sentono quindi
salvi dalla morte. Più tardi la festa
arcaica si dissolve e le sue membra diventano
religione, tecnica profana, arte. Oggi la festa si celebra soprattutto in quelle sue deformanti e
impallidite derivazioni che sono le
folle delle partite sportive, della musica rock, delle visite dei pontefici romani e, in minor
misura, del cinema. Si dice che nei
precedenti film di Terrence Malick emerga
l’indifferenza della natura rispetto alle vicende umane: al loro orrore come ai pochi momenti di felicità.
Ancora più crudele la natura, nei film
di questo regista, quando il massacro è
circondato dalla struggente bellezza della terra, di cieli all’alba e al tramonto, di fiumi, di mari. Se si
uccidono dinanzi a una natura che mostra
a sua volta il proprio volto terribile, gli
uomini possono sentire che in qualche modo essa partecipa ai loro tormenti. In ogni caso, non li rende
sopportabili. Ma questa interpretazione
va nella direzione sbagliata. Per lo
meno è unilaterale. Certo, il timore è l’inseparabile compagno dell’uomo. Il dolore e la morte ne
sono la radice. Ma, per quanto vissuta
nei suoi derivati, la festa non ha
cessato di illudere gli uomini. In questa direzione va detto che nei film di Malick la bellezza della natura
non è l’indifferenza, 309 incapace di rendere sopportabile il
dolore, ma è la forza con cui l’immagine
festiva, facendo sentire la morte, dà vita
airanima. Se non si guarda in
questa seconda direzione, l’ultimo film
di Malick, L’albero della vita, delude. Sembra battere, sorprendentemente, una strada del tutto
diversa da quelli precedenti. La strada
biblica (nominata quasi all’inizio del
film). Per la quale chi segue la via della Grazia non avrà timore. Che poi è la strada di tutte le
religioni. Infatti il timore è vinto,
cioè reso sopportabile, solo quando ci si convince di riuscire a stabilire un’alleanza con quella
che si ritiene la Potenza suprema - e il
Divino è appunto questa Potenza. Perché
ciò accada è necessario che essa accolga il desiderio dell’uomo; e poiché nulla può costringerla
1’accoglierlo è una Grazia, un dono. Si
può dire che Inalbero della vita sia
questa alleanza. L’anima riceverebbe vita da questa alleanza. L’intera tradizione dell’Occidente lo
pensa. Se l’uomo è l’essere che
crediamo di conoscere, la fede nella
possibilità di questa alleanza è inestirpabile. Per questo la religione si riaffaccia continuamente
nella coscienza umana. La cultura
europea ha messo in discussione Dio, ma
non il bisogno di allearsi con la potenza che si ritiene suprema. Oggi, nonostante tutto, si tende a
ritrovarla nella tecnica guidata dalla
scienza moderna. In Europa le masse
avvertono più che altrove il disagio di un’esistenza che va sempre più allontanandosi da Dio e che d’altra
parte non si vede ancora
sufficientemente garantita da una tecnica ancora troppo confusa con la gestione capitalistica
della tecnica. Continuando a seguire
questa linea interpretativa, che conduce
il film di Malick nella direzione sbagliata, esso può allora risultare sorprendente perché,
prendendo le distanze dai contenuti
dalla cultura europea del nostro tempo, dà voce, sia pure con un linguaggio
elitario e con uno scarto che viene
indicato qui avanti, ai contenuti tradizionali della religiosità americana. Non si tratta forse di un regista
provvisto di una rispettabile
preparazione filosofica? Tale cioè da averlo messo in grado di pubblicare la traduzione di una
difficile opera di Martin
Heidegger? Il che - si potrebbe
osservare tra parentesi - metterebbe in
luce qualcosa di più importante, cioè la porta che Heidegger ha lasciato aperta al divino; e che in
qualche modo ha tentato di tener aperta
anche per Nietzsche, che invece si rifiuta di
venir sospinto lungo questa strada. Heidegger guarda infatti al passato della cultura europea come a
qualcosa da cui non si può prendere un
definitivo congedo. Solo un Dio ci può
salvare, egli scrive - a differenza di pensatori radicali come Nietzsche, appunto, o Giovanni Gentile, o,
innanzitutto, proprio Giacomo Leopardi,
al quale Malick, si verrebbe a trovare
vicino se lo sfondo del suo quadro poetico fosse l’indifferenza della natura per il dolore e
la felicità dell’uomo. Il protagonista
del film è un ragazzo che ama, anche
morbosamente, la madre, dolcissima, e patisce l’esteriorità della fede religiosa e il carattere
soffocante e a volte brutale del padre,
e perde il fratello e non vede la ragione di esser buono quando Dio è cattivo; ma infine, fattosi
adulto, varca la porta del dubbio e tra
sogno e veglia si riconcilia con un mondo
dove la madre offre a Dio il proprio figlio, i morti risorgono e tutti si amano. Ma allora - vien fatto di dire - che la fede
sia una lotta continua col dubbio, la
disperazione, il cedimento al peccato,
il cristianesimo lo sa da duemila anni. La tradizione religiosa americana preferisce chiudere presto i conti
con il dramma della fede: predilige la
compostezza, dove però, il dramma, più
che risolto è tenuto via dallo sguardo. In tal modo, lo scarto del film di
Malick rispetto a quella tradizione si
ridurrebbe a ben poco, cioè alla coscienza che quel dramma esiste. Sarebbe dunque un film edificante.
Che però parlerebbe un linguaggio che
per un verso è d’avanguardia ed
enigmatico, per l’altro lascerebbe ampi e ben decifrabili spazi ai tratti più toccanti dell’amore e a una
natura splendida e sovrana. La forma
lussureggiante e innovativa dell’immagine
non farebbe allora che mascherare il contenuto edificante, cioè l’aspetto scontato del film. Però l’interpretazione che abbiamo sin qui
prospettato non rende giustizia a
quell’immagine. La quale non esprime
l’indifferenza della natura per l’uomo, ma ha il carattere festivo di cui si parlava all’inizio. Che il
contenuto americano del film di Malick
sia edificante e scontato non ha più
importanza del fatto che i contenuti dell’antica tragedia greca sono una serie di miti che
tutti gli spettatori conoscevano
dall’infanzia, ben prima di recarsi al teatro dove se li vedevano riproposti. Sono i miti che
parlano della vita, dunque della morte.
Prometeo, Edipo, la guerra di Troia. Ma
come li riproponeva il teatro greco? Riproducendo l’immagine festiva che solleva gli spettatori
sopra la morte: l’immagine che è sentita
più reale e più rassicurante dello
stesso carattere salvifico del mito che in essa viene riproposto. E come il mito greco continua a salvare
l’uomo evoluto della polis solamente
quando esso si trasfigura nell’immagine
festiva del teatro, così il mito cristiano continua a salvare il credente dell’Europa moderna soltanto quando
anch’esso si esprime nell’immagine
festiva della Divina Commedia, nella
Cappella Sistina, nella Passione secondo san Matteo : soltanto nella fusione di rito e arte. Nella minore
dimensione del cinema avviene qualcosa
di analogo. In questo diverso senso,
L’albero della vita è davvero un’opera edificante ( aedes facere ): costruisce la casa dell’immagine
festiva e salvifica. L’imperatore Giuliano, l’apostata, si adopera perché tra
il popolo vengano diffusi e difesi i
miti e i riti pagani. E tuttavia non è
altrettanto noto che, ai suoi occhi, essi appaiono non meno assurdi delle finzioni mostruose del
cristianesimo. Che senso ha, allora,
questa sua difesa del paganesimo? Scritto
nel 1964, uno dei saggi che compongono II silenzio della tirannide di Alexandre Kojève (Adelphi 2004)
aiuta a rispondere. Giuliano è filosofo autentico e grande
imperatore. Spesso danneggiato dagli
estimatori. Vince nelle Gallie e in Persia.
Muore a trentadue anni in battaglia. Se è vero che il cristianesimo è uno dei maggiori fattori
della crisi dell’impero romano, la
volontà di Giuliano di riportare al paganesimo i popoli dell’impero è lungimirante. Ed è una
volontà politica; non l’espressione di
una fede religiosa. Per lui, sia il
cristianesimo sia il paganesimo sono miti, cioè storie false in forma credibile. Però il mito pagano può
ancora salvare l’impero. In ogni mito -
egli scrive - il senso è contraddittorio
(falso, indegno), mentre l’espressione o
è capace di mascherare la contraddizione del senso - e in questo caso il mito ha come contenuto il
divino, oppure, come nella poesia,
l’espressione non si preoccupa di
nascondere l’assurdo, ma si rivolge a chi, ancora bambino nel fisico o nella mente, può credere in
esso. In entrambi i casi, la
contraddizione è mobilitata per conseguire un fine utile o per divertire (Pascal parlerà di
divertissement), per allontanare cioè lo
spettro della morte. Affinché l’impero viva,
al popolo bisogna nascondere la verità: che con la morte è tutto finito. Kojève qualifica giustamente
come straordinario questo passo di Kojève:
uno dei maggiori interpreti di Hegel. Anzi, per lui Hegel è il Filosofo oltre il quale non si può
andare. E di Giuliano egli mostra più
volte perché lo si debba considerare un “hegeliano”
ante litteram. Proprio così. (Per esempio
legge in Giuliano l’anticipazione del celebre tema hegeliano del riconoscimento del signore da parte del
servo.) Ora, è notevole che lo straordinario
discorso di Giuliano, intorno alla
contraddittorietà del contenuto del mito, per
Kojève non faccia una piega. Giuliano dice che, proprio perché il contenuto (il senso) del mito,
cristiano o pagano che sia, è
contraddittorio, proprio per questo esso è
inesistente. Un discorso aristotelico. Ma è anche noto che il problema fondamentale dell’interpretazione di
Hegel è stato ed è tuttora il rapporto
tra questo pensatore e il principio di
non contraddizione. Sono molti a ritenere incautamente (Popper in prima fila) che Hegel sia
pervenuto alla negazione di questo
principio, e cioè che per lui la realtà sia, alla lettera, contraddittoria. Quale occasione migliore
dello straordinario discorso di Giuliano
avrebbe avuto allora Kojève per
allinearsi a quei cattivi interpreti, e dire con forza (lui, che invece vede nel pensiero di Hegel
la Verità) che il discorso di Giuliano
non sta in piedi, appunto perché
identifica Yirrealtà con la contraddittorietà? E invece niente. Anche per questo silenzio Kojève è un grande
interprete di Hegel. I Romani hanno
conquistato il mondo con la serietà, la
disciplina, l’organizzazione, la continuità delle idee e del metodo; con la convinzione di essere una
razza superiore e nata per comandare;
con l’impiego meditato, calcolato della
più spietata crudeltà, della fredda perfidia, della propaganda più ipocrita, messe in atto simultaneamente o
di volta in volta; con una risolutezza
incrollabile nel sacrificare sempre
tutto al prestigio, senza essere mai sensibili né al pericolo, né alla pietà, né ad alcun rispetto umano; con
l’arte di alterare nel terrore l’anima
stessa dei loro avversari, o di
addormentarli con la speranza, prima di asservirli con le armi; infine con una manipolazione così abile
della menzogna più grossolana da
ingannare persino la posterità e da
continuare a ingannarci. Chi non
riconoscerebbe questi tratti? Una
pagina vigorosa di Germania totalitaria (Adelphi 1990) che Simone Weil ha pubblicato nel 1940.
Alla domanda finale la Weil risponde che
in quei tratti tutti possono riconoscere
la Germania di Hitler: il nazionalsocialismo non è una creazione specifica del popolo tedesco -
come la propaganda nazionalsocialista
sosteneva -, ma qualcosa di più
profondo, cioè l’imitazione di un modello che va rintracciato molto più indietro nella storia
europea, nell’Impero romano,
appunto. In Simone Weil questo giudizio
sull’antica Roma - che si estende al
rapporto tra Hitler e il regime interno dell’Impero romano - è anche più pesante di quanto non
appaia dal passo riportato, ma non è
arbitrario (si pensi ad esempio alla
condanna dei metodi di conquista romani da parte di uno storico come Jéròme Carcopino), o è
arbitrario nella misura in cui non
spinge sino in fondo il proprio significato. Ma intanto va completato
l’intreccio proposto dalla Weil:
rendendo esplicita una conseguenza - forse non adeguatamente sottolineata dalfautrice - che
discende, da un lato, dal suo giudizio
su Roma e, dall’altro, dalla sua tesi sullo
stato attuale del capitalismo.
Con molte ragioni, la Weil vede già presente, in Marx, la tesi che i lavoratori sono oggi sfruttati non
tanto dal capitale privato, ma dal
capitalismo di Stato, divenuto ormai, secondo
l’espressione di Marx, una macchina burocratica e militare, che è presente sia nello Stato
nazionalsocialista, sia nello Stato
sovietico, sia nella democrazia americana di un Roosevelt influenzato dai nuovi tecnocrati. Il comun
denominatore di queste tre forze è
infatti la tecnica - la disumanità della
tecnica che riduce a funzione della macchina statale l’individuo umano. La conseguenza è che
l’impero romano è il modello non solo
per la Germania di Hitler, ma per l’intera
direzione fondamentale della storia.
Non solo della storia contemporanea, ma di tutta la storia dell’Occidente. Il Sacro Romano Impero, gli
Stati nazionali moderni, Richelieu,
Luigi XIV, Napoleone, procedono sulla
stessa strada. Per ulteriore disgrazia, scrive la Weil, a Roma si afferma il cristianesimo, che eredita il
Vecchio Testamento, dove la disumanità
verso i nemici vinti e il culto della forza si
accordano straordinariamente bene con lo spirito di Roma soffocando ^ispirazione divina del
cristianesimo. Il giudizio su Roma di
Simone Weil, dicevamo, non rende
esplicito il proprio significato più profondo. Ma avrebbe potuto trovare in Hegel un aspetto più
profondo. Hegel non mette tra parentesi
la virtù romana, ma mostra perché si
trovi unita, come egli dice, alla durezza e all’atteggiamento compostamente risoluto dello spirito romano.
Si tratta dello spirito che assume lo
Stato come scopo supremo e ultimo. Tutto il resto è subordinato, a incominciare
dalla stessa vita familiare e dai
sentimenti dell’uomo romano. Se si pensa per
davvero questa affermazione, si comprende l’inevitabilità di tutti gli aspetti negativi, denunciati da
Simone Weil, attraverso i quali i Romani
sono diventati i padroni del mondo. La
Weil, più debolmente, scrive che i Romani
sacrificano con risolutezza tutto al prestigio. Ma se si va più a fondo, il prestigio è l’aspetto assunto
dallo Stato presso le genti quando vale
come scopo ultimo dell’esistenza. Ciò
non significa che questo spirito - la volontà di porre lo Stato al di sopra di tutto - non sia stato
attraversato da forze opposte e potenti:
significa che, nonostante le traversie a cui
Roma è andata incontro, quello spirito è rimasto sullo sfondo anche quando sembrava svanito, e ha avuto la
forza di imporsi perfino su quei barbari
che stavano prevalendo ma che a lungo,
nella maggior parte dei casi, non hanno pensato
di distruggere l’Impero - che anche ai loro occhi era il vero Imperituro, l’orizzonte ultimo accessibile ai
mortali -, ma hanno inteso diventarne
essi la forza portante, e i loro capi
hanno inteso porsi alla guida dei processi che continuavano ad assumerel’Impero come scopo ultimo
dell’esistenza. Come si spiegherebbero
altrimenti i dodici secoli di vita di Roma
(giungendo a Giustiniano), se lo spirito romano non avesse esercitato un’attrazione così potente? Appunto alla volontà di potenza, da ultimo,
ci si deve dunque rivolgere per
comprendere perché quello spirito abbia
avuto una tale forza di attrazione - pur non essendo certamente stato la prima forma di volontà di
potenza nella storia dell’uomo. L’uomo
sperimenta sin dall’inizio la potenza
sprigionata dall’aggregazione dei singoli e che appare subito superiore alla somma delle loro forze. Lo
Stato (l’aggregazione), deve apparire
quindi qualcosa di divino. Inevitabile
dunque che sin dall’inizio l’uomo assuma questa potenza come lo scopo ultimo a
cui tutto debba essere subordinato. Sin
dall’inizio la dimensione religiosa e quella
politica si fondono, sia pure con intensità diversa e con diversa coerenza rispetto alla potenza che si
vuole ottenere. Se lo Stato si mostra
ben presto come lo strumento più
efficace per avere potenza, tuttavia, proprio perché la potenza sia grande e crescente, lo Stato non può
rimanere soltanto uno strumento nelle
mani dei singoli e pertanto qualcosa che
non può non risentire negativamente della loro impotenza. È cioè inevitabile che lo Stato divenga il loro
scopo supremo, a cui qualsiasi interesse
e scopo particolare deve essere
sacrificato. Lo spirito delle
monarchie assolute dell’Oriente riesce a
sopportare a lungo la contraddizione per la quale il monarca è un individuo e, insieme, è lo Stato, ossia
qualcosa di non individuale. Poi la
contraddizione esplode, e la democrazia
greca tenta di superarla. Senza riuscirvi, perché in Grecia la democrazia non può non sentire la voce della
filosofia, cioè della coscienza che non
solo non può identificare l’individuo a
ciò che non è individuale, ma che, anche a proposito del non individuale in cui consiste lo Stato,
denuncia l’impossibilità che uno scopo
finito, quale è lo Stato, possa essere
assunto come lo scopo supremo, e in questo senso infinito. La sapienza (il cui aumento, dice
la Bibbia, aumenta il dolore)
indebolisce lo Stato. La potenza di esso è maggiore quando cresce lontana dalla radicalità della
sapienza filosofica. Proprio per la sua
intenzione di dare la felicità, la
filosofia indebolisce la fede dell’uomo negli strumenti di cui egli si serve per sopportare il dolore. È la
filosofìa a voler porsi come scopo
ultimo. (Poi sarà la fede cristiana.) I
Romani dice Hegel nelle Lezioni sulla filosofia della storia sono solidamente orientati
all’attività pratica, ma non riflettono
teoricamente su questo loro orientamento.
Hegel non dice che appunto questa riflessione indebolisce il proprio oggetto, cioè Inattività pratica,
come appunto accade alla polis greca. E
non la sapienza radicale della
filosofia, ma la sapienza del diritto rafforza la fede nello Stato, appunto perché a Roma il diritto si
sviluppa esplicitamente, a differenza
della filosofia, all’interno della
convinzione che lo Stato sia lo scopo ultimo dell’esistenza, e contribuisce alla realizzazione di tale
scopo. Per i Greci la tragedia è uno
dei punti più alti della loro grandezza.
Per i Romani l’anfiteatro è uno dei più bassi. In entrambi i casi si tratta però di porsi in
rapporto al dolore e alla morte, per
sollevarsi al di sopra di essi. E lo Stato appare ai Romani come la salvezza. Ma nella
tragedia, che è grande filosofia, i
Greci rappresentano il dolore mostrandone il senso e indicando il senso che il rimedio può
avere. L’anfiteatro romano, invece, si
limita a produrre realmente il dolore, e la
riflessione tende a coincidere con quella povertà dello spirito che è il godimento suscitato dalla sofferenza
altrui. Qui, la risolutezza romana
raggiunge, insieme, il proprio apice
imprevisto (muore ne ll’anfiteatro chi è stato vinto da Roma) e, insieme, la propria distruzione, che
l’originaria e sobria lontananza romana
dalla radicalità della sapienza filosofica
aveva saputo evitare. Gl’ebrei hanno qualità positive di coesione e di
solidarietà che mancano ai tedeschi.
Affetti da eccessivo individualismo, i
Tedeschi sono Ariani degenerati. Si
trovano in uno stato di debolezza, di divisione, di estremo pericolo.
Giudizi, questi, insieme a molti altri affini, che non sono espressi da un severo critico della Germania
del XX secolo, ma da Hitler in persona,
nel suo scritto Mein Kampf. Funestamente
celebre; scritto tra il 1924 e il ’25; il libro più diffuso in Germania sino alla fine della
seconda guerra mondiale. Per Hitler i
Tedeschi di quel tempo erano un armento.
Che non solo si era allontanato dalla creatività, volontà di dominio e genialità del vero
Ariano (un giudizio, questo, ripetuto da
Hitler poco prima di uccidersi), ma che
aveva anche il torto di essere oggettivo, insensibile alla prospettiva nazionalistica (che appunto si
pone al di sopra dell’oggettività), e
dunque inferiore allo spirito dialettico
degli Ebrei. Aveva anche il torto, Sarmento, di sottovalutare gli Inglesi e soprattutto di tollerare gli
Ebrei. Chi ha letto Mein Kampf (La mia
battaglia) non sta sentendo nulla di
nuovo, ma è nuovo e interessante il modo
in cui il libro di Hitler viene interpretato da Dora Capozza e da Chiara Volpato (cfr. Le intuizioni
psicosociali di Hitler. Un’analisi del
Mein Kampf, (Patron). All’enorme
quantità di ricerche che da ogni punto di vista e con risultati di grande rilievo sono state
condotte sul nazismo questo saggio
aggiunge una dissezione del linguaggio di Mein
Kampf operata con i metodi più recenti della psicologia sociale. In primo piano, l’analisi delle corrispondenze
tra le espressioni più ricorrenti e
significative usate da Hitler. I cui
giudizi riportati all’inizio non risultano irresponsabili, ma
appartengono a un piano ben preciso, che giustifica il successo di un uomo come Hitler in uno dei
Paesi più civili del mondo. Stando ai risultati di questo saggio di
Capozza e Volpato è già notevole che al
centro delle pagine di Hitler non stia come
ci si potrebbe attendere, la razza Ariana, ma quella Ebraica, considerata come il prototipo della
razza aliena che ha di mira, alleandosi
con i bolscevichi, la distruzione della
civiltà ariana. Tutti gli insulti più odiosi e minacciosi sono usati da Hitler contro gli Ebrei, che
tuttavia hanno ai suoi occhi alcune
qualità positive che costituiscono per i
Tedeschi il pericolo maggiore. Egli addita cioè ai Tedeschi il pericolo mortale in cui son venuti a trovarsi
per colpa degli Ebrei; ma non li
deprime, perché presenta loro quel Partito
nazionalsocialista che sarebbe l’unica forza capace di salvar-li e farli diventare quel che essi sono nella
loro essenza ariana. Il suo partito è
unito, ha fede e pur lottando contro il marxismo capisce i problemi della classe operaia. Cioè Hitler scrivono le autrici suscitava
antisemitismo non solo tramite la
spiegazione dei fallimenti dei Tedeschi,
ma anche presentando gli Ebrei superiori ai Tedeschi in una importante dimensione di confronto: coesione,
solidarietà, omogeneità: una dimensione
in cui non si vuole essere inferiori.
Tanto che le autrici possono concludere che Hitler, capace di raffinate intuizioni sull’uomo
sociale, per diffondere il suo programma
ha operato sulle motivazioni e i
processi previsti dalle teorie psicosociali. A loro avviso il testo è basato su tre idee:
darwinismo sociale (lotta eterna tra
forti e deboli, selezione naturale, spazio
vitale ecc.), principio etnocentrico (al centro
dell’esistenza c’è una certa razza, un certo popolo) e principio della personalità (l’individuo superiore
guida la massa stupida e incapace). Qui vorrei rilevare che quei tre
principi appartengono (in modo
filosoficamente ingenuo) a una grande
dimensione comune, che più o meno corrisponde ai due ultimi secoli della storia
dell’Occidente. Quelli della morte di
Dio. Tutto a posto, allora, ritornando a Dio? No; la morte di Dio è la figlia legittima,
inevitabile, della vita di Dio. E
invincibile sino a che non ci si sappia rivolgere al senso essenziale e non si sappia mettere in
questione la creatività e la volontà di
potenza dell’uomo ariano e non ariano
che sia. Al capitolo III 8. Piazza
della Loggia Trentanni fa c’era molta
incomprensione per quanto stava
accadendo in Italia con gli attentati terroristici. Pochi giorni dopo la strage di Piazza della Loggia
osservavo quanto fossero inadeguate le
interpretazioni fornite delle massime autorità
della politica e della cultura. Il presidente della repubblica Giovanni Leone dichiarò che il fascismo,
ritenuto responsabile dell’eccidio, era morto
per sempre il 25 aprile 1945 e che di
esso non sopravvivevano che squallide
minoranze. Per eliminare le quali, aggiungevano altri, si trattava soltanto di rendere più efficienti
polizia e magistratura. C’era anche,
però, chi sosteneva la necessità di
adeguare la legislazione al dilagare del terrorismo - il cui senso veniva peraltro lasciato nel buio -,
ripristinando magari la pena di morte.
Il giorno dopo la strage di Piazza della
Loggia Alberto Moravia scriveva sul Corriere della Sera che gli esponenti del fascismo erano soltanto dei
razionalizzatori per lo più inconsci e
quasi sempre imbecilli delle proprie
private tare. Nel suo insieme,
questo modo di prendere posizione
rispetto al terrorismo sottovalutava il fenomeno. C’era ben altro dietro le squallide minoranze o gli imbecilli
che razionalizzavano le proprie tare
private. C’era il problema dell’avanzata
del Partito comunista italiano, che con i
consensi elettorali ottenuti stava andando verso la conquista democratica del governo - e, questo,
all’interno di una situazione
internazionale dove la sfera di influenza degli Stati Uniti, alla quale l’Italia apparteneva, non
avrebbe mai consentito che al governo,
in Italia, ci andassero i comunisti.
Nel 1974, al tempo del viaggio di Leone in America, Kissinger non solo minacciò il ritiro delle
truppe americane dal nostro continente qualora gli alleati europei non si
fossero allineati agli Stati Uniti nei
confronti dei Paesi produttori di
petrolio; ma a chi gli parlava di una troppo pesante ingerenza degli Usa nella nostra penisola Kissinger (è
importante ricordarlo oggi) rispose che
se l’Italia fosse passata sotto la sfera
di influenza dell’Urss, il mondo democratico avrebbe poi rimproverato gli Stati Uniti di non aver salvato
l’Itaha dal comuniSmo - dal che si
capisce quanto fosse un bluff la
minaccia di ritirare le truppe americane dall’Europa, che a sua volta, e a maggior ragione, doveva essere salvata
dal comuniSmo. Negli anni Settanta ho dedicato una
considerevole attenzione alle
connessioni tra terrorismo e situazione politica internazionale. Il mio libro Téchne (Rusconi
1979, Rizzoli 2002) ne è la
testimonianza. Ma solo un poco alla volta è
maturata in Italia la consapevolezza che i fatti storici esecrandi, che a prima vista sembravano solo
esplosioni di una ottusa brutalità,
erano invece espressioni di quella dura
vicenda in cui popoli si scontrano per assicurarsi la sopravvivenza e i privilegi in un mondo
sempre più pericoloso. Il terrorismo che
ha portato a episodi come quello di
Piazza della Loggia non appartiene alla banalità o alla semplice dimensione defl’immoralità, per
uscire dalla quale basta qualche pia
intenzione delle anime belle. Un discorso
analogo vale anche oggi.
Rispetto al Partito comunista italiano il fascismo italiano degli anni Settanta è un nano. Che però ha
alle spalle una forza enormemente più
gigantesca di quella del Pei: il sistema
democratico-capitalistico, con gli Usa al proprio centro. Di fronte alla possibilità di una conquista
democratica del potere da parte del
comuniSmo, tale forza agisce in modo che il Pei
risponda agli attentati terroristici con azioni illegali, che avrebbero consentito il ripristino
autoritario della legalità e, con la messa al bando del Pei, l’eliminazione del
pericolo comunista. Di qui il rifiuto
violento del Pei alla proposta di
reintrodurre la pena capitale. Se il Pei non ha reagito illegalmente alla provocazione fascista non è
stato per amore della legalità e della
democrazia, ma perché, da un lato, ha
capito che alla legalità e al carattere democratico del proprio operato era legata la propria
sopravvivenza; e dall’altro perché il
Pei era consapevole di non potere e dunque
di non dovere prendere il potere in Italia. A quel tempo, scrivevo che al governo il Pei sarebbe andato
quando non fosse più stato un partito
comunista. Tasse e amnistia L’aumento
della criminalità in Italia è, come si suol dire, un fatto. Dunque non solo in città come Brescia
- dove il tasso di immigrazione,
superiore alla media nazionale, è uno dei
fattori di tale aumento. Non l’unico. Come l’atteggiamento caritativo della Chiesa nei confronti degli
immigrati non è l’unico dei fattori da
tener presenti nella discussione di questo
problema. Non l’unico; e tuttavia molto importante. Dico questo, per l’analogia, apparentemente
paradossale, che sussiste tra il
problema delle tasse degli Italiani e il
problema dell’amnistia nei confronti di migliaia di detenuti delle nostre carceri - un’amnistia voluta dal
centro-sinistra del secondo governo
Prodi e, direi, soprattutto e fortemente
dalle forze cattoliche. Le quali hanno agito, guidate dalle decise sollecitazioni della Chiesa cattolica
in quella direzione. Ed ecco quanto
intendo rilevare. È molto probabile
che, come a suo tempo aveva rilevato
l’onorevole Visco, il clima determinato dal precedente governo di centro-destra in tema di
tassazione avesse favorito e
incrementato la propensione degli Italiani all’evasione fiscale. Quando l’autorità sembra andare
incontro alle nostre inclinazioni
individuali, quest’ultime tendono infatti a
rafforzarsi e a espandersi. La televisione è ormai considerata un’autorità, e accade appunto che
comportamenti televisivamente tollerati,
o lasciati scorrere con indulgenza sul
piccolo schermo, aumentino la propensione della gente a imitarli.
Ma è anche difficile, a questo punto, evitare l’analogia tra il problema fiscale e l’amnistia carceraria che
ha rimesso in strada anche persone il
cui primo pensiero è stato di riprendere
l’attività interrotta dalla reclusione. L’amnistia non aveva riguardato soltanto Italiani, ma anche
immigrati extracomunitari. Difficile,
allora, evitare il seguente
ragionamento. Come è molto
probabile che il clima prodotto dalla politica
fiscale dei governi di centro-destra abbia favorito l’incremento dell’evasione fiscale, così è
molto probabile che il clima determinato
dall’amnistia carceraria abbia prodotto un
clima che ha portato la gente a credere che l’autorità guardasse con una certa indulgenza l’evasione
dal diritto civile e penale, un clima
che quindi ha in qualche modo favorito
ed esteso la propensione per quella diversa forma di delinquenza che consiste negli omicidi e
nelle rapine. Inevitabile che chi ha
subito questa forma di suggestione,
determinata dall’amnistia, siano stati soprattutto gli immigrati e in particolare gli
extracomunitari che, proprio perché
tali, entrano nel Paese da cui sono accolti senza avvertire - come invece possono farlo coloro
che in quel Paese son nati - la presenza
e il carattere bene o male vincolante
delle leggi in esso in vigore. Nel caso
dell’amnistia la suggestione è stata ancora
maggiore, perché il provvedimento era stato proposto non solo dalle forze politiche al governo, ma
anche da quell’autorità della Chiesa,
che nel mondo può certo vantare
un’autorità maggiore delle forze politiche italiane. L’amnistia ha creato un’immagine pubblica
del legame tra legalità e carità, che ha
allentato il timore di trasgredire la
legge. Pensando a questo e ad
altri ordini di problemi avevo detto
alla svelta, in un’intervista rilasciata al Corriere, che mi risultavano incomprensibili certi
atteggiamenti caritativi della Chiesa
bresciana. Si parlava dei delitti commessi a
Brescia. Ma il mio discorso era rivolto primariamente alla Chiesa in generale, che tenta di seguire come
può l’invito, rivolto da Gesù al giovane ricco, di dare ai poveri tutte le proprie ricchezze. Per seguire Gesù la Chiesa dovrebbe dire ai
popoli ricchi di dare tutte le loro
ricchezze a quelli poveri. La Chiesa non può
seguire la sublime follia di Gesù. Non può permettersi di sembrare sublimemente folle. Tenta come può
di seguire Gesù: con le forme
tradizionali della carità. Le quali, per un
verso, lasciano che i ricchi rimangano ricchi, e per l’altro si riversano, quando possono, alfinterno dei
rapporti civili presenti nei singoli
Stati e diventano opere assistenziali di
vario tipo, su su fino a opere di grande portata come lo è stata appunto l’amnistia in Italia. Che certamente
non è l’unica responsabile dell’aumento
della criminalità nel nostro Paese, ma
che, altrettanto certamente, responsabile è.
Lo sport è importante. Perché - forse soprattutto - non è innocente. Tanto più importante quanto più
simula le forme della lotta e del combattimento.
La gente trova in esso quello sfogo
delle proprie frustrazioni, che altrimenti indirizzato le procurerebbe gravi sanzioni civili e penali.
Ma bisogna che la squadra in cui ci si
identifica vinca e che la vittoria non sia
ostacolata. Altrimenti lo sfogo straripa, diventa incontrollabile. Nelle società povere Finsoddifazione finisce
col trasformarsi in massacro. Ma oggi
anche quelle ricche hanno motivi per
essere insoddisfatte. Si percepisce che il mondo dei valori tradizionali va franando. È la notizia
che fa da sfondo a ogni altra. Ed è
ormai un luogo comune rilevare che i mass
media, diffondendola e moltiplicandola, la trasformano nel modello da imitare. Poiché la frana della
tradizione è violenza, che acquista
mille volti, l’imitazione del modello
violento diventa a sua volta notizia, a sua volta diffusa e moltiplicata. I violenti si sentono pertanto
ripagati di molte delle loro
frustrazioni. Non è poi così banale l’affermazione che si esiste solo se si è in televisione.
C’è sempre stato qualcosa di analogo. La
violenza è una forma di potenza (o
addirittura coincide con essa); e la potenza esiste solo se è pubblicamente riconosciuta. Non esiste un
sovrano o un dio la cui potenza non sia
stata o non sia pubblicamente
riconosciuta. Non ci si sfoga delle proprie frustrazioni se non ci si sente in qualche modo potenti o
violenti e se quindi non ci si rende il
più possibile visibili. I mezzi di comunicazione di massa del nostro tempo sono la forma più
potente di riconoscimento pubblico e
quindi di produzione della potenza e
della violenza. Alla messa in scena del progressivo disfacimento dei valori morali, civili,
religiosi, estetici delle società avanzate si unisce la messa in scena del
disfacimento di ogni regola di
convivenza tra gli Stati. Hobbes rilevava che
10 Stato nasce per uscire dal belluino stato di natura (homo homini lupus), ma gli Stati hanno continuato
a essere lupi gli uni per gli altri.
Questo è l’esempio che gli Stati danno agli
individui! Gli Stati, che pure dovrebbero rappresentare la ragione e la civiltà contro l’istinto e
l’egoismo individuale! E anche di questa
belluinità degli Stati i mezzi di comunicazione
di massa danno continua notizia alla gente, dando la maggiore visibilità e quindi il maggior
respiro alla violenza. In Italia è tempo
di pensare alla riforma del diritto. Ripeto che
come la politica finanziaria della destra incrementa l’evasione fiscale, così gli indulti e le amnistie della
sinistra incrementano la violenza del
crimine. Ma la gran ventura, che
riguarda l’intero pianeta, e che (all’interno del dispiegarsi della civiltà dell’Occidente) non è
necessariamente negativa, è 11 guado
che dai valori del passato conduce al futuro. Ravaioli: La crescita produttiva
continua a essere l’obbiettivo più
tenacemente auspicato e perseguito da
economisti, imprenditori, governi, politici di ogni colore, e di conseguenza da tutti invocato anche nel
discorrere più feriale, che so, al bar,
in treno, al mercato; dato come una
indiscutibile ovvietà, o addirittura come una verità di fede... A lei certo la cosa non è sfuggita, e vorrei
chiederle che ne pensa: è d’altronde un
avvio perfettamente calzante col
discorso che ci proponiamo. Severino (S.) Questo continuo parlare della
crescita come di cosa ovvia è in buona
parte dovuto all’ignoranza. Sono decenni
che si va intravedendo l’equazione tra crescita
economica e distruzione della terra. Comunque, è tutt’altro checondivisibile l’auspicio di una crescita
indefinita. R. Professore, sta dicendo
che l’economia è una scienza consapevole
delle conseguenze negative della crescita?
S. Ha incominciato a diventarne consapevole: l’auspicio di una crescita indefinita va ridimensionandosi.
Anche nel mondo dell’intrapresa
capitalistica - la forma ormai
pressocché planetaria di produzione della ricchezza - ci si va rendendo conto del pericolo di una crescita
illimitata (anche se poi si fa ben poco
per controllarla). R. Non si direbbe
proprio... S. Sì invece. Vent’anni fa,
quando Lei scrisse quel suo bel libro
che interpellava numerosi economisti a proposito del problema dell’ambiente, la maggior parte
degli intervistati affermava che quello
del rapporto tra produzione economica ed
ecologia era un falso problema. Oggi non pochi economisti sono molto più cauti... e anche le
dichiarazioni dei politici sono diverse
da venti o trent’anni. R. In pratica però non fanno che invocare crescita,
senza nemmeno nominarne i rischi... S. Be’, in periodo di crisi economica, di
fronte al pericolo immediato di una
recessione, è naturale che si insista sulla
necessità della crescita... Purtroppo però lo si fa riducendo il problema alle sue dimensioni tattiche,
ignorandone la dimensione strategica. R.
E intanto si verificano sempre più tremendi disastri, che inconfondibilmente denunciano la pericolosità
della crescita... Dal Golfo del Messico
a Fukushima... per citarne solo un paio
dei più gravi e che hanno avuto massima
risonanza. S. Certo. Ma, facendo
un passo avanti, vorrei precisare che
prendere atto della gravità di fenomeni come questi significa capire che essi non sono dovuti alla tecnica
in quanto tale, ma alla gestione
economico-politica della tecnica... Non sono
disfatte della tecno-scienza, ma dell’organizzazione ideologica della scienza e della tecnica... Sono
disfatte, cioè, del capitalismo (fermo
restando che l’economia pianificata di
tipo sovietico era ancora più dannosa per l’ambiente). R. La mia impressione però è che quanti
insistono a invocare crescita continuino
a ignorare che tutto quanto vediamo,
tocchiamo, usiamo, è fatto di natura; e che
dunque disponiamo di materia prima in quantità date, e non dilatabili a richiesta. Questa realtà in
sostanza viene rimossa. I grandi
industriali che si confrontano a Davos,
Cernobbio ecc., spesso neanche citano il problema... Automobili, barche, indumenti, mobili,
computer... tutto quanto esce dalle loro
fabbriche... di che cosa credono che
siano fatti? S. Ma è un
atteggiamento normale dell’uomo quello di
preoccuparsi soprattutto dei problemi immediati, lasciando sullo sfondo
quelli che non sembrano urgenti, ma che spesso
sono quelli decisivi. Quando la barca fa acqua la prima preoccupazione è tappare la falla... Poi si
pensa al luogo dove approdare. Certo, ci
sono quelli che stando nella barca non
pensano mai a trovare il porto, e quindi, nel complesso diventa inutile tappare le falle... Si
verificano allora tutti i comportamenti
che lei giustamente rileva. R. Scusi,
non vorrei aver capito male... La sua è una
giustificazione di questi comportamenti da parte di chi, poco o tanto, è responsabile dell’economia
mondiale? S. No. Dicevo che è,
purtroppo, costume umano non aver occhi
che per i problemi immediati, ignorando quelli
fondamentali - che magari gli stanno sotto il naso... È però una mancanza di consapevolezza che ha
incominciato a incrinarsi anche prima di
cataclismi come Fukushima. Sebbene
ancora non se ne vedano conseguenze nelle scelte politiche...
R. Ma il problema esiste da decenni... Il deperimento dell’equilibrio ecologico è stato
clamorosamente denunciato dagli anni
Cinquanta, ma nelle scelte politiche è stato
completamente ignorato. S. Ecco,
forse su quel completamente si può non essere
d’accordo... Penso ad esempio a Clinton, consigliato da Al Gore: nel suo primo discorso da presidente ha
parlato agli Americani della necessità e
convenienza di una crescita economica
sostenibile... Una dichiarazione di intenti che in qualche modo anche Obama ha fatto propria... R. Però nessuno di quelli che contano sembra
rendersi conto che la crescita
produttiva attualmente perseguita - che
è continua aggressione agli equilibri ecologici - si identifica di fatto col sistema capitalistico. Anche
celebri economisti (vedi Stiglitz,
Krugman, Fitoussi... per citarne qualcuno)
riconoscono la gravità della situazione ambientale, ma non accennano nemmeno a soluzioni che mettano in
discussione il capitalismo. S. Sono
pienamente d’accordo con lei: è proprio questa la situazione... Ma occorre anche dire che oggi,
in un mondo conflittuale, dove nessuno
intende rinunciare al potere, una
politica economica meno produttivistica significherebbe mettersi dalla parte dei perdenti,
indebolirsi anche sul piano militare,
essere condizionati da Paesi come l’Iran o la Cina... Nella situazione attuale, rinunciare alla
crescita, cioè alla potenza economica,
significa essere sopraffatti... E sembra
difficile anche rinunciare alla base economica richiesta dall’armamento nucleare. Oggi infatti, a
differenza di quanto spesso si continua
a credere, la potenza nucleare appare
decisiva anche nella lotta contro il terrorismo... È un problema enorme, che si tende a non
affrontare nemmeno là dove si è
consapevoli che la crescita incontrollata... distrugge la terra. Per arrivare a un impegno adeguato
per la soluzione di tale problema
dovranno accadere disastri giganteschi...
con qualche milione di morti... Ma prima si tirerà la corda finché sarà possibile. R. Certo. Tutto questo che lei dice
corrisponde a una lettura intelligente e
del tutto esatta della realtà. Mi domando
però fino a quando questa realtà potrà reggere, di fronte a una natura devastata - in misura già oggi forse
irrecuperabile - da un agire economico
fondato su una crescita produttiva che
non prevede limiti. S. È da
guardare con diffidenza - ma non voglio sembrare cinico - l’intellettuale che dice alle grandi
potenze mondiali: Dovreste mettervi in
discussione. Le grandi potenze non
cambiano le loro scelte perché gli intellettuali dicono qualcosa che va contro i loro interessi... Ce la vede
lei una Cina che 334 rinuncia a una politica economica
vincente, e al proprio tète- à-tète
attuale con Stati Uniti, Russia, Europa, per rispetto dell’ambiente? Le pare verosimile? E ormai
anche in Europa la vita va avanti
alimentata dalle centrali nucleari. E
continueranno ad andare avanti così, inevitabilmente... Non basta quello che sta succedendo: solo un disastro
di proporzioni senza precedenti, dicevo,
potrebbe convincere l’ordinamento
capitalistico a cambiar strada in modo
radicale... R.
Inevitabilmente... In base alla natura umana? Alla storia?
S. In base alla priorità che per lo più vien data ai problemi immediati. Ma c’è un’altra inevitabilità,
ancora più perentoria: quella del
tramonto del capitalismo. Diciamolo in
quattro parole. Un’azione è definita dal proprio scopo. Anche l’agire capitalistico è quindi definito dal
suo scopo, cioè dall’incremento
indefinito del profitto privato. Quando il
capitalismo, di fronte a grandi disastri planetari dovuti al suo agire, assumerà come scopo non più
l’incremento del profitto ma la
salvaguardia della terra, allora non sarà più
capitalismo... Inevitabilmente: o il capitalistimo, andando avanti così, cioè volendo avere come scopo il
profitto, distrugge la terra, la propria
base naturale, e quindi sé stesso,
oppure assume come scopo la salvaguardia della terra, e allora anche in questo caso distrugge
egualmente sé stesso. In questo senso
appunto parlo da decenni di inevitabilità del
tramonto del capitalismo. R. Lei
è uno dei pochissimi che fanno previsioni del genere. Le stesse sinistre - quel poco che ne rimane
- sembrano aver definitivamente
rinunciato all’idea di superare il capitalismo.
Che è l’idea per cui sono nate... Oggi in fatto di ambiente non hanno alcuna politica propria, anche se gli
spetterebbe, perché in fondo a pagare le conseguenze dello sconquasso ecologico sono soprattutto le classi più
povere... Ma no, anche le sinistre sono
allineate sull’invocazione della crescita,
di fatto preoccupate esclusivamente di occupazione e salari: ciò che certo è comprensibile, anzi
necessario, ma che forse potrebbe non
limitarsi (come per lo più sostanzialmente
accade) a occuparsi di singole situazioni di crisi e magari tentare di spingere lo sguardo un po’ più
lontano: dopotutto la globalizzazione è
un fatto, che riguarda tutti e - anche se
non ce ne accorgiamo - tutti per mille modi ci determina... S. Quando parlo di declino del capitalismo,
parlo infatti di qualcosa che presuppone
anche il declino del marxismo,
delfumanesimo marxista, dell’umanesimo di sinistra. Non è che la sinistra sia in una posizione
avvantaggiata rispetto al capitalismo...
Ma il discorso va completato. Sia il capitalismo sia il marxismo e le sinistre mondiali - ma
anche i totalitarismi e le teocrazie, e
la democrazia, e anche le religioni e
ogni visione del mondo e ideologia... - si sono
illusi e si illudono tutt’ora di servirsi della tecnica. Ma che cosa vuol dire questo? Che la tecnica è il
mezzo con cui tutte quelle forze
intendono realizzare i propri scopi (per esempio la società giusta, senza classi, oppure
l’incremento del profitto privato,
oppure l’eguaglianza democratica ecc.)... Anche la sinistra è cioè sullo stesso piano del
capitalismo per quanto riguarda il
rapporto con la forza emergente della modernità, cioè la tecno-scienza. Simone Weil diceva che
il socialismo è quel reggimento politico
in cui gli individui sono in grado di
controllare la macchina tecnologico-statale-militare- burocratico-finanziaria ecc.. L’individuo -
come il capitalista - si illude di poter
controllare l’apparato tecnologico. Si
tratta di capire perché è un’illusione...
R. Una prospettiva che dovrebbe poter contenere tutti i possibili. S. Invece andiamo verso un tempo
in cui il mezzo tecnico, essendo
diventato la condizione della sopravvivenza
dell’uomo - ed essendo la condizione perché la terra possa esser salvata dagli effetti distruttivi della
gestione economica della produzione - è
destinato a diventare la dimensione che
va sommamente e primariamente tutelata; e tutelata nei confronti di tutte le forze che vogliono
servirsene. Sommamente tutelata, non
usata per realizzare i diversi scopi ideologici,
per quanto grandi e importanti siano per chi li
persegue. Ciò significa che la tecnica è destinata a diventare, da mezzo, scopo. Quando questo avviene,
capitalismo, sinistra mondiale,
democrazia, religione, e ogni ideologia e visione del mondo, ogni movimento e processo sociale
diventano qualcosa di subordinato,
diventano essi un mezzo per realizzare
quella somma tutela della potenza tecnica, che è insieme l’incremento indefinito di tale
potenza... Perciò spesso dico che la
politica vincente, la grande politica, sarà
delle forze che capiranno che non ci si può più servire della tecnica... La grande politica è la crisi
della politica che vuole servirsi della
tecnica. Andiamo in una direzione dove,
dunque, anche le sinistre - e il capitalismo, e tutte quelle forze in campo che ho menzionato - saranno
costrette a rinunciare ai propri scopi e
diventeranno esse i mezzi di cui la tecnica si
serve. Non si tratta di un processo di deumanizzazione, o alienazione, come invece spesso si ripete,
dove l’uomo diventerebbe uno schiavo
della tecnica; perché in tutta la
cultura - anche in quella che alimenta ogni più convinto umanesimo - l’uomo è sempre stato inteso come
essere tecnico. Le sto descrivendo il
futuro: non prossimo, ma neanche remoto.
Certo, un futuro in cui anche la tecnica sarà
destinata a rendere conto della sua primazia, ma non dovrà renderlo alle forze che ancora si servono di
essa ma che sono forme deboli di
tecnica. In questo senso appunto parlo da decenni di inevitabilità del tramonto
del capitalismo. R. Professore, mi permetta un’obbiezione. Già oggi la tecnica, da mezzo, sempre più sembra imporsi
come scopo... E - ne abbiamo parlato
poco fa - mi pare che in questa funzione
stia dando prove quanto meno discutibili...
S. No, perché come dicevo prima, ciò che dà cattiva prova di sé è la gestione ideologica della tecnica
- è il modo, ad esempio, in cui in
Giappone sono state organizzate le centrali
nucleari: e lì non c’entra la tecno-scienza, ma la gestione capitalistica di essa, che per il profitto ha
sottovalutato la pericolosità di quel
tipo di centrali. (Debbo però aggiungere -
ma anche qui chiudiamo subito il discorso - che la tecnica destinata al dominio non è la tecnica
tecnicisticamente o scientisticamente
intesa, ma quella che riesce a sentire la forza
della voce essenziale della filosofia del nostro tempo, la quale dice che non possono esistere limiti assoluti
all’agire dell’uomo.) R. Rimane il fatto che le tecniche, anche le
più avanzate e intelligenti, le più
utili persino, finiscono per essere nei
confronti dell’equilibrio ecologico naturale delle continue aggressioni, o quanto meno delle
minacce... S. Di nuovo rispondo di no,
e che è la volontà di profitto a
rischiare oltre il livello di rischio denunciato nelle previsioni tecno-scientifiche. R. Ma non è la volontà di profitto a
generare, o almeno a favorire, la
creazione di tecniche? S. Sì, le ha
favorite (e in qualche caso generate), ma allo
scopo di favorire sé stessa. Ora sto dicendo che questo scopo è destinato al tramonto. R. Resta però il fatto che molti istituti
scientifici, anche di largo prestigio,
vivono in quanto finanziati da grandi
potentati economici... E questo in qualche misura significa condizionarli... S. Certo, questa è la situazione attuale. Ma
la tendenza globale è un’altra.
Condizionarli significa indebolirli. È quindi
inevitabile che, a un certo momento, chi condiziona si renda conto di non poter più continuare a farlo,
perché, alla fine, condizionare (e
quindi subordinare e pertanto indebolire) la
tecnica per promuovere sé stessi è indebolire sé stessi... R. Si diceva che le sinistre - a parte
l’impegno per la difesa del lavoro - non
dicono, né propongono cose gran che diverse
dalla destra. Il marxismo un tempo aveva uno sguardo ben più ampio di quello che hanno le sinistre
oggi... Dopotutto non a caso l’inno dei
lavoratori era l’ Internazionale...
Tentare di guardare un po’ più lontano...
Cercare di allargare lo stesso discorso sul lavoro, non potrebbe portare a una proposta
alternativa? S. Questo allargamento va
imponendosi da solo. Infatti non si può
separare il lavoro dalla tecnica (ma dal capitalismo sì, come dal marxismo). Un po’ da tutte le parti
politiche oggi si sente dire a proposito
dei problemi più importanti: Non è
questione né di destra né di sinistra, è una questione tecnica. È un piccolo indizio del processo dove le
soluzioni tecniche prevalgono su quelle
politiche e ideologiche. R. Mi riesce
difficile seguirla... la tecnica viene solitamente vista come uno strumento usato dal
capitalismo... S. Questo è lo stato
attuale che il mondo capitalistico
vorrebbe perpetuare. Ma la tecnica non è il capitalismo. Il servo non è il padrone. Ed è già accaduto che
i servi si liberassero dei padroni. La
liberazione decisiva, rispetto alla
quale si è ancora ciechi, è la liberazione della tecnica dal capitale.
R. In definitiva Lei vede il capitalismo sopraffatto dalla tecnica. S. Sì. O meglio: è la logica del
discorso a vederla. R. Una tecnica che
- insisto - porta alla devastazione della
terra... S. Se la tecnica continua
a essere gestita dal capitalismo, sì. Ma
- insisto anch’io - sarà il capitalismo stesso ad accorgersi che devastando la terra devasta sé stesso (e
cambiando rotta, cioè scopo, si
distruggerà egualmente). R. È insomma
l’intero sistema produttivo che di fatto agisce
contro la salvezza dell’umanità... Non crede che in tutto ciò esista qualche responsabilità anche da parte
delle sinistre? Dopotutto erano nate per
combattere il capitale, no? S. Ma il
discorso che vado facendo da molto tempo indica
qualcosa che sta al di sopra delle esortazioni, delle mobilitazioni, dei progetti, della volontà
politica. Riguarda un movimento che
procede per conto proprio, guidando e
animando la volontà così come, si sa, la struttura del capitale domina e anima la volontà dei singoli
capitalisti. Marx diceva appunto che i
singoli capitalisti sono le prime vittime del
capitale. Ecco, si tratta di capire il modo in cui la tecnica prende il posto del capitale. R. Lei si riferisce a un movimento, o una
tendenza, in qualche modo, come dire...
operante e avvertibile? Oppure si tratta
per ora soltanto di un’ipotesi filosofica?
S. È una tendenza che è operante e avvertibile proprio nel modo adeguato (e dunque non soltanto
ipotetico) di fare filosofia. Per
essenza la filosofìa si riferisce all’autenticamente operante e avvertibile. R. Cambiando discorso. Lei ha dedicato un
suo recente articolo, apparso sul Corriere
della Sera, al modo in cui il Nordafrica
va cambiando. Non crede che forse proprio dal
Sud del mondo, non ancora interamente assimilato alle logiche e ai valori del capitalismo, possa
muovere una critica, e magari una messa in crisi della cultura dominante?
È qualcosa su cui più volte m’è capitato
di riflettere. Ad esempio quando un anno
fa, in Bolivia, durante il Social Forum di
Cochabamba, un gruppo di campesinos lanciò uno slogan che diceva: Non si tratta di cambiare il
clima, bisogna cambiare il sistema;
aprendo un orizzonte enormemente più
ampio di tutte le altre parole d’ordine correnti, che insistevano soprattutto sui mutamenti
climatici, e di fatto denunciando un
rapporto Nord-Sud che per mille aspetti
ampiamente si attiene alle logiche del capitalismo, e le impone. È solo un episodio, ma non crede che
proprio da questi mondi potrebbero
partire spinte decisive alla messa in
crisi delle logiche politiche dominanti? S. Be’, il fatto che questi popoli vadano
riproducendo il modello occidentale
dimostra che l’Occidente ha raggiunto la
prospettiva più radicale: la destinazione della tecnica al dominio. Questi popoli stanno ripercorrendo
l’itinerario compiuto dall’Occidente...
L’autentico cambiamento di sistema è
quella destinazione. R. Professore,
certo è incapacità mia di seguirla fino in
fondo... Ma più volte m’è capitato di riflettere, e anche di scrivere, in libri dedicati appunto alle
questioni ambientali, su questo
crescente prevalere della tecnica sui modi e i ritmi della natura... Spesso citando quello straordinario
libro, firmato dal grande biologo
americano Gould, che si intitola Gli
alberi non crescono fino al cielo : una critica
dell’intera vicenda umana, tutta centrata su una impossibile sfida alla natura. Nella quale peraltro
sempre è evidente il senso di colpa... E
infatti Icaro, Prometeo, i Giganti, Ulisse...
tutti sempre vengono puniti... La tecnica, nella mitologia, è colpa... E lo è la scienza in assoluto, si
direbbe, se si pensa ad Adamo ed Èva,
cacciati dal paradiso terrestre per aver gustato il frutto dell’albero del sapere. S.
Onorevole, non solo Lei segue benissimo, ma continua a proporre spunti estremamente
interessanti. Quando parlo in termini positivi
della tecnica, ne parlo nel senso che
essa va ritenuta la forma più rigorosa della più radicale follia in cui l’uomo è caduto. Non
intendo affatto fare l’apologià della
tecnica ma intendo dire che l’errore, la follia, vanno progressivamente facendosi più rigorosi
e coerenti... Pensi al discorso di
Freud, che la religione è quella follia -
grande, rigorosa follia - che assorbe e rende coerenti tutte le forme di follia dell’individuo... Nella
tecnica l’errore è destinato a diventare
massimamente rigoroso. L’errore nasce
con l’uomo, è la volontà di potenza. Ma bisogna saper dire perché lo sia... Non lo sanno dire né i miti
né le altre forme della sapienza umana.
È vano combattere e incolpare Prometeo, che
ha dato tutte le tecniche ai mortali, con
strumenti che sono forme deboli di tecnica. Anche il capitalismo, il marxismo, il cristianesimo,
l’islam, il totalitarismo, la democrazia
ecc. sono forme deboli di tecnica. Ma
con ciò non intendo dire che la tecnica sia la verità. No. È la forma più radicale dell’errore. Che però
sembra la forza più potente. R. Una volta ancora non posso non apprezzare
il suo pensiero... Non riesco però a non
domandarmi se non ci sia nulla da fare,
o per accelerare questo processo portandolo a
una soluzione, o in qualche misura per mitigarne la distruttività. Sono tante ormai le persone
che si preoccupano per il futuro di un
mondo per mille versi sempre più
problematico e rischioso... Per lo più si tratta di giovani, consapevoli e impegnati... A tutti costoro
che cosa si sentirebbe di consigliare? S. La ringrazio. Per ora siamo gettati
nell’errore; ma proprio per questo c’è
molto da fare. C’è da favorire il processo che porta l’errore a maturazione.
Ecco perché parlavo prima della grande
politica. Per praticarla è necessario
incominciare a guardare in faccia il senso
essenziale della storia dell’Occidente, il senso cioè della volontà di potenza: il senso del fare.
Intervista fattami da Carla Ravaioli e pubblicata sul manifesto nel luglio
2011. Al capitolo V 12. Non veritas,
sed auctoritas facit legem- Per
considerare il rapporto tra processo e tecnica si può certo rimanere alFinterno della
specializzazione giuridica. Ma -
chiediamoci - è ancora specializzazione
Patteggiamento che non riflette sul senso della specializzazione? Si vive in una nave - la si
vive come nave - quando non si sa che
cosa sia una nave? Certamente no. E
d’altra parte, riflettendo sul senso della specializzazione si è ancora alFinterno di essa? (Si profila così
un’antinomia, che può essere il sintomo
del carattere contraddittorio della
specializzazione.) Ma, qui, non svilupperemo questo aspetto, peraltro fondamentale, del discorso. La tecnica riguarda il processo in
relazione, innanzitutto, ai limiti entro
i quali le competenze tecnico-scientifiche
devono mantenersi nel determinare l’evoluzione e il compimento delle procedure giudiziarie. In
questo caso, le competenze tecniche
(mediche, psicologico-psichiatriche,
chimico-fisiche, urbanistiche ecc.) servono da strumento - da mezzo - per quello scopo che è la conduzione
e il compimento del processo. A sua volta, il processo stesso, come fatto
giuridico, è scomponibile in un momento
tecnico-strumentale e in un momento che
è lo scopo di tale strumentazione. Momento
tecnico-strumentale è, ad esempio, la formazione dei magistrati, e in genere, dell’organico, e il
modo in cui sono formalizzate le regole
in base a cui il processo si svolge; lo
scopo è la verifica dell’applicazione della legge in rapporto ai casi intorno a cui verte il processo. Ma, daccapo, lo scopo di una società non è
quello di verificare se la legge sia
applicata: lo scopo è che la legge viga.
Affinché viga è necessario verificare se ciò avvenga. E questo significa che la
verifica giuridica si dispone a sua volta
come strumento, come mezzo per la realizzazione di quello scopo che è il regno della legge nella
società. Questo rinvio, il triplice
rinvio qui sopra sommariamente indicato,
dove lo scopo si dispone come strumento di uno
scopo superiore, ha un prolungamento decisivo, che riguarda il concetto stesso di legge, sottoposto a una
profonda trasformazione, dove
l’atteggiamento giusnaturalistico,
proprio della tradizione occidentale, viene spinto al tramonto dall’atteggiamento giuridico che è proprio
del diritto positivo. E, anche qui, si
tratterà di comprendere l’ultima sezione di
questo capitolo che in tale tramonto il regno del diritto è a sua volta destinato a diventare, da scopo della
verifica giudiziaria, mezzo, cioè
strumento di uno scopo - la tecnica - verso il cui dominio il pianeta sta procedendo. A
partire dal pensiero greco, e lungo la tradizione occidentale, in cui il giusnaturalismo si
inscrive, non auctoritas, sed
veritasfacit legem. La verità è il fondamento,
il principio ispiratore della legge. Lo ius è dato dalla natura delle cose; e la verità è il luogo in cui
tale natura mostra il proprio volto
autentico. Il popolo greco porta alla luce, dopo i millenni del mito, un senso inaudito della
Verità: la Verità come sapere
incontrovertibile che mostra, manifesta (e
pertanto è alétheia) un contenuto che non si lascia smuovere, un contenuto che sta e appunto per questo è
chiamato epistéme ( epi-stéme ). La
Verità mostra l’ordine immutabile al
quale lo Stato (e il singolo) deve adeguarsi. Lo Stato si adegua alle leggi che si fondano sulla Verità che il
sapere filosofico ha portato alla luce e
alla quale si commisura la stessa rivelazione
cristiana. Anche nell’Europa medioevale e moderna lo Stato (e l’individuo) è misurato dalla sua
adeguazione alla verità, in quanto
principio ispiratore della legge. Il valore della legge non è dato dalla pura forza, ossia da un
auctoritas che sia pura forza, ma dalla sua dipendenza dalla verità. Ma dopo questa grande epoca della civiltà
occidentale, dove verità e legge formano
una unità indissolubile, si fa innanzi
con sempre maggior forza il principio opposto, per la prima volta enunciato da Hobbes: non veritas,
sed auctoritas facit legem. È il
principio del diritto positivo, che acquista il
proprio compiuto significato quando prenderà le distanze dal contesto in cui viene formulato nella
filosofìa di Hobbes - in una filosofia
cioè dove, nonostante tutto, resta ancora fermo il senso di fondo che il pensiero greco ha
conferito alla verità. La transizione
dal giusnaturalismo al prevalere del diritto
positivo, ossia al positivismo giuridico, è un episodio emergente del grandioso processo
storico-critico, in cui la tradizione
dell’Occidente viene abbandonata dal pensiero, e pertanto dall’agire umano, e soprattutto e
fondamentalmente dal pensiero filosofico
degli ultimi due secoli. Poiché il diritto
positivo non si fonda su alcuna Verità assoluta, ed è positivo perché pone ciò che la volontà
sociale dominante (del sovrano,
dell’eletto rato, di una oligarchia economico-
politica) vuole di volta in volta come legge, il processo giudiziario che si sviluppa alfinterno di
questa forma di legge è compatibile con
qualsiasi tipo di contenuto giuridico, di
natura democratica o no. D’altra
parte, la transizione al positivismo giuridico è analoga a quella che conduce dalle varie
forme di totalitarismo alla democrazia
del nostro tempo, che definisce sé
stessa come semplice procedura, che di per sé non propone o impone alcuna Verità assoluta ai
cittadini ed è pertanto compatibile con
qualsiasi contenuto sollevato al rango
di legge dalla maggioranza dell’elettorato. Ora diventa radicalmente fondata - e inevitabile,
all’interno della storia dell’Occidente
- l’affermazione che non veritas, sed auctoritas facit legem.
Il fenomeno, grandioso, di cui la transizione al positivismo giuridico e alla democrazia sono aspetti
particolari - e molti altri potrebbero
essere menzionati - conduce al di là delle
forme essenziali della tradizione occidentale. È il fenomeno che Nietzsche ha chiamato morte di Dio - sì
che il passaggio dal giusnaturalismo al
positivismo giuridico è la morte di Dio
in ambito giuridico -, è la morte della forma
assunta da Dio nella dimensione del diritto. Diciamo che quel fenomeno è grandioso, non solo per le sue
proporzioni, cioè per il suo aver
investito ogni aspetto del pensiero e dell’agire tradizionali, ma anche perché si presenta
secondo una inevitabilità (cfr. sezione
prima, cap. V), per la quale tale
fenomeno non è semplicemente un cambiamento di opinioni da parte della società e dei suoi membri.
Solo cogliendo il senso di questa
inevitabilità si può comprendere che oggi
l’uomo non può più cercare la propria salvezza volgendosi verso la grande tradizione dell’Occidente - e
dunque verso il modo in cui all’interno
di essa viene realizzato e praticato il
diritto. Certo, l’inevitabilità di cui stiamo parlando è l’inevitabilità del tragico; ma non le si
possono voltare le spalle per il
semplice fatto che non va incontro a certe nostre aspirazioni.
L’espressione dietrologia è screditata. Ma può essere un sinonimo del concetto scientifico d’ipotesi:
l’ipotesi esplora ciò che sta al di sotto di quanto si manifesta comunemente o immediatamente. Al di là del
senso screditato della dietrologia,
l’ipotesi scientifica ha cioè un carattere
essenzialmente dietrologico. Nemmeno quel tipo
di disciplina scientifica che è il diritto può evitare di formulare ipotesi, ossia di andare al di là
di ciò che comunemente appare e che
viene chiamato il fatto. Gli estimatori
del fatto - anche tra i non giuristi -
collocano spesso l’attività giuridica in un ambito improprio; cioè la considerano come la dimensione
all’interno della quale il fatto
riceverebbe uno dei più validi e autentici
riconoscimenti della sua importanza e del suo carattere decisivo. Tuttavia è nota la tesi di Popper,
per la quale la struttura del processo
giudiziario è il modello dell’attività
scientifica. Certo, egli non fa che trarre un corollario dalla tesi di Nietzsche, che non esistono fatti, ma
solo interpretazioni. Ma tale corollario
significa che alla base della scienza
non esistono fatti, ma interpretazioni, e che tale circostanza rispecchia la struttura del
processo giudiziario, sì che
quest’ultimo - lungi dal presentarsi come il luogo in cui i fatti sono posti al di sopra di tutto, come
fondamenti indiscutibili - è inteso
invece come il luogo che si fonda su interpretazioni
rivedibili e falsificabili. Gli
estimatori dei fatti, che vedono nell’attività giuridica la più autentica valorizzazione dell
’infallibilità dei fatti, non si rendono
conto che la scienza riconosce ormai senza
complessi la propria fallibilità e che quando intende chiarirne il senso si riferisce proprio e precisamente
all’analogia che sussiste tra procedura
scientifica e procedura giudiziaria. L’analogia può essere così espressa: il
sistema delle leggi scientifiche viene
commisurato a un insieme di elementi che
non sono fatti, ma interpretazioni di fatti; cioè risultati di decisioni che un gruppo qualificato di
individui stabilisce di assumere come
base (o come fatti) del sapere scientifico, in
modo analogo alla commisurazione per la quale nel processo giuridico il sistema delle leggi viene
applicato non a fatti
incontrovertibilmente accertati veri, ma alla decisione di un gruppo qualificato di assumere un insieme di
eventi come qualcosa di effettivamente
accaduto. Il veramente accaduto è
inesistente. Esiste veramente la decisione di assumere qualcosa come il veramente accaduto. Anche
per questo motivo la storia di un popolo
non può essere ricostruita in sede
giudiziaria, appurando i fatti.
Comunque, anche questa crisi della verità del fatto appartiene al processo, a cui prima ci si è
rivolti, che conduce al tramonto
inevitabile della tradizione e della tradizione
giuridico-politica dell’Occidente, la tradizione dove il giudice è colui che mostra con autorità la
Verità - giudice essendo parola composta
da ius e dalla forma congetturale dix,
riconducibile alla radice indoeuropea deic,
che indica appunto il mostrare; sì che l’autorità del giudice gli deriva dal suo rapporto con la
verità. È aH’interno della transizione
inevitabile di cui stiamo parlando -
cioè dalla vita alla morte della Verità e di Dio - che assume un significato particolarmente
rilevante anche il tema della corruzione
della società italiana e del conseguente
conflitto tra magistratura e potere politico. In base a una logica diversa da quella che
intende appurare i fatti, cioè in base
alla logica dell’interpretazione, è possibile
affermare che nella seconda metà del xx secolo è stata combattuta una lotta mortale tra capitalismo
e socialismo reale, una lotta senza
esclusione di colpi. Una situazione, questa, che, ovviamente, ha costretto
ognuno dei due antagonisti a tenere
nascosto all’altro l’organizzazione delle
proprie forme di offesa e di difesa. Anche le società democratiche, dunque, sono state costrette,
per evitare il suicidio, ad adottare questa
strategia. Le democrazie parlamentari
sono state cioè costrette ad agire in modo non
democratico, giacché democrazia e trasparenza (e dunque quella trasparenza che avrebbe messo
la democrazia nelle mani
dell’avversario) sono inseparabili. La trasparenza democratica è il carattere pubblico delle
decisioni essenziali di una società; e
la democrazia, per sopravvivere, non poteva
rendere trasparenti i propri piani di difesa e di offesa contro il socialismo reale. Ma questo clima di non trasparenza, di
occultamento e di privatizzazione delle
decisioni essenziali delle società
democratiche era il terreno in cui non poteva non attecchire la corruzione. L’illegalità di alto profilo
politico, cioè la necessità che per
sopravvivere la democrazia agisse in modo
non democratico, ha prodotto l’illegalità di basso profilo, cioè la corruzione per ottenere vantaggi privati,
che ha accompagnato gli anni della
guerra fredda (che si è prolungata sino
ai nostri giorni e anche in futuro alimenterà il conflitto tra politica e magistratura)
soprattutto in Paesi come l’Italia, più
esposti al pericolo comunista sia per la loro
posizione geografica sia per la consistenza dei movimenti politici che in tali Paesi erano guidati
dall’Unione Sovietica. La fine di quel
gigantesco fenomeno che è stato il
socialismo reale - una fine che a sua volta appartiene al tramonto della tradizione occidentale - non
ha lasciato il vuoto: sul terreno ha
lasciato un gigantesco cadavere, con il
quale ancora a lungo si dovranno fare i conti. Lo dicevo già, più di una quindicina d’anni fa, ben prima
cioè che esplodessero i disordini nelle
ex repubbliche dell’Urss. (Infinitamente più complessi di quelli, pur
consistenti, che si devono fare quando
un capofamiglia autoritario se ne va
all’altro mondo.) Durante e dopo
la guerra fredda c’è stato qualcuno che,
pur di combattere il comuniSmo, ha agito illegalmente; e qualcuno che invece, pur di trarre vantaggio
personale da azioni illegali, ha
combattuto il comuniSmo. È stata cioè di
alto profilo politico l’illegalità che la democrazia è stata costretta a praticare per combattere il
comuniSmo e per la quale la democrazia
si è avvantaggiata, ad esempio, dell’aiuto
di forze illegali ma sicuramente anticomuniste. (Molto più sicuro, dal punto di vista anticomunista, il
sistema mafioso che non i partiti della
sinistra italiana.) Anche la corruzione
italiana (ma il discorso può essere esteso ad altri Paesi dell’Occidente democratico) è dunque una
conseguenza della morte inevitabile della
verità, del diritto naturale, di Dio. Da
un lato il sistema democratico, per sopravvivere, si è posto consapevolmente in contraddizione con sé
stesso; dall’altro lato, ha sopportato
l’immoralità privata come tributo da
pagare alla sicurezza dello Stato democratico. Ed entrambi questi due lati si costituiscono perché, a
differenza degli Stati totalitari, o etici,
del fascismo, del nazionalsocialismo, del
socialismo reale (che sono una versione secolarizzata e distorta del divino), la democrazia non crede
più nell’esistenza di una Verità che
regoli la vita sociale e individuale e
che non possa essere in alcun modo violata.
Come il giusnaturalismo sta al positivismo giuridico, così lo Stato totalitario, persuaso di possedere la
Verità e di dover adeguare a essa la
società, sta alla democrazia che si lascia la
Verità alle spalle e si propone come procedura di per sé indifferente alla verità o falsità dei
contenuti. Lo stato di cose che ho or
ora indicato - e che a sua volta si
presenta con i tratti dell’inevitabilità - dà luogo a un dilemma.Da un
lato il sistema vincente è stato la democrazia, o, meglio, il capitalismo, in quanto unito alla
democrazia parlamentare. Esso ha vinto
il nemico mortale. È una forza che non
può quindi rassegnarsi a essere sottoposta al
controllo giuridico dei suoi atti - cioè a un controllo che non può tener conto, in quanto giuridico, della
situazione storica eccezionale in cui il
capitalismo democratico è venuto a
trovarsi. È presumibile che, se questo controllo fosse condotto fino in fondo, il capitalismo italiano (e non
solo) vedrebbe minacciata la propria
sopravvivenza. Quando, dopo la seconda
guerra mondiale, il fascismo è caduto, Togliatti ha evitato che la burocrazia fascista - che in
quanto funzionale allo Stato fascista
aveva agito in condizioni di illegalità - fosse
incriminata e giuridicamente perseguita. E si trattava di incriminare chi aveva perso; non, come invece
è il caso della democrazia
capitalistica, chi ha vinto lo scontro mortale e ritiene un’ingiustizia essere punito per un’illegalità
funzionale alla vittoria. Come
incriminare certi nodi cruciali dell’assetto
capitalistico vincente, operando con criteri giuridici che si fondano sul principio fiat iustitia et pereat
mundusì Ma, dall’altro lato, non può
essere dimenticata la situazione
drammatica del giudice consapevole della propria funzione, perché a sua volta egli è e si sente
obbligato a procedere contro tutto ciò
che gli appare come illegale. Sembra che sino
a che in Italia non si farà luce su questo dilemma e non si prenderanno le decisioni richieste per
operare una chiara distinzione tra
illegalità di alto profilo politico e illegalità di basso profilo, si perderà anche di vista che
lo scontro attuale tra politica e
magistratura è l’epifenomeno di una frattura ben più profonda - che tuttavia non è qualcosa di
statico, ma è in evoluzione, come ora
proverò a precisare, ossia si trova
anch’esso su un piano inclinato che porta al tramonto tutto quanto si
muove lungo di esso. S. inizia queste riflessioni mostrando una sequenza dove ciò che dapprima si pone come scopo,
diventa in seguito mezzo e strumento. Si
era detto che nella tradizione occidentale
(ma ormai ogni altra sapienza appartiene alla
preistoria dell’Occidente) il regno della legge, fondato sulla Verità, è lo scopo della vita sociale e
individuale. Ma la Verità tramonta.
Restano, tra l’altro, una politica e un diritto che sono entrambi positivi. Ogni sapere e ogni
azione ormai sono positivi - o è in
quanto positivi che essi guidano la
storia del mondo che gli epigoni del sapere e dell’agire tradizionale tentano ancora di adeguare alla
verità. Ogni grande forza oggi ancora
in vita (sia essa una forza della
tradizione o una forza che alla tradizione ha ormai detto addio) ha questo tratto comune: di servirsi
della tecnica. Ognuna intende servirsi
della tecnica, che è lo strumento più
potente oggi esistente. Anche la dimensione politica e la dimensione giuridica intendono servirsi della
tecnica. Ma la tecnica guidata dalla
scienza moderna è destinata a diventare,
essa, lo scopo di tutte queste forze.
Ciò significa che tende a diventare obsoleta anche la conflittualità che contrappone le une alle
altre: dopo il socialismo reale, il
capitalismo, la democrazia, il
cristianesimo, l’islam, il nazionalismo, le diverse forme di umanesimo laico, e la stessa ideologia
scientistico-tecnicistica (che non è più
capace delle altre forze di cogliere l’essenza
autentica della tecnica). Ma intanto va richiamato un principio di cui spesso ci si dimentica, e
cioè che lo scopo di un’azione determina
e stabilisce il senso e la configurazione di
essa; sì che essa diventa qualcosa di diverso da ciò che essa era, se viene ad assumere uno scopo diverso
da quello che inizialmente la definiva e
stabiliva. Un diritto, o una democrazia, che si pongono come scopo della
tecnica sono qualcosa di essenzialmente
diverso da un diritto, o da una
democrazia, che hanno come scopo la tecnica e che si costituiscono come mezzi per la realizzazione
di tale scopo. Una situazione
conflittuale, come quella che sussiste tra le
forze di cui stiamo parlando, richiede che ognuna di esse miri non solo al potenziamento crescente dello
strumento - la tecnica - di cui si serve
per imporre i propri scopi su quelli
antagonisti, ma anche a non intralciare il funzionamento ottimale di tale strumento. Altrimenti
soccombe. Ma quando ha di mira i due
tratti che abbiamo indicato, essa è già sulla
strada in cui, invece di assumere come scopo i propri valori, ha assunto come scopo la potenza dello
strumento che dovrebbe realizzarli.
Anche senza avvedersene, tende a uno
scopo diverso. Anche senza avvedersene, sta diventando qualcosa di diverso da ciò che essa crede di
essere. Andiamo verso un tempo in cui
non saranno più la democrazia e il
diritto a servirsi della tecnica, ma sarà la tecnica, nella sua configurazione autentica, a servirsi, se ciò
varrà ad accrescere la sua potenza,
della democrazia e del dir itto. I due
avversari che oggi si combattono - dimensione
politica e dimensione giuridica -, e la cui lotta dà luogo al dilemma che sopra abbiamo considerato, sono
pertanto destinati a riconfigurare il
loro conflitto in relazione alla
circostanza che tale conflitto tende a essere di retroguardia, cioè a non essere più una lotta tra scopi, ma
tra mezzi che hanno lo stesso scopo: il
potenziamento crescente della tecnica -
di una tecnica che non è la tecnica che intesa in senso tecnicistico, scientistico,
riduttivistico, merita di essere soltanto un mezzo, ma la tecnica
riduttivistica che tende a dare sempre
più ascolto alla voce essenziale del pensiero che porta al tramonto la tradizione
dell’Occidente. Mostrando la morte di
Dio e della verità tale pensiero mostra l’assenza di ogni limite all’agire
dell’uomo e soprattutto a quella forma
suprema dell’agire in cui consiste l’apparato scientifico- tecnologico: la forma di volontà di potenza a
cui va già sottomettendosi ogni altra
forma di volontà di potenza apparsa
lungo la storia della terra. (Dopo di
che sarà la volontà di potenza a dover dar conto di sé - giacché le considerazioni che ho
sviluppato non intendono certo sostenere
che la tecnica abbia l’ultima parola.) Tecnica
e pluralità delle tecniche 1 La gente
si accorge che le leggi difendono spesso gli
interessi dei più forti. Leggi cattive, dunque - anche se vogliono sembrare giuste. Però la gente crede
ancora che ne sono fatte e se ne
potrebbero fare di buone. Nelle scienze
giuridiche tradizionali, buone e giuste sono innanzitutto quelle che rispecchiano la natura dell’uomo:
leggi, appunto, del diritto naturale,
per il quale la natura dell’uomo
rispecchia a sua volta l’Ordinamento vero e divino del mondo, immutabile e inviolabile, portato alla
luce dal pensiero filosofico sin
dall’inizio della nostra civiltà e poi
interpretato dal cristianesimo. Da uno-due secoli questa concezione
giuridica è profondamente in crisi
(sebbene non sia ancora morta). Si pensa
cioè che non esista alcun diritto naturale e che ogni legge esprima un diritto positivo, posto, imposto
dalla libera volontà dell’uomo. Anche
alla radice di questa crisi si trova la
filosofia, quella che mostra l’inevitabilità della morte di Dio e la conseguente morte di ogni natura
che, in qualsiasi campo, intenda
rispecchiare l’Ordinamento vero e divino
della realtà. Anche il diritto (come la democrazia) diventa pertanto semplice procedura in cui
può essere immesso qualsiasi contenuto -
quello delle democrazie parlamentari,
del capitalismo, del nazionalsocialismo, del
socialismo reale, del cristianesimo, della grande e piccola criminalità. (La procedura correttamente
praticata può anche sopprimere sé
stessa.) Che una forza si imponga sulle altre
non dipende dalla sua verità, ma, appunto, dalla sua forza. Con Natalino Irti, eminente giurista di
grande e rara apertura filosofica,
discuto da tempo questi problemi. Un
nostro Dialogo su diritto e tecnica è stato ad esempio pubblicato nel 2001 da Laterza. Irti ha
pubblicato in seguito il volume Nichilismo giuridico (Laterza), sul quale tra
i temi centrali figura una consistente
ripresa della discussione avviatasi tra
noi due. Gli sono grato della grande attenzione e stima che anche in queste pagine mostra nei
miei riguardi - anche se mi sembrava di
aver già risposto a quanto egli mi
obbietta. D’accordo con me,
sostiene che il diritto, ridotto a
procedura, è una tecnica. Tuttavia sembra che per lui l’essenza tecnica del diritto abbia già, di
fatto, del tutto eliminato ogni diritto
naturale e ogni Ordinamento vero e
divino. E invece la situazione è diversa: di fatto, il passato sopravvive. Anche se è una foglia secca
attaccata al ramo il punto è che può
persino credere di stare alla guida del mondo
- si pensi alle foghe secche che hanno determinato la vittoria di Bush alle elezioni americane. Per questo,
da parte mia, si parla di una tendenza
che, certo inevitabilmente, conduce
dalla tradizione alla sua distruzione - e pertanto conduce alla civiltà della tecnica -, ma che
ancora deve fare i conti con la
sopravvivenza di fatto del passato. Per
Irti, invece, il diritto è già tecnica e sono già tecnica almeno il capitalismo e le discipline fisiche
e naturali. Non allunga l’elenco perché,
credo, vede che, ad esempio, delle
religioni, di certe forme dell’arte e della cultura, del comuniSmo, del nazionalismo, di larghi strati
del comportamento umano non si può
ancora dire che siano già tecnica.
Nemmeno del capitalismo lo si può dire, che, proprio perché intende servirsi anch’esso, in quanto
si serve, della tecnica, ne differisce.
Non sono già tecnica: stanno
diventandolo. Le forze del passato, che intendono servirsi della tecnica come mezzo, sono infatti sempre
più costrette ad assumere come scopo non
più i valori che esse perseguono, ma
l’efficacia del mezzo di cui si servono per realizzarli, la quale è pertanto destinata a diventare il
loro scopo. Ma Irti, ritenendo che tutto sia ormai tecnica, mi dice che la tecnica si scompone nella pluralità delle
tecniche, in modo che la tecnica a cui
io penserei si svuoterebbe di ogni
contenuto. Egli non tiene ancora presente che quando dico che la tecnica non mira a uno scopo specifico
e escludente, ma all’incremento
indefinito della potenza, intendo che la
tecnica (a differenza delle forze che mirano a servirsi di essa) tende a far sì che gli scopi da essa
realizzati non impediscano la
realizzazione di altri scopi che aumentano la potenza disponibile. Ad esempio tende a far sì che la
produzione di farmaci che arricchiscono
certe industrie non impedisca la
produzione di farmaci non remunerativi ma indispensabili alla sopravvivenza di intere popolazioni; o
che le istanze ecologiche siano soddisfatte
evitando la catastrofe economica; o che
le condizioni della libertà e quelle dell’eguaglianza non si limitino a vicenda. Irti vede solo lo
scontro (il cui esito sarebbe
imprevedibile) tra le forze che ormai sono già
tecniche e mi obbietta che la tecnica non se ne sta al di fuori e di contro alle tecniche specifiche, come astratta
capacità di produzione. Io gli rispondo
che non ho mai pensato a una tecnica
siffatta e che lo scontro fondamentale è tra le forme meno potenti della tecnica e la tecnica
moderna, cioè tra le forze del passato -
fra cui il diritto naturale - che ancora
tentano di trattenere i loro apparati tecnici al rango di mezzi (illudendosi di dominarli), e l’inarrestabile
tendenza di questi apparati a farsi
strada e a diventare essi gli scopi di quelle
forze detronizzandole. La tecnica moderna è il nostro destino perché è la forza oggi più potente, ed è la
più potente perché avverte sempre più la
voce della filosofia. Tale voce dice che
davanti alla tecnica non esiste più alcun limite, alcuna natura da rispettare. Con ciò non si intende negare la presenza di
qualsiasi forma di limite. Infatti, la
tecnica si dà limiti che, pur non essendo espressione del diritto naturale,
sono espressione del diritto positivo. E
se in un primo tempo anche il diritto
positivo può illudersi di assumere come mezzo la tecnica, nell’età della dominazione del senso
autentico della tecnica nemmeno il
diritto positivo può essere lo scopo che si serve della tecnica come mezzo, limitandone
pertanto la potenza. Anche il diritto
positivo è cioè destinato a diventare un mezzo
che rende possibile il maggior incremento possibile della potenza tecnica. Il diritto positivo,
peraltro, sa di non essere una verità
necessaria, incontrovertibile; e quindi ancor
meno della Verità della tradizione può avere la pretesa di porsi come scopo del potenziamento
dell’apparato scientifico- tecnologico. In
latino uccidere si dice anche mactare. Noi diciamo mattanza. In spagnolo uccidere si dice
appunto matar. Ma la parola latina
mactus significa ingrandito, rafforzato,
innalzato, glorificato. Ha la stessa radice di
magnus (grande): la radice indoeuropea magh, che è presente anche nel greco mechané (strumento).
Una sorta di etimologia popolare latina
sente in mactus qualcosa come magis
auctus, cioè reso ancora più grande e più ricco. Su mactus si forma il verbo mactare, che
significa appunto ingrandire, aumentare,
glorificare, innalzare, e anche onorare,
placare; ed è parola specifica del linguaggio dei riti, soprattutto di quello del sacrificio.
Mactare sposta allora la propria mira
dal dio, a cui si sacrifica ( mactare deus extis, rafforzare il dio con le viscere delle
vittime del sacrifìcio), allo strumento
del sacrificio, cioè alla vittima, e significa allora anche uccidere, ammazzare: accanto a mactare
deum, compare mactare victimam. In
qualche modo il linguaggio nasconde la
violenza di cui parla; tenta di rovesciarla nel
proprio opposto. Ma dai recessi dove il linguaggio costruisce le apparenze da cui sono guidati i mortali si
deve risalire ben più indietro. Le
trasformazioni del mondo gettano nel terrore
i mortali. Essi sono appunto coloro che vedono le trasformazioni, cioè la morte delle forme.
Fame e sazietà, freddo e caldo, dolore e
piacere, tenebra e luce, comparire e
svanire nelle costellazioni celesti, allegria e angoscia, vita e morte; e le metamorfosi dell’uomo in animale,
insetto, pianta, roccia. Non appena il
mortale si afferra a qualcosa, fuori o
dentro di sé, le cose gli diventano altro da quello che sono. L’altro in cui si trasformano è l’imprevisto,
dunque l’angosciante. Ci si difende
dall’angoscia evocando come rimedio la
forza più potente e rendendosela amica: la forza del dio. Agli occhi del popolo greco questo
processo incomincia a mostrarsi nella sua intensità estrema: cose, eventi, stati incominciano a trasformarsi
in quell’assolutamente altro che è il
nulla. Al culmine della storia
dell’Occidente, con la morte del vecchio Dio, si crede che la tecnica sia la forza più potente, cioè il
dio, il rimedio efficace contro l’angoscia
del divenir altro. La storia della fede nel
divenir altro è la storia della Follia più profonda. Quella in cui si ha fede che una cosa sia il proprio altro,
ossia ciò che essa non è, e infine si ha
fede che le cose - gli essenti le cose che
non sono un nulla - siano nulla.
Affinché Dio ci salvi, bisogna che abbia forza. Bisogna che l’uomo la custodisca e l’accresca. All’inizio
del rafforzamento umano del Dio domina
il sacrificio: l’uomo offre al Dio sé
stesso e quanto possiede. Poi il Dio è rafforzato vedendo in lui, con la filosofia, la forza che non si
lascia strappare da sé, ed è quindi
immutabile, eterna, e custode di tutte le cose che nella vicenda terrena son divenute cose morte.
Anche in questo secondo caso - e proprio
con l’intento di salvarsi dall’angoscia
del divenir altro - l’uomo cede al Dio la propria eternità e immutabilità, il proprio essere.Un
Dio che uccide, dunque - sia come Dio
religioso sia come quel Dio tecnologico
- che permane al di sopra del tempo degli
individui, ma rifiutando l’eternità dal vecchio Dio. Per sopravvivere, l’uomo si fa divorare da lui.
Da quando Feuerbach mette in tensione la
sentenza di Moleschott: der Mensch ist,
was er isst (l’uomo è ciò che egli mangia) con
Laffermazione che Gott ist was er isst (cioè che anche Dio è ciò che egli mangia) il nesso tra ontologia e
nutrimento - e tra nutrimento,
sacrificio e annientamento - non ha più nulla
di implicito. (Cfr. in proposito il saggio di Ines Testoni II Dio cannibale, Utet 2001, uno dei contributi più
importanti in questa direzione e che
insieme si porta al di là dell’ontologia
da cui è dominata la storia dell’Occidente.) Il diventare Dio esprime in
forma positiva il diventare nulla dell’uomo. Tale divenire è infatti un sacrificarsi al Dio.
Hegel pensa che nella religione lo Spirito
assoluto veda sé come Altro, ceda sé
stesso all’Altro - al Dio, appunto. Feuerbach traduce questa tesi hegeliana pensando che è l’Uomo a cedere
sé stesso al Dio. In entrambi i casi il
Dio consuma l’essere dello Spirito
assoluto e dell’Uomo. E anche Hegel e Feuerbach fondano l’alienazione dello Spirito e dell’Uomo sulla
fede nel divenir altro. Tuttavia, in gran parte delle immagini del
divino lo svuotamento dell’uomo che si
aliena in Dio rispecchia lo svuotamento
del Dio che crea e salva l’uomo e il mondo.
Nonostante ogni intenzione contraria anche il Dio è un divenir altro. Lo svuotamento del Dio per la
salvezza dell’uomo, che sta al centro
del messaggio cristiano, sta al centro
dei miti precristiani: la morte del Dio è creatrice del mondo. Il sacrificio del mactare victimam è
preceduto dal sacrificio dove la vittima
è il Dio (Prajapati, Dioniso, Cristo)
che deve morire per creare o salvare il mondo. E ancor prima, all’inizio del tempo umano, c’è la lotta tra
il Dio e l’uomo, dove il Dio è il
Tremendum la cui inflessibilità non lascia
vivere l’uomo, cioè lo uccide e dove l’uomo, per vivere, deve farsi largo e abbattere la divina barriera
inflessibile, ossia deve uccidere il Dio
- giacché abbattendo la barriera e facendo
sempre più arretrare il confine dell’imbattibile (e collocando Dio nell’al di là e infine negandone
l’esistenza) l’uomo uccide il Dio
originariamente omicida (Cfr., ad esempio, E.S., L’intima mano, Adelphi). Particolarmente
interessanti i rilievi critici rivolti a L’anello del ritorno da Vincenzo Vitiello e Francesco
Totaro. Qui rispondo brevemente solo ad
alcune delle obbiezioni sollevate (Cfr.
gli atti del convegno su Nietzsche tenutosi nel 2004 all’università di Macerata). Riprendendo un problema già sollevato in
quel libro, Vitiello osserva che la
volontà, che nella dottrina dell’eterno
ritorno dell’uguale rivuole il già voluto,
non vuole al modo del precedente volere, e quindi ciò che ritorna non è l’uguale, ma un che di diverso.
L’interpretazione dell’eterno ritorno
data in quel libro non riuscirebbe quindi a
mostrare l’inevitabilità di tale dottrina. Ne L’anello del ritorno si rispondeva anticipatamente a questa
obbiezione dicendo che il ritorno dell’uguale non può essere il ritorno dell’assolutamente identico, appunto perché
un qualcosa differisce dal ritorno di
tale qualcosa. D’altra parte, Nietzsche
fonda la necessità che tutto ritorni; e Vitiello non prende posizione rispetto a questa fondazione, ma si
limita a indicare l’assurdo che
scaturirebbe qualora la si accettasse. Tuttavia, per Nietzsche tale necessità sussiste nel
senso che è necessario che ciò che
nell’eterno ritorno ritorna assolutamente identico sia la totalità del contenuto voluto (la
totalità che dunque è finita), ma non la
forma del contenuto, cioè il ritornare di
esso, il suo ripetersi. (Pertanto è necessario che tale forma, ossia Inattività del volere cresca
all’infinito. E poiché nemmeno ogni
nuova ripetizione può costituirsi come un
così fu, cioè come un passato immutabile e indipendente dalla volontà, è necessario che ogni nuova
ripetizione sia essa stessa eternamente
ritornante e ripetuta, eternamente
rivoluta: l’attività è eterna, scrive Nietzsche. Il contenuto ritorna eternamente, assolutamente identico;
la forma cresce all’infinito e ogni sua nuova configurazione incomincia a ritornare, aH’infinito, e in questo senso eternamente
essa stessa.) La critica di fondo sviluppata da Totaro nel
suo confronto con L’anello del ritorno
riguarda la tesi, fondamentale anche in
questo libro, che anche per Nietzsche l’esistenza del divenire - inteso come venire dal non essere
e ritornarvi, da parte degli enti - è
l’evidenza suprema, la suprema verità.
Nella sua forma più generale questa tesi dice che, nel proprio sottosuolo essenziale, il pensiero filosofico
degli ultimi due secoli (e Nietzsche è
tra i pochi abitatori di tale sottosuolo)
non intende essere un semplice scetticismo, relativismo, prospettivismo, ma intende essere anch’esso
verità assolutamente incontrovertibile,
ossia intende anch’esso come verità
assolutamente incontrovertibile ciò che per
l’intera cultura e anzi per l’intera civiltà dell’Occidente è la verità assolutamente e originariamente
incontrovertibile: l’esistenza, appunto,
del divenire, inteso nel modo indicato (e
una qualsiasi forma di sapere che non intenda essere una verità assolutamente incontrovertibile è una
forma di scetticismo). Anche per
Nietzsche la rappresentazione del
divenire è indubitabile. Totaro invece lo nega, sostenendo che anche per Nietzsche ogni rappresentazione,
quindi anche la rappresentazione del
divenire, è la posizione di un
permanente cioè una inevitabile fissazione del divenire, una negazione di esso, un andare
controcorrente rispetto al flusso del
divenire. Sennonché - rispondo -, se per
Nietzsche tutte le rappresentazioni metafisico-teologico- morali hanno questo carattere, non tutte le
rappresentazioni lo hanno: per lo meno
non l’ha quella rappresentazione che è
la teoria delle rappresentazioni di quel primo tipo, giacché se qualsiasi conoscere avesse quel carattere,
questa teoria non potrebbe nemmeno
rappresentarsi il divenire come tale, cioè come quel flusso che viene fissato,
negato da quel primo tipo di
rappresentazioni controcorrente. È indubbio che in quella teoria il divenire è e appare come
divenire, ossia è identico a sé e quindi
permanente; ma se questa identità e
permanenza non ci fossero, non ci sarebbe nemmeno divenire e, questa volta sì, il divenire
sarebbe negato e fissato nel suo non
esser divenire. Come ho già detto altre
volte, a partire da L’anello del
ritorno, il Nietzsche che si mostra nella interpretazione offerta da questo libro ha la straordinaria potenza
(insieme a pochi altri abitatori del
sottosuolo essenziale del pensiero filosofico
degli ultimi due secoli) di mostrare fimpossibilità del Senso dell’essere che guida la tradizione
metafisico-morale dell’Occidente.
Ammesso e non concesso che questa
interpretazione di Nietzsche sia insostenibile perché violerebbe le proprie regole, bisognerebbe
dire che allora (modestia invita, ma
inevitabilmente, quella straordinaria
potenza compete al Nietzsche arbitrario che appare ne L’anello del ritorno. Ho detto anche altre
volte che il mio discorso filosofico dà
anche una o due mani affinché il
pensiero del nostro tempo mostri tutta la potenza che gli compete - lasciandolo poi al suo destino, che
è quello di essere la forma più coerente
della follia estrema del divenir altro.
Le altre interpretazioni di Nietzsche (e dei pochi che stanno al suo passo) non mostrano questa
coerenza e potenza. Restando ad esempio
nell’ambito del convegno a cui ci stiamo
riferendo, un altro mio critico, Umberto Regina, scrive che per Nietzsche Dio è impensabile perché
non consente all’uomo di poter “sperare”
di far suo tutto il mondo. Ma - osservo
- questo discorso non intimorisce Dio, che,
rimanendo al suo posto, può rispondere invitando l’uomo a fare a meno di queste sue speranze, come
appunto incomincia ad accadere col Dio
veterotestamentario, che a W’erimus sicut dii - in cui si esprime la speranza
del primo uomo di far tutto suo il mondo
-, risponde deludendolo, cioè cacciandolo
dal paradiso terrestre. Un Nietzsche che si fonda su tale speranza - o sulle varie forme di prospettivismo
- per far morire Dio è ben debole. Il
Nietzsche de L’anello del ritorno ha
invece la potenza di farlo morire per davvero.
(Per mostrare, poi, che la filosofìa di Nietzsche non ha nulla a che vedere con le critiche ingenue
che vengono rivolte al principio di non
contraddizione, ma, come in Hegel, è una
critica del modo inadeguato di intendere tale principio, è sufficiente pensare l’espressione l’eterno
ritorno dell’uguale - die ewige
Wiederkunft des Gleichen. Come prima si è
richiamato, ritorna eternamente l’ identico contenuto - ritorna ogni cosa... e tutte nella stessa sequenza e
successione, scrive Nietzsche nella Gaia
scienza - e una cosa può essere
identica, la stessa, solo in quanto non è le altre cose, ossia non è contraddittoria: ritorna eternamente
l’incontraddittorietà di tutte le cose.)
Si parla di governi tecnici e di tecnocrazia. Ma il senso conferito oggi a questi termini è
essenzialmente diverso dalla più
profonda dimensione tecnica sulla quale (ancora una volta) inviterei a riflettere. I governi
tecnici - ad esempio quello sperimentato
in Italia oppure, a livello europeo, il
governo costituitosi con l’asse Sarkozy-Merkel - sono soltanto epifenomeni di quella dimensione:
così come l’immoralità e l’indifferenza
religiosa delle masse sono soltanto un
epifenomeno della morte di Dio a cui si rivolge
il pensiero filosofico del nostro tempo. Dal punto di vista etimologico, tecnocrazia
significa, certamente, il kratos (il
potere) alla tecnica. Ma per lo più
questo termine ha il senso di un ottativo, di un’aspirazione o di una deprecazione: di un esortare verso la
realizzazione o di rifiutare o far
rifiutare qualcosa che si ritiene più o meno
realizzabile, più o meno incombente. Si può andare più indietro di Veblen o Spengler: si può
arrivare agli inizi dell’Ottocento, a
Saint-Simon, il quale comincia a parlare di
necessità, di doverosità, di opportunità di dare il potere alla tecnica.
Invece quella più profonda dimensione tecnica a cui mi riferisco non è in alcun modo qualcosa a cui
si invita, un progetto, una ricetta,
un’esortazione o un rifiuto, ma ha il
carattere di una descrizione, di una constatazione - che peraltro si trova su di un piano ulteriore, e
se si vuole astratto rispetto a quello
su cui di solito la riflessione fenomenologica
si mantiene (un’affermazione, questa, che
sottintende quell’elogio dell’astratto che Hegel invita a condividere). Nonostante abbia l’apparenza di
un tema specialistico, il discorso sulla
tecnocrazia negli anni Trenta coinvolge qualcosa di profondamente essenziale,
che travalica i confini
geografico-temporali indicati da quel discorso, fino a presentare, addirittura, un carattere
planetario e a costituire una svolta in
cui ne va delfintera tradizione dell’Occidente e dei suoi valori. Quel discorso coinvolge la dimensione tecnica, di cui abbiamo incominciato a
parlare: in essa la tecnica appare come
destinata al dominio del pianeta. La
descrizione e constatazione di cui prima si è detto è descrizione di una destinazione, cioè di una
necessità. Si tratta di capire in che
senso queste affermazioni non siano
un’esagerazione arbitraria e incomprensibile, e in che senso la tecnocrazia negli anni Trenta possa
coinvolgere una destinazione di questa
portata. Natalino Irti ha parlato
dell’importanza di Ugo Spirito in
relazione alla situazione italiana di quel tempo. Ma prima e alle spalle di Ugo Spirito c’è la figura
decisiva di Giovanni Gentile. Questo
apprezzamento può stupire, perché (a parte le
riserve che si possono avanzare sul piano politico) non solo si riferisce a una forma culturale che spesso
vien guardata con sospetto - cioè la
filosofia -, ma anche perché si può dire che
la filosofia contemporanea ignori quasi completamente il pensiero di Gentile (e in generale la
filosofia italiana). Ignora, però, ciò
che essa ha di più decisivo ed essenziale.
Non solo: può sembrare anche molto strano che, a proposito di tecnica e tecnocrazia, si parli
di Giovanni Gentile, visto che in Italia
il pensiero di Gentile (ma anche quello
di Croce) è stato considerato radicalmente avverso alla scienza e alla tecnica e quindi estraneo al
nuovo clima culturale postbellico. Si
tratta di capire perché questa
prospettiva è completamente fuori strada. Si incominci a rilevare che, sebbene
ignorato, il pensiero di Gentile afferma
ciò che nel nostro tempo è affermato, si può dire, ovunque (sia pure con
tonalità e reazioni diverse): che non
esiste alcuna realtà immutabile e alcuna verità definitiva al di là del mondo umano. Solo che, quasi
sempre, questa affermazione non è altro
che un dogma, un presupposto che vien
dato per scontato, un’intuizione, un impulso, una fede, qualcosa che sta diventando senso comune;
laddove il pensiero gentiliano (insieme
a pochissime altre posizioni
filosofiche) è la fondazione rigorosa di tale affermazione. Rigorosa, nel senso che è la più coerente al
fondamento che è comune all 'intero
pensiero dell’Occidente (quindi non solo
alle prospettive della tradizione filosofica, artistica, religiosa che invece affermano l’esistenza di una
Realtà immutabile e divina, ma anche
alla prospettiva tecnico-scientifica). Tale
fondamento è la convinzione che il divenire del mondo, il trascorrere delle cose dal non essere
all’essere e daccapo al non essere, sia
l’evidenza più indiscutibile e originaria.
Gentile mostra che tale evidenza implica il divenire del Tutto. A questo punto, ciò che passa inosservato -
per chi non sa scendere nel sottosuolo
abitato dal pensiero di Gentile - è che
la negazione fondata di ogni Immutabile è la negazione di ogni Limite assoluto e inviolabile che si
innalzi di fronte all’azione dell’uomo e
quindi a quella forma dell’agire umano,
che oggi è la più potente, nella quale consiste l’agire della tecnica.
Ciò significa che, di per sé, la tecnica non può sviluppare tutta la potenza di cui è capace, ma può
svilupparla solo alla condizione che
sappia ascoltare e capire la potenza
concettuale di quel sottosuolo. È questo sottosuolo filosofico a dare potenza reale alla volontà di potenza
della scienza e della tecnica. Appunto
per questo vado ripetendo che solo
apparentemente Gentile è stato fascista e che se c’è una forma di filosofia radicalmente opposta al fascismo
essa è proprio la filosofia di Gentile.
Il fascismo infatti, come ogni regime politico totalitario è uno degli
Immutabili di cui il pensiero gentiliano
ha mostrato l’essenziale impossibilità.
L’impossibile è un sogno che per qualche tempo riesce a prevalere sulla veglia, ma dal quale è
inevitabile che prima o poi ci si
risvegli. Della fondazione gentiliana
di questa impossibilità si può dare qui
solo qualche cenno, formulandola in modo che possa venire alla luce la configurazione che è
comune a tale fondazione e a quella
operata dai pochi altri abitatori del
sottosuolo filosofico del nostro tempo (quali Nietzsche e Leopardi).
Gentile mostra che se esistesse una realtà immutabile - che quindi sarebbe una realtà esistente in sé
stessa, al di fuori e al di là della
nostra esperienza, cioè del nostro pensiero,
indipendente da essa (e questo è il volto che il divino ha mostrato lungo la storia dell’uomo) -, il
divenire delle cose, il loro uscire dal
nulla e ritornarvi, non avrebbe quella serietà
che invece gli compete per il suo essere l’evidenza originaria e suprema. Innanzitutto, se esistesse un Dio in
cui ogni cosa è già contenuta prima
ancora di essere prodotta o creata, allora
l’uscire dal nulla e il ritornarvi, da parte delle cose del mondo, sarebbe una semplice apparenza, non avrebbe serietà.
Ma l’uscire dal nulla e il ritornarvi è
l’evidenza e verità fondamentale (è,
questa, la suprema certezza dell’Occidente,
quindi anche di Gentile). Dunque non può esistere alcuna realtà e quindi alcuna verità immutabile e
divina, esistente al di là
dell’esperienza umana. Si può
riproporre così questo tratto decisivo della coscienza contemporanea: sulla base della convinzione
originaria che, evocata dal pensiero
filosofico, sta al fondamento non solo
delle forme religiose, della scienza moderna e di tutta la cultura occidentale, ma anche delle stesse
opere e istituzioni dell’Occidente, sulla base dunque della convinzione che
le cose del mondo umano oscillano tra
l’essere e il nulla, è impossibile che
esista qualcosa di assoluto, immutabile,
divino, perché esso, precontenendo tutte le cose, avrebbe già riempito tutti gli spazi vuoti che sono
richiesti dal divenire, ossia avrebbe
già riempito quel non essere che (come gli
antichi atomisti avevano compreso) è necessario che competa alle cose quando ancora non sono e quando non
sono più. Un Dio immutabile (pieno, satollo,
dice Nietzsche) e quindi una verità
assoluta in cui questo Dio sia eretto sono la Legge alla quale sia il futuro sia il passato più
lontani devono adeguarsi, sì che l’ormai
nulla e l’ancor nulla non possono più
rimanere un nulla ma diventano degli ascoltatori della Legge, cioè diventano qualche cosa di positivo, un
essere. Questo, sommariamente
richiamato, il tratto decisivo della
coscienza moderna. Come già si è detto, esso è anche la distruzione di ogni Limite (Legge) all’agire
dell’uomo e quindi all’agire della
tecnica. La legittima a oltrepassare ogni limite. La legittima quindi - essendo essa l’agire
che di fatto è il più potente nel mondo
contemporaneo - a subordinare al proprio
scopo gli scopi di tutte le forze (politiche, religiose, economiche, giuridiche ecc.) che invece
intendono servirsi della tecnica per
realizzarli. Col compiersi di tale
subordinazione quelle forze cambiano volto, tramontano. Richiamiamo ora, anche qui, e sommariamente,
la giustificazione di queste affermazioni
(rinviando ai miei scritti per il suo
senso concreto). Ci si rivolga
innanzitutto a un concetto che pur essendo
ampiamente presente anche nelle discipline scientifiche va però esplorato al di là delle prestazioni da
esso offerte in quei campi. Mi riferisco
al concetto di mezzo e di scopo. Lo
scopo di un’azione determina il modo in cui essa si costituisce: ne determina
il senso e l’essenza. Se si decide di
uscire di casa (o di fondare un impero), il contenuto di questa decisione fa sì che si compiano certe azioni
e non altre, diverse cioè da quelle che
si compirebbero se si decidesse di
rimanere in casa. Lo scopo determina la struttura dell’azione. Pertanto, se lo scopo di un’azione cambia,
l’azione cambia, è un’altra azione anche
se in certi casi si può credere che sia
rimasta la stessa. La tecnica
guidata dalla scienza moderna è il mezzo di cui
si servono o si sono servite tutte le forze dominanti (capitalismo, democrazia, cristianesimo,
islam, comuniSmo e altri regimi
totalitari ecc.). Intendono servirsi della tecnica per realizzare i loro scopi, cioè per realizzare,
ognuna prevalendo sugli scopi delle
altre, un mondo capitalistico, democratico,
comunista, islamico, cristiano ecc. E la tecnica è il loro mezzo: non esiste oggi uno strumento più potente
della tecnica. Il teorema sul quale va
richiamata l’attenzione è che le forme
di azione che perseguono gli scopi rispetto ai quali la tecnica moderna è il mezzo insostituibile,
sono costrette ad assumere come scopo lo
scopo che è proprio della tecnica,
mentre i loro scopi iniziali sono costretti a diventare mezzi del loro nuovo scopo. Le forze che si servono della tecnica sono
infatti tra loro conflittuali. Il
capitalismo è in conflitto con la democrazia (sia di tipo classico sia procedurale), la
democrazia procedurale con il
cristianesimo, il cristianesimo col capitalismo e col comuniSmo ecc. La democrazia intende porre
dei limiti alla volontà di profitto
privato; questa volontà non vuol farsi
limitare dal principio democratico e innanzitutto cristiano del bene comune; il cristianesimo e la Chiesa
cattolica in particolare riconoscono al
capitalismo il suo essere un mezzo di
produzione della ricchezza più efficace dell’economia pianificata, e tuttavia
gli ingiunge di assumere come scopo
ultimo non il profitto privato, ma, appunto, il bene comune.
In tale conflitto ogni forza mira quindi a che le forze antagoniste assumano come scopo uno scopo
diverso da quello che le definisce e per
il quale esse sono ciò che sono, e cioè
mira a distruggerle. Quando la Chiesa dice al capitalismo di non assumere come scopo ultimo
l’incremento indefinito del profitto
privato, che invece deve essere soltanto un mezzo per realizzare il bene comune, essa sollecita
il capitalismo a non esser più
capitalismo. (E questo va detto anche
riconoscendo che la Chiesa, spingendo oggettivamente il capitalismo al tramonto, non ha l’intenzione
di distruggerlo e intende differenziare
il proprio all’agire marxista-comunista,
senza peraltro riuscirvi.) Nella
conflittualità tra le forze dominanti, il mezzo di cui tutte si servono per prevalere sulle altre è
oggi la tecnica: la tecnica, intesa in
senso, per così dire, trascendentale, cioè
come sistema dei sottosistemi (giuridico, sanitario, militare, burocratico, economico, scolastico ecc.) che
coordinano razionalmente mezzi in vista
della produzione di scopi tra loro non
conflittuali. Ma, dato il rapporto
conflittuale tra le forze dominanti,
ognuna di esse, per prevalere sulle altre e non soccombere, è costretta a rafforzare sempre di più il mezzo
di cui essa si serve, ossia la frazione
dell’apparato scientifico-tecnologico da
essa gestito. Questa volontà di rafforzamento del mezzo è crescente perché è continuamente alimentata
dalla situazione conflittuale. Questa crescita toglie spazio, dunque, allo
scopo iniziale di ognuna di tali forze;
lo scopo di ognuna di esse viene cioè
sempre più occupato dal potenziamento del mezzo. Fino a essere
completamente occupato, in modo che lo scopo iniziale resta subordinato al nuovo e diventa un mezzo
per la realizzazione del nuovo scopo. Ad
esempio, se lo scopo è un mondo capitalista,
allora, per realizzarlo vincendo le
resistenze opposte dalle altre forze, è necessario che il capitalismo potenzi le possibilità
tecnologiche di cui esso dispone; ma
incrementando questo potenziamento è
necessario che il capitalismo assuma come scopo non più soltanto l’incremento del profitto, ma
l’incremento del potenziamento del mezzo
tecno-scientifico. E come prima si
diceva che quando la Chiesa esorta il capitalismo ad assumere come scopo il bene comune essa distrugge il
capitalismo, così ora va detto che,
quando l’area dello scopo del
capitalismo a un certo punto viene completamente invasa dal potenziamento (promosso dal capitalismo
stesso) dell’apparato della tecnica, la
tecnica distrugge il capitalismo -
appunto perché, assumendo uno scopo diverso da quello da cui è definito, il capitalismo non è più
capitalismo (anche se si continua a
chiamare con questo nome ciò in cui esso si è
trasformato). E non più capitalismo anche quando l’area dello scopo capitalistico è anche solo parzialmente
invasa. Quanto si è detto del rapporto
tra capitalismo e tecnica va ripetuto
anche in relazione a ogni altra forza oggi dominante. Le forze che non potenziano il proprio mezzo
tecno- scientifico soccombono; ma
soccombono anche le forze che prevalgono
perché tale potenziamento l’hanno operato.
Tuttavia il rovesciamento del rapporto tra tecnica e forze che se ne servono per realizzare i loro scopi
dipende da una condizione decisiva. Sino a che gli scopi di queste forze sono da
esse vissuti come imposti da una Verità
immutabile e assoluta, esse eviteranno
di alterarli e si opporranno al loro spodestamento da parte della tecnica. Ognuna di esse si
farà spezzare piuttosto che piegarsi e
la forza vincente della tecnica sarà
giudicata illegittima, ingiusta, malvagia, prevaricante, tirannica, disumana, dissennata - priva di
verità, appunto. E comunque, anche se
non giungeranno a farsi spezzare, quelle
forze renderanno il più possibile difficile il prevalere della tecnica e le imporranno, come Limiti che essa
non deve oltrepassare, i valori della Verità
in cui esse credono. (Limiti che non
sono soltanto etico-religiosi, ma anche di
carattere diverso, come quello economico. Ad esempio il capitalismo, oltre a porre come Verità
assoluta e come Limiti inviolabili la
proprietà privata e la libertà di intrapresa,
proibisce alla tecnica di produrre beni che non possono essere venduti, o la cui vendita non produce un
profitto ritenuto conveniente, anche se
sono indispensabili alla sopravvivenza
degli insolventi - e tale proibizione è inevitabile se il capitalismo vuol sopravvivere.) Ma oggi la fiducia nell’esistenza della Verità
va tramontando. Questo è il clima che,
procedendo dall’Occidente, sta
diventando planetario - destinato com’è a
travolgere fenomeni di crescente presenza del cristianesimo nei continenti extraeuropei. (Nell’Unione
Sovietica i sacrifici richiesti ai
cittadini potevano essere sopportati quando era
più diffusa la convinzione che il marxismo fosse una Verità assoluta e che quindi la produzione
tecnico-economica della ricchezza
dovesse innanzitutto servire alla promozione e
difesa di tale Verità e non alla riduzione di quei sacrifici. Ma, quando questa convinzione è venuta meno,
è venuta meno, oltre alla disponibilità
dei cittadini al sacrificio richiesto
per realizzare la società giusta e senza classi, anche la disponibilità dell’apparato
tecno-scientifico a essere il mezzo per
tale realizzazione.) Ora, il fuoco
sotto la cenere del progressivo allontanamento delle masse dalla Verità, divina
o terrena, è il sottosuolo filosofico
del nostro tempo (il sottosuolo abitato
da pensieri decisivi come quelli di Gentile o di Nietzsche), dove - si è richiamato - si mostra
Yimpossibilità di ogni Immutabile,
quindi di ogni Verità immutabile, di ogni
inviolabile Limite all’agire delfuomo e pertanto all’agire tecnico. E tale impossibilità è
l’impossibilità che gli scopi delle
forze ancora convinte di potersi servire della tecnica siano l’adeguazione dell’agire alla Verità
immutabile, che ora (ma ancora, per lo
più, sotto la cenere) si palesa come un sogno.
La coscienza che l’Apparato scientifico-tecnologico ha ancora di sé stesso è ancora cenere, la cenere che
copre il fuoco del sottosuolo, e quindi
tende a essere ancora una fede nell
’inesistenza degli Immutabili e nella morte di Dio; ma, nella misura in cui quel fuoco si libera
dalla cenere di tale fede, in questa
misura la subordinazione della tradizione
dell’Occidente (e del pianeta) alla tecnica è inevitabile. Si può richiamare un ulteriore aspetto del
rovesciamento per il quale il
potenziamento della tecnica diventa lo scopo
delle forze che intendono servirsi di essa. Riguarda il rapporto tra capitalismo e tecnica - il capitalismo
essendo ancora, nonostante la sua crisi
profonda, la più potente delle forze che
dominano il mondo, visto che è da essa che viene organizzata la produzione dei beni di consumo e della
ricchezza. A un aspetto soltanto di tale
rapporto qui si farà cenno. Non può
esistere capitalismo senza perpetuazione della
scarsità delle merci prodotte. Un bene di consumo totalmente disponibile non è merce, non è vendibile,
nessuno è interessato a produrlo o ad
acquistarlo. E il capitalismo,
essenzialmente legato alla perpetuazione della scarsità, si serve della tecnica per produrre merce. D’altra parte la tecnica, proprio in quanto
mezzo, ha un proprio scopo fondamentale e supremo: l’aumento indefinito della capacità di realizzare scopi. Questo
scopo non è escludente - a differenza
degli scopi delle forze che si servono
della tecnica. Non è escludente anche perché esso è un mezzo capace di realizzare gli scopi tra loro
conflittuali perseguiti da tali forze.
(Lo scopo del capitalismo è invece un mondo
capitalistico e non comunista, e viceversa; lo scopo del cristianesimo è un mondo cristiano e non ateo
ecc.) Ora, se per sopravvivere il
capitalismo deve perpetuare la scarsità
delle merci e si serve della tecnica - la quale ha peraltro come scopo fondamentale l’incremento
indefinito della potenza, ossia della
capacità di realizzare scopi -, va ora
rilevato che l’incremento indefinito della potenza implica Veliminazione progressiva della scarsità. La
situazione è cioè quella di un padrone
che si serve di un servo il cui scopo è
l’ehminazione del padrone. Il capitalismo si serve di un servo (la tecnica) che lavora per lo spodestamento
del padrone. Nella dialettica di servo e
padrone, Hegel mostra appunto che la
storia è fatta dai servi: per servire il padrone essi devono acquistare competenze, sollevandosi quindi al
di sopra di quelle del padrone;
elaborano tecniche e conoscenze
scientifiche, gestiscono e quindi si impadroniscono di quella potenza scientifico-tecnologica che finisce
per rovesciare, il rapporto feudale
servo-padrone. Ma, anche qui, il servo può rovesciare il padrone solo se non crede più che egli sia il portatore della
Verità - solo se la tecnica non crede
più che il capitalismo, quindi la
perpetuazione della scarsità delle merci, sia la vera e insuperabile condizione umana. La
contraddizione in cui consiste il
rapporto fra forze che si servono della tecnica e tecnica si acuisce e diventa estrema quando
cioè viene in luce che gli scopi delle
forze che si servono della tecnica non
hanno una Verità assoluta. E a portare alla luce la morte della Verità e
di Dio non può essere la scienza o la tecnica
(che quando tentano di farlo sono soltanto cattiva filosofia) ma, si è visto, è il sottosuolo filosofico
del nostro tempo. (Così come, d’altra
parte, non può essere una fede a rifiutare quella morte e il principio che tutto ciò che si può
fare sia lecito farlo.) Non ci si può dunque limitare alfawertimento
che la tecnica non ha limiti. Il sapere
che dà questo avvertimento è innegabile
- è il sottosuolo di cui stiamo parlando -, solo in quanto mostra che è sul fondamento di ciò in
cui da ultimo credono sia gli stessi
difensori dei Limiti sia la tecnica stessa, è
su tale fondamento che viene affermata l’assenza di Limiti. Da ultimo sia la tecnica sia i difensori dei
Limiti all’agire dell’uomo credono,
appunto, nell’esistenza dell’agire. Lo
si crede lungo l’intera storia dell’uomo. Si crede che le cose possono essere smosse, controllate,
prodotte, create e distrutte. Per la
prima volta il pensiero greco intende la
creazione (produzione) come l’uscire dal non essere e la distruzione come annientamento. Pensando per
la prima volta l’essere e il niente
conferisce un senso ontologico al creare
e al distruggere. In modo sempre più diffuso lungo la storia dell’Occidente si crede che l’agire
sia creare e distruggere in senso
ontologico. Se non credesse in questo
senso della creabilità e annientabilità delle cose, l’Occidente non esisterebbe: non esisterebbe, in esso,
azione (umana o divina o della natura),
quindi non esisterebbe nemmeno azione
tecnico-scientifica. La scienza e la tecnica credono nel senso ontologico dell’agire anche quando sono
convinte di non aver nulla a che vedere
con l’essere e il niente. Nel suo senso
più alto e autentico, la tecnocrazia è l’ascolto, da parte della tecnica, della voce del
sottosuolo filosofico del nostro tempo -
della voce che, sul fondamento della convinzione che l’agire esiste secondo il
senso ontologico evocato dall’Occidente,
fa sentire l’impossibilità dell’esistenza
di un Limite assoluto all’agire così inteso, che peraltro è la forma radicale dell’agire. Nella misura in
cui la tecnica dà ascolto a quella voce
(e tale ascolto è un processo in corso, che
ancora fatica ad affermarsi), lo scopo della tecnica, ossia l’incremento indefinito della potenza, è
destinato al dominio del mondo, cioè a
presentarsi come lo scopo delle forze che
ancora vogliono servirsi della tecnica, trattenendola al ruolo di semplice mezzo. Poiché Gentile è uno dei
pochi abitatori di quel sottosuolo il
tema della tecnocrazia negli anni Trenta
non solo non ha carattere specialistico, ma coinvolge, come si è già rilevato, il problema centrale del
nostro tempo: dove sta andando il mondo? Ma, ora, si aggiungeranno soltanto alcune
sottolineature e alcune precisazioni -
rinviando al modo in cui nei miei scritti
si configura l’affermazione che il mondo sta andando verso la dominazione della tecnica. (E comunque, si
ripeta, non si tratta di consigliare al
mondo dove debba andare, ma di osservare
dove è destinato ad andare. È patetico voler dire ai popoli quello che devono fare: si tratta
invece di capire che cosa sono destinati
a valere e a fare.) Nel suo significato
più profondo la tecnica non ha nulla a
che vedere con la concezione scientifico-tecnicistica della tecnica (e tanto meno con i governi tecnici
di cui oggi si parla). Mostrando
l’inesistenza di ogni Limite inviolabile, il
sottosuolo filosofico del nostro tempo non solo legittima la volontà di potenza della tecnica e il suo
oltrepassamento di ogni limite, ma li
rende possibili. Se non si sa di avere in
mano una spada invincibile non ce se ne serve e non si vince. Di qui (anche di qui) il carattere
radicalmente pratico del pensiero
filosofico, ossia di ciò che è il più astratto.
L’ascolto della voce del sottosuolo, da parte della tecnica, è un
processo in atto che ancora è ostacolato dalle voci della superficie. La voce autentica dice che il
vero tramonto degli Immutabili è dovuto
alla necessità che la loro esistenza renda
impossibile quel nulla del futuro e del passato, quel senso ontologico del divenire che ormai ovunque è
considerato come l’evidenza suprema. La
potenza della tecnica è dovuta al
carattere pratico del sottosuolo filosofico, non alla praticità del sapere matematico (o
fisico-matematico) che sta al cuore
della tecnica. Il che va detto anche se oggi questo secondo carattere è il fattore per il quale
la tecnica ha più potenza di altre
forze. Tale maggior potenza è però una
situazione storica contingente, perché se accadesse nuovamente che pregando si muovano le
montagne e le si muovano più di quanto
la tecno-scienza riesca a muoverle,
allora la tecnica non sarebbe più quella fisico-matematica ma quella pregante, destinata dunque essa al dominio
del mondo (e, certamente, diversa da
quella che si rivolge alfimmutabile Verità
di un Dio). Se la dimensione economica
- la più potente delle forze che si
servono della tecno-scienza - domina ormai la politica e le strutture statuali (si pensi al peso che
grava su di esse in forza della
globalizzazione capitalistica), ora è la stessa economia che sta per essere oltrepassata dalla
tecnica. Non nel senso che non esisterà
più economia, ma nel senso che, mentre per il
capitalismo la tecnica serve per incrementare il capitale, si sta andando verso un tempo in cui il capitale
servirà per incrementare la potenza
tecnica. E l’uomo? Molte, le voci che
accusano la tecnica di essere
disumanizzante. Ma che cos’è l’uomo nella cultura occidentale, ormai planetaria? Al di sotto
delle molteplici definizioni dell’esser
uomo agisce un tratto a esse comune - e
decisivo -, per il quale l’uomo è un centro di forze cosciente, capace di organizzare mezzi, in vista della
produzione di scopi. (Anche l’uomo mistico è e intende essere questo centro. Il mistico è infatti il supertecnico:
apre le braccia alla suprema e infinita
potenza di Dio e crede, lasciandosi
invadere da essa, di poter essere estremamente più potente deWhomofaber spesso dimentico di Dio.) Ma la
definizione dell’uomo come centro cosciente di
forze, capace di organizzare mezzi in vista della produzione di scopi, è la definizione stessa della tecnica.
E allora non si dovrà forse dire che la
tecnica è Yinveramento massimo
dell’uomo, ossia che l’uomo trova nella tecnica la propria essenza più profonda, così come, nel tempo
che precede la morte di Dio, è nella
potenza, ossia nella tecnica divina che
l’uomo trova e vive il più profondo esser sé stesso? Anche Dio è stato l’inveramento massimo
dell’uomo, perché l’uomo, che da
principio chiede a Dio di salvarlo, poi
si rende conto che per essere salvo deve essere innanzitutto salvaguardata la potenza del Salvatore,
perché se Dio diventa un mezzo nelle
deboli mani dell’uomo, bisognoso di salvezza,
allora anche Dio in quelle mani diventa un debole strumento di salvezza. Nello stesso modo, quando l’uomo
si rivolge alla tecnica per essere
salvato, e dopo averla assunta come mezzo
nelle proprie mani si rende conto di poter esser da essa salvato solo se egli non assume come scopo la
propria salvezza ma il potenziamento
dello strumento salvifico, allora egli
trova e vive nella Tecnica il più profondo esser sé stesso. E lo trova e lo vive solo se la tecnica si è
posta in ascolto del sottosuolo
essenziale del nostro tempo. La discrasia tra tecnica e uomo - la
disumanizzazione dell’esistenza da parte
della tecnica - riguarda quindi le
diverse concezioni ideologiche dell’esser uomo, cioè l’uomo cristiano, l’uomo capitalista, comunista
ecc.; non riguarda il tratto essenziale
che è a esse sotteso. Tale tratto dice che l’uomo è azione, prassi, volontà
cosciente e convinta di avere la
capacità di trasformare le cose fino a farle diventare, da nulla, essenti e, da essenti, nulla. L’uomo ideologico viene certamente messo da
parte dalla tecnica autentica, che
ascolta il sottosuolo. La tecnica non ha
come scopo il benessere o la felicità dell’uomo, ma quel potenziamento indefinito di sé stessa
che peraltro dà all’uomo più benessere e
felicità di quelli che egli otterrebbe
se essi fossero lo scopo del suo agire. Sì che egli è messo da parte non come tratto comune ai diversi modi ideologici di intendere l’uomo, ma, appunto, come uomo ideologico che, da scopo, diventa mezzo per l’aumento
indefinito della potenza tecnica. Anche
la scienza e la tecnica sono ideologie,
cioè non sono verità incontrovertibili, ma sono le ideologie più potenti - sebbene il sottosuolo
filosofico che conferisce loro
l’effettiva potenza sia, ormai per l’intero
pianeta, e più o meno esplicitamente, la suprema e unica verità incontrovertibile. A questo punto è possibile intrawedere
Yinizio del sentiero che conduce a un
Sottosuolo essenzialmente più profondo di
quello di cui si è parlato sin qui. Si può esprimere così tale inizio. In quanto unita al sottosuolo
filosofico del nostro tempo, la
tecno-scienza non è scetticismo ingenuo, appunto perché in questa unione si nega l’esistenza
non di ogni verità, ma di ogni Verità
immutabile che stia al di là di ciò che nel
sottosuolo appare come l’unica verità incontrovertibile: l’agire del divino, dell’uomo, della natura, cioè
l’oscillazione delle cose tra il loro
non essere e il loro essere, per la prima volta
evocata dal pensiero filosofico greco.
Del carattere pratico della filosofia che abita il sottosuolo del nostro tempo, si è già detto. Ma quella
evocazione ha un carattere pratico
ancora più decisivo, perché solo se si crede nella disponibilità delle cose al
loro oscillare tra il non essere e
l’essere è possibile l’agire e quella forma estrema dell’agire che è l’agire in senso ontologico. L’evocazione
greca di tale senso è il luogo nel quale
soltanto è potuta e potrà crescere
l’intera storia dell’Occidente.
Tuttavia, se ovunque si è convinti della verità incontrovertibile di quel luogo, perché tale
convinzione è verità
incontrovertibile? Questa domanda suona
assolutamente strana. Non è forse ovvio,
e sin dagli inizi dell’uomo, che l’agire esiste e che le cose vanno dal non essere all’essere e
viceversa? Non si perde tempo a
prenderla in considerazione? È
inevitabile che sembri strana. La si ascolta infatti stando all’interno del luogo che da tale domanda è
messo in discussione. Ma perché è
necessario rimanere all’interno di quel
luogo? Innocenza del divenire e valore
dell’uguaglianza Se spesso gli storici
del pensiero filosofico vedono gli alberi
- come si suol dire - ma non la foresta, non è certo questa una critica che si possa muovere
all’imponente e poderosa ricerca di
Domenico Losurdo, Nietzsche, il ribelle
aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico (Bollati Boringhieri 2002). Egli mostra come il
pensiero di Nietzsche sia potentemente
unitario e come in esso le variazioni non
siano casuali. Anche per Leopardi si è dovuto attendere molto tempo prima che lo si capisse - e non è che
oggi tutti l’abbiano capito. Sono
d’accordo con Losurdo anche
nell’individuazione del tratto o elemento che determina il carattere unitario del pensiero di
Nietzsche. Egli considera Nietzsche filosofo
totus politicus, ma questa espressione
non riduce il suo pensiero alla dimensione
specialistica della politica: all’opposto, intende “salvare” il filosofo nella sua interezza, cioè nella sua
volontà di abbracciare e comprendere la
realtà nella sua totalità e nel suo assillo
di intervenire attivamente su di essa (p. 900).
Solo non rimuovendo l’elemento che l’attraversa in profondità, solo tenendo ben presenti la
critica e la denuncia militante della
rivoluzione e della modernità, è possibile
cogliere l’unità del pensiero di Nietzsche e la sua interna coerenza ( Ibid .). Losurdo scorge che per
Nietzsche la modernità e la rivoluzione
hanno un inizio lontanissimo nella
storia dell’Occidente: incominciano con Socrate; e, da ultimo, il loro avversario autentico, al di
sotto delle sue molteplici forme, è l’innocenza
del divenire - quella in cui forse vive
il più antico uomo greco, l’uomo dionisiaco, e nella quale intende consapevolmente abitare il
superuomo annunciato da Nietzsche. Il
divenire è innocente quando, liberato da
ogni Verità assoluta e da ogni Dio immutabile che intendono assoggettarlo, è
liberato anche da ogni colpa che gli
deriverebbe dal suo non adeguarsi alle Leggi vere e divine. Il quadro presentato da Losurdo è tra i più
fedeli e pregevoli. Ma quando si mostra
il corpo di un lottatore, la
rappresentazione è concreta - ossia non è un semplice dipinto -, quando riesce a mostrare la forza del
lottatore, cioè la sua effettiva
capacità di vincere gli avversari. Nietzsche appartiene al ristretto gruppo dei grandi lottatori che
riescono a distruggere i nemici del
divenire, i nemici che formano l’intera
tradizione dell’Occidente. La ricerca di Losurdo è quanto mai pregevole, ma ancora non dà a Nietzsche quel
che è di Nietzsche, cioè la sua
straordinaria potenza speculativa, che
esige di essere riconosciuta anche aH’interno della riflessione storica.
Per cogliere tale potenza bisogna fare i conti con coloro che a essa si sono esplicitamente rivolti. Per
esempio Heidegger. Ma qui sarebbe
modestia fuori luogo se non mi riferissi anche
a L’anello del ritorno. Sul quale inviterei Losurdo a riflettere - anche perché la scansione meno convincente
del suo libro è proprio data dal modo in
cui egli fa rientrare il tema deH’eterno
ritorno nel Nietzsche totus politicus che lotta per la salvaguardia dell’innocenza del
divenire. Losurdo, giustamente, dà
valore al modo in cui Nietzsche intende
sé stesso. Ma a un certo momento Nietzsche stesso ha posto al di sopra di tutte le proprie
dottrine quella dell’eterno ritorno.
Sembra che a questo fatto Losurdo non dia il peso dovuto e che, anche lui, si ritragga dal
problema. Che certo, è gigantesco: il
divenire, cioè la negazione deH’eterno, è un
ritorno eterno! Ancora non si comprende che tale dottrina non è una stranezza, ma, come Nietzsche
stesso asserisce, è quella nuova
conoscenza che è necessità suprema,
innegabile e incontrovertibile. Ma, daccapo, non basta asserirlo:
bisogna mostrarlo in concreto. Nietzsche l’ha
potentemente mostrato, mostrando l’implicazione necessaria tra divenire e eterno ritorno.
Anche lo storico ha il compito di non
nascondere tale potenza. Soprattutto la
filosofia è equivocabile. Rivolge lo sguardo
verso temi che tutti credono di conoscere. Grandi filosofi sono anche straordinari scrittori e, tra chi
li legge, si crede che accostandosi al
linguaggio letterario si abbia in mano il suo
senso filosofico. Quasi sempre i mass media comunicano tesi, dominati dalla convinzione che ogni
tentativo di discuterle le sbiadisca, le
tolga di scena, le indebolisca. E invece
c’è filosofia solo quando le tesi sono radicalmente discusse, fondate, argomentate. Si potrebbe
continuare a lungo. Bene ha fatto dunque Luciano Canfora a
riconsiderare (Corsera, 11/1) gli
equivoci che possono nascere intorno
alla filosofia di Nietzsche. Sostiene che i grandi pensieri hanno a che fare con le loro conseguenze; ad
esempio il Vangelo con la storia della
Chiesa; Marx con l’Unione Sovietica,
Nietzsche con il nazionalsocialismo e il razzismo. Ma quasi a parare l’obbiezione che la luce
del sole ha a che fare sia con l’azzurro
del cielo sia con la putrefazione dei
cadaveri, Canfora richiama il fatto che in Nietzsche i valori dell’uguaglianza (morale del dovere,
democrazia, socialismo) sono rifiutati.
E il fatto c’è indubbiamente. Tuttavia
questi valori - che in parte sono anche cristiani - hanno a loro volta a che fare con le loro
conseguenze, tra le quali le crociate,
il periodo del terrore durante la
rivoluzione francese, la stessa rivoluzione sovietica e il comuniSmo, la soppressione fisica di chi, di
volta in volta, è stato ritenuto
immorale. Nessuno è innocente, nemmeno i
nemici del superuomo di Nietzsche. È però necessario che si capisca
perché Nietzsche abbia questi nemici.
Non si può affermare che egli è un ribelle
aristocratico (Canfora riprende l’espressione dal libro di Domenico Losurdo) nello stesso modo in cui si
dice che il nostro calzolaio vota per
questo o quell’uomo politico (con tutto
il rispetto per i calzolai). Si deve invece capire quale fondamento filosofico abbia condotto
Nietzsche a quell’atteggiamento. Egli si
ribella all’intera tradizione
occidentale, perché ne mostra l’insostenibilità. Non vedo, ripeto da tempo, che si facciano o si siano
fatti sforzi consistenti in tale
direzione. Heidegger ha sostenuto che
Nietzsche è rigoroso come Aristotele.
Sono d’accordo. Ma si tratta di capire perché lo sia. In Nietzsche, si crede, c’è tutto e il suo
contrario. Un eminente illogico. (Anche
Leopardi è stato trattato come un
dilettante che andava compitando la filosofìa. Il fatto è che quelli che lo leggevano, non capivano.) Se il
nostro calzolaio si contraddicesse come
spesso si crede che Nietzsche si sia
contraddetto, non gli faremmo più aggiustare le scarpe. Nel suo Saggio sullo Hegel, Croce, (che
giustamente è assunto da Canfora come
affidabile punto di riferimento nel problema-
Nietzsche) scrive, della Nascita della tragedia di Nietzsche: Per quel che concerne la logica, quale
migliore propedeutica si potrebbe
consigliare di questo immaginario antihegeliano
per intendere la soluzione che lo Hegel propose del problema degli opposti?. La nietzschiana morte di Dio che sta alla
base del superuomo appartiene al
significato essenziale dello stesso
pensiero crociano, anzi di tutta la filosofia (e quindi la cultura) contemporanea. (A tale significato
appartiene anche quel Gramsci che
incautamente sardonico riconduceva il superuomo
di Nietzsche al conte di Montecristo e ai
romanzi di appendice.) Nietzsche rifiuta i valori dell’uguaglianza
perché essi sono legati al Dio che muore. Ma,
soprattutto qui, si tratta di capire perché egli annuncia la morte di Dio. Rawls, Hegel, Kant John Rawls è molto conosciuto in Italia per
iniziativa meritoria di alcuni studiosi
come Salvatore Veca, Sebastiano Maffettone
e altri. Nel 1982 Feltrinelli aveva pubblicato Una teoria della giustizia, l’opera maggiore di
Rawls, e le sue Lezioni di storia della
filosofia morale, apparse negli Stati
Uniti nel 2000. Sono una gradita
sorpresa soprattutto per l’ampia e
approfondita attenzione che dedicano a grandi figure della filosofia moderna come Leibniz, Hume, Hegel e
soprattutto Kant. Un riconoscimento
dell’importanza della filosofia, osserva
giustamente Veca nella Nota all’edizione italiana, non abituale nella tradizione che per mera
convenzione possiamo chiamare analitica,
entro cui la ricerca e l’insegnamento di
Rawls si situano. Lo stesso Rawls
riconosce le radici kantiane di Una teoria
della giustizia, ma queste Lezioni si spingono sino ad affermare che lo stesso Hegel è un liberale
riformista moderatamente progressista,
che si muove lungo quella linea del liberalismo
della libertà che da Kant (senza escludere Mill) giunge a Una teoria della
giustizia. Rawls può sostenerlo, perché
è convinto che buona parte della
filosofìa morale e politica di Hegel possa reggersi da sola, cioè indipendentemente dal suo
fondamento metafisico-speculativo. E,
certo, qui c’è molto da discutere, anche
perché è poi lo stesso Rawls a coinvolgere quel
fondamento in momenti cruciali della sua interpretazione di Hegel.
È chiaro che le cose vanno invece del tutto lisce nella parte più ampia e centrale di queste Lezioni,
dedicata a Kant. Il gesto essenziale di
Kant consiste infatti nel porre la filosofia
morale e politica come, appunto, una dimensione indipendente dalla
metafisica. Primato della ragion pratica.
Non a caso, un saggio di Rawls tradotto recentemente in italiano da Edizioni di Comunità è intitolato
Vindipendenza della teoria morale. Non sembra tuttavia che Rawls risolva il
problema relativo alla genesi del
teorema del primato della ragion pratica. In
Kant questo teorema presuppone la critica del sapere metafisico. Se questa critica cade, cade
anche quel teorema. Ad esempio non si
potrà più dire che 1’esistenza di Dio, f
immortalità delfanima, la libertà sono postulati della ragion pratica e non verità metafìsiche. Ma Fidealismo classico - Schelling, e Hegel
in particolare - ritiene di aver messo
in luce i presupposti arbitrari e da
ultimo contraddittori che stanno alla base del rifiuto kantiano del pensiero metafìsico. Questa convinzione
delfidealismo non è cosa da poco - e
soprattutto non può esser messa da parte
perché sembra trovarsi in contrasto col sapere
scientifico. Purtroppo Rawls non
entra in questo tipo di problemi. E
questo può essere il limite (del tutto comprensibile) di questo suo magistrale interesse - per molti
imprevedibile - per le grandi forme del
pensiero filosofico.Possiamo riassumere la filosofìa di Bergson in una singola idea: il tempo è reale. Lo afferma Leszek
Kolakowski alfinizio del suo studio del
1985: Bergson (Palomar dialoghi, che ricostruisce il pensiero di Kolakowski,
dedicato soprattutto alla storia critica
del cristianesimo e del marxismo).
Kolakowski aggiunge subito che se l’affermazione il tempo è reale non suona particolarmente
illuminante, originale o stimolante,
essa è invece il nucleo di una visione
del mondo del tutto nuova, perché dire che il tempo è reale equivale a dire che il futuro
assolutamente non esiste - e questa tesi
è invece stata in vari modi negata nelle forme
di pensiero che credono in una qualche forma di anticipazione del futuro. In questa pagina
Kolakowski si riferisce al determinismo
e alla fisica, ma sa bene che per
Bergson anche la concezione tradizionale del Dio onnisciente e immutabile è un modo di affermare
l’anticipabilità del futuro. L’implicazione tra realtà del tempo e
assoluta inesistenza del futuro è
indubbiamente decisiva, come appunto ritiene
Kolakowski, e conduce al rifiuto più radicale della tradizione dell’Occidente. Ma questo rifiuto che si basa
sull’esigenza di prendere sul serio il
senso del tempo, non è solo di Bergson,
bensì è il tratto fondamentale del pensiero del nostro tempo. Non a caso Gentile parla di serietà della
storia: la storia è seria, e va presa
sul serio, precisamente nel senso che essa
non può esistere insieme ad alcunché che (come il Dio della tradizione) la anticipi. Si vuole andare alla
radice di questa volontà di serietà? Si
incontra Nietzsche, e, ancor prima, la
straordinaria critica che Leopardi rivolge alla concezione platonica dell’idea, la quale è il prototipo
di ogni volontà di anticipare il futuro,
negando la serietà del divenire e del tempo.
Nel suo testamento Bergson, ebreo, scrive che si sarebbe convertito al cattolicesimo se non
avesse visto l’ondata formidabile di
antisemitismo che sta irrompendo sul
mondo. Un gesto di grande nobiltà. Ma nel 1914 il Sant’Uffizio aveva messo le opere di Bergson
all’indice dei libri proibiti e
Kolakowski ricorda che tutti i principali
filosofi tomisti francesi, con Maritain in testa, pensavano fosse Loro dovere combattere la dottrina
bergsoniana. E Sant’Uffizio e filosofi
tomisti coglievano nel segno per quanto
riguarda il rapporto tra filosofia di Bergson e dottrina ufficiale della Chiesa. Alla fine della sua vita
Bergson si è sentito cattolico. Ma non
ha rinunciato alla propria filosofia, che in
sostanza identifica Dio al tempo, ossia alla libera creatività di un agire, soprattutto per il quale il futuro
è del tutto inanticipabile. Un agire
senza scopo (come pensa Nietzsche), che
solo dopo aver agito può scoprire dove è arrivato e che cosa ha prodotto: una negazione radicale,
questa, del Dio della tradizione
cristiana. Tuttavia, anche se ancora si
stenta a capirlo, il cristianesimo del
futuro dovrà dare sempre più ascolto al
pensiero che tien ferma la serietà del tempo. In questo processo (dove tramonta la forma tradizionale
del cristianesimo), dopo la consonanza
tra il movimento cattolico del modernismo
e la filosofia di Bergson, quest’ultima,
insieme alla maggior parte della filosofia del nostro tempo, sembra destinata - ma non certo nel futuro
prossimo - ad attrarre nuovamente su di
sé l’attenzione della cultura cristiana.
Non vi sono tesi somme, ossia principi, verità eterne che sovrastino la storia, il tempo, il
divenire. A esprimere questo rifiuto,
ormai, non sono soltanto le forme filosofiche
del nostro tempo, ma anche la scienza: non soltanto la filosofia - che riferisce tale rifiuto a ogni
pensiero e azione dell’uomo, dunque
anche a sé stessa -, ma anche, e da tempo,
la scienza, nella misura in cui essa si libera dalla illusione di essere, oltre che potente, assolutamente
vera. La frase riportata all’inizio è
contenuta nei Contributi alla filosofia
(Beitrdge zur Philosophie), composti da Heidegger tra il 1936 e il 1938, pubblicata postuma nel
1989 (Adelphi). Nonostante le profonde e
suggestive innovazioni rispetto a Essere
e tempo, anche nei Contributi la struttura di fondo del pensiero di Heidegger rimane immutata. A
cominciare, appunto, da quel rifiuto di
ogni tesi somma e di ogni verità eterna e soprastorica. In Essere e tempo si
dice: Che ci siano delle “verità eterne”
potrà essere concesso come dimostrato
solo se sarà stata fornita la prova che l’Esserci era, è e sarà per tutta l’eternità. Finché questa prova non
sarà stata fornita, continueremo a
muoverci nel campo delle fantasticherie.
Heidegger sta dicendo che, fino a quando non si proverà che l’uomo (l’Esserci) è eterno - eterno non
semplicemente immortale -, sarà solo una
fantasticheria parlare di verità eterne. Ma per Heidegger è del tutto ovvio che
l’uomo (come ogni cosa del mondo) non è
eterno e che quindi quella prova non
potrà mai esser data - per Heidegger, dico, come per tutti coloro che in qualsiasi campo hanno pensato e
agito da quando, all’inizio della storia
dell’Occidente, è apparso il senso del
tempo e dell’eterno. Che nessuna cosa con cui
l’uomo abbia a che fare sia eterna è diventata ormai la 394
convinzione più profonda e scontata anche presso la gente comune, tanto che starvi a riflettere sembra
una pura perdita di tempo. Il tempo perduto - che fortunatamente ha
forme diverse - i miei scritti l’hanno
aumentato di molto, mostrando invece che
lo splendore delle cose (anche di quelle terribili) è infinitamente più luminoso di quanto si sia
disposti ad ammettere. Hanno cioè
indicato, quegli scritti, la necessità che
non solo l’uomo, ma tutte le cose siano eterne. Tutte le cose: situazioni, configurazioni, modi di essere,
relazioni, attimi, ombre, universi,
pensieri, affetti, decisioni, stati visibili e
invisibili, nessuna esclusa. Il tempo, la storia, è il comparire e lo scomparire degli eterni. E la necessità
che ogni cosa sia eterna è qualcosa di
essenzialmente più radicale di quella prova
dell’eternità dell’uomo che per Heidegger non potrà mai esser data. Dall’inizio alla fine il tema di questo
pensatore è stato la domanda dell’Essere
( Seinsfrage ). La domanda - che
continua ad attendere la risposta, ma che in questa attesa mostra, per Heidegger, tutta la propria
grandezza. L’Essere non è l’ente, non è
alcuno degli enti (case, fiumi, stelle,
pensieri, azioni, uomini, dèi), di ognuno dei quali si dice tuttavia che è e che è questo e quest’altro.
Qual è il senso di questo è - ecco la domanda
dell’Essere -, da cui tutto in qualche
modo dipende? Dai Greci a Nietzsche la filosofìa è stata, per Heidegger, riflessione sul senso
dell’ente, ossia è stata pensiero
metafisico, e ha quindi velato la domanda
dell’Essere, pur dando vita alla storia dell’Occidente. Quella domanda sta, per Heidegger, al di
sopra di ogni asserire. Si trova alla
sommità del pensare, ma non per questo è
una tesi somma, una verità assoluta. Essa è storica. Anzi, come Nietzsche non ritiene di esser già
lui il superuomo, ma di esserne il profeta, così Heidegger, nei Contributi, non attribuisce al proprio
discorso nemmeno la capacità di
costituirsi come l’autentica domanda dell’Essere, ma solo il carattere di pensiero transitorio,
che ai fini della comunicazione deve
spesso procedere ancora lungo il
tracciato del pensiero metafìsico, e i cui sforzi saranno un giorno superflui e ricadranno
nell’accidentale (p. 419). In una
conferenza pubblicata nel 1964, e intitolata La fine della filosofia e il compito del pensiero,
Heidegger aggiungerà che al proprio
pensiero non può esser riconosciuta alcuna
azione immediata o mediata sulla dimensione pubblica dell’epoca industriale, improntata dalla
scienza-tecnica, e che il suo compito ha
solo un carattere preparatorio e
nient’affatto fondante, giacché gli basta risvegliare una disponibilità dell’uomo per una possibilità,
i cui tratti restano oscuri e il cui
avvenire incerto. Va tuttavia anche
detto che queste affermazioni non sono
affatto, come Heidegger esplicitamente dichiara, espressione di una falsa modestia, giacché quell’oscurità
e incertezza, quella incapacità di
influire sul mondo della tecnica, quel
carattere preparatorio e non fondante non sono per lui semplici caratteri della scrittura
dell’individuo Heidegger, ma sono
insieme, e addirittura, il modo in cui l’Essere stesso si vela e si ritrae dall’epoca presente. E lo
stesso si può dire di quella superfluità
e accidentalità che nei Contributi
Heidegger attribuisce al proprio pensiero. I Contributi sono pertanto grandi prove di una filosofìa che
vorrebbe allontanarsi dalla tradizione
metafisica, pur riconoscendo tutte le
difficoltà a cui questo tentativo va incontro, ma insieme essendo convinta che tali difficoltà
non sono dovute alle carenze di un certo
individuo, ma sono le difficoltà in cui
le cose stesse si trovano. Ma queste non sono tesi somme? Destano
sorpresa anche molte delle tesi, peraltro
suggestive, che si incontrano nei Contributi. Sembrano andare troppo più in là di quanto secondo lo
stesso Heidegger sia lecito. Ad esempio
le tesi dei venturi, dell’ultimo Dio (Quello
del tutto diverso rispetto agli dèi già stati, specie rispetto al Dio cristiano), del modo in cui
l’Essere - vibrando, oscillando - si
appropria del mondo. Heidegger intende rovesciare
la metafisica senza abolirla (e il
timbro della sua filosofia è fortemente neoplatonico), senza cioè abolire la fede di cui parlavo e che
guida l’Occidente e ormai il pianeta: la
fede che l’uomo e le cose non sono eterni.
Tra i temi più in vista e operanti, nei Contributi, quello del creare, è essenzialmente metafìsico. (Quanto
è lontano da noi il Dio, quello che ci
nomina fondatori e crea-tori, perché di
costoro ha bisogno la sua essenza?) Ma - dico -
nessuna cosa creata è eterna. È creata proprio perché non è eterna. Nessun creatore crea l’eterno. E
dell’Essere stesso Heidegger esclude che
sia eterno. L’Essere stesso è storico. Ma questa fede nella non eternità di ciò che
è non esprime forse la follia estrema?
Non pensa forse che ciò che è, non è
(appunto perché non è eterno)? Che il non niente è niente? Che gli esseri sono nulla? Certo, questa non
è come la domanda di Heidegger. Qui la
Risposta - positiva - è già da sempre
data e non da uno di noi, ma dalla Necessità, e rende possibile ogni domanda. Fenomenologia e libertà La distruzione della tradizione filosofica
occidentale, compiuta da Heidegger, non
ha un significato semplicemente
negativo. Soprattutto quando egli si rivolge a Platone e ad Aristotele. Piuttosto egli intende portare
alla luce la dimensione implicita che
rende possibile il loro esplicito dire.
In questa direzione interpretativa si muoveva il mio libro, ahimè così antico da essere stato la mia tesi
di laurea, composta negli ultimi anni
Quaranta, discussa nel 1950 e in
quell’anno pubblicata (e ripubblicata poi da Adelphi, insieme ad altri miei scritti di quel tempo,
col titolo Heidegger e la
metafisica). Ricordo queste cose per un
certo e spero scusabile compiacimento da
me provato leggendo l’imponente lavoro
del filosofo tedesco Gunter Figai, ( Martin Heidegger. Fenomenologia della libertà, il melangolo
2007), che si muove sostanzialmente
nella direzione di quel mio libro, vecchio, ma
che ritengo tuttora valido nelle sue linee essenziali. Non intendo ovviamente confrontare
l’esperienza filosofica di un ragazzo
con il lavoro maturo di uno studioso di grande
serietà (e tanto meno vantare priorità). Ma in filosofia hanno la preminenza i concetti, in nome dei quali
vorrei dire a Figai, tra l’altro, che il
suo modo di intendere la distruzione
dell’ontologia tradizionale da parte di Heidegger si sarebbe ulteriormente rafforzata se anch’egli avesse
richiamato quegli avvertimenti quanto
mai sintomatici e abbastanza frequenti
di Heidegger, nei quali, già a partire da Essere e tempo, egli dichiara che la propria indagine fenomenologica
non pregiudica in alcun modo la
soluzione dei grandi problemi della
metaphysica specialis; quali l’esistenza o meno di una vita dell’uomo dopo la morte o l’esistenza o
meno di Dio - i problemi, appunto, che
ricevono le prime grandi risposte positive dalla metafisica di Platone e di
Aristotele. E in effetti un’indagine che
si propone come fenomenologia non può
dir nulla intorno a questioni che per definizione stanno oltre la dimensione fenomenologica, ossia alla
dimensione che, con qualche
approssimazione, si può identificare
nell’esperienza. È invece più
difficile convincersi della tesi che Figai intende rendere più visibile e che è indicata dal
sottotitolo del suo libro: Fenomenologia
della libertà. Sono d’accordo
sull’implicazione tra riflessione sul senso dell’essere (ontologia) e sul senso della libertà in
Heidegger. Ma Figai si dice convinto che
la filosofia di Heidegger dia modo di
ripensare l’idea della libertà in modo radicalmente nuovo. Cosa che a me non sembra, perché se il senso
ontologico della libertà significa da
ultimo la finitezza e contingenza delle cose
e quindi delle decisioni (cioè il loro essere qualcosa che sarebbe potuto non essere), allora tale
contingenza dei contenuti mondani è
pienamente affermata già da Platone e
Aristotele. Anche per Figai la libertà si riferisce, nel discorso di Heidegger, a qualcosa che, come dice
Figai, la si sarebbe potuta compiere in
modo diverso (p. 411). Ma allora, come
Kant sapeva (ma Figai, mi sembra, non tiene presente), l’idea trascendentale della libertà - dice Kant - non
contiene nulla di derivato
dall’esperienza ossia non è un contenuto
fenomenologico), e pertanto rimane aperto il problema, che né Heidegger né il suo interprete hanno
affrontato: quello di mostrare quale sia
il fondamento deU’affermazione che è il
contenuto di tale idea è anche qualcosa di realmente esistente. Nella bio-linguistica di Chomsky la
lingua è considerata come un aspetto particolarmente significativo della mente e dunque del rapporto
mente/cervello. Pertanto si inquadra
ragionevolmente nella psicologia e, più in
generale, nella biologia umana. Esplorazioni in questo campo, da lui peraltro già da tempo
dissodato, sono Nuovi orizzonti nello
studio del linguaggio e della mente (il
Saggiatore). Anche qui Chomsky
dichiara di voler usare le parole mente
e linguaggio senza una valenza metafisica. Così
attento al significato delle parole, egli non dice nulla sul significato della parola metafisica; ma è
chiaro che il suo intento è di
considerare la mente e il linguaggio come
oggetti naturali - senza però addossarsi l’onere di escludere ricerche filosofico-metafìsiche sulla mente,
il corpo, il linguaggio. E, a prima vista, il proposito sembra del
tutto legittimo. Analogamente, come può
essere illegittimo l’intento di
considerare la nona sinfonia di Beethoven semplicemente dal punto di vista delle scienze fisiche, quando
la ricerca non intenda escludere la
comprensione estetico-musicologica e
nemmeno quella filosofico-metafisica di quest’opera? È lo stesso Chomsky a riconoscere che l’arte può
ammaestrarci, intorno alla mente, molto
di più di tutte le informazioni che
intorno a essa possono esserci fornite dalla biolinguistica. Eppure, come era prevedibile, anche in
questo caso la filosofia e la metafisica
si insinuano nella dimensione
scientifica che vorrebbe tenerle fuori dalla porta. Come il corpo, anche la mente e il linguaggio sono,
per Chomsky, uno dei domini empirici
analizzati dalla scienza. Anche la mente
è una parte della totalità dei domini empirici, ossia della totalità
dell’esperienza. Ma, come la parola metafisica,
così l’espressione totalità dell’esperienza - o dei domini empirici - non riceve alcun chiarimento
esplicito da parte di Chomsky. O,
meglio, riceve un chiarimento implicito che
rende esplicita la presenza di quella metafisica da cui egli vorrebbe tenersi lontano. Intendo dire che una certa metafisica (ben
lontana dal mostrarsi come
inoppugnabile) è presente proprio nel
concepire la mente e il linguaggio come parti dell’esperienza. Infatti, anche per Chomsky la scienza non ha
basi assolutamente certe (pur essendo
affidabile e applicabile alla realtà),
perché i segreti della natura, delle cose-in-sé, ci saranno per sempre celati. Il che significa
che l’indagine scientifica si chiude
prudentemente in sé - lasciando fuori di
sé la metafisica - perché essa non accetta imprudentemente la metafisica della cosa in sé: quella cosa in
sé kantiana, rispetto alla quale non
solo la dimensione della mente non può
essere altro che una parte, ma la stessa totalità dell’esperienza (che potrebbe essere la
definizione più ampia del mentale in
campo scientifico) si riduce a essere una
parte della totalità degli enti. Chomsky si dichiara, per altri motivi, cartesiano, ma questo indicato, dove
la res cogitans ha altro al di fuori di
sé, è il motivo più profondo. Come tanti
altri che ignorano l’insegnamento idealistico, non vede il carattere profondamente metafisico
dell’affermazione dell’esistenza della cosa
in sé. L’anima come totalità e come parte di ciò che appare L’anima è in certo modo gli enti: He psyché
ta ónta pós estin. Questo, afferma
Aristotele nel De anima, Vili, 231 b,
21. Gli enti (ta ónta ) non significa una certa parte degli enti, ma non le altre parti. Significa: tutti
gli enti: pànta ta ónta. L’anima è in
certo modo (pós) la totalità degli enti.
In certo modo dalla tradizione aristotelico-scolastica a Brentano e alla fenomenologia questa
espressione è intesa come già Aristotele
sostanzialmente la intende: l’anima è gli
enti, ma non nel senso che essa sia simpliciter (fisicamente dicono gli scolastici) gli animali, le
piante, le case, la terra, il cielo e la
totalità degli enti, bensì nel senso che essa è la loro rappresentazione, ossia il loro presentarsi,
manifestarsi, apparire. Si interpreta:
l’anima è intenzionalmente tutti gli
enti; è il riferirsi a essi. Ma riferimento e intenzionalità sono innanzitutto l’apparire, il manifestarsi
degli enti. E il pensiero greco chiama
phàinesthai tale apparire. D’altra parte, la
totalità degli enti non appare tutta insieme, compitamente, e quindi Aristotele non intende affermare che
l’anima sia onnisciente, ma che essa è
tutti gli enti che vanno via via
manifestandosi, cioè di cui essa è la manifestazione; e insieme: che essa è sì la manifestazione della
totalità degli enti, ma la totalità si
manifesta come processo, sviluppo, generazione
degli enti del mondo. E
tuttavia, in quanto apparire della totalità degli enti (via via manifestantisi) l’anima non è un ente
particolare appartenente a tale
totalità. Ciò non significa che l’anima non
possa apparire. In Aristotele questo aspetto del discorso sull’anima rimane implicito; ma la stessa
affermazione che l’anima è in certo modo
gli enti è proprio l’apparire di questa
forma di identità dell’anima e della totalità degli enti, sì che tale affermazione è insieme l’apparire in cui
l’anima ha come contenuto sé stessa. Ma, si sta dicendo, ha come contenuto
sé stessa non come uno tra gli enti
particolari che appaiono, ma come
l’apparire della loro totalità.
L’apparire degli enti è il fondamento di ogni ricerca, problema, conoscenza, scienza, opinione,
fede, e di ogni progetto, deliberazione,
decisione, azione: è il fondamento di
ogni aspetto della vita dell’uomo: anche di quelle convinzioni e indagini che si rivolgono aU’anima (coscienza,
mente, spirito), intesa questa volta
come parte della totalità degli enti.
Filosofia (e lo stesso pensiero aristotelico), religione, scienza, arte hanno imboccato questa strada,
dove l’anima è uno degli enti
particolari che appaiono. Per esempio, per
millenni - e, dopo la parentesi idealistica, tuttora - quelle forme culturali (guidate da un sapere
filosofico, che a sua volta si fa
guidare dal senso comune) credono che, al di là del loro apparire, gli enti esistano in sé
stessi, cioè indipendentemente dal loro
apparire e dunque dall’anima in quanto
sia intesa come il loro apparire. Solo sul fondamento di questa credenza possono farsi innanzi
teorie come quella evoluzionistica, che
concepisce i fatti mentali come risultato
di un lunghissimo sviluppo delle specie viventi; o come quella in cui consiste la psichiatria, dove la
psiche, intesa come oggetto di una
iatréia, è circondata dalla cura come ogni
altro ente particolare curabile, e dove la cura è a sua volta inscritta in un contesto sociale rinviante al
mondo intero. In questo modo, si perde però di vista che queste e ogni altra teoria che considerano l’anima come
parte - e innanzitutto quella credenza
nell’indipendenza degli enti dal loro
apparire, sulla quale esse si fondano - debbono peraltro da ultimo fondare ogni loro pretesa di verità
proprio sull’apparire degli enti, cioè
su quell’anima che lungo la storia del
pensiero occidentale è sopravvissuta ed è stata
pensata come phàinestai, cogito, Io penso, Spirito come atto puro, esperienza
(in quanto esperienza della totalità
degli enti che vanno via via mostrandosi). Per quanto riguarda il concetto di
esperienza, si osservi che il metodo
sperimentale è, per la scienza stessa, l’indagine che pone a proprio fondamento l’esperienza;
sennonché dell’esperienza in quanto tale
la scienza non si interessa: volta le
spalle al senso fondamentale dell’anima per dedicare ogni sua attenzione all’anima come ente
particolare. E se oggi si rivendica il
carattere linguistico dell’esperienza, va detto che anche con questo carattere l’esperienza è il
fondamento di ogni attività teorica e
pratica dell’uomo. Ma anche Aristotele,
oltre a intendere l’anima come apparire
della totalità degli enti, la intende come parte della totalità. Tale apparire è infatti per
Aristotele l’identità del conoscente in
atto e del conosciuto in atto, ma questa identità è un risultato. Il cominciamento del processo
che conduce a questo risultato è, da un
lato, la capacità dell’anima di
conoscere (ossia il suo esser conoscente in potenza), dall’altro lato è la capacità degli enti di
essere conosciuti (ossia il loro esser
conosciuti in potenza). Queste due
capacità non sono lo stesso, non sono identiche. L’identità di conoscente e conosciuto si produce quando i
due sono in atto ed essa è appunto il
risultato del processo che conduce dalla
potenza all’atto. Ma quando l’anima è conoscente in potenza (Aristotele parla in proposito di intelletto
passivo) e differisce dal conosciuto in
potenza - ossia dagli enti che hanno la
capacità di apparire -, l’anima è una parte della totalità degli enti. L’anima diventa parte anche quando
l’apparire della totalità degli enti è
inteso come atto di un io (persona, soggetto),
e si afferma, appunto, che io penso - dove il
pensare è innanzitutto quell’apparire. Anche qui, e nonostante tutti i
dubbi che si nutrono in proposito, è la
filosofia greca, e dunque lo stesso Aristotele, ad aprire questa prospettiva. Si ritiene che esista un
produttore del pensare e che tale
produttore sia un io, una persona, un soggetto.
(Variante di questa convinzione è la tesi, oggi centrale soprattutto in campo biologico, che a pensare
sia il corpo, il cervello, la materia.) È manifesto che è quest’uomo singolo a
pensare - manifestum est quod hic homo
singularis intelligit, si afferma nel De
unitate intellectus contro averroistas di san Tommaso. Quest’uomo singolo è l’io. Che quest’uomo
singolo sia il pensante (Tommaso) e che
il cogitare sia il cogitare di un ego
(Cartesio) appartengono alla stessa prospettiva. Alla quale appartiene gran parte della cultura non solo
filosofica - peraltro con notevoli
eccezioni (ad esempio Nietzsche,
Lichtenberg, Russell, Wittgenstein, Mach, Avenarius). In tale prospettiva, l’io, la persona, il soggetto
(ma anche il corpo, la materia, il
cervello) sono parti della totalità che appare.
Vintelligere di quest’uomo singolo è il campo di ciò che è manifestum e quest’uomo singolo è una parte
di questo campo - ossia dell’apparire
della totalità degli enti. A questo
punto, si tratterebbe di mettere in luce la contraddizione di questa prospettiva. Ci si limiterà qui a
un’indicazione sommaria. Se in quella prospettiva io penso significa io
sono produttore del pensiero, il
pensiero non è d’altra parte inteso come
qualcosa che sia ignoto all’io. L’io ha notizia del pensiero da lui prodotto. Ma l’aver notizia è
l’apparire. E a sua volta il pensiero è
innanzitutto l’apparire degli enti. L’io
penso viene infatti quasi sempre unito (in modo più o meno esplicito) a gli enti appaiono a me: io, che
penso, sono appunto l’io a cui appaiono
gli enti. L’a cui è la notizia che l’io
ha di essi. Dire quindi che gli enti appaiono a me significa dire che l’apparire degli enti appare a me - appunto
perché a me non può non significare, in
questa prospettiva, apparire a me; sì
che dire che l’apparire degli enti appare a me significa dire che l’apparire degli enti appare
all’apparire a me... et sic in
indefinitum. In altri termini, che gli
enti appaiano a me non significa, in
quella prospettiva, che essi appaiono a un sasso o a un albero, ma che appaiono a una coscienza, cioè
a un apparire; e se si intende tener
fermo che l’apparire è sempre un apparire
a un io, a una coscienza, allora l’apparire a me è l’apparire all’apparire a me, dove l’a me
determina un progressus in indefinitum. Con
la conseguenza che, se ciò a cui appaiono gli enti viene indefinitamente spostato e allontanato, gli
enti non appaiono più a qualcuno, e chi
crede che l’apparire possa essere solo un
apparire a qualcuno è costretto a concludere che non appare alcun ente. E questa è la contraddizione
della prospettiva per la quale io penso
e gli enti appaiono a me. Nella
variante riduzionistica di tale prospettiva, il cervello pensa (o il corpo pensa). Ma in questa
variante non si intende sostenere che il
pensiero - cioè gli enti che appaiono -
è il loro apparire al cervello, e quindi in tale variante non è presente la contraddizione che invece
compete alla prospettiva di cui il
riduzionismo è, appunto, una variante.
Al riduzionismo compete un’altra contraddizione, che ho considerato in altre occasioni e che è cioè
Yanàlogon del riduzionismo teologico. La
riduzione della mente al cervello è cioè
Yanàlogon mondano della riduzione teologica del mondo a Dio. Infatti, se il mondo è totalmente
riducibile a Dio, non c’è mondo; e se la
mente è totalmente riducibile al cervello,
non c’è mente. In entrambi i casi, se la riduzione non è totale c’è un
residuo irriducibile. Ma se la riduzione è totale, essa nega ciò che essa stessa afferma: nega quella
mente e quel mondo che essa riconosce
esistenti proprio per la sua volontà di
ridurli, rispettivamente, al cervello e a Dio. Testo, con alcune modifiche,
dell’intervento alla tavola rotonda sul tema Tecnica e processo»; tenutosi a Venezia, all’inaugurazione
dell’anno giudiziario. Articolo pubblicato sul Corriere della Sera» il 27
gennaio 2005. L’ultimo capoverso è aggiunto. Rielaborazione dell’intervento
alla tavola rotonda La tecnocrazia negli anni Trenta» con Giuseppe Morbidelli, Natalino Irti, Guido Rossi.
Firenze, Palazzo Strozzi. Già nel capitolo IV de La struttura originaria -
dunque più di cinquantanni fa - avevo
indicato quanto occorre per rispondere
alle obbiezioni che in seguito mi sarebbero state rivolte intorno al modo in cui, in quel
capitolo, viene risolta l’aporetica del
nulla». Questa aporetica, sin da Platone,
consiste nel rilevare che il nulla è pensato, e che quindi è qualcosa che appare e di cui il linguaggio
parla continuamente, sì che il nulla non
è il nulla. La radice di quelle obbiezioni è il pensiero che, sin dall’inizio della storia dell’Occidente,
isola la terra dal destino e su questa
base isola le cose della terra (le molteplici
determinazioni del mondo) dal loro essere, ossia isola (in ciò che è, cioè nell’ essente) il ciò che dal suo
è. Tale atteggiamento isolante si
riflette, appunto, nel modo in cui l’Occidente pensa il nulla. L’isolamento delle cose dal loro
essere incomincia con Parmenide - col
Parmenide quale è interpretato nella
tradizione platonico-aristotelico-hegeliana. E alcuni miei critici - Gennaro Sasso
innanzitutto, e Mauro Visentin - sono
giunti, attraverso l’esperienza del mio
discorso filosofico, a riproporre in Italia la prospettiva originaria di Parmenide - del Parmenide,
appunto, che è presente in quella tradizione
e per il quale, al di fuori della verità
dell’essere» che oppone l’essere al nulla, il mondo intero e l’intera storia dell’uomo sono
soltanto dóxa, opinione, illusione, nomi»,
cioè sono, in quanto tali, non¬ essere,
nulla. Per quei miei critici, e innanzitutto per Sasso, essere» significa, come per Parmenide,
soltanto essere», senza alcuna proprietà
oltre a quella di non essere il nulla. In
questa prospettiva, la totalità delle determinazioni, ossia delle differenze che costituiscono il mondo
naturale e umano, sono appunto il contenuto dell’opinione. Ne viene, allora, che anche tutte le
considerazioni sviluppate da questi miei
critici per sostenere le loro tesi e per
criticare il contenuto dei miei scritti - considerazioni che formano a loro volta un sottoinsieme della
totalità delle differenze del mondo -
sono opinioni, non sono verità (assolute
e incontrovertibili). E vedo che essi stessi, sia pure in modi diversi, riconoscono il carattere
opinabile (Visentin) o addirittura
contraddittorio (Sasso) delle loro proprie e pur interessanti e articolate riflessioni (cfr.
G. Sasso, Il logo, la morte, Bibliopola;
M. Visentin, Il neoparmenidismo
italiano, Bibliopolis). La struttura originaria della verità è l’apparire dell’impossibilità che ciò che è non sia ciò
che esso è. L’isolamento delle
differenze del mondo dal loro essere
implica infatti che qualcosa non sia ciò che esso è: implica (con Parmenide) che le differenze siano
esplicitamente poste come nulla; e implica
(con Platone e poi con l’intera storia
dell’Occidente) che, essendo intese come ciò che esce dal nulla e vi ritorna, siano implicitamente
poste - esse, che non sono un nulla -
come nulla. Questa implicitezza custodisce il
segreto dell’Occidente, cioè l’essenza del nichilismo. Tale essenza non può riuscire a scorgere che
le differenze si distinguono sì dal
proprio essere, ma non per questo sono
nulla. La distinzione, infatti, non è separazione, isolamento. Anche quando intende essere la negazione più
radicale della separazione - per esempio
e soprattutto con Hegel -, l’essenza del
nichilismo rimane prigioniera di ciò che essa
nega, perché intende unire ciò che peraltro essa intende come originariamente separato; sì che ogni volontà
di sintesi è destinata al fallimento.
Ogni differenza del mondo - cioè ogni
essente, o significato - è cioè destinata a esser pensata e vissuta come
un nulla - anche quando si ritiene che un Dio eterno possa salvare il mondo dal nulla. Il modo in cui il nichilismo pensa e vive la
nientità degli essenti determina il modo
in cui esso pensa e vive la presenza del
nulla. Nella Struttura originaria si mostra che il nulla è un significato contraddicentesi. Data la
distinzione, indicata in quelle pagine,
tra il contraddittorio», o rautocontraddittorio»
- ossia l’impossibile, il nullo - e la contraddizione»,
che invece non è un nulla, in queste pagine
si precisa - IV, 6 - che il significato “nulla” è un significato autocontraddittorio, ossia è una
contraddizione» - un significato
contraddicentesi», appunto. Affermando
l’esistenza di quel significato autocontraddittorio» (cioè contraddicentesi), in tale scritto non si
dice quindi che l’impossibile, il
contraddittorio in sé stesso, sia, ma che la
contraddizione è (e che la contraddizione sia non è impossibile - fermo restando che questo suo
essere ha un fondamento», cfr. ad
esempio Fondamento della contraddizione,
Adelphi 2005, sul quale nei miei scritti si è
sempre richiamata l’attenzione). I due momenti contraddicentisi del significato nulla sono,
da un lato, il positivo significare» del
nulla, ossia il suo essere nulla e l’
apparire di questo essere, e, dall’altro, l’assoluta nientità e assenza di significato del nulla che è
positivamente significante. Da un lato,
il positivo significare di ciò che,
dall’altro lato, è l’assoluta negazione di ogni positività e significato. (Recentemente ho ripreso e
approfondito queste tematiche nello
scritto Intorno al senso del nulla, Adelphi).
Questi due lati o momenti sono originariamente e necessariamente uniti perché la loro
separazione, cioè Yisolamento dell’uno
rispetto all’altro, implica l’essere
dell’impossibile, ossia che il nulla sia un essente. Infatti, se i due
momenti sono (più o meno esplicitamente) intesi come separati, l’assoluta nientità del nulla
appare, e appare come significante,
ossia è: il nulla appare inevitabilmente come un essente. Se i due momenti vengono separati, è
inevitabile che il positivo significare
del nulla (il primo momento) si
ripresenti nel nulla - ossia nel secondo momento, cioè nel significato che è il contenuto di quel
positivo significare -, sì che Y esito
inevitabile di quella separazione è la constatazione che il nulla è un essente. Questo esito differisce essenzialmente dal
significato autentico del nulla, ossia
dal nulla come significato contraddicentesi.
Infatti questo contraddirsi sussiste perché,
in esso, nulla (il significato nulla) non significa essente, ossia non è un essente (e appunto per questo il
significato nulla contraddice
quell’essente che è la positività del proprio
significare). Nell’esito della separazione dei due momenti del significato contraddicentesi, si è costretti
invece ad affermare che il nulla,
essendo significante, è, è un essente, sì che
l’impossibile, il contraddittorio in sé stesso, ossia l’identità di nulla e di essere, è. In seguito alla
separazione, l’aporia del nulla si
presenta pertanto come insolubile. Il pensiero è definitivamente legato all’assurdo. L’isolamento-separazione conduce all’essenza
del nichilismo, costringendola ad
affermare che gli essenti sono nulla (in
quanto escono e ritornano nel nulla); ed è ancora l’atteggiamento isolante a costringere
l’essenza del nichilismo ad affermare,
in relazione al nulla, che il nulla è un essente. Con la differenza (rilevata da Nicoletta
Cusano in Capire Severino. La
risoluzione delVaporetica del nulla, cit.) che nel primo caso il nichilismo non può vedere il
proprio essere identificazione
dell’essente e del niente, mentre nel secondo
caso - in relazione cioè al modo in cui il senso del nulla si inscrive nella struttura originaria della
verità (alla quale si rivolge il mio discorso filosofico) - il nichilismo,
e propriamente quella sua forma che si è
posta in relazione a quel mio discorso
(la forma presente ad esempio negli scritti
di Sasso, Visentin, Massimo Donà), porta esplicitamente alla luce il proprio identificare il nulla a un
essente e intende questa identificazione
come inevitabile (ossia come
inevitabilità della negazione della struttura originaria della verità).
D’altra parte il nichilismo può affermare l’inevitabilità di tale identificazione - ossia dell’assurdo e
dell’impossibile, in cui appunto
consiste Tessere del nulla - solo in quanto,
dlYinterno stesso del nichilismo, appare che nulla non significa essere (essente). Se questo assoluto
differire non apparisse non si potrebbe
nemmeno affermare che l’identificazione di nulla e di essere è una contraddizione che secondo
alcuni miei critici inficerebbe la
struttura originaria del destino. Il nichilismo non si avvede che l’aporetica
del nulla sorge non perché il nulla sia
inevitabilmente un essente, ma per la
logica isolante messa in atto dal nichilismo stesso, ossia perché quella inevitabilità è, ancora una
volta, la conseguenza della separazione
che, in questo caso, crede di poter
prescindere dalla sintesi originaria del significato nulla e del suo positivo significare - sì che,
presentandosi isolato, tale significato,
proprio perché si presenta, non può che apparire come Tesser un essente da parte del
nulla. Pertanto, che il nulla sia significante»
non significa che il nulla esplichi una
certa forma di attività, quale appunto
sarebbe il significare. Il significare del nulla non appartiene al nulla, perché il nulla non è un essente a cui
questo significare o qualsiasi altra
proprietà o attività possano appartenere. In
quanto il significare è positività (e anzi è la positività stessa,
lo stesso esser essente), il significare
del nulla appartiene cioè all’essente, e propriamente alla totalità
dell’essente in quanto essa appare nella
struttura originaria della verità. E che il
nulla sia un significato» non significa che il nulla sia qualcosa di passivo» rispetto all’attività
significante dell’essere, giacché anche
questo essere un che di significato»
appartiene a quella totalità. Si
aggiunga la seguente annotazione in rapporto al modo in cui Heidegger intende il problema del Niente»
(soprattutto in alcune pagine de II
nichilismo europeo, 1940, intitolate
Nichilismo, nihil e Niente). L’intento di Heidegger è di mostrare che il Niente non è un ente, ma non
è nemmeno mai ciò che è soltanto nullo»:
il soltanto nullo» relativamente al
quale il pensiero metafisico dà per scontati sia il suo esser contrapposto all’ente sia l’assenza di ogni
altra forma di contrapposizione alla
totalità dell’ente. In apparenza
Heidegger vuol portarsi in una dimensione più profonda di quella in cui si dà per scontata la
contrapposizione tra ciò che è soltanto
nullo» - il nihil -, e l’ente; ma dicendo che il Niente» (che poi è per lui l’Essere» stesso)
non è nemmeno mai ciò che è soltanto
nullo» attribuisce una funzione decisiva
al soltanto nullo»: la funzione di determinare la dimensione che include sia l’ente, sia il Niente» (l’Essere»). In tal modo, tutte le connotazioni del soltanto
nullo» da cui Heidegger in quelle pagine
intende prendere le distanze, e tutte le
aporie che il soltanto nullo» solleva, ma che
Heidegger qualifica come conseguenze dell’incapacità di sollevarsi al senso autentico del Niente,
ritornano in circolazione, e vi
ritornano nel loro non esser state chiarite e
risolte - innanzitutto l’aporia, già pensata da Platone (ma Heidegger non lo rileva), per la quale ogni
considerazione intorno al nulla fa del
nulla un qualcosa», ossia un ente;
l’aporia che tuttavia Heidegger include tra le riflessioni apparentemente acute. È probabile, stando
all’andamento del testo, che per
Heidegger sia solo apparentemente acuta» anche l’osservazione, da lui richiamata che se il
Niente è niente [e qui il Niente è il soltanto
nullo»], se il Niente non c’è, allora
non può nemmeno darsi che l’ente sprofondi mai nel Niente e che tutto si dissolva nel Niente, allora
non ci può essere nemmeno il processo
del diventare-niente». Ma anche questa
osservazione, che Heidegger sembra trattare con sufficienza e lasciare infine da parte, ritorna in
circolazione nello stesso discorso di
Heidegger, quando egli, come si è rilevato, di fatto assume il Niente, inteso come il soltanto
nullo», come essenziale per poter
affermare che il Niente, autenticamente
inteso (ossia il Niente che è l’Essere» stesso) non è il nihil soltanto nullo», come d’altronde Heidegger ha
sempre affermato nei suoi scritti. Un
libro Nella successione» dei miei
scritti, Destino della Necessità (cit.)
sta al centro. Rende radicale il tema di fondo che si era presentato un quarto di secolo prima; apre i
problemi che il filone primario degli
scritti successivi intende risolvere. Il tema di fondo è, appunto, la Necessità
: di ogni cosa, di ogni aspetto o stato
del Tutto. Ma di necessità» gli uomini
parlano da millenni. Al di là di ciò che ne dicono, in Destino della Necessità si fa innanzi» il senso
innegabile della Necessità. Esso sta :
nessuna forza può scuoterlo. La parola de-stino»
indica questo stare. Appunto per questo è nel
linguaggio che quel senso si fa innanzi», venendo a mostrarsi nel destino, cioè in sé stesso in quanto
luogo che accoglie anche il linguaggio:
nella già da sempre manifesta innegabilità
dell’esser sé di ogni essente.
L’esser sé: il non esser altro e tanto meno quelfaltro che è il nulla: l’impossibilità dell’essente di essere
stato e di tornare a esser altro e
quell’assolutamente altro che è il nulla: la
necessità-eternità dell’essente in quanto essente. Tempo, storia, divenire del mondo umano e della
natura non sono il venire dal nulla e il
ritornarvi, ma l’incominciare ad apparire
e il non apparir più, all’interno del cerchio eterno del destino, da parte degli eterni (quindi anche di
quell’eterno che è il linguaggio - e
anche il linguaggio che testimonia il destino). Da sempre e per sempre il destino è
l’essenza dell’uomo. Ma non
testimoniando il destino l’intera storia dell’uomo è alienazione della verità. Nel suo stato
attuale, ossia nella forma finita del
destino, l’uomo è pertanto il contrasto tra il
destino e tale alienazione - la quale, nella sua configurazione più ampia, è l’isolamento della terra dal
destino. Destino della Necessità rende
radicale tutto questo, perché Essenza
del nichilismo (Adelphi) lascia ancora aperto il problema relativo alla
Necessità o non- Necessità del
sopraggiungere e del modo in cui
sopraggiungono gli eterni nel cerchio eterno, in cui il destino consiste, nelVapparire degli essenti: ogni
essente è eterno; ma gli eterni
sarebbero potuti non sopraggiungere in quel
cerchio, o sopraggiungervi in modo diverso da quello che appare? Destino della Necessità mostra che la
Necessità autentica implica anche la
Necessità del sopraggiungere e del modo
in cui gli eterni sopraggiungono nelVapparire del destino.
La contingenza degli eventi e la libertà della volontà appartengono cioè all’essenza del nichilismo
ossia alla persuasione che Tessente in
quanto essente sia un esser stato e un
tornare a esser nulla. La volontà ha quindi un significato essenzialmente diverso da quello che le è
stato via via assegnato. Non è una
potenza che determini liberamente
l’oscillazione degli essenti tra il loro essere e il nulla, ma è la fede di avere tale potenza, la fede che
quindi vuole l’impossibile, non
sapendolo, ma essendo anche fede di
ottenere, a volte, e a volte di non ottenere ciò che essa vuole. La volontà di potenza, che culmina nella
tecnica moderna, si manifesta anche nel
modo in cui le lingue indoeuropee, cioè il
terreno in cui cresce il linguaggio del nichilismo, parlano del mondo) ( Destino della Necessità). Al di fuori dell’alienazione della terra isolata,
la volontà» autentica e il destino, in
quanto apparire della Necessità e libertà
dall’errore (Verrare essendo peraltro anch’esso un eterno). Nella sua forma infinita il destino è
l’eterno oltrepassamento di ogni
contraddizione, ossia è la gioia. Nel suo inconscio» più profondo, l’uomo è la Gioia - il finito è
l’infinito. Ma Destino della Necessità
apre, insieme, i problemi fondamentali degli
scritti successivi Nell’ultimo capoverso del
libro ci si chiede innanzitutto: Ma quale sentiero la terra,
inoltrandosi nel cerchio dell’apparire del destino, è destinata a percorrere? È destinata alla solitudine
[all’isolamento dal destino] o
all’oltrepassamento della solitudine?». Gli scritti successivi (soprattutto La Gloria,
Oltrepassare, La morte e la terra,
citt.) mostrano la destinazione della terra a questo oltrepassamento e le sue decisive
implicazioni. Nietzsche e Freud insegnano a Hemingway quanto siano terribili gli impulsi più profondi dell’uomo.
Ma già Sofocle, millenni prima, dice che
l’uomo è deinótaton, cioè il più
temibile» degli esseri. E si può ancora retrocedere. Hemingway concepiva la sincerità come il
supremo comandamento morale. Anche e
innanzitutto nella scrittura, che non
deve nascondere quello che l’uomo prova veramente. Quindi il suo non era soltanto cinismo,
esibizione della propria malvagità.
Spesso si confonde la bontà con la conformità degli istinti alle consuetudini sociali. Li si nasconde
perché è difficile che siano
confessabili. La bontà non è la cosiddetta innocenza» dei bambini o la mansuetudine delle pecore -
anche della quale si può peraltro
dubitare come si dubita di
quell’innocenza. Hemingway impara che il piacere della vita è inseparabile dal dolore: la vita è lotta - è
guerra, dice l’antichissimo Eraclito.
Ora, intendo dire che non c’è bontà che
non sia lotta contro il male esistente fuori e dentro di noi. E da ultimo il male è il dolore, l’angoscia,
la morte che l’impulso distruttivo
dell’uomo produce negli altri e in lui
stesso. L’uomo buono -
soprattutto il santo - non è chi sia privo
di inconfessabili impulsi, ma chi ne abbonda. Se ne fosse privo, sarebbe appunto l’innocente o il
mansueto quadrupede. Forse per questo i
veramente buoni e i santi sono spesso
insopportabili. La loro indole è terribile. Sono buoni e santi perché, lottando contro di
essa, la vincono. Tanto più buoni e santi quanto più la malvagità invade la
loro natura. Se i cristiani sono convinti che Gesù sia il più santo, devono credere che natura, indole, impulsi
siano in lui i più malvagi e che egli sia il più santo proprio perché, solo
lui, riesce a vincerli. La crudezza di
certe espressioni di Gesù può essere un
sintomo. Il primo passo per vincere
quanto di «terribile-temibile» è
presente in ognuno di noi è guardarlo in faccia. Con sincerità. Hemingway
la possedeva. Poiché credeva che i «valori
supremi» della tradizione occidentale siano morti - e che uccidere gli uomini non violi dunque alcuna
legge inviolabile -, gli restava come
unico valore l’aspirazione alla sincerità, il
desiderio di dire la verità (forse esagerando) intorno a quanto di malvagio c’era anche in lui e di cui egli
godeva. Ci si può spiegare come alla
fine non sia più riuscito a sopportare la
vista di sé stesso e, forse per questo, si sia ucciso. Nietzsche scrive:
«Che cosa significa nichilismo? Significa
che i valori supremi si svalutano. Che i valori si svalutino significa che essi restano distrutti,
annientati. Lo stesso Nietzsche alimenta
la convinzione che il vero senso del
nichilismo sia la volontà di annientare - e gli uomini pensano che l’annientamento più nefando sia quello di
cui son vittime essi stessi. Eppure, per
quanto potente sia la riflessione di Nietzsche - e poi di Heidegger - sul nichilismo, essa non
ne raggiunge il fondo. Le «guerre di
annientamento» del XX secolo sono la
conseguenza più vistosa di una persuasione che risale alle origini della nostra civiltà, cioè al
pensiero filosofico dei Greci. Si tratta
della persuasione che gli esseri possano esser
stati e possano ridiventare niente; ossia che gli esseri possano esser non essere, cioè nulla. Il culmine
dell’errore, qui, si unisce al culmine
dell’orrore - anche se questa persuasione
domina ormai l’intero pianeta.
Se qualcuno dicesse che c’era un tempo in cui il cerchio era quadrato e ci sarà un tempo in cui il cerchio
tornerà a essere un quadrato, tutti, o i più, protesterebbero e direbbero che
un tempo siffatto non può esistere; ma
nessuno protesta di fronte al pensiero
che c’è un tempo in cui l’essere (che ora è) era ancora nulla e un tempo in cui tornerà a
esserlo. Qui la sordità è totale. Troppo
profonda perché sia imputabile alla
semplice debolezza della mente umana.
Ma intanto, come potrebbero, un uomo o un Dio, proporsi di annientare un qualsiasi essere, se non
fossero convinti che l’essere da
annientare possa diventare nulla e, una volta
diventatolo, sia vero affermare che tale essere è il nulla? Il culmine della follia non è forse pensare che
l’essere è il nulla? E «nichilismo» non
è forse, innanzitutto, pensare che l’essere
è nulla? E non è forse per questo antico pensiero che possono esser maturate tutte le radicali distruzioni
che scandiscono la storia
dell’Occidente? Nietzsche afferma che
«Fannichilimento mediante la mano
asseconda Fannichilimento mediante il pensiero». E invece è Fannichilimento dell’essere mediante il
pensiero dei Greci che non solo
asseconda ma è il fondamento essenziale di tutte le distruzioni estreme compiute dalla mano
dell’Occidente - la più civile delle
civiltà -, che ormai è la mano del pianeta. Emanuele Severino. Severino.
Keywords: velino, velia, parmenide, zenone, scuola di velia. Zenone il velino,
Parmenide il velino, divenire, GENTILE -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Severino” – The Swimming-Pool Library. Severino.
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